Roger Zelazny Il boia torna a casa

Grossi fiocchi di neve nella notte, notte senza vento. Non li considero mai come tempesta a meno che non ci sia vento. Tutto calmo ed immobile. Solo una bianchezza fredda e uniforme, appena fuori dalla mia finestra, un silenzio sottolineato anche dal caminetto che arde allegro. Nella stanza principale dell’edificio si sentivano infatti gli scoppiettii occasionali della legna che ardeva.

Sedevo su di una sedia, di fianco al tavolo e di fronte alla porta. Sul pavimento alla mia sinistra c’era una tuta. L’elmetto era sul tavolo, un insieme di metallo, quarzo, porcellana e vetro. Se avessi sentito lo scatto di un microinterruttore seguito da un debole ronzio, seguito poi ancora da una debole luce sul lato anteriore, luce che si fosse messa ad ammiccare rapidamente, ci sarebbe stata una probabilità assai forte della mia morte immediata.

Quando Larry e Bert erano usciti avevo tolto di tasca una grossa palla; i due erano armati, rispettivamente, di un lanciafiamme e di quello che sembrava un fucile da caccia grossa. Bert aveva preso anche due granate.

Avevo svolto la palla, aprendola del tutto per estrarne un guanto che mi ero infilato nella mano sinistra; lo tenevo poi alzato, con il gomito appoggiato al bracciolo della sedia. Una piccola pistola laser, in cui avevo pochissima fiducia, giaceva vicino alla mia mano destra sul piano del tavolo, vicina all’elmetto. Se avessi toccato un oggetto metallico con il guanto, la sostanza in esso contenuta avrebbe immediatamente aderito, liberandosi dal guanto stesso. Due secondi dopo sarebbe esplosa, e la forza dell’esplosione sarebbe stata diretta contro la superficie dell’oggetto metallico. Newton avrebbe potuto dire la sua nel campo delle ridistribuzioni ad angolo retto della reazione, tralasciando gli effetti collaterali della superficie di contatto. Carico penetrante, si chiamava, ed il suo possesso rientrava tra le armi proibite nella maggior parte dei luoghi. Quelle proprietà molecolari, decisi, erano molto utili nel mio caso. A volte era il sistema d’uso che lasciava abbastanza a desiderare.

Accanto all’elmetto, vicino alla pistola, davanti alla mia mano, c’era un piccolo radiotelefono. Quest’ultimo aveva lo scopo di avvertire Bert e Larry se avessi sentito un microinterruttore seguito da un ronzio, se avessi visto una minuscola luce accendersi e quindi ammiccare rapidamente. Allora avrebbero saputo che Tom e Clay, con cui avevamo perso contatto quando era iniziata la sparatoria, non erano riusciti a distruggere il nemico e che senza dubbio giacevano ormai morti nella loro stazione, circa un chilometro più a sud. Quindi avrebbero saputo che anche per loro la morte era una possibilità molto concreta.

Quando sentii lo scatto dell’interruttore li chiamai. Presi l’elmetto e mi alzai in piedi nel momento in cui la luce cominciava ad ammiccare.

Ma era già troppo tardi.


Il quarto luogo elencato sulla cartolina che avevo inviato a Don Walsh l’anno precedente era la Libreria Peabody e Birreria di Baltimora, nel Maryland. In conseguenza, a tarda sera del primo ottobre sedevo nel retro, all’ultimo tavolo prima dell’alcova con la porta che dava sul vicolo posteriore. Nella stanza in penombra, una donna vestita di nero suonava un antico modello di piano verticale, accelerando il tempo di tutti i pezzi che accennava. Sulla mia destra, un fuoco ardeva e mandava fumo in un piccolo camino. Io sorseggiavo la birra ed ascoltavo la musica.

Speravo quasi che quella fosse l’occasione in cui Don non si sarebbe presentato. Avevo fondi sufficienti per arrivare alla primavera seguente ed in realtà non avevo voglia di lavorare. Mi ero spostato molto a Nord, ero ancorato nella Chesapeake, ed ero ansioso di tornare verso i Caraibi. Un fresco crescente ed alcuni brutti venti mi dicevano che ero rimasto troppo in quelle latitudini. Eppure, l’accordo era che dovevo rimanere nel bar prescelto fino a mezzanotte. Ancora due ore.

Mangiai un panino ed ordinai un’altra birra. Quando l’avevo quasi finita, vidi Don avvicinarsi all’ingresso, con il soprabito sul braccio, la testa voltata. Riuscii a simulare una quantità sufficiente di sorpresa quando comparve vicino al mio tavolo con un: — Don! Sei davvero Tu?

Mi alzai e gli strinsi la mano.

— Alan! È piccolo il mondo, non c’è che dire. Siediti! siediti!

Lui si sistemò su di una sedia di fronte a me, appoggiando il soprabito su un’altra alla sua sinistra.

— Cosa ci fai in questa città? — chiese.

— Solo una visita — risposi. — Vado a trovare un paio di amici. — Indicai le cicatrici, le scritte sulla venerabile superficie del tavolo di fronte a me. — E questa è la mia ultima sosta. Partirò tra qualche ora.

