Henry Kuttner e C.L. Moore Il figlio del pifferaio

Al Burkhalter, avendo di recente raggiunto la maturità dei suoi otto anni di età, se ne stava stravaccato sotto un albero e masticava un filo d’erba. Era immerso così profondamente nelle sue fantasticherie che suo padre dovette dargli una cortese gomitata per riportare un barlume di comprensione nei suoi occhi socchiusi.

Era una buona giornata per sognare, in verità: il sole era rovente, appena mitigato dalle fresche folate del vento che soffiava giù dalle bianche cime della sierra a oriente. L’erba timothy esalò la sua sottile fragranza muschiosa tra un refolo e l’altro, e Ed Burkhalter si sentì contento all’idea che suo figlio appartenesse alla seconda generazione dallo Scoppio. Lui stesso era nato dieci anni dopo da quando era stata sganciata l’ultima bomba, ma anche le rievocazioni di seconda mano possono essere alquanto spiacevoli.

«Salve, Al», disse, e il ragazzo gli lanciò un’occhiata di tollerante accettazione da dietro le palpebre.

«Ciao, papà».

«Vuoi venire in città con me?»

«Niente da fare», rispose Al, tornando a sprofondare subito dopo nel suo torpore.

Burkhalter sollevò un sopracciglio e accennò a voltarsi. Poi, d’impulso, fece qualcosa che di rado osava senza il tacito permesso della controparte: usò il suo potere telepatico per penetrare nella mente di Al. Ammise, come sempre, che c’era da parte sua una certa esitazione, un’inconscia maldisposizione a farlo, anche se Al aveva superato il repulsivo e inumano stadio dell’infanzia mentale. Ricordò il tempo in cui la mente di Al aveva il potere di sconvolgerlo nella sua assoluta estraneità. Burkhalter ricordò qualche esperimento abortito che aveva fatto prima della nascita di Al; pochi erano i padri capaci di resistere alla tentazione di compiere esperimenti coi cervelli in embrione, e ciò aveva fatto rinascere incubi che Burkhalter non aveva più vissuto dalla sua giovinezza. C’erano state immani masse rotolanti, una vastità che faceva sgomento, e altre cose ancora. I ricordi prenatali erano cupi e angosciosi e avrebbero dovuto esser lasciati agli psicologi mnemonici, gli unici qualificati.

Ma adesso Al stava maturando e fantasticava, come al solito, a vividi colori. Burkhalter, rassicurato, sentì di aver assolto il proprio dovere con quel suo invito che era un larvato controllo, e lasciò suo figlio a masticare il filo d’erba e a ruminare dentro di sé.

Malgrado ciò, provò un’improvvisa, intima tenerezza, e la dolorosa, futile pietà che era incline a provare nei confronti delle creature impotenti che non avevano ancora qualità ed esperienza bastevoli ad affrontare quella faccenda del sopravvivere che presentava tante, ed eccezionali complicazioni. La lotta, la competizione, non si erano estinte quando la guerra si era autoabolita; quei fatto di doversi adattare, di trovare un modus vivendi perfino li, nei propri ristretti dintorni, era un perenne conflitto, un duro confronto, una schermaglia. Anche con Al il problema era duplice. Sì, il linguaggio era una sorta di barriera daziaria, e un calvo poteva valutare in pieno ciò che questo significava, poiché una simile barriera non esisteva tra i calvi.

Camminando lungo il cedevole sentiero che conduceva verso il centro cittadino, Burkhalter diede in un sogghigno forzato e si passò le dita magre attraverso la parrucca ben tenuta. Spesso gli estranei rimanevano sorpresi nell’apprendere che lui era un calvo, un telepate. Lo fissavano con occhi pieni di meraviglia, troppo cortesi per chiedere cosa si provasse ad essere un anormale, ma allo stesso tempo era fin troppo chiara la loro bramosia di saperlo. Burkhalter, tutt’altro che digiuno di diplomazia, era ben disposto a guidare la conversazione.

«I miei vivevano vicino a Chicago dopo lo Scoppio. È stato per questo». «Oh». Fissità dello sguardo. «Ho sentito dire che è stato per questo che tanti…» Pausa sbigottita.

«Anormali o mutanti. Ce ne sono stati di ambedue le specie. Io non so ancora a quale classe appartengo», finiva per aggiungere in tono disarmante.

«Lei non è un anormale!» Ma non protestavano troppo.

«Be’, qualche esemplare davvero bizzarro è venuto fuori dalle aree investite dalle radiazioni, tutt’intorno ai bersagli delle bombe. Strane cose capitarono al plasma germinale. Quasi tutti però sono morti, o estinti: non erano in grado di riprodursi. Ma se ne trova ancora qualcuno in certe cliniche: tipi con due teste, e così via».

Nondimeno, erano sempre a disagio davanti a lui. «Intende dire che sa leggere il pensiero… anche in questo momento?»

«Potrei, ma non lo faccio. È difficile, salvo con un altro telepate. E noi calvi… be’, non lo facciamo. Questo è tutto». Un uomo con un anormale sviluppo muscolare non andrebbe certo in giro a sbatter la gente per terra. A meno che non voglia esser linciato dalla folla. I calvi erano sempre consci d’un pericolo serpeggiante: la legge di Linch. E i calvi più accorti neppure sottintendevano d’essere in possesso d’un senso in più. Si limitavano a dire d’esser diversi, e si fermavano lì.

Ma una domanda era sempre implicita, anche se non sempre espressa: «Se fossi un telepate, io… Quanto guadagna lei in un anno?»

Rimanevano sorpresi della risposta. Certo, un lettore del pensiero avrebbe potuto realizzare una fortuna, se avesse voluto. Allora, perché mai Ed Burkhalter continuava a fare l’esperto di semantica alla Città Editoriale Modoc, quando un solo viaggio in una delle città delle scienze gli avrebbe consentito d’impadronirsi di segreti che gli avrebbero procurato una fortuna?

C’era una buona ragione. L’istinto di conservazione ne costituiva una parte. Era per questo motivo che Burkhalter, e molti come lui, portavano capelli posticci. Anche se c’erano molti calvi che non lo facevano.

Modoc e Pueblo, sull’altro lato della barriera montagnosa a sud della distesa che un tempo aveva ospitato Denver, erano due città gemelle. A Pueblo c’erano le stamperie, le fotocompositrici, tutte le macchine che trasformavano i manoscritti originali in libri, dopo che erano stati prodotti e revisionati a Modoc. A Pueblo c’era anche una flotta di elicotteri per la distribuzione, e durante l’ultima settimana Oldfield, il direttore, gli aveva chiesto di revisionare il manoscritto di «Psicostoria», opera d’un tizio di New Yale che si era lasciato coinvolgere in maniera eccessiva da vecchi problemi emotivi, a tutto detrimento della chiarezza letteraria. E questo tizio non si fidava di Burkhalter il quale, pur non essendo né prete né psicologo, era stato costretto a diventare entrambe le cose senza che il confuso autore di «Psicostoria» se ne accorgesse.

Gli edifici della casa editrice formavano una complicata struttura a più livelli, più simile a un luogo di villeggiatura che a qualcosa di strettamente utilitaristico. Ma era stata una concreta necessità a farla progettare in tal modo. Gli autori erano gente quasi sempre strana e originale, e spesso era necessario indurli a fare cure idroterapiche prima che fossero nella giusta forma per lavorare sui loro libri insieme agli esperti di semantica. Nessuno, ovviamente, aveva intenzione di morderli, ma loro non se ne rendevano conto e finivano per rannicchiarsi negli angoli tutti impauriti, oppure se ne andavano in giro dando in escandescenze, facendo uso d’un linguaggio che pochi riuscivano a capire. Jem Quayle, l’autore di «Psicostoria», non rientrava in nessuno di questi due gruppi; era semplicemente sconcertato dall’intensità della propria ricerca. La sua storia personale in verità rendeva inevitabile in lui questo profondo, emotivo coinvolgimento col passato — e questo era particolarmente grave quand’era in ballo un lavoro del tipo che Quayle stava svolgendo.

Il dottor Moon era un membro del consiglio: sedeva accanto all’ingresso meridionale, intento a mangiare una mela che sbucciava con cauti movimenti servendosi del suo pugnale dall’elsa d’argento. Moon era basso e grasso, quasi informe. Non aveva molti capelli, ma non era un telepate; i telepati erano completamente glabri dalla testa ai piedi. Moon mandò giù un boccone e salutò Burkhalter con un cenno della mano.

«Ed…urp… volevo parlarti».

«Ma certo», rispose Burkhalter con bonomia. Si fermò davanti a lui, dondolandosi sui tacchi. Ma quasi subito un’abitudine innata lo spinse a sedersi accanto al rappresentante del consiglio. I calvi, per ovvie ragioni, non rimanevano mai in piedi quando i non telepatici stavano seduti. Ora, i loro occhi s’incontrarono allo stesso livello. Burkhalter chiese: «Che cosa succede?»

«Ieri il supermercato ha ricevuto per via aerea un po’ di mele Shasta. Meglio dire a Ethel che vada a comperarne qualcuna prima che le finiscano… Ecco».

Burkhalter guardò il suo compagno che ne mangiava un pezzo, e annui.

«Sono ottime. Glielo dirò. Tuttavia oggi l’elicottero è fuori uso; Ethel ha tirato la leva sbagliata».

