Abraham Merritt Gli abitatori del miraggio

IL LIBRO DI KHALK’RU

I SUONI NELLA NOTTE

Alzai la testa, per ascoltare non soltanto con le orecchie ma con ogni centimetro quadrato della mia pelle, attendendo il ripetersi del suono che mi aveva svegliato. C’era silenzio, un silenzio assoluto. Non si udiva il minimo fruscio tra i rami degli abeti che sorgevano fitti intorno al piccolo accampamento, né il minimo agitarsi di animaletti furtivi nel sottobosco. Attraverso le guglie degli abeti, le stelle brillavano fioche in quel breve crepuscolo fra il tramonto e l’alba che era la notte estiva in Alaska.

Un vento improvviso piegò le cime degli abeti, e portò di nuovo il suono… il clangore di un’incudine percossa.

Sgusciai fuori dalla mia coperta, girai intorno alle braci morenti del fuoco per raggiungere Jim. La sua voce mi fermò.

«Sì, Leif. L’ho sentito.»

Il vento sospirò e morì, e con il vento morirono i riverberi ronzanti del colpo sull’incudine. Prima che potessimo parlare, tornò a levarsi il vento. Portava l’eco di quel suono… fievole e molto lontano, E poi di nuovo morì il vento, e con il vento il suono.

«Un’incudine, Leif!»

«Ascolta!»

Una raffica più forte fece ondeggiare gli abeti. Trasportava una cantilena lontana: molte voci, di donne e di uomini, che cantavano uno strano coro soffuso. Il canto si concluse con un accordo lamentoso, arcaico, dissonante.

Vi fu un lungo rullo di tamburi, che salì in un rapido crescendo e poi cessò bruscamente. E poi una confusione, clamorosa e sottile.

Fu schiacciata da un rombo sommesso e sostenuto, come di tuono, smorzato dalla lontananza. Sapeva di sfida.

Attendemmo, ascoltando. Gli abeti erano immoti. Il vento non tornò.

«Che suoni strani, Jim.» Cercai di parlare con noncuranza.

Lui si levò a sedere. Un fuscello si accese, fra le braci morenti, e con la sua luce fece spiccare il volto di Jim contro il buio: magro, bruno, aquilino. Non mi guardava.

«Tutti gli antenati piumati degli ultimi venti secoli si sono destati e gridano! È meglio che tu mi chiami Tsantawu, Leif. Tsi’ Tsa’lagi… Io sono un Cherokee! Ora… sono interamente indiano!»

Sorrideva, ma continuava a non guardarmi, ed io ne ero lieto.

«Era un’incudine,» dissi io. «Un’incudine maledettamente grande. E centinaia di persone che cantavano… e come è possibile, in questa desolazione… e non sembravano indiani…»

«I tamburi erano indiani.» Jim si accosciò davanti al fuoco, fissandolo. «Quando si sono scatenati, qualcosa ha suonato un pizzicato con dei ghiaccioli su e giù per la mia spina dorsale.»

«Hanno colpito anche me… quei tamburi!» Credevo che la mia voce fosse ferma, ma lui mi squadrò attento: ora fui io a deviare lo sguardo per fissare le braci. «Mi hanno ricordato qualcosa che ho udito… e creduto di vedere… in Mongolia. Ed anche il canto. Accidenti, Jim, ma perché mi stai fissando in quel modo?»

Gettai un ramoscello nel fuoco. Non seppi trattenermi dal frugare con lo sguardo nell’ombra, quando prese fuoco. Poi affrontai deciso gli occhi di Jim.

«Era un brutto posto, eh, Leif?» mi chiese lui, senza alzare la voce.

Non dissi nulla. Jim si alzò e si avvicinò agli zaini. Tornò indietro portando dell’acqua e la gettò sul fuoco. Poi, a calci, coprì di terra i carboni sibilanti. Se anche mi vide rabbrividire quando le ombre si avventarono su di noi, non me lo fece capire.

«Quel vento veniva da Nord,» disse. «Quindi, i suoni venivano di là. Perciò, qualunque cosa abbia prodotto quei suoni è a Nord, rispetto a noi. Tenuto conto di questo… da che parte ci dirigiamo, domani?»

«A Nord,» risposi io.

Mi s’inaridì la gola, quando lo dissi.

Jim rise. Si buttò sulla coperta, se l’avvolse attorno. Io mi appoggiai al tronco d’uno degli abeti, e rimasi seduto a guardare verso settentrione.

«Gli antenati si agitano, Leif. Promettono una quantità di guai, immagino… se andiamo a Nord… ‘Cattiva medicina!’ dicono gli antenati. ‘Cattiva medicina per te, Tsantawu! Tu vai ad Usunhi’yi, la Terra che si Oscura, Tsantawu!… A Tsusgina’i, il territorio degli spettri! Stai in guardia! Allontanati dal Nord, Tsantawu!’»

«Oh, dormi un po’, superstizioso d’un pellerossa!»

«Va bene, volevo solo avvertirti.»

Poi, qualche istante più tardi: «‘E udire voci ancestrali che profetizzano guerra’… I miei antenati stanno profetizzando qualcosa di peggiore della guerra, Leif.»

«Accidenti, ma vuoi star zitto?»

Una risata sommessa dall’oscurità; poi silenzio.

Mi appoggiai al tronco dell’albero. I suoni, o meglio i maligni ricordi che avevano evocato, erano riusciti a sconvolgermi assai più di quanto fossi disposto ad ammettere. L’oggetto che da due anni portavo al collo, nel sacchetto di pelle appeso alla catena, era sembrato fremere e diventare gelido. Mi chiesi quanto Jim fosse riuscito ad intuire di ciò che avevo cercato di nascondere.

Perché aveva spento il fuoco? Perché aveva capito che io ero spaventato? Per costringermi ad affrontare la mia paura e vincerla?… Oppure era stato il suo istinto indiano che l’aveva indotto a cercare rifugio nell’oscurità?… Aveva ammesso che i canti ed il rullo dei tamburi avevano scosso i suoi nervi non meno dei miei…

Paura! Certo, era stata la paura che aveva reso madide di sudore le palme delle mie mani, mi aveva serrato la gola fino a quando il mio cuore aveva battuto come i tamburi.

Come i tamburi… sì!

Ma… non come i tamburi il cui rullo era stato portato fino a noi dal vento del Nord. Erano stati simili alla cadenza dei piedi di uomini e donne, giovani e fanciulle e bambini, che correvano sempre più svelti su per i fianchi di un mondo cavo per tuffarsi rapidi nell’abisso… dissolvendosi nel vuoto… svanendo mentre precipitavano… dissolvendosi… divorati dal nulla…

Come quel maledetto rullo di tamburi che avevo udito nel tempio segreto dell’oasi del Gobi, due anni prima!

Allora, come adesso, non era stata soltanto paura. Era paura, in verità, ma colorata di sfida… la sfida della vita contro la sua negazione… una rabbia insorgente, ruggente, vitale… la rivolta frenetica dell’annegato contro l’acqua soffocante, la rabbia della fiamma della candela contro chi sta per estinguerla…

Cristo! Era così terribile? Se ciò che sospettavo era vero, pensare in quel modo significava partire sconfitto!

Ma c’era Jim! Come potevo tenerlo fuori?

In fondo al cuore, non avevo mai riso di quelle percezioni subconsce, qualunque cosa fossero, che lui chiamava le voci dei suoi antenati. Quando aveva parlato di Usunhi’yi, la Terra che si Oscura, un brivido gelido mi era serpeggiato lungo la spina dorsale. Il vecchio sacerdote uiguro non aveva parlato, forse, della Terra Oscurata? Ed era come se avessi udito l’eco delle sue parole.

Guardai nella direzione in cui stava sdraiato Jim. Era sempre stato più simile a me dei miei stessi fratelli. Sorrisi a quel pensiero, perché i miei fratelli non mi erano mai stati simili.

Per tutti, eccettuata mia madre, una norvegese dalla voce sommessa e dal seno fiorente, io ero stato un estraneo in quella vecchia casa, severamente convenzionale, in cui ero nato. Ero il figlio minore, e un intruso indesiderato: come un figlio scambiato. Non era stata colpa mia se ero venuto al mondo simile agli antenati vichinghi di mia madre, con i capelli biondi, gli occhi azzurri, la struttura solida. Non sembravo un Langdon. I Langdon erano bruni e snelli, con le labbra sottili, saturnini, usciti per generazioni dallo stesso stampo. Mi guardavano dall’alto in basso dai ritratti di famiglia con un’ostilità altezzosa, vagamente divertita. Precisamente come mi guardavano mio padre ed i miei quattro fratelli, tutti veri Langdon, quando mi sedevo goffamente alla loro tavola.

La cosa mi aveva reso infelice, ma aveva indotto mia madre a consacrarmi il suo cuore. Come tante altre volte, mi chiesi come aveva potuto accettare mio padre, un uomo cupo ed egocentrico, lei, con il sangue degli scorridori dei mari che le cantava nelle vene. Era stata lei a chiamarmi Leif… un nome incongruo per un Langdon, così come era incongrua la mia nascita.

Jim ed io eravamo entrati a Dartmouth lo stesso giorno. Lo vedevo come era allora: il ragazzo alto e bruno dalla faccia aquilina e dagli imperscrutabili occhi neri, Cherokee purosangue, del clan da cui era venuto il grande Sequoiah, un clan che aveva prodotto, in molti secoli, saggi consiglieri e guerrieri forti ed astuti.

