Laura Mancinelli I dodici abati di Challant

Copyright 1981 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino.

Su concessione Giulio Einaudi editore.


Nota biografica

Laura Mancinelli vive e lavora a Torino. Oltre alla "trilogia medievale" ha pubblicato, sempre da Einaudi, "Il fantasma di Mozart" (1986) e "Amadé" (L'Argonauta, 1990).


Venafro

L'uomo che saliva a cavallo tra i boschi verso il castello di Challant mostrava di conoscere bene i sentieri perché li trovava senza alcuna difficoltà pur sotto la spessa neve dell'inverno precoce che aveva coperto tutta la vallata. Eppure era straniero. Lo dicevano i capelli neri e corti, i baffi neri, gli occhi pure incredibilmente neri. Anche il colorito del volto era sensibilmente più scuro di quanto non fosse dato incontrare in quella valle. Il lungo mantello nero col cappuccio, da cui scuoteva ogni tanto la neve che continuava a ricoprirlo, completava la figura misteriosa.

Il suo nome era Venafro. Ma forse non era il vero nome. Nessuno sapeva nulla di lui, se non che la sua origine doveva avere qualcosa a che vedere con la bellissima e leggendaria Isabella d'Aquitania, che mai tuttavia aveva soggiornato in quei monti, pur essendo non lontanamente imparentata con i marchesi di Challant. E tutto l'aspetto di Venafro tradiva l'origine esotica. Ma di dove venisse, nessuno sapeva.

Il mistero, ed il raro sorriso sulle sue labbra, contrastavano con quella parentela illustre in cui la nobiltà della nascita gareggiava con l'impareggiabile libertà dei costumi. Si diceva infatti nelle antiche cronache provenzali che Isabella d'Aquitania, tra le molte inimitabili licenze della sua vita, consentite a bellezza e nobiltà, avesse tentato, spinta dall'amore, di intenerire il cuore di quell'uomo eccelso, ma all'amor carnale assai poco indulgente, che fu messer Bernardo, signore di Chiaravalle e abate del convento. Molto se ne parlava ancora in Aquitania, e per la gran fama di lei, che donna fu di grandissimo valore, e per la strana assai vicenda di cui fu causa e che a Bernardo fruttò, per la casta costanza, il titolo di santo, se non l'aura del martirio. Perché martirio forse non vi fu, e la questione fu a lungo dibattuta fra le scuole di Parigi e Salamanca, delle quali Salamanca propendeva per il martirio, perché intendeva che martirio fosse sottrarsi all'amore di una donna nobile e bella quale fu madonna Isabella d'Aquitania, ardente di gioia e di passione e che prigioniero lo teneva tra le bianche dolcissime sue braccia. Parigi sentenziò che non martirio era, sibben follia. Ma si legga la cronaca di Provenza. (Per facilitarne la lettura abbiamo alquanto ammodernato il linguaggio).

"In quel tranello invero cadde Bernardo il dì che si recò ad Acque Seste, ove i fanghi tepidi o bollenti sempre han curato artrosi e reumatismi molcendo col calore le giunture, sciogliendo nodi e vari indurimenti accarezzando col tepor le membra. S'era Bernardo ridotto a tali cure per un dolore che aveva alla cervice venuto forse dalla fredda cella in cui Seneca studiava e Cicerone, e Girolamo il traduttore ed Agostino, e Platone e Aristotele e Plotino. La mano destra pure gli doleva e gli era nato per questo un gran timore che più non potesse scrivere sermoni che fustigassero le colpe delle genti che amano il corpo ed i piacer carnali. Solo per questo infine s'era indotto a sottoporsi a quelle cure ardenti, disteso nudo sopra un picciol letto, mentre donne vecchie vestite di nero versavano il fango in gran silenzio sopra le membra dolenti e irrigidite. E poi che s'era fatto freddo e duro, via lo lavavano con pura acqua di fonte. Ma udite del diavolo maligno bieca impresa e turpe ingannamento. Qui s'avvide un giorno il santo frate che la donna velata e vestita di nero, vecchia non era e il velo si toglieva, e scopriva volto ridente et amoroso sguardo. Mentre il fango già si rapprendeva, divenuto all'istante troppo duro, la bella donna sulla bocca lo baciava e trascorrer gli faceva per le vene quel fuoco dell'inferno maledetto che tanto aveva dal pulpito annunciato. Mentr'ella il capo coronato di perle sollevava sopra il suo misfatto, perché il santo non profferisse verbo altro fango gli poneva sulla bocca chiudendola al sacro sdegno prorompente. Allora il frate, quale guerriero audace, pronto a morire senza cedere al demonio, tentò levarsi per fuggir la peccatrice; ma a costei aveva appreso il diavolo in persona le trappole perverse dello inferno. Costei il suo corpo non col fango buono, ma con vile calcestruzzo avea coperto, che raffreddando s'era ormai indurito e come una corazza lo stringeva, inerme ed esposto ad ogni offesa. Nulla poteva se non rotare gli occhi, ardenti di fiamme sacrosante, mentre china su di lui la peccatrice, con mani audaci ed impudiche già andava accarezzando la fredda rigida corazza. E il santo, conscio del martirio, già presentiva la ferita aperta, la crosta vulnerata in qualche parte, la mano audace che, ladrescamente, gli rapinava virtute e continenza. Quasi avrebbe accettato in quel momento che fosse giusta la voce d'Abelardo, il frate spocchioso e peccatore, che predicava da un pulpito d'inganni che l'intenzione sola può peccare. E con tal dottrina lui non peccherebbe, che intenzione carnale non aveva quando, vestito dell'umile saio, era venuto a chiedere sollievo a quel dolore che gli insidiava gli arti. Ma l'immagine del monaco rivale già si sfaceva come nebbia al sole sotto lo sguardo caldo di quegli occhi che parevan penetrarlo fin dove non giunge umano sguardo. Già gli pareva che si sciogliesse il fango e la mano bianca trascorresse sulla pelle nuda, voluttuosamente".

Qui s'arresta la cronaca di Provenza. Come sia finita l'avventura di san Bernardo non si può sapere, perché alla cronaca manca, proprio in questo punto, un brandello di pergamena. La fama popolare, commossa dalla santità del frate, racconta che nell'ora invocata del martirio, a cui già il frate s'era rassegnato, venne dal cielo la colomba santa, la gran colomba dalle bianche ali, e con il becco spezzò quella corazza. La creta si coprì di crepe, il frate fece forza, e il santo fuggì via intatto ed innocente. Ma poco credito ha presso i sapienti questa ingenua voce popolare. Né importa molto a questa storia se fu salva la virtù di san Bernardo; si voleva solo raccontare che per qualche via, misteriosamente, la persona di Venafro si collega alla bella dama dei tempi andati, ma non troppo lontani. Certo però, se una qualche parentela legava il misterioso Venafro alla grande Isabella d'Aquitania, della madre non aveva certamente ereditato la gaiezza, né la leggerezza, né quell'aura d'eterna innocenza che delle belle donne fa il fascino potente e l'arte irresistibile e perversa.

Venafro era solitario e taciturno. Al castello era stato accolto come straniero, o esule, o parente. Godeva del favore della bella castellana, madonna Bianca di Challant, e del cognato di lei, il duca Franchino di Mantova, di cui diremo più avanti per quali strani sentieri del destino era giunto ad essere signore del castello dopo la morte del vecchio marchese Alfonso di Challant. Venafro, ma questo non era il nome vero, era giunto al castello dopo la morte del signore, quando in virtù d'una strana successione la bella marchesa di Challant, figlia legittima del vecchio signore, fu privata del feudo e del potere in favore del giovane duca di Mantova, vedovo inconsolabile della bella Eleonora, sorella di madonna Bianca, che l'aveva sposato contro il parere paterno ed era morta laggiù tra le paludi, di quel male che il Mincio produce dilagando tra i campi e nei villaggi. Si leva dal fiume impaludato un mortifero fiato, che nell'aria greve ristagna popolata di zanzare e pappatacci. Fu quell'alito morto a uccider la marchesa, il cui dolce capo, avvezzo all'aria pura che dalle cime discende per le boscose valli, al peso non resse della brumosa piana. Così tornò il duca al castello di Challant con il triste fardello d'una bara, e un lungo funebre corteo che dalla valle saliva fino al monte. Per il dolore morì poco dopo anche il vecchio marchese. Ma prima di morire aveva scritto un testamento.


Il testamento

Il duca di Mantova sedeva infreddolito nella sala del castello mentre il vecchio notaio Favretto, che era salito fin lassù a dorso della sua mula triste e reumatica, leggeva noiosamente il lungo testamento.

Certo il duca non ascoltava. O almeno non tutto. In esso il marchese Alfonso di Challant nominava erede di tutto il feudo proprio quel duca Franchino di Mantova, duca senza ducato, che di ogni guaio era stato causa certa, e privava dell'eredità legittima la più giovane figlia Bianca, la marchesa dai capelli neri. Ma quando si volesse conoscere l'intenzione vera che aveva dettato al marchese il testamento, si legga il codicillo e il comma dell'ultimo paragrafo con la clausola maligna e vincolante che il duca, nella fretta d'accettare, non aveva letto prima d'apporre la sua firma. La clausola diceva che l'erede avrebbe dovuto per il resto dei suoi giorni, infallibilmente fino alla morte, vivere casto senza femminil congresso. A far rispettare l'impegno di castità del duca secondo la lettera del testamento, erano stati chiamati dai conventi della valle dodici abati che vegliassero indefessi sulla virtù del duca e sul suo onore. Ed erano venuti, lunga fila nera, con cavalli e con mule, e s'erano insediati nel castello, coi loro servi, coi loro paramenti, con messali e con altre masserizie, e con i loro strani nomi oscuri: Malbrumo, Nevoso, Foscolo, Mistral, Umidio, Santoro, Prudenzio, Leonzio, Celorio, Ildebrando, Torchiato, Ipocondrio.

Qualche giorno dopo, una sera di settembre, quando i colchici cominciavano a fiorire nei pascoli annunciando i primi freddi d'autunno, una bella sera di settembre arrossata dal rimpianto dell'estate, era giunto anche Venafro. Chiamato, non si sa da chi; atteso, da nessuno. Era giunto solo, sul suo cavallo nero, senza seguito, senza scudiero. Aveva chiesto ospitalità alla marchesa. La marchesa aveva chinato il capo. Ed ora Venafro viveva in quel castello, in una stanza alta della torre, che di notte si distingueva sopra l'altre per un piccolo lume che vi brillava fino a tardi, occhio di fuoco nel buio della valle. In quella stanza, la notte, quando gli uomini e gli animali tacevano nel sonno, Venafro, solo, scriveva il suo erbario. Alcuni frammenti ne sono rimasti.

"Cresce nella mia terra il lauro severo, dalla fronda scura profumata di mare, che tutto l'anno verdeggia in cima alla scogliera. È la pianta degli amori freddi e casti, che durano tutta la vita perché non si consumano mai; è la pianta che Dafne condannò a simbolo di castità, opponendo la fredda scorza di legno al caldo bacio di Apollo.

Chi vuole amori più caldi scelga il rosmarino; anch'egli verdeggia tutto l'anno, ma quando si scioglie il duro inverno, si riveste di spighe azzurre e profumate che precedono il colore e l'odore dell'estate. Come l'amore, può durare ogni tempo; ma viene sempre una stagione che lo rinnova alla radice.

Chi vuole amori appassionati, scelga il verde melograno. Cresce nella mia terra al margine del pometo la sua dolcissima fronda color dell'acqua viva, che al sole di maggio fa radi fiori rossi: i fiori sono pochi, perché sono assai belli, ed ognuno in settembre dà un mirabile frutto di cristalli color sangue, che dura tutto l'inverno.

Chi vuole amore eterno, oltre il tempo e la vita, trovi la fredda albrizia, la pianta color ghiaccio che vive nelle nevi, immutata tutto l'anno. Non ha né fiori né frutti, perché non vive e non muore; la sua fronda non è verde né conosce alcun colore; non ha profumo né sapore, perché non vive e non muore. Non si moltiplica lungo le rive, perché non muore, quindi non vive." Un altro frammento dell'erbario di Venafro è "Il calicanto o albero della gioia".

"Se passi dove fiorisce il calicanto al primo fondersi dell'inverno, spezzane un ramo e non temere. Ricresce il calicanto più verde dove l'hai spezzato ed ha sulla tua vita un potere meraviglioso: t'insegna a godere d'una gioia rara e misteriosa, e tu potrai camminare sotto l'acqua d'agosto e non accorgerti pure che piove, correre in cima a un colle e non sapere se in salita fu la tua corsa oppure in discesa, e cosa mirabile invero ed assai rara, guardare un tramonto d'autunno con la certezza che il sole, in realtà, non tramonta mai." Non restano purtroppo altri frammenti dell'erbario di Venafro, né sappiamo con certezza se egli l'abbia mai portato a termine; infatti accaddero nel castello, a partire dal momento in cui egli vi giunse, molti fatti misteriosi e strani.


Il duca di Mantova

Il duca Franchino di Mantova avrebbe dovuto essere piuttosto un menestrello. E lo avrebbe anche voluto, forse. Infatti era biondo, esile, con gli occhi azzurri. Esattamente come dovrebbero essere tutti i menestrelli. E perpetuamente innamorato. Anche se non sapeva amare.

L'unica volta che aveva coronato il suo sogno d'amore, aveva sposato la marchesa Eleonora di Challant, ed era stato un disastro. La sua fragilità nervosa non aveva retto. Se non fosse morta prima la marchesa, sarebbe certamente morto lui. Ora si compiaceva della sua condizione di vedovo, perché il nero del lutto gli donava. E poi le donne si innamorano volentieri di un giovane vedovo, soprattutto d'un vedovo biondo. Così, tra sincera malinconia e compiacimento della stessa, tra gramaglie e pizzi candidi di Bruges con cui ornava i suoi abiti neri, il duca Franchino passava i suoi giorni al castello di Challant, assorto nei lunghi tramonti alpini, componendo canzoni sulla viola d'amore. E questa era veramente la sua arte, l'unica. Egli, che aveva dimostrato nell'amministrare il suo ducato tanta inettitudine da uscire fallito da una terra ricca e florida di agricoltura e commerci, da uscirne, vogliamo dire, fallito e squattrinato lui, lasciando intatta la ricchezza del suo paese che ancora lo rimpiangeva e lo amava, ebbene quel duca fallito componeva rime e ritmi sulla viola d'amore. Spesso tutta la notte brillava il lume alla sua finestra e faceva riscontro a quell'altro lume che brillava più in alto, nella torre, ed era il lume di Venafro che scriveva il suo erbario.

Quando aveva firmato l'accettazione del testamento, il duca Franchino stava cercando una rima difficile per una ballatetta che cominciava "il pensiero che al zefiro s'affida...", e in tale ricerca era tutto immerso al punto che non aveva inteso più nulla della lettura del testamento. Quanto a leggere lui stesso il testamento prima di firmarlo, se n'era dimenticato. O meglio, se n'era guardato bene.

D'altra parte, chi pensasse che il duca era interessato a quella eredità sbaglierebbe di molto; al contrario, prevedeva seccature, amministrazione di beni, amministrazione della giustizia tra i nuovi sudditi, rapporti di vicinato con i signori confinanti eccetera. Tutte cose per cui non aveva nessuna vocazione. Ma aveva accettato, perché gli sembrava brutto non accettare, perché di solito si fa così; il perché, in fondo non lo sapeva neanche lui.

Così ora si trovava vincolato ad un impegno grave e ineluttabile, che obbligava il suo onore, e ancor più la sua vita perché quei dodici abati venuti apposta per sorvegliarlo, evocati dal testamento stesso del diabolico vecchio, non lo abbandonavano un istante, se non quando si chiudeva la sera nella sua camera del castello, solo.

In un primo tempo, benché alla tardiva lettura del codicillo avesse provato una stretta al cuore, non vi aveva dato molto peso. Era un momento in cui gli pareva di non avere desideri.

Ma nacquero subito, il giorno dopo, all'alba. Fu nel risvegliarsi, quando forse un brandello di sogno indugiava sulla soglia della sua coscienza, un fragile brandello, che non oltrepassò quella soglia e si sciolse in un muto senso di gioia e di calore che si sparse per le membra ancora immerse nel sonno, serpeggiò nel sangue addormentato e tutto il corpo riempì a un tratto di vita e di piacere. E il duca si svegliò come in un giorno di festa.

La festa durò fino al momento in cui il duca entrò nella sala del castello. E vide gli abati. Per la verità non tutti si occupavano di lui. Alcuni erano affaccendati in loro imprese personali e in queste completamente assorti. Ma non, per esempio, Ipocondrio. Egli scorse subito il sorriso sul volto del duca. E di dove nasce un sorriso? Dal peccato. E qual è il peccato? La carne. Il duca doveva essere un assai fragile peccatore, perché il sorriso fuggì subito dal suo volto come un uccello sorpreso dall'inverno.

Poi, la notte successiva, sognò. Sognò che seduto sulla sponda del letto svegliava una donna addormentata. Era l'alba, e quel sonno, non sapeva perché, l'offendeva. Svegliava la donna che dormiva chiamandola per nome, ma quale nome, non sapeva. Chiamava piano, a lungo, finché la donna sollevava la testa e gliela posava in grembo. E lui, allora, sentiva l'odore del suo corpo.

Nei giorni seguenti il duca Franchino si ricordava del sogno tutte le volte che era vicino a una donna, e allora aguzzava il naso per riconoscere quell'odore che aveva sentito nel sogno, ma così, senza darlo a vedere, da quella persona ben educata che era. Perché l'odore era la cosa che più gli era rimasta impressa: non il volto, non lo sguardo; ma solo la poca luce dell'alba e il tiepido odore tranquillo.

Ogni corpo ha un suo odore. Ogni persona che si ama, si ricorda anzitutto all'odore.

Ma chi amava il duca? Non madonna Camilla, damigella della marchesa, che lo saettava di sguardi di spregio perché vedeva in lui un assurdo straniero. E poi era magra e severa. Non la damigella Ildegonda, alta e bionda. Appunto, d'una spanna più alta di lui. Forse Pilar, venuta dalle corti moresche di Spagna? O la bella Maravì, della corte angioina di Napoli? Stretto nel dubbio, il duca cominciò a indagare.

Indagava se stesso e gli altri. Anzi, le altre. Ad ogni vicinanza, ad ogni casuale contatto, appuntiva i suoi sensi, acuiva il suo ingegno, si tendeva tutto, e spiava il viso della donna, quella che gli era accanto di volta in volta, per indovinare, scoprire la verità. Voleva sapere chi era la donna del sogno. Voleva sapere chi era la donna che amava. E aguzzava il naso per ritrovare l'odore.

Il duca ripensava a quel sogno una sera guardando il precoce tramonto d'autunno che già immalinconiva per la valle. Quando un bussare precipitoso alla sua porta lo fece trasalire. Era il giovane Irzio, paggio della marchesa e giovinetto ancora imberbe, che nella fretta d'annunciargli qualche cosa incespicava nelle consonanti e tentava di completare a gesti il messaggio. Il duca non avrebbe capito molto se non avesse udito un suono di liuto salire dal basso, dalla sala del castello. Mentre scendevano insieme le scale il paggio Irzio riuscì a dire che a corte era giunto, proprio allora, un trovatore.

Tutti si affrettavano verso la sala, dove la marchesa e le sue donne già sedevano; Venafro stava in piedi alle spalle della marchesa, e gli abati giungevano da varie parti del castello.

Avevano formato un circolo, in mezzo al quale sedeva, su un basso sgabello di noce, il trovatore. E accordava il suo liuto. Quando il duca lo vide, rimase attonito. Credette di vedere se stesso, forse più giovane, forse più bello, forse quel se stesso che egli avrebbe voluto essere. I grandi occhi azzurri del trovatore, quando si alzarono dal liuto, erano gli occhi di un eterno incolpevole. Sorrise e intonò "can vei la lauzeta mover..." Quando la bella canzone nostalgica fu terminata, la marchesa chiese "Calenda maia". Il duca ascoltava assorto. Allorché risonarono, appena confusi col suono del liuto, i versi audaci di Rimbaut che rinfaccia alla donna di non averla mai avuta nuda tra le braccia, il duca ebbe un sussulto e guardò la marchesa. Gli parve che lei lo stesse guardando. Poi, a richiesta delle donne, fu suonata una danza. Venafro si avvicinò al trovatore e lo accompagnò con il suo flauto provenzale: tutte le donne, anche la marchesa, danzarono in circolo; danzò anche il duca e teneva per mano la marchesa; danzava anche l'abate Mistral, che tra gli altri abati si distingueva perché fin dal primo giorno aveva smesso la lunga tonaca nera e vestiva da cavaliere; e quale agile cavaliere amava i cavalli e la danza. Il duca di Mantova danzava con grande maestria, senonché quando la danza voleva che girasse il capo dalla parte dove stava la marchesa, egli precedeva di un attimo il tempo; quando doveva girarlo dalla parte opposta, il suo movimento giungeva in ritardo.

Finita la danza la marchesa fece preparare le tavole per la cena e volle che il giovane trovatore sedesse a capo della tavola, accanto a lei, alla sua destra, ed ella stessa lo condusse tenendolo per mano.

Veloce come un giovane gatto il duca si sedette alla sinistra della marchesa, e già stava per avvicinare allo scanno della marchesa il suo che gli pareva troppo lontano, o forse non abbastanza vicino, quando, non veloce, ma con pesante determinazione l'abate Umidio pose il suo scanno tra lui e la marchesa; e altrettanto pesantemente su questo, nel mezzo, si sedette. Poi si voltò, l'abate Umidio, verso il duca che lo guardava stupito, gli alitò in faccia il suo fiato pesante, abbassò la testa sulla tavola e si immerse nel cibo.

Il duca guardò il cibo senza appetito. Alzando gli occhi vide che Venafro, di fronte, lo osservava.

La marchesa discorreva col trovatore di poesie e di danze nuove venute di Provenza e d'Aquitania: vestiva un abito color d'argento che moltiplicava la luce dei grandi lumi infissi alle pareti e li turbava ad ogni movimento delle braccia e del corpo.

Quella notte il duca non poteva risolversi ad andare a letto. Sedeva alla sua finestra e guardava la luna che imbiancava la valle. Come un anello bruno le alte e doppie mura che cingevano la corte spiccavano sul lucore intatto. Ogni cosa era immobile nella notte e nulla turbava la grande luce bianca.

A un tratto il duca vide un gran cavallo nero, montato da un cavaliere vestito di nero, che attraversava al galoppo la corte e senza rallentare s'avventava alle mura e una dopo l'altra le saltava d'un balzo. E nero s'allontanava nella valle bianca col nero mantello svolazzante alle spalle. Un raggio di luna brillò accanto a lui; un cavallo bianco, rivelato solo dall'ombra che proiettava alla luce lunare, si profilò accanto al cavaliere nero e s'allontanò al galoppo con lui.

Il duca fissava attonito la valle. L'ombra nera del cavaliere era ormai lontana e la luna raggiava intorno, immobile. Egli non era più certo se aveva visto, o creduto di vedere, il cavallo bianco e il lucore di luna che lo montava. E chi era il cavaliere nero? Venafro? Mistral? Il trovatore? Dormì assai poco il duca, quella notte. E il suo risveglio fu quello di un uomo turbato e un po' triste. Pochissima luce entrava dalla lunga sottile finestra che si apriva nella parete. Le mura, la valle, gli alberi, tutto era sparito avvolto nella nebbia che a fitte ondate saliva e fluttuava, e un silenzio immenso gravava sulla terra.

Sembrava che la vita fosse fuggita da quei luoghi. Il duca ripensò alla sera precedente, la sala splendente di lumi, il liuto del trovatore, la "branle" che aveva danzato stringendo la mano della marchesa, il suo vestito color luna... il cavaliere nero... quella fuga nella valle... Forse nel salone avrebbe ritrovato qualcuno, forse c'era ancora il giovane suonatore, avrebbe rivisto quello sguardo azzurro, suonato con lui. Forse c'era la marchesa. Certamente ci sarebbe stato il fuoco acceso nel grande camino.

Ma quando si affacciò alla soglia del salone il duca sentì naufragare la sua speranza. Il fuoco, sì, era acceso nel camino, ma alla debole luce della nebbia sedevano dodici figure nere, sul fondo del salone, a consulto. Sedevano gli abati sugli alti lor scanni, accigliati e pensosi, con rade parole. E tutti volsero insieme la testa a guardare il duca con muto sguardo severo.


La marchesa di Challant

La marchesa di Challant aveva l'abitudine di uscire a cavallo la sera prima del tramonto, con qualunque tempo, d'estate e d'inverno, col sole, col vento, con la neve e con la pioggia. La marchesa di Challant possedeva lunghi mantelli che coprivano a metà anche il cavallo, di seta d'Arabia per le calde sere d'estate, di velluto e di lana per i primi freddi d'autunno, di folte pellicce per l'inverno.

La marchesa di Challant possedeva due splendidi cavalli, uno bianco e superbo, dal trotto lento e solenne, dal lungo collo robusto e dolcemente flessuoso. Quel cavallo si chiamava Ippomele. Quando cavalcava il suo bianco Ippomele la marchesa di Challant si vestiva tutta di bianco, bianco il mantello, bianco il velo, bianco il grande cappello posato sul velo. L'altro cavallo era nero come la notte, agile nervoso e scattante, col corpo sottile come un puledro, il collo lunghissimo e lunghissima criniera. Amava il galoppo e mal rispondeva alle briglie e al morso. Quel cavallo volava come un angelo della notte, e si chiamava Yvars. Quando cavalcava il suo nerissimo Yvars la marchesa di Challant si vestiva tutta di nero. Nero il mantello, nero il velo, e nero il cappello posato sul velo. La marchesa di Challant era assai bella.

Molti giorni trascorsero sereni quell'anno prima che la neve e il gelo si impadronissero della valle per un tetro interminabile inverno. E ogni sera la marchesa usciva, sola o in compagnia, per la sua cavalcata prima del tramonto. Qualche volta partecipava anche il duca, e allora anche gli abati, tutti o in parte, cavalcavano con lui senza perderlo di vista.

Una sera, mentre triste sedeva alla sua finestra e attendeva di vedere uscire la marchesa a cavallo, il duca fu chiamato dal paggio Irzio nel salone del castello, ché madonna voleva, subito, parlare a tutti.

Quella sera la marchesa di Challant aveva rinunciato alla sua cavalcata. Ippomele e Yvars erano rimasti ad attendere nella stalla, invano. Segno che qualcosa di grave era nell'aria. Ecco infatti che cosa accadde.