Ridacchiò.

— E tu, che ci fai qui?

— Cioè?

— Al presente. Qui. Adesso.

— Ah. — Chiamò la cameriera, ed ordinò una birra. — Viaggio d’affari — disse poi. — Una consultazione.

— Capisco. Come vanno gli affari?

— Complicati — disse — complicati.

Ci accendemmo una sigaretta, e dopo un po’ arrivò la sua birra. Fumammo, bevemmo ed ascoltammo la musica.

L’ho detto e lo ripeterò sempre: il mondo è come un pezzo musicale troppo accelerato. Dei molti cambiamenti che fino a quel momento la mia vita aveva attraversato, mi sembrava che la maggior parte fosse avvenuta negli ultimi pochi anni. Mi colpiva anche il fatto che qualche anno prima pensavo che le cose dovessero seguire indefinitivamente la loro routine… cioè, se gli affari di Don non me l’avessero complicata tremendamente con la loro pericolosità.

Don agisce per la seconda agenzia di investigazioni in ordine di importanza del mondo, e in certi casi mi trova utile perché non esisto. Io adesso non esisto perché una volta esistevo nel posto e nel momento in cui si cominciava a tentare di trasmettere ad un computer tutto quanto esista ai nostri giorni. Mi riferisco alla Banca Centrale dei Dati mondiale, ed al fatto che avevo giocato un ruolo molto significativo in quello sforzo volto alla costruzione di un modello operativo del mondo reale, che comprendesse tutti ed ogni cosa. In quel periodo presi la mia decisione, e feci in modo di non ricevere la cittadinanza in quel mondo computerizzato, un luogo che oggi è forse diventato ancora più importante del mondo reale. Esiliato nella realtà, i miei soggiorni nel mondo sono necessariamente quelli di un alieno colpevole di ingresso illegale. Faccio visita periodicamente al mondo, perché vado dove devo andare per guadagnarmi da vivere… È qui che entra in gioco Don. Le identità che io posso assumere sono spesso molto utili quando lui ha problemi scottanti da risolvere.

Sfortunatamente, in quel momento, sembrava ne avesse, proprio quando ogni fibra del mio corpo voleva farmi allontanare e riposare per un po’.

Finimmo di bere, pagammo il conto e ci alzammo.

— Da questa parte — dissi, indicando la porta posteriore; lui si infilò il cappotto e mi seguì.

— Parliamo qui? — chiese, mentre percorrevo il vicolo.

— Meglio di no — dissi. — Mezzi di trasporto pubblici, poi conversazione privata.

Annuì e mi seguì.

Circa tre quarti d’ora dopo eravamo nel saloon del Proteus ed io stavo preparando il caffè. Eravamo cullati dolcemente dalle acque gelide della baia, sotto un cielo privo di luna. Avevo acceso solo un paio di lampadine. Comodo. Sull’acqua, a bordo del Proteus, l’affollamento, le attività, il tempo, il ritmo della vita nelle città sulla terraferma, si trasmutano, rallentano, diventano irreali, a causa della distanza metafisica che alcuni metri di acqua possono fornire. Noi alteriamo il panorama con facilità sorprendente, ma l’oceano è sempre sembrato immutato, ed io suppongo, per estensione, che siamo infetti da qualche sentimento di atemporalità ogni volta che lo solchiamo. Forse è uno dei motivi per cui passo così tanto tempo sul mare.

— È la prima volta che ci salgo — disse. — Comodo.

— Grazie… Latte? Zucchero?

— Sì. Tutti e due.

Ci accomodammo con le tazzine fumanti ed io chiesi: — Cosa c’è, questa volta?

— Un caso che implica due problemi — rispose. — Uno di essi praticamente ricade nella mia area di competenza. L’altro no. Mi è stato detto che si tratta di una situazione assolutamente unica e che richiede i servizi di uno specialista veramente valido.

— Non sono uno specialista in nulla tranne che nella sopravvivenza.

Il suo sguardo si legò improvvisamente al mio.

— Ho sempre pensato che tu ne sapessi abbastanza, di computer — disse.

Distolsi lo sguardo. Quello era un colpo basso. Non mi ero mai presentato a lui come un’autorità in quel campo, e c’era sempre stato tra noi un tacito impegno sul fatto che i miei metodi di manipolare le circostanze e le identità non dovevano mai venire discussi. D’altra parte, per lui era evidente che le mie nozioni in quel campo dovevano essere al tempo stesso estensive ed intensive. Non mi piaceva parlarne. Così mi misi sulla difensiva.

— I computer oggi li conoscono praticamente tutti — dissi. — Probabilmente ai tuoi tempi le cose erano diverse, ma ora cominciano ad insegnare la scienza dei computer fin dal primo anno di scuola ai bambini. Certo, ne so parecchio. In questa generazione, tutti sono preparati.

— Sai benissimo che non è a questo che mi riferisco — disse. — Non mi conosci da abbastanza tempo da concedermi un po’ più di fiducia? La domanda deriva solo dal caso che stiamo prendendo in considerazione. Tutto qui.

