Storie e rime feline
Einaudi Ragazzi
Storie e rime
Copyright 1994
Edizioni El
Trieste
Quarta ristampa, settembre 1999
Gianni Rodari amava moltissimo i gatti e progettava un intero libro di storie, poesie, disegni a loro dedicato. La prematura scomparsa gli impedì di realizzare il volume, ma gli scritti qui raccolti danno idea del simpatico e divertente progetto: un «signor Gatto» con la vocazione del commercio, felini con denominazioni e professioni inusuali, vecchi scontenti della loro condizione e pronti a trasformarsi in gatti… Una girandola di trovate e di spunti che al gioco della fantasia e al gusto delle rime, sa unire il piacere di una riflessione mai oziosa e moralistica, l'invito ad essere sempre se stessi.
Gianni Rodari (1920–1980), notissimo in Italia come in molti paesi stranieri, ha contribuito a rinnovare profondamente la letteratura per i ragazzi. Nel 1970 ha ricevuto il Premio Andersen.
Gli affari del signor Gatto
Una volta un gatto si mise in testa di diventare ricco. Egli aveva tre zii e li andò a trovare, l'uno dopo l'altro, per farsi dare qualche buon consiglio.
— Potresti fare il ladro, — disse lo zio Primo, — per arricchire senza fatica non c'è sistema piú sicuro.
— Sono troppo onesto, per quel mestiere.
— E che fa? Tra i ladri ci sono molte persone oneste e tra le persone oneste ci sono molti ladri. Il conto torna e di notte tutti i gatti sono bigi.
— Ci penserò, - disse il gatto.
— Potresti fare il cantante, — disse lo zio Secondo, — per diventare ricchi e famosi senza fatica, non c'è sistema piú facile.
— Ma ho una brutta voce.
— E che fa? Molti cantanti hanno una voce da cani e diventano ricchi come pescicani. Ah, ah, buona questa! Aspetta che me la scrivo. Allora, hai deciso?
— Ci penserò, - disse il gatto.
Lo zio Terzo gli disse: — Mettiti in commercio. Apri una bella bottega e la gente farà la fila per portarti i suoi quattrini.
— E che cosa potrei vendere?
— Pianoforti, frigoriferi, locomotive…
— Sono troppo pesanti.
— Guanti per signora.
— Ma allora perdo tutti i clienti maschi.
— Fa' cosí: apri una tabaccheria a Capri. Magnifica isola. Tempo buono tutto l'anno. Ci vanno molti forestieri e tutti comprano almeno una cartolina e il francobollo per spedirla.
— Ci penserò, - disse il gatto.
Ci pensò sette giorni e finalmente decise di mettere su un bel negozio di generi alimentari.
Prese in affitto un locale al piano terreno di un palazzo di nuova costruzione, ci sistemò il banco, gli scaffali, la cassa e la cassiera. Poi, per risparmiare la spesa del pittore, dipinse lui stesso l'insegna:
Si vendono topi in scatola
— Che bellezza, — disse la cassiera, che era una gattina al suo primo impiego. - Topi in scatola. Questa sí che è un'idea geniale.
— Se non fosse stata geniale, — precisò il gatto, — non sarebbe venuta a me. Su un cartello più piccolo, il gatto scrisse: Diamo gratis l'apriscatole
a chi compra tre scatolette
La cassiera trovò che il suo principale aveva una bellissima scrittura.
— Io sono fatto cosí, - disse il gatto. - So scrivere soltanto alla perfezione. Non riuscirei a fare un errore nemmeno se mi schiacciassero la coda.
— Però, - disse la cassiera, — le scatolette dove sono?
— Verranno, verranno. Roma non è stata fabbricata in un giorno.
— E se entra gente per fare la spesa, come mi debbo regolare?
— Raccoglierà le prenotazioni su questo foglio. Si faccia dare anche l'indirizzo e avverta che si eseguono consegne a domicilio.
— Signor gatto, — disse la cassiera, — ce l'ha già il fattorino per le consegne? Perché io, col suo permesso, avrei un fratello…
— Lo faccia venire una settimana in prova. Il suo salario sarà di due scatolette al giorno.
— E il mio?
— A lei ne darò tre.
— Con l'apriscatole?
— Riceverà un apriscatole a Natale, uno a Pasqua e uno il giorno del mio compleanno.
La cassiera trovò che il suo principale era molto generoso.
Il giorno dopo arrivarono le scatolette.
— Signor gatto, — disse la cassiera, — sono tutte vuote.
— Sono come dovevano essere. Ai topi ci penserò io. Intanto lei attaccherà sulle scatole le etichette. Si faccia aiutare da suo fratello.
Il fratello della cassiera era un gattino di pochi mesi e si divertiva un mondo a correre in giro per il negozio con la testa ficcata in una scatoletta.
— Buono, buono, — disse il signor gatto, — altrimenti ti do la multa.
Le etichette erano di carta lucida, variopinte. Su ognuna di esse si vedeva un topo che strizzava l'occhio e sotto si leggeva: Topi in scatola
Qualità Superiore
Attenzione ai buoni punto
Diffidate delle imitazioni
— Come! — disse la cassiera. - Non ci sono ancora i topi in scatola e ci sono già le imitazioni? E che cosa ci mettono? Talpe, criceti?
— Si capisce che per ora le imitazioni non ci sono, — spiegò il signor gatto, — ma ci saranno quando il commercio sarà ben avviato.
Se poi non ci saranno, questa scritta starà benissimo ugualmente. La clientela penserà: guarda, guarda, fanno anche le imitazioni; allora dev'essere una merce super.
— E sarà davvero super?
— Sarà extra. Una cannonata.