«A prova di errore», commentò Moon in tono amaro. «Huron sta proprio sfornando dei bei modelli, oggigiorno. Quello nuovo io me lo sto facendo mandare da Michigan. Senti… stamattina Pueblo mi ha chiamato per quel libro di Quayle».

«Oldfieid?»

«Proprio lui», annuì Moon. «Dice se non potresti mandargli almeno qualche capitolo».

Burkhalter scosse il capo. «Non credo proprio. Ci sono alcune interpretazioni proprio all’inizio che devono esser chiarite, e Quayle è così…» Esitò.

«Cosa?»

Burkhalter pensò al complesso d’Edipo che aveva scoperto nella mente di Quayle, ma si trattava pur sempre di qualcosa d’intimo e inviolabile, anche se impediva a Quayle d’interpretare la figura di Dario con fredda logica. «In quelle pagine il suo modo di pensare è assai confuso. Non posso lasciar correre; ho provato ieri con tre lettori, e ho ottenuto un diverso risultato con ognuno dei tre. Così com’è, attualmente, «Psicostoria» può esser letto e interpretato da chiunque come gli pare… I critici ci strapazzerebbero se pubblicassimo il libro così com’è. Non puoi menar per il naso Oldfield ancora per un po’?»

«Forse», replicò Moon in tono dubbioso. «Ho un romanzo intimista che potrei far passare avanti. Un pizzico d’erotismo sostitutivo… ed è innocuo; inoltre, dal punto di vista semantico è a posto. L’avevamo bloccato per cercare un illustratore adatto, ma posso metterci sopra Duman. Sì, farò così. Manderò subito il manoscritto a Pueblo per posta pneumatica e Duman potrà preparare le lastre più tardi. Conduciamo proprio una vita allegra, Ed».

«A volte un po’ troppo allegra», commentò Burkhalter. Si alzò in piedi, annui, e andò a cercare Quayle che si stava rilassando in uno dei solarium.

Quayle era un uomo magro, alto, il volto preoccupato e astratto insieme, quasi una tartaruga senza guscio. Era disteso sul suo lettino di flessovetro con la luce del sole che pioveva dritta dall’alto tostandolo, mentre i raggi riflessi gli arrivavano furtivi da sotto, attraverso il vetro trasparente. Burkhalter si sfilò la camicia e si lasciò cadere su una sedia a sdraio accanto a Quayle. Lo scrittore fissò il petto glabro di Burkhalter e un’istintiva ripugnanza accennò a prender forma in lui: Un calvo… niente intimità… Non sono cose sue… ciglia e sopracciglia false, è sempre un…

E qui si concretizzò qualcosa di molto sgradevole.

Con mossa diplomatica, Burkhalter schiacciò un pulsante e su uno schermo sopra di loro comparve una pagina di «Psicostoria», ingrandita e perciò facile a leggersi. Quayle scrutò il foglio. Su di esso c’erano annotazioni in codice fatte dai lettori, che Burkhalter riconobbe come reazioni contorte ed emotive, ben diverse dalle valutazioni limpide e lineari che avrebbero dovuto esserci. Se tre lettori avevano tratto da quei pochi paragrafi tre significati del tutto diversi… be’, allora che cosa intendeva dire Quayle? S’insinuò con delicatezza nella sua mente, conscio degli inutili ostacoli innalzati contro le intrusioni, barricate di fango sopra le quali l’occhio della mente si muoveva furtivo come una tranquilla brezza inquisitrice. Nessun uomo normale poteva proteggere la propria mente da un calvo. Ma i calvi potevano proteggere la propria intimità contro l’intrusione di altri telepati… adulti, naturalmente. C’era un selettore di banda psichico, ma…

Eccolo. Ma un po’ confuso. Dario: non era soltanto una parola, e neppure un’immagine; era in effetti una seconda vita. Ma sparpagliata, frammentaria. Frammenti d’odori, di suoni, ricordi, reazioni emotive. Ammirazione e odio. Una bruciante impotenza. Un tornado nero che odorava di pino, che attraversava ruggendo una carta geografica dell’Europa e dell’Asia. Ora l’odore di pino si era fatto più intenso, e un’orribile umiliazione, il ricordo d’una sofferenza… occhi… Esci fuori… Vattene!

Burkhalter mise giù il microfono del dittografo e giacque immobile, guardando verso l’alto attraverso gli occhiali-parasole che aveva infilato. «Sono uscito non appena mi ha chiesto di farlo», disse. «E sono ancora fuori».

Quayle respirava affannosamente, disteso accanto a lui. «Grazie», rispose. «Le mie scuse. Perché non chiede un duello…»

«Non voglio duellare con lei», replicò secco Burkhalter. «In tutta la mia vita non ho mai insanguinato il mio pugnale. Inoltre, capisco il suo punto di vista. Si ricordi che questo è il mio lavoro, signor Quayle, e ho appreso un bel po’ di cose… che subito ho dimenticato».

«Suppongo che si tratti di un’intrusione…» fece Quayle. «Continuo a dirmi che non ha importanza, ma la mia intimità è importante».

Burkhalter riprese, paziente: «Possiamo continuare, tentando da diverse angolazioni, fino a quando non ne troveremo una che non sia troppo intima. Supponiamo ad esempio che io le chieda se lei ammira Dario».

Ammirazione… e odore di pino… Burkhalter aggiunse in fretta: «Sono fuori, va bene?»

«Grazie», borbottò Quayle. Si girò di lato, voltando la schiena a Burkhalter. Un attimo dopo disse ancora: «È una sciocchezza… voglio dire, questa di girarmi mostrandole la schiena. Lei non ha affatto bisogno di vedere il mio viso per sapere quello che penso».

«Dovrà stendere il tappeto rosso del benvenuto prima che io entri», ribadi Burkhalter.

«Immagino di doverle credere. Tuttavia ho incontrato certi calvi che erano… Che non mi piacevano».

«Ce ne sono molti di quel tipo, certo. Li conosco. Quelli che non portano la parrucca».

Quayle annui: «Ti leggono la mente e ti mettono in imbarazzo soltanto per divertirsi. Bisognerebbe… dargli una lezione».

Burkhalter ammiccò alla luce del sole. «Be’, signor Quayle, le cose stanno così. Anche un calvo ha i suoi problemi. Deve orientarsi in un mondo che non è telepatico; e suppongo che molti calvi abbiano l’impressione di esser costretti a gettare alle ortiche la loro miglior dote. Ma ci sono lavori adatti a un uomo come me…»

«Uomo!» Intercettò lo scampolo di pensiero uscito da Quayle. Lo ignorò, il volto privo d’espressione, e proseguì:

«La semantica ha sempre costituito un problema, perfino in paesi dove si parla una sola lingua. Un calvo, con la sua dote, è un magnifico interprete. E malgrado non vi siano calvi che fanno ufficialmente parte delle forze investigative, capita spesso che lavorino con la polizia. È un po’ come essere una macchina che può far soltanto alcune cose».

«Alcune cose in più di quanto possano fare gli umani», commentò Quayle.

Certo, rifletté Burkhalter, se soltanto potessimo competere alla pari con l’umanità non telepatica… Ma si fiderebbe un cieco di uno che può vedere? Giocherebbe a poker con lui? Un’improvvisa, profonda amarezza riempi di uno sgradevole sapore amaro la bocca di Burkhalter. Qual era la risposta? Delle riserve in cui costringere i calvi a vivere? L’isolamento? E una intera nazione di ciechi, anche così, si sarebbe fidata dei calvi? Oppure li avrebbe spazzati via, applicando la cura più drastica ed efficace prevista dall’attuale sistema di controllo ed equilibrio che faceva della guerra un’eventualità impossibile?

Ricordava quando Red Bank era stata spazzata via, e, forse, con piena giustificazione. Red Bank era cresciuta troppo ed era diventata troppo tracotante per un’epoca in cui la dignità personale era un fattore di sopravvivenza, e gli altri non erano certo disposti a perdere la faccia fintanto che un pugnale pendeva alla loro cintura. Erano migliaia e migliaia le piccole città che oggi coprivano l’America, ognuna con la sua particolare specializzazione (fabbricazione di elicotteri per Huron e Michigan, coltivazione di ortaggi per Conoy e Diego, tessili, insegnamento, arte, macchine utensili per altre ancora, e così via), e ogni singola città teneva d’occhio tutte le altre con molta attenzione. I centri scientifici e di ricerca erano un po’ più grandi, nessuno trovava da obbiettare a questo, poiché scienziati e tecnici non facevano mai la guerra se non costretti da politici e tiranni; ma ben poche fra tutte queste piccole città ospitavano più di qualche centinaio di famiglie. Era un sistema di controllo ed equilibrio spinto alla massima efficienza; tutte le volte che una cittadina mostrava i segni di voler diventare una città — e poi una metropoli, capitale d’un impero — veniva spazzata via. Ma questo non accadeva più da molto tempo. E anche la distruzione di Red Bank, in fin dei conti, poteva essere stato un errore.

Comunque, da un punto di vista geopolitico era un’ottima impostazione; sociologicamente era accettabile, ma aveva imposto dei cambiamenti. Boria e smania di potere erano state ricacciate nel subconscio. Era intervenuto un maggior rispetto per i diritti dei singoli, man mano la decentralizzazione procedeva. E gli uomini avevano imparato.