Nei registri del college il suo nome era scritto James T. Eagles, ma negli annali della Nazione Cherokee era scritto Due Aquile, e sua madre lo aveva chiamato Tsantawu. Fin dal primo momento avevamo riconosciuto la nostra affinità spirituale. Con gli antichi riti del suo popolo eravamo diventati fratelli di sangue, e lui mi aveva dato un nome segreto, noto a noi due soltanto, Degataga: uno che è così vicino ad un altro che i due sono uno.

La mia unica dote, a parte la forza, è la facilità per le lingue. Ben presto, parlavo il Cherokee come se fossi nato nella Nazione. Gli anni trascorsi al college erano stati i più felici della mia vita. Verso la fine di quel periodo, l’America entrò nella prima guerra mondiale. Avevamo lasciato insieme Dartmouth, eravamo andati al campo d’addestramento, eravamo partiti per la Francia con la stessa nave.

E mentre stavo là, sotto la lenta alba dell’Alaska, la mia mente balzò agli anni intermedi. La morte di mia madre il giorno dell’Armistizio… il mio ritorno a New York, in una famiglia apertamente ostile… il ritorno di Jim al suo clan… la fine del mio corso d’ingegneria mineraria… i miei vagabondaggi in Asia… il secondo ritorno in America e la ricerca di Jim… questa nostra spedizione in Alaska, più per cameratismo e per amore della pace di quei luoghi deserti che per l’oro che avremmo dovuto cercare.

Era una lunga strada, dopo la Guerra… e gli ultimi due mesi erano stati i più felici. Ci aveva portati da Nome alle tundre, e poi al Koyukuk, e infine a quel piccolo accampamento tra gli abeti, da qualche parte tra il corso superiore del Koyukuk e il Chandalar, ai piedi dei primi contrafforti dell’inesplorato Endicott Range.

Una lunga strada… Avevo la sensazione che proprio lì incominciasse la vera strada della mia vita.

Un raggio del Sole sorgente scoccò tra gli alberi. Jim si levò a sedere, mi guardò e sogghignò.

«Non hai dormito molto dopo il concerto, vero?»

«Che cos’hai fatto agli antenati? Non sembra che ti abbiano tenuto sveglio per molto.»

Jim rispose, con troppa disinvoltura: «Oh, si sono calmati.» Aveva volto ed occhi imperscrutabili. Mi stava nascondendo il suo pensiero. Gli antenati non si erano calmati. Era rimasto sveglio, mentre io credevo che dormisse. Presi una decisione fulminea. Saremmo andati a Sud, come avevamo stabilito. Sarei andato con lui fino a Circle. Poi avrei trovato qualche pretesto per lasciarcelo.

Dissi: «Non andremo a Nord. Ho cambiato idea.»

«Sì. Perché?»

«Te lo dirò quando avremo fatto colazione,» risposi io… Non so inventare le bugie molto rapidamente. «Accendi il fuoco, Jim. Io scendo al ruscello a prendere un po’ d’acqua.»

«Degataga!»

Trasalii. Lui mi chiamava con il nome segreto solo nei rari momenti di grande comprensione o di grande pericolo.

«Degataga, tu andrai a Nord! Ci andrai, anche se dovrò precederti per costringerti a seguirmi…» Prese a parlare in lingua Cherokee. «È per salvare il tuo spirito, Degataga. Dobbiamo marciare insieme… come fratelli di sangue? Oppure mi striscerai dietro, come un cane tremante alle calcagna del cacciatore?»

Il sangue mi martellava alle tempie: alzai di scatto la mano verso di lui. Jim si tirò indietro e rise.

«Così va meglio, Leif.»

La rabbia passeggera mi abbandonò, la mia mano ricadde.

«D’accordo, Tsantawu. Andiamo… a Nord. Ma non era… non era per me che ti ho detto di avere cambiato idea.»

«Lo so maledettamente bene!»

Si diede da fare per accendere il fuoco. Io andai a prendere l’acqua. Bevemmo il forte tè nero, e mangiammo gli avanzi di quelle piccole cicogne brune che chiamano tacchini dell’Alaska, e che avevamo preso il giorno prima. Quando avemmo finito, cominciai a parlare.

II L’ANELLO DEL KRAKEN

Tre anni prima — così incominciai il mio racconto — ero andato in Mongolia con la spedizione Fairchild. Tra i suoi scopi c’era anche una prospezione mineralogica per conto di certe società britanniche, e una ricerca etnografica e ancheologica per conto del British Museum e della Pennsylvania University.

Non ebbi mai occasione di dimostrare le mie capacità di ingegnere minerario. Divenni subito ambasciatore, saltimbanco, agente di collegamento tra la spedizione e le tribù locali. La mia statura, i miei capelli gialli, gli occhi azzurri e la forza eccezionale, e la facilità con cui apprendevo le lingue erano per loro fonte d’incessante interesse. Tartari, mongoli, buriati, kirghisi, stavano a guardarmi mentre piegavo ferri di cavallo, curvavo sbarre di metallo sul ginocchio ed eseguivo quelli che mio padre usava chiamare sprezzantemente numeri da circo.

Bene, per loro ero proprio questo: un circo. Eppure ero qualcosa di più… mi trovavano simpatico. Il vecchio Fairchild rideva quando mi lagnavo di non avere tempo per il mio lavoro tecnico. Mi diceva che valevo una dozzina d’ingegneri minerari, ero la polizza d’assicurazione della spedizione e che finché continuavo con i miei numeri non ci sarebbero stati fastidi. E infatti non ce ne furono. Fu l’unica spedizione del suo genere, che io sappia, dove si poteva lasciare la propria roba incustodita e ritrovarla intatta al ritorno. E poi, non ci furono tentativi di estorsione né diserzioni.

In pochissimo tempo avevo imparato mezza dozzina di dialetti ed ero in grado di chiacchierare e di discutere nella loro lingua con gli uomini delle varie tribù. A loro la cosa faceva una grande impressione. E di tanto in tanto arrivava una delegazione di mongoli, con un paio di lottatori, tipi grandi e grossi con il torace a botte, per sfidarmi. Io imparai i loro trucchi, ed insegnai loro i nostri. Facevamo gare di sollevamento dei pony, e alcuni miei amici mancesi m’insegnarono a combattere con due spadoni… uno per mano.

Fairchild aveva progettato di rimanere un anno, ma i giorni trascorrevano così tranquilli che aveva deciso di prolungare la durata della spedizione. Il mio numero, mi disse con quel suo modo sardonico, aveva senza dubbio una vitalità perenne: la scienza non avrebbe mai avuto un’altra simile occasione d’oro in quella regione… a meno che mi decidessi a restare e a governare. Non sapeva che quella frase era quasi una profezia.

All’inizio dell’estate dell’anno seguente, spostammo il campo un centinaio di chilometri più a Nord. Quello era territorio uiguro. Gli uiguri sono un popolo strano. Dicono di discendere da una grande razza che dominava il Gobi quando non era un deserto bensì un paradiso terrestre, ricco di fiumi e di laghi e di città popolose. È certo che sono diversi da tutte le altre tribù, e benché queste li uccidano allegramente appena possono, ne hanno comunque paura. O meglio, hanno paura delle stregonerie dei loro sacerdoti.

Gli uiguri erano comparsi di rado al vecchio campo e quando lo facevano, si tenevano a distanza. Eravamo al nuovo campo da meno di una settimana quando ne arrivò un gruppo di venti, a cavallo. Io ero seduto all’ombra della mia tenda. Smontarono e vennero diritti verso di me. Non prestarono attenzione a nessun altro. Si fermarono a circa quattro metri di distanza. Tre si fecero più vicini e si fermarono a studiarmi. Quei tre avevano gli occhi di uno strano azzurro-grigio; quelli dell’uomo che sembrava comandarli erano singolarmente freddi. I tre erano più alti e robusti degli altri.

Non conoscevo la lingua uigura, e li salutai educatamente in kirghiso. Non risposero e continuarono a esaminarmi attenti. Poi parlarono fra loro, annuendo come se avessero preso una decisione concorde. Allora il capo mi rivolse la parola. Quando mi alzai, mi accorsi che era di poco più basso del mio uno e novantatre. Gli ripetei, sempre in kirghiso, che non conoscevo la sua lingua. Quello diede un ordine ai suoi uomini, che circondarono la mia tenda come sentinelle, con le lance al fianco, e le terribili, lunghe spade sguainate.

Cominciai ad innervosirmi, ma prima che avessi tempo di protestare il capo cominciò a parlarmi in kirghiso. Mi assicurò, in tono deferente, che la loro era una visita pacifica: ma non volevano che i miei compagni disturbassero la conversazione. Mi pregò di mostrargli le mani. Le tesi. Lui ed i suoi due compagni si piegarono sulle mie palme, le esaminarono meticolosamente, indicando segni e incroci di linee. Terminata l’ispezione, il capo si portò la mia destra alla fronte.

Poi, con mio grande sbalordimento, si lanciò senza spiegazioni in una intelligente lezione di lingua uigura. Scelse il kirghiso come lingua comparativa. Non parve sorpreso della facilità con cui assimilai l’insegnamento: anzi, avevo l’inquietante sensazione che se l’aspettasse. I suoi modi, voglio dire, non erano quelli di un uomo che m’insegnava una lingua nuova, quanto di chi mi ricordasse una lingua dimenticata. La lezione durò un’ora buona. Poi si portò di nuovo la mia mano alla fronte, e diede un ordine alle sentinelle. Tutti insieme tornarono ai loro cavalli e ripartirono al galoppo.