Quando gli ospiti scesero nel salone trovarono la marchesa già seduta nel suo grande scanno di quel bellissimo legno di ciliegio che diventa sempre più rosso col passare del tempo. I capelli neri erano raccolti in trecce e ad ogni treccia era avvolto un filo di perle bianche come latte. La marchesa teneva in mano un foglio e si apprestava a leggere: "Si fa obbligo e raccomandazione a tutti i signori dimoranti in questo castello che qualsivoglia pozione, distillato o infuso che essi traggano da erbe, fiori o fronde, sia custodito nelle rispettive stanze di ciascuno, e massime i veleni. In caso di inadempienza si provvederà contro le singole persone secondo che le circostanze, la natura del filtro e le conseguenze potranno suggerire. Si diffida pertanto qualsivoglia persona dal distillare o filtrare succhi sospetti o perniciosi alla vita, e ancor più dal lasciarli incustoditi nelle sale del castello o nelle stanze altrui".

Per capire il senso di queste parole strane bisogna sapere che alcuni giorni prima era accaduto un fatto assai increscioso. Era successo che uno di questi succhi aveva causato, accidentalmente, la morte dell'abate Umidio. Fu un succo di colchici. E fu una sera d'ottobre.

La valle di Challant era ancora fiorita di quei delicatissimi fiori indaco-rosati che traggono vita da un piccolo bulbo biancastro profondamente infisso nel terreno, e da quel medesimo bulbo traggono il rarissimo colore che domina i pascoli in autunno. Non hanno alcun profumo. Si chiamano colchici, forse perché, come dicono alcuni, il loro bulbo fu portato per mare dalla lontana Colchide misteriosa, la magica terra dei veleni. Dai colchici nasce un succo velenoso.

Verso il tramonto di quel giorno sereno d'ottobre, nella luce ancora calda e mirabilmente dorata dell'astro già inclinante sull'orizzonte, la marchesa di Challant era uscita a cavallo, sul bianco Ippomele, per una lenta e quieta cavalcata. Sotto il mantello bianco indossava una tunica indaco-rosata che dal dorso del cavallo scendeva fino a sfiorare la terra. Ma quella volta non fu sola a cavalcare.

Cavalcavano con lei le damigelle di corte, e le era accanto madonna Camilla; cavalcava il duca Franchino, cavalcava l'abate Mistral, e chiudeva il piccolo corteo, sul suo grande cavallo nero, avvolto in un ampio mantello di nero velluto, Venafro.

Venafro sapeva tutte le virtù delle piante e spiegava al duca quanto fosse letale il potere di quei fiori che così delicati sono al tatto e alla vista, ma qual benefico influsso possa avere un mortifero succo, preso in piccolissima dose, per curare certi affanni del respiro, le pericolose accelerazioni del sangue e del cuore, gli acuti dolori delle membra. Non c'è male, egli diceva, che non possa essere anche un bene, non c'è maleficio che non si possa ridurre a beneficio, non c'è cosa negativa al mondo, che non abbia anche un influsso positivo. Il duca l'ascoltava così filosofare, e l'ascoltavano anche le donne mentre scendevano per i poggi che dal castello di Challant digradano giù nella valle, nei pascoli fioriti di colchici. Lì giunti, tutti smontarono e passeggiarono a lungo per i prati fioriti. La marchesa sedette su una roccia e la sua tunica indaco-rosata si sparse sull'erba come un grande fiore d'autunno. Il duca sedette ai suoi piedi nell'erba, e la guardava.

Le damigelle intanto coglievano fiori nei prati ed era un gaio spettacolo vedere le lunghe vesti colorate correre sull'erba, quale azzurra e quale rossa e quale del lieto colore del sole. Fino al tramonto durò quella festa sul prato. Quando la malinconia dell'ombra dilagante nella valle le chiamò al ritorno, vennero tutte con le mani piene di quei fiori per adornarne le stanze in bei vasi di vetro e d'argento.

Sulla via del ritorno, mentre i cavalli salivano lentamente verso il castello, Venafro spiegava alle donne come si estrae il succo dai teneri colchici, facendoli bollire a lungo finché tutta la virtù medicinale sia uscita dalle fibre vegetali, che poi, spremute, si gettano via. Il succo prezioso si passa in un filtro color amaranto e mescolato a miele e zenzero purissimi diviene quel liquore portentoso che può guarire, a gocce, le tristi malattie, e può, in dosi errate, indurre il gelo della morte nelle membra.

Qualcuno forse, nella lunga sera d'autunno, avea per suo sollazzo distillato quel liquido ch'è pernicioso oppur benefico come tutte le cose della vita, che hanno a un tempo un volto gaio e uno triste, e possono donare gioia o dolore, letizia o sofferenza, poiché la provvidenza volle, proprio essa, che in tutto fossero insieme confusi il pianto ed il sorriso.

Così accadde che l'abate Umidio, il pio abate che di molti acciacchi di corpo soffriva, vuoi per l'età, vuoi per le fredde mura del castello e l'umido fiato delle notti d'autunno, l'abate Umidio che sempre mormorando saliva lentissimamente le scale appoggiato al suo bastone di nocciolo e che aveva nella sua piccola stanza gran dovizia di vasi e di fialette, quale piena a metà e quale fino all'orlo, di pozioni e distillati misteriosi che alleviare dovevano i dolori delle vecchie membra, e ai quali attingeva come a provvida speranza ogni sera prima di scordare nel sonno i suoi mali, l'abate Umidio, cui pochi capelli bianchi incorniciavano la testa calva e il volto corruccioso, il mattino dopo, inspiegabilmente, era morto.


Il viaggio dell'abate Nevoso

Le esequie dell'abate Umidio furono gravi e solenni, come si conveniva al suo stato e al rango dei castellani suoi ospiti. Il duca volle che nella chiesa fossero cantati i salmi di Davide trascritti per più voci dal grande Gregorio, e la marchesa stessa con le sue bianche mani depose sulla pietra tombale, una volta richiusa a livello del pavimento nella chiesa del castello, una ghirlanda di quei fiori che s'usa intrecciare con paglie di grano ed altri erbaggi disseccati quando l'autunno bandisce dalla terra foglie e fiori. Poi gli abati si unirono in capitolo e decisero che uno d'essi scendesse a valle, al convento di Sant'Orso, da cui proveniva l'abate Umidio di buona memoria, a portare la novella della cruda dipartita del fratello Umidio, e a dire che, santamente spirato, ormai si giaceva nella pace dei giusti. A tale incombenza la sorte destinò l'abate Nevoso, ancor giovane d'anni e assai robusto e corpacciuto, ma pigro ed amante dei tepidi ozi più che delle cavalcate nel freddo dell'autunno. Ancor meno egli amava i cavalli, dei quali anzi aveva sommo orrore, sì che per i suoi viaggi soleva servirsi di un mite e piccolo asinello su cui a fatica si reggeva la sua gran mole col peso della carne e del sapere.

Assai cortesemente si offerse Venafro di essergli compagno al viaggio accidentato vuoi per i pendii erti e malfidi, vuoi per il cielo minaccioso dell'autunno.

E partirono. Venafro teneva forte con la briglia il suo grande Rabano generoso perché seguisse il passo faticoso dell'asinello che, a testa bassa, trascinava la sua gran soma. Era un asinello piccolo e grigio, e con la schiena sorpassava di poco la pancia del cavallo. Non aveva ornamenti né sonagli, neppure un fiocco, né il suo padrone gli parlava mai nel viaggio, né gli dava voce; gli dava bensì gran calci nella pancia perché allungasse il passo. Venafro lo guardava dall'alto del suo fortissimo Rabano, e pensava che alla povera bestia non era stato dato neppure un nome.

Scendeva la nebbia sui poggi boscosi mossa da un umido vento protervo, e per freddo e tristezza rabbrividivano uomini e animali. Quando si fermarono a riposare in una capanna di montanari, Venafro comprò buon fieno per il suo Rabano e lo divise in due parti uguali. Una la mise davanti all'asinello accarezzandogli il collo freddo e sudato. La bestia lo ringraziava strofinandogli il muso sul mantello.

Al convento si fermarono poco: Nevoso non volle pernottare e malgrado le bestie, soprattutto l'asino, fossero evidentemente provate dalla fatica, insistette per partire dopo aver pranzato. Ma se duro era stato il viaggio di andata, ancor più duro fu il viaggio di ritorno.

Quello era in discesa, il ritorno fu in salita. La nebbia inoltre s'era condensata in neve larga e molle che impastava i sentieri e li rendeva scivolosi. Rabano tirava gagliardamente con passo sicuro; l'asino arrancava sdrucciolando nella poltiglia fredda. Là dove cominciava la salita Venafro propose di sostare per ristorare le cavalcature. Ma Nevoso non volle, ché sperava di giungere al castello prima di sera, ché temeva che la neve gelasse sulla strada, ché smaniava di trovarsi nel calore del camino davanti una tavola imbandita. Invano Venafro gli disse che l'asino era stanco, che la strada era ancor lunga, che potrebbero anche dormire in un casolare per via. Nevoso non intese ragioni.

E l'asino tirava a testa china, inarcando la schiena sotto il grave peso dell'abate. La neve scendeva sempre più fitta e gelida a mano a mano che i due uomini salivano dal fondo della valle. Camminavano in silenzio. Venafro era assai triste. A un tratto l'asino piegò le zampe anteriori e cadde in ginocchio. Maledicendolo, Nevoso cercò di farlo alzare a furia di calci nella pancia.

- Se non volete che l'asino muoia, dovrete proseguire a piedi, - disse Venafro. L'abate non rispose. Bestemmiando riuscì a rialzare la sua cavalcatura e montò in groppa. L'asino proseguì ansimando per qualche centinaio di metri; ma la salita diventava più ripida e la terra gelata gli sfuggiva sotto le zampe. Quando il castello di Challant apparve alto sulla valle al di sopra della nebbia, l'asino stramazzò a terra trascinando nella caduta il suo cavaliere. A fatica l'abate si districò dalla bestia e tentava di farla rialzare a calci. Ma Venafro scese dal suo cavallo, allontanò l'abate e trascinò l'asino sul ciglio della strada. Poiché era morto.

E non disse nulla.

Cosi giunsero al castello, Venafro a piedi tenendo le briglie di Rabano su cui stava inerpicata l'immensa mole di Nevoso.


Enrico da Morazzone, inventore

Da qualche giorno era cessato di nevicare e il sole risplendeva sulla valle innevata. Fu in uno di quei giorni di sole che Enrico da Morazzone giunse al castello di Challant. Veramente giunse al castello, assai prima di lui, un suono di campanelli che saliva dal fondo della valle e si spargeva festoso nell'aria. Tutti accorrevano a vedere, i contadini si affacciavano sull'uscio di casa, i bambini si arrampicavano sugli alberi, i vecchi si trascinavano sul ciglio della strada, i servi del castello correvano a sporgersi tra i merli delle mura, le donne s'affacciavano alle finestre. La marchesa uscì sul verone verso la valle.

Il suono dei campanelli s'avvicinava allegramente, s'avvicinava sempre più, finché in fondo alla strada apparve un carro tirato da due cavalli al trotto, montato su una slitta e guidato da un personaggio alto, in piedi sul carro, che schioccando la lunga frusta faceva cadere dagli alberi gli ultimi fiocchi di neve impigliati tra i rami.

Allora tutti videro che lo scampanellio veniva da tanti minuscoli campanellini legati ai finimenti dei cavalli.

Enrico da Morazzone era alto e magro, vestito di una palandrana verde che gli scendeva diritta dalle spalle alle caviglie e, quando alzava le braccia, gli dava l'aspetto di un lungo rettangolo verde. Schioccò verso l'alto la frusta in segno di saluto. Poi vide la marchesa al balcone e si inchinò portando la mano destra sul cuore. E si presentò: messer Enrico da Morazzone, inventore. Subito una folla di bambini, vecchietti e contadini curiosi gli si fece incontro, circondò il carro, fece tinnire i campanelli, accarezzava i finimenti di velluto, toccava gli oggetti misteriosi che si trovavano sul carro, mentre i cavalli nitrivano di compiacimento. Ma tra la folla si fece largo il paggio Irzio, giovinetto di primo pelo e unico paggio della marchesa, ad invitare, a nome dei suoi signori, l'inventore alla corte.

Era quella dolce ora del meriggio in cui più lieti gli animi intendono all'attesa del pranzo in piacevoli conversari e amichevoli contese. E discorrendo s'inganna l'appetito con blandi sorsi di vino puro, vuoi bianco, vuoi rosso, ma sempre assai secco e generoso. A tale occupazione erano intenti i signori della corte quando messer Enrico da Morazzone fu introdotto dal paggio Irzio nel salone del castello.

Si inchinò leggermente sulla soglia, poi senza esitazione si diresse verso la marchesa.

- Madonna, - mormorò inginocchiandosi davanti a lei e baciandole lungamente la mano. La marchesa sorrise e col gesto della mano rialzò lo sconosciuto. Egli poi si volse al duca e si presentò inchinandosi leggermente con la mano sul cuore, poi accennò un inchino a Venafro, poi circolarmente in giro, indi si sedette su uno scanno che il paggio gli porgeva. Sollevò la sua coppa all'indirizzo della marchesa, e bevve un lungo sorso da cui parve trarre grandissimo piacere; chiuse un attimo gli occhi poi parlò: - Signori, v'ho detto il mio nome; ma certo esso suona nuovo alle vostre orecchie. Fin qui non giunge la mia fama. Lontanissima di qui giace una terra dolce di vigne e d'uliveti, ove d'inverno fiorisce la mimosa e il cielo riflette il colore lieto del mare. Siede una città in quella terra, ricca di chiese e di palazzi, potente di flotte e di ricchezze, una città tra il monte e il porto, che ad ogni ora si specchia nelle sue navi e nei ricchi equipaggi, nel lavoro che ferve intorno ad esse, nelle macchine grandissime e nuove che smontano le merci dalle navi, e nel velame gonfio di vento dei vascelli che salpano per il vasto mondo. Genova è il suo nome. Là io nacqui. Là vissi ricco ed onorato, fin quando la stoltezza degli uomini, o la sorte, alla mia città mi resero nemico, sì che ne fui esiliato, io, per sempre, per tutta la mia vita. Fu a causa delle mie balestre.

Avevo già per la mia città costruito argani e verricelli, ponti mobili e mille altre macchine ingegnose, e a tutte i congegni inventati dalla mia mente avevan dato una potenza che ai più pareva arcana, sì che tra i semplici e ignoranti già m'ero fatto fama di negromante. Forse l'audacia, o forse l'amor dell'inventare, mi stimolò sì che volli, in superbia, superar me stesso. E costruii quella che doveva essere coronamento alla mia scienza, macchina mirabile eppur semplice assai, che maggior potenza doveva dare alla mia terra e ai suoi eserciti, perché la macchina era da guerra, micidiale come se fosse maneggiata da giganti, ma congegnata in modo che un debole infermo, od un bambino, potevano da essa trarre strali mortali. Fu la balestra a molla, la più bella delle mie invenzioni, da cui m'attendevo la gloria del mondo e la riconoscenza dei miei concittadini. Ma l'invidia dei potenti, e la sorte maligna, che più offende là dove più si spera, mi colpì con quella balestra istessa cui avevo dedicato amorose cure. È una balestra il cui arco si tende, anziché con la volgare forza delle braccia, per il mezzo d'una chiave che girando avvolge una robusta molla: si punta l'arnese, si arma, si libera la molla, e il proiettile parte come spinto dalla forza di un gigante. Anche un vecchio, un bambino, un malato, può con quella macchina portentosa combattere in battaglia contro un esercito nemico. Ma quando presentai al Consiglio la mia macchina diletta, risero quei folli, resi ciechi d'invidia, e proclamarono che le braccia dei genovesi di molle non avevano bisogno, e che senza stratagemmi avrebbero vinto ogni battaglia. Fu allora che, piagato in cuor dalla ripulsa, vendetti la balestra a quei di Pisa.

Era il tempo che i pisani, più volte sconfitti dai genovesi, pochi uomini abili avevano al combattimento, e sui ponti delle navi avean chiamato bambini e vecchierelli e chi aveva trascorso la sua vita a leggere libri polverosi. Non avean speranza di vittoria, quei pisani, se non fosse per un caso mirabile e insperato. Quel miracolo fecero le mie balestre, che a centinaia costruirono i pisani sul mio disegno. E n'ebbi trenta scudi di Francia. E da Genova fui esiliato per tutta la mia vita e bruciato in effigie, perché mai più tornassi in quella terra che amavo. Ora vendo le mie macchine per i mercati del mondo, senza patria, senza casa, tra le nevi dei monti, lontano dal mare ch'io vedevo ogni giorno incurvarsi azzurro sotto il cielo. - Qui tacque e cupamente bevve dalla sua coppa.

- Quei trenta scudi, - soggiunse, - li spesi per comprare il carro, i due cavalli e tre misure di campanelli di bronzo.

- Tre misure di campanelli? - chiese la marchesa.

- Sì, madonna. Quei campanelli che forse udiste tinnire al trotto dei miei cavalli. Cinque scudi mi costò il carro, venti i due cavalli, ottime bestie anche da cavalcare; mi rimanevano cinque scudi, che pensai di mettere a capitale comperando campanellini di bronzo, che hanno il suono quasi dell'argento. Erano gli ultimi scudi che mi restavano e dovevo impiegarli bene.

- Non capisco, messere, - intervenne il duca, - perché pensaste di impiegarli bene comprando tre misure di campanelli...

- Poiché nulla di bello al mondo mi restava, monsignore, volli che almeno il tinnir dei campanelli mi sovvenisse la gioia passata, o accennasse alla futura, se mai alcuna per me ci sarà. E se la gioia non è nel mio cuore, devo fingere che in qualche luogo ci sia, ove non so, e che la comunichi a chi ode, perché è principio di vita e d'ogni bene che al mondo si faccia, sì che, ove gioia non c'è, è d'uopo che s'inventi, si finga e altrui s'imponga. - E dopo una pausa soggiunse: - I miei cavalli almeno godono di quei campanelli che gli allevian la fatica della salita, e la noia del viaggio nella nebbia.

Quando messer da Morazzone così ebbe parlato, tutti tacquero pensando al senso delle sue parole. Venafro s'alzò e a tutti mescé da bere, dicendo che poi, quando s'avesse mangiato e bevuto in pace ed allegria, egli avrebbe volentieri esaminato le macchine di messer Enrico, ché già da tempo sentiva crescere in sé grande interesse per cotesta scienza intesa ad alleviare agli uomini le fatiche dell'opre e della vita. Vennero intanto i servi ed imbandirono le mense. Ma anche durante il pranzo il discorso si aggirò sulle macchine e sul potere che esse dànno all'uomo e sulla bellezza di veder nascere il movimento, quasi tangibile miracolo, dall'allentarsi di una molla prima compressa.

- Oltre alla molla, che di tutti i sistemi è il più facile a porsi in opra, altri infiniti la natura ne fornisce atti tutti a produrre il movimento. All'uomo non occorre che leggere nel gran libro della natura, e ad ogni pagina che volta, può trovare insegnamento a mirabilmente operare per produrre ciò che serve alla vita, ed anche ciò che non serve, ma talmente seduce che vien creduto necessario.

- Conoscete altre sorgenti di movimento, messere? - chiese Venafro, che di tutti pareva il più interessato a quei discorsi. Enrico da Morazzone lo guardò a lungo col suo sguardo azzurro e un po' diffidente. Indi sorrise e rispose: - Certamente, monsignore. Basta una differenza di temperatura a generare movimento. S'accenda un gran fuoco, e l'aria riscaldata si solleverà verso l'alto come un corpo che perda peso. Nel vuoto lasciato dall'aria calda v'accorre quella fredda, che più pesa, ed ecco attuato un movimento che opportunamente imprigionato può esser messo in opra. Quel gran fuoco che è il sole, che perpetuamente arde, già provoca questo moto nell'aria, là dove nascono i venti chiamati alisei, che incessantemente come gran macchina si muovono tra quella più calda zona della terra che chiamasi equatore e le altre propinque ove il sole si ferma al volger delle stagioni per ritornare sopra i propri passi.

Tutti tacevano pensosi cercando di coglier colla mente tesa il senso difficile del discorso, difficile soprattutto per chi del sole conosceva il corso obliquo delle terre settentrionali e l'orizzonte interrotto dai continui monti.

- Questo movimento, - proseguì l'inventore, - si volge uniforme e senza interruzioni, sì che può dirsi esser quel tanto favolato moto perpetuo, che d'ogni scienza è sempre stato la speranza celata e il desiderio.

- Ma è possibile, - l'interruppe Venafro, - mettere in opera una macchina che perpetuamente si muova alla forza di quei venti?

- Forse, - rispose pensieroso l'inventore. - Ma richiede altissimo ingegno ed istrumenti di tanta mole da imprigionare il vento. Ed io in quelle terre mai non fui ove spirano i venti alisei. Ne udii solo parlare da gente ch'era stata alle crociate, e dagli arabi aveva la notizia. Sono cose lontane e per questo ci paion favolose. Ma facendo nel mare i miei esperimenti, dal mio vascello che aveva nome Ulisse, altro principio scoprii di continuo movimento che può attuarsi in ogni luogo ove sia dell'acqua, mare, o stagno, oppur riviera.

Qui si interruppe e guardò attentamente Venafro.

- Voi sapete quel che sentenzia Archimede sulla spinta che i corpi ricevono nell'acqua dall'elastico elemento che li spinge verso l'alto e li fa galleggiare, e tanto più lievi galleggiano quanto più grandi si stendono sul liquido elemento. Bene, su questo principio ho costruito macchine assai belle che costantemente muovono e generano movimento. Ma le mie invenzioni più belle son quelle che muovono dalla molla compressa.

Quando il pranzo fu terminato messer da Morazzone presentò a Venafro la più bella, la favorita delle sue invenzioni.

- Questa, monsignore, è la macchina da far saltar le mele. - Venafro lo guardò in silenzio. E l'inventore continuò: - È fatta d'un albero cavo in cui passa una molla; dall'albero si parton ramicelli, pure cavi e percorsi da molle internamente, che collegate sono con la molla centrale. Ogni ramicello termina con una cucchiaia che quando la molla, prima compressa con una vite, vien liberata, principia a girare e sempre vorticosamente gira finché la forza della molla non si spegne. Or se ogni cucchiaia sorregge una mela, una bella mela rossa, ogni mela salterà con bellissimo effetto, che se sette sono i ramicelli, sette belle mele salteranno insieme con movimento pari e pari forza.

- Ma a che può servire, messere, uno strumento pure sì bello? L'inventore lo guardò con lieve sguardo di scherno. - Chi dice che debba servire a qualcosa? La macchina è bella per la sua bellezza e non occorre che anche utile si mostri. E poi, - proseguì con voce raddolcita, - anche quando le macchine son utili, tal lavoro richiedono e fatica d'uomini a produrle che essa sarà sempre maggiore della fatica che risparmiano a chi le usa. Ma è la macchina una tal sirena che avvince l'umanità e la fa sua schiava. Giorno verrà che uomini faticheranno, proprio come adesso e forse ancor di più, per produrre macchine che allevino loro la fatica di camminare, di arare i campi, di far qualunque cosa. Giorno verrà che l'uomo, quello che ora è contadino e s'alza all'alba per andare nel suo campo con la pioggia e con la nebbia, giorno verrà, benché sia ancor lontano, che quell'uomo, non più contadino, s'alzerà all'alba e viaggerà nella pioggia e nella nebbia in lunghe file lente per andare negli immensi opifici ove si costruiscono le macchine che dovranno liberarlo della fatica di camminare.

- E non farà dunque più alcuna fatica? - Farà un'identica fatica, ad avvitar bulloni, a battere lamiere e cento altri mestieri.

- Ma allora perché costruire le macchine? Tanto varrebbe continuare a camminare. Questa volta apertamente sorrise messer da Morazzone. - La macchina è come un sortilegio; in fondo se ne potrebbe fare a meno. Eppure si mostra più necessaria del pane, necessaria come l'aria che respiriamo coi polmoni. Ma passerà molto tempo, non preoccupatevi, monsignore.

Così dicendo traeva dal carro una specie di grossa cesta montata su un telaio di ferro.

- È una slitta a molla, monsignore. Molto indicata per chi non ama montare a cavallo quando la neve è alta, e non si può viaggiare a piedi. Si parte in slitta dall'alto di un pendio. Il congegno meccanico è fatto in modo tale che la molla si carica da sé durante la discesa e tanta forza accumula da poter spingere la slitta su in salita. Così con la forza della molla supera le salite e si ricarica nella successiva discesa per poter di nuovo superare altre salite.

Qui tacque l'inventore, mentre Venafro andava considerando quella slitta e pensieri suoi volgeva nella mente.

- Quanto ne volete, messere? - Venti scudi di Francia, - azzardò l'inventore. Ne ebbe dieci e se ne partì contento.

Quella sera Venafro fece dono della slitta all'abate Nevoso, proprio pensando quanto l'abate odiasse andar nella neve e quanto poco amasse montare a cavallo ora che il povero asinello infelice era morto per via. Nevoso volle provarla subito l'indomani, né volle ascoltare i consigli di prudenza che Venafro gli dava, poiché l'inventore era partito e il congegno, diceva, poteva forse non essere perfetto.

Nevoso partì sulla slitta dall'alto del pendio che porta verso il fiume, superò felicemente alcuni dossi, poi, come volle Iddio, precipitò nell'acqua che scorre in fondo alla valle.

Venafro dovette scendere molto lungo il fiume per ritrovare i resti della slitta avvolti nel fango e nelle ramaglie dure. L'abate invece fu ritrovato assai più vicino. Morto, naturalmente.


Le esequie

Le esequie dell'abate Nevoso furono degne del defunto e di coloro che lo compiangevano. Madonna Bianca e le sue dame vestivano tutte in bianco, colore che può significar lutto, quando si voglia, e che ben s'addiceva al silenzioso biancor della valle coperta di neve. Il giorno delle esequie non nevicava, ma il cielo era bianco come la terra innevata: il corteo delle dame si confondeva con la terra tranne che per l'artificiosa eleganza delle vesti. La marchesa, che apriva il corteo sul suo bianco Ippomele, vestiva un mantello di bianchissime volpi, lungo da ricoprire in parte anche il cavallo. In testa portava un largo cappello pure bianco, da cui scendeva un candidissimo velo che le copriva interamente la lunga nerissima capigliatura.

Pastori e contadini stavano a guardare lungo il percorso, felici in cuore dell'occasione che forniva loro quel raro piacere della vista.

Il corteo delle dame era apprezzato sopra ogni cosa; in secondo luogo il corteo dei neri abati, rimasti in dieci di dodici che erano; poi il seguito dei signori, il duca e Venafro, entrambi vestiti di nero, il paggio Irzio, camerieri e scudieri. Tutti rimasero a guardare finché la cavalcata scomparve nel gran portale del castello. E la valle ritornò deserta. Unico segno rimase la neve calpestata e le frequenti tracce, fumanti, dei cavalli.

Quando il ponte si fu rialzato alle spalle del nobile corteo, tornarono a separarsi i due mondi che prima avevano avuto un fuggevole contatto: fuori rimaneva il freddo, la fatica e lo stento, alla muta meraviglia succedeva muto rancore mentre l'ammirazione illusoria si spegneva insieme con il breve giorno d'autunno. E l'autunno cedeva all'inverno.