Annuii. Le reazioni più spontanee non sono sempre appropriate, ed io mi ero lasciato coinvolgere a livello emotivo. Così aggiunsi: — D’accordo, ne so qualcosa di più dei bambini delle scuole.

— Grazie. Può essere un punto di partenza. — Sorseggiò il caffè. — La mia preparazione è in legge e in giurisprudenza, seguita da esperienze nell’Intelligence militare, e dal servizio civile, in quel settore. Quel poco che so di tecnica l’ho raccolto qua e là nel tempo… una notizia qui, un corso accelerato là. So parecchio sulle cose che possono fare, ma non molto sul modo in cui funzionano. Non ho capito i dettagli di questo caso, così vorrei che tu cominciassi dal principio e mi spiegassi la cosa, fintanto che ti è possibile. Ho bisogno di comprendere lo sfondo della situazione, e se tu sei in grado di spiegarmelo saprò anche se tu sei la persona adatta per questo incarico. Puoi incominciare col dirmi come funzionavano i primi robot adibiti alle ricerche spaziali… diciamo, quelli che sono stati impiegati su Venere.

— Non erano computer — dissi. — E peraltro non erano neanche robot. Erano apparecchiature telefattrici.

— Spiegami la differenza.

— Un robot è una macchina che effettua determinate operazioni seguendo un certo programma di istruzioni. Un telefattore è una macchina schiava, messa in azione da un comando esterno. Il telefattore agisce in una specie di simbiosi con il suo operatore. A secondo della sofisticazione che si desidera raggiungere, i collegamenti possono essere audiovisivi, cinetici, tattili, perfino olfattivi. Più ci si spinge in questa direzione, più la struttura diventa antropomorfa.

«Nel caso di Venere, se ricordo esattamente, l’operatore umano in orbita portava un esoscheletro che controllava i movimenti del corpo, delle braccia, delle gambe e delle mani dell’apparecchiatura posta sulla superficie sottostante che riceveva energia e movimento per mezzo di un sistema di trasduttori aerei. Portava anche un elmetto che controllava la camera televisiva della macchina che riempiva il suo quadro visivo con la scena sottostante. Indossava anche auricolari collegati con il suo sistema auditivo. Ho letto il libro che scrisse in seguito. Disse che per lunghi periodi di tempo dimenticava l’esistenza della cabina, dimenticava che si trovava all’estremità operativa di una complessa apparecchiatura, e sentiva realmente di star calcando il suolo di quel pianeta infernale. Ricordo di esserne rimasto molto colpito, anche perché ero ancora bambino, e volevo averne anch’io uno tutto per me, e poter andare e combattere con i microorganismi.

— Perché?

— Perché su Venere non c’erano draghi. In ogni modo, quello era un apparecchio telefattore, una cosa abbastanza diversa da un robot.

— Ti seguo — disse, poi: — Adesso spiegami la differenza tra i primi telefattori, e gli ultimi modelli.

Versai altro caffè.

— Le cose furono un po’ più complicate per quanto riguardava i pianeti esterni e i loro satelliti — dissi. — Lì, in primo luogo non disponevamo di operatori in orbita. Problemi economici, ed alcuni fattori tecnici ancora irrisolti. Principalmente però per cause economiche. In ogni modo, gli apparecchi venivano fatti atterrare sul pianeta prescelto, ma l’operatore rimaneva a casa. A causa di ciò, c’era ovviamente un divario di tempo nelle trasmissioni. Ci voleva un po’ per ricevere gli impulsi, e poi c’era un’altra pausa prima che gli impulsi di ritorno raggiungessero il telefattore. Tentammo di compensare queste pause in due modi: il primo sistema era una semplice sequenza di attesa-movimento; il secondo era più sofisticato, ed è in effetti il punto in cui i computer entrano in gioco, nel senso di partecipare alla funzione di controllo. Richiedeva l’elaborazione di modelli di fattori ambientali conosciuti, che venivano poi arricchiti durante le prime sequenze di attesa-movimento. Su questa base, il computer venne quindi utilizzato per prevedere sviluppi a breve termine. Infine, fu in grado di assumere il controllo dello strumento e dirigerlo per mezzo di una combinazione di «controlli di previsione» e di schemi di attesa-movimento. Però, era sempre indispensabile l’aiuto umano, quando si presentava un elemento imprevisto. Così, per quanto riguardava i pianeti esterni, non era né totalmente automatico né totalmente manuale… né totalmente soddisfacente… sulle prime.

— D’accordo — disse, accendendosi una sigaretta. — E il passo seguente?

— Il seguente non fu un passo propriamente tecnico nel settore dei telefattori. Fu un passo economico. I cordoni della borsa furono finalmente allentati, e potemmo permetterci di inviare anche esseri umani. Li facemmo atterrare dove potevamo, ed in molti casi in cui l’atterraggio era impossibile, facevamo atterrare i telefattori lasciando gli uomini in orbita. Come ai vecchi tempi. Il problema del divario di tempo venne abolito perché adesso l’operatore si trovava di nuovo sulla scena dell’operazione. Se non altro, lo si può considerare un ritorno ai vecchi metodi. È quello che fanno spesso ancor oggi, e funziona bene.