Quell’esperienza era stata piuttosto inquietante. E lo era soprattutto la vaga sensazione che il mio insegnante, se avevo interpretato esattamente i suoi modi, aveva avuto ragione: non avevo imparato una lingua nuova, bensì una dimenticata. Certo, non avevo mai appreso un linguaggio con la rapidità e la facilità con cui avevo imparato l’uiguro.

Gli altri membri della spedizione erano rimasti perplessi e preoccupati, naturalmente. Andai subito da loro, e discussi la cosa. Il nostro etnologo era il famoso professor David Barr, di Oxford. Fairchild era propenso a ritenerlo uno scherzo, ma Barr era molto turbato. Disse che secondo la tradizione degli uiguri, i loro antenati avevano la carnagione chiara, i capelli gialli e gli occhi azzurri, ed erano fortissimi. Insomma, erano uomini come me. Erano stati ritrovati alcuni antichi affreschi uiguri che ritraevano esattamente uomini di quel tipo, perciò c’era la prova della fondatezza della tradizione. Tuttavia, se gli uiguri attuali erano davvero i discendenti di quella razza, il sangue antico doveva essersi mescolato e diluito fin quasi al punto di andare perduto.

Domandai che cosa c’entravo io, e Barr rispose che molto probabilmente i miei visitatori mi consideravano un purosangue della razza antica. Anzi, non trovava altre spiegazioni per il loro comportamento. Era convinto che l’esame delle mie mani e la loro manifesta approvazione costituissero una conferma.

Il vecchio Fairchild gli domandò, in tono ironico, se stava cercando di convertirci alla chiromanzia. Barr rispose, gelido, che lui era uno scienziato. Come scienziato, sapeva che certe somiglianze fisiche possono venire tramandate da fattori ereditari nel corso di parecchie generazioni. Certe particolarità nella disposizione delle linee della mano potevano persistere per secoli. E potevano ricomparire nei casi di atavismo, come me.

Ormai mi sentivo un po’ stordito. Ma Barr aveva in serbo qualche altro colpo per stordirmi ancora di più. Ormai si era scaldato: disse che gli uiguri potevano avere perfettamente ragione, in quello che, secondo lui, era stato il loro giudizio nei miei riguardi. Io rappresentavo un ritorno atavico agli antichi norvegesi. Benissimo. Era certo che gli Asi, gli antichi dèi norreni — Odino e Thor, Frigga e Freya, Frey e Loki del Fuoco e tutti gli altri — fossero stati personaggi reali. Senza dubbio erano stati i capi durante una lunga, pericolosa migrazione. Dopo la morte erano stati deificati, come era accaduto a molti altri eroi ed eroine di altre razze e di altre tribù. Gli etnologi erano concordi nel ritenere che il ceppo norvegese originario era arrivato nell’Europa nordorientale dall’Asia, come gli altri ariani. La migrazione poteva essere avvenuta in qualunque momento, tra il 1000 e il 5000 a. C. E non c’erano ragioni scientifiche per negare che gli immigrati fossero venuti dalla regione attualmente chiamata Gobi, e che avessero potuto essere la razza bionda da cui gli uiguri contemporanei affermavano di discendere.

Nessuno, proseguì Barr, sapeva esattamente quando il Gobi era diventato un deserto… e neppure quali cause l’avessero reso tale. Era possibile che ancora duemila anni prima parte del Gobi e tutto il Piccolo Gobi fossero ancora fertili. Comunque fosse avvenuto, qualunque causa avesse avuto, e qualunque fosse stata la sua durata, il cambiamento spiegava benissimo la migrazione guidata da Odino e dagli altri Asi, e conclusasi con la colonizzazione della penisola scandinava. Chiaramente, io rappresentavo un ritorno atavico alla razza di mia madre quale era stata mille anni prima. Non c’era motivo perché non fossi anche un ritorno atavico agli antichi uiguri… se erano loro gli antenati dei norvegesi.

Ma la considerazione pratica era un’altra: stavo per finire nei guai. E così pure tutti gli altri membri della spedizione. Barr ci consigliò insistentemente di ritornare al vecchio campo, dove ci saremmo trovati fra tribù amiche. In conclusione fece osservare che, da quando eravamo arrivati in quel posto, non un solo mongolo, tartaro o esponente delle tribù con cui io avevo stabilito rapporti così amichevoli si era più avvicinato a noi. Si sedette lanciando un’occhiataccia a Fairchild, e dichiarò che quello non era il consiglio di un chiromante, ma di uno scienziato degno di stima.

Fairchild, naturalmente, si scusò: ma respinse il consiglio di Barr; potevamo aspettare qualche giorno ancora, per vedere come si mettevano le cose. Barr replicò imbronciato che come profeta Fairchild era probabilmente un disastro, ma che molto più probabilmente eravamo tenuti sotto stretta sorveglianza, e non ci avrebbero permesso di andarcene; quindi la cosa non aveva importanza.

Quella notte sentimmo rullare dei tamburi, in distanza, tra vari intervalli di silenzio, sin quasi all’alba, riferendo e rispondendo alle domande di tamburi ancora più lontani.

Il giorno dopo, alla stessa ora, il drappello ritornò. Il capo venne diritto verso di me, ignorando come la volta precedente gli altri che erano al campo. Mi salutò quasi con umiltà. Tornammo insieme alla mia tenda. Ancora una volta venne cinta dalle sentinelle, e subito cominciò la mia seconda lezione, che durò due ore o più. Poi ogni giorno, per tre settimane, la scena si ripeté. Non ci furono conversazioni, né domande estranee, né spiegazioni. Quegli uomini erano lì per un unico scopo ben preciso: insegnarmi la loro lingua. E lo realizzavano ammirevolmente. Pieno di curiosità, ansioso di arrivare in fondo e di scoprire il significato di tutto ciò, non interposi ostacoli, e mi dedicai con il loro stesso rigore a quel compito. Accettarono anche questo come se l’avessero previsto. In tre settimane fui in grado di sostenere una conversazione in uiguro come se fosse inglese.

L’inquietudine di Barr cresceva.

«La stanno preparando per qualcosa!» diceva. «Darei cinque anni della mia vita per essere nei suoi panni. Ma non mi piace. Ho paura per lei. Ho una paura tremenda!»

Una notte, alla fine della terza settimana, i tamburi rullarono fino all’alba. Il giorno dopo i miei istruttori non comparvero, e neppure il giorno successivo, né quello dopo. Ma i nostri uomini riferivano che c’erano uiguri tutto intorno a noi, e circondavano il campo. Avevano paura, ed era impossibile convincerli a lavorare.

Il pomeriggio del quarto giorno vedemmo una nuvola di polvere scendere rapidamente dal Nord verso di noi. Presto udimmo il suono dei tamburi uiguri. Poi, dalla polvere, emerse un esercito di cavalieri. Erano due o trecento, con le lance scintillanti, e molti avevano anche ottimi fucili. Si fermarono davanti al campo, disponendosi in semicerchio. Il capo dagli occhi freddi che era stato il mio principale istruttore smontò e si fece avanti, conducendo per la briglia un magnifico stallone nero. Era un cavallo grande e forte, diverso da quelli snelli che gli altri montavano: un cavallo che poteva portare facilmente il mio peso.

L’uiguro piegò un ginocchio a terra e mi porse le redini dello stallone. Le presi automaticamente. Il cavallo mi scrutò, mi fiutò, e mi appoggiò il muso sulla spalla. Subito i cavalieri alzarono le lance, gridando qualcosa che non afferrai, poi balzarono di sella e rimasero in attesa.

Il capo si alzò. Trasse dalla tunica un cubetto di antica giada. Tornò a piegare il ginocchio e me lo porse. Sembrava compatto ma, quando lo strinsi, si aprì. Dentro c’era un anello. Era d’oro massiccio, spesso e largo: recava incastonata una pietra gialla trasparente, quadrata, di circa quattro centimetri di lato. E in quella pietra c’era la figura di una piovra nera.

I tentacoli si aprivano a ventaglio intorno al corpo. Sembravano protendersi in avanti, attraverso la pietra gialla. Riuscivo a scorgere persino le ventose sulle punte. Il corpo era definito meno chiaramente: era nebuloso, e sembrava perdersi in distanza. La piovra nera non era stata intagliata nella gemma: stava all’interno.

Provavo una strana mescolanza di sensazioni… la repulsione e un bizzarro senso di familiarità, come quello scherzo della mente che causa ciò che viene chiamato doppia memoria, l’impressione di avere già sperimentato la stessa cosa in passato. Senza riflettere, m’infilai l’anello al pollice, dove calzava perfettamente, e lo alzai verso il Sole per scorgere la luce attraverso la pietra. Immediatamente tutti gli uomini si buttarono ventre a terra, prostrandosi davanti all’anello.

Il capitano uiguro mi parlò. Avevo avuto la certezza subconscia che dal momento in cui mi aveva offerto il cubetto di giada lui mi aveva osservato attento. Mi sembrò che adesso, nei suoi occhi, ci fosse un timore reverenziale.

«Il tuo cavallo è pronto…» Usò di nuovo la parola sconosciuta con cui mi avevano acclamato i cavalieri. «Mostrami ciò che vuoi portare con te, ed i tuoi uomini lo prenderanno.»

«Dove andiamo… e per quanto tempo?» chiesi.

«Da un sant’uomo del tuo popolo,» rispose lui. «Per quanto tempo… lui solo può dirtelo.»

Provai un’irritazione momentanea per la disinvoltura con cui si stava disponendo di me. E mi chiesi anche perché mai diceva che i suoi uomini e il suo popolo erano i miei.

«Perché non viene lui da me?» domandai.

«È vecchio,» mi rispose. «Forse non riuscirebbe a completare il viaggio.»