Dentro il castello furono accesi tutti i lumi e ognuno si ingegnava di scacciare la noia con ogni mezzo: si giocava a dadi e agli scacchi, si suonavano canzoni e si discorreva.

- Ho udito dire, - disse la marchesa, - che un artigiano di Francia scolpisce i più bei pezzi degli scacchi che mai si sian veduti. Li scolpisce in ebano e in legno di rosa, e son sì grandi che quasi uguaglian la persona umana, e per scacchiera si usa il giardino, o la terrazza o il più grande salone del castello.

- Sarebbe assai bello, madonna, se cotali scacchi noi potessimo avere, - disse il duca, - e giuocar con essi come con persone umane. Noi dovremmo, - soggiunse volgendosi a Venafro, - appena le strade si potran percorrere a cavallo, andare a cercar codesti scacchi ove si sia, foss'anche in Francia.

- Ed io ho udito, - intervenne madonna Maravì, - che assai splendidi giuochi di birilli si fanno in una città chiamata Arezzo, che assai lungi si trova, oltre Po e Appennino. Ho udito dire che un artigiano assai famoso scolpisce quei bersagli di fattezze umane, e di aspetto e di misura, sì che dirgli si può a chi il bersaglio deve assomigliare. - E sì dicendo madonna Maravì, che veniva dalla corte angioina di Napoli, scuoteva sorridendo i ricci rossi che, raccolti alla sommità del capo, scendevano a ciocche lungo il collo.

I signori furono tutti d'accordo che non appena fondesse un poco la neve, si manderebbe qualcuno ad Arezzo e in Francia per fornire la corte di quelle meraviglie.

S'avvicinava l'ora del pranzo. Il paggio Irzio venne ad annunciare alla marchesa che, così com'ella aveva ordinato, il bagno era pronto per lei, il bagno con cui voleva della cavalcata, della fatica e delle esequie cancellar dal suo corpo le tracce. Così mentre i servi preparavano le tavole, madonna Bianca se n'andò alle sue stanze accompagnata dal paggio. Per ingannar l'attesa Venafro diede ordine che si preparasse in un gran paiolo vino caldo aromatizzato: egli stesso nel camino della sala si occupò della faccenda, versò nel vino cannella e garofano e miele in abbondanza, mentre il vino rosso e generoso alzava il bollore e un fumo profumato si spargeva dal camino per tutta la sala. Vennero le grandi coppe d'argento e a tutti fu servito vino dolce bollente, che scacciò dalle ossa il freddo e dall'anima la tristezza. Bevuta una prima coppa Venafro ne riempì una seconda e uscì dalla sala. Andò a bussare alla porta della marchesa che doveva a quell'ora essere uscita dal bagno. E la trovò infatti sdraiata su un comodo giaciglio di pelli, vestita d'una bianca camicia, coi lunghi capelli disciolti che il paggio Irzio andava pettinando con un pettine d'avorio. Tutta la stanza era piena d'un profumato vapore, caldo e dolce sì che pareva che l'inverno cessasse fuor della porta. Era profumo d'acqua di rose e la stanza era abbondantemente illuminata da ceri impastati con essenza di rose.

Venafro s'inchinò e porse la coppa alla marchesa, la quale bevve guardandolo e sorridendo. Un lieve rossore le si sparse sul volto mentre il calore del vino le accendeva le membra ristorate dall'acqua.

- Venite, madonna, la cena è pronta, - disse Venafro tendendole la mano.

- Occorre che mi vesta, - rispose lei prendendo tuttavia la mano che l'uomo le porgeva.

- No, venite così. Siete molto bella, madonna.

Lei lo guardò incerta per un attimo; poi rise, si gettò sulle spalle la lunga pelliccia di candide volpi e uscì condotta da Venafro per la mano. Quando entrò nella sala il profumo dell'acqua di rose si mescolò al profumo dolce del vino e un vapore caldo si sparse nella sala. Il duca condusse la marchesa al suo seggio al capo della tavola e avvicinò il suo scanno tanto che ne sfiorava la veste e ne sentiva il calore.

Frattanto gli abati, ammutoliti, si guardavano in viso esterrefatti.

Poi subito dal gruppo si staccò il grosso abate Torchiato, verboso e zoppicante, e con molte parole prese a rimproverare la marchesa per il suo abbigliamento, per i capelli sciolti, per il profumo e infine: Un bagno, - disse, - e a quest'ora! Tutti volsero gli occhi a lui. La marchesa lo lasciò parlare quanto volle. Quando l'abate rosso e ansimante, poi che di eccesso di sangue soffriva, si tacque, la marchesa lo guardò sorridendo, alzò un poco verso di lui la sua coppa e disse: - Non dovreste mai dimenticare, messere, che su di me non avete alcun potere.

Torchiato ammutolì, si guardò intorno cercando lo sguardo dei suoi confratelli; capì il suo errore e si sedette mortificato. Mortificato soprattutto da quel "messere", umiliante, detto a bella posta, in presenza di tutti.

Il duca non sembrò essersi accorto di nulla. Guardava la marchesa con sguardo appannato. Ne aspirava il profumo e rivolgeva nella mente, forse, i versi di un madrigale. Mangiò poco e non parlò per tutto il pranzo. La sua vita era tutta raccolta negli occhi. Anche Venafro era più silenzioso del solito, e guardava la marchesa con occhi pensosi, un po' tristi, com'era sua abitudine. Ogni tanto sembrava che s'accendessero d'un bagliore, ed era quando incontravano quelli della marchesa. Ma se questo accadesse spesso, non lo so.

In quella strana cena silenziosa c'era ancora un uomo che non distoglieva che assai raramente gli occhi dalla marchesa, occhi grigi guizzanti di riso, occhi che sembravano attratti da un punto della veste dove il mantello di pelliccia si stringeva intorno allo scollo della bianca camicia, e il bianco pelo delle volpi giocava sulla bianca pelle della gola; e s'accendevano di bagliori al corso, forse, di pensieri segreti e un impercettibile sorriso rimbalzava da essi alle belle labbra, ai sottili baffi spioventi, sì che tutto il viso sembrava esprimere piacere e malizia. Il giovane abate Mistral bevve molto quella sera, ma non con la passione con cui beveva il duca, né con la pacata mestizia di Venafro. Mistral beveva con aria di interiore baldanza, come beve il guerriero vittorioso alla fortuna d'una battaglia futura, e ad ogni battaglia si accende di maggior desiderio di combattere ed è certo che vincerà, con gioia e senza pena, e anticipa nel pensiero il piacere della vittoria. Allora esulta l'animo del guerriero e gli occhi dicono la tensione dell'amante e la calma certezza, insieme, del vincitore.

La compagnia si sciolse presto quella sera, dopo la strana cena silenziosa; la marchesa si ritirò nelle sue stanze ed anche gli altri si accomiatarono a poco a poco. Rimase solo il duca, seduto nel suo scanno e come trasognato. L'immagine della marchesa lo possedeva ancora, né distoglieva gli occhi dal seggio ov'ella era stata seduta.

Poi si alzò, si accostò a quel seggio e prese a percorrerlo con la mano, come se l'accarezzasse, come volesse coglierne una traccia del calore di lei, del suo profumo. S'inginocchiò a terra di fronte a quel seggio e vi pose sopra il capo, e così rimase a lungo, mentre l'unico lume che era rimasto acceso dava gli ultimi guizzi e lentamente si spegneva, perché nessuno aveva pensato di rifornirlo d'olio.


L'avventura del lambrusco

Molti giorni passarono in questa strana atmosfera di rattenute passioni, di speranze e di sconforti. Furono giorni cupi, di scarso sole velato, di silenziose nevicate, poveri di luce, lunghe le notti e insonni per molti ospiti del castello. Furono tristi aurore tarde, giorni pallidi e stanchi, crepuscoli precoci e sere interminabili di noia. Quasi nessuno usciva dal castello, né signori né servi. Pareva che il mondo si fosse ristretto a quelle mura merlate, richiuso su desideri e passioni che in esso covavano sepolte.

Il duca Franchino aveva cura che tutte le finestre venissero chiuse prima che egli entrasse in una stanza. E a tale scopo si faceva precedere dal paggio Irzio che aveva il compito di controllare che ogni apertura sull'esterno fosse accuratamente chiusa con il suo chiavistello. Il duca se ne stava interi giorni rannicchiato nel suo scanno, avvolto in pellicce, a mormorare contro la sua sorte che l'aveva sbattuto in quel mostruoso angolo della terra, dove arrivava la primavera quando altrove è l'estate, e giunge l'autunno prima che l'estate sia cominciata. E a tutti raccontava della fertile pianura ov'era nato e dei frutti meravigliosi che si producevano in quelle terre, ove la vigna maturava insieme ai fichi dolcissimi e grossi, ove l'estate lunga e ardente riempie le vene di calore per tutto l'anno e il breve, pur rigido, inverno è rallegrato da infinite piacevoli opere. Si ammazzano i grassi maiali e se ne cuoce il sangue fumante, e molte altre saporitissime parti, e si salano le carni migliori in molte gustosissime guise; si staccano dai tralicci i grappoli d'uva leggermente appassiti che ancor più dolci sono che non freschi; si tagliano le grandissime zucche dalla polpa gialla e dolce e se ne fanno mille pietanze e dolci a non finire.

- Sapete, madonna, - disse rivolgendosi alla marchesa che aveva proprio allora aperto una finestra per offrire il roseo volto al freddo vento invernale; e in quella il duca richiuse la finestra, sapete che dalle zucche gialle i cuochi di corte han tratto la più buona minestra e raffinata che mai per palato umano si sia gustata? Tanto era preziosa quella vivanda che per uso le si accostava una poverissima pietanza dei contadini mantovani che si fa con gli scarti del porco quando si uccide. Allor che tutta la carne del porco è cotta oppur salata, rimangono i visceri caldi e sanguinanti, avvolti in una membrana grassa e ricca: è da questa membrana che i nostri contadini estraggono la loro umile ghiottoneria. La mettono a fuoco e ne struggono il grasso, che poi s'adopera per tutto l'anno; ciò che rimane vien gettato in una gran padella ardente e ne escono brevi pezzetti di carne, che rosolati e caldi si cospargono di molto sale e si mangiano subito. E allora si accorgono le genti che, accompagnati nello stomaco da quel vinello brusco, che appunto chiamasi lambrusco, son cosa sì buona da soddisfare il palato dei signori e dispongono lo stomaco alle preziose vivande che seguono e seguiranno. Si mangiano, appunto questi ciccioli caldi, nei giorni più freddi per riscaldar lo stomaco all'inizio del pranzo. Poi si fan seguire da quei guancialotti di zucca, che son la più raffinata vivanda che si faccia con la zucca.

Qui il duca tacque, rapito nei suoi ricordi. Si riscosse soltanto quando la marchesa gli pose una mano sulla spalla e disse amichevolmente: - Anche noi abbiamo porci, e zucche, e si potrebbe fare questa cena alla moda della vostra terra, monsignore, e pure bere quel vino brusco che voi dite, che farem venire dalle pianure del Po, e vi consoleremo d'esser qui, in questo paese freddo e inospitale...

Il duca guardò a lungo la marchesa, poi le prese la mano e ancor più a lungo la baciò.

- Certamente, - intervenne Venafro, - noi dobbiamo fare questa cena e riscaldarci il cuore col cibo e col vino per scacciare l'inverno e dimenticare le pene che ci opprimono la mente.

Alle parole di Venafro tutti sembrarono destarsi e il duca, Venafro stesso e il paggio Irzio si posero subito in faccende per procurare l'occorrente. Di porci erano ricche le stalle del castello; grandissime zucche furono fatte venire dalla pianura, verdi e bitorzolute di fuori, gialle e tenere di dentro. La cosa più difficile fu avere il lambrusco, poiché tutta la terra che si stende ai piedi di quei monti produce vini prelibati assai più del lambrusco, ma non produce lambrusco. E quello voleva il duca. Intervenne in questa faccenda il vecchio abate Torchiato che assai grande intenditore era di vini, ma il lambrusco ancor non conosceva, come colui che mai non era uscito della valle. E subito si fece carico di procurare una gran botte di quel vino perché voleva, così disse, colmare quell'imperdonabile lacuna nella sua scienza e assaggiar di quel vino, così disse, prima che la morte spegnesse in lui i sensi del piacere. E poiché gli abati hanno gran poteri nel mondo che son negati a principi e signori, mandò servi e messaggeri sulle strade coperte di neve, mobilitò conversi e confratelli che di convento in convento si passaron la notizia, finché, alla fine di sì gran ricerca si scoprì, nella cantina di un oscuro prete di San Vincente una gran botte intatta di lambrusco. Quella fu tolta, pagata, trasportata, e giunse infine al castello di Challant su un solido carro tirato da due lenti giudiziosissimi cavalli, che senza scosse, senza turbare il fondo denso della botte, salirono su per l'erta che mena al castello, sì che altrettanto dolcemente dodici servi levarono la botte e la portarono nella sala del castello, su una gran tavola ove dimorò, senza che alcun la toccasse, una settimana intera, sì che lentamente il vino, se un poco nel viaggio s'era turbato, nella quiete si decantasse per ritornare all'antica limpidezza. Con occhi d'amore il buon Torchiato lo vegliò per lunghi giorni d'attesa, mentre intanto l'altre opere fervevano. Le grandi zucche furono arrostite intere nel focolare della cucina e il duca stesso ne fece cavare con un lungo cucchiaio di legno la polpa tenera e dolce. Poi fece pestare nel mortaio mandorle dolci e mandorle amare, che andarono aggiunte alla polpa delle zucche pur essa pestata nel mortaio. Indi pesò con le sue stesse mani le preziosissime spezie, noce moscatella, pepe e polvere di cannella, e il profumato impasto diviso in tante masserelle fu avvolto in una pasta di puro uovo sale e farina sì da formare tanti uguali guancialotti, gonfi e profumati, gialli e tenerelli. Intanto i servi fondevano il grasso dal sacco che involge gli intestini del porco: fu un lavoro lungo, a basso calore perché nulla bruciasse nel paiolo. Poi quanto rimaneva, masserelle di carne, filamenti ed altre cose, fu gettato in una padella di rame arroventata sui carboni; qui sfrigolarono, fumarono, scoppiettarono, mentre l'ultimo grasso si scioglieva; saltarono nella padella dal lunghissimo manico abilmente agitata da robuste villosissime braccia, e si ridussero a bruscoli croccanti che, bollenti, furono cosparsi di abbondante sale e pepe pestati insieme nel mortaio. Questi bruscoli ardenti furono versati in un grande vassoio di rame e subito portati in tavola dove i signori già attendevano e dove Venafro già aveva spillato dalla botte molte coppe di vino che aveva distribuito in giro a tutti i commensali. Quando vennero i ciccioli ardenti e fumanti nel vassoio di rame, tutti allungarono ad essi mani vogliose e i ciccioli salati e pepati andarono a spegnere il sapore aspro del vino, e a destare nuova sete di vino. E furono nuove coppe, e nuovi vassoi di ciccioli ardenti che andarono a placare la prima fame destata dal vino nello stomaco.

Quando molte coppe furono vuotate e molti vassoi mostrarono scoperto il loro fondo, ecco che furon portati in tavola altri più grandi vassoi, altrettanto fumanti, ripieni a montagna di profumati guancialotti che in brodo erano stati bolliti e poi scolati e sparsi di burro fuso e polvere di cannella e cacio grattugiato. Vennero in tavola spargendo un grato odore che a tutti mosse le mani armate di lunghe forcine, e i guancialotti dai grandi vassoi passarono nei piccoli piatti d'argento che ognuno aveva innanzi e di lì negli stomaci vogliosi che il vino aspretto aveva eccitato. E come un vassoio veniva vuotato, subito era sostituito da un altro ricolmo, né mai vedevasi in tavola un vassoio vuoto o una coppa assetata, e a mano a mano che cibo e vino riscaldavano i corpi, cresceva il vocìo, che, nato come bisbiglio stupito, era già, ora, quasi rombo continuo che intronava la vasta sala dall'alto soffitto di ben connesse travi d'abete. Mille luci da tutti i canti la illuminavano di guizzi sanguigni mentre le ombre della sera precoce invadevano gli angoli più riposti e assediavano le alte finestre. E come più dense si facevano le ombre, più alte guizzavano le lingue di luce dall'olio dei lumi, più acute le voci dei commensali, più intensamente calda l'aria accesa dal vino. Poi vennero molte carni arrostite, tra cui la timida marmotta, il fuggiasco capriolo, lo stambecco maestoso e il violento cinghiale. Ma già le voglie saziate si erano, e lente giungevano le mani a carpire quelle carni che dalla fredda neve, in cui tre lunghi giorni dimorate si erano, poi che tutta una notte in vino rosso s'erano macerate, erano passate agli acuti spiedi e ai carboni ardenti del focolare. Molti discorsi a gara s'intrecciavano tra i commensali, molte pellicce già dalle spalle erano state gettate sul pavimento, quando la marchesa s'allontanò dalla sala per ritornare tosto recando in mano una grande ampolla di limpidissimo vetro in cui un'acqua chiara brillava al luccichio dei lumi. Sorridendo la pose sulla tavola e chiese nuove coppe di puro argento, che subito i servi s'affrettarono a recare, e sempre sorridendo versò a tutti di quell'acqua chiara. Un'aria di mistero riposava sul bel volto chiuso in una lucente benda d'argento che nascondeva coi capelli tutta la fronte, sotto la quale gli occhi neri scintillavano di rattenuta malizia. Tacquero tutti sospesi guardando affascinati quell'acqua chiara che nulla pareva racchiudere in sé di misterioso ed inconsueto, eppure non era acqua di fonte.

- Bevete, signori, alla mia salute, - disse la marchesa levando leggermente la sua coppa. Tutti s'alzarono in piedi e bevvero alla salute della bella castellana. Si levò, tremolante, anche il vasto abate Torchiato, che dietro la botte quasi nascosto era dimorato fino a quel momento. Anche lui alzò tremante la sua coppa e bevve con gli altri. Fuoco ardente, fuoco di piacere, fuoco che fin gli ultimi visceri accese di caldi sensi, scorse per la gola a tutti i commensali, e fu spavento, gioia e piacere, fu anche smarrimento per la gran novità di quell'acqua ardente, e poi fu riso, e scoppi di voci, e quasi un gridare ed altercare tra tutti quei signori altrimenti sì gravi e sì severi. Furono recate altre ampolle di quell'acqua chiara, e la marchesa spiegava come essa si ricavi distillando in grandi alambicchi di rame il vino generoso che producono i balzi rocciosi della valle.

Ma già qualcuno aveva messo mano ai flauti, all'arpe e ai grandi liuti, e furono musiche e canti confusi, e accenni di danze diverse e contrastanti tra scoppi di voci ridenti ed irridenti. Poi flauti, tamburelli e trombe s'unirono a suonare un saltarello che madonna Maravì danzò col ritmo sfrenato del saltarello lombardo e col calore del suo sangue meridionale. Anche Venafro e il duca misero mano ai loro flauti mentre l'abate Mistral suonava un gran liuto d'Arabia.

Io non so dire fino a quando durò quella festa: so che i servi stanchi s'addormentarono con la testa appoggiata alle tavole della cucina, e il silenzio tornò nell'ampia sala quando la pallida aurora invernale, vincendo gli ultimi lumi che guizzavano rossastri, illividì la sala piena di disordine, gli scanni rovesciati, la lunga tavola ancora imbandita, le coppe lucenti, la grande botte montata nel mezzo della tavola e, in tanta confusione, la nera mole dell'abate Torchiato che giaceva esanime col capo appoggiato alla tavola da cui tanto piacere aveva tratto nel corso della sua lunga vita.


Il filosofo

Chi la mattina di quel tredici di gennaio si fosse affacciato ad una qualsiasi delle finestre del castello avrebbe avuto l'impressione che il mondo fosse scomparso: sprofondato, sparito, spariti gli alberi, le montagne, sparita la terra su cui il castello sorgeva, sparito il cielo, gli uccelli, i cani, i buoi, i pastori, le capre, le mucche, sparite le case col fumo, con i tetti, le stalle, i fienili, sparito tutto insomma, e che soltanto il castello galleggiasse nel vuoto, come un'isola galattica, in un oceano di niente, bianco, silenzioso, incredibilmente opaco e denso. Solo dopo aver superato il primo sbigottimento e l'angoscia di quel muro bianco, si sarebbe accorto che quel niente era anche incredibilmente umido, ed entrava a folate dalle finestre aperte come se volesse inghiottire anche le stanze e tutto il castello nella sua fredda nullità.

- Maledetta nebbia, - brontolò il duca guardandola con astio. - In nessun'altra parte del mondo la nebbia è così maligna.

Mentre il duca brontolava così nella sua stanza, Venafro, nella sua, guardava pensieroso fuori della finestra, dove non c'era proprio nulla da vedere. Ma più che guardare, seguiva certi suoi pensieri... Era uno di quei giorni assurdi in cui il mondo appare tanto lontano che ci si dimentica persino che esiste.

E invece il mondo esisteva, urgeva anzi alle porte del castello, e si fece sentire ben presto sotto forma di un frastuono eccezionale di colpi battuti generosamente alla porta della corte, accompagnati da grida di richiamo e sonorissimi schiocchi di frusta. Si sarebbe detto che un esercito intero premesse contro quella porta, o almeno un gigante. E invece i servi che s'affacciarono alle finestrelle non videro nulla, nulla se non la grande spuma bianca della nebbia.

Ma il frastuono non cessava, segno evidente che il "mondo" era ancora lì, alle porte del castello, con tutta la sua forza di autoaffermazione. Gli eremiti, che per fuggire il "mondo" e dimenticarne l'esistenza, si ritirano nel deserto o su monti impervi e disabitati, e notte e giorno trascorrono in preghiera, soffrendo la fame e il freddo e privazioni d'ogni specie, macerando il corpo e umiliando la carne, gli eremiti sanno quanto sia potente il "mondo".

Perché anche là, dove non arrivano strade né sentieri, dove la mano dell'uomo non ara campi né pianta le viti, là su riviere dove nessun pescatore ha mai teso le reti e nave alcuna ha mai solcato il mare, là dove la natura è vergine come Dio l'ha creata, ebbene ancor là giunge la potenza del "mondo" con le sue tentazioni e le sue profferte lusinghiere. E allora accade che al santo eremita, il cui petto incavato e la canizie precoce testimoniano l'ardore dell'ascesi, di notte il "mondo" si insinui nei brevi sonni, a lusingarlo e tormentarlo, sotto forma di sogni voluttuosi, immagini di stoffe profumate che scoprono nudità lucenti e sguardi impuniti. Tale è la malizia del "mondo" che esso si cela in oggetti apparentemente innocui, ma atti a suscitare nostalgie peccaminose, come un tenero virgulto di palma o un giovane capriolo fuggente, o una coppia d'insetti in amore o un semplice frutto del melo, o un fiore, un odore del prato, un colore del cielo. Tanto è potente, e malizioso, il "mondo".

Questa volta il "mondo" irruppe così fragorosamente, non nelle vesti di uno sterminato esercito assalitore, né d'un gigante o un mostro in cui spesso cela la sua forza maligna, ma nelle vesti di un giovane chierico, montato su un ronzino, avvolto in un mantello su cui stava piantato, presuntuosamente, un cappelluccio a punta di quelli che sogliono portare gli studenti, ornato di due penne lunghissime ondeggianti: una verde-gialla di galletto, e una, candidissima, di cigno. Né il chierico era gigantesco, bensì di media statura; né terribile in volto, ma poco più che un ragazzo biondo. Cui contrastava però, singolarmente, la furia con cui s'avanzò nella corte e s'inoltrò poi nell'atrio del castello, apostrofando i servi in quella lingua estrania che si parla oltralpe, in quel di Francia, e propriamente nella gran Parigi.

Nell'atrio era acceso un bel fuoco nell'immenso camino rivestito di rame che moltiplicava il calore e lo spandeva all'intorno. Qui il chierico sedette e parve calmarsi al tepore e al dolce lume del camino, e smise pure di parlare francese mentre una giovane serva gli porgeva una tazza di vino caldo. Allora apparvero i suoi occhi giovani e azzurri, protervi e spocchiosi. Beveva il vino caldo generosamente e il suo volto livido per il freddo riprendeva colore. I servi gli stavano intorno guardandolo con curiosità e ciascuno si domandava, mutamente, come diavolo avesse fatto quel giovane esile a giungere fino al castello senza finire in un burrone, senza cadere esausto e congelato nella neve, senza che il suo misero ronzino scivolasse sul ghiaccio. Tanto più che egli appariva nuovo del posto, nessuno l'aveva mai visto, e certamente non conosceva le strade né i sentieri né i mille pericoli che una valle di montagna cela sotto la neve e dietro la nebbia.

Quando si fu scaldato e rinfrancato chiese dei signori del castello, chi erano e se erano ospitali, e quando si fu informato a sufficienza chiese di essere introdotto alla corte. Qui, senza inginocchiarsi ma solo inchinandosi leggermente di fronte alla marchesa, dichiarò, senza pur rivelare il suo nome, di essere filosofo, laureato a quella gran scuola di logica che è la Sorbona di Parigi. Un mormorio attraversò tutta la corte, donne e signori si guardarono sorpresi e pieni di curiosità: era la prima volta che giungeva in quel castello un filosofo.

Venafro fu il primo a rompere il silenzio: - Intendete dire, messere, che voi avete licenza e potere di aprire una scuola ed insegnarvi logica e teologia? Il filosofo sembrò riflettere un poco guardando il pavimento, poi rispose: - Sì. Diciamo che "avrei" licenza e potere di farlo. - E dopo una pausa soggiunse: - Ma non l'ho.

- Spiegateci meglio, - disse la marchesa prendendolo per una mano e conducendolo ad uno scanno. Il filosofo si accomodò sulle pellicce che ricoprivano lo scanno e alquanto addolcito dal calore delle pellicce e dal gesto benevolo della marchesa, continuò: - Il fatto è, madonna, che sono stato scacciato da Parigi. Anzi sono fuggito. Sono fuggito perché mi hanno condannato per eresia. - Un brivido corse per tutta la compagnia dei signori, poiché ognuno sapeva qual era la sorte che attendeva gli eretici.

- Siete forse seguace di Abelardo? - chiese Venafro.

- Da Abelardo, - rispose il filosofo, - partì il mio pensiero. Egli mi fu maestro, se pur solo attraverso i suoi libri poiché già da tempo si era spenta la sua vita infelice quando io entrai negli studi. Furono proprio i libri di quel logico sommo che mi indussero a dubitare della logica. Intendo dire della logica aristotelica. E precisamente fu là dov'egli dice che una medesima parola può assumere significati diversi in discorsi diversi. Così, onestà, castità, fedeltà non hanno un senso univoco e immutabile, ma relativo all'argomento di cui si parla. Così il sommo Goffredo di Strasburgo, che di Abelardo fu grande ammiratore, poté dire della sua Isotta ch'essa era casta e fedele oltre misura. Ma casta non la direbbe un confessore. E neppure fedele. Voi conoscete il romanzo di Goffredo? - chiese guardando negli occhi la marchesa.