Avevano imparato ad usare un sistema monetario basato soprattutto sul baratto. Avevano imparato a volare: nessuno usava più macchine di superficie. Avevano imparato molte cose nuove, ma non avevano mai dimenticato lo Scoppio, e in luoghi segreti, vicino ad ogni abitato, erano nascoste le bombe che potevano, in modo incredibilmente completo, polverizzare una cittadina, allo stesso modo in cui bombe analoghe avevano sterminato le grandi città durante lo Scoppio.

E tutti sapevano come fabbricarsi quelle bombe. Erano d’una bella e terribile semplicità. Gli ingredienti si trovavano dovunque e metterli insieme non era per niente difficile. Poi, si poteva guidare il proprio elicottero fin sopra una cittadina, sganciarci sopra un uovo… e la cittadina era cancellata.

Fatta eccezione per i malcontenti delle terre incolte, i disadattati presenti in ogni razza, nessuno aveva da ridire. E le tribù dei nomadi non facevano mai scorrerie, né si riunivano mai in grandi gruppi, per timore di venire cancellate. Entro certi limiti anche gli artisti erano dei disadattati, ma non antisociali, e potevano perciò vivere dove volevano e dipingere, scrivere, comporre musica o ritirarsi nei loro mondi privati. Gli scienziati, anch’essi disadattati ma per altro verso, si erano ritirati nelle loro cittadine un po’ più grandi, riunendosi a formare, così, dei piccoli universi tutti loro, sfornando uno dopo l’altro straordinari successi tecnologici.

E i calvi trovavano lavoro dove potevano.

Nessun non-telepate avrebbe mai visto il mondo circostante come Burkhalter. Egli era conscio con intensità anormale dell’elemento umano e attribuiva un significato assai più profondo ai valori umani, senza dubbio perché valutava gli uomini secondo una diversa dimensione, anzi, più di una. E inoltre, in un certo qual senso, guardava l’umanità come l’avrebbe fatto un osservatore esterno.

Eppure era umano. La barriera che la telepatia aveva innalzato induceva gli uomini a sospettare di lui, più ancora che se avesse avuto due teste, poiché in tal caso avrebbe potuto contare sulla loro pietà. Ma, visto come stavano le cose…

Già, visto come stavano, regolò lo schermo finché non comparvero in uno sfarfallio sopra di loro altre pagine del dattiloscritto. «Dica quando», disse rivolto a Quayle. Questi scostò all’indietro i capelli grigi. «Ho i nervi a fior di pelle», obbiettò. «Tutto il lavoro di stesura del mio libro e la revisione mi hanno sottoposto a una tensione quasi insopportabile».

«Be’, possiamo sempre rimandare la pubblicazione», suggerì Burkhalter, in tono casuale, e si compiacque quando constatò la viva repulsione che Quayle provava a quell’idea. Neppure a lui piaceva fallire.

«No, no. Voglio concludere adesso».

«La catarsi mentale…»

Be’, si, forse, con l’aiuto di uno psicologo? Ma non un…»

«… un calvo. Lo sa che parecchi psicologi hanno dei calvi per assistenti? E ottengono anche degli ottimi risultati».

Quayle cominciò a fumare, inspirando con lentezza. «Suppongo… Non ho avuto molti contatti con i calvi. O forse troppi… e d’ogni tipo e qualità. Un giorno ne ho visto alcuni in un manicomio. Ma non la sto offendendo?»

«No», disse Burkhalter. «È il rischio d’ogni mutazione, passar troppo vicina alla linea di demarcazione. Ci sono stati molti insuccessi. Quella dei telepati glabri, creati dalle radiazioni dure, può dirsi una mutazione riuscita. Ma non tutti sono riusciti a mantenersi in carreggiata. La mente è uno strano congegno… lei lo sa. È un colloide in equilibrio, in senso figurato, sulla punta di uno spillo. Se c’è qualche difetto, la telepatia è quel che ci vuole per farlo saltar fuori. E così si è scoperto che tra gli effetti dello Scoppio c’è l’aver scatenato un mucchio di pazzia. Non soltanto fra i calvi: anche fra molti altri tipi di mutanti che si svilupparono allora. Solo che i calvi… sono quasi tutti paranoici».

«Ma c’è anche la demenza precoce», aggiunse Quayle, provando sollie vo nell’uscire dal suo imbarazzo, sviando l’attenzione su Burkhalter.

«E la demenza precoce, già. Quando una mente confusa acquisisce la facoltà telepatica… una mente ereditariamente caotica… non riesce a controllarla del tutto. Il suo disorientamento cresce. I paranoici riempiono il mondo che li circonda di persecuzioni e altre manie, mentre chi è affetto da demenza precoce non sa nemmeno che questo mondo esiste. Ci sono differenze tra i singoli individui, è ovvio, ma sostanzialmente le cose stanno così».

«In un certo senso», commentò Quayle, «la cosa fa paura. Non mi viene in mente nessun parallelo storico».

«No, infatti».

«Come andrà a finire?»

«Non lo so», rispose Burkhalter, pensieroso. «Credo che verremo assimilati, alla fine. Non c’è stato ancora abbastanza tempo… In fin dei conti siamo specializzati, e per certi lavori siamo utili, no?»

«Contenti voi. Ma quei calvi che non portano parrucca…»

«Sono talmente collerici che mi aspetto, col passar del tempo, di vederli tutti uccisi nei duelli». Burkhalter sorrise. «Non sarà una gran perdita. Il resto di noi sta ottenendo ciò che vuole: essere accettati. Non abbiamo né corna, né aureola».

Quayle scosse la testa. «Credo d’essere contento di non possedere facoltà telepatiche. Comunque, la mente è già abbastanza misteriosa senza che si debbano aprire nuove porte. Grazie per avermi fatto parlare… È servito a farmi sfogare, almeno in parte. Possiamo andare avanti, adesso, col manoscritto?»

«Certo», annui Burkhalter, e ancora una volta le pagine comparvero una dopo l’altra sullo schermo sopra le loro teste. Quayle pareva meno sulla difensiva; i suoi pensieri erano più lucidi e Burkhalter riuscì a penetrare il vero significato di molte affermazioni che fino a quel momento erano rimaste confuse. Lavorarono con facilità, col telepate che rimodellava le frasi al dittafono, e due volte soltanto dovettero affrontare l’ostacolo di grovigli emotivi. Staccarono a mezzogiorno e Burkhalter, salutando l’autore con un amichevole cenno del capo, s’infilò nello scivolo che portava al suo ufficio, dove trovò alcune chiamate registrate sul visore. Attaccò il riascolto e un’espressione preoccupata s’insinuò nei suoi occhi azzurri.


Pranzò in un separé col dottor Moon. La conversazione durò così a lungo che soltanto le tazze a induzione riuscirono a mantenere caldo il caffé, ma Burkhalter aveva più d’un problema da discutere. E conosceva Moon da moltissimo tempo. L’uomo grasso era uno dei pochi uomini normali che non provasse una ripugnanza subconscia per il fatto che lui era un calvo, pensò Burkhalter.

«Non ho mai fatto un duello in vita mia, dottore. Non posso permettermelo».

«Non puoi permetterti di non farlo. Non puoi respingere la sfida, Ed. Nessuno lo fa».

«Ma questo individuo, Reilly… Neppure lo conosco».

«Io sì», disse Moon. «Ha un pessimo carattere. Fa molti duelli». Burkhalter picchiò i pugni sul tavolo. «È ridicolo. Non lo farò».

«Be’», fece Moon, prosaicamente, «tua moglie non può battersi contro di lui. E se Ethel avesse letto nella mente della signora Reilly per poi spettegolare, Reilly avrebbe un motivo».

«Non credi che noi siamo fin troppo consci di questi pericoli?» chiese Burkhalter a bassa voce. «Ethel non se ne va in giro a leggere il pensiero degli altri più di quanto non faccia io. Sarebbe fatale… per noi. E per qualunque altro calvo».

«Non per i pelati… quelli che non portano parrucche. Loro…»

«Sono pazzi. E procurano a tutti i calvi una cattiva fama. Insomma: punto primo, Ethel non legge la mente degli altri, e non ha letto quella della signora Reilly. Punto secondo: Ethel non spettegola».

«È ovvio che Reilly è un tipo isterico», annuì Moon. «Si è sparsa la voce di questo scandalo, qualunque cosa sia, e la signora Reilly si è ricordata di aver visto Ethel di recente. In ogni caso è il tipo che ha bisogno di scaricare la colpa su qualcun altro… un capro espiatorio. Io sono convinto, invece, che è stata proprio lei a lasciarsi scappar di bocca qualcosa di delicato, e che abbia messo su tutta questa storia per non doversi discolpare con suo marito».

«Non ho intenzione di accettare la sfida di Reilly», ripeté Burkhalter, cocciuto.

«Dovrai».

«Ascolta, dottore. Forse…»

«Cosa?»

«Niente. Un’idea. Potrebbe funzionare. Be’, non è più il caso di lambiccarsi il cervello: credo proprio di aver trovato la soluzione giusta. E ad ogni modo è l’unica. Non posso permettermi un duello, e questo è tassativo».

«Ma non sei un codardo».