Scosse la testa.

— Hai lasciato fuori qualcosa tra i computer e l’ultima soluzione.

Mi strinsi nelle spalle.

— In quel periodo sono state tentate molte soluzioni, ma nessuna si è rivelata efficace come quella che già avevamo nella collaborazione uomo-computer con il telefattore.

— Ci fu un progetto — disse — che tentò di aggirare i problemi del divario di tempo inviando il computer insieme al telefattore. Sai a cosa mi riferisco?

Accesi una delle mie sigarette mentre ci pensavo. — Penso che tu stia parlando del Boia — dissi.

— Esatto, ed è qui che mi perdo. Puoi spiegarmi come funziona?

— In ultima analisi, si è rivelato un fallimento — risposi.

— Ma sulle prime funzionava.

— Apparentemente. Ma solo in casi semplici, come su Io. In seguito si inceppò e venne considerato un fallimento, anche se grandioso. Il tentativo era troppo ambizioso fin dall’inizio. Sembra che coloro che dirigevano il tutto avessero avuto la possibilità di combinare progetti avanguardistici… tecniche che erano ancora sotto studio, ed altre estremamente nuove. In teoria, sembrava che tutto dovesse adattarsi in maniera talmente perfetta che cedettero alla tentazione ed incorporarono troppe cose. Cominciò bene, ma crollò quasi subito.

— Ma chi era implicato?

— Signore! Chi non lo era? Il computer che non era esattamente un computer… D’accordo, cominciamo da qui. Nel secolo scorso, tre ingegneri dell’Università del Wisconsin — Nordman, Parmentier e Scott — svilupparono un apparecchio noto come neuristore a collegamento-tunnel superconduttivo. Due strisce sottili di metallo, con un sottile strato isolante in mezzo. Supercongelatelo e lascerà passare impulsi elettrici senza opporre resistenza. Circondatelo di materiale magnetizzato, e raggruppatene una certa massa — bilioni — e cosa avrete ottenuto?

Scosse la testa.

— Be’, per cominciare avremo ottenuto una situazione impossibile da schematizzare considerando tutti i sentieri e le interconnessioni che possono essersi formati. Esiste una somiglianza evidente con la struttura del cervello. Così, ipotizzavano, è impossibile anche solo tentare di realizzare uno strumento del genere. Bisognerebbe inserire i dati e lasciare che i sentieri preferenziali si stabiliscano da soli, a causa della crescente magnetizzazione del materiale ogni volta che la corrente lo attraversa, diminuendone la resistenza. Il materiale stabilisce la sua struttura in maniera analoga al funzionamento del cervello quando impara qualcosa.

— Nel caso del Boia, hanno utilizzato qualcosa di molto simile e sono riusciti ad impacchettare più di dieci milioni di cellule di tipo neuristore in una zona molto piccola… meno di un metro cubo. Hanno scelto quel numero particolare perché è approssimativamente il numero delle cellule nervose presenti nel cervello umano. È questo che voglio dire quando affermo che in realtà non era un computer. In effetti stavano lavorando nel campo delle intelligenze artificiali, non importa come le chiamavano.

Se la cosa aveva un suo cervello — computer, o quasi-umano — allora era un robot più che un telefattore, vero?

— Sì e no e forse — dissi. — Venne fatto agire come apparecchio telefattore qui sulla Terra — sul fondo oceanico, nel deserto, in zone montuose — come parte della programmazione. Suppongo che si potrebbe parlare anche di apprendistato, o di scuola infantile. Forse quest’ultima definizione è ancora più appropriata. Gli venne mostrato come agire in ambienti difficili, e tornare indenne. Una volta che apprese tutto questo, allora, teoricamente, potevano lanciarlo nel cielo senza controllo da terra e aspettare che riportasse le sue scoperte.

— A quel punto venne considerato un robot?

— Un robot è una macchina che esegue certe operazioni seguendo un programma di istruzioni. Il Boia prendeva le sue decisioni capisci. Ed io sospetto che nel tentativo di produrre qualcosa di così simile al cervello umano come struttura e funzionamento, la casualità apparentemente inevitabile del suo modello venne inevitabilmente inclusa. Non era solo una macchina che seguiva un programma. Era troppo complessa. Questo è stato probabilmente l’elemento che ha portato al fallimento.

Don ridacchiò. — L’inevitabile libero arbitrio?

— No. Come ho detto, hanno messo troppe cose nella stessa borsa. Per esempio, i ragazzi del gruppo psicofisico avevano un apparecchietto che volevano sperimentare, e venne incluso. Apparentemente, il Boia era uno strumento di comunicazione. In effetti, lo trattavano come se fosse realmente senziente.

— Lo era?