La cassiera sospirò. Com'era intelligente il suo principale! Aveva veramente il bernoccolo degli affari. Per giunta, non era ancora sposato.
Il fratello della cassiera si era incollato un'etichetta al naso e non riusciva a staccarla.
— Stupidello, — disse la cassiera severamente. - Vuoi farti licenziare il primo giorno? Abbia pazienza, signor gatto, non sa ancora che cosa vuol dire guadagnarsi il topo in scatola.
— Mi raccomando a lei, — disse il signor gatto; — stia attenta al negozio. Io vado in cerca della materia prima.
La cassiera lo segui con uno sguardo languido mentre si allontanava. Essa trovava che il suo principale era veramente un bel gatto, con dei baffi da vero commerciante di successo. Che portamento elegante! Che occhi autorevoli!
«Un commerciante, — pensò, - non è proprio un commendatore, ma quasi. E poi a me i commendatori non piacciono, perché di solito sono già sposati».
Il signor gatto trovò il primo topo in cantina, rintanato dietro un mucchio di carbone.
— Buongiorno, — disse il gatto.
— Non so, — rispose il topo.
— Che maniera è questa di rispondere, scusi?
— Non so se sarà un buongiorno oppure no. Di solito i gatti non mi portano fortuna.
— Sarà una giornata magnifica, — assicurò il gatto; — anzi, una giornata storica. Lei avrà l'onore di essere il primo topo in scatola del pianeta. Le pare poco?
— Non so, — ripeté il topo.
— Lei non sa mai niente, — fece il gatto irritato. - Su, faccia un saltino; entri in questa bella scatoletta colorata e vedrà.
— Che cosa vedrò?
— Vedrà che ho ragione io.
— A me piace di piú vedere i cartoni animati. A proposito mi viene in mente che alla Tv ne stanno per trasmettere uno. Tanti saluti.
Il topo si ritirò nella sua tana e, per quanto il gatto pregasse e supplicasse, non mise fuori piú nemmeno la punta della coda.
Il secondo topo stava in solaio e il suo buco era dietro il baule.
— Lei è fortunato, — gridò il signor gatto di lontano, appena lo vide.
— Non so, — disse il topo.
— Non vale, — si arrabbiò il gatto. - Questa risposta me l'ha già data un suo collega, giú in cantina. Cerchi qualcos'altro.
— Prima mi dica perché sono fortunato.
— Ma perché la mia ditta ha scelto proprio lei per inaugurare il suo commercio di topi in scatola.
— Se mi tocca fare un discorso, non mi piace.
— Nessun discorso: deve soltanto entrare in questa bellissima scatoletta. Sarà venduto al giusto prezzo e verrà apprezzato come si merita.
— Che bello!
— Vero?
— Peccato che io non possa accettare. Guardi che approvo l'idea e non sono insensibile all'eleganza dell'etichetta. Purtroppo sono in partenza per le ferie; ho già il biglietto per Palermo. Non vorrei offendere le ferrovie dello Stato, mandando all'aria il viaggio. Le spedirò una cartolina. Stia bene e mi saluti sua moglie.
— Non sono sposato! — urlò il gatto, fuori di sé.
— Fa niente: me la saluterà quando si sposa.
Il terzo topo prendeva il fresco in un prato di periferia, ma teneva la coda infilata nella tana e, attaccato alla coda, c'era suo cugino, pronto a tirarlo giú al primo segnale di pericolo.
— Come sta? — domandò il gatto.
— Sto e non sto, — rispose il topo. - Se sta qui lei, è difficile che ci resti anch'io per molto.
— Sempre sospettosi, voi topi, — disse il signor gatto. - E io che ero venuto qui con le migliori intenzioni…
— Migliori per chi?
— Ma per lei, s'intende! Sa cosa ho pensato? Che lei sarebbe un socio ideale per il mio negozio di generi alimentari. Ci sta?
— Dove?
— In questa scatola. Guardi che bella. Commerceremo in topi in scatola. Io farò la maggior parte del lavoro, perché m'incaricherò delle vendite.
— Bravo.
— Grazie.
— Bravo.
— Grazie. Ma perché me l'ha detto due volte?
— Una volta per l'orecchio destro e una volta per l'orecchio sinistro.
— Allora, andiamo?
— No.
— Perché no?
— Perché debbo accompagnare mia nonna a fare un giro in giostra.
— Ecco, — strepitò il signor gatto, — ecco come siete voi topi. Non ve ne importa nulla del commercio; non muovete un dito per incrementare le vendite e per far circolare il denaro come si deve. E
avete anche delle nonne un po' matte, che pensano ancora ad andare in giostra.
— Sicuro, e sull'altalena. E lei lasci stare mia nonna, che è simpatica proprio perché è mezza matta. Tanti saluti a lei e tanti saluti ai suoi gattini.
— Non ho figli! Non sono sposato!
— Allora si sposi e mi mandi i confetti.
Il topo diede il segnale e suo cugino, con uno strattone alla coda, lo tirò giù nella tana cosí in fretta che il gatto ebbe l'impressione si fosse disfatto nell'aria, come una bolla di sapone: adesso c'è, adesso non c'è piú.
— Ottimi affari, signor gatto, — miagolò la cassiera, nel veder tornare il suo principale. - Abbiamo già avuto centodiciassette prenotazioni. La contessa De Felinis ha ordinato duecento scatolette.
Ho fatto il conto che dobbiamo darle anche sessantasei apriscatole e mezzo. Il mezzo apriscatole glielo do dalla parte della punta o dalla parte del manico?
Il signor gatto borbottò tra i baffi qualcosa di poco chiaro.
— Osservi come ha lavorato bene mio fratello, — riprese la cassiera.