«C’è una cosa di cui i calvi hanno paura», lo corresse Burkhalter. «L’opinione pubblica. Si dà il caso che io sappia per certo che finirei per uccidere Reilly. È per questo che non ho mai duellato in vita mia».

Moon finì di bere il suo caffè. «Uhmmmm. Penso che…»

«Non farlo. E c’è qualcos’altro. Mi sto chiedendo se non dovrei mandare Al in una scuola speciale».

«Cos’è che non va col ragazzo?»

«Ci stiamo accorgendo che è un magnifico delinquente. Stamattina il suo insegnante mi ha chiamato. E senz’altro valeva la pena di ascoltare il riassunto che mi ha fatto. Al parla e agisce in modo strano. Fa piccoli scherzi cattivi ai suoi amici… sempre che a quest’ora ne abbia ancora qualcuno».

«Tutti i bambini sono crudeli».

«I bambini non sanno cosa voglia dire crudeltà. È per questo che si comportano in modo crudele: gli manca l’empatia. Ma Al sta…» Burkhalter fece un gesto d’impotenza, «… sta diventando un giovane tiranno. Stando al suo insegnante, pare che non gl’importi di niente e di nessuno».

«Non è poi così tremendamente anormale…»

«Non è questo il peggio. È diventato molto, troppo egocentrico. Non voglio che diventi come uno di quei calvi senza parrucca di cui parlavi prima». Burkhalter non accennò alle altre possibilità: la paranoia, la demenza precoce.

«Deve aver imparato da qualche parte. A casa? Improbabile. Che altri posti frequenta tuo figlio, Ed?»

«I soliti. Vive in un ambiente normale».

«Mi parrebbe», disse Moon, «che un calvo dovrebbe avere insolite, eccezionali opportunità nell’allevare un giovane. Il rapporto mentale… eh?»

«Già. Ma… non so. Il guaio è», la sua voce si era abbassata a un sussurro, «il guaio è… Dio, come non vorrei esser diverso! Non abbiamo chiesto noi di essere telepati. Forse finirà per essere meraviglioso, in tempi lunghi, ma io sono soltanto un uomo, con la sua vita e il suo piccolo mondo personale. Quelli che si occupano di sociologia sui lunghi periodi tendono a dimenticarsene. Sono bravi, loro, a elaborare le risposte, ma tocca a ognuno di noi, a ogni calvo, da solo, combattere la propria battaglia finché è vivo. E non è esattamente una battaglia. È qualcosa di peggio, la necessità di controllarsi ad ogni istante, di adeguarsi a un mondo che non ti vuole».

Moon si mosse a disagio. «Sei un po’ dispiaciuto per te stesso, Ed?» Burkhalter si scosse. «Lo sono, dottore. Ma ce la farò ad uscirne».

«Ce la faremo insieme», replicò Moon, ma Burkhalter non si aspettava un grande aiuto da lui. Moon era pieno di buona volontà, ma sarebbe sempre stato uno sforzo tremendo, orribile quasi, per un uomo comune convincersi che un calvo fosse… sì, fosse come lui. Gli uomini cercavano le differenze… e le trovavano.

Ad ogni modo, avrebbe dovuto sistemare quella faccenda prima di rivedere Ethel. Avrebbe potuto facilmente nasconderle l’accaduto, ma lei si sarebbe accorta dell’esistenza d’una barriera mentale e si sarebbe chiesta il perché. Il loro matrimonio era stato un’unione ideale proprio grazie a quell’ulteriore rapporto, qualcosa che li compensava dell’inevitabile, semiavvertita ma sempre presente, alienazione dal resto del mondo.

«Come va la “Psicostoria?”» chiese Moon, dopo qualche istante di silenzio.

«Meglio di quanto mi aspettassi. Ho trovato una nuova direzione di approccio con Quayle. Se parlo di me stesso, riesco a farlo uscire dal suo riserbo. Ciò gli dà abbastanza fiducia da consentirgli di aprirsi mentalmente a me. Malgrado tutto, potremmo anche aver subito quei primi capitoli pronti per Oldfield».

«Ottimo. Ad ogni modo è bene che non possa farci fretta. Se fossimo costretti a sparar fuori i libri con tanta velocità, tanto varrebbe tornare ai giorni della confusione semantica; Cosa che non faremo mai!»

«D’accordo». Burkhalter si alzò in piedi. «Io me la filo. Ci vediamo».

«Ma Reilly…»

«Non ci pensare». Burkhalter usci, dirigendosi all’indirizzo che aveva letto sul suo visore. Toccò il pugnale che aveva alla cintola. Il duello non era per i calvi, ma…

Un silenzioso saluto s’insinuò nella sua mente e sotto l’arco che conduceva al campus si fermò per sorridere a Sam Shane, un calvo originario della zona di New Orleans che sfoggiava una parrucca rosso fiammeggiante. Non si diedero la pena di parlare. Domanda personale sul benessere mentale, morale e fisico…

Un bagliore soddisfatto. E tu, Burkhalter? Per un attimo Burkhalter colse nella mente di Shane l’immagine di ciò che simboleggiava il suo nome[1].

Ombra di guai.

Una calorosa disponibilità ad aiutare. I calvi erano assai legati tra loro.

Burkhalter pensò: Ma dovunque andassi vi sarebbero gli stessi sospetti. Siamo degli anormali.

Ancora di più altrove, pensò Shane. Siamo in molti qui a Modoc. La gente è sempre più sospettosa dove non è in contatto quotidiano con… noi.

Il ragazzo…

Anch’io ho problemi, pensò Shane. Sono preoccupato. Le mie due ragazze…

Delinquenti?

Sì.

Denominatori comuni?

Non so. Ce n’è più d’uno, tra noi, che ha avuto problemi coi suoi figli.

Caratteristiche secondarie della mutazione? Che emergono nella seconda generazione?

C’è quasi da pensarlo, fu la riposta di Shane, mentre si accigliava dentro la sua mente. Il concetto tremolò, si offuscò. Ci rifletterò più tardi. Devo andare.

Burkhalter sospirò e proseguì per la sua strada. Le case erano disposte tutt’intorno al centro produttivo di Modoc, perciò prese una scorciatoia attraverso il parco per arrivare prima a destinazione. Si trovò davanti a un edificio curvo che sembrava protendersi in tutte le direzioni, ma non c’era nessuno, così Burkhalter rimandò a dopo l’incontro con Reilly. Diede un’occhiata al cronometro e deviò in direzione della scuola, superando una collinetta. Come si era aspettato, era l’ora della ricreazione e trovò Al stravaccato sotto un albero, a una certa distanza dai suoi compagni che erano impegnati nel divertente e proibito gioco dello Scoppio.

I pensieri di Al l’investirono: L’Uomo Verde aveva quasi raggiunto la cima della montagna. Gli gnomi pelosi stavano bersagliando vigliaccamente la sua pista con sfrigolanti strisce di luce cercando di colpire la loro preda, ma l’Uomo Verde riusciva agilmente a schivarle. Le rocce sporgevano…

«Al».

«… sempre più all’esterno, spinte dagli gnomi, sul punto di…»

«Al!» Burkhalter accompagnò il pensiero con le parole, schizzando dentro la mente del ragazzo, un espediente di cui si serviva di rado, dal momento che i giovani erano incapaci di difendersi da simili invasioni.

«Ciao, papà», disse Al, per niente turbato. «Cosa c’è?»

«Un rapporto del tuo insegnante».

«Non ho fatto niente».

«Non è quello che tu hai fatto o non fatto… Ascolta, ragazzo. Non cominciare a metterti idee strane in testa».

«Non lo faccio».

«Pensi che un calvo sia migliore o peggiore di un non calvo?»

Al mosse i piedi a disagio. Non rispose.

«Bene», proseguì Burkhalter. «La risposta è: tutte e due le cose e nessuna delle due. Ed eccoti il perché. Un calvo può comunicare mentalmente, ma vive in un mondo in cui la maggior parte della gente non può farlo».

«Sono stupidi», dichiarò Al.

«Non così stupidi, se sono più adatti di te al loro mondo. Potresti anche dire, allo stesso modo, che una rana è migliore di un pesce perché è un anfibio?» Burkhalter gli forni una breve spiegazione telepatica dei termini da lui usati.

«Be’… oh, ho capito, d’accordo».

«Forse», disse ancora Burkhalter, misurando attentamente le parole, «quello di cui hai bisogno è un calcione nel sedere. Il tuo pensiero era tutt’altro che in accordo con le parole. Ripeti?»

Al cercò di nasconderlo, di velario così da renderlo irriconoscibile. Burkhalter cominciò a penetrare la barriera, una cosa facile per lui, ma si fermò. Al stava fissando suo padre in maniera assai poco filiale… In effetti, dava l’idea di giudicarlo una sorta di animale molliccio, senza spina dorsale. Un’immagine fin troppo chiara.

«Visto che sei tanto egocentrico», gli fece notare Burkhalter, «forse puoi anche vederla così. Sai perché non ci sono calvi in posizione-chiave?»

«Certo che lo so», sbottò Al. «Hanno paura».

«E di che cosa?»

«Dei…» L’immagine era strana, confusa e rimescolata, eppure familiare a Burkhalter. «… dei non-calvi».