— Evidentemente sì, anche se in modo limitato. Quello che avevano ottenuto, perché facesse parte dello strumento telefattore originario, era un apparecchio che stabiliva un debole campo di induzione nel cervello dell’operatore. La macchina riceveva ed amplificava gli schermi dell’attività elettrica provenienti dal Boia e li passava attraverso un modulatore complesso, che li trasformava in impulsi del campo di induzione nella testa dell’operatore… Adesso sono fuori dal mio campo, piuttosto in quello di Weber e Fechner, ma un neurone ha una soglia oltre la quale funziona, sotto la quale agisce. Esistono circa quarantamila neuroni raccolti in un millimetro quadrato della corteccia cerebrale, in modo che ognuno di essi possiede centinaia di collegamenti sinaptici con quelli circostanti. In qualsiasi momento, alcuni di essi possono trovarsi al di sotto della soglia di attività mentre altri sono in condizioni che Sir John Eccles una volta definì «di posa critica»… pronti a funzionare. Se uno di essi riesce a superare la soglia, può provocare la scarica di centinaia di migliaia di altri e nel giro di venti millesecondi. Il campo pulsante doveva fornire una spina in un modo sufficientemente selettiva da offrire all’operatore un’idea di ciò che avveniva nel cervello del Boia. E viceversa. Il Boia doveva avere inserita una versione del medesimo meccanismo. Si pensò anche che ciò potesse servire ad umanizzarlo un po’, così da permettergli di apprezzare meglio il significato del suo lavoro e instillargli doti quali la lealtà, si potrebbe dire.

— Pensi che questo elemento possa aver contribuito al fallimento del progetto?

— È possibile. Come si può dire qualcosa in una situazione peculiare del genere? Se vuoi un’ipotesi, io direi: «Si», ma è solo ipotesi.

— Uh-huh — disse — e quali sono le sue capacità fisiche?

— Struttura antropomorfa — dissi — sia perché in origine era un telefattore, sia a causa dei ragionamenti psicologici di cui ti parlavo. Poteva pilotare il suo piccolo vascello. Non c’era bisogno di un sistema di sostegno vitale, naturalmente. Sia il Boia che il vascello erano riforniti di unità di fissione, cosicché le fonti energetiche non costituivano un problema concreto. Autoriparante. Capace di eseguire una grande varietà di prove e misurazioni sofisticate, di effettuare osservazioni, di completare rapporti, di imparare nuovi sistemi, di ritrasmettere qui le sue scoperte. Capace di sopravvivere quasi in qualsiasi condizione. In effetti, richiedeva meno energia sui pianeti esterni, a causa del minore lavoro delle unità refrigeranti, per mantenere operativo quel cervello.

— Qual era la sua forza?

— Non ricordo tutti i dati. Forse una dozzina di volte più forte di un uomo, in azioni quali sollevare e spingere.

— Ha esplorato Io ed ha iniziato con Europa.

— Sì.

— Poi ha cominciato a comportarsi in maniera incontrollata, proprio quando pensavamo che avesse realmente imparato il suo lavoro.

— Proprio così — dissi.

— Ha rifiutato un ordine diretto di esplorare Callisto, poi si è diretto verso Urano.

— Sì. Sono passati anni da quando ho letto i rapporti…

— I guasti da allora sono peggiorati. Lunghi periodi di silenzio si sono alternati a conversazioni ingarbugliate. Adesso che ne so di più sulla sua struttura, sembra quasi un uomo che si avvicini alla fine.

— L’analogia regge.

— Ma è riuscito a rimettersi in funzione per un breve periodo. È atterrato su Titania, ed ha iniziato ad inviarci quelli che sembravano rapporti appropriati di osservazione. La cosa è durata solo un breve periodo, però. Poi è tornato ancora una volta irrazionale, ha trasmesso che si stava dirigendo per atterrare direttamente su Urano, e l’ha fatto. Dopo di che non abbiamo più avuto sue notizie. Adesso che mi hai spiegato di quali aggeggi mentali è dotato capisco perché uno di questi potrebbe ritrovarsi a non funzionare più.

— Non capisco.

— Io sì.

Mi strinsi nelle spalle. — Sono passati ormai vent’anni — dissi. — E come ho detto, è passato molto tempo dall’ultima volta che ho letto qualcosa in proposito.

— La nave del Boia si è schiantata o è atterrata, a seconda dei casi, nel Golfo del Messico due giorni fa.

Mi limitai a fissarlo.

— Era vuota — continuò Don — quando finalmente riuscirono a raggiungerla.

— Non capisco.

— Ieri mattina — continuò — il programmatore Manny Burns è stato trovato percosso a morte nell’ufficio del suo stabilimento, il Maison Saint-Michel, a New Orleans.

— Non riesco ancora a capire…

— Manny Burns era uno dei quattro operatori originali che hanno programmato… pardon, «insegnato» al Boia.

Il silenzio si prolungò, pesante e teso.

— Coincidenza…? — chiesi infine.

— Il mio cliente non ne è convinto.

— Chi è il tuo cliente?

— Uno dei tre membri rimasti del gruppo di addestramento. È convinto che il Boia sia ritornato sulla Terra per uccidere quelli che furono i suoi operatori.

— Ha fatto conoscere le sue paure ai suoi vecchi dirigenti?

— No.

— Perché no?

— Perché dovrebbe dir loro i motivi della sua paura.

— Vale a dire…?