- No, messere, - rispose la marchesa. - E avrei assai caro di conoscerlo. Ma voi non avete libri...

- No, signora; ma avrò cura di raccontarvelo seguendo la memoria che assai bene mi soccorre in queste cose. Alcuni passi vi dirò anche alla lettera. Qui tacque, sempre guardando la marchesa con occhi intenti senza sorriso. Poi distolse lo sguardo e continuò: - Orbene, questo fu il punto che avvinse il mio pensiero, perché se Isotta è casta, e casta è la Vergine Maria, castità si dice di due diverse cose, che possono persino essere tra loro contrastanti. Isotta è casta perché ama sinceramente Tristano e gode del suo corpo interamente; la Vergine Maria perché non conosce amore d'uomo. Ma Isotta è anche adultera perché preferisce all'amore del marito quello dell'amante. E se adulterio e castità posson convivere insieme, cade il principio di non contraddizione. - Il filosofo fece scorrere gli occhi sul suo uditorio, e poi aggiunse: - Voi vedete, signori, che qui cade il primo pilastro della logica.

Tutti assentirono, anche se molti dei presenti più che alla logica pensavano alla favola di Tristano e Isotta, di cui fino a loro era giunta la fama. Venafro, dopo aver un poco riflettuto, disse: - Ma non può esser che un'obiezione, anche se così importante, valga a demolire i fondamenti su cui da sempre s'è costruito ogni sapere.

- Certo, monsignore. Anch'io mi dissi questo, e il mio impegno era da principio di dimostrare che la logica resiste anche a questi difficili passi. E tutto il sapere antico andai indagando per cercare sostegni alla mia fede. Ma là dove credevo trovar sostegni, trovai invece motivi nuovi di dubbio. E più ricercavo, più i dubbi si facevano profondi, come ferite vive nel pensiero. Tutti i fondamenti della nostra logica mi parvero attaccabili in qualche punto, e la certezza in una logica assoluta, un principio di conoscenza indiscutibile e sicuro, che non nell'esperienza umana poggiasse le sue basi, ma a priori ci fosse dato quasi dono di Dio, questa certezza mi sfuggì di mano come pugno di sabbia su cui passi l'onda del mare. - Qui tacque.

- Ma dovrebbesi allora concludere, - intervenne Venafro, - che tutto il sapere costruito su quei fondamenti, è falso? - Non necessariamente. Io non dissi che la logica a noi venuta dal pensiero antico e su cui sempre abbiamo costruito arte e scienza, sia falsa. Essa può essere valida. E può anche non esserlo. È valida nella misura in cui è utile. Ma soprattutto io dico che esistono altre logiche possibili, anch'esse valide, che si basano su principi che non sono quelli di Aristotele e s'accompagnano a procedimenti del pensiero che non sono quelli del nostro mondo occidentale.

- Vi confesso, messere, che sono un po' confuso, - disse Venafro.

- Anche a me sono oscure molte cose, che vado e andrò indagando nei miei lavori. Per ora sono approdato a questa conclusione, in cui credo più che non tengo per dimostrata: ogni tipo di pensiero segue una "sua" logica, ogni comunità di genti, ogni tempo, ogni cultura, ha un "suo" tipo di pensiero. Il fine che mi propongo è di mostrare che tutti sono validi anche se in contraddizione tra di loro.

Intanto era scesa la sera e già i servi accendevano i lumi e preparavano ogni cosa per il pranzo. Qualcuno taceva pensieroso, molti interrogavano il filosofo sul suo viaggio, sul processo d'eresia, sulla lontana Parigi misteriosa. Il giovane narrò come sostenne in un libro le sue tesi sulla logica e come queste furono discusse in un'aula dello studio di Parigi e giudicate eretiche perché trascinavano nel crollo della logica, così fu detto, tutta quanta la teologia ed intaccavano le verità della fede. Invano egli aveva sostenuto che non ne derivava la falsità della dottrina cristiana, ma solo dell'affermazione che la dottrina cristiana è l'unica vera.

Raccontò che a questo punto maestri ed abati si alzarono gridando che in tal caso si dovrebbe ammettere che anche un'altra religione può essere "vera", persino quella di Maometto. E poiché proprio questa era la conseguenza a cui voleva giungere, qui il filosofo, prudentemente, aveva taciuto, fingendo d'esser sorpreso lui stesso dell'audacia di tale affermazione. E questa simulazione lo salvò. Guardò i maestri con aria stupita e innocente, e quelli giudicarono che egli non avesse previsto a quali gravi conseguenze avrebbe portato il suo pensiero e non ritennero necessario imprigionarlo mentre veniva istruito il processo.

Quella notte stessa il filosofo aveva lasciato segretamente Parigi.

Voleva scendere in Italia, che era la sua terra d'origine e in cui voleva continuare i suoi studi. Aveva soggiornato per circa un mese nel convento di Sant'Orso, dove cibo e ricovero gli erano offerti in abbondanza. Ma preoccupato di nascondere la sua identità e i suoi studi che avrebbero parlato per lui, aveva deciso di partire quel mattino, prima dell'alba, diretto alla pianura che placida si stende alla foce del fiume. Qui s'era ad un tratto smarrito nella nebbia e ritrovato su una strada che saliva fortemente, e ch'egli aveva seguita sperando che portasse in qualche luogo ove trovar rifugio. Così era giunto a quel castello.

- E qui potete rimanere quanto vi piace, - disse madonna Bianca, che aveva seguito il racconto coi grandi occhi pensosi posati sul giovane filosofo. Ed egli se n'era accorto certamente, poiché la fissava spesso parlando, col suo sguardo azzurro senza sorriso.

Gli stessi discorsi continuarono durante la cena. Il duca parlò assai poco, un po' perché non s'interessava di filosofia, un po' perché era occupatissimo a seguire gli sguardi di madonna, che sembravano fuggire sempre nella stessa direzione e incontrarsi muti con quelli dell'ospite, che altrettanto muti parlavano con lei. Il duca era di cattivo umore.

Terminata la cena, quando la conversazione languì, la compagnia si sciolse. Il filosofo fu accompagnato alla sua stanza, il duca nella sua, sorvegliata dagli abati. Venafro salì nella torre a scrivere il suo erbario.

La marchesa, nella sua stanza, sedeva dinanzi ad uno specchio e si scioglieva pensosamente la lunga chioma nera.

Un colpo deciso fu bussato alla sua porta. S'alzò di scatto, e già sapeva chi era. La mano sul chiavistello tremava un poco.

- Sono venuto a raccontarvi la favola di Isotta, disse il filosofo.

- Non siete stanco, signore? - Dopo riposerò, - disse l'uomo chiudendo la porta alle sue spalle.


La padella dei Challant

Dopo la lunga notte invernale l'alba si levò su un mondo affondato nella neve. La nebbia non c'era più, aveva lasciato il posto ad una neve fitta e larga che, silenziosamente aveva costruito cumuli morbidi e bianchi su tutte le cose. Il filosofo la sentì, svegliandosi, prima ancora di vederla, la intuì dalla luce lattea che entrava dalla stretta finestra e dall'immenso silenzio del mondo. Una prepotente voglia di latte caldo lo spinse ad alzarsi.

I camini erano ancora spenti nel castello addormentato. Il filosofo si diresse dove sentiva deboli rumori di vita; scese una lunga scala che diveniva sempre più stretta ed oscura, s'inoltrò in un corridoio pure stretto in cui circolava un tepore profumato di fumo e di latte e si ritrovò in una immensa cucina illuminata in parte da un gran fuoco che ardeva nel camino. Appeso ad una robusta catena bolliva un paiolo pieno di latte e attorno ad esso erano affaccendati alcuni garzoni.

- Buon giorno, - disse Venafro accennando ad alzarsi dalla panca su cui sedeva a cavalcioni. Allora il filosofo scorse tutto un lato della cucina che, per essere troppo scarsamente illuminato dal camino, prima non aveva visto. Infiniti paioli e padelle di rame d'ogni misura pendevano a robusti ganci infitti nella parete; un lungo pesantissimo tavolo d'abete correva lungo la medesima parete affiancato da due panche altrettanto lunghe. Sulla panca esterna sedeva Venafro e beveva latte caldo da una scodella. Il filosofo gli si sedette accanto.

- Volete latte? - gli chiese Venafro, e poi, dopo aver fatto cenno ad un garzone di servire l'ospite, disse: - Ma allora cade anche il principio che, data una certa premessa, deriva una certa conseguenza.

Il filosofo rifletté un momento, poi rispose:

- Non dico che cada; può essere vero, come può anche essere vero il contrario. Per esempio, continuò il filosofo indicando la più grande delle padelle appese al muro, una padella dal manico lunghissimo che mandava bagliori rossastri nel buio, - un robusto gancio regge quella padella, quindi la padella non cade: questo dice il principio di causalità, non è vero? Ebbene siamo sicuri che la padella non cada? - A questo punto si udì un fruscio nel buio, e il filosofo s'avvide che proprio sotto la padella stava seduto sulla panca uno degli abati; stava lì un po' rannicchiato, forse perché soffriva di freddo che, come ognun sa, è una malattia del sangue. Il filosofo accennò un saluto distratto in direzione di colui che prima per il buio non aveva scorto, e proseguì: - Io dico che può accadere che cada, anche se il gancio è robusto; per qual motivo non so, ma può accadere che cada. - Le sue parole furono seguite da un altro più forte fruscio, e i due uomini distinsero nella penombra la sagoma dell'abate che si alzava e, senza salutare, se ne usciva dalla cucina.

- Ma chi è? - chiese il filosofo a Venafro.

- L'abate Celorio, un vecchietto malato di freddo. Se ne sta sempre qui nella cucina perché questo è il camino più grande del castello ed è sempre acceso, anche di notte. E siede in quel punto, proprio sotto la padella maggiore perché lì gli arriva più diretto il calore del fuoco. Ma ditemi, in questo caso, se la padella cadesse ci sarebbe una causa, una causa che forse noi non conosciamo. Quindi il principio di causalità è salvo.

- Ma non nella proposizione che io dissi, - obiettò il filosofo, - che in tal caso dovrebbe dirsi così: benché la padella sia sorretta da un robusto gancio, essa cade. E quale ne sarebbe la causa? - Già, quale ne sarebbe la causa? - Ma il diavolo, monsignore! - disse il filosofo ridendo. - È sempre il diavolo, quando succede qualcosa che secondo la nostra logica non si spiega! I garzoni, sentendo nominare il diavolo avevano interrotto il loro lavoro, ed ora guardavano sorpresi il filosofo.

- E poi il diavolo, - continuò questi sorridendo, - non alberga forse volentieri nei camini? Come in ogni luogo ove guizzano fiamme. E non isolati, ma a gruppi; smuovete la cenere e ne saltano fuori a dozzine; gettate acqua sul fuoco, e li sentirete stridere di rabbia; e tanto più inviperiti, se nei pressi del camino c'è un uomo di chiesa.

I garzoni guardavano le fiamme impauriti. - Fate rinforzare quel gancio, monsignore! e forse il principio di causalità reggerà! - Così dicendo il filosofo si avviava alla porta insieme a Venafro.

- Splendida padella però! - diceva dandole un ultimo sguardo dalla soglia.

- Splendida davvero, - confermò Venafro. - E sarebbe un gran peccato che cadendo s'ammaccasse.

- Ma a che serve quel manico così lungo? - A far saltare le frittelle, - rispose Venafro. - Oggi stesso, credo, potrete vederla in funzione. È un bello spettacolo vedere i garzoni che sorreggono in due il manico e, dandosi il tempo con la voce, gettano verso l'alto la padella e fan saltare ciò ch'essa contiene.

Oggi si cuoceran frittelle, perché ho visto intridere farina di castagne con il latte.

- Voglio vedere questo spettacolo, - disse il filosofo avviandosi alla sua stanza.

Più tardi, quando già si avvicinava l'ora che aguzza negli stomaci l'appetito, Venafro bussò alla stanza del filosofo per avvertirlo di scendere se voleva vedere la padella in funzione. E fu davvero uno spettacolo superbo. La cucina era tutta illuminata da rami resinosi infissi nelle pareti e piena di gente in grande animazione. Un canto sonoro scandiva un ritmo ben marcato sottolineato a tratti da un altissimo "ohè". Due robusti garzoni con le braccia ignude reggevano per il manico la gran padella su un fuoco vasto e vivacissimo che altri stimolavano di continuo con lunghi arnesi di ferro. Altri due garzoni sbracciati come i primi attendevano di sostituire quelli che reggevano la padella in un alterno avvicendarsi. Il canto, cui tutti i servi della cucina davano voce, s'alzava assordante e ad ogni "ohè" scandito a piena gola i garzoni gettavano verso l'alto la padella e le frittelle roteavano nell'aria in uno scintillio di grasso ardente per ricadere capovolte nella medesima padella tra infiniti spruzzi scoppiettanti. Al canto si mescolavano le risa in un frastuono lieto ed assordante. Venafro e il filosofo, fermi sulla soglia, guardavano sorridendo la scena avvolta di fumo e di calore. L'abate Celorio sedeva al suo solito posto.

Quando, più tardi, in caldissimi vassoi di rame, le frittelle furono portate in tavola, i commensali si trovarono di fronte ad una vivanda di rara squisitezza. Il delicato dolce della polpa di castagne, sottolineato da grani di uva passita assai più intensamente dolci e dal severo sapore delle noci rotte in pezzi alquanto grossi, era coronato dall'esser fritto in strutto salato, che creava, col dolce, e contrasto ed intesa raffinata. Le frittelle caldissime furono servite con gran boccali di vino bianco frizzante e asprigno, freddo di neve, che, meraviglioso potere del vino, invece di raffreddare i corpi dei commensali li riscaldava ed eccitava ancor di più.

Tutti godettero a lungo di quell'insolita pietanza che sembrava saper vincere il freddo dell'inverno, il grigiore del cielo, la tristezza e la noia. E sia per la virtù della pietanza, sia per la gran virtù dell'allegrissimo vino, discorsi lieti s'intrecciavano lungo tutta la tavola, si scontravano e si sopraffacevano in un chiacchierio indistricabile e fitto di cui risonava, io credo, tutto il castello. E già la marchesa teneva in mano la limpida ampolla per mescere a tutti quell'acqua di vita che tanto beneficio fa, nel crudo inverno, e agli animi e ai corpi. Quand'ecco nella sala apparve, pallido, sbigottito, il paggio Irzio, e più che di consueto la sua lingua inciampava nelle parole.

- Madonna, monsignore... la padella...

Il duca s'alzò di scatto:

- La padella?

- La padella... monsignore... madonna... la padella... Poiché più oltre il giovinetto non poteva dire e quasi veniva a meno per l'affanno, Venafro lo fece sedere e con voce suadente lo calmò.

- Parla figliuolo; che ha fatto la padella? - La padella, monsignore... è caduta! - Oh! e si è ammaccata? dimmi, si è ammaccata? - Non lo so, monsignore; ma l'abate... ah, madonna, l'abate è morto! Allora d'un tratto si avvidero tutti che l'abate Celorio non sedeva a tavola coi commensali. Per la novità delle frittelle nessuno se n'era accorto.

- Morto? - interloquì il duca.

- Morto, monsignore, morto con la testa spaccata, là sulla panca, l'hanno trovato i garzoni, è stato il diavolo hanno detto, ci sono tanti diavoli nei camini, almeno mille, dicono i garzoni, e li hanno anche visti, che stavano tutti nascosti nella cenere, e poi saltavano su appena li toccavano con l'attizzatoio... - e in preda a una crisi di nervi il paggio si gettò ai piedi della marchesa e nascose il volto, singhiozzando, nel suo grembo. Mentre la marchesa cercava di calmare il paggio accarezzandogli la testa, il duca e Venafro si dirigevano alla cucina per vedere l'accaduto.

- Temo proprio che si sia ammaccata, monsignore, - diceva Venafro.

- Eh sì, - rispose il duca. - Peccato... la migliore padella dei Challant.

Alcuni giorni dopo, terminate le esequie del povero abate Celorio, che solenni furono al pari delle altre, anche se ormai sensibilmente era diminuito il numero delle voci che cantavano i salmi talché il duca, rivolto a Venafro, aveva detto durante la cerimonia: - Sapete, Venafro? Penso che dovremo chiamare dei coristi: i vuoti di voce cominciano ad essere molesti, - la stessa sera delle esequie il filosofo giaceva su un basso giaciglio col capo in grembo alla marchesa, e lei, chinando la testa sul volto di lui, diceva: - Dimmi, filosofo, perché devi partire? - Non lo so, marchesa; io non posso fermarmi.

Lei, in silenzio, gli accarezzò il volto. Lui le prese le mani e le baciò.

- Il tuo corpo è stato per me il centro dell'universo. Non mi importa chi sei. Mi basta che tu esista. Non m'importa che non possa amarti per tutta la vita; un po' più a lungo, forse, sarebbe bello... Ho sentito il tuo piacere come se fosse il mio, ho goduto del tuo piacere come del mio. Ho amato il tuo corpo come il mio.

Ora l'uomo stava in piedi e prendeva la destra di lei, e accostandola al suo viso la baciava, mentre lei, accostando al suo viso la mano di lui, nello stesso tempo la baciava.


La saggia pretessa

- Come mai da qualche giorno si mangia così male in questa casa? - chiese il duca guardando madonna Camilla, che per essere la più anziana delle dame della marchesa fungeva da dispensiera e sovrintendeva alla cucina. Madonna Camilla sembrava aspettare quella domanda perché disse d'un fiato: - Giustappunto, è ora che si faccia qualche cosa. Come credete che si possa cucinare senza focolare? E i servi non vogliono più saperne di avvicinarsi al focolare. Ma che cosa devo fare se la signora marchesa dice che sono tutte sciocchezze e non vuole che si chiami l'esorcista? Il duca non realizzò molto da questa risposta ma si pentì immediatamente di averla provocata, perché si ricordò di colpo dello stato di conflittualità permanente in cui madonna Camilla viveva con tutte le altre donne del mondo, e in particolare con quelle che la sorte aveva messo sul suo cammino. A parte questa peculiarità del suo carattere che le dava quel particolare tono asprigno con cui parlava, taceva e viveva, era una bravissima donna e una dispensiera avveduta e per nulla al mondo la marchesa si sarebbe privata del suo aiuto. In modo particolare amava la cucina: si sarebbe detto che quella dolcezza e amorevolezza che le erano precluse in tutti gli altri campi del vivere, le riversasse lì, nel predisporre e allestire vivande, per cui teneva un gran libro, segretissimo e sottratto agli occhi di chicchessia, da cui traeva ispirazione per pranzi che voleva particolarmente raffinati e in cui andava scrivendo cose sue riservatissime intese a migliorare una vivanda già nota o a fissare nella memoria la composizione d'una nuova.

- Madonna Camilla vuol dirvi, - intervenne la marchesa, - che i garzoni da qualche giorno si rifiutano di sostare a lungo nella cucina, e soprattutto accanto al camino: devono aver sentito dire che nel camino albergano i diavoli e dopo la misteriosa morte del povero abate Celorio - Io l'ho detto più volte che bisogna far esorcizzare il camino; madonna però non vuol saperne, - disse secca la dama.

- Mi sembra un'esagerazione, - replicò dolcemente la marchesa. - Quei ragazzi devono aver presa sul serio una cosa detta per scherzo; che diavoli volete che ci siano nel camino? Son tutte chiacchiere...

- Diavoli o non diavoli, non possiamo ridurci a mangiare pane e formaggio per tutto il resto della nostra vita, - disse il duca. Quindi, se è per tranquillizzare quei ragazzi e mangiare meglio, faremo esorcizzare il camino. E chi è che fa queste cose? - Nessuno degli abati presenti possedeva il dono di saper fare esorcismi e fu deciso allora di chiamare la saggia pretessa.

- La saggia pretessa? - chiese il duca; - e chi è?

- La più grande esorcista della valle, - disse la marchesa. - Vive in un casolare chiamato "Fin du monde", non molto lontano di qui, ritirata in gran solitudine. Si dice che possegga molti libri e passi giorno e notte a studiarli. Si dice anche che discenda da una antica stirpe di esorcisti. Non so perché la chiamano pretessa, forse è la vedova di un prete.

- Come dite? La vedova di un prete? Ma i preti non hanno mai vedove, intervenne vivacemente l'abate Foscolo. E aggiunse severamente: State attenta, madonna, certe cose non si dicono neppure per scherzo. - La marchesa, che l'aveva detto seriamente, lo guardò sollevando le sopracciglia, e tacque.

Parlò invece madonna Camilla: - E come si fa a farla venire? La saggia pretessa non va a cavallo, e con queste strade sarà impossibile mandare una carrozza.

- Una portantina, si mandi una portantina. Avremo bene una portantina da qualche parte? No? - disse il duca.

- Monsignore, - intervenne la marchesa, - la portantina c'è e ci sono anche i portatori, ma affonderanno nella neve fino al ventre. Non permetterò mai che né i miei servi né altri affrontino questo rischio e questa fatica. Meglio tenerci i diavoli nel camino... almeno fino al disgelo.

Di fronte al tono deciso della marchesa il duca tacque, pur chiedendosi angosciato quando mai sarebbe venuto il disgelo in quelle montagne incrostate di ghiaccio e quanti giorni di tristezza gastronomica gli stessero ancora innanzi.

- Faremo una slitta, - disse Venafro, - una piccola portantina a slitta con ciò che rimane della slitta dell'abate Nevoso. E andrò io stesso a prendere la saggia pretessa.

Tutti accolsero di buon grado la proposta di Venafro. Furono chiamati due fabbri e in capo a due giorni la portantina a slitta, una grossa cesta montata sui pattini della slitta a molla, fu messa al traino del bel Rabano. Venafro accarezzava il collo del suo cavallo e gli parlava sottovoce pregandolo che non si offendesse vedendosi usato come un cavallo da traino e promettendogli che ciò non accadrebbe mai più.

Rabano volgeva il lungo collo crinito a guardare quella cosa strana che gli stava agganciata ai finimenti e poi guardava negli occhi il suo padrone. Partirono di buon mattino e tutta la corte li salutò augurando buon viaggio. Rabano teneva un trotto veloce, agile e diligente. La marchesa li guardava con un'ombra negli occhi da una finestra della torre.

Fu lei la prima a scorgerli sulla via del ritorno. Agitò un grande velo bianco da quella stessa finestra da cui li aveva visti partire.

Venafro rispose al saluto guardando e sorridendo verso l'alto. Rabano procedeva, questa volta, al piccolo trotto: la slitta apparve subito incredibilmente carica. Servi e scudieri furono lesti ad accorrere, il duca stesso aiutò la saggia pretessa a scendere dalla portantina.

Scesa la pretessa, la slitta apparve ancor più carica di prima: era ingombra infatti di una montagna di ceste e di fagotti, che i servi scaricarono delicatamente e portarono nell'atrio del castello.

L'ultimo, ben avvolto in uno scialle di lana, non era un fagotto, ma un gatto. I servi staccarono la slitta dal cavallo e Venafro partì al galoppo sul suo bel Rabano, fece più volte il giro del cortile e poi fu visto galoppare, abbandonate le briglie, abbracciato il collo stesso del cavallo, velocissimo verso la doppia cinta di mura e saltarle una dopo l'altra come fossero state cespugli. La marchesa sentì un brivido correrle per la schiena, quasi fosse stata lei, sulla nera groppa di Rabano.

La saggia pretessa fu accolta nel castello con tutti gli onori, ristorata con latte caldo e panini al miele, e più tardi condotta nella cucina. Il gatto, che si rivelò per un soriano quasi gigantesco, dall'aria pigra e sussiegosa, la seguiva con passo solenne. I servi si ritirarono; si ritirarono anche gli abati, perché non era chiaro se ciò che lì si sarebbe fatto si conciliava con gli insegnamenti della Chiesa: si ritirarono anche le dame della marchesa temendo che nella cucina si sarebbero svolte scene infernali. Rimasero solo la marchesa, il duca e Venafro. Il duca parlò per primo: - Vedete, signora, - disse indicando il camino, - si dice che vi siano dei diavoli.

- "Si dice" non dice niente, - rispose la pretessa guardando severamente il duca. - O ci sono, o non ci sono. In primo luogo bisogna accertare questo. - Rovistò a lungo in una cesta che aveva portata con sé e ne trasse una lunga cappa intessuta di piume, che dal capo, cui si adattava con una specie di cappuccio, scendeva fino ai piedi avvolgendo nella sua ampiezza il robusto corpo della pretessa e nascondendone i capelli fulvi e crespi. Poi trasse dalla cesta una ciotola di terra e un'ampolla di vetro che conteneva, visibilmente, dell'olio. Poi da un'altra ampolla, il cui contenuto restava misterioso perché il vetro era accuratamente affumicato, versò nella ciotola una specie di acqua chiara. Si accostò al camino, in cui il fuoco era spento, ma le braci ardevano sotto la cenere, mosse dolcemente la ciotola a lungo, in gran silenzio.

- Ci sono, - mormorò, - oh se ci sono! - e mostrò le gocce d'olio che si erano disfatte tutte e tre. Poi improvvisamente gettò il contenuto della ciotola sulla cenere, e tra fumo e scoppiettii si levarono lingue di fuoco e faville a migliaia mentre le braci stridevano e crepitavano.

- Avete visto se ci sono? - si rivolse ai presenti. - E tutti diavoli di prim'ordine. - I presenti guardavano in silenzio. - Ora bisognerà scacciarli. Attizzate il fuoco, aggiungete legna di abete e lasciatemi sola. Io stessa vi chiamerò quando sarà il momento perché possiate vederli con i vostri occhi. - Il duca e Venafro fecero quanto la pretessa aveva ordinato, poi tutti uscirono.

Trafficò a lungo nella cucina deserta e quando richiamò i signori la scena era nuova e sinistra. Tutti i lumi erano stati spenti e la stanza era illuminata solo dal fuoco che ardeva nel camino. Ovunque erano state poste croci fatte con ramoscelli d'ulivo; a pochi passi dalla soglia era stata tracciata una linea che la pretessa indicò agli altri ordinando loro di non oltrepassarla per nessuna ragione al mondo; lei stessa, interamente avvolta nel mantello di piume, stava nel mezzo di un circolo disegnato col carbone sul pavimento e teneva nella sinistra un turibolo che andava agitando e da cui proveniva un forte odore di incenso: nella destra teneva un aspersorio e in terra stava la ciotola. Sulla superficie del liquido galleggiavano quattro foglioline d'ulivo in forma di croce. La grande tavola della cucina era ingombra di ampolle diverse; in mezzo alle ampolle, statuario, stava il gatto della pretessa. Sulla soglia i signori, raccolti in gruppo, guardavano in silenzio. Nel camino crepitava un gran fuoco d'abete.

La pretessa s'inginocchiò nel suo circolo e parve pregare o meditare a lungo. Poi immerse l'aspersorio nella ciotola, si alzò e gridò con voce tonante: - Gabbaal, Sabbaal, Mitternaal, abitanti delle tenebre, vi ordino di andarvene! - e così dicendo spruzzò le fiamme con l'aspersorio. Quelle crepitarono, e si alzarono fino alla sommità della cappa in un nugolo di scintille.