«Be’, se occupassimo dei posti dove potessimo approfittare delle nostre facoltà telepatiche, i non-calvi sarebbero pieni d’invidia, soprattutto se avessimo successo. Se un calvo inventasse anche soltanto una trappola per topi di tipo migliore, un mucchio di gente salterebbe fuori a dire che ha rubato l’idea dal cervello di qualche non-calvo. Hai capito?»

«Sì, papà». Ma non aveva capito. Burkhalter sospirò e alzò lo sguardo. Riconobbe una delle figlie di Shane su una collinetta lì vicino, seduta tutta sola, le spalle appoggiate a un macigno. Qua e là c’erano altre figure isolate. Lontano a oriente gli innevati bastioni delle Montagne Rocciose formavano un profilo irregolare sullo sfondo del cielo azzurro.

«Al», riprese Burkhalter, «non voglio che tu covi rancori. Questo è un mondo splendido e la gente che lo abita nell’insieme è simpatica. Esiste una legge delle medie. Non sarebbe mostrarsi assennati se c’impadronissimo di troppe ricchezze o potere, poiché combatterebbero contro di noi… e in ogni caso non ne abbiamo bisogno. Nessuno è povero. Gli è facile trovare un lavoro adatto a noi, lo facciamo, e siamo ragionevolmente contenti. Abbiamo alcuni vantaggi che i non-calvi non possiedono; nel matrimonio, ad esempio. L’intimità mentale è importante quanto quella fisica. Ma non voglio che il fatto d’essere un calvo ti faccia sentire un dio. Non è così. Posso ancora», aggiunse, cambiando tono, «farti cambiare idea a sculacciate, nel caso in cui tu abbia in mente di seguire fino in fondo i concetti che stai accarezzando nella tua mente in questo momento».

Al deglutì e si affrettò a battere in ritirata. «Mi spiace. Non lo farò più». «E tienti in testa i capelli. Non toglierti la parrucca in classe. E quando fai la doccia, ricordati poi di riapplicarti l’adesivo».

«Sì, ma… il signor Vanner non porta la parrucca». «Ricordami di svolgere qualche ricerca storica insieme a te sugli esibizionisti d’ogni epoca e tipo», replicò Burkhalter. «L’assenza di parrucca sulla testa del signor Venner è con ogni probabilità la sua sola virtù, sempre che si possa considerare tale».

«Fa un sacco di soldi».

«Chiunque li farebbe, in quel suo emporio. Ma avrai notato che la gente non compera da lui, se soltanto può farne a meno. È questo che intendevo dire, parlando di rancore. Lui ne sta coltivando un bel po’ intorno a sé. Già, esistono calvi come Venner, Al, ma faresti bene a chiedergli, una volta o l’altra, se è felice. Per tua informazione, io lo sono, e comunque più di Venner. Hai afferrato?»

«Sì, papà». Al pareva remissivo. Ma niente affatto convinto. Burkhalter sempre turbato annui e si allontanò. Quando passò accanto al macigno dove sedeva la figlia di Shane, afferrò uno scampolo di pensiero… sulla vetta della Montagna di Vetro, facendo rotolare le rocce contro gli gnomi, finché…

Si ritrasse; era una sua abitudine inconscia toccare menti sensibili, ma coi bambini era decisamente sleale. Coi calvi adulti equivaleva al gesto istintivo di toccarsi il cappello: l’altro rispondeva, oppure no. Poteva venir eretta una barriera; poteva esserci un deliberato offuscamento; o anche poteva uscirne fuori, sparato, un pensiero di ripulsa, che invitava a non intromettersi.

Un elicottero che trainava una fila di alianti stava arrivando da sud: un trasporto carico di cibi congelati provenienti dal Sudamerica, a giudicare dai contrassegni. Burkhalter prese un appunto mentale di andarsi a comperare una bistecca argentina. Aveva una nuova ricetta che voleva provare: l’avrebbe cotta sulla brace, e condita con una salsa speciale. Un cambiamento più che benvenuto dopo tutti i pasti a microonde cui erano stati costretti per un’intera settimana. E poi, pomodori, chili, e… mmm. Che altro? Oh, sì. Il duello con Reilly. Burkhalter toccò con fare assente l’elsa del pugnale e produsse un lieve raschiamento di scherno con la gola. Forse era un pacifista innato. Gli riusciva difficile pensare seriamente a un duello anche se erano davvero tanti quelli che lo facevano… specialmente quando i prosaici dettagli d’una cena al barbecue gli si aggiravano nella mente.

Così andavano le cose. Le maree della civiltà spazzavano i continenti con onde lunghe secoli, e ogni singola onda, malgrado fosse ben conscia di far parte della marea, si preoccupava soprattutto per la cena. E, a meno di non essere alto mezzo chilometro, col cervello d’un dio, e la durata della vita d’un dio, cos’era la differenza? La gente perdeva tempo ed energie dietro a un bel po’ di sciocchezze: gente come Venner, certo uno spostato, anche se non matto abbastanza da qualificarsi per il manicomio, ma senza alcun dubbio il tipo potenziale del paranoico. Il rifiuto di quell’uomo di portare la parrucca l’etichettava d’individualismo, ma anche di esibizionismo. Anche se non si vergognava della sua mancanza di peli, che bisogno c’era che la sbandierasse così? Inoltre, Venner, aveva un pessimo carattere, e anche se la gente lo trattava male, era lui che se l’era cercata, cominciando per primo.

E in quanto ad Al… il ragazzo era su una strada che l’avrebbe portato molto vicino alla delinquenza. Non poteva trattarsi d’uno stadio normale della fanciullezza, rifletté Burkhalter. Lui non aveva la pretesa d’essere un esperto, ma era ancora abbastanza giovane da ricordare gli anni della sua formazione, e aveva incontrato più ostacoli di quanti ne avesse Al adesso; in quei giorni i calvi erano stati molto più «nuovi» e anormali. C’era stato più d’un movimento d’opinione per isolare, sterilizzare, o addirittura sterminare la mutazione telepatica.

Burkhalter sospirò. Se fosse nato prima dello Scoppio, avrebbe potuto essere diverso? Impossibile a dirsi. Si poteva leggere la storia, ma non viverla. Forse in futuro vi sarebbero state, nelle biblioteche, registrazioni telepatiche che l’avrebbero reso possibile. In effetti, c’erano moltissime opportunità, oggi… e troppo poche quelle che il mondo fosse ora pronto ad accettare. Col tempo, i calvi non sarebbero più stati considerati degli anormali, e allora sarebbe stato possibile un vero progresso.

Ma non erano i singoli individui a fare la storia… pensò Burkhalter, bensì i popoli. Non gli individui.

Passò di nuovo davanti alla casa di Reilly, e questa volta un uomo venne a rispondergli. Un tizio corpulento, lentigginoso, strabico, con due mani immense e, Burkhalter ebbe modo di notarlo, un eccellente coordinamento muscolare. Appoggiò quelle mani sul pannello inferiore, indipendente, della porta, che aveva lasciato chiuso, e chiese:

«Chi è lei, signore?»

«Mi chiamo Burkhalter».

Comprensione e cautela guizzarono negli occhi di Reilly. «Oh, capisco. Ha ricevuto la mia telefonata?»

«Infatti», annuì Burkhalter. «Voglio parlarle in merito. Posso entrare?»

«D’accordo». Reilly si fece indietro, scortandolo poi lungo un corridoio fino a uno spazioso soggiorno, dove le pareti di vetro a mosaico lasciavano entrare una luce diffusa. «Vuol fissare l’ora?»

«Voglio dirle che si sbaglia».

«Oh, senta… aspetti un momento», fece Reilly, gesticolando. «Adesso mia moglie è fuori, ma mi ha detto l’essenziale. Non mi piace affatto questa faccenda d’intrufolarsi nella mente d’un altra persona, è disonesto. Avrebbe dovuto dire a sua moglie di farsi i fatti suoi… oppure di tener la bocca chiusa».

Burkhalter replicò con pazienza: «Le do la mia parola, Reilly, che Ethel non ha letto la mente di sua moglie».

«Questo lo dice la signora?»

«Io… non gliel’ho chiesto».

«Già», disse Reilly. «Per quanto ne so, lei potrebbe star leggendo la mia mente in questo momento…» Esitò. «Esca dalla mia casa. Amo la mia intimità. C’incontreremo domani all’alba, se a lei va bene. Adesso esca». Pareva aver qualcosa in mente, qualche vecchio ricordo che non voleva esibire.

Burkhalter resistette nobilmente alla tentazione di leggergli dentro. «Nessun calvo leggerebbe mai…»

«Su, esca!»

«Ascolti! Non avrà nessuna possibilità in un duello contro di me!»

«Sa quante tacche ho?» chiese Reilly.

«Ha mai fatto un duello con un calvo?»

«Domani avrò una tacca nuova, più profonda. Esca, mi ha sentito?»

Burkhalter, mordendosi le labbra, replicò: «Uomo, non si è reso conto che in un duello potrei leggerle il pensiero?»

«Non m’importa… Cosa?»

«Sarò sempre di mezzo passo più avanti di lei. Non importa quanto saranno istintive le sue mosse, lei le conoscerà con una frazione di anticipo nella sua mente. E io conoscerò anche tutti i suoi trucchi e i suoi punti deboli. La sua tecnica sarà per me come un libro aperto. Qualunque cosa lei pensi di…»

«No». Reilly scosse la testa. «Oh, no. Lei è furbo, ma sono tutte storie per impressionarmi».