Il gattino fattorino aveva disposto nella vetrina le scatole a forma di piramide. Alcune, per la verità, le aveva messe a rovescio, perché non sapeva leggere le parole dell'etichetta. Ma la soddisfazione del lavoro compiuto brillava sui suoi giovani baffi.
Il signor gatto disse: — Bene, bene. Per oggi basta cosí. Andate pure a casa.
— Ha trovato dei buoni topi, signor gatto? — domandò la cassiera, lisciandosi la pelliccia, come fanno tutte le cassiere prima di uscire.
— Ho detto basta. Vi pago per lavorare, non per fare domande.
La cassiera e il fratellino capirono che non era il caso di insistere con i punti interrogativi e se la filarono con la coda bassa.
Il signor gatto, chiuso il negozio, tornò a chiedere consiglio allo zio Terzo.
— Caro zio, cosí e cosí: i topi non vogliono assolutamente saperne di entrare nelle scatole e domani debbo consegnare un'importante ordinazione alla contessa De Felinis. Che fare?
— Figliolo caro, — disse il gatto zio, — hai dimenticato la propaganda. Lo sai o non lo sai che la réclame è l'anima del commercio?
— Altroché se lo so: ho perfino promesso l'apriscatole e i buoni punto.
— Questa propaganda va bene per chi deve comprare i topi in scatola, ma non va bene per i topi.
— Certo, se do l'apriscatole anche a loro, scappano fuori dalla scatola…
— La miglior propaganda per i topi è il formaggio.
— Grana o groviera?
— Grana, groviera o pecorino fa lo stesso, purché ci possano scavare delle gallerie. Anche il caciocavallo è buono.
— Basta cosí, - esclamò il signor gatto. - Ho capito al volo.
— Hai la testa fina, tu, — approvò lo zio Terzo. - Del resto nella nostra famiglia crescono solo teste fine. Tuo nonno aveva sempre contemporaneamente due case, ciascuna con la cuccia, la scodella del latte e il piattino della ciccia.
— Come faceva?
— Di giorno abitava in casa di una guardia notturna. Di sera, e fino alla mattina dopo, abitava in casa di una maestra. Quando la maestra usciva per andare a scuola, fingeva d'accompagnarla e andava in casa della guardia. Quando la guardia usciva per andare al lavoro, l'accompagnava un pezzetto e tornava in casa della maestra.
— Straordinario. E come si chiamava?
— A casa della maestra si chiamava Piumino; a casa della guardia notturna si chiamava Napoleone. Noi lo chiamavamo Moltiplicato Due.
Il signor gatto comprò una grossa forma di parmigiano, la portò in cantina e la mise davanti alla tana del topo, in modo da chiudere il buco. Il topo, se voleva uscire, doveva passare attraverso il formaggio.
— Io mi terrò qui pronto con la scatola, — ridacchiava il gatto, -
e appena il topo sbuca fuori dal formaggio, zaff, dentro; trik trak, chiuso il coperchio, e via, a bottega. Sniff! Sniff!
Le cose, fino a un certo punto, andarono secondo le sue previsioni.
Il topo, per uscire dalla sua tana, dovette entrare nel parmigiano, scavando una galleria. Questo lavoro non gli dispiaceva per niente, perché il parmigiano era reggiano, garantito e stagionato.
Sua moglie gli diede una mano e rosicchiò la sua parte. I loro sette figli si divertirono un mondo a scavare piccole gallerie, adatte alla loro età, in tutte le direzioni. Digerivano il formaggio senza la minima difficoltà. Ingrassavano a vista d'occhio.
Il topo, senza smettere di mangiare, rifletteva. Fare due cose per volta non era fatica per lui, perché era un topo intelligente.
«A questo mondo, — egli pensava, — nessuno ti regala una forma di formaggio senza chiederti qualcosa in cambio. una brutta cosa, ma bisogna tenerne conto. E prima di tutto bisogna sapere chi mi ha messo il parmigiano sulla porta di casa».
Per saperlo, fece un buchetto piccolissimo nella crosta e vide il signor gatto con la scatola in una zampa e il coperchio nell'altra.
— Buongiorno, — disse il topo.
Il signor gatto senti la vocina che usciva dalla forma, ma non vide nulla e nessuno. Tuttavia, per non parere maleducato, rispose al saluto. Tanto piú che aveva riconosciuto la voce del topo.
— Buongiorno anche a lei.
— Che cosa fa di bello?
— Non lo vede? Faccio la pubblicità alle mie scatolette. Che cosa gliene pare?
— Il formaggio è di ottima qualità.
— Ha visto? Dunque, ragioni: se il formaggio è buono, le scatolette saranno anche meglio. Si vuole accomodare? L'aiuto ad uscire?
— Per carità, non si disturbi.
— Anzi, è un piacere per me…
— No, grazie. Di uscire non mi va.
Il signor gatto si arrabbiò da non dire.
— Ecco come siete, voi topi. Il formaggio ve lo pappate, ma non volete dare niente in cambio. Questo non è leale. In commercio bisogna agire correttamente: io ti do una cosa a te, tu mi dài una cosa a me.
— Va bene. Le lascerò la crosta, cosí siamo pari.
— La denuncerò per truffa, furto e impertinenza. Dovrà rispondere delle sue azioni in tribunale.
— Sí, il giorno del mai!
— Oggi stesso, invece!
Cosí dicendo, il gatto afferrò la forma e la fece rotolare verso la porta della cantina, indifferente agli squittii di terrore dei sette topolini che si sentivano sbatacchiare da tutte le parti.