Poi nuovamente la pretessa si inginocchiò, meditò, intinse l'aspersorio, si levò, spruzzò le fiamme e gridò: - Veddaal, Sindaal, Babeldaal, figli delle tenebre, vi ordino di andarvene! - nuovo crepitio, nuove fiamme fino alla sommità della cappa e nuova sventagliata di faville. Infine la pretessa si alzò lasciando in terra il turibolo, sollevò con le due mani la ciotola ancora piena di liquido al di sopra della testa e disse con voce terribile: - Anche tu, chiunque tu sia, signore delle tenebre, con tutti i tuoi figli e i tuoi nipoti, per il potere che il cerchio magico mi dà, ti ordino di lasciare per sempre questo camino e questa casa! - così dicendo scagliò la ciotola nel focolare. Le fiamme si alzarono altissime rombando, le scintille crepitarono in tutte le direzioni e un fumo acre riempì la cucina. In quell'attimo a tutti scorse un brivido per la schiena, e rimasero a guardare affascinati la scena avvolta di fumo, la pretessa immobile in mezzo alla cucina con le braccia alzate, le fiamme che salivano altissime nel camino crepitando in una miriade di scintille. Solo quando il fumo si fu dissipato e le fiamme ritornarono alle dimensioni solite, la pretessa si volse verso la porta e disse: - È finito, signori. Sono fuggiti fino all'ultimo. - Rimise le ampolle, le croci di ulivo e il turibolo nella cesta e s'avviò verso la porta seguita dal suo grosso gatto, spettatore e forse partecipe silenzioso di quel grande mistero.

La marchesa stessa volle accompagnare la pretessa nella stanza che le aveva destinata nel suo stesso appartamento, e si fermò a discorrere alquanto con lei dopo aver posato il lume su un tavolo accanto al quale le due donne sedettero. Ma la marchesa non si era accorta che mentre accompagnava la pretessa era stata seguita dal suo minuscolo gatto nero, un gatto piccolo di razza ma anche, e forse più, perché doveva aver sofferto la fame nei suoi primi giorni di vita. La marchesa lo aveva trovato al margine di un bosco durante una delle sue passeggiate a cavallo verso la fine di ottobre, nascosto sotto le foglie secche d'un albero, dove cercava evidentemente di scaldarsi. Un gatto sperduto, o fuggito da qualche pericolo. Se l'era portato a casa e l'aveva chiamato Mirò. In quei tre mesi che aveva trascorso al castello aveva mangiato moltissimo, ma era cresciuto assai poco, almeno di peso. Era invece cresciuto molto nelle sue propensioni per la vita di società: vale a dire non sopportava di essere ignorato quando c'erano degli ospiti. In questo caso poi l'ospite era un gatto, e grosso per giunta, che ora se ne stava pigramente appallottolato davanti al camino.

Mirò gli fece alcuni giri attorno valutandone il peso, il sesso, l'età e infine l'intelligenza. Stabilito che era del suo stesso sesso, e che quindi erano subito da escludersi certi interessi, stabilito che doveva essere più vecchio di lui e quindi più sapiente, stabilito che era più grosso e quindi più importante, restava da provarne l'intelligenza. E su questo punto Mirò decise di sfidare l'avversario.

Fece alcuni assaggi fingendo noncuranza, si molleggiò sulla linea della schiena, prese la rincorsa e finì a piedi fermi scivolando sul pavimento; ripeté l'esercizio in senso inverso andandosi a fermare proprio a pochi centimetri dai baffi del rivale che fu costretto ad aprire gli occhi già quasi chiusi nel sonno; allora giudicò che fosse venuto il momento di annichilire il grassone con le sue prove di abilità. Saltò sul tavolo, finse di gettarsi giù e s'aggrappò al bordo con una delle zampe anteriori, si spenzolò nel vuoto oscillando, ritornò di slancio sul tavolo e ripeté l'esercizio, si gettò a terra e fece una capriola, rimbalzò sul tavolo, prese la rincorsa verso il lume e si fermò a pochi centimetri, poi si gettò di sotto e riprese ad oscillare appeso ad una sola zampa. Intanto il grassone, sempre immobile davanti al camino, anziché raccogliere la provocazione, dopo averlo guardato senza interesse per un po', volse la testa dall'altra parte e si mise a dormire. Quello che accadde allora si spiega solo con una logica tipica del gatto nevrotico. Mirò rimase ad oscillare ancora un poco, appena il tempo di vincere la perplessità a cui l'aveva indotto l'atteggiamento dell'avversario, poi fece un lungo balzo ben aggiustato e giunse ad unghie sfoderate sulla schiena del dormiente. Il quale si svegliò di scatto stridendo, sbatté a terra Mirò e ve lo tenne inchiodato con una zampa. Riacquistata la calma, stava meditando come punire l'importuno quando la marchesa, che si era precipitata di corsa, gli tolse Mirò di sotto le zampe e lo portò in salvo.

- Vi chiedo scusa, signora, - disse alla pretessa; - è un gatto un po' complessato perché ha sofferto molto da piccolo. - E le due donne ripresero la loro conversazione, mentre Mirò, più avvilito che mai, andava a recuperare la dignità perduta appollaiandosi in una coppa d'argento cesellato in cui la marchesa soleva, nell'estate, tenere i fiori del gelsomino per profumare la stanza.

- Vedete, marchesa, non vi chiederei questo favore se la "Fin du monde" non fosse così isolata da rendere impossibile ad uno studioso di quel genere ogni specie di attività ed ogni contatto col mondo. Vi rendete conto che cosa vuol dire lasciare la scuola di Salerno nel fior degli anni per un sospetto di eresia? e finire in mezzo a queste montagne? - Me ne rendo conto, non dubitate, - rispose la marchesa, - e vi ripeto che non c'è nessun problema. Il castello è grande e possiamo senza alcuno scomodo ospitare questo giovane studioso: anzi sarà un piacere per noi conoscerlo e conversare con lui. Quanto al sospetto di eresia, non preoccupatevi: gli abati che avete visto girare per questo castello hanno altro a cui pensare...

- Allora siamo intese, marchesa: quando domani monsignor Venafro mi accompagnerà a casa, condurrà qui messer Goffredo da Salerno.

- E sarà il benvenuto, non dubitate, - rispose la marchesa.


Amore e morte

Il giorno dopo, nelle prime ore del pomeriggio, Venafro entrava nella corte di ritorno dalla "Fin du monde" a cavallo del suo bel Rabano e con la solita slitta legata ai finimenti. La marchesa stessa, avvertita dai servi, scese nella corte a riceverlo. Nella slitta sedeva un uomo di mezz'età, dal volto bello, ricoperto in parte da una folta barba; lisci capelli castani ricoprivano parte della fronte sfuggendo al pesante cappuccio del mantello. Si scoprì il capo di fronte alla marchesa e le baciò in silenzio la mano. I servi intanto scaricavano una pesantissima cesta piena di libri. Erano i libri su cui Goffredo da Salerno conduceva i suoi studi. Ma alla prima cesta ne seguì un'altra, ancora più grande e ancora più pesante.

- Questo, - disse Venafro, - è un dono della pretessa. Un bellissimo dono, di cui son certo che tutti noi godremo. - Così dicendo toglieva la pezza di tela che copriva la cesta. Agli occhi dei presenti apparvero bellissimi pezzi degli scacchi, torri, alfieri, cavalli e tutto l'occorrente, scolpiti in prezioso legno d'ebano e di rosa, proprio come la marchesa li aveva desiderati.

- Ma sono splendidi, Venafro! - gridò la marchesa coprendosi con le mani la bocca quasi a soffocare la gioia e lo stupore; e poi andava toccando ed estraendo dalla cesta i pezzi, che erano di bellissima fattura e di grandi dimensioni, raggiungendo ognuno il mezzo metro d'altezza.

- La pretessa ci ha fatto uno splendido dono, Venafro! come potremo mai sdebitarci con lei? - Ecco, veramente, madonna... c'è un'altra cosa che non avete ancora visto e che la pretessa vi prega di accettare e tenere con voi. Se la "Fin du monde" non fosse troppo solitaria, l'avrebbe tenuto con lei, lassù. Ma teme che sarebbe cresciuto troppo selvatico. - Mentre parlava aveva tratto fuori dalla slitta un fagotto avvolto in uno scialle e andava svolgendolo delicatamente. La marchesa ebbe un sussulto: - Ma Venafro! questo è un bambino! - Si, signora, è un bambino - e dall'apertura dello scialle usciva intanto una testa bionda che guardava curiosamente intorno, poi una manina che s'allungava cautamente ad afferrare alcuni peli dei baffi di Venafro e li tirava con tutta forza.

- Si chiama Cicco, signora. Nemmeno la pretessa sa chi sia. Dovrebbe avere dai due ai tre anni: gliel'hanno portato che era piccolissimo.

Vi raccomanda di averne cura e vi fa sapere che verrà a vederlo ogni tanto, - e così dicendo Venafro cercava di difendere i suoi baffi girando la testa dall'altra parte.

I regali della saggia pretessa piacquero molto; a qualcuno piacquero più gli scacchi, a qualcun altro più il bambino. A madonna Maravì piacque soprattutto Goffredo da Salerno. Anzi non l'aveva ancora visto che già ne era innamorata. L'aveva sentito parlare e aveva riconosciuto la lingua elegante che parlano a Salerno le persone di cultura. Quando poi lo vide, la sua persona le piacque ancor più che la sua parlata.

Nel complesso Cicco andava d'accordo con tutti, tranne con Mirò: i due litigavano di cuore come litigano spesso le persone che si amano ma non vogliono capirlo. Così si rubavano le pigne da giuocare e i panini al miele che madonna Camilla faceva cuocere apposta per loro; talvolta addirittura si picchiavano e poi Mirò si nascondeva a consumare in silenzio il suo dolore e Cicco correva piangendo dalla marchesa o da qualche damigella o dallo stesso Venafro per cui aveva una gran predilezione.

L'unico che ebbe a ridire sulla presenza di Cicco fu l'abate Foscolo, prete saccente e autoritario che vedeva nel bambino un figlio del peccato.

- Marchesa, - disse un giorno affrontando l'argomento, - non potete tenere in casa vostra uno che non sapete chi sia.

- Perché? - chiese madonna Bianca.

- Perché non sapete chi sia.

- A maggior ragione lo tengo, - rispose la marchesa, - pensate che potrebbe essere un principe, anzi dev'essere un principe di sicuro; oppure il figlio del papa, oppure il figlio di qualche santo importante. - L'abate Foscolo interruppe questo discorso da cui capiva di non poter ricavare molto. Si limitò a guardare il bambino con occhi malevoli, ma lui non se ne accorse perché non aveva nessun motivo di guardare l'abate Foscolo. Accadde anzi ben presto una cosa incredibile: Cicco e Mirò diventarono amici: giuocavano insieme con le pigne e mangiavano insieme i pasticcini di madonna Camilla e tale fu il loro rapporto che divennero ben presto inseparabili.

Era il mese di febbraio e il sole cominciava a riscaldare la neve. La marchesa riprese la sua antica abitudine di uscire a cavallo nelle ore tiepide del pomeriggio e Venafro le era spesso compagno in queste cavalcate. La marchesa sceglieva di preferenza il suo cavallo Ippomele e Venafro doveva trattenere con la briglia il focoso Rabano perché portava seduto davanti a sé, ben avvolto in uno scialle di lana o in una coperta di pelliccia, il piccolo Cicco, mentre la marchesa portava sul suo cavallo il piccolissimo Mirò. Ma intanto un dramma maturava tra le mura del castello.

Un dramma d'amore. S'è già detto che madonna Maravì aveva provato un tuffo al cuore sentendo la parlata di Goffredo da Salerno. E per tutta la sera era rimasta ad ascoltarlo immobile e muta mentre lui, durante la cena e nelle ore che precedevano la notte, discorreva col duca il quale era particolarmente interessato a certe iniziative chirurgiche di messer Goffredo, quelle appunto in grazia delle quali s'era buscato l'accusa di eresia. Si trattava di trapianti. Maestro Goffredo aveva teorizzato che, quando un organo del corpo si dimostra guasto e non più recuperabile con le usuali cure, vuoi di erbe, vuoi di unguenti, si può ritagliare via dalla sua naturale sede e sostituire con un analogo organo d'altro animale. All'uopo egli aveva allevato nella sua casa di Salerno alcune bertucce, che non erano, a suo dire, molto diverse dall'umana specie. Aveva già fatto esperimenti trasferendo organi da una bertuccia all'altra e qualche volta, non molto spesso a voler dire il vero, il trapianto era riuscito. Adesso era giunto al punto che si tentasse qualche operazione sul corpo dell'uomo, ed egli aveva già trovato in Salerno un vecchio signore senza denti a cui aveva disegnato di trapiantare tutti i denti d'una scimmia con la mascella intera e forse anche il palato. Ma la sua teoria aveva destato scandalo. Non per il rischio, tutt'altro che trascurabile, che il paziente morisse durante il trapianto, né per il dolore che egli avrebbe patito durante l'operazione, il quale per gli uomini di scienza non suole essere cosa rilevante né offende i principi della fede religiosa: i dotti signori della scuola avevano sentenziato che ciò offendeva l'umana dignità poiché era connubio d'uomo e d'animale, né più si sarebbe potuto chiamare uomo colui che fosse vissuto con un organo d'animale.

Mentre Goffredo da Salerno così le sue calamità andava raccontando, due persone particolarmente, tra l'attenzione generale, pendevano dalle sue labbra: il duca che, soffrendo molto e da molto tempo di una acuta colite, covava in fondo al cuore il desiderio di possedere un intestino nuovo, tutto o in parte, che gli permettesse di mangiare e di affrontare gli spifferi d aria senza dover temere sempre terribili conseguenze; e madonna Maravì, che s'era accorta quale bella bocca messer Goffredo avesse nella barba, ed era tanto assorta a guardar quella, che per tutta la sera si dimenticò di scuotere i riccioli ramati.

Quella notte, mentre nel castello tutti, chi più chi meno, dormivano sepolti nel gran silenzio, il duca e madonna Maravì si rigiravano insonni tra le coltri rivolgendo nella mente gran pensieri. Pensieri assai diversi in verità. Il duca, ormai conquistato all'idea di possedere un intestino nuovo, valutava i rischi di una simile operazione, e si domandava se era il caso che ne parlasse l'indomani con messer Goffredo. Ma in fondo al cuore lo rodeva un pensiero tetro, che avvelenava ogni speranza: da quelle parti non s'era mai vista una scimmia. Madonna Maravì invece pensava quale vestito avrebbe potuto indossare per attirare l'attenzione di quell'uomo che, per dire il vero, benché si fosse dimostrato assai benigno e garbato e il suo viso non disdegnasse di sorridere con gli occhi e con la bocca, tuttavia le pareva un pochino riservato, e forse anche ritroso.

Poco prima dell'alba di quella notte insonne i due personaggi avevano preso le loro decisioni: il duca aveva deciso di aspettare qualche giorno prima di parlare al chirurgo di quella sua difficile intenzione. E finalmente si addormentò. Madonna Maravì invece aveva deciso di dare avvio subito, quel giorno stesso, alla sua iniziativa e di indossare qualche abito che non potesse passare inosservato. E già prima dell'alba era in piedi, inginocchiata per terra, ed estraeva da una grande cassa i suoi abiti più belli.

Quel giorno stesso la marchesa scelse una saletta, non grandissima, ma ampia tuttavia, e fece dipingere sul pavimento una bella scacchiera a campi bianchi e neri. Era una saletta quadrata, con due belle finestre incavate nella parete del castello, che guardavano proprio sulla corte. Nello spessore del muro ai lati delle finestre erano poste delle panche di legno ricoperte di morbidi cuscini, dove la marchesa amava sedere a leggere o ricamare o conversare con le sue donzelle al sole del tramonto, perché quelle finestre volgevano ad occidente. Fu proprio in quella saletta che madonna Maravì apparve, poco prima dell'ora di cena, vestita dell'abito che aveva scelto per andare alla sua guerra. Era un abito di raso rosso ciliegia, bordato allo scollo e alle maniche, che terminavano assai ampie ed aperte, di un sottile giro di candido ermellino; di candido ermellino era bordato anche l'orlo in fondo alla veste, che un poco sollevata sul davanti sì da mostrare le scarpine dello stesso raso del vestito e scoprire persino fino al malleolo la caviglia, scendeva dietro in un lungo strascico serpeggiante. Il rosso dell'abito accentuava il rosso dei capelli e il candore del collo e del seno che generosamente appariva dall'ampia scollatura.

Quando madonna Maravì entrò nella saletta fu come se entrasse una fiammata: il duca, che stava giuocando agli scacchi con l'abate Mistral e proprio allora spostava un cavallo d'ebano in uno dei campi neri, non si sa come, lo lasciò cadere e ci inciampò dentro. L'abate Mistral strinse leggermente gli occhi grigi per meglio vedere e dal gruppo degli altri abati partì un leggero sibilo: doveva essere stato l'abate Leonzio, ormai noto al castello per la sua propensione per le donne, vuoi dame vuoi serventi. Messer Goffredo da Salerno si inchinò leggermente verso la giovane donna e sorrise.

Al momento di andare a tavola, con abile diplomazia madonna Maravì intrattenne messer Goffredo sulle bellezze di Salerno e del suo golfo, ch'ella ben conosceva poiché veniva dalla corte angioina di Napoli, ed ottenne così di avvicinarsi al tavolo con lui e sedersi accanto a lui.

Ognuno sa quanto è importante il posto a tavola nelle faccende d'amore. Nell'allegria generale, madonna Maravì era la più allegra.

Il giorno dopo aveva il raffreddore. Ma chi pensasse che madonna Maravì fosse scontenta di sentire mal di capo e l'impulso di tossire, si sbaglierebbe di molto. Si vestì d'un abito di velluto nero, tutto accollato e che l'intera persona fasciava fino ai fianchi perdendosi poi in molle ampiezza fluttuante. Si sbiancò accuratamente le guance con polvere di creta, annodò i capelli più in basso sulla nuca e assunse un'aria languida e sofferente. Non sapremo mai che cosa dicesse a messer Goffredo mentre sedeva accanto a lui sulla breve panca nel vano della finestra, là nella sala degli scacchi. Parlava forse della sua malattia. Ser Goffredo l'ascoltava compunto e comprensivo e forse, così sembrava ma poteva essere un'impressione sbagliata, anche un pochino imbarazzato. Non era un'impressione comunque che messer Goffredo si restringesse sempre più sulla breve panca e sempre più perplesso guardasse il pavimento. Qualche giorno dopo madonna Maravì era ancora più malata.

- Il vostro raffreddore peggiora, Maravì, - le disse la marchesa vedendola entrare in quella stessa sala degli scacchi, deserta in quel momento se si tolga la marchesa che sedeva ricamando accanto alla finestra. Il raffreddore, come ognuno sa, è una malattia dell'anima, e madonna Maravì era molto malata, nell'anima. Lo dicevano chiaramente gli occhi rossi e un po' gonfi, le labbra screpolate e l'acconciatura trascurata. La battaglia per messer Goffredo era perduta. Quando il maestro aveva capito l'intenzione sottile della damigella - e ciò era accaduto assai presto - si era fatto più sfuggente, anche perché era ormai assorbito dal problema del duca Franchino, il quale si era finalmente deciso ad aprirgli il suo cuore.

- Non potete costringere una persona ad amare, le diceva pacatamente la marchesa. - O ama, o non ama. È come il sole: o c'è, o non c'è, ed è nuvolo.

- Ma ci vorrebbe così poco, - si ostinava la damigella, - che cosa gli costa? Si starebbe così bene... e non se ne pentirebbe, ne sono sicura. E invece che cosa fa? Mi sfugge, come se avesse paura di me. - E si asciugava gli occhi e il naso con un bel fazzoletto ricamato. Ecco vedete, madonna, - diceva spalancando la finestra e sporgendosi fuori, - vedete, eccolo là che passeggia con gli abati, a tal punto mi disprezza che preferisce la compagnia di quelli... - e mentre la marchesa si affacciava a sua volta alla finestra e diceva: - Ma siete sicura, Maravì, che sia proprio lui? Madonna Maravì in un impeto di sdegno aveva afferrato una torre degli scacchi e l'aveva scagliata furiosamente dalla finestra. L'uomo, colpito, cadde e rimase immobile. In quel momento si udì sulla porta della stanza la voce di ser Goffredo che diceva al duca: - Effettivamente una difficoltà c'è, monsignore. Qui non abbiamo scimmie. - E mentre il duca obiettava: - E gli orsi? Un intestino d'orso non potrebbe andare ugualmente bene? madonna Maravì si voltò di scatto e rimase senza fiato.

- Avete sbagliato persona, Maravì, - diceva la marchesa sporgendosi dalla finestra. - Se la vista non mi inganna avete colpito l'abate Foscolo.

Il giorno seguente questo nuovo lutto che così crudelmente andava ad aggiungersi alla fatale serie che già aveva colpito il castello, la marchesa sedeva con la damigella a quella stessa finestra e diceva: - Vedete, Maravì, l'amore è un rapporto, non un possesso. E un rapporto è reciproco e libero, non si impone. Né si può pretendere che duri nel tempo: può durare oppure essere brevissimo. Ma nel momento in cui si attua realizza la libertà di tutti e due gli amanti. Il possesso invece dura anche tutta la vita, ma uno dei due è schiavo. - E dopo una pausa soggiunse: - Vedete quelle orme che si perdono verso la valle? sono di qualcuno che se n'è andato. Ma potrebbe anche tornare. E se torna, è perché lo vuole. - Così dicendo la marchesa prese un grappolo d'uva dolcissimo e appassito da un cestino di frutta e cominciò a piluccarlo porgendolo contemporaneamente a madonna Maravì. Mentre questa, asciugandosi gli occhi, allungava dubitosa la mano alla dolce leccornia, arrivò velocissimo come un piccolo topo il piccolissimo Cicco e altrettanto velocemente prese a piluccare dal grosso grappolo succoso i più succosi chicchi e i più maturi. E per raggiungerli meglio si arrampicò in grembo alla marchesa. Mirò, dopo aver dato una sbirciatina, si mise a sonnecchiare. L'uva, ai gatti, non è mai piaciuta.


Messer Favonio

E poi venne il favonio che spezza il ghiaccio atroce in un giocoso alternarsi di vento e primavera e desta gli animali dal sonno invernale e li fa uscire dal chiuso come cuccioli ebbri in cerca di sole. Nessuno se l'aspettava, nessuno l'aveva previsto. Marzo era incominciato tra nebbia e gelo. Ma, un mattino, il favonio era arrivato. Nebbia e gelo scomparvero, le grondaie del castello sgocciolarono allegramente la vecchia neve dei tetti, la corte divenne un impasto di fango e neve fondente. Il cielo era di un tenero azzurro solcato di strisce bianche e i capelli della marchesa, quando s'affacciò alla finestra, furono investiti da un'ondata d'aria tiepida e molle.

- È il favonio, - disse sorridendo, e issò la bella persona a sedere sul davanzale della finestra. Venafro, che giungeva a cavallo da chissà dove, vide la sua bianca camicia sventolare nell'aria, e sorrise.

In quel momento Cicco correva piangendo nella corte incontro a Venafro, e indicava singhiozzando un punto del tetto. Venafro lo prese in braccio e fissò lo sguardo seguendo il dito del bambino; seguì contrafforti, guglie e grondaie, e scorse, infine, una piccola sagoma nera che si muoveva cautamente tra le lastre di pietra del tetto.

Saliva e scendeva, silenziosa e circospetta in cerca di qualcosa, in traccia di qualcuno.

La tragedia nella vita ha molte facce. Per Cicco aveva la faccia di un gatto traditore, che l'aveva abbandonato solo nel letto per andarsene in cerca di avventure amorose. A nulla valsero i panini di madonna Camilla, né l'uva appassita della bella marchesa. Cicco continuava a singhiozzare avvinghiato al collo di Venafro, il quale, imbarazzatissimo, non trovò di meglio che installare il bambino sul cavallo davanti a sé, e andare in direzione del bosco pietroso chiazzato di sole.

- Vedi, Cicco, è arrivato il favonio, ed è quasi primavera. I gatti vanno in amore; per questo Mirò gira per i tetti in cerca di una gatta.

Il bambino lo guardava con grandi occhi spalancati nel viso bagnato di lacrime.

- Anche gli uomini hanno bisogno d'amore quando soffia il favonio. Ma sono meno saggi dei gatti, e spesso non sanno trovarlo.

Il bambino non gli toglieva gli occhi dal viso, come se capisse.

- Invece Mirò troverà la sua gatta, non dubitare.

Poi scesero dal cavallo e si inoltrarono a piedi nel bosco. Ad un tratto Cicco liberò la sua mano da quella dell'uomo e corse verso un mucchietto di foglie di faggio accumulate dal vento. Si fermò a guardare chino, con le mani sulle ginocchia: il mucchio di foglie sussultava, tremolava, come se qualcosa si muovesse là sotto. Poi il bambino allungò una mano e cominciò a frugare tra le foglie.

All'improvviso qualcosa schizzò fuori dal mucchio verso il bambino.

Cicco fu svelto a serrare le braccia sul petto e si trovò tra le mani un animale dalla pelliccia folta e calda, che gli si agitava tra le braccia e allungava il muso fornito di denti aguzzi verso la sua faccia.

- Bene, Cicco, hai preso una marmotta! - disse Venafro; - e ora che ne farai? la marmotta non verrà mai a letto con te.

Il bambino lo guardò dubbioso, poi, di fronte a un nuovo tentativo dell'animale di mordergli il viso, allentò la stretta e lo lasciò fuggire.

Tornarono insieme al castello, un po' tristi tutti e due. Frattanto le damigelle, mobilitate dalla marchesa, avevano cucito una sagoma di pelliccia nera, con collo, zampe e coda, e l'avevano riempita di paglia. Stavano proprio allora attaccando una palla della stessa pelliccia con due fili di paglia cuciti sul davanti, che voleva essere la testa con i suoi baffi. La diedero al bambino con grandi feste, mentre Venafro sorrideva dubbioso. Cicco prese tra le braccia il gatto di pelliccia guardandolo con aria perplessa; ci strofinò contro una guancia e stette a vedere che cosa succedeva. Non successe niente. Con Mirò invece qualcosa sarebbe successo. Ma poi sembrò pensare che un gatto di pelliccia era sempre meglio che niente, e se ne andò tenendolo tra le braccia.

Il favonio però continuava, Mirò non tornava e Cicco era triste. Anche molti uomini e donne erano tristi e nervosi mentre il bosco sembrava scuotersi baldanzoso e dispettoso nella precoce primavera. E i larici già si riempivano di pennacchi rosati.