Guardai i cavalieri, che adesso si erano rialzati e stavano accanto ai loro destrieri. Se avessi rifiutato di andare, sicuramente il campo sarebbe stato devastato, se i miei compagni avessero cercato di opporsi alla mia cattura. E poi, ardevo dalla curiosità.

«Devo parlare ai miei compagni, prima di partire,» disse.

«Se piace a Dwayanu…» Questa volta afferrai la parola. «… dire addio ai suoi cani, lo faccia.» C’era un lampo di disprezzo nei suoi occhi mentre guardava il vecchio Fairchild e gli altri.

Decisamente non mi piaceva quello che aveva detto, né il modo.

«Aspettami qui,» feci brusco, e mi avvicinai a Fairchild. Lo condussi nella sua tenda, e Barr e gli altri membri della spedizione ci seguirono. Dissi loro quel che stava succedendo. Barr mi prese la mano ed esaminò l’anello. Poi fischiò, sommessamente.

«Non sa cos’è questo?» mi chiese. «È il Kraken… il sapiente, maligno, mitico mostro marino degli antichi norvegesi. Vede, non ha otto tentacoli, bensì dodici. Non veniva mai raffigurato con meno di dieci. Simboleggiava il principio ostile alla Vita… Non proprio la Morte, ma l’annientamento. Il Kraken… e qui in Mongolia!»

«Senta, capo,» dissi a Fairchild. «Lei mi può aiutare solo in un modo… se ho bisogno di aiuto: torni al più presto possibile al vecchio campo. Parli con i mongoli e faccia passare parola a quel capotribù che continuava a portare i lottatori… loro capiranno a chi mi riferisco. Lo convinca o lo corrompa perché porti al campo tutti i combattenti abili che riesce a trovare. Io tornerò, ma è probabile che torni di corsa. A parte questo, tutti voi siete in pericolo. Magari non per il momento, ma può darsi che le cose si mettano in modo tale da convincere questa gente che è meglio togliervi di mezzo. So quel che mi dico, capo. La prego di farlo per il mio bene, se non per il suo.»

«Ma questi sorvegliano il campo…» cominciò ad obiettare Fairchild.

«La smetteranno… non appena sarò andato con loro. Almeno per un po’ la smetteranno. Mi verranno tutti dietro.» Parlavo con assoluta sicurezza, e Barr annuì per dimostrare che era d’accordo con me.

«Il Re torna al suo Regno!» disse. «E tutti i suoi fedeli sudditi vanno con lui. Non corre alcun pericolo… finché è insieme a loro. Ma… Dio, se potessi venire con lei, Leif! Il Kraken! E l’antica leggenda dei Mari del Sud parla della Grande Piovra, che dorme e attende, fino a quando deciderà di distruggere il mondo e tutti gli esseri viventi. E la Piovra Nera è scolpita sulle rocce delle Ande, ad una quota di oltre cinquemila metri! Norvegesi… e isolani dei Mari del Sud… e andini! E lo stesso simbolo… qui!»

«Me lo promette, vero?» chiesi a Fairchild. «Può darsi che ne vada della mia vita.»

«Sarebbe come abbandonarla. Non approvo!»

«Capo, questo esercito sarebbe in grado di spazzarvi via in un minuto. Torni indietro, e raduni i mongoli. I tartari vi aiuteranno: odiano gli uiguri. Io tornerò, non abbia paura. Ma sarei pronto a scommettere che avrò alle mie calcagne tutti costoro, e anche altri. E quando arrivo, voglio un muro dietro il quale potermi nascondere.»

«Allora andremo,» disse Fairchild.

Uscii da quella tenda ed entrai nella mia. L’uiguro dagli occhi freddi mi seguì. Presi il mio fucile ed una pistola automatica, m’infilai in tasca uno spazzolino da denti e un rasoio, e mi voltai per andare.

«Non c’è altro?» C’era un tono di sorpresa, nella voce di quell’uomo.

«Se c’è, tornerò poi a prenderlo,» risposi.

«No, dopo che avrai… ricordato,» disse l’uiguro in tono enigmatico.

Fianco a fianco, ritornammo allo stallone nero, ed io mi issai in sella.

La schiera dei cavalieri girò per seguirci. Galoppammo verso Sud, e le loro lance formavano una barriera tra me e l’accampamento.

III IL RITUALE DI KHALK’RU

Lo stallone si avviò ad un passo rapido, regolare. Portava facilmente il mio peso. Mancava circa un’ora al crepuscolo quando superammo il limitare del deserto. Alla nostra destra si levava una bassa catena di colline d’arenaria rossa. Davanti, non lontano, c’era una gola. Ci addentrammo e la percorremmo. Dopo circa mezz’ora uscimmo in un territorio cosparso di macigni, su quella che un tempo doveva essere stata un’ampia strada. Si stendeva davanti a noi, diritta, verso Nord-Est, verso un’altra catena, più alta, di arenaria rossa, distante all’incirca otto chilometri. La raggiungemmo proprio al cader della notte: e qui la mia guida si fermò, annunciando che ci saremmo accampati fino all’alba. Circa venti cavalieri smontarono, mentre gli altri proseguirono.

Quelli che erano rimasti attesero, guardandomi; era chiaro che aspettavano qualcosa. Mi chiesi che cosa avrei dovuto fare: poi, notando che lo stallone era sudato, chiesi qualcosa per asciugarlo, e poi foraggio e acqua per lui. A quanto sembrava, era proprio quello che si aspettavano. Il capo mi portò personalmente i pezzi di stoffa, il grano e l’acqua, mentre gli uomini bisbigliavano. Quando il cavallo fu rinfrescato, gli diedi da mangiare. Poi chiesi delle coperte per ripararlo, poiché le notti erano fredde. Quando ebbi finito, scoprii che nel frattempo era stata preparata la cena. Sedetti davanti al fuoco insieme al capo. Avevo fame e, come sempre quando ne avevo la possibilità, mangiai voracemente. Feci poche domande, e ricevetti quasi sempre risposte così evasive e riluttanti che presto rinunciai a insistere… Finita la cena, mi venne sonno. Lo dissi. Mi furono consegnate delle coperte, e mi avvicinai allo stallone. Gli stesi accanto le coperte, mi sdraiai e mi ravvoltolai.

Lo stallone piegò la testa, mi toccò delicatamente con il muso, mi soffiò un lungo respiro sul collo, e si distese accanto a me. Mi sistemai in modo da appoggiargli la testa sul collo. Gli uiguri bisbigliarono eccitati. Mi addormentai.

Fui svegliato all’alba. La colazione era pronta. Ripartimmo lungo l’antica strada. Costeggiava le colline, seguendo il letto di quello che, una volta, doveva essere stato un ampio fiume. Per qualche tempo le alture orientali ci ripararono dal Sole. Quando cominciò a picchiare direttamente su di noi, riposammo all’ombra di alcune rocce immense. Verso la metà del pomeriggio ci rimettemmo in cammino. Poco prima del tramonto, attraversammo il letto asciutto del fiume, varcando quello che una volta era stato un ponte massiccio. Passammo per un’altra gola, attraverso la quale scorreva anticamente il corso d’acqua scomparso, ed al crepuscolo arrivammo in fondo.

Ai due lati dell’imboccatura di quella gola poco profonda dominavano dei rossi torrioni di pietra. Erano difesi da dozzine di uiguri. Gridarono, quando ci videro avvicinare, ed io sentii ripetere di nuovo parecchie volte la parola «Dwayanu».

Si spalancarono le porte massicce del torrione di destra. Entrammo in un passaggio sotto il muro robusto, passammo al trotto attraverso un ampio cortile, e ne uscimmo attraverso una porta identica.

Vidi davanti a me un’oasi cinta dalle montagne brulle. Un tempo doveva sorgervi una città piuttosto grande, perché dovunque era costellata di rovine. Quella che, forse, era stata la sorgente del fiume si era ridotta ad un ruscello che sprofondava nella sabbia non molto lontano dal punto in cui mi trovavo. A destra del ruscello c’erano vegetazione ed alberi; a sinistra la desolazione. La strada passava in mezzo all’oasi e tagliava quel terreno arido. Si fermava, e forse vi entrava, davanti ad un’enorme apertura squadrata nella parete di roccia a più di un chilometro e mezzo di distanza: quell’apertura sembrava una porta tagliata nella montagna, o l’ingresso di una gigantesca tomba egizia.

Noi scendemmo nella zona fertile. Lì vi erano centinaia di antichi edifici di pietra: e ci si era sforzati di mantenerne alcuni in condizioni discrete. Tuttavia la loro antichità mi colpì la mente. Tra gli alberi, poi, c’erano anche molte tende. E dagli edifici e dalle tende stavano uscendo gli uiguri, uomini, donne e bambini. Soltanto i guerrieri dovevano essere all’incirca un migliaio. A differenza degli uomini dei torrioni, questi mi guardarono in silenzio intimoriti, mentre passavo.

Ci fermammo davanti ad un mucchio di rovine erose dal tempo, che forse era stato un palazzo… cinquemila anni prima, o forse diecimila. Oppure un tempio. Lungo la facciata sorgeva un colonnato di tozzi pilastri quadrati. Altri, ancora più massicci, stavano a fianco dell’entrata. Smontammo. Lo stallone e il cavallo della mia guida vennero presi in custodia dalla nostra scorta. Inchinandosi profondamente sulla soglia, la mia guida m’invitò ad entrare.