— Niente paura, — raccomandò il topo alla famiglia. - Questo formaggio non sarà né la nostra trappola né la nostra prigione: sarà la nostra fortezza. Voglio vedere chi riuscirà a tirarci fuori di qui. Calma, sangue freddo e musica classica. Per tenerci su, canteremo il nostro inno.
Ed egli stesso diede l'esempio, intonando la prima strofa:
— Viva i topi nel formaggio,@ viva i topi di coraggio!
La moglie del topo uní la sua voce a quella del marito e uno dopo l'altro anche i sette topolini la smisero di piagnucolare e cominciarono a cantare:
— Viva il cacio pecorino,@ il groviera e lo stracchino!
Il signor gatto, sempre facendo rotolare la forma come una ruota d'automobile, usci dalla cantina e si avviò verso il tribunale. La gente si voltava a guardare e a sentire.
— Strano, un formaggio che canta.
— Per forza: è parmigiano. A Parma amano moltissimo l'opera lirica.
— Le inventano tutte. Meno una.
— Quale?
— La maniera di mangiare senza lavorare.
— Ignorante! Di persone che non lavorano e mangiano lo stesso ce n'è piú di sette.
Il gatto spinse il formaggio davanti al banco del giudice e domandò giustizia:
— Eccellenza, i topi mi hanno rubato il formaggio!
— Veramente, — osservò il giudice, — si direbbe che sia stato il formaggio a rubare i topi.
— cosí, è cosí! - squittì il topo, affacciandosi alla bocca della galleria. - Si tratta di sequestro di persona, eccellenza! Nove persone in tutto! Sette minori di quattordici anni!
— Il formaggio l'avete pappato, però, - ruggí il signor gatto.
— L'abbiamo mangiato perché ci era stato offerto. Era un formaggio pubblicitario e reclamistico. Omaggio della ditta.
— vero? — domandò il giudice.
— Purtroppo, — dovette ammettere il signor gatto.
— Allora ne mangio un pezzo anch'io, — disse il giudice. - Apprezzo la buona pubblicità e adoro Carosello. Dopo di che ordino che i topi siano muniti di salvacondotto e possano tornare alla loro abitazione sotto scorta e senza pericolo. Il signor gatto pagherà le spese del processo. Bang!
Con un colpo di martello il giudice pose fine all'udienza e si leccò i baffi.
I topi furono riaccompagnati a casa e per tutta la strada non cessarono un momento di cantare l'inno, che era stato musicato da un loro antenato di nome Giovanni Sebastiano.
Il signor gatto tornò invece al negozio, dove la cassiera gli corse incontro giubilando:
— La marchesa De Sorianis ha ordinato settecentoquindici scatolette. Le vuole per stasera alle otto meno venti. Ho calcolato che mio fratello dovrà fare sette viaggi per eseguire questa consegna.
— Sono bravo? — domandò il gattino fattorino. - Merito un aumento di stipendio?
Il signor gatto, senza dire parola, si arrampicò sul banco a meditare. «Ecco, — egli pensava, — la riconoscenza del pubblico. Tu ti sacrifichi, apri un negozio nuovo, compri le scatolette, incolli le etichette, assumi del personale, ti dài da fare nell'interesse della clientela. E che cosa ne ottieni? Ci rimetti il formaggio e le spese del processo. Tutto perché i topi si rifiutano di capire i vantaggi del commercio e non tengono nel minimo conto i problemi dell'alimentazione».
«la fine del mondo, — pensava il signor gatto, leccandosi distrattamente una zampa che odorava ancora di parmigiano. - Non vale la pena di fare del bene al prossimo. Ai topi, poi!»
«I topi, — pensava il signor gatto, abbandonandosi alla piú cupa tristezza e lasciando spenzolare dal banco la coda come una bandiera a mezz'asta in un giorno di lutto nazionale, — hanno una vita meschina e senza gloria. Io voglio dar loro un avvenire migliore, metterli in vetrina, sotto gli occhi di tutti. Io procuro loro, a mie spese, scatole di latta solide e ben sigillate, con suvvi (dico suvvi, e scusate se è poco!) etichette dipinte da un primario artista, nelle quali i topi sono perfino piú belli di quanto non siano in realtà. Io offro l'apriscatole, i buoni punto, stabilisco un prezzo alla portata di tutte le borse. Ed ecco il risultato. Essi mi oppongono il piú cieco sabotaggio e corrompono il giudice con il parmigiano per ottenere la mia condanna. Non c'è piú onestà a questo mondo. Non c'è piú religione. Tanto varrebbe che io mi mettessi a fare il bandito».
Per un momento il signor gatto accarezzò quest'idea. Si vedeva già bandito, brigante e pirata. Con una benda nera sull'occhio sinistro.
Sulla coda, una bandiera nera con la testa da morto e le ossa incrociate. Il suo motto: «Dove si posano le mie zampe, non crescono più topi».
Vedeva già i grossi titoli dei giornali che esaltavano le sue imprese:
Il terrore delle cantine ha colpito ancora!
Un milione di topi a chi cattura il bandito gatto! Tutte le code della città tremano
— Signor gatto, — disse in quel momento la cassiera, — che cosa debbo fare con la contessa De Felinis e la marchesa De Sorianis?
— Signor gatto, — disse il fratello della cassiera, — per le consegne a domicilio adopero il mio triciclo o la ditta mi fornisce un furgoncino?
— Signor gatto, — disse ancora la cassiera, — è venuto quello delle tasse. Ha guardato nella cassa; ha visto che non c'era un soldo e ha detto che tornerà domani, anche se piove.
— Signor gatto, — disse il fratello della cassiera, — visto che per oggi non c'è piú niente da fare, posso andare a giocare al pallone con i miei amici? Io sono il portiere della squadra, sa. Paro i calci di rigore con la coda. Forse l'anno venturo giocherò nella Pro-Forlimpopoli.