Allora Venafro decise di insegnare a Cicco a suonare il flauto. Non fu un'impresa difficile, una volta superata la prima difficoltà tecnica di disporre le dita nei buchi; anzi mai allievo si dimostrò così diligente. Sedevano a lungo insieme, maestro e allievo, mentre la neve aveva ripreso a cadere sul mondo ritornato bianco e grigio. La marchesa spesso stava a guardarli con il viso nel cavo delle mani, i gomiti appoggiati alle ginocchia. In capo a pochi giorni Cicco sapeva suonare un'intera pastorella.

E suonava quasi tutto il giorno girando per il castello o seduto sulla panca nella corte, quando non era troppo freddo, e imparando sempre nuove musiche e sempre meglio. Venafro non avrebbe potuto avere scolaro migliore. Il giorno che ricomparve Mirò, magro, spelacchiato, e con segni visibili di risse notturne, Cicco fu il primo a vederlo e non poté trattenere un grido. Ma poi, invece di slanciarglisi incontro, prese il suo flauto e incominciò a suonare una gavotta: il gatto lo guardava attonito e ammirato avvicinarsi a lui solenne accennando un piccolo passo di danza. Fecero la pace; ma Cicco ormai sapeva suonare il flauto.

Un giorno di fine marzo, che la neve era cessata già da una settimana e la strada della valle era quasi completamente sgombra, giunse al castello, inaspettata, la pretessa. Fu accolta con grandi feste da tutti, in particolare dalla marchesa che subito le diede notizie di Cicco. La pretessa era venuta a piedi per vederlo, senza tutte le sue solite ceste ma con un unico cestino in cui c'erano noci, nocciole, e una grande focaccia impastata con miele e ricotta e tutta cosparsa di semi di finocchio. Tutti regali per Cicco.

Ma nella confusione Cicco era scomparso. Qualcuno credette di averlo visto affacciarsi nel salone mentre tutti attorniavano la pretessa incalzandola di domande. Ma poi più nessuno l'aveva visto. Lo cercarono dappertutto, invano. Infine, poiché la pretessa era stanca, sedettero nel salone a conversare mentre lei si ristorava. Era un po' contrariata dalla scomparsa del bambino, e delusa, perché si aspettava delle grandi feste da lui; tanto più che gli portava tutti quei regali. Mentre conversava con la marchesa, Venafro il duca e messer Goffredo, ecco che si udì dietro il muro a lato del camino, come da una perfetta cassa di risonanza, un piccolo suono di flauto che, dopo aver tentato note diverse, si lanciava nel più lieto saltarello che mai castello avesse udito: il buco nel muro che era servito un tempo come deposito di legna da ardere ed era stato poi chiuso dalla parte del salone con un assito intonacato a calce che lo rendeva invisibile, ampliava e approfondiva il suono del piccolo flauto dandogli vigore e potenza. Tutti tacquero sorridendo. Quando il saltarello fu finito si videro uscire dal camino, scivolando davanti alle fiamme, Cicco, il gatto Mirò e il gatto di pezza, tutti neri di fuliggine e bianchi di cenere. La pretessa prese in braccio il bambino e lo baciò, poi tutti e tre, bambino, gatto vero e gatto finto furono messi in una tinozza di acqua tiepida e lavati. Cicco, già ricco come un principe perché possedeva un flauto, un gatto vero e un gatto finto, ora fu ancora più ricco perché ebbe in dono una focaccia col finocchio. Se la mise sotto il braccio e quando madonna Camilla gli chiese se voleva mangiarne una fetta, la guardò con il suo sguardo più cattivo. Alla sera lo misero a letto con i gatti, con il flauto e la focaccia.


Musica proibita

- Quel fanciullo non dovrebbe possedere un flauto. Tutti si voltarono a guardare chi aveva parlato. Lui era là, sulla porta, tutto avvolto nella grande tonaca nera lunga fino ai piedi, alto e giallo perché soffriva di bile, l'abate Ipocondrio. Tutti lo guardarono interrogativamente, in silenzio.

- Nessun fanciullo dovrebbe possedere un flauto, - ribadì l'abate.

- Perché? - chiese Venafro, e intanto pensava che tutti i bambini dovrebbero possedere un flauto, o un piffero, o un'ocarina.

- Il flauto non dovrebbe nemmeno esistere, - ampliò il suo pensiero l'abate avanzando nella sala; e non solo il flauto, ma la viola, il liuto, i tamburelli e tutti i maledetti istrumenti seduttori.

Il duca Franchino pensò alla sua viola d'amore e sorrise.

- Mille volte dannato sia, chi inventa uno strumento da far musica, poiché anime perdute sono quelle che amano suonare e cantare. Anche il canto conduce a perdizione.

- Ahimè, monsignore, il grande Gregorio non pensava come voi, intervenne la marchesa leggermente irritata.

- Il grande Gregorio fece canto da farsi in chiesa. In chiesa può farsi canto ed anche musica, signora, ma fuori dei luoghi consacrati è bene che siano banditi l'uno e l'altra, perché son arti del demonio.

È il demonio stesso che insegna a modulare i toni, che suggerisce i suoni sensuali e seduttori che si traggon dagli istrumenti e che la perversa razza dei poeti lega alle canzoni stolte e licenziose sì che ogni suono, ogni nota, ogni parola, diventa veicolo di lussuria. E il diavolo si desta, e s'accosta non visto a suonatori ed a cantanti, e presta il suo potere diabolico alla lor arte, accende i cuori di chi fa musica e di chi ascolta, e impure fiamme serpeggiano nel sangue e accendono desideri innominabili che trascinano uomini e donne nell'abisso del peccato.

Tutti ascoltavano in silenzio, tranne la marchesa che domandò: - Quei desideri innominabili, monsignore, sarebbero forse desideri d'amore? - Madonna non fatemi dire parole impure. Ricordate che il demonio è sempre pronto alle nostre spalle. E ricordate che suoni e parole sono i veicoli che lo lasciano entrare in noi. Per questo tutti i suoni e certe parole si possono fare e dire solo nei luoghi consacrati, dove il demonio non può entrare, ma resta confinato sulla soglia a divorarsi di rabbia. Allora suoni e canti diventano veicoli di emozioni pure, linguaggio per parlare con Dio. Ma guai a chi li porta fuori delle chiese, guai a chi con essi offre al demonio il mezzo per sedurre gli altri. Non oso pensare che cosa può essere un flauto nelle mani di un ignaro fanciullo, o d'una donna, che di saggezza è pari ad un fanciullo. Non oso pensare che cosa diventerebbe il mondo se un giorno ogni uomo, donna o fanciullo potesse maneggiare uno strumento da far musica, per cantare e per danzare e fare tutte quelle cose stolte e sconce che dal canto sono alimentate e dalla musica. La seduzione correrebbe per le strade, la lussuria scivolerebbe per ogni vena e all'uomo pio non resterebbe che esser cieco e sordo per sfuggire alle tentazioni e salvare l'anima sua.

Il vecchio Ipocondrio tacque chinando la testa sul petto. Poi la rialzò con scatto guerriero e disse: - Perciò dico che domani si tolga il flauto a quel fanciullo.

- Provateci voi, - disse calmo Venafro che già mentalmente aveva fatto il conto dei flauti, pifferi, ocarine e di tutti gli strumenti che c'erano nel castello. La marchesa, pallida di sdegno, s'alzò e lasciò la sala senza dire nulla.

- Ma voi credete veramente ai diavoli, monsignore? - chiese dolcemente la pretessa a Ipocondrio. Quello era troppo perso nelle sue visioni e non alzò neppure la testa né rispose. Fu il duca Franchino invece che a quella domanda della pretessa la guardò aggrottando le sopracciglia, e stava per farle una domanda; ma poi lasciò perdere. Venafro sorrideva tra sé.

Quando l'indomani il sole, dopo aver lottato alquanto con nebbiette rossastre che indugiavano sui monti, raggiunta forza e limpidezza, dilagò attraverso le finestre nelle stanze del castello, l'abate Ipocondrio, nella sua lunghissima tonaca nera, apparve sulla porta della sala e chiese alla marchesa: - Dov'è quel fanciullo? - Cercatevelo, - rispose la marchesa con insolita malagrazia.

E lo cercò, il vecchio, per tutto il castello, chiedendone a chi incontrava. Ma nessuno, né Venafro, né la pretessa, né maestro Goffredo, sapeva dove fosse. Cercò per tutto il castello, nella cucina, nelle stalle, infine uscì nella corte, sollevando con le mani la lunghissima tonaca per non infangarla. Il bellissimo gallo del pollaio, che girava per la corte rizzando quanto più poteva la superba coda rossa e nera, gli andò incontro e gli fece il suo più sonoro chicchirichì. L'abate fece l'atto di allungargli una pedata e in quella mostrò le calze a righe rosse e nere. Qualcuno rise allegramente a una finestra, sembrava un riso di donna; l'abate guardò in su ma non vide nessuno. Si aggirò per la corte un po' sperso, guardando qua e là, cercando di distinguere, tra i mille fruscii e cinguettii di creature nascoste nei buchi tra le pietre, se per caso sentisse il passo d'un bambino o qualcosa del genere. Intanto s'era avvicinato alla doppia cinta di mura merlate.

Fu qui che, improvvisamente, udì un breve suono di flauto. Due note soltanto, che si ripetevano uguali a intervalli e che sembravano il verso del cuculo. Sì, dicevano proprio, ma a intervalli e provenendo da punti sempre diversi: cucù, cucù, cucù. Mentre volgeva rapidamente la testa di qua e di là in cerca del colpevole sorprese un garzone e una ragazza che uscivano abbracciati dalla stalla delle vacche: lui reggeva con la destra un grande secchio di latte, e mentre circondava col braccio libero il collo della ragazza per baciarla il secchio si sbilanciò, il latte traboccò e la ragazza rise; gli tolse il secchio, lo posò in terra, gli prese entrambe le mani e se le allacciò dietro la vita abbracciandogli poi il collo e baciandolo.

- Spudorati! - gridò Ipocondrio e si sollevò la tonaca per correre verso di loro. Interruppero il bacio, guardarono verso l'abate e fuggirono ridendo. Giunto sul luogo, Ipocondrio non trovò che il secchio pieno di latte schiumoso. Intanto una viola accompagnava un'alba struggente di sensuale malinconia: era il duca Franchino, seduto a cavalcioni del parapetto del verone, e guardava verso la finestra della marchesa. Cucù, cucù, cucù: questa volta il flauto era vicinissimo, alto sulla prima cinta di mura. Certamente il piccolo suonatore insolente si nascondeva nel camminamento che orlava la prima cinta di mura, che era la più alta. O forse non aveva bisogno di nascondersi perché era così piccolo che il muretto lo copriva.

- Iddio misericordioso! - gridò Ipocondrio aguzzando gli occhi verso l'alto. Non vide nessuno, ma si ricordò che lì vicino c'era la scala che portava al camminamento. La raggiunse, salì e una violenta vertigine lo turbò tutto. Il muretto gli giungeva appena alle ginocchia. Nondimeno, coraggiosamente, sollevò la tonaca e cominciò a muovere cauti passi verso il luogo di dove era provenuto il suono.

- Cucù, cucù, cucù, - ma questa volta proveniva dalla parte opposta.

Deciso, Ipocondrio diede un forte colpo alla tonaca e ruotò su se stesso invertendo il senso del cammino. Sì, questa volta il suono era davanti a lui, ma non era il solito cucù. Il piccolo suonatore aveva attaccato una gavotta e suonava camminando davanti a lui perché il suono lo precedeva sempre. Anzi a un certo punto lo vide, il piccolo furfante: non camminava né correva, ma procedeva ballando come un piccolo dio dei campi, leggero e sicuro al riparo del duplice muretto del camminamento. Ipocondrio guardò in giù, soffocò un grido di paura e, col coraggio della dedizione al dovere, allungò il passo.

- Se lo raggiungo... - mormorò, e si sforzò di correre. Ma era troppo alto e il muretto non era per lui sufficiente riparo. La tonaca, poi, gli scivolava attorno alle gambe fasciandolo pericolosamente. Ma avanzò, malgrado tutto. Terminata la gavotta ci fu un silenzio abbastanza lungo. Ipocondrio continuava ad avanzare, benché disorientato da quel silenzio, quando, improvvisamente, un salterello indiavolato gli scoppiò alle spalle.

- Ha fatto il giro delle mura, il delinquente... - mormorò l'abate con voce affannata, e si voltò indietro per correre in senso opposto; nella fretta lasciò scivolare dalle mani la tonaca, ma incurante di tutto si slanciò all'inseguimento della musica che si allontanava saltellante e sempre più veloce ed allegra... e così cadde, nell'adempimento del dovere, dalla cinta più alta delle mura, l'altissimo abate Ipocondrio. Qualcuno dalle finestre del castello vide la grande tonaca nera svolazzare lungo il muro e ammucchiarsi poi, immobile, al suolo.


Il trovatore

- Veris ad imperia, eya, renascuntur omnia, eya...

Aprile era nato sotto il segno della pioggia, pioggia calda e sciroccosa che inturgidiva i rami degli alberi e gonfiava i semi nella terra. Una mattina, che il cielo era solcato da nuvole gravide di umori tiepidi e tempestosi, la marchesa di Challant fu destata dal canto di una strofa accompagnata dal liuto, giù nella corte. La pioggia intorbidava la luce che filtrava dalle finestre e il vento portava la canzone confondendone la voce umana che la cantava. Ma la marchesa la riconobbe, quella voce, e corse alla finestra e di dietro i vetri investiti dalla pioggia vide il cantore, avvolto in un mantello scuro, coi capelli biondi incollati sulle tempie e sul collo e gli occhi azzurri rivolti verso di lei. Appoggiò le mani aperte alla finestra, e con le mani tutto il corpo, come se volesse penetrare il vetro e uscire fuori, confondersi con la pioggia e con l'aria e volare incontro al cantore. Lui, guardando in su, dovette vedere quell'immagine bianca dietro il vetro bagnato di pioggia, perché la voce gli tremò nel canto e poi tacque, mentre la mano abbassava il liuto. La pioggia raddoppiò d'intensità e cancellò la figura della donna dietro il vetro, e quella del trovatore giù nella corte.

Quando la marchesa scese nell'atrio del castello, lui era là in piedi, col mantello bagnato e i capelli incollati al viso.

- Vi ho portato un regalo, marchesa - e, aperto il mantello, mostrò un cestino di ciliege. La marchesa lo prese, stupita.

- Ma v'è dunque un luogo, - disse, - dove le ciliege sono già mature? - V'è un luogo, madonna, dove le viti già mettono i loro piccoli grappoli, dove la malva fiorisce negli orti, dove i frutti sugli alberi già prendono il posto dei fiori.

La marchesa gli tolse dalle spalle il mantello bagnato, lo fece rivestire di panni asciutti e lo invitò a sedere davanti al camino. Al calore del fuoco, porgendogli una coppa di vino, gli chiese di quel luogo dove allora, mentre al castello di Challant le grondaie sgocciolavano l'ultima neve, maturavano quelle ciliege grandi e rosse.

- Lasciai le nevi della Savoia all'inizio del disgelo, - incominciò il trovatore, - che le montagne erano ancora piene di ghiacci. Dal castello di Chambery sono partito una mattina nella gran nebbia della valle per andare in cerca di sole. Scendevo verso sud e mi volgevo a guardare il castello in cui avevo trascorso tutto l'inverno; salutavo le torri di lontano col pensiero e spronavo il cavallo verso l'azzurro mare. Poi venne il bosco e coprì tutto al mio sguardo, coprì il cielo, il monte ed anche il castello. Camminai a lungo nell'immensa foresta ancora triste d'inverno e di neve, e sempre pensavo all'azzurro mare su cui splende il sole di Provenza. Ma, ahi, madonna, dov'era il mare, e dov'era il sole? Vagavo come un cieco nel bosco e nella nebbia e già scendeva la notte senza stelle della cupa foresta. Se avessi trovato una capanna, un fienile, una tana, mi sarei gettato a dormire, come un re nel suo letto di lana: ma non trovai nessun asilo, o la foresta era tanto buia e fitta che io non lo vidi. Camminavamo tristi, io e il mio cavallo, e nostro albergo, quella notte, fu solo il mio mantello. Già senza forze giacevo sulla sua groppa, stremato dal freddo dalla paura e dalla fame, quando sentii il cavallo animarsi sotto il mio corpo, dare uno scarto, e ravvivare il passo. Sollevai la testa e tra le stanche ciglia vidi un chiarore tra i nudi rami del bosco, un pallido livido chiarore come d'alba che stenti tra le nubi. La foresta s'andava diradando, il chiarore si fece di grigio lievemente biancastro e quando il buon cavallo m'ebbe portato fuori del bosco io mi ritrovai in una gran pianura aperta, e nella nebbia chiara di sole sorgente udii un fresco frusciare di acque. La nebbia si sciolse sul lago di Bourget mentre il disco del sole appariva rosso sull'orizzonte e scopriva i monti ancora bianchi di neve e ancora più bianca, al di là del gran lago, la serena visione di un bianco convento. Là dirigemmo i nostri passi stanchi e là ci accolsero le fide mura orlate di brina. Un giorno ed una notte riposammo nel convento e poi scendemmo giù lungo il fiume che dai monti di Savoia discende verso il mare. Il cielo si faceva sempre più azzurro, la campagna sempre più viva; circolava per l'aria un profumo di fiori, un caldo profumo dolce-amaro che andavo aspirando senza capire donde venisse. Poi, infine, li vidi, fioriti tra le torri d'Avignone, i bianchi mandorli dal profumo dolce-amaro, quei mandorli fioriti sotto cielo benigno che conosce il sole anche nell'inverno. La città era piena di fiori, narcisi e lunghi giaggioli dorati, legati a mazzi ai tronchi delle querce che, pigre, non avevano ancora la loro fronda verde. Ma l'azzurro mare mi chiamava verso il sud e lasciai Avignone tra balli e canti che festeggiavano la primavera, ed ecco, a un tratto sotto le zampe del cavallo verdeggiava la Camargue chiazzata di eriche viola e bianchi gigli d'acqua profumati. Le cavalle pascolavano con i loro puledrini dubitosi sulle scarne lunghe zampe e i cavalli selvaggi correvano a torme tra i roveri e i biancospini appena rifioriti. Le cicogne nel cielo viaggiavano verso settentrione.

La marchesa ascoltava rapita e vedeva negli occhi azzurri del trovatore le nebbie di Bourget e le torri di Avignone, le cavalle della Camargue e i mandorli fioriti.

- A un tratto, madonna, sentii il suolo farsi molle sotto gli zoccoli del cavallo; larghe chiazze di fango si alternavano alla prateria, stagni colorati di verde a dolci colline dorate di giaggioli. E un odore nuovo sentivo nell'aria, un molle profumo di terra salmastra misto al più dolce sentore di mimosa. Finché a un tratto lo vidi, dall'alto di una verde collina, confuso nei vapori della sera, il mare azzurro e silenzioso.

- Il mare, trovatore? dimmi, com'è il mare? - Il mare è la grande coppa del cielo, l'interminabile viaggio dei delfini, l'azzurro crogiuolo di limpidi cristalli. Un fremito continuo lo percorre incessantemente, come un immenso corpo che goda di un'infinita carezza.

- E là, trovatore, sono maturate queste ciliege? - Sì, madonna. Là i fiori del mandorlo sono già stati portati via dal vento, e quelli dei peschi, e quelli dei ciliegi. Là i tralci delle viti già inturgidiscono e mettono grappoli, là i primi frutti maturano sui rami, là io raccolsi fragole, madonna, e queste ciliege, per voi.

Tacque guardando la marchesa che toccava dolcemente con le mani le belle ciliege nel cestino.

- Grazie, trovatore, - disse alzando gli occhi e guardandolo a sua volta, - non potevi farmi regalo più gradito. Ma se laggiù era così bello, dimmi, perché sei tornato a questi monti? - Cercherò di spiegarvi, madonna, quello che mi accadde. Quando vissi l'inverno a Chambery, tra i monti pieni di neve, ero triste, ma pensavo che l'inverno sarebbe passato e al primo tepore di primavera sarei partito verso il sud in cerca della mia felicità. Ed era tanto viva l'attesa che non aspettai nemmeno il fiorire della stagione e lasciai il castello ancor sepolto nelle nebbie invernali. Ed ero felice nella tormenta e nel freddo perché pensavo che laggiù mi attendeva il sole, il mare e il cielo più azzurro del mondo. Quando mi smarrii nella foresta, avevo paura ma non ero infelice perché sapevo che dovevo sopravvivere per quello che il mio cuore attendeva, la felicità promessa e sicura. E il mattino che la nebbia si sciolse sul lago, rabbrividendo nel mio mantello bagnato, io ero felice come un re. E felice discesi giù per la bella Provenza di castello in castello, come guerriero alla conquista del mondo: e la primavera si faceva ogni giorno più viva e più calda. Quando giunsi ad Avignone splendeva su ogni ramo, su ogni erba, splendeva nell'aria del giorno e della notte, nell'alba e nel tramonto: io guardavo dalle torri della città la campagna più bella del mondo, ma allora mi accorsi che non ero felice... Avevo le mani piene di gigli, e non sapevo a chi offrirli. Il mio liuto taceva più silenzioso di quanto mai non fosse stato nel crudo inverno della montagna. Le eriche azzurre della Camargue mi struggevano la mente, i tramonti mi facevano soffrire fino a desiderare di piangere, e più il mondo diventava bello, più il cielo era azzurro e caldo, più la campagna rideva... più era triste il mio cuore. Giunto al mare, sedetti su una roccia, là sulla riva, e guardavo la mia immagine riflessa nell'acqua che era limpida e quieta come quella d'un lago. Fu là, madonna, che potei misurare tutta la mia pena allorché in quell'acqua di puro cristallo vidi la mia immagine, sola. D'un tratto l'acqua si mosse sotto di me, ebbe un piccolissimo fremito: io piangevo, madonna. - Qui il trovatore tacque e guardò la marchesa.

La marchesa sorrise in silenzio. Prese dal paniere un grappolo di ciliege e le offrì al trovatore nella sua bianca mano. - Mangiamo, trovatore, - e così dicendo ne portò una alle labbra.

- Allora, - continuò il trovatore mangiando le ciliege che gli porgeva la marchesa, - volsi il mio cavallo verso il nord e risalii per altra via verso le montagne. E a mano a mano che ritrovavo la natura aspra del nord il mio cuore si apriva al canto e alla speranza, il mio corpo si riscaldava a mano a mano che l'aria diveniva più fredda. Quando giungemmo in vista di queste mura camminavamo baldanzosi e lieti, io e il mio cavallo, sotto la pioggia come se fosse sole, e il cielo grigio era azzurro per noi, e le nubi erano astri d'argento e il fango della strada era molle tappeto di fiori. Quando cantavo sotto la vostra finestra, la pioggia era per me la più calda carezza di primavera, ed ora, madonna, sono qui e vi guardo...

- Lasciate, madonna, che baci i vostri piedi, - disse il trovatore inginocchiandosi innanzi alla marchesa che sedeva nell'ampio scanno coperto di pellicce. La pioggia era cessata e la luna saliva dietro i monti illuminando la stanza della marchesa di una pallida luce bianca.

Non v'erano altri lumi nella stanza. La donna gli prese il volto tra le mani e disse: - Alzati, trovatore, non m'importa che mi baci i piedi. Bacia piuttosto la mia bocca. Il trovatore la guardò pensoso: - Non voglio profanare il tuo purissimo corpo.

- Tu non profani nulla. Il mio corpo, anche dopo, sarà purissimo come prima; e più felice. Vieni a me, germoglio che ti desti al suono della mia voce, virgulto che ti levi al calore della mia mano, fiore che sbocci al bacio della mia bocca. Vieni e scaccia la tristezza dal mio corpo e dal tuo.

Il giorno seguente era un vero giorno di primavera. Nel sole del mattino che inondava la corte il trovatore sedeva sul suo cavallo e accordava il liuto. Cicco lo guardava dal basso con gli occhi sgranati: non aveva mai visto un liuto. Quando lo strumento fu accordato, il trovatore si chinò dal cavallo verso il bambino e disse: - E per te, Cicco. - E intonò quella ballata che incomincia "A l'entrada del temps clar", che qualcuno aveva composto per salutare la primavera e la sua regina. Il bambino guardava ridendo e batteva le mani alla fine di ogni verso quando il cantore gridava a piena gola il suo "eya" esultante

Ma alla fine della prima strofa il trovatore tacque guardando innanzi a sé: a pochi passi il duca Franchino lo squadrava, immobile, con uno sguardo che non lasciava dubbi.

- Partite, trovatore? - chiese il duca con tono secco.

- No, monsignore; resto, col vostro permesso, - rispose il giovane a bassa voce.

- Vi sbagliate, messere: voi partite, - e così dicendo il duca girò sui tacchi e rientrò nel castello.

Il giovane rimase a lungo silenzioso; poi prese il liuto e rabbiosamente cantò il ritornello della sua ballata con quanto fiato aveva in gola: Via di qua, via di qua, voi gelosi...

Ma ormai non era più felice e lacrime di rabbia gli spuntavano tra le ciglia. Tacque pallidissimo in volto e mormorò verso la porta di dove era scomparso il duca: - Maledetto, maledetto, maledetto.

Cicco guardava senza capire nulla di quell'improvviso cambiamento d'umore. Il trovatore si chinò verso di lui e lo sollevò sul dorso del cavallo: -Vieni, Cicco, vieni con me, - e galopparono verso la foresta. Nessuno aveva assistito a quella scena, nessuno aveva visto partire l'uomo col bambino. Più tardi nessuno sapeva dove erano e tutti li cercavano. Il duca tacque.

Essi erano nel bosco e si aggiravano fra i tronchi degli alberi esaminando il suolo.

- Qui, Cicco, corri qui, ce n'è uno grandissimo, - gridò il trovatore.

Il bambino accorse e si chinò sul mucchio di terriccio di un formicaio enorme. Grosse formiche nere si muovevano in tutte le direzioni per le loro strane faccende. Con dita abilissime l'uomo e il bambino cominciarono a catturare formiche chiudendole in una scatola di legno che l'uomo aveva con sé e che era servita, in altri tempi, a custodire la chiave per tendere le corde del liuto. Quando ritennero di aver catturato un numero sufficiente di insetti, la scatola fu chiusa accuratamente e i due poco dopo comparivano nella corte sul cavallo del trovatore.

- Cicco, giura sul tuo onore che non parlerai con nessuno di questo, disse il trovatore picchiando con la mano sulla scatola che risuonò nella tasca che portava a tracolla. Il bambino lo guardò con un cenno d'intesa, serissimo.

Quella sera, alla fine di una giornata tempestosa e tormentosa per alcuni di coloro che vivevano nel castello, quando tutti si furono coricati e già stavano per abbandonare nel sonno le cure della vita, un urlo d'angoscia risvegliò di colpo il castello, un urlo che proveniva dalla stanza del duca e che neppure gli spessi muri bastarono ad attutire: tutti balzarono in piedi e si precipitarono verso il luogo dell'urlo, ma già gli abati, che dormivano nelle stanze attigue a quella del duca, erano accorsi da lui e guardavano esterrefatti le bianche lenzuola di lino formicolanti di insetti neri.