— Non ha voluto dirli nemmeno a me.

— Come si aspetta che tu svolga un lavoro adeguato con queste premesse?

— Mi ha detto che cosa considera un lavoro adeguato. Vuole che siano fatte due cose, nessuna delle quali richiede una conoscenza completa del caso. Vuole avere ottime guardie del corpo, e desidera che il Boia venga trovato e messo sotto controllo. Mi sono già occupato della prima parte.

— E vuoi che io intervenga per la seconda?

— Esatto. Hai confermato la mia opinione: sei l’uomo ideale per un lavoro del genere.

— Capisco. Ti rendi conto che se Boia è realmente senziente si tratta di una cosa simile all’omicidio? Se non lo è, si tratterà solo della distruzione di una costosa proprietà governativa.

— Come lo consideri?

— Lo considero un lavoro — dissi.

— Lo assumerai?

— Ho bisogno di altri dati prima di decidere. Tra l’altro, chi è il tuo cliente? Chi sono gli altri operatori? Dove vivono? Che cosa fanno? Che cosa…

Alzò una mano.

— Primo — disse. — L’onorevole Jesse Brockden, Senatore Anziano del Wisconsis, è il nostro cliente. Confidenzialmente, non è neanche il caso di dirlo.

Annuii. — Ricordo che è stato implicato con il programma spaziale prima di dedicarsi alla politica. Non ne so molto, però. Potrebbe ottenere la protezione governativa così facilmente…

— Per ottenerla, evidentemente, dovrebbe dire cose di cui non vuole parlare. Forse potrebbero troncare la sua carriera. Semplicemente non lo so. Non vuole. Vuole noi.

Annuii di nuovo.

— E gli altri? Ci vogliono anche loro?

— Esattamente l’opposto. Non concordano affatto con le preoccupazioni di Brockden. Sembra pensino che sia una specie di paranoico.

— Fino a che punto si sono tenuti in contatto in questi giorni?

— Vivono in parti diverse del paese e non si vedono da anni. Sono stati occasionalmente in contatto, però.

— Una base un po’ vaga per una diagnosi, allora.

— Uno di loro è uno psichiatra.

— Oh. Quale?

— Si chiama Leila Thackery. Vive a St. Louis. Lavora all’Ospedale Statale locale.

— Nessuno di loro ha consultato qualche autorità allora… né federale né locale?

— Esatto. Brockden ha contattato tutti e due quando ha avuto notizie del Boia. Era a Washington, ha cercato di raggiungerli; nel frattempo ha saputo della morte di Burns. Ha contattato me, poi ha tentato di convincere gli altri ad accettare la protezione della mia gente. Loro non si sono dichiarati disposti. Quando le ho parlato, la dottoressa Thackery ha sottolineato, abbastanza correttamente, che Brockden è un uomo molto malato.

— Cosa ha?

— Cancro. Alla spina dorsale. Incurabile. Mi ha perfino detto che pensa di avere circa sei mesi per concludere quella che considera una legge molto importante… il nuovo atto di riabilitazione criminale. Ammetto che mi ha dato un po’ l’impressione del paranoico quando gli ho parlato. Ma, diavolo! Chi non lo sarebbe? La dottoressa Thackery generalizza la situazione, però, e non vede l’assassinio di Burns collegato al Boia. Pensa che si sia trattato di un ladruncolo convenzionale; un ladro che si è lasciato cogliere dal panico, eccetera.

— Non ha paura del Boia?

— Ha detto che si trova in una posizione migliore di chiunque altro per comprenderne i processi mentali, e che la cosa non la interessa particolarmente.

— E l’altro operatore?

— Ha detto che la dottoressa Thackerry può conoscere la sua mente meglio di chiunque altro, ma che lui conosce il suo cervello, e neanche lui si preoccupa.

— Cosa intende dire?

— David Fentris è un ingegnere… elettronica, cibernetica. Ha partecipato direttamente alla progettazione del Boia.

Mi alzai in piedi e preparai un altro caffè. Non che ne sentissi particolarmente l’esigenza, ma quel nome mi aveva un po’ preoccupato. Avevo conosciuto David Fentris, avevo lavorato con lui. Ed avevamo collaborato al programma spaziale.

Aveva quindici anni più di me, quando lavoravamo insieme per il progetto della Banca dei Dati. E quando la maggior parte di noi aveva cominciato ad avere secondi fini con il procedere delle cose, Dave non era mai stato animato da altro che da grande entusiasmo. Il grosso problema, naturalmente, era questo: mi avrebbe riconosciuto? È vero, il mio aspetto era stato modificato, la mia personalità speravo fosse maturata, le mie abitudini si erano trasformate moltissimo. Ma sarebbe stato sufficiente, se il lavoro mi avesse portato ad incontrarlo? Quella mente acutissima poteva elaborare moltissime cose con una minima quantità di dati.

— Dove vive? — chiesi.

— Memphis. E qual è il problema?

— Sto solo cercando di inquadrare la situazione — dissi. — Il Senatore Brockden è ancora a Washington?

— No. È tornato nel Wisconsis ed attualmente si trova nella parte settentrionale dello stato. Quattro miei uomini sono con lui.