Il signor gatto si scosse. Quante responsabilità! La merce, la clientela, la cassiera, le tasse, il fattorino, la Pro-Forlimpopoli…
— Amici miei, — disse il signor gatto con decisione, — si volta pagina. Il commercio dei topi in scatola non attacca. Forse il progetto era troppo in anticipo sui tempi. Non sempre le idee geniali vengono subito comprese ed apprezzate. Anche Galileo Galilei, quando disse che la terra girava intorno al sole, dovette subire non poche persecuzioni. E non parliamo di Cristoforo Colombo, quando voleva scoprire l'America e nessuno gli voleva dare le tre caravelle. Di me giudicheranno i posteri.
— Sí? - disse la cassiera, che pendeva dalle sue labbra, in adorazione.
— Ho deciso. Basta con i topi in scatola. Venderò veleno per i topi.
— Che idea formidabile! — sospirò la cassiera.
— Se non fosse stata un'idea formidabile, — disse il signor gatto,
— non sarebbe venuta a me. Con il veleno per topi faremo ottimi affari. Per queste cose io ho il bernoccolo.
— Che bravo che è lei! — miagolò la cassiera.
— Si faranno ancora consegne a domicilio? — domandò il fattorino.
— Si faranno.
— E come verremo pagati? Non con il veleno, spero.
— Vi pagherò in contanti.
— Allora dovrò imparare a contare, — disse il fattorino. - E ora posso andare a giocare al pallone?
— Vai pure, — disse il signor gatto, generosamente. E, tolto dalla vetrina il vecchio cartello, ne scrisse subito uno nuovo che diceva: Veleno per topi di qualità superiore in ogni scatola buoni punto diamo gratis una scatola a chi compra tre scatolette
— Che bella calligrafia! — ammirò la cassiera.
— Questo è niente, — disse il signor gatto. - Quando scrivo a macchina faccio anche di meglio.
— Lei è piú bravo ancora di se stesso, — disse la gatta.
— Cosa vuole, io sono un tipo cosí. Si figuri che quando vado in macchina riesco continuamente a sorpassarmi.
— Straordinario! Lo racconterò alla mia mamma. Lo sa che vuol sempre sentir parlare di lei?
Il signor gatto non disse se lo sapeva o no.
Alla fine, però, dovette sicuramente venirlo a sapere.
Difatti, il signor gatto e la gattina si sposarono e vissero felici e contenti, litigando dalla mattina alla sera. Si graffiavano il naso, si tiravano le scatole del veleno sul groppone, si rincorrevano brandendo minacciosamente l'apriscatole. I topi, a quello spettacolo, si divertivano tanto, e anche di piú. Anzi, uno di loro, si fece la tana proprio nel negozio e molti amici, parenti e conoscenti andavano a fargli visita solo per poter assistere ai litigi della bella e gentile famigliuola.
Il topo faceva pagare dieci lire per ogni guardatina.
Tutti dicevano che era caro. Però pagavano e guardavano.
Il topo diventò tanto ricco che cambiò nome e si fece chiamare Barone.
Riassunto della storia precedente.
Un gatto negli affari
C'era una volta un gatto col bernoccolo degli affari, mise su un bel negozio di generi alimentari.
Vendeva topi in scatola, questo era il suo mestiere, come un altro fa l'idraulico oppure il parrucchiere.
Aveva l'insegna al neon, una spaziosa vetrina, la cassa col campanello, cassiera la sua gattina.
Un cartello spiccava tra variopinte etichette:
«Diamo gratis l'apriscatole a chi compra tre scatolette».
C'era un guaio purtroppo, a guastargli la festa: i topi non volevano assolutamente mettersi in testa di entrare nelle scatole… Venivano a guardare la vetrina, sghignazzavano, e via senza salutare.
Il gatto fu costretto a cambiare professione, ma sempre negli affari, questa era la sua passione: vendeva veleno per i topi e per i ratti, i quali non erano per niente soddisfatti.
Ritratto del gatto
Il gatto non è amico di nessuno,
entra, mangia, si stira e torna via, crede che la casa sia un'osteria.
Non fa festa al padrone, non lo accompagna a spasso, non ti riporta il sasso che tu getti lontano, non ti viene a leccare la mano come fa il cane con quegli occhi buoni.
E quando miagola pare che stia raccontando una bugia.
Agostino
Agostino, gatto inesperto, mise una zampa nella nafta e subito per pulirla cominciò a leccarla.
Infezione. Paralisi.
Il veterinario lo portò via per darlo allo spazzino.
Morì per amore di pulizia.
Agostino, Agostino, anima nobile come nessuna.
Se avremo un altro gatto gli daremo il tuo nome.
Arturo
Arturo, gatto volante, va in un'ora da Roma a Torino (sul reattore, dentro un cestino…)
Gli piace guardare dal finestrino, mangiare un panino, suonare il violino, parlare di topi con il vicino.
Da grande farà il pilota guidando con la coda.
Gustavo
Gustavo, gatto artista, è un doppio pianista: difatti suona il piano a quattro zampe, mentre perfino Chopin lo suonava soltanto con due mani.
Per un bel piano a coda niente di più adatto che un pianista con la coda naturale — che sta molto meglio di quella del frac.
Gustavo danza con eleganza sui tasti neri, sui tasti bianchi, sullo spartito e sui candelieri.
Che anima sensibile! La sera Gustavo si suona la ninnananna e si addormenta sulla tastiera.
Gastone
Gastone è un gatto di sentimenti elevati.