Mi trovai in un ampio corridoio, fiancheggiato da guerrieri armati di lance e illuminato da fiaccole di legno resinoso. Il capo uiguro si avviò al mio fianco. Il corridoio portava in una sala enorme, altissima, così larga e lunga che le torce appese alle pareti ne facevano sembrare ancora più buia la parte centrale. In fondo stava una bassa pedana, su cui c’era un tavolo di pietra: seduti al tavolo c’erano parecchi uomini incappucciati.

Mentre mi avvicinavo, sentivo gli occhi degli incappucciati fissi su di me, e notai che erano tredici: sei ad ogni lato del personaggio seduto nel seggio più alto, all’estremità del tavolo. Intorno a loro stavano alte lanterne metalliche, in cui ardeva una sostanza che irradiava una luce bianca, costante e fulgida. Mi avvicinai e mi fermai. La mia guida non parlò: neppure gli altri parlarono.

All’improvviso, la luce colpì l’anello, che scintillò.

L’uomo incappucciato a capotavola si alzò, si aggrappò con le mani tremanti che parevano artigli avvizziti. Lo sentii mormorare «Dwayanu!»

Il cappuccio gli ricadde dalla testa sulle spalle. Scorsi una faccia vecchissima, dagli occhi azzurri quasi come i miei, pieni di sbalordimento e di appassionata speranza. Mi commossi, perché era l’espressione di un uomo perduto da molto tempo nella disperazione che vede apparire un salvatore.

Anche gli altri si alzarono, e ributtarono i cappucci sulle spalle. Erano vecchi, ma non quanto colui che aveva fatto udire quel mormorio. Mi sentii pesare addosso i loro occhi freddi, grigioazzurri. Il gran sacerdote, poiché avevo immaginato che fosse tale, ed infatti risultò esserlo, parlò di nuovo:

«Me lo avevano detto… ma non potevo crederlo! Vuoi venire da me?»

Balzai sulla pedana e mi avviai verso di lui. Accostò il volto antico al mio, scrutandomi negli occhi. Mi sfiorò i capelli. Mi insinuò una mano dentro la camicia e me la posò sul cuore. Poi disse: «Mostrami le tue mani.»

Le appoggiai sul tavolo, a palme in su. Il vecchio le esaminò attentamente, come aveva fatto il capo uiguro. Gli altri dodici si raccolsero attorno a noi, seguendo con lo sguardo le sue dita che indicavano questo e quel segno. Il vecchio si sfilò dal collo una catena d’oro, e trasse dalle pieghe della veste un grosso pezzo di giada, piatto e quadrato. Lo aprì. All’interno c’era una pietra gialla più grande di quella del mio anello, ma simile in tutto il resto: nelle sue profondità si contorceva la piovra nera… o il Kraken. Accanto c’erano una boccetta di giada ed un minuscolo coltello anch’esso di giada, simile a un bisturi. Il vecchio mi prese la destra, mettendo il mio polso sopra la pietra gialla. Guardò me e gli altri con occhi pieni di sofferenza.

«L’ultima prova,» mormorò. «Il sangue!»

Punse con il coltello una vena del mio polso. Il sangue sgorgò, cadde lentamente, goccia a goccia, sopra la pietra. Allora mi accorsi che era leggermente concava. Cadendo, il sangue formò una pellicola sottile, dal fondo all’orlo. Il vecchio sacerdote sollevò la boccetta di giada, la stappò e, con un evidente, doloroso sforzo di volontà, la tenne saldamente sopra la pietra gialla. Una goccia di fluido incolore cadde e si mescolò con il mio sangue.

Nella sala regnava il silenzio più assoluto: il sacerdote ed i suoi ministri, pareva, avevano smesso di respirare e fissavano la pietra. Lanciai un’occhiata al capo uiguro: mi stava guardando con occhi sbarrati, ardenti di fanatismo.

Il gran sacerdote lanciò un’esclamazione, subito riecheggiata dagli altri. Abbassai lo sguardo sulla pietra. La pellicola rossastra stava cambiando colore. Una bizzarra scintilla la percorse, la trasformò in una pellicola di un verde trasparente e luminoso.

«Dwayanu!» ansimò il gran sacerdote, e si lasciò ricadere sul seggio, coprendosi il viso con mani tremanti. Gli altri fissavano alternativamente me e la pietra, e poi di nuovo me, come se avessero assistito ad un miracolo. Guardai il capo uiguro. Si era prostrato ai piedi del palco.

Il gran sacerdote si scoprì il volto. Mi sembrò diventato incredibilmente più giovane: era trasformato. I suoi occhi non erano più colmi di disperazione e di sofferenza, ma di ardore. Si alzò dal seggio, e mi fece sedere al suo posto.

«Dwayanu,» mi disse, «che cosa ricordi?»

Scossi il capo, perplesso: era un eco delle parole pronunciate al campo dall’uiguro.

«Cosa dovrei ricordare?» chiesi.

Il suo sguardo mi abbandonò, cercò i visi degli altri, interrogativamente: come se il sacerdote avesse parlato, quelli si scambiarono occhiate, poi annuirono. Il vecchio richiuse l’astuccio di giada e se lo ripose in petto. Mi prese la mano, girò il castone dell’anello sotto il mio pollice e mi chiuse la mano.

«Ricordi…» La sua voce si abbassò fino a diventare il più fievole dei mormoni. «Khalk’ru

Ancora una volta il silenzio calò nella grande sala: questa volta era tangibile. Rimasi immobile, riflettendo. C’era qualcosa di familiare in quel nome. Avevo l’irritante sensazione che avrei dovuto conoscerlo; che se mi fossi sforzato, avrei potuto ricordarlo; che il ricordo stava appena al di là dei limiti della coscienza. Inoltre, avevo l’impressione che significasse qualcosa di spaventoso. Qualcosa che era meglio dimenticare. Provai un vago fremito di repulsione, frammisto ad un aspro risentimento.

«No,» risposi.

Udii il suono di molti, bruschi respiri. Il vecchio sacerdote si portò alle mie spalle e mi posò le mani sugli occhi.

«Ricordi… questo?»

La mia mente si annebbiò: poi vidi un’immagine, chiaramente, come se la stessi guardando ad occhi aperti. Stavo galoppando attraverso l’oasi, diretto alla grande porta nella montagna. Ma adesso non era un’oasi. Era una città ricca di giardini, ed un fiume lucente l’attraversava. Le colline non erano di spoglia arenaria rossa, e verdeggiavano di alberi. C’erano altri, con me, e galoppavano alle mie spalle… uomini e donne come me, biondi e forti. Ormai ero vicino alla porta. La fiancheggiavano immensi pilastri squadrati di pietra… ed io ero smontato dal mio cavallo… un grande stallone nero… stavamo entrando…

Non sarei entrato! Se fossi entrato, avrei ricordato… Khalk’ru! Mi spinsi indietro, fuori… sentii due mani sui miei occhi… sollevai le dita e le scostai con forza… le mani del vecchio sacerdote. Balzai dal seggio, fremente di collera. Mi voltai verso di lui. Il suo viso era benigno, la sua voce gentile.

«Presto,» disse, «ricorderai di più!»

Non risposi: mi sforzavo di controllare un inspiegabile furore. Ovviamente il vecchio sacerdote aveva cercato d’ipnotizzarmi: avevo visto ciò che egli aveva voluto che vedessi. Non per nulla i sacerdoti degli uiguri avevano fama di essere grandi stregoni. Ma non fu questo a suscitare la collera, così intensa che dovetti fare appello a tutta la mia volontà per non scatenarmi. No, era stato qualcosa… qualcosa nel nome di Khalk’ru. Qualcosa che stava dietro la porta scavata nella montagna, nella quale ero stato quasi forzato ad entrare.

«Hai fame?» La brusca transizione ad un problema così pratico, nella domanda del vecchio sacerdote, mi ricondusse alla normalità. Risi, e gli risposi che avevo fame davvero. E anche sonno. Avevo temuto che, essendo diventato un personaggio importante, a quanto sembrava, avrei dovuto cenare con il grande sacerdote. Provai un senso di sollievo quando mi affidò invece al capitano uiguro. Questi mi seguì come un cane, continuò a tenermi gli occhi addosso come fa un cane con il suo padrone, e mi servì come uno schiavo, mentre mangiavo. Gli dissi che avrei preferito dormire in una tenda, piuttosto che in uno degli edifici di pietra. Gli lampeggiarono gli occhi, e per la prima volta mi rivolse la parola in modo diverso dagli abituali monosillabi rispettosi.

«Sempre guerriero!» grugnì in tono di approvazione. Mi prepararono una tenda. Prima di andare a dormire, sbirciai dall’apertura. Il capo uiguro stava accosciato davanti all’ingresso, e molti lanceri erano disposti, spalla a spalla, in un doppio cerchio, per montare la guardia.

La mattina dopo, assai presto, venne a cercarmi una delegazione di sacerdoti di rango inferiore. Entrammo nello stesso edificio, ma in una sala molto più piccola, priva di mobili. Il gran sacerdote e altri di grado inferiore mi stavano aspettando. Mi attendevo parecchie domande, ma il vecchio non me ne rivolse neppure una: sembrava non fosse curioso di conoscere la mia origine, il mio luogo di provenienza, né il motivo della mia presenza in Mongolia. A loro pareva bastare di aver provato che io ero quel che speravano fossi… chissà chi. Inoltre, avevo l’impressione che ci tenessero ad affrettare il compimento di un piano che aveva avuto inizio con le mie lezioni. Il gran sacerdote entrò subito in argomento.

«Dwayanu,» disse, «vorremmo richiamare alla tua memoria un certo rituale. Ascolta attentamente, osserva attentamente, ripeti scrupolosamente ogni inflessione ed ogni gesto.»