Burkhalter esitò, prese una decisione, e si girò di scatto spingendo via una sedia. «Impugni il suo pugnale», disse, «ma lo lasci dentro il fodero. Le farò vedere cosa intendo dire».

Reilly spalancò gli occhi: «Se vuol farlo adesso…»

«Non voglio». Burkhalter spinse via un’altra sedia. Sganciò il pugnale, con fodero e tutto, dalla sua cintura, e si assicurò che il piccolo gancio di sicurezza fosse al suo posto. «Qui abbiamo abbastanza spazio. Su, venga».

Accigliandosi, Reilly tirò fuori il suo pugnale, lo impugnò con fare impacciato, ostacolato dal fodero, poi d’un tratto fece una finta in avanti. Ma Burkhalter non era più lì: aveva anticipato la mossa, e il suo fodero guizzò verso l’alto, puntando al ventre di Reilly.

«Così», commentò Burkhalter, «avrei messo fine al combattimento».

In risposta, Reilly vibrò un fendente verso il basso, deviandolo all’ultimo istante di taglio verso la gola dell’avversario. In risposta, Burkhalter parò fulmineo il colpo con l’avambraccio sinistro, mentre la punta del fodero del suo pugnale, spinto in avanti dalla mano destra, colpi due volte Reilly all’altezza del cuore. Le lentiggini spiccarono contro il volto pallidissimo dell’omaccione; ma non era ancora pronto ad arrendersi. Tentò altri colpi, abili, che indicavano un ottimo addestramento, ma li mancò, poiché Burkhalter li aveva previsti tutti. Il suo avambraccio sinistro copriva inevitabilmente il punto al quale Reilly aveva mirato, che perciò non veniva mai colpito.

Reilly abbassò finalmente il braccio, lentamente, e deglutì. Burkhalter riagganciò il fodero del pugnale alla cintura.

«Burkhalter», disse Reilly, «lei è un demonio».

«Sono ben lungi dall’esserlo. Soltanto, non voglio correre un rischio. Lei crede davvero che essere un calvo sia una gran cosa?»

«Ma se può leggere il pensiero…»

«Quanto tempo crede che durerei, se accettassi di far duelli? Sarebbe una trappola mortale per i miei avversari. E nessuno, ovviamente, ci starebbe… e sarei fatto fuori, in un modo o nell’altro. Non posso far duelli perché sarebbe un assassinio, e quel che è peggio la gente saprebbe che lo è. Ho accettato senza fiatare un sacco di battute spiritose, ho inghiottito un bel po’ d’insulti, proprio per questo motivo. Adesso, se vuole, sono pronto ad ammettere tutto ciò che lei vuole. Ma non posso duellare con lei, Reilly».

«No, posso capirlo. E… sono contento che sia venuto». Reilly era ancora bianco in volto. «Sarei finito dritto in una trappola».

«Non la mia», replicò Burkhalter. «Non avrei duellato. I calvi non sono affatto fortunati, sa. Hanno degli impedimenti… come questo, appunto. È per questo che non possono correr rischi e inimicarsi la gente. Ed è per questo che noi non leggiamo il pensiero, a meno che non ci sia chiesto esplicitamente di farlo».

«La cosa ha senso. Più o meno». Reilly esitò. «Senta, ritiro la sfida. Va bene?»

«Grazie», rispose Burkhalter, tendendogli la mano. L’altro la strinse con una certa riluttanza. «Lasciamo perdere la cosa, eh?»

«Bene». Ma Reilly era pur sempre ansioso che il suo visitatore lasciasse al più presto la casa.

Burkhalter tornò a piedi al centro editoriale, fischiettando soprappensiero. Adesso avrebbe potuto dirlo a Ethel; in realtà, era obbligato a farlo, poiché un segreto fra loro avrebbe infranto la pienezza della loro intimità telepatica. Non che le loro menti si offrissero nude alle reciproche ispezioni, ma era piuttosto il fatto che ogni barriera sarebbe stata subito avvertita dall’altro, e il rapporto non sarebbe più stato perfetto. Per quanto possa sembrare strano, malgrado questa totale intimità, marito e moglie riuscivano a rispettare la reciproca privacy.

Ethel sarebbe rimasta un po’ addolorata, ma il problema sarebbe stato presto dimenticato e, inoltre, anche lei era una calva. Non che ne avesse l’aspetto, con quella sua vaporosa parrucca di capelli castani e quelle lunghe ciglia ricurve. Ma i suoi genitori erano vissuti ad oriente di Seattle all’epoca dello Scoppio, e anche dopo, quando l’effetto delle radiazioni dure non era stato completamente studiato.

Un vento da neve soffiava sopra Modoc, perdendosi verso sud in direzione della valle dell’Utah. Burkhalter desiderò di trovarsi nel suo elicottero, solo nell’azzurra vastità del cielo. Lassù c’era una pace strana, tranquilla, che nessun calvo era mai riuscito a conoscere del tutto sulla superficie della Terra, salvo nelle profondità delle lande incolte e desolate. Dovunque c’erano, sempre, frammenti vaganti di pensieri, subsensoriali, che come il fruscio quasi inaudibile d’una puntina su un disco fonografico, non cessavano mai. Era senz’altro questo il motivo per cui a tutti i calvi piaceva volare ed erano esperti piloti. Le alte, deserte immensità dell’aria erano i loro azzurri eremi.

Però lui, adesso, era laggiù a Modoc, e per di più in ritardo per il nuovo colloquio che doveva avere con Quayle. Burkhalter accelerò il passo. Nell’atrio principale incontrò Moon. Gli riferì in breve, e senza soffermarsi sui particolari, che aveva risolto la faccenda del duello, e passò oltre, lasciando il grasso dottore a fissarlo perplesso. C’era una sola chiamata registrata dal visore, da parte di Ethel; la registrazione diceva che era preoccupata per Al e chiedeva a Burkhalter di andare a scuola, a controllare. Be’, questo l’aveva già fatto… a meno che il ragazzo non fosse riuscito a cacciarsi in qualche altro guaio dopo la sua visita. Burkhalter fece una telefonata per rassicurarsi. Per adesso, la situazione di Al non aveva subito mutamenti.

Trovò Quayle, assetato, nello stesso solarium privato. Burkhalter si fece mandar su un paio di dramzowie, dal momento che non aveva alcuna obiezione a sciogliere le inibizioni di Quayle. Lo scrittore dai capelli grigi era immerso nello studio d’una mappa a strati del globo terrestre, in cui ogni strato rappresentava una particolare epoca storica, e veniva illuminato singolarmente premendo il corrispondente pulsante. Ed era appunto ciò che Quayle stava facendo, procedendo a ritroso nel tempo con la sua ricerca.

«Guardi qua», disse, facendo scorrere il dito su tutta una fila di pulsanti. «Vede quante variazioni ha subito il confine tedesco?» Il confine palpitò un’ultima volta, scomparendo poi del tutto quando furono raggiunti i tempi moderni. «E il Portogallo… osservi la sua zona d’influenza. Oggi…» La zona continuò a restringersi sempre più dal 1600 in poi, mentre da altri paesi s’irradiavano linee che indicavano il loro crescente potere marittimo.

Burkhalter sorseggiò il suo dramzowie. «Non ne è rimasto granché, adesso».

«Non da quando… cos’ha?»

«Cosa vuol dire?»

«Ha un’aria abbattuta».

«Non credevo si vedesse», replicò Burkhalter con una smorfia. «Ho schivato un duello per il rotto della cuffia».

«È una tradizione della quale non ho mai capito il senso», commentò Quayle. «Cosa le e successo? E da quando in qua è possibile schivare un duello?»

Burkhalter glielo spiegò. Quayle trangugiò un sorso e sbuffò. «Che bella situazione per lei. Immagino che non sia poi tanto vantaggioso essere un calvo».

«Be’, qualche vantaggio molto particolare c’è». D’impulso, Burkhalter prese a parlargli di suo figlio. «Lei capisce in che situazione mi trovo, no? Io davvero non so quali criteri applicare con un giovane calvo. Dopotutto è una mutazione. E la mutazione telepatica non ha ancora avuto il tempo di esprimersi compiutamente. Non possiamo fare esperimenti e controlli, poiché le cavie e i conigli non generano telepati. Non che non si sia tentato, sa… E, insomma, il figlio d’un calvo dev’essere allevato in un modo molto speciale perché sia in grado di affrontare la maturità».

«Mi sembra che lei si sia adattato molto bene».

«Ho… imparato. E come me, l’hanno fatto gli altri calvi più realisti. È per questo che non sono ricco, e non mi sono dato alla politica. In effetti, ci comperiamo la sicurezza per la nostra specie rinunciando a certi vantaggi individuali. Siamo ostaggi del destino… e il destino ci risparmia. Ma si tratta, come lei capisce, di benefici negativi a lungo termine che ci paghiamo in questo modo — poiché chiediamo soltanto di essere risparmiati e accettati — negando a noi stessi un sacco di benefici positivi immediati. Un modo per soddisfare il destino».

«Pagando il pifferaio», annuì Quayle.