Nessuno riusciva a rendersi conto di quello che era successo. Il duca aveva un sospetto, ma tacque. Qualcuno, pur avendo sentito l'urlo, non si mosse dal suo letto e soffocò il riso nel cuscino. Cicco aveva cercato di rimanere sveglio per vedere come andava a finire la faccenda delle formiche, ma non c'era riuscito e, ahimè, neppure l'urlo del duca l'aveva svegliato.


L'abate Mistral

- Cuci, marchesa, la pietra cristallina sul mio giustacuore, cucila qui dove batte la pompa del sangue, dove il muscolo della vita irrora le vene del mio corpo. Cucila accanto all'assurdo carbonchio dalla luce nera, accanto al prezioso rubino che porta sventura. - Così l'abate Mistral pregava la marchesa di Challant, che lo guardava muta e pensierosa. - Io voglio partire, madonna, da questo castello e andare per il mondo a cercare ventura.

- Perché vuoi partire, Mistral? - Perché ho guardato nei tuoi occhi, e ho visto l'amore. Ma non era per me. Cuci la pietra di cristallo con le tue mani, perché possa sentirla sul petto quando sarò lontano. - Gli occhi grigi dell'abate Mistral non sorridevano questa volta, ma erano tristi e profondi.

- La primavera non porta fortuna a questo castello, Mistral. Tu hai visto l'amore nei miei occhi, Mistral, ma non ti sei accorto che c'era anche del pianto.

- Accade spesso che l'amore si accompagni col pianto. Ma non necessariamente, marchesa. Ti auguro che il vento asciughi presto le tue lacrime. E se pure non si dovessero asciugare, sappi che è meglio piangere perché si ama, che non piangere perché il cuore è vuoto.

La marchesa prese il giustacuore che Mistral le porgeva per cucirvi il puro cristallo di rocca che nasce nel cuore della terra. In quel momento entrò il duca Franchino e il volto della marchesa divenne di ghiaccio. Il duca parve confondersi e arrossì: - Dovete capirmi, madonna, quel ragazzo mi ha mancato di rispetto, qui nella mia casa.

La marchesa lo guardò a lungo con occhi duri: - Voi sapete bene che non è per questo che lo scacciate.

- Perché? Vi sembra poco riempirmi il letto di formiche? A me? - Le formiche sono state tolte fino all'ultima. Via, duca, sapete bene che già prima gli avevate ordinato di andarsene.

- E va bene, - disse il duca arrossendo violentemente, - avete ragione; ma voi sapete anche perché gliel'ho detto... non fatemi dire di più; anche la mia sensibilità ha i suoi diritti.

La marchesa lo guardò a lungo, poi disse: - Non dovreste mai dimenticare che una donna ha il diritto di scegliere l'uomo per cui soffrire. - E così dicendo uscì.

Il duca rimase solo con l'abate Mistral, che gli si rivolse grave e pensoso: - Permettetemi di dirvi, monsignore, che se il trovatore ha commesso una scorrettezza nei vostri riguardi, voi avete commesso un grave errore con la marchesa. Vi consiglierei di pacificarvi con quel ragazzo e rendergli la vostra ospitalità. Vorrei che lo faceste prima della mia partenza.

- Perché? Voi partite, Mistral?

- Sì, monsignore.

- Ma la vostra partenza mi rattrista, sinceramente. Perché volete partire? E per dove?

- Il perché preferirei non dirvelo, - sorrise Mistral; - per dove, non posso dirvelo, perché non lo so.

- Capisco, - disse il duca chinando la testa.

Quella stessa sera il duca Franchino chiamò in disparte il trovatore e gli disse che, se voleva, poteva fermarsi al castello e lo pregava di dimenticare che gli aveva ordinato di partire. Il trovatore lo ringraziò, ma rispose che ormai aveva deciso di partire anche di propria volontà, e prese congedo dal duca. Più penoso fu congedarsi dalla marchesa. Ella non capiva le sue ragioni e continuava a dire che non erano ragioni.

- Se resti, trovatore, il duca sarà infelice, non ne dubito; ma se tu parti sarà infelice ugualmente, ed oltre a lui sarò infelice anch'io, e forse anche tu. Ci sarà più infelicità al mondo, ecco tutto.

- Il vostro ragionamento può anche essere giusto, ma io non posso più restare. Non so spiegarvi perché, ma non voglio essere felice sentendomi colpevole. - Tu forse non ti sentirai colpevole, partendo, perché sarai infelice; ma in realtà sarai molto più colpevole.

Quando il trovatore partì, il mattino dopo, la marchesa non lo accompagnò fino alla soglia. Restò nella sua stanza a guardarlo di dietro i vetri.

Lui usciva solo e lento verso le mura sul suo cavallo e col suo fagotto legato dietro la sella. Ad un tratto Cicco uscì dalla soglia e lo rincorse: agitava qualcosa in mano, qualcosa che aveva un lungo manico a cui erano legati dei nastri. La marchesa aguzzò gli occhi e riconobbe il liuto del trovatore: l'aveva dimenticato. Cicco glielo porse e l'uomo sembrò ringraziarlo, gli fece una carezza, poi sciolse i nastri dal manico del liuto e li diede al bambino dicendogli qualcosa.

E partì. Poco dopo Cicco entrava nella stanza della marchesa e le consegnava i nastri. Aveva il viso triste, il bambino. E la marchesa piangeva.

Quella sera partì anche Mistral. La marchesa lo aiutò ad infilarsi il giustacuore su cui aveva cucito, con le sue mani, la limpida pietra di cristallo.

- Vi vedo triste, madonna. Ma so che non lo siete per me.

- Vi sbagliate, Mistral. Per il trovatore io sono amareggiata, triste sono per voi. - Mistral già sul suo bel cavallo, il nero Souveral nato nelle praterie selvagge della Camargue, si chinò a prenderle entrambe le mani e le baciò a lungo.

- Dove andrete, Mistral?

- Non lo so, marchesa. In cerca di ventura.

- Si rizzò sul cavallo e si volse di profilo contro il sole che tramontava.

- Credete che possa ancora piacere a qualcuna? - chiese guardando di sottecchi la marchesa e sorridendo.

- Certamente sì. Siete un uomo molto bello.

- Grazie, madonna. Credo che andrò a sedurre la regina di Francia. Ma se non mi riuscisse, riprenderò la mia veste di abate e mi farò incoronare papa; e se anche questo andrà male, ho qui la mia spada, disse battendosi sul fianco, - e mi conquisterò un impero. - La marchesa rise tra le lacrime.

- E se tutto mi andrà male, madonna, - continuò a voce più bassa, tornerò in questo castello per rivedervi sorridere, e se voi mi accoglierete, sarò felice che tutto mi sia andato male. - Così detto spronò il cavallo e uscì dalle mura.


Il mercante veneziano

Il mercante veneziano era un uomo imponente, di forse cinquant'anni, con le tracce di una recente bellezza nel viso mobilissimo e negli occhi espressivi. Era giunto su una grande e bella mula con alcuni garzoni e diversi somari carichi di bagaglio. Ma ciò che più colpiva era il fastoso abbigliamento composto di lunghe calze di velluto nero su cui ricadeva un'ampia giacca di panno rosso le cui pieghe erano rattenute in vita da un'alta cintura; sopra portava una corta mantella nera come le calze e amplissima. Abito così elegante non s'era mai visto in quelle valli. E la cosa più sorprendente era la grande fibbia della cintura, tutta di oro massiccio, in cui il mercante aveva per uso di infilare le mani quando parlava, in un atteggiamento solenne che gli dava immancabilmente il tono dell'oratore. Tutto rivelava in lui l'uomo abituato all'agiatezza, vissuto in ambiente mondano e raffinato quale la Venezia del suo tempo.

Era giunto nel primo pomeriggio di uno splendido giorno di maggio e s'era fatto precedere e annunciare da uno dei garzoni, talché trovò al suo arrivo i signori riuniti a riceverlo nella sala del castello. Per questo il suo arrivo fu più solenne di quanti altri mai e la cosa parve dargli non poca soddisfazione, sicché entrando si guardò intorno

compiaciuto. Scorse subito la marchesa e le si inchinò baciandole la mano. Poi salutò tutti i presenti secondo il rango, senza commettere il minimo errore di valutazione gerarchica, come se conoscesse da sempre gli abitanti del castello. Parve anche scorgere sul volto dei presenti le tracce delle recenti tempeste, in particolare sul volto della marchesa che era infatti straordinariamente pallido.

- Madonna, - le disse galantemente, - di assai lungi avevo sentito parlare della vostra grande bellezza, ma la realtà vince ogni immaginazione. E invero penso che quando voi sorridiate, tutto sorrida intorno a voi. Spero che avrò la ventura di vedervi sorridere.

- Vi ringrazio, signore, - disse la marchesa. - Io mi auguro che il vostro soggiorno in questo castello non sia troppo triste; da noi sta fiorendo l'estate e se voi lo vorrete, vi mostreremo il nostro roseto: la vista dei fiori può rallegrare il cuore, forse, anche a chi l'ha pieno di tristezza. - A quelle parole il duca chinò la testa e Venafro guardò la marchesa con uno sguardo intenso.

- La primavera, marchesa, - continuò il mercante, - è spesso più crudele dell'inverno, perché accende con la rinnovata bellezza i sensi addormentati nel cuore. Ed è tanto più bella quanto più triste è l'inverno, e fa tanto più soffrire quanto più è bella. È una legge di natura, signori, - esclamò girando lo sguardo circolarmente sui presenti e infilando le mani nella fibbia della cintura. E dopo una pausa soggiunse: - Nella mia terra, che s'apre sul bel mare Adriatico, non è sì grande il divario tra l'inverno e la bella stagione poiché sempre verdi allori e cipressi ornano i giardini della mia città superba, né men dolce può essere il cielo nel severo gennaio che nel maggio colorito.

- Ho spesso udito dire, - disse dolcemente la marchesa, - che la vostra città è incomparabilmente bella.

- Più bella, madonna, di quanto possiate immaginare. Ogni giorno e ogni ora il mio cuore si strugge ripensando i bianchi palazzi di marmo che si specchiano nell'acqua dei canali, le fide calli segrete dove ogni pietra può essere preziosa scultura di antichissima mano, i superbi velieri che vengon d'Oriente portando mirabili cose preziose.

- Ma perché, signore, - intervenne Venafro, - avete lasciato una terra così dolce per venire a questi monti? - Ahi, quanto m'è penoso rinnovare il pensiero di sì triste sorte che opprime in questi tempi la mia terra! Se ho lasciato le ricchezze e gli agi, il mio palazzo e la compagnia dei cari amici, non è certo, signori, senza grave cagione. Tanto grave che m'è duro anche il solo pensarvi. Ma poiché tanto amabilmente voi m'avete accolto, me esule lontano dalla patria, costretto a vivere vendendo piccole cose, ornamenti ed esotici profumi, come povero merciaio vagabondo, io che fui tra i più grandi mercanti di Venezia, vi dirò, signori, quale immensa sciagura s'è abbattuta sulla mia città sì da sgomentarne il popolo e la gente, talché ognuno pallido e dubbioso guarda, incontrandolo, l'amico con sospetto. - Bevve un lungo sorso dalla coppa di vino che gli era stata servita, sospirò e riprese: - Voi dovete sapere, signori, che un terribile morbo finora sconosciuto si è abbattuto improvvisamente sulla città e la sua terra, un morbo sì tremendo da atterrir tutte le genti e a cui i sapienti han dato un nome mai finora udito.

- Quale nome, signore? - chiese messer Goffredo, che alle ultime parole del mercante aveva preso grande interesse al suo discorso.

- L'hanno chiamato: onfalopatia.

- Onfalopatia? - sillabò messer Goffredo.

- Sì, signore. È una malattia che attacca e uccide l'ombelico. - Tutti si guardarono trasecolati.

- Uccide l'ombelico? - chiese ancora, più interessato che mai, messer Goffredo.

- Uccide l'ombelico, lo fa disseccare e cadere come foglia morta d'autunno, e l'infelice che ne è colpito si ritrova col ventre intatto e liscio, come se mai fosse nato di madre. - Un mormorio corse per la sala. - È una malattia misteriosa, miei signori, di cui non si conosce né la cagione né il modo in cui si trasmette. Soltanto sappiamo che si trasmette, ahimè, con gran facilità. Io e i miei garzoni siamo tra i pochi che se ne son salvati. Tutto cominciò il giorno che la bella contessa Mariola s'accinse a giacersi con l'amato sposo. Di nulla s'era accorta, la bella donna, né spogliandosi né guardandosi, com'era suo costume, nello specchio per controllare che rughe o solchetti non deturpassero il bel collo e il petto. Pericolo questo d'altra parte assai inconsistente, dal momento che io stesso faccio venire d'Oriente quella pomata dalle mirabili virtù che s'ottiene dai genitali del castoro, costosissima e rara e la cui manipolazione sempre mi riempie di tristezza al pensiero di quelle bestiole graziose ed innocenti che se ne vanno mutile nel mondo senza poter più godere il premio dell'amore. Ma che mai non si fa per bellezza di donna? E tal pomata, v'assicuro, delle rughe cancella anche il ricordo. La bella contessa adunque nel talamo attendeva il dovuto compenso alla sua devozione, ma proprio nel talamo il consorte tosto scoperse la crudel mutilazione. Dove credeva trovar l'amato segno che già tanto piacque a Salomone, sentì solo la pelle liscia e tesa; credette dapprima aver sbagliato luogo e alquanto in silenzio andò cercando con la mano già tremante e ansiosa; poi si fece a seder sul letto e prese un lume, l'accostò al ventre della moglie e rimase muto di sgomento e meraviglia. A quella vista la contessa si rizzò a guardarsi il bianco corpo credendo scoprirvi ruga o macchiolina, ma ammutolì tosto d'orrore vedendo il ventre tutto igualmente liscio.

Pianse a lungo amaramente e fu solo con somma riluttanza che l'indomani fece chiamare il più illustre chirurgo di Vinegia, cui fece giurare, prima di esporgli il caso suo, che a nessuno avrebbe rivelato il terribile segreto. Ma non ci fu scienza o panacea che potesse guarire la contessa e ridarle il pregio del bel ventre. E per colmare la sua gran sventura credette la bella donna il dì seguente, quando uscì a passeggiare per Vinegia, scorgere un sorriso di scherno o compassione sul volto d'ogni persona che incontrava. Ma se il chirurgo avea parlato mancando al suo dovere, n'ebbe subito la trista ricompensa, ché spogliandosi una sera vide cadere in terra una piccola foglia di colore oscuro; atterrito si guardò allo specchio: anche a lui s'era morto l'ombelico. Così a tutti fu palese che la malattia era sommamente contagiosa. In breve la città ne fu infettata. Nessuno ne parlava per la gran vergogna, ma si capiva dai volti cupi o falsamente allegri che la grande sventura già s'era abbattuta. Le donne belle e gaie d'altri tempi, divennero a un tratto assai pudiche e volevano giacersi con l'amante tutte vestite come andando in chiesa. Ma nessuno più cercava amore, o perché uomini e donne temevano il contagio, o perché arrossivano di mostrare il ventre liscio, senza il dolce segno che il pollice di Dio avea lasciato allorché fece il primo uomo, nel sollevarlo quand'era morta argilla per metterlo al sole ad asciugare.

Chi s'avvisò per tempo fuggì via. Io prevenni il morbo maligno perché mi stavo allora coi miei famigli nella bella isola di Cipro a comprar perle da vendere in Vinegia. - Qui si tacque il mercante tristamente.

- Ma non provoca quel morbo altro danno se non il disseccar dell'ombelico? - chiese messer Goffredo.

- Nessun altro, messere. Ma vi par poco danno esser privo di quel segno? Vorreste voi vivere, - proseguì rivolto alla marchesa vorreste vivere, madonna, senza aver l'ombelico? - Ahimè sì, piuttosto che morire, - rispose pensosa la marchesa.

Ma quella trista sventura di Vinegia non voleva ad alcuno uscir di mente, e pur sedendo tra le vivande e il vino, continuavasi a parlare del morbo misterioso.

- Marchesa, - disse il mercante per stornare quei discorsi troppo severi, - volete che vi mostri un pezzo assai raro di mia mercanzia, che vien della Cina e quasi opra di magia si crederebbe? - E trasse della veste un occhiale di fattura strana, con vetri tersissimi e assai spessi, tagliati come fossero diamanti.

- Questo occhiale, - disse tenendolo tra due dita, - ha la virtù preziosa di moltiplicar per nove ciò che vi si guarda. Nove volte vi vedo, - disse fissando la marchesa attraverso l'occhiale, - e nove volte voi stessa mi vedreste. Nove volte la luna può vedersi nel cielo sereno e nove volte una gioia che sia preziosa e rara. Nove volte l'amante può vedere l'amato volto, ancor che un solo gli sia dato di baciare. Volete voi stessa far l'esperimento? - e porse alla bella l'occhiale misterioso. La marchesa lo prese con dubitosa mano e vi guardò per entro, e vide nove volte sorridente il mercante, e ogni cosa ch'ella vi guardava appariva sempre nel numero di nove. Tutti vollero far l'esperimento e per tutti fu grande maraviglia, e guardavan tutti l'oggetto o il volto che più caldo suscitava in cuore il desiderio. Molti sguardi fissaron la marchesa, molti messer Goffredo, però celatamente. L'abate Leonzio fissava madonna Pilar, damigella andalusa gaia e bella.

L'abate Leonzio era rosso e corpulento, rosso di pelle e rosso di capelli, e gli occhi aveva stranamente divergenti, quasi con uno volesse guardar tal cosa, e con l'altro tal altra. Ben che non si potesse dire quale oggetto fissasse, tuttavia s'avvisò la marchesa dei molti sguardi che gettava a Pilar e per fargli cosa di gentil gradimento divisò comprare dal mercante l'occhiale miracoloso per donarlo all'abate, al fin ch'ei potesse saziar così la vista, ancor che altri sensi saziar non potesse. Tolte le mense madonna Bianca trattò segretamente col mercante e, acquistato l'occhiale, lo donò a messer Leonzio per sua consolazione. Ma, ahimè, ancora una volta il destino crudelmente s'accaniva contro il castello di Challant e il dono gentile malignamente trasformava in arma perfida e mortale

Accadde, come volle Iddio, che per gioco la bella Pilar invitasse Leonzio a passeggiar con lei per il roseto per goder con quell'occhiale la vista delle rosse rose della marchesa. E lì tra discorsi e sorrisetti s'accesero i sensi dell'abate, che sanguigno e caldo era di natura e portava l'occhiale che la marchesa gli avea donato. Non passò gran tempo che, come Iddio volle, non potendo più reggere l'abate di solo vedere i nove volti di Pilar, anco colle mani volesse alcuna cosa strignere et abbracciare, e più volte alla desiata forma la man tendesse, ma pur mai quella vera cogliesse, sibben vana parvenza e inconsistente. Et allora a correr si diè in diverse parti, dietro le immagini che cangiavano continuamente e alcuna volta scomparivano poi che la bella Pilar, per gusto di giocare, dietro un cespo di rose si celava e in altra parte riappariva da quella ov'era prima. E Leonzio correva d'un cespo all'altro molto ferendosi le mani sugli spini, e cadeva tra i cespugli e tutto affannoso si rialzava per ricominciar sua vana caccia mentre ovunque nel roseto squillava il riso della bella, fin che stremato e soffocato al cuore tra i cespi si giacque né più si rialzò.

- Non è da stupirsi, madonna, se alcune cose altro fine sortiscono da quello del loro intendimento, - diceva il mercante il giorno dopo passeggiando con la marchesa nel roseto. - Come quando una rosa voi cogliete, - continuò cogliendo un fiore, - per farne dono ad un gradito amante, et ei si punge con lo spino che v'è celato, così una cosa che si fa con buon intendimento può riuscire di danno alla persona che volevate lieta. In quel che accade c'è qualcosa che a noi rimane oscuro et al nostro volere si sottrae come cometa dal cielo sereno. Non tutto ciò che accade noi causiamo, d'una gran parte è causa il fato, oppure il caso. - Sì dicendo toglieva le spine alla rosa ch'aveva colto e la porgeva alla marchesa.


La divina giustizia

Ma la primavera non avea finito di compiere sue stragi nella dolce terra dei Challant quasi a riprova ch'avea detto il vero colui che sentenziò ch'ella si fosse stagione infida e assai crudele. Udite dunque il caso che avvenne all'abate Prudenzio, abate gentile e di galante aspetto, cui le donne guardavan con piacere e che sempre aveva alle labbra sorrisi seduttori. Egli era edotto in studiati atteggiamenti al fin di più piacere alla gente, e tanta consuetudine aveva a detti atteggiamenti che parevano frutto di natura. Bello della persona era et elegante e sapeva danzare e cavalcare a meraviglia. Ma ancor che molti, femmine e maschi, lo guardasser con piacere, e in molti cuori dolci propositi e celati desideri fossero nati per lui, non si conosceva alcuno tuttavia a cui più che sorrisi e studiate parolette l'abate Prudenzio donato avesse. E correva voce tra la gente che si difendesse con molti accorgimenti dal concedersi altrui, quasi invidiasse ad altri il piacere del suo corpo e il godimento che di lui poteva trarsi. Delle donne soprattutto temeva l'approccio e se accadeva che una donna, vinta dal bel volto seduttore, a lui tentasse avvicinarsi o la man gli prendesse o lo toccasse mai furtivamente, ritraevasi quasi per ribrezzo, sia che volesse sua castità serbare e fuggir le tentazioni della carne, sia che altrove volgesse i suoi desiri.

Or avvenne in una cavalcata, che tutta la corte faceva per festeggiare la fioritura dei ciliegi, dei quali la valle era assai ricca, che accanto a Prudenzio cavalcò madonna Ildegonda, dama solenne venuta d'oltralpe, grande bionda e bella, ancor che certe asprezze avea nel portamento e alcuna durezza nella voce. Or tra discorsi e piacevoli motti, fosse il profumo dei fioriti ciliegi, e il ronzar dell'api o la brezza stuzzicante, accadde che alla vergine Ildegonda tutti s'accesero i sensi per l'abate, sì ch'ella più non sapeva come frenar sue voglie e tenerle altrui celate. Noi non sappiamo s'egli s'avvisò di questo fatto e andasse tra sé già ragionando come sfuggire all'insidiatrice. Certo si era che la donna un piano nella mente già faceva per sorprendere l'abate in guisa tale che, per schivo e ritroso che si fosse, non potesse sfuggirle in alcun modo. Accadde infatti che, tornata al castello tutta quanta la cavalcata, mentre ognuno cercava riposo nella sua fida stanza, Ildegonda dietro un pilastro si nascose presso la porta dell'abate, e allor che egli giunse e fece per entrare, ella di dietro lo sospinse et entrò con seco lui, e tanto destra fue che la porta richiuse alle sue spalle. Quel che dentro fu fatto non sappiamo; se lotta ci fu, fu aspra e dura, poi che la dama in prestanza superava il casto abate. Ma questi a tal segno avea perfezionate sue difese che l'alcova aveva posta in una nicchia et al fin che nessuno la violasse una griglia di ferro a punte aguzze scendeva dall'alto al premer d'una leva, sì che inviolata fosse l'alcova e chi l'insidiava potesse dalle acute punte esser trafitto.

Ma udite quel che accadde e come la giustizia divina volle punire colui che troppo di sua virtù era geloso e poco si curava d'umana carità. Accadde dunque che Prudenzio già s'era rifugiato nell'alcova e già premuta avea la leva che faceva scendere la griglia, quando Ildegonda un supremo tentativo facendo per possedere l'abate, cercò a viva forza trarlo dell'alcova senza pensare al periglio ch'ella correva né riguardo avendo alla sua vita stessa. Allora Prudenzio per sfuggire all'insidiante s'aggrappò alle coltri del l'alcova e mentre ella traeva ei facea resistenza, fin che d'un tratto la pesante griglia trafisse con le acute punte il corpo dell'abate e l'inchiodò al suolo, sì che tosto ei ne fu morto.

Questo et altro accade a chi si rifiuta alli amorosi desideri delle donne, e sia di ammaestramento alli uomini tutti che avari son dei lor favori, poi che tal vendetta contro di essi dispose la divina potestate che delle lor stesse difese saranno essi le vittime cruente.


L'astrologo

Nelle sere di giugno la marchesa amava uscir sola la sera prima del sorger della luna, sul suo bianco Ippomele, avvolta nel suo bianco mantello di seta. Amava recarsi su un poggio roccioso ove non c'erano alberi, ma solo radi cespugli di pinastri. Di fronte si levava un monte ancor coperto di neve, che rifletteva la luce come bianchissimo marmo.

Lì attendeva il sorger della luna. Un chiarore lattigno indicava il punto in cui l'astro sarebbe sorto, e s'andava sfumando dolcemente all'intorno e disegnava la sagoma del monte come scura sembianza di pietra. Poi, quando il chiarore s'era fatto più intenso e quasi sfavillante, d'un tratto la luce s'espandeva sopra il crinale e scivolava giù lungo il monte come bianco torrente e la montagna diventava un luminoso grandissimo diamante.

Una sera che la marchesa attendeva sul poggio il sorgere della luna, accadde che quando la luce si sparse al di qua del monte, illuminò la figura di un uomo avvolto in un mantello azzurro, montato su un cavallino grigio, che stava immobile a guardare anch'egli il sorgere della luna. La marchesa gli si avvicinò incuriosita e, prima ancora che gli rivolgesse la parola, l'uomo scosse la testa e brontolò: - Ecco, è finita, ora non si vede più niente. Ha visto che luna? Non si vede più niente.

- Mi pare il contrario, - rispose la marchesa, - ora si vede tutto.

- Non si vedono più le stelle, ragazza mia. Più niente. E pensare che sono queste le notti più serene, almeno nella bella stagione.

- Siete un astrologo? - chiese la marchesa.

- Naturalmente. E che altro dovrei essere?

La marchesa non rispose, ma pensava che si poteva essere anche qualche altra cosa. Intanto osservava l'uomo, che era piccolo come il suo cavallo, avvolto in un mantello azzurro, e portava in testa un tocchetto pure azzurro.

- Quello è il castello dei Savoia, vero? - chiese indicando il castello della marchesa.

- No signore, quel castello appartiene ai Challant.

- Volete burlarvi di me, ragazza? I Challant non esistono più. Sono stati scacciati dai Savoia.

- Forse lo saranno un giorno, messere. Ma quel giorno non è ancora venuto. Quel castello è mio: io sono la marchesa di Challant. - L'uomo la guardò con occhi rotondi di stupore e la marchesa s'avvide allora che gli occhi dell'uomo erano azzurri come gemme di turchese. Strano, pensò, non se n'era accorta prima.

- O io son diventato citrullo e non so più leggere nelle stelle, o esse deliberatamente mi hanno mentito, - disse l'astrologo.