Ama i luoghi rialzati, predilige le alture, come tutte le anime pure: dalla poltrona al tavolo, dal tavolo al divano, passeggia solamente tra le cime.
Alpinista solitario, scende a valle quando è proprio necessario, per bere il suo latte.
Poi torna tra le vette e s'addormenta, o riflette.
Carlomagno
Avevamo un gatto di nome Carlomagno.
Suonava il flauto, sputava le tagliatelle.
Viaggiava moltissimo in punta di piedi, tenendosi a distanza dalla vasca da bagno.
Bella bestia dal capo alla coda fin dove la coda finiva,
non rivolgeva la parola agli estranei; liberamente andava e veniva, liberamente se ne andò del tutto senza dare le dimissioni.
Scomparve, lasciandoci soltanto il suo nome da chiamare, da chiamare, non ci fece sapere perché non voleva tornare.
Ogni tanto arrivava una cartolina ma non era lui che ci scriveva, suonava il telefono, ma non era Carlomagno.
Era uno che aveva sbagliato numero e non diceva nemmeno scusa, quel maleducato.
Milano, Torino e Dirimpetto
C'era una volta un gatto di nome Milano.
Ce n'era anche un altro di nome Torino.
Il fatto probabilmente vi sembrerà strano: ci sono anche due città che si chiamano così, e i gatti di solito si chiamano Piumino.
Ma non c'è niente da fare: quei due gatti lì si chiamavano proprio come ho detto.
Poi c'era un terzo gatto di nome Dirimpetto.
Non è tutto. Aggiungerò, per essere più chiaro, che il gatto Torino abitava a Recoaro, il gatto Milano abitava a Messina
e Dirimpetto a Diano Marina.
Tutti e tre i loro padroni facevano il capostazione e da questo ebbe origine una certa confusione.
Il capo di Messina, con la paletta in mano, chiamava il suo gatto gridando: — Milano!
I viaggiatori diretti alla capitale lombarda scendevano a terra tutti contenti:
— Ma guarda, — si dicevano sorridendo, — presto arrivò questo treno, da Palermo a Milano in due ore e anche meno…
Questo è solo un esempio. Gli altri qui pro quo ognuno se li immagini come vuole e come può.
Morale: per evitare che si diventi tutti matti certe città dovrebbero smetterla di chiamarsi come i gatti…
Il nome del gatto
Una bambina ha un gatto, gli cambia il nome tutti i giorni il gatto, confuso, si volta a tutti i nomi; poi a tutte le parole, anche alla parola
Mascalzone, che gli resta (il solo mascalzone simpatico del mondo).
I gatti al bar
I gatti al bar gelateria ci vanno le sere d'agosto, sempre facendo finta di essere in un altro posto, così i camerieri non possono cacciarli via perché direbbero: «Ma guarda, credevamo fosse la cartoleria, dobbiamo comprare un temperino per rifare la punta agli artigli».
Con prudenza si aggirano fra i piedi dei tavolini.
Non danno noia ai bambini.
Non rompono le calze alle signore, perché d'estate le signore non portano calze.
Stanno lì con pazienza e con gli occhi semichiusi, ma se da un cono troppo pieno casca un poco di panna montata o da una coppa tenuta di traverso sgocciola fragola, crema, cioccolato, allora li vedete balzare come un sol gatto a leccare il selciato.
Ma non potete sentire che fanno le fusa, perché passa una motocicletta rombando a tutto gas.
Il gatto e la gallina Si dice che il gatto parlare non sa.
Errore. Sa benissimo.
Soltanto, non gli va.
Non gli va di raccontare al primo venuto se la carne era fresca, se il latte gli è piaciuto.
Non è vanitoso come la gallina che, se fa l'uovo, canta tutta quanta la mattina.
Per un uovo piccolo così si vanta, l'esagerata, come se avesse fatta un'intera frittata.
Autunno
Il gatto rincorre le foglie secche sul marciapiede.
Le contende (vive le crede) alla scopa che le raccoglie.
Quelle che da rami alti scendono rosse e gialle sono certo farfalle che sfidano i suoi salti.
La lenta morte dell'anno non è per lui che un bel gioco, e per gli uomini che ne fanno al tramonto un lieto fuoco.
La stella Gatto
In quel tempo, a Roma, diverse persone andavano via con i gatti.
Pensatori che, a causa delle automobili, non trovavano più la quiete per pensare; vecchi che avevano delle storie da raccontare, ma nessuno li stava a sentire e in casa per loro non c'era più posto; donne rimaste sole in un appartamento vuoto: pigliavano su e sparivano. Di loro non si sapeva più nulla. Erano andati via con i gatti.
Come facevano? Questo si è saputo dopo, col tempo. Era una cosa molto semplice. Si faceva, più che altro, in piazza Argentina.
Questa piazza è fatta così: tutt'in giro ci sono strade, palazzi, automobili, filobus, chiasso, ma in mezzo alla piazza c'è uno spazio dove stanno alcuni gloriosi ruderi romani, le rovine di due o tre tempietti, mezze colonne rovesciate, praticelli, qualche pino, qualche cipresso. E i gatti. Non ci possono andare le automobili, là dentro e laggiù, nei sotterranei ombrosi, sotto i portici antichi.
come un'isola serena in mezzo al mare del traffico, da cui la separano una cancellata e pochi gradini. Si scendono quei gradini e si è in mezzo ai gatti. Sono molti, di tutte le razze. Ci sono giovani cuccioli che giocano ad acchiappare lucertole e vecchi gattoni che dormono tutto il tempo e si svegliano solo quando arrivano le «mamme dei gatti», coi loro cartoccetti di avanzi per la cena. Ogni gatto si sceglie il posto che più gli piace, si infila in una nicchia, si allunga ai piedi di una colonna, si acciambella sui gradini di un tempio.