«Siamo noi i pifferai. I calvi come gruppo, intendo dire. E i nostri figli. Così il conto torna; in effetti; e lo paghiamo sulla nostra pelle. Se volessi avvantaggiarmi in maniera sleale dei miei poteri telepatici… mio figlio non vivrebbe molto a lungo. I calvi verrebbero spazzati via. È questo che Al deve imparare, e invece sta diventado antisociale… ogni giorno di più».

«Tutti i bambini sono antisociali», gli fece notare Quayle. «Sono dei completi individualisti. Mi pare che l’unico motivo di preoccupazione sarebbe una deviazione dalla norma, da parte del ragazzo, strettamente collegata col suo senso telepatico».

«C’è qualcosa di vero in ciò». Burkhalter si protese a sondare con delicatezza la mente di Quayle, e constatò che l’antagonismo era diminuito in maniera considerevole. Sogghignò tra sé e riprese a parlare dei propri guai. «Proprio così, un ragazzo è il padre dell’adulto che diventerà. E un calvo adulto dev’essere bene adattato, altrimenti è spacciato».

«L’ambiente è importante quanto l’eredità genetica. L’uno completa l’altra. Se un bambino viene allevato nel modo giusto, non avrà troppi problemi… a meno che l’eredità genetica non giochi un ruolo dominante».

«Ma potrebbe essere questo il caso, no? Si sa così poco della mutazione telepatica. Noi sappiamo che la calvizie ne è un effetto collaterale… ma quali e quante altre cose potrebbero saltar fuori alla terza o alla quarta generazione? Mi chiedo se la telepatia sia davvero una cosa buona per la mente».

Quayle mormorò: «Hmph. Personalmente mi rende nervoso…»

«Come Reilly».

«Si», annui Quayle, ma non parve avere apprezzato granché il paragone. «Be’, in ogni caso se una mutazione è un insuccesso, si estinguerà. Non continuerà a proliferare».

«E l’emofilia, allora?»

«Quanti sono gli individui che ne sono affetti?» ribatté Quayle. «Sto cercando di veder le cose dal punto di vista d’uno psicostorico. Se vi fossero stati telepati, in passato, la storia del mondo avrebbe potuto esser diversa».

«Come fa a sapere che non ce n’erano?» chiese Burkhalter.

Quayle ammiccò. «Oh, già. Anche questo è vero. Nel Medioevo sarebbero stati chiamati stregoni… o santi. Gli esperimenti Duke-Rhine… ma incidenti del genere sarebbero abortiti. La natura va in giro alla cieca, nella speranza di far centro, ma non sempre le riesce al primo tentativo».

«Potrebbe aver mancato il colpo anche stavolta». Era l’abitudine che parlava per lui, l’innata modestia dettata dalla prudenza. «La telepatia potrebbe essere soltanto il tentativo riuscito a metà di produrre qualcosa di inimmaginabile. Magari una sorta d’ipersenso quadrimensionale…»

«Troppo astratto per me». Quayle mostrava un genuino interesse e le sue esitazioni erano quasi del tutto scomparse; accettando Burkhalter come telepate, aveva tacitamente spazzato via ogni sua precedente obiezione verso la telepatia in sé. «I tedeschi un tempo avevano l’idea d’esser diversi; come pure quel popolo orientale che dominava sulle isole al largo della costa cinese: i giapponesi. Questi affermavano, tassativamente, di essere una razza superiore, poiché discendevano direttamente dagli dèi. Sublimazione d’un complesso d’inferiorità, poiché erano bassi di statura e si sentivano a disagio quando dovevano trattare con gente più alta di loro. Ma neanche i cinesi sono alti di statura, soprattutto i cinesi meridionali, eppure non hanno mai sofferto d’un simile complesso».

«Questione di ambiente, allora?»

«L’ambiente, sì… l’ambiente creato da una continua, efficace propaganda. I… sì, i giapponesi adottarono il buddismo e l’alterarono completamente per adattarlo ai propri bisogni, trasformandolo nello scintoismo. I samurai, i cavalieri-guerrieri, furono il loro ideale. Il loro codice d’onore era affetto da un affascinante strabismo. L’idea-base dello scintoismo consisteva nel venerare i propri superiori e nel soggiogare gli inferiori. Ha mai visto gli alberi-gioiello dei giapponesi?»

«Non li ricordo. Cosa sono?»

«Riproduzioni in miniatura di alberi, fatti di gemme montate su piccole intelaiature, con ninnoli e gingilli d’ogni tipo che pendono dai rami. Il primo albero-gioiello fu fatto per attirare la dea della luna fuori dalla caverna dove si era rintanata, imbronciata. Sembra che la signora sia rimasta tanto incuriosita dai ninnoli, soprattutto da uno specchietto che rifletteva il suo viso, da uscir fuori dal suo nascondiglio. L’intera morale giapponese era agghindata in graziosi indumenti: era questa l’esca. E i tedeschi fecero press’a poco lo stesso. L’ultimo dittatore tedesco, Hitler, aveva fatto rivivere l’antica leggenda di Sigfrido. Pura paranoia razziale. I tedeschi avevano legami familiari molto forti, ma in casa veneravano il padre, il tiranno, non la madre. E questo si estendeva allo stato. E Hitler divenne, simbolicamente, il Padre di Tutti, e ciò diede inizio a una lunga e complicata serie di eventi, che si concluse con lo Scoppio. E le mutazioni».

«Io… dopo il diluvio», mormorò Burkhalter, inghiottendo l’ultimo sorso di dramzowie. Quayle fissava il vuoto.

«Singolare», disse dopo un po’. «Questa faccenda del Padre di Tutti…»

«Sì?»

«Mi chiedo se lei sappia quale potente effetto possa avere su un uomo».

Burkhalter non disse niente. Quayle gli rivolse un’occhiata penetrante.

«Sì», disse lo scrittore con calma. «Dopo tutto lei è un uomo. Le devo le mie scuse, sa».

Burkhalter sorrise. «Non ci pensi più».

«E invece sì», riprese Quayle. «Mi sono appena reso conto, all’improvviso, che le facoltà telepatiche non sono così importanti. Voglio dire… non la rendono diverso. Ho parlato con lei…»

«A volte la gente impiega anni per rendersi conto di ciò che lei sta scoprendo adesso», osservò Burkhalter. «Anni di vita e di lavoro con qualcosa che non considerano un uomo, ma… un calvo».

«Sa cosa ho sempre tenuto nascosto dentro di me?» chiese Quayle.

«No, non lo so».

«Lei mente da vero gentiluomo. Grazie. Be’, ecco qui, e glielo dico per mia libera scelta, perché voglio farlo. Non m’importa se lei mi ha già estratto l’informazione dalla mente; è soltanto che voglio dirglielo di mia libera volontà. Mio padre… certamente l’odiavo… era un tiranno, e mi ricordo che una volta, quand’ero ancora un ragazzino ed eravamo in montagna, mi picchiò davanti a parecchia gente che se ne stava lì a guardare la scena. Per molto tempo ho cercato di dimenticarlo, inutilmente. E adesso…» Quayle scrollò le spalle «… adesso non sembra più così importante».

«Non sono uno psicologo», replicò Burkhalter. «Se vuole la mia opinione, o meglio la mia reazione personale, le dirò che non ha importanza. Lei non è più un ragazzino, la persona con la quale sto parlando e lavorando è il Quayle adulto».

«Uhmmm. S…sì. Suppongo di averlo sempre saputo… quanto poca importanza avesse. Era soltanto il fatto di veder violata la mia intimità… Ora credo di conoscerla assai meglio, Burkhalter. Può… può entrare».

«Lavoreremo meglio», annuì Burkhalter, sorridendo. «In particolare con Dario».

Quayle aggiunse: «Cercherò di spazzar via tutte le riserve dalla mia mente. Con tutta franchezza, non sarà più un problema, per me, darle… le risposte, anche quelle più personali».

«Be’, sarà facile controllare. Vuole affrontare il problema di Dario, adesso?»

«Sì», assentì Quayle. E nei suoi occhi non c’era più alcuna traccia di guardingo sospetto. «Dario s’identifica con mio padre…»


Tutto andò liscio, e con successo. Quel pomeriggio riuscirono a fare assai più di quanto fossero riusciti le due settimane precedenti. Soddisfatto per più d’un aspetto, Burkhalter si fermò un attimo dal dottor Moon per informarlo che le cose stavano andando a gonfie vele, poi si diresse verso casa, scambiando pensieri con un paio di calvi suoi compagni di lavoro, che come lui quel giorno avevano finito. Le Montagne Rocciose erano insanguinate dalla luce del sole ormai prossimo all’orizzonte, a occidente, e la fresca brezza era piacevole sulle guance di Burkhalter mentre camminava verso casa.

Era bello sentirsi accettati. Dimostrava che anche per lui era possibile realizzarsi completamente. E un calvo aveva bisogno di essere spesso rassicurato, in un mondo popolato di estranei sospettosi. Quayle era stato un guscio duro da rompere, ma… Burkhalter sorrise.

Ethel sarebbe stata contenta. In un certo qual modo la sua vita era ancora più dura, difficile. Per le donne doveva esser così. Gli uomini normali erano disperatamente ansiosi che la loro privacy non venisse violata dalle donne calve, e quanto alle donne non-calve… be’, andava tutto a merito del luminoso fascino personale di Ethel se, infine, era stata accolta nei club e nei gruppi femminili di Modoc. Soltanto Burkhalter conosceva l’intima disperazione di Ethel per il fatto di esser calva, e neppure suo marito l’aveva mai vista senza parrucca.