«A che scopo?» domandai.

«Lo scoprirai…» cominciò il vecchio, poi s’interruppe brusco. «No! Te lo dirò ora! Affinché il deserto ritorni di nuovo fertile. Affinché gli uiguri possano ritrovare l’antica grandezza. Affinché venga espiato l’antico sacrilegio contro Khalk’ru, la cui conseguenza fu il deserto!»

«E cosa c’entro io, uno straniero, in tutto questo?» chiesi.

«Noi, cui tu sei venuto,» rispose il vecchio, «non abbiamo nelle vene abbastanza sangue antico per compiere ciò che deve essere compiuto. Tu non sei uno straniero. Tu sei Dwayanu, il Liberatore. Tu hai il sangue puro. Perciò tu solo, Dwayanu, puoi allontanare la maledizione.»

Pensai che Barr sarebbe stato felice di ascoltare quella spiegazione: si sarebbe divertito a punzecchiare Fairchild. M’inchinai al vecchio sacerdote, e gli dissi che ero pronto. Egli mi tolse l’anello dal pollice, si sfilò dal collo la catena ed il pendente di giada, e mi disse di spogliarmi. Mentre gli obbedivo, si tolse le vesti, e gli altri lo imitarono. Un sacerdote portò via tutto, e subito ritornò. Guardai le scarne figure dei vecchi ignudi intorno a me, ed all’improvviso persi la voglia di ridere. Quei preparativi erano sfumati di una colorazione sinistra. La lezione incominciò.

Non era un rituale: era un’invocazione… o meglio, era l’evocazione di un Essere, di una Forza, di un Potere chiamato Khalk’ru. Era estremamente bizzarra, come lo erano i gesti che l’accompagnavano. Veniva espressa, chiaramente, nella forma più arcaica dell’uiguro. C’erano molte parole che non comprendevo. Era stata trasmessa di gran sacerdote in gran sacerdote sin dall’antichità più remota. Persino un cristiano molto tiepido l’avrebbe considerata blasfema e dannata. Ma ero troppo interessato per pensarci. Provavo lo stesso strano senso di familiarità che avevo sentito la prima volta in cui era stato nominato Khalk’ru. Ma non provavo più repulsione. Sentivo di fare sul serio. Non so in che misura questo fosse dovuto alla forza di volontà concentrata dei dodici sacerdoti che non mi toglievano mai lo sguardo di dosso.

Non starò a ripetere l’invocazione: mi limiterò a renderne il senso. Khalk’ru era il Principio senza Principio, come sarebbe stato la Fine senza Fine. Era il Vuoto Tenebroso ed Eterno. Il Distruttore. Il Divoratore della Vita. L’Annientatore. Il Dissolutore. Non era la Morte: la Morte era solo parte di lui. Era vivo, vivissimo, ma il suo modo di vivere era l’antitesi della Vita quale noi la conosciamo. La Vita era un’intrusa che turbava l’eterna serenità di Khalk’ru. Dèi ed uomini, animali e uccelli, e tutte le creature, la vegetazione e l’acqua e l’aria e il fuoco, il Sole e le stelle e la Luna… tutto era suo, e doveva venire dissolto in Lui, il Nulla Vivente, se Egli così voleva. Tuttavia, Egli avrebbe dovuto permettere che continuassero ad esistere ancora per un poco. Perché Khalk’ru doveva curarsene, quando alla fine vi sarebbe stato solo… Khalk’ru? Egli doveva perciò ritrarsi dai luoghi brulli, affinché la vita potesse penetrarvi e farli fiorire nuovamente; doveva colpire solo i nemici dei suoi adoratori, affinché gli adoratori fossero grandi e potenti, a prova che Khalk’ru era Tutto nel Tutto. Era solo un breve respiro, nello spazio della sua eternità. Khalk’ru doveva manifestarsi nella forma del suo simbolo, e prendere ciò che gli veniva offerto, a dimostrazione che aveva ascoltato ed acconsentito.

L’evocazione conteneva molte altre cose, ma questo era il suo significato generale. Era una preghiera spaventosa, ma io non avevo paura… allora. Dopo tre volte, l’imparai alla perfezione. Il gran sacerdote me la fece ripetere ancora una volta e fece un cenno del capo a quello che aveva portato via gli abiti. Quello uscì e ritornò con gli indumenti… ma non erano i miei. Portò invece un lungo mantello bianco ed un paio di sandali. Chiesi i miei abiti, e il vecchio sacerdote mi disse che non mi servivano più, che d’ora innanzi sarei stato abbigliato come si conveniva al mio rango. Riconobbi che era giusto, ma dissi che avrei voluto riaverli per guardarli ogni tanto. Il vecchio accondiscese.

Mi condussero in un’altra sala. Alle pareti erano appesi arazzi sbiaditi e laceri. Erano intessuti in modo da raffigurare scene di caccia e di guerra. C’erano strani sgabelli e sedie d’un metallo che poteva essere rame ma poteva anche essere oro, un divano largo e basso, ed in un angolo lance, un arco e due spade, uno scudo e un elmo di bronzo a forma di cuffia. Tutto, tranne i tappeti stesi al suolo, aveva un’aria immensamente antica. In quella stanza mi lavarono, mi rasarono meticolosamente e mi accorciarono i capelli: una cerimonia accompagnata da riti di purificazione talvolta piuttosto sorprendenti.

Poi mi consegnarono una sottoveste di cotone che mi inguainò dal collo ai piedi. Poi un paio di calzoni ampi e lunghi che sembravano intessuti di filo d’oro, reso morbido come la seta. Notai, divertito, che erano stati accuratamente rammendati e rattoppati. Mi chiesi da quanti secoli era morto l’uomo che li aveva portati per primo. Poi mi fecero indossare una lunga casacca dello stesso tessuto, e mi calzarono con un paio di alti coturni, dai ricami complicati e un po’ laceri.

Il vecchio sacerdote mi mise al pollice l’anello, e indietreggiò, guardandomi estatico. Evidentemente, non vedeva le ingiurie che il tempo aveva arrecato ai miei abiti. Per lui, ero lo splendido personaggio del passato che immaginava io fossi.

«Così eri quando la nostra razza era grande,» disse. «E presto, quando avrà recuperato un poco della sua grandezza, ricondurremo qui coloro che dimorano ancora nella Terra Oscurata.»

«La Terra Oscurata?» chiesi.

«È lontana, ad oriente, oltre le Grandi Acque,» disse il vecchio. «Ma noi sappiamo che vi dimorano quelli di Khalk’ru che fuggirono al tempo del grande sacrificio, quando la terra feconda degli uiguri si cambiò in deserto. Saranno di sangue puro come te, Dwayanu, e tu troverai delle compagne tra quelle donne. E con il tempo, noi dal sangue impuro scompariremo, e la terra degli uiguri sarà nuovamente popolata dalla sua antica razza.»

Si allontanò bruscamente, seguito dagli altri sacerdoti. Sulla soglia si voltò.

«Attendi qui,» disse, «fino a quando ti manderò a chiamare.»

IV IL TENTACOLO DI KHALK’RU

Attesi un’ora, esaminando le curiose suppellettili della stanza, e divertendomi ad esercitarmi con le due spade. Poi mi girai di scatto e scorsi il capitano uiguro che mi osservava dalla soglia, con gli occhi chiari scintillanti.

«Per Zarda!» esclamò. «Qualunque cosa tu abbia dimenticato, non è certo l’uso della spada! Ci hai lasciati da guerriero, e guerriero sei ritornato!»

Piegò un ginocchio a terra e chinò il capo.

«Perdona, Dwayanu! Sono stato mandato a chiamarti. È ora di andare.»

Mi colse un’esaltazione vertiginosa. Lasciai cadere le spade. e gli battei una mano sulla spalla. L’accolse come un’investitura. Percorremmo il corridoio vigilato dai lanceri e varcammo la soglia del grande portale. Ci accolse un grido tonante.

«Dwayanu!»

E poi squilli di trombe, il rullo poderoso dei tamburi, lo scrosciare dei cembali.

Davanti al palazzo era fermo un quadrato di cavalieri uiguri: erano almeno cinquecento, con le lance che scintillavano e gli orifiamma che garrivano al vento. All’interno del quadrato ce ne erano altri, in file ordinate. Vidi che questi erano uomini e donne, abbigliati di vesti antiche quanto le mie, e luccicanti nella forte luce del Sole come un enorme tappeto multicolore tessuto di fili metallici. Sopra di loro svolazzavano bandiere e bandierine, lacere, sbrindellate e ornate di strani simboli. Sul lato più lontano del quadrato scorsi il vecchio sacerdote e gli altri sacerdoti di grado inferiore che lo fiancheggiavano: tutti erano a cavallo, e vestivano di giallo. Sopra di loro garriva una bandiera gialla; quando il vento la spiegava vi si scorgeva, nera, la figura del Kraken. Oltre il quadrato dei cavalieri, centinaia di uiguri si accalcavano e spingevano per riuscire a vedermi. Mi fermai, battendo le palpebre, ed un altro grido si mescolò al rullo dei tamburi.

«Il re ritorna al suo popolo!» aveva detto Barr. Beh, era proprio così.

Un morbido muso mi toccò. Accanto a me c’era lo stallone nero. Montai. Seguito dal capitano uiguro, mi avviai al trotto lungo lo spazio libero tra le file ordinate. Li guardai, nel passare. Tutti, uomini e donne, avevano gli occhi chiari, grigiazzurri, e tutti erano più alti e forti di quanto lo fossero, in media, gli esemplari della loro razza. Pensai che quelli dovevano essere i nobili, il fior fiore delle antiche famiglie, in cui era più forte il vecchio sangue. Le bandiere lacere recavano i simboli dei loro clan. Negli occhi degli uomini leggevo l’esultanza. Prima di raggiungere i sacerdoti avevo letto il terrore negli occhi di molte donne.