— Capisco.

Versai il caffè e mi risedetti. Quel lavoro non mi piaceva, e avevo deciso di non accettarlo. Non volevo però dare a Don un semplice «No». I suoi incarichi erano diventati una parte molto importante della mia vita. Ovviamente per lui la cosa era importante, e voleva che ci pensassi io. Decisi di cercare i punti deboli della situazione, di trovare un qualche sistema per ridurlo al semplice lavoro di guardia del corpo già in atto.

— Non sembra strano — dissi — che Brockden sia il solo a temere il Boia?

— Sì.

— … e che non dia motivi?

— Vero.

— … oltre alla sua condizione fisica e agli effetti che può avere sulla sua mente.

— Non ho dubbi sul fatto che sia nevrotico — disse Don. — Guarda qui.

Prese il cappotto, tolse di tasca un blocco di fogli, ne scelse uno e me lo diede.

Era un foglio intestato del Congresso, con un messaggio scribacchiato sopra. «Don» diceva «Devo vedervi. Il mostro di Frankenstein è appena tornato da dove l’abbiamo esiliato e mi sta cercando. Tutto il fottuto universo mi sta dando la caccia. Mi chiami tra le 8 e le 10… Jess.»

Annuii, feci per restituirglielo, esitai un attimo, poi glielo diedi. Che maledetto affare!

Bevvi una tazza di caffè. Pensavo che da tempo avevo perso la speranza in cose del genere, ma avevo notato qualcosa che mi creava immediatamente dei problemi. Nel margine del foglio intestato, dove vengono elencate quel tipo di cose, avevo notato che Jesse Brockden faceva parte del comitato per la revisione del programma della Banca Centrale dei Dati. Ricordai che si supponeva che quel comitato dovesse lavorare su una serie di riforme raccomandate. Sul momento, non riuscivo a ricordare la posizione di Brockden nei problemi implicati, ma… oh, diavolo! La cosa era troppo grandiosa per poter essere alterata in maniera significativa proprio adesso… Ma era quello il solo mostro di Frankenstein che mi preoccupava realmente, e c’era pur sempre la possibilità… D’altra parte… diavolo, ancora! E se l’avessi lasciato morire pur avendo la possibilità di salvarlo, e fosse stato proprio lui a…?

Bevvi un altro sorso di caffè. Accesi un’altra sigaretta.

Poteva esserci un sistema di risolvere le cose in modo che David non entrasse nemmeno in scena. Potevo parlare a Leila Thackery in primo luogo, controllare poi tutti i dati dell’assassinio di Burns, seguire da vicino i nuovi sviluppi, trovare altre notizie sul vascello caduto nel Golfo… Potevo sistemare tutto, anche se sarebbe stata solo una negazione della teoria di Brockden, senza che il mio sentiero dovesse incrociare quello di David.

— Hai tutti i dati sul Boia? — chiesi.

— Sono qui.

Me li porse.

— I rapporti di polizia sull’omicidio di Burns?

— Eccoli.

— Gli alibi di tutti i sospetti, e qualche informazione su di loro?

— Qua.

— Il luogo od i luoghi in cui posso raggiungerti nei prossimi giorni… a qualsiasi ora? Questo caso può richiedere un certo coordinamento.

Sorrise e prese la penna.

— Felice di averti a bordo — disse.

Scossi la testa.


Lo squillo del telefono mi svegliò. Un riflesso condizionato mi spinse ad attraversare la stanza, e ad afferrare il ricevitore.

— Sì?

— Mister Donne? Sono le otto.

— Grazie.

Mi lasciai cadere su una sedia. Sono quello che potrebbe essere definito un partente lento. Stento a ricapitolare la situazione tutte le mattine. I desideri fondamentali si aprono lentamente la strada attraverso la mia materia grigia per chiudere un contatto. Lentamente, allungai una mano ancora addormentata e composi un paio di numeri telefonici. Biascicai un ordine di colazione alla voce che mi rispose. Poi andai a risciacquarmi per prendere contatto con la realtà.

Non avevo dormito molto, la notte prima. Avevo chiuso la nave appena dopo la partenza di Don. Lasciato il Proteus ero andato all’aeroporto per prendere un aereo che mi portasse a St. Louis in piena notte. Non riuscii a dormire durante il volo; pensavo al caso, e decisi che sarei andato subito a parlare con Leila Thackery. All’arrivo, presi una camera al motel dell’aeroporto, chiedendo di svegliarmi ad un’ora irragionevole, e quindi crollai.

Mentre mangiavo, riconsiderai i fogli che Don mi aveva lasciato.

Al momento Leila Thackery era sola, avendo appena divorziato dal secondo marito; aveva quarantasei anni, e viveva in un appartamento nei pressi dell’ospedale in cui lavorava. C’era pure una foto che poteva avere forse dieci anni. Aveva pubblicato un certo numero di libri ed articoli con titoli pieni di alienazione, ruoli, transazioni, contesti sociali, ed altre alienazioni ancora.