Il suo pensiero lo precedette dentro la casa bassa, con le due ali avvolgenti, sul fianco della collina, e s’intrecciò con quello di lei in una calda intimità. Era qualcosa di più di un bacio. E, come al solito, c’era l’eccitante sensazione di attesa, che cresceva e cresceva, fino a quando l’ultima porta si spalancava e si toccavano fisicamente. È questo,pensò, il motivo per cui sono nato calvo: vale la pena perdere interi mondi per questo.

Durante la cena quel rapporto si ampliò, coinvolgendo anche Al, era qualcosa d’intangibile ma così profondamente radicato che dava più sapore al cibo e faceva sembrare vino l’acqua. La parola casa per i telepati aveva un significato che i non-calvi non potevano comprendere del tutto, poiché implicava un legame che essi non potevano conoscere. C’erano piccole, intangibili carezze…

L’Uomo Verde vien giù lungo la Grande Discesa Rossa; i nani pelosi cercano di arpionarlo mentre lo fa…

«Al», chiese Ethel, «stai ancora lavorando sul tuo uomo verde?»

Qualcosa di totalmente odioso, gelido e micidiale tremolò in silenzio nell’aria, come un ghiacciolo che vibrasse un colpo assassino al fragile vetro dorato, mandandolo in frantumi. Burkhalter lasciò cadere il tovagliolo e alzò io sguardo, scosso fin nel profondo. Sentì il pensiero di Ethel ritrarsi, e protese il suo in tutta fretta per toccarla e rassicurarla col suo contatto mentale. Ma sull’altro lato del tavolo il ragazzino, con le guance ancora paffute dell’infanzia, sedeva guardingo e silenzioso, rendendosi conto di aver commesso un errore e cercando la salvezza nella più completa immobilità. La sua mente era troppo debole, ancora, per resistere a un sondaggio, lo sapeva, e per questo restava dei tutto immobile, in attesa, mentre gli echi d’un pensiero continuavano a librarsi velenosi.

Burkhalter disse: «Vieni, Al». Si alzò in piedi. Ethel fece per parlare. «Aspetta, tesoro. Innalza una barriera. Non ascoltare». Burkhalter toccò la mente di lei con dolcezza e tenerezza, poi prese la mano di Al e obbligò il ragazzo a seguirlo fuori, nel giardino. Al osservava suo padre con occhi spalancati, vigili. Burkhalter si sedette su una panchina e obbligò Al a prendere posto al suo fianco. Dapprima usò la voce, per chiarezza, e per un altro motivo. Era sgradevole servirsi di questo espediente per indurre il ragazzo ad abbassare le sue deboli difese, ma era necessario.

«É un modo molto strano, questo, di pensare a tua madre», gli disse. «È un modo molto strano di pensare a me». Per una mente telepatica l’oscenità era più oscena, e l’irriverenza più irriverente, ma qui non si era trattato né dell’una né dell’altra. Era stato… gelido e maligno.

E questa è la carne della mia carne, pensò Burkhalter, fissando il ragazzo e rievocando gli otto anni della sua crescita. La mutazione deve forse trasformarsi in qualcosa di diabolico?

Al continuò a tacere.

Burkhalter si spinse dentro quella giovane mente. Al tentò di divincolarsi e fuggire, ma le forti mani di suo padre lo tenevano stretto. Era l’istinto, non la ragione, a far agire il ragazzo, poiché la mente può percorrere lunghe distanze…

Non gli piaceva far questo, poiché l’accresciuta sensibilità si era accompagnata ad un aumento d’emotività, e una violazione dell’intimità era pur sempre una violazione. Ma era necessario essere spietati. Burkhalter cercò. Con violenza, scagliava addosso ad Al delle parole-chiave, e in risposta emergevano pulsanti ondate di ricordi.

Alla fine, sconvolto e nauseato, Burkhalter lasciò andare Al e rimase seduto, solo, sulla panchina a fissare il bagliore rossastro che si andava spegnendo sulle cime innevate. Il biancore era macchiato di rosso. Ma non era troppo tardi. Quell’individuo era un pazzo, lo era stato sin dall’inizio, altrimenti avrebbe riconosciuto l’impossibilità di tentare una cosa del genere.

Il condizionamento era appena cominciato. E Al poteva essere ricondizionato. Gli occhi di Burkhalter s’indurirono. Lo sarebbe stato. Lo sarebbe stato. Ma non ancora, finché all’immediata rabbia furiosa non si fossero sostituite la compassione e la comprensione.

Non ancora.

Entrò in casa, parlò brevemente con Ethel, e videofonò alla dozzina di calvi che lavoravano con lui al Centro Editoriale. Non tutti avevano famiglia, ma nessuno di loro mancava quando mezz’ora più tardi si incontrarono nella saletta sul retro della Pagan Tavern, nel centro cittadino. Sam Shane aveva colto un frammento di ciò che Burkhalter sapeva, e tutti coloro leggevano le sue emozioni. Fusi in un’unione empatica grazie al loro senso telepatico, attesero fino a quando Burkhalter non fu pronto.

Poi, Burkhalter li informò. Non ci volle molto, col pensiero. Disse loro dell’albero-gioiello coi suoi ninnoli scintillanti, un’esca luccicante. Disse loro della paranoia e della propaganda razziale. E sottolineò come la propaganda più efficace fosse quella rivestita di zucchero, ben mascherata cosicché le sue vere motivazioni restassero nascoste.

Un uomo verde, glabro, eroico… che simboleggiava un calvo.

E avventure eccitanti, sfrenate, l’esca per acchiappare i pesci giovani la cui mente informe era abbastanza plasmabile per venir guidata lungo il sentiero d’una pericolosa follia. I calvi adulti potevano ascoltare, ma non lo facevano; i giovani telepati avevano una soglia mentale di ricettività più bassa, e gli adulti di solito non leggono i libri dei propri ragazzi, salvo che per accertarsi che non ci sia niente di dannoso nelle loro pagine. E nessun adulto si sarebbe dato la pena di ascoltare le trasmissioni mentali dell’Uomo Verde. La maggior parte di loro l’avevano accettata come una fantasticheria creata spontaneamente dai loro figli.

«Io, infatti, l’avevo creduto», intervenne Shane. «Le mie figlie…»

«Risali all’origine», l’invitò Burkhalter. «Alla vera origine. Io l’ho fatto».

I pensieri di quella dozzina di menti si propagarono all’esterno, su una frequenza più alta, quella dei bambini, e qualcosa cercò bruscamente di sottrarsi a loro, colto di sorpresa e impaurito.

«E lui», annui Shane.

Non ebbero bisogno di parlare. Uscirono in gruppo compatto dalla Pagan Tavern, minacciosi, e attraversarono la strada fino all’emporio. La porta era chiusa. Due dei calvi l’aprirono a spallate.

Attraversarono l’emporio immerso nell’oscurità ed entrarono in una stanza sul retro, dove un uomo era in piedi accanto a una sedia rovesciata. Il suo cranio nudo luccicava alla luce della lampada sul soffitto. Le sue labbra si muovevano, farfugliando qualcosa d’inaudibile.

Il suo pensiero li implorò… e fu ricacciato indietro da un’implacabile, micidiale muraglia.

Burkhalter sfoderò il pugnale. Altre lame d’acciaio mandarono bagliori… E si dissetarono.

L’urlo di Venner era da tempo cessato, ma il suo ultimo, morente pensiero agonizzante echeggiò a lungo nella mente di Burkhalter, mentre faceva ritorno verso casa. Il calvo senza parrucca non era un pazzo, no… Ma paranoico lo era stato senz’altro.

Ciò che aveva tentato di nascondere fino all’ultimo istante era sconvolgente. Un tremendo, tirannico egocentrismo, e un odio feroce per i non-telepati. E un complesso autogiustificatorio, questo sì, degno d’un folle. Noi siamo il futuro! Noi, i calvi! Dio ci ha creati per dominare gli uomini inferiori!

Burkhalter, inspirò a fondo, rabbrividendo. La mutazione non aveva avuto del tutto successo. Un gruppo di mutanti si era adattato: i calvi che portavano la parrucca e si erano inseriti nell’ambiente. Un secondo gruppo aveva manifestato una completa pazzia, e si poteva scartarlo: si trovava nei manicomi.

Ma il gruppo intermedio era quello formato dai paranoici: non erano pazzi, ma non erano neppure savi. E non portavano la parrucca.

Come Venner.

E Venner aveva cercato discepoli. Il suo tentativo era condannato in partenza a fallire, ma soltanto perché Venner aveva agito da solo.

Un calvo… paranoico.

Ma c’erano altri calvi paranoici… Molti altri.

Davanti a Burkhalter, annidata sul fianco scuro della collina, c’era la pallida macchia che contrassegnava la sua casa. Si fece precedere una volta ancora dai propri pensieri, che toccarono quelli di Ethel, soffermandosi un breve istante a rassicurarla. Poi, i suoi pensieri proseguirono, entrando nella mente addormentata d’un ragazzino che, confuso e avvilito, si era infine addormentato dopo il gran piangere. Adesso, in quella mente c’erano soltanto sogni, un po’ scoloriti, un po’ macchiati, ma che potevano venir schiariti. E lo sarebbero stati.

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