Quelle persone scendevano i gradini, scavalcavano la bassa cancellata, diventavano gatti e cominciavano subito a leccarsi le zampe.
La gente che passava e guardava, mettiamo, dal finestrino di un filobus, vedeva soltanto gatti. Poteva distinguere quello con un occhio acciaccato da una sassata, quello che aveva perduto un orecchio in battaglia, il grigio, il rosso, il tigrato, il nero. Ma non sapeva che tra quei gatti c'erano dei gatti-gatti, nati di padre gatto e di madre gatta, e dei gatti-persone che prima, nel mondo di su, erano stati funzionari al ministero delle poste, capistazione, conducenti di autotreni o di tassì.
Veramente un modo per riconoscerli ci sarebbe stato. Per esempio, quando arrivavano le «mamme dei gatti» c'erano dei gatti che si precipitavano a disputarsi le frattaglie, le teste di pesce, le croste di formaggio, e questi erano i gatti-gatti. Ce n'erano altri che invece, senza parere, davano prima un'occhiata ai brandelli di giornale in cui quegli avanzi erano stati avvolti. Leggevano un mezzo titolo, dieci righe di una notizia strappata sul piú bello, guardavano la fotografia di una principessa che si sposava. Cosí, mettendo insieme le loro osservazioni, si tenevano al corrente delle cose del mondo di prima, sapevano quando il governo voleva aumentare le tasse e se era scoppiata in qualche posto una nuova guerra.
In quel tempo andò via con i gatti anche la signorina De Magistris, una maestra in pensione che non riusciva piú ad andare d'accordo con sua sorella e se ne andò via, lasciandole anche il suo amato gatto, che si chiamava Agostino. La signorina De Magistris, nella sua lunga vita, aveva insegnato a leggere a migliaia di bambini e aveva avuto decine di gatti, ma tutti di nome Agostino, perché cosí si era chiamato il suo primo gatto, morto sotto il tram, e lei non lo aveva mai dimenticato. Successero tante cose, tra i gatti, dopo l'arrivo della signorina De Magistris.
Una sera essa spiegava le stelle al signor Moriconi, già netturbino ed ora gatto nero con stella bianca sul petto. Altri gatti-persone e non pochi gatti-gatti seguivano le sue spiegazioni, guardando per aria quando lei diceva:
— Ecco, là, quella è la stella Arturo.
— Ho conosciuto uno che si chiamava Arturo, — diceva il signor Moriconi, — si faceva sempre prestare i soldi per giocare al lotto, ma non ha mai vinto.
— Vedete quelle sette stelle là, là e là? Quella è l'Orsa Maggiore.
— Un'orsa in cielo? — domandò, scettico, il gatto Pirata, un gatto-gatto soprannominato cosí perché, come molti pirati della storia, era cieco da un occhio.
— Anzi, — rispose la signorina De Magistris, — ce ne sono due: Orsa Maggiore e Orsa Minore. Anche di cani ce ne sono due: Cane Maggiore e Cane Minore.
— Cani, — sputò Pirata, con disprezzo. - Bella roba.
— Ci sono molte altre stelle con nomi di animali? — domandò il signor Moriconi.
— Moltissime. Ci sono il Serpente, la Gru, la Colomba, il Tucano, l'Ariete, la Renna, il Camaleonte, lo Scorpione…
— Bella roba, — ripeté il Pirata.
— Ci sono la Capretta, il Leone, la Giraffa.
— Ma allora è proprio un giardino zoologico, — commentò il Pirata.
Un altro gatto-gatto, tanto timido che balbettava, soprannominato Zozzetto — («zozzo», a Roma, vuol dire sudicio; ma Zozzetto non era sudicio per niente, si lavava venti volte al giorno; valli a capire, i soprannomi…) — Zozzetto, dunque, domandò:
— E c'è… cecè… c'è pu-pure il Ga-gatto?
— Mi dispiace, — sorrise la signorina De Magistris, — il Gatto non c'è.
— Fra tutte quelle stelle che si vedono, — fece il Pirata, — non ce n'è una sola che porti il nostro nome?
— Nemmeno una.
Ci furono dei mormorii di disapprovazione e di protesta.
— Buona, questa…
— Scorpioni, millepiedi, scarafaggi, sí; gatti, niente…
— Contiamo meno delle capre?
— Siamo i figli della serva, noi?
Ma l'ultima parola, per quella sera, toccò al Pirata: — Non c'è che dire, gli uomini ci vogliono proprio bene. Quando ci sono da pigliare i topi, micio di qui, micio di là, ma le stelle le danno ai cani e ai porci. Mi caschi anche l'occhio buono se da oggi in avanti tocco piú un topo.
Passò qualche tempo. Ed ecco che un giorno il signor Moriconi lesse in un pezzo di giornale odoroso di baccalà un titolo che diceva: «Gli studenti occupano l'uni…»
In quel punto il giornale era strappato.
— E che cosa mai avranno occupato? — si domandò ad alta voce.
— L'università, - gli spiegò la signorina De Magistris, che, essendo stata una maestra, sapeva tutto. - Non erano contenti di qualcosa e, in segno di protesta, hanno occupato l'università.
— Ma occupato come?
— Penso che sia andata cosí: sono entrati, hanno chiuso le porte e hanno cominciato a fare dei comunicati ai giornali, per far sapere che cosa vogliono.
— E… ecco, — balbettò Zozzetto, emozionatissimo.
— Ecco, e poi? — borbottò il Pirata.
— Ma sic… sicuro. co-cosí che do-dobbiamo fa-fare!