Non avevo avuto il tempo di seguire la solita prassi, di diventare un nuovo individuo con una storia controllabile. Solo un nome ed una storia, ecco tutto. In ogni modo, in quell’occasione non sembrava necessario niente di più. Per una volta, un approccio ragionevolmente onesto sembrava il più adatto.

Presi un mezzo pubblico per giungere al suo appartamento. Non telefonai prima di andare, perché è più facile dire «No!» ad una voce che ad una persona.

Secondo le registrazioni, quello era uno dei giorni in cui visitava i pazienti a casa. La sua idea evidentemente; distruggere l’immagine alienante delle istituzioni, rimuovere ogni risentimento trasformando le riunioni in qualcosa di maggiormente simile alle occasioni sociali, eccetera. Io non avevo bisogno di molto del suo tempo — avevo deciso che se era il caso ci avrebbe pensato Don — anche perché ero sicuro che le sue visite erano programmate in modo da lasciare pochissimo tempo libero.

Avevo appena rintracciato il suo nome e il numero dell’appartamento sul citofono quando una donna mi sorpassò ed aprì il portone. Mi guardò e tenne aperta la porta, così che potei entrare senza suonare. L’elemento presenza, ancora una volta.

Presi l’ascensore fino al piano di Leila, il secondo, trovai la porta e bussai. Ero quasi pronto a bussare una seconda volta quando si aprì uno spiraglio.

— Sì? — chiese, ed io riconsiderai la stima fatta sull’età della foto. Sembrava praticamente la stessa.

— Dottoressa Thackery — dissi — il mio nome è Donne. Potrebbe essermi di grande aiuto per un mio problema.

— Che tipo di problema?

— Implica uno strumento noto come il Boia.

Sospirò e sorrise. Le sue dita tamburellarono sulla porta.

— Ho percorso molta strada, ma ci vorrà pochissimo tempo. Ci sono solo poche domande che vorrei porle.

— Lavora per il governo?

— No.

— Lavora per Brockden?

— No, è qualcosa di diverso.

— Benissimo — disse. — In questo momento ho una riunione di gruppo. Probabilmente durerà per un’altra mezz’ora. Se non le dispiace attendere nell’ingresso, la chiamerò appena sarà finita. Poi potremo parlare.

— Abbastanza soddisfacente — dissi. — Grazie.

Lei annuì e chiuse la porta. Trovai la scala e ridiscesi.

Una sigaretta dopo, decisi che il diavolo trova lavoro per le mani pigre e lo ringraziai per il suggerimento. Uscii. Sul citofono, lessi il nome di alcuni inquilini del quinto piano. Salii e bussai ad una delle porte. Prima che si aprisse tirai fuori visìbilmente la biro e il blocchetto per gli appunti.

— Sì? — Sulla cinquantina, curiosa.

— Mi chiamo Stephen Foster, Mrs. Gluntz. Sto facendo un’inchiesta per la Lega Nordamericana dei Consumatori. Vorrei pagarle un paio di minuti del suo tempo, per porre alcune domande sui prodotti di cui si serve.

— Perché… pagarmi.

— Sì, signora. Dieci dollari. Per una dozzina di domande. Ci vorranno al massimo un paio di minuti.

— Benissimo. — Spalancò la porta. — Vuole entrare?

— No, grazie. La cosa è talmente breve che non ce n’è bisogno. La prima domanda riguarda i detersivi…

Dieci minuti dopo ero tornato nell’atrio ed avevo terminato tre liste di spese medie. Quando una situazione è piena di elementi imponderabili e faccio un gioco che non consoco, mi piace premunirmi il più possibile.

Ancora un quarto d’ora, e rientrai nell’ascensore da cui erano appena usciti tre ragazzi, vestiti sportivamente, che ridacchiavano allegri.

Il più grosso mi indicò ed annuì.

— È lei che deve parlare con la Dottoressa Thackery.

— Esatto.

— Dice che può salire.

— Grazie.

Tornai su, alla sua porta. Lei aprì, mi fece entrare, mi indicò una sedia molto comoda e si sedette con me.

— Vuole una tazza di caffè? — chiese. — È fresco. Ne ho fatto più del necessario.

— Splendido. Grazie.

Pochi istanti dopo, portò un paio di tazze, me ne diede una, e si risedette. Ignorai latte e zucchero e bevvi un sorso.

— Mi ha interessata — disse. — Dica tutto.

— D’accordo. Mi è stato riferito che lo strumento telefattore noto come il Boia, probabilmente dotato di un’intelligenza artificiale, è ritornato sulla Terra…

— Per ipotesi — disse lei. — A meno che non sappia qualcosa più di me. Mi è stato detto che il velivolo del Boia è rientrato, e che si è schiantato nel Golfo. Non ci sono prove del fatto che fosse occupato.

— Sembra anche altrettanto ragionevole che il Boia abbia inviato il velivolo in un punto di rendez-vous molti anni fa e che esso l’abbia raggiunto solo adesso, dopo di che è entrato in azione il programma di rientro facendolo scendere.

— Perché avrebbe dovuto far rientrare il veicolo e rimanersene lassù?

— Prima che le risponda — disse