Mi accostai al vecchio sacerdote. La fila dei cavalieri, davanti a noi, si aprì. Passammo attraverso quel varco, fianco a fianco. Gli altri sacerdoti ci vennero dietro, seguiti a loro volta dai nobili. Disposti in una lunga, doppia fila ai lati del corteo, trottavano i cavalieri uiguri, mentre le trombe squillavano, i tamburi e i timpani rullavano, i cembali scrosciavano in frenetici ritmi trionfali.

«Il re ritorna…»

Come vorrei che qualcosa mi avesse scagliato allora sulle lance degli uiguri!

Passammo al trotto in mezzo al verde dell’oasi. Varcammo un ampio ponte, costruito sull’esiguo ruscello quando era ancora un fiume poderoso. Gli zoccoli dei nostri cavalli calpestarono l’antica strada che conduceva diritto alla porta nella montagna, a poco più d’un chilometro e mezzo di distanza. Sentii crescere in me l’esultanza che mi stordiva. Mi voltai indietro. E all’improvviso ricordai i rammendi e le toppe sui miei calzoni e sulla mia casacca. Anche il mio seguito era caratterizzato dallo stesso squallore. Mi fece sentire un po’ meno re, e un poco più umile. Li vidi come uomini e donne sospinti dai fantasmi famelici del loro sangue non più puro, fantasmi di forti antenati che s’indebolivano via via che s’indeboliva l’antico sangue, e si sfinivano come questo si esauriva; ma erano ancora abbastanza forti da rumoreggiare contro l’estinzione, forti abbastanza per comandare i loro cervelli e la loro volontà, per spingerli verso qualcosa che i fantasmi ritenevano capace di saziare la loro fame, di renderli di nuovo fortissimi.

Sì, avevo pietà di loro. Era assurdo pensare che io potessi saziare la fame dei loro fantasmi, ma c’era una cosa che potevo fare, per loro. Inscenare una recita a loro beneficio. Ripetei mentalmente il rituale che mi aveva insegnato il vecchio sacerdote, ricordai ogni gesto.

Alzai gli occhi e vidi che eravamo sulla soglia della porta scavata nella montagna. Era abbastanza ampia per lasciar passare una fila di venti cavalieri. Le tozze colonne che avevo visto sotto il tocco del vecchio sacerdote giacevano al suolo, schiantate. Non provai ripugnanza né impulsi di ribellione all’idea di entrare, questa volta. Ero ansioso, anzi, di entrare e di farla finita.

I lanceri avanzarono al trotto e si misero di guardia accanto all’apertura. Smontai, e affidai ad uno di loro le redini dello stallone. Con il vecchio sacerdote al fianco e seguito dagli altri, varcai la soglia della porta in rovina, e mi addentrai nella montagna. La galleria, o il vestibolo, era illuminata da lanterne a muro in cui ardevano le fiamme bianche e luminose. A cento passi dall’entrata si apriva un’altra galleria, formando un angolo di circa quindici gradi rispetto a quella principale. Il grande sacerdote svoltò lì. Mi girai indietro. I nobili non erano ancora entrati: li vidi smontare, all’ingresso. Procedemmo in silenzio per circa trecento metri: poi il passaggio sfociò in una piccola camera quadrata, tagliata nell’arenaria rossa: a lato c’era un’altra porta, velata da pesanti drappi. Lì non c’era nulla, tranne alcuni cofani di pietra di varie dimensioni, lungo le pareti.

Il vecchio ne aprì uno. Dentro c’era una cassa di legno, resa grigia dagli anni. Ne alzò il coperchio, e ne trasse due indumenti gialli. Me ne infilò uno sopra la testa. Era come una tunica, e mi arrivava alle ginocchia. Abbassai lo sguardo: vi era intessuta la piovra nera, che mi cingeva con i tentacoli.

Il sacerdote s’infilò l’altro camice: anche quello era ornato della figura della piovra, ma soltanto sul petto. I tentacoli non lo cingevano. Poi si chinò e tolse dal cofano un bastone dorato, alla cui estremità c’erano barre trasversali: da queste scendevano cerchi di campanellini d’oro.

Dagli altri cofani, i sacerdoti della nostra scorta avevano tratto dei tamburi, bizzarri strumenti ovali lunghi circa un metro, con i lati di metallo rosso e opaco. Sedettero, facendo ondeggiare sotto le dite le pelli, tendendole qua e là mentre il vecchio scuoteva delicatamente il bastone con i sonagli, provandone il tintinnio. Mi sembravano orchestrali occupati a intonare i loro strumenti. Provai di nuovo la voglia di ridere: allora non sapevo che la banalità può rendere più intenso l’orrore.

Oltre la porta chiusa dai drappeggi si udivano suoni, fruscii. Vi furono tre colpi risonanti, come d’un maglio battuto su un’incudine. Poi silenzio. I dodici sacerdoti varcarono la porta, tenendo fra le braccia i tamburi. Il vecchio mi accennò di seguirlo, e passammo dopo gli altri.

Mi trovai in un’immensa caverna, ricavata nella roccia viva dalle mani di uomini ormai ridotti in polvere da millenni. Dichiarava la sua immemorabile antichità come se le rocce avessero una lingua. Era assai più che antica: era primordiale. Era fiocamente illuminata, così fiocamente che io riuscivo appena e scorgere i nobili uiguri. Erano in piedi, con le bandiere dei clan tenute alte, le facce rivolte verso di me, sul pavimento di pietra, ad una trentina di metri da me, tre metri più in basso. Dietro di loro si estendeva la caverna, che svaniva nell’oscurità. Vidi che davanti a loro c’era una specie di truogolo incurvato, ampio, come lo spazio tra due lunghe onde: e come un’onda saliva dall’altra parte dell’infossatura, incurvandosi, increspandosi, come se quell’onda di pietra scolpita fosse un cavallone in atto di precipitarsi sopra di loro. L’increspatura formava l’orlo del rialzo sul quale mi trovavo io.

Il gran sacerdote mi toccò il braccio. Girai il capo, e seguii il suo sguardo.

A trenta metri di me c’era una ragazza. Era nuda. Era divenuta donna da poco tempo, e si vedeva che stava per diventare madre.

I suoi occhi erano azzurri come quelli del vecchio sacerdote, i suoi capelli di un bruno rossiccio, sfumato d’oro, la pelle di un pallido colorito olivastro. Il sangue della vecchia razza era forte, in lei. Sebbene si controllasse molto coraggiosamente, c’era il terrore nei suoi occhi, e l’ansimare rapido dei suoi seni rotondi rivelava ancor meglio quel terrore.

Era in piedi in una piccola cavità. Attorno alla vita aveva un cerchio d’oro, dal quale scendevano tre catene pure d’oro, fissate al pavimento di roccia. Capii a cosa servivano. Non poteva fuggire, e se fosse caduta, non avrebbe potuto strisciare fuori dalla cavità. Ma fuggire, strisciare via… da che cosa? Certamente non da me! La guardai e sorrisi. I suoi occhi interrogarono i miei. All’improvviso, il terrore l’abbandonò. Ricambiò il mio sorriso, fiduciosamente.

Dio mi perdoni… io le sorrisi, e lei si fidò di me!

Guardai più oltre, in un punto dal quale era venuto un bagliore giallo, simile alla lucentezza di un enorme topazio. Dalla roccia, una trentina di metri più indietro della ragazza, sporgeva un immenso frammento della stessa pietra gialla e trasparente che ornava il mio anello. Era come il frammento di un’immensa vetrata, e aveva una forma approssimativamente triangolare.

Dentro, nero, c’era un tentacolo del Kraken. Pendeva entro la pietra gialla, reciso dal corpo mostruoso quando la pietra era stata spezzata. Era lungo una quindicina di metri, e in tutta la sua lunghezza era costellato di ripugnanti ventose.

Ebbene, era orrendo… ma non era il caso di averne paura, pensai. Sorrisi di nuovo alla ragazza incatenata, e di nuovo incontrai la sua espressione di totale fiducia.

Il vecchio sacerdote mi aveva scrutato attento. Avanzammo fino a quando fummo a metà strada, tra l’orlo e la ragazza. Sul ciglio stavano accovacciati i dodici sacerdoti, con i tamburi sulle ginocchia.

Il vecchio ed io eravamo rivolti verso la ragazza ed il tentacolo reciso. Lui alzò il bastone dai campanelli dorati e li scosse. Dall’oscurità della caverna ebbe inizio un canto, una cantilena su tre toni, ripetuti e ripetuti e mescolati.

Il canto era primordiale quanto la caverna: era la sua stessa voce.

La ragazza non distoglieva mai gli occhi da me.

La cantilena terminò. Alzai le mani e feci i curiosi gesti di saluto che mi erano stati insegnati. Incominciai il Rituale di Khalk’ru…

Alle prime parole, m’invase la vecchia sensazione di familiarità… e qualcosa di più. Le parole, i gesti erano automatici. Non dovevo compiere sforzi di memoria. Non vedevo più la ragazza incatenata. Vedevo solo il tentacolo nero all’interno della pietra scheggiata.

Il rituale continuò, continuò… la pietra gialla si stava dissolvendo intorno al tentacolo… il tentacolo oscillava?

Cercai, disperatamente, di arrestare le mie parole ed i miei gesti. Non potei!