— Che cosa c'entriamo noi con l'università?
— Ma pe-per la ste… la ste…
— Ho capito, — interpretò il Pirata, — gli uomini non ci danno una stella, noi in segno di protesta occupiamo… Già, che cosa occupiamo?
La conversazione diventò ben presto un tumulto. Gatti-gatti e gatti-persone, afferrata l'idea di Zozzetto, discutevano con entusiasmo il modo di metterla in pratica.
— Bisogna occupare un posto in vista, che la gente se ne accorga subito.
— La stazione!
— No, no, niente disastri ferroviari.
— Piazza Venezia!
— Cosí ci arrestano perché intralciamo il traffico.
— La cupola di San Pietro!
— Sta troppo in alto, un gatto, là in cima, bisogna avere il binocolo per vederlo. Anche stavolta l'ultima parola toccò al Pirata.
— Il Colosseo, — disse. E subito tutti capirono che quella era l'idea giusta, che il Colosseo era il posto giusto da occupare.
Il Pirata prese subito il comando delle operazioni: — Noi dell'Argentina siamo pochi. Bisogna avvertire anche i gatti dell'Aventino, del Palatino, dei Fori, quelli del San Camillo…
— Si, quelli! Quelli non vengono, mangiano troppo bene.
Il San Camillo è un ospedale. Nei padiglioni ci stanno i malati, nei praticelli e nei cespugli che circondano i padiglioni ci stanno i gatti. All'ora dei pasti essi si schierano sotto le finestre, anche un quarto d'ora prima, e aspettano che i malati gettino loro gli avanzi del pranzo e della cena.
— Verranno, — sentenziò il Pirata.
Difatti, vennero. Durante la notte vennero da tutta Roma, dai ruderi e dalle cantine, dai luoghi illustri pieni di storia e dai vicoli pieni di immondizie, vennero da Trastevere e da Monti, da Panico e dal Portico d'Ottavia, da tutti i vecchi rioni del centro, dai villaggi di baracche della lontana periferia, a centinaia, a migliaia, vennero i gatti e occuparono il Colosseo. Ogni arcata, ad ogni piano, era occupata da una densa fila di gatti a coda ritta. Ce n'era una fila compatta in cima, sulle pietre piú alte. Erano visibili a occhio nudo e a grande distanza.
I primi a vederli furono gli operai e i garzoni dei bar, che sono i primi ad alzarsi, a Roma. Poi li videro gli impiegati statali, che vanno in ufficio alle otto (poi dicono che i romani sono dormiglioni…). In pochi minuti si fece una gran folla intorno al vecchio anfiteatro. I gatti stavano zitti zitti, ma la gente no.
— E ched'è? 'Na gara de bbellezza?
- 'na parata: ha da esse la festa nazionale de li gatti.
— Anvedi quanti. Mo' telefono a casa pe' fallo sapere ar mio: quanno so' uscito, dormiva ancora. Ce vorrà venì lui puro.
Alle nove arrivò il primo gruppo di turisti. Volevano entrare al Colosseo per visitarlo, ma l'ingresso era ostruito, tutti gli ingressi erano occupati dai gatti, non si poteva passare.
— Fia, fia, pestiacce! Noi folere fetere Coliseo.
— Prutti catti, pussa fia!
Qualche romano ci si offese:
— Brutti gatti? Sarete belli voi! Ma senti 'sti pellegrini!
Volarono parole grosse, stava per scoppiare una rissa tra romani e turisti, quando una signora turista gridò:
— Pravi! Pravi micini! Fifa i catti!
Il fatto è che un momento prima la signorina De Magistris aveva dato il segnale, e i gatti avevano spiegato e ora facevano sventolare una grande bandiera bianca su cui avevano scritto: «Vogliamo giustizia! Vogliamo la stella Gatto!»
Romani e turisti, affratellati da una bella risata, applaudirono fragorosamente.
— E che, — gridò un vetturino borbottone, — nun ve abbastano li sorci, mò ve volete magnà puro le stelle!
La signora turista, che era una professoressa di astronomia e aveva capito di che si trattava, spiegò la questione al vetturino. Il quale borbottò, convinto: — Be', cianno raggione puro loro, povere bbestie.
Insomma, fu una magnifica occupazione e durò fino a mezzanotte. Poi le varie tribú dei gatti si dispersero, a passi felpati, per la capitale addormentata.
La signora De Magistris, il Signor Moriconi, il Pirata, Zozzetto e tutti gli altri gatti-gatti e gatti-persone dell'Argentina sfilarono silenziosamente per via dei Fori, piazza Venezia, via delle Botteghe Oscure.
Zozzetto, per la verità, aveva qualche dubbio: — Ma o… ora la ste… stella ce ce la da-danno o no?
Disse il Pirata: — Calma, Zozzetto, Roma non è mica stata fatta in un giorno. Adesso sanno che cosa vogliamo, sanno che siamo capaci di occupare un Colosseo. La cosa deve fare la sua strada, poco alla volta. Se ci danno la stella Gatto subito, bene. Altrimenti avvertiremo i gatti di Milano, e loro occuperanno il Duomo; prenderemo contatto con i gatti di Parigi, e loro occuperanno la Torre Eiffel. Eccetera, mi sono spiegato?
Zozzetto, invece di rispondere, fece una capriola: a fare le capriole non balbettava mica.
Il signor Moriconi, però, aggiunse: — Bene. Ma poi che non facciano scherzi. La stella Gatto ce la debbono dare che sia proprio sopra piazza Argentina, altrimenti non vale.
— Sarà cosí, - disse il Pirata. E come sempre l'ultima parola fu la sua.
Fine