- Vi hanno mentito; forse solo in parte, - disse la marchesa. - Tutto al mondo può mentire. - E intanto si avviava verso il castello facendo cenno all'astrologo di seguirla. Quando furono nella grande sala illuminata da molte torce la marchesa fissò gli occhi dell'astrologo e il suo animo si empì di meraviglia: erano gialli e scintillavano come l'oro. Lo invitò a fermarsi alquanti giorni al castello, un po' perché questo vogliono le buone creanze, un po' perché l'astrologo dagli occhi d'oro la incuriosiva. Tutti a corte ne ebbero un istintivo timore, e benché ardessero dal desiderio di udir da lui qualcuno dei poteri fatali delle stelle, nessuno osava interrogarlo. Fu la marchesa che una sera diede voce a quell'aspettativa diffusa e gli chiese: - Ma voi, messer astrologo, leggete veramente nelle stelle come in un libro? La guardò con occhi dorati e rispose: - Meglio che in un libro, cento volte meglio.

- Ma le stelle possono mentire, o voi sbagliare nel leggerle.

- Le stelle non mentono. Se vi ho letto qualcosa di falso, io ho sbagliato a leggere... voi sapete, marchesa, a che cosa mi riferisco.

- Al fatto che i Savoia ci scacceranno di qui, capisco. Perciò questo deve succedere? È inevitabile? L'astrologo tenne alquanto gli occhi al suolo e poi li sollevò a guardare la marchesa: erano azzurri e malinconici.

- Non lo so, - disse, - non sono un indovino. Non pensateci più, marchesa. Se accadrà, accadrà. Per ora non è accaduto. - Così dicendo sollevò il suo bicchiere guardando la marchesa con occhi più azzurri che mai. Ella sorrise.

- La scienza delle stelle, signora, è ancora bambina, - continuò l'astrologo, - ed è scritta in lettere assai difficili da leggere.

Anche il più grande sapiente della terra può sbagliare nel decifrarne i caratteri.

- Ma è dunque vero che ogni uomo e ogni donna nasce sotto una stella che ne indirizza la vita, e a quella influenza non può sottrarsi neppure se vuole? - chiese Venafro, che aveva ascoltato attentamente le parole dell'astrologo.

- Certo. Questa è una delle poche questioni su cui tutti i sapienti sono d'accordo. Nel giorno e nell'ora in cui l'uomo nasce, il cielo è dominato da un astro, o da una congiunzione di più astri, che imprimono il loro segno alla vita dell'uomo, come invisibile stemma, che ne esprime il carattere e quindi il destino. Per questo vanamente si meraviglia la piccola gente che un uomo educato con gran rigore possa diventare un assassino ed altro vissuto nella foresta abbia sensi e cuore delicati, o che un pastore prenda pennelli e dipinga come Apelle o che un uomo illetterato d'un tratto scriva poemi. Questo è il potere delle stelle, che il loro marchio non si estingue anche se tutta la vita cerca di cancellarlo, e prima o poi dall'oscurità risplende come sigillo d'oro nella pietra. - Così disse l'astrologo, e girava intorno gli occhi d'oro sfavillanti. - E così, quand'anche uno fosse abate, se è nato sotto la stella della santità, prima o poi sarà santo, anche se dovesse sopportare il martirio, - ridacchiò l'astrologo con gli occhi più gialli che mai.

Mentre tutti meditavano tra loro quelle parole ambigue e ne traevano assai diversi ammaestramenti, l'abate Santoro si sentì balzare il cuore in petto. Finalmente gli si era svelata la grande realtà della sua vita.

L'abate Santoro era un omino silenzioso e in apparenza modesto.

Mangiava poco e beveva meno, e quanto a parlare, taceva sempre. A corte quasi non s'accorgevano della sua esistenza e spesso madonna Camilla doveva fare tanto d'occhiacci a paggi e servitori che non gli cedevano il passo sulla soglia e giungevano al punto di dimenticarsi di mettere a tavola il suo piatto e il suo bicchiere, il che non era poi colpa sì grave tenuto conto del continuo variare del numero degli abati, e potremmo anche dire, del loro rapido diminuire. Ma nel suo intimo l'abate Santoro coltivava una grande ambizione e da essa era tutto divorato come da una passione: voleva convertire la marchesa di Challant alle cose di fede, poiché ben vedeva, come non era difficile vedere, che la marchesa di esse assai poco si curava. L'impresa era altissima e difficile, difficile quanto convertire il Saladino... e forse più pericolosa, perché quella madonna Bianca era assai spregiudicata. In che cosa consistesse il pericolo l'abate Santoro non avrebbe potuto dirlo, ma era sicuro che per quella impresa occorreva qualcosa come un miracolo, o un martirio. E si vedeva ora in veste di san Giorgio vittorioso che calpesta il drago con il suo cavallo, ora in veste di san Sebastiano trafitto da mille frecce, legato nudo ad un albero - lui che non era mai stato nudo di fronte ad anima viva e temeva persino le spine delle rose. Ma convertire la marchesa di Challant era necessario, e questo era diventato il pensiero dominante della sua vita.

Ma come? Non le aveva mai rivolto la parola. Veramente se li preparava, dei lunghi discorsi, teologicamente zoppicanti forse, ma ineccepibili dal punto di vista sentimentale, adatti a toccare il cuore di una donna. Ma quando la vedeva, anche di lontano, e già si preparava ad apostrofarla, la voce gli moriva in un gorgoglio di gola e le gambe lo portavano da un'altra parte, a qualche angolo oscuro o dietro le spalle di altri, sì che si poteva dire con quasi assoluta certezza che la marchesa non si era mai veramente accorta della sua esistenza. L'abate Santoro se ne arrovellava, ma non sapeva in che modo attirare la sua attenzione. A tavola sedeva lontanissimo da lei, e la tavola era l'unico posto dove la vedeva. Oltre alla messa, naturalmente. E lì, mentre cantava i salmi, Santoro si scatenava.

Allora diventava di volta in volta l'umile salmista, Davide re, o il dio degli eserciti dalla voce tonante o persino l'empio filisteo maledetto. Naturalmente esagerava nei toni, e l'unica volta che la marchesa veramente si accorse di lui fu nella chiesa del castello, durante il canto dei salmi - egli era allora la voce del dio degli eserciti - ed ella si volse infastidita verso il coro alzando le bianche mani a coprirsi le orecchie. Santoro, quella volta, si tacque.

Ma sognava molto. Sognava di andare a cavallo nella foresta scossa da lampi e tuoni e vedere madonna Bianca rapita da un irsuto brigante. La donna tendeva a lui le mani e gridava aiuto e lui con la spada faceva a pezzi la clava del brigante e liberava la fanciulla piangente.

Sognava di essere Carlo Magno che aveva sconfitto i sassoni e ne liberava gli schiavi, e in ceppi di ferro, sfinita e seminuda c'era la marchesa e lui la riconosceva solo dopo averle scostato i lunghi capelli dal viso... Sognava che ella era mendicante scalza nel fango gelato di novembre e lui la tirava sul suo cavallo e l'avvolgeva nel suo mantello... Ma la marchesa non era in ceppi, non era infreddolita né minacciata da bruti, e se aveva fame poteva mangiare quanto voleva.

E poi la sua fantasia lo portava a raffigurarsi sempre in santi a cavallo, o santi guerrieri, e lui proprio un eroe non si sentiva... E vero che l'eroismo viene con la santità, l'aveva scritto in una predica san Bernardo...

Se non aveva mai osato parlare alla marchesa, osò tuttavia parlare all'astrologo.

- Messere, mi volete indicare qual è la stella della santità? L'astrologo lo guardò prima stupito, poi con occhi più gialli che mai.

- Certamente, monsignore. Quando sarà notte fatta, poi che la luna già inclini al tramonto, venite con me sul colle roccioso, questa notte e lo guardava con occhi dorati in cui guizzava, a tratti, uno strano sorriso. Ma l'abate non se n'avvide, trascorse l'attesa pregando, fantasticando, guardando l'occidente che lentissimamente imbruniva, si tingeva di rosso, il cielo si oscurava, s'empiva del chiarore lunare, e poi ritornava scuro, la luna tramontava e solo le stelle brillavano nel buio.

Era notte fonda e un grandissimo silenzio occupava tutta la terra.

Santoro, avvolto nel suo lungo mantello d'abate, tremante d'ansia, giungeva sul colle roccioso. Distinse subito la figura dell'astrologo sul suo cavallino grigio: guardava le stelle con un lungo tubo scuro.

- A che serve quel tubo, messere? - chiese l'abate. L'astrologo si riscosse e lo guardò stupito: - Che fate qui? A quest'ora tutti dormono, tranne gli astrologi... e gli amanti, - aggiunse ridendo. Intanto s'era ricordato della strana domanda dell'abate e una piccola allegria perversa lo animò tutto. Volete vedere la stella della santità, vero? - E chinandosi dal cavallino verso l'abate gli porgeva il tubo scuro e gli indicava un astro qualunque nel cielo. - È quella; guardatela nel tubo; la vedrete intatta dallo scintillio di altre stelle. La vedete? Vedete come palpita? Sa che voi la cercate. Andate verso di lei, seguitela, vi insegnerà la strada per divenire santo, vi darà il coraggio per fare tutto ciò che la vostra vocazione vi chiede, per affrontare fatiche, pericoli e anche il martirio. E non dubitate... - l'astrologo doveva alzare la voce perché Santoro s'era subito avviato col tubo incollato all'occhio ed era già alquanto lontano, - non dubitate che non fallirete la vostra impresa.

L'abate non rispose; forse non udì neppure le ultime parole dell'astrologo; andava, né vedeva dove andava, tutto preso dal richiamo della sua stella. L'astrologo lo vide allontanarsi barcollando, sempre col tubo incollato all'occhio, correndo, inciampando nei sassi; poi non se ne seppe più nulla. Al castello non fece mai ritorno; forse ha raggiunto la santità, o forse giace in una forra, rotto nella persona ma intatto nella fede.


Ottobre

- Madonna, dammi colori e pennelli, che voglio ritrarre il tuo corpo ridente, e dammi molta porpora e oro, - diceva il filosofo guardando la marchesa che giaceva sul letto.

- Oro, filosofo? Dove metterai l'oro che i miei capelli sono neri?

- Io so dov'è l'oro nel tuo corpo, marchesa. Pura vena d'oro nella miniera profonda nella terra, oro liquido e lucente, fuso nel crogiuolo più caldo del mondo, là dove nasce la vita e muore la morte, dov'è il centro dell'universo e il baricentro della gioia. Dammi molto oro, marchesa, che sarà sempre poco a dipingere il prezzo infinito della gran bontà del tuo corpo.

Era tornato una tarda sera di ottobre e aveva bussato due colpi alla porta della marchesa. Lei l'aveva riconosciuto. Il mattino dopo partì.

E cominciò la vendemmia nella valle. D'in cima al poggio la marchesa guardava le file di muli che uscivano dal castello con le ceste vuote e tornavano con le ceste piene di nerissima uva. La nebbia cominciava ad alzarsi e scopriva un brulicare di vita sui terrazzi sassosi della montagna. Qualcuno cantava, tutti parlavano, ordinavano, ridevano e imprecavano. Le viti si sfrangiavano sotto le mani e i coltelli, come antichi merletti dorati strappati dal tempo e dal sole. Il sole guadagnava spazio nella nebbia, un balzo di roccia dopo l'altro, penetrava fino al cuore della valle mettendo in fuga le ombre, svegliando fronde e fiori col suo calore irruento, illuminando ogni angolo, ogni piega, ogni pertugio della terra generosa. La marchesa aveva gli occhi, il cuore, il corpo pieni di sole.

Quando la vendemmia fu finita, a tutti, uomini e donne, fu servito vino generoso, pane, cacio e salsiccia nella gran corte del castello, e focacce con uva e miele, e dolci di noci e ancora vino, sì che tutti furono lieti e molto si cantò e si ballò, e servi e signori godettero insieme della gran festa d'autunno. Oltre il tramonto durò la festa, quando spenta la luce del sole, la luna soltanto nel cielo e molte fiaccole resinose illuminavano la grande corte del castello piena di danze. Il vino, il cibo e la foga della danza vincevano il freddo che pure pungente si insinuava tra le vesti e combatteva con il giovanile ardore. Poi la marchesa fece servire a tutti vino caldo aromatizzato e volle che ognuno si ritirasse nella sua casa o nella sua stanza del castello.

- Non avrei gran maraviglia, - disse a messer Goffredo di Salerno, se domani alcuno avesse qualche malanno da freddo.

- Non datevi pensiero, marchesa, - egli rispose. - Vengon da Salerno comandamenti da seguire per qualsivoglia ammalamento.

E con questi discorsi, ognuno, stanco, si abbandonò nel sonno. La marchesa aveva ben preveduto, ché infatti il dì seguente giacevasi in letto l'abate Malbrumo, oppresso da assai molesto dolor di lombi.

Ancor che nessun pericolo di morte minacciasse l'abate, era tuttavia tale malanno sì molesto che di gemiti sonava tutto il castello, né v'era loco del letto o posizione delle membra che alleviar potesse all'abate il suo soffrire. Fu tosto avvisato ser Goffredo, il quale avanti ogni altra cosa comandò che all'abate fosser posti sui lombi panni di lana su cui seduta si fosse dimorata una donzella sì da scaldarli con li lombi suoi: poi che è principio costante d'ogni cura che una parte malata abbiasi a curare con simile parte di persona sana. Poi il sapiente Goffredo andò a cercare nelli libri suoi il più acconcio rimedio a tal malanno. Molte pagine volse con la bella mano e infine.

- Ecco, - disse, - è questo il rimedio più acconcio al tipo di malanno e allo stato del malato. - E tale rimedio messer Goffredo lesse: "Comandamento primo da farse per chi soffre per lo mal di lombi.

Poi che ogniun sape esser lo mal di lombi da tristizia di mente causato, dicasi a chi di tal dolore è oppresso che si adopri in amar donne leggiadre, e sì ben sua opra compia che, ancor che li lombi li dolgano tuttavia, si habia per merzede il paradiso, poi che il Giusto Remuneratore d'ogni bontade cieco non è a tanta valentìa." I signori del castello si guardarono in volto un poco dubitosi, poi che alquanto strano pareva tal rimedio. Ma tanta era l'autorità della scuola di Salerno in cose di medicina che decisero alfine di chiedere al malato se tal comandamento accettava per cura dei suoi mali. Fu l'abate Malbrumo ancor esso un po' sorpreso in udire un tal comandamento, ancor che troppo ingrato il rimedio non paressi, et alquanto silenzioso si ristette poi che non sapea se il malanno vigor bastante li lasciasse a compiere l'impresa. Ma infine convinto fue di accettare tal comandamento, vuoi per la gran fama dei signori di Salerno, vuoi per la remunerazione promessa a tanta impresa. Ma voleva ancora tal rimedio che donzelle si trovassero disposte al sacrifizio, vuoi per amor dell'abate, vuoi per carità di cuore.

E tosto si vide che questa non era real difficultate e che talvolta il prossimo nostro male giudichiamo. Non era gran tempo trascorso da quando il banditore del castello avea la richiesta annunziata nella piazza della villa, che ogniun poté con suoi occhi vedere quanto grande sia la carità che alberga in cuore femminile: molte furon le donne, giovani e meno, leggiadre e meno, che vennero al castello per alleviare i dolori dell'abate, et ei di buon animo all'opra si mise. E ancor che in prima grande aflizione il molesto dolor li recasse, il beneficio del rimedio tosto risentì, sì che li lombi riscaldaronsi nell'impresa et ei gagliardo compì sua opra, vuoi per la gran fede che avea nella scuola di Salerno, vuoi per acquistarsi il paradiso come dicea il comandamento.

Ma, ahimè, accade troppo spesso che il malato sì ben s'acconcia alla sua medicina che di essa assume più della misura, talché accade alcuna volta che cosa per il bene disposta in gran danno si rivolta, sì come già fu del liquore di colchici ch'avea ucciso il buon abate Umidio. E ancor qui simil cosa si vide. Resta alquanto oscuro se Malbrumo troppa medicina abbia preso, o se con troppo ardore tal pozione bevesse o se ancora l'amore del paradiso al di sopra di sue forze lo spingesse; accadde per tal guisa che quando venne sera e le ombre si sedettero sul trono del cielo, allora che messer Goffredo si recò dall'abate per veder se la scienza di Salerno aveva il suo male debellato, poi che a lungo bussò alla sua porta e non ne ebbe risposta alcuna, entrato nella stanza, trovò l'abate serenamente spirato nel suo letticciolo.


Autodafé

- Questo è il castello del demonio! - gridava l'abate Ildebrando agitando con la destra una torcia fumante. - È il castello del peccato! qui ognuno segue il suo talento senza freno alcuno. Qui non è limite cristiano a suoni, danze e fornicazioni! - E girava gli occhi sanguigni sui signori seduti a banchetto, il banchetto funebre per il defunto abate Malbrumo. - Non v'è al mondo luogo più impuro, dove meno si facciano digiuni ed astinenze; preghiere e penitenze son qui parole vane, poiché in ogni ora ognuno cerca solo il suo diletto. Tanto è piena di malizia questa dimora che Iddio volle toglierle in un anno undici abati affinché non fossero contagiati da tanta lebbra.

Poi puntando il lungo indice ossuto sulla marchesa, continuò: - E voi, marchesa, della mala pianta siete la radice, ché della vostra nequizia contagiate ogni persona che vive nella vostra casa. Né di questo è meraviglia alcuna, che siete donna, e quindi strumento del demonio. Né è meraviglia che nido di peccati sia questo castello, poiché voi lo governate. - E girando gli occhi sui presenti: - Tutti, tutti, - disse, - siete in peccato mortale poi che avete appreso ad amare il piacere e fuggire la sofferenza, e tutti gemerete nelle fiamme dell'inferno! Ma prima - e qui il suo sguardo ebbe lampi di follia - prima io distruggerò la Babilonia infernale, e purgherò il mondo di questa Sodoma e Gomorra, sì che anche voi perirete nel fuoco e tra le fiamme sconterete i vostri peccati: pregate Iddio misericordioso che si tenga soddisfatto del fuoco terreno che distruggerà i vostri corpi sì che voglia risparmiare le vostre anime.

Siatemi grati, che vi do l'ultima speranza di sfuggire alle fiamme dell'inferno - e agitando la torcia disseminava scintille resinose.

- Monsignore è forse piromane? - chiese con interesse professionale messer Goffredo.

Rispose Venafro:

- No, signore. Non credo. Penso che sia seguace di quell'abate di Chiaravalle che vuol scaldare l'umanità al fuoco dei roghi. Temo, signori, che possa succedere una disgrazia, - e così dicendo accennò al paggio Irzio che gli voleva parlare. Quando gli ebbe dette poche parole all'orecchio, il donzello uscì e tornò di lì a poco con due robusti garzoni che presero l'abate ciascuno per un braccio e lo trascinarono via urlante e scalpitante.

La marchesa rimase a guardare con occhi assorti la porta da cui era uscito l'abate.

- Venafro, - disse poi posando gli occhi sul suo viso, - siamo dunque così malvagi?

- Noi non siamo malvagi, madonna. Nulla è più saggio nella vita che cercarvi la gioia che vi si può trovare. La penitenza fa l'uomo triste, e l'uomo triste ama che anche gli altri sian tristi. È come una malattia contagiosa, non credete, messer Goffredo?

- Certo, monsignore. E molti mali del corpo vengono da questa tristizia. E in particolare i mali della mente, come l'angoscia del peccato e il sentirsi l'animo pieno di colpe.

- Signori, - disse Venafro alzandosi in piedi, - io credo che l'unico peccato al mondo è il male che si cagiona a se stessi e agli altri. I piaceri della tavola diventano peccato quando si porta via il cibo agli altri, i piaceri del corpo quando si costringe altri a subirli contro la sua volontà. Ma è più grande peccato avvelenarli col mostro dell'inferno, è più gran peccato indur tristezza, angoscia e disperazione nell'animo altrui che molcir le membra di carezze. È più gran peccato minacciar trombe del giudizio che suonar viole, flauti e mandolini.

- E questo nostro castello non è dunque nido di scorpioni? - chiese la marchesa.

- Madonna, - rispose questa volta il duca Franchino, - sarebbe nido di scorpioni se rubassimo i raccolti ai contadini, se più del giusto servizio chiedessimo loro, se facessimo violenza alle persone. Noi questo non l'abbiam mai fatto. E io stesso nel mio ducato di Mantova non l'ho mai fatto.

- A noi resta la scelta tra l'esser giusti o ingiusti - continuò Venafro, - e anche il più umile servo può divenire tiranno, poi che troverà sempre una creatura più debole di lui, che possa opprimere per sentirsi forte. Ma se non cerca e non desidera questo, neppure un re è un tiranno.

- E se non volendo facciamo male a qualcuno, proseguì la marchesa, come può accadere nella vita degli uomini e delle donne, che facciano soffrire qualcuno senza pur avvedersene, non siamo per questo malvagi, perché l'intenzione non avevamo di nuocere ad alcuno. Perciò non si faccia penitenza, né si vestan grige vesti, che già abbastanza grigio è il cielo autunnale, e anche troppo triste la tenebra della lunga notte. Il male sono fame e freddo, morte e malattie; il peccato è amare le sventure e seminare tristezza. Suonate, signori, i vostri strumenti e scacciate le ombre che si addensano sulla notte d'autunno.

Domani farà giorno e finché ci sarà vita su questa terra il giorno porterà conforto agli animi inquieti e rattristati.

Fu portato vino generoso, furono messi nuovi ceppi nel grande camino, da cui la rossa fiamma si levò tingendo di lieta luce tutta la sala.

Venafro trasse il suo flauto e il duca la viola d'amore.

- Come siamo pochi, signori! - disse la marchesa, e pensava al trovatore e al filosofo, al mercante di Venezia, all'inventore da Morazzone, alla pretessa e agli altri amici che erano stati in quel castello, a Mistral che forse sarebbe tornato. - Come siamo rimasti in pochi, signori!

Venafro e il duca suonarono una ballatetta ch'era chiamata la "Ballata dell'addio". La marchesa guardava pensosa il fuoco nel camino, quando a un tratto parve che al flauto rispondesse un altro flauto, un piccolo flauto dolce suonato da un bambino. Cicco era uscito dal suo letto e stava seduto per terra nella sala e suonava insieme al duca e a Venafro. Ai suoi piedi stava appallottolato Mirò.

- Sarà meglio vegliare, - disse la marchesa quando tutti si furono ritirati e Venafro già si accingeva a portare a letto Cicco che se ne stava comodamente addormentato sulle sue braccia.

- Veglierò io, - rispose Venafro, - voi riposate, Madonna.

- Ho paura, Venafro, di quel frate fanatico; l'ho guardato negli occhi... m'è parso un malvagio.

- O malvagio o demente. Veglierò davanti alla sua porta, tutta la notte.

Ma in quel medesimo istante si udirono grida e frastuoni dalle stanze superiori, e un affannato scalpiccio per le scale, e il paggio Irzio entrò nella sala senza poter profferire parola, ma Venafro e la marchesa avevano già capito. Un acre odore di fumo era entrato con lui dalla soglia. Venafro posò il bambino in braccio alla marchesa e... - Uscite nella corte, - disse, - io sveglierò gli altri - e rivolto al paggio - svegliate tutti i servi e dite che portino fuori le bestie dalle stalle.

Quando la marchesa giunse nella corte con il bimbo in braccio sempre addormentato vi trovò il duca Franchino e messer Goffredo; questi aveva portato coperte e mantelli, tutti quelli che aveva trovato.

Altri intanto uscivano dal castello, le dame della marchesa, il paggio, i servi che conducevano dalle stalle cavalli, mucche e pecore.

La marchesa volle personalmente contare tutti; quand'ebbe constatato che non mancava nessuno né delle dame né dei servi. - E Venafro? - chiese, - dov'è Venafro? - In quel momento Venafro usciva dal castello che già sprigionava fumo intenso da ogni apertura. - Madonna, - gridò, - non sono riuscito a trovare l'abate Ildebrando! Tutti si volsero a guardare il castello. Lingue di fuoco uscivano dalle finestre che l'immenso calore faceva esplodere. Ogni soffitto, ogni trave ardeva sprigionando scintille resinose. Si vide con un rombo crollare il soffitto della sala. Su molti visi scorrevano lacrime mute.

D'un tratto un urlo che veniva dalla grande terrazza del castello fece alzare a tutti lo sguardo. Una figura nera si stagliava contro il fuoco delle fiamme, agitando una torcia in ciascuna mano.

- Castello maledetto! - gridava la figura avvolta nella nera tonaca svolazzante, - perirai con tutti i tuoi abitanti! e io, io avrò fatto giustizia di tanti peccatori! - In quella la terrazza precipitò trascinando con sé l'uomo in un groviglio di travi ardenti.

Mirò, che come tutti gli altri guardava in su con la coda ritta, stridette all'indirizzo dei cani da caccia che i servi avevano tratto dai canili. Secondo la sua logica era tutta colpa loro.

Giungevano dal villaggio in lunghe file i contadini della marchesa ad offrire il loro aiuto. I bagliori delle fiamme si fondevano con i primi grigiori dell'alba quando il castello rovinò tutto sulle sue fondamenta Molti piangevano. Venafro cinse con il braccio le spalle della marchesa. Cicco non si svegliò neppure.

La marchesa si volse ai suoi ospiti e ai suoi servi e disse semplicemente:

- Il castello di Challant non c'è più. Poiché non abbiamo più una dimora, ognuno si tenga libero di andare dove vuole. Io e Cicco andremo a chiedere ospitalità alla saggia pretessa alla "Fin du monde". Venite con me, Venafro?

- Sì, madonna.

Poi rivolta agli altri, alle dame, ai contadini, disse: - Se qualcuno dei nostri amici, venendo a cercarci, chiederà del castello di Challant, dite che non esiste più. Ma ditegli che noi esistiamo ancora e che se vuole potrà trovarci, in qualche parte di questa valle.

Poi montò in sella a Ippomele e Venafro col bambino addormentato montò sul suo Rabano. Mirò si arrampicò davanti alla marchesa. E partirono nelle prime luci dell'alba. Quando Cicco si fosse svegliato, diceva la marchesa, si sarebbe ritrovato in quella stessa casa da cui era partito alcuni mesi prima. Chissà come sarebbe stato contento di rivedere la pretessa!

- Ricostruirete il castello, marchesa?

- No, Venafro. Un castello non si può ricostruire. Costruirò una casa, perché possano abitarci tutti quelli che verranno a cercarci.

Camminavano già da qualche tempo sul sentiero silenzioso, quando la marchesa disse:

- Voi siete molto buono, Venafro.

Venafro sorrise in silenzio, poi disse:

- Non so neppure che cos'è la bontà. Sto con voi perché mi fa piacere.

La vostra presenza mi rende ora lieto ora triste, qualche volta mi fa soffrire molto. Ma sempre mi tiene vivo, mi fa godere di più della gioia, rende più acuti i miei occhi e più sensibili le mie orecchie; la mia mente è più desta, e se mai occorresse, avrei più coraggio Senza di voi, forse non soffrirei, ma vivrei di meno. E la vita è tutto quello che abbiamo.

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