Qualcosa di più forte mi possedeva, muoveva i miei muscoli, parlava dalla mia gola. Provavo un senso d’inumana potenza. Il rituale precipitava verso il culmine della diabolica evocazione ed ora io sapevo che era veramente diabolica, e nello stesso tempo mi sembrava di rimanere in disparte, incapace d’impedirla.

E finì.

E il tentacolo fremette… si contorse… si protese verso la ragazza incatenata…

Vi fu un demoniaco rullo di tamburi, sempre più rapido, sempre più rapido in un tonante crescendo…

La ragazza mi stava ancora guardando… ma la fiducia era scomparsa dai suoi occhi… la sua faccia rifletteva l’orrore che era impresso sulla mia.

Il tentacolo nero si alzò, si protese!

Ebbi la rapida visione di un immenso corpo nebuloso, dal quale si tendevano altre spire frementi. Un soffio che aveva il gelo dello spazio mi sfiorò.

Il tentacolo nero si avvinghiò intorno alla ragazza…

Ella urlò… disumanamente… svanì… si dissolse… il suo urlo si affievolì… il suo urlo divenne un pigolio stridulo e sofferente… un sospiro…

Udii il tintinnio del metallo, là dove prima era la ragazza. Lo scrosciare delle catene e della cintura d’oro che l’avevano tenuta ferma, e che ricadevano vuote sulla roccia.

La ragazza era sparita!

Rimasi immobile. Un orrore d’incubo quale non avevo mai conosciuto negli incubi peggiori mi paralizzò…

Quella bambina si era fidata di me… io le avevo sorriso e lei si era fidata di me… e io avevo evocato il Kraken perché l’annientasse!

Un rimorso bruciante, una rabbia incandescente spezzarono i vincoli che mi tenevano prigioniero. Vidi il frammento di pietra gialla al suo posto, il tentacolo all’interno, nero ed inerte. Ai miei piedi giaceva prostrato il vecchio sacerdote: il suo corpo avvizzito tremava, le mani scarne graffiavano la pietra. Accanto ai loro tamburi erano proni gli altri sacerdoti, e sul pavimento della caverna i nobili… prostrati, umiliati, ciechi e sordi nella ebbra venerazione della Cosa terribile che io avevo evocato.

Corsi alla porta chiusa dai drappeggi. Avevo un unico desiderio: uscire dal tempio di Khalk’ru. Dalla tana del Kraken… Andare lontano, lontano. Ritornare indietro… all’accampamento… a casa. Attraversai correndo la stanzetta, i corridoi e, sempre di corsa, raggiunsi l’ingresso. Mi soffermai per un istante, abbagliato dal Sole.

Da centinaia di gole salì un grido ruggente… poi silenzio. La vista mi si schiarì. Erano là, nella polvere, prostrati davanti a me… i lanceri uiguri.

Cercai lo stallone nero. Era vicino, dietro di me. Gli balzai in sella, lasciai le redini. Sfrecciò via come un oscuro fulmine tra le file degli uomini prostrati, giù, lungo la strada per l’oasi. Intravvidi vagamente gente che correva, che urlava. Nessuno cercò di fermarmi. Nessuno avrebbe potuto resistere all’impeto di quel cavallo gigantesco.

Ormai ero vicino alle porte interne del fortino di pietra dal quale eravamo passati il giorno innanzi. Erano spalancate. Le sentinelle mi guardarono, sbalordite. Cominciarono a rullare i tamburi, perentoriamente, dal tempio. Mi voltai indietro. C’era una grande confusione all’ingresso, un rimescolio caotico. I lanceri uiguri stavano scendendo l’ampia strada, come una fiumana.

Le porte cominciarono a chiudersi. Lanciai avanti lo stallone, superando le guardie, fui all’interno del fortino. Raggiunsi la porta esterna. Era chiusa. I tamburi, rullavano più forte, minacciosi, imperiosi.

Recuperai un po’ di lucidità. Ordinai alle sentinelle di aprire. Mi guardarono tremando. Ma non obbedirono. Balzai dallo stallone e corsi verso di loro. Alzai la mano. L’anello di Khalk’ru scintillò. Gli uomini si buttarono a terra davanti a me… ma non aprirono le porte.

Vidi, sul muro, gli otri pieni d’acqua. Ne presi uno, e un sacco di grano. Per terra c’era un’enorme lastra di pietra. La sollevai come se fosse stata un ciottolo, e la scagliai contro la porta, nel punto in cui s’incontravano i due battenti; si spaccarono. Gettai l’otre d’acqua e il sacco di grano sulla sella, rimontai, e mi lanciai attraverso il portone fracassato.

Il grande cavallo passò dalla breccia come una rondine. Varcammo il ponte in rovina, scendemmo tonando l’antica strada.

Giungemmo all’estremità del burrone. La riconobbi dalle rocce cadute. Mi voltai indietro. Non c’era traccia d’inseguitori. Ma sentivo il ritmo fievole dei tamburi.

Ormai era pomeriggio avanzato. Percorremmo il burrone e uscimmo sul limitare della catena di colline d’arenaria. Era una crudeltà forzare il cavallo, ma non potevo permettermi di risparmiarlo. Al cader della notte avevamo raggiunto il territorio semiarido. Lo stallone puzzava di sudore, ed era stanco. Non aveva mai rallentato il passo, non si era mai ribellato. Aveva un gran cuore, quel cavallo. Decisi che aveva diritto di riposare, accadesse quello che sarebbe accaduto.

Trovai un punto riparato da alti macigni. All’improvviso, ricordai che indossavo ancora il giallo camice cerimoniale. Me lo strappai di dosso, nauseato e inorridito, e lo usai per massaggiare il cavallo. Gli diedi da bere e poi il grano. Mi accorsi di avere anch’io una fame terribile: non avevo mangiato nulla dal mattino. Masticai del grano e lo mandai giù con l’aiuto di un po’ di quell’acqua tiepida. Non c’era ancora traccia degli inseguitori, e i tamburi tacevano. Mi chiesi, inquieto, se gli uiguri conoscevano una scorciatoia e mi stavano aggirando. Gettai il camice sullo stallone e mi stesi per terra. Non avevo intenzione di dormire. Ma mi addormentai.

Mi svegliai bruscamente. Stava spuntando l’alba. In piedi davanti a me stavano il vecchio sacerdote e il capitano uiguro dagli occhi gelidi. Il mio nascondiglio era circondato dai lanceri. Il vecchio parlò, gentilmente.

«Noi non intendiamo farti alcun male, Dwayanu. Se è tuo volere lasciarci, non possiamo trattenerti. Colui al cui richiamo Khalk’ru ha risposto non ha nulla da temere da noi. La sua volontà è la nostra volontà.»

Non risposi. Quando lo guardai, rividi ciò che avevo visto nella caverna, non potevo vedere altro. Egli sospirò.

«È tuo volere lasciarci! Così sia!»

Il capitano uiguro non parlò.

«Ti abbiamo portato i tuoi vestiti, Dwayanu, pensando che volessi lasciarci abbigliato com’eri venuto,» disse il vecchio sacerdote.

Mi spogliai e indossai le mie vecchie cose. Il vecchio prese gli abiti sbiaditi. Tolse la tunica con la piovra dal dorso dello stallone. Il capitano parlò.

«Perché ci lasci, Dwayanu? Tu ci hai fatto riappacificare con Khalk’ru. Tu hai aperto le porte. Presto il deserto fiorirà come un tempo. Perché non rimani a guidarci verso la grandezza?»

Scossi il capo. Il vecchio sacerdote sospirò di nuovo.

«Questa è la sua volontà! Così sia! Ma ricorda, Dwayanu… colui al cui richiamo Khalk’ru ha risposto deve rispondere quando Khalk’ru lo chiama. E presto o tardi… Khalk’ru lo chiamerà!»

Mi sfiorò i capelli con le vecchie mani tremanti, mi toccò il cuore, e si voltò. Un drappello di lanceri roteò intorno a lui. Ripartirono.

Il capitano uiguro disse: «Noi aspetteremo per scortare Dwayanu nel suo viaggio.»

Montai sullo stallone. Arrivammo al nuovo accampamento della spedizione. Era deserto. Proseguimmo, verso il vecchio campo. Quel pomeriggio, sul tardi, vedemmo davanti a noi una carovana. Quando ci avvicinammo si fermarono, fecero preparativi frettolosi per difendersi. Era la spedizione… ancora in marcia. Agitai le mani, gridando.

Balzai dallo stallone nero, e ne porsi le redini all’uiguro.

«Prendilo,» dissi. Il suo viso perse l’abituale, cupa severità, s’illuminò.

«Sarà pronto per te quando tornerai da noi, Dwayanu. Lui o i suoi figli,» disse. Si portò la mia mano alla fronte, s’inginocchiò. «Sarà così per tutti noi, Dwayanu… saremo pronti ad attenderti, noi o i nostri figli. Quando tornerai.»

Montò in sella. Si volse verso di me, con i suoi cavalieri. Levarono le lance. Vi fu un grido assordante…

«Dwayanu!»

Corsero via.

Mi avviai a piedi verso Fairchild e gli altri che mi stavano aspettando.

Non appena ne ebbi la possibilità, ritornai in America. Volevo una sola cosa: mettere la maggiore distanza possibile tra me ed il tempio di Khalk’ru.

M’interruppi. Involontariamente, la mia mano cercò il sacchetto di pelle che portavo appeso al collo.

«Ma adesso,» feci, «sembra che non sia tanto facile sfuggirgli. Con i colpi sull’incudine, con i canti e i tamburi… Khalk’ru mi chiama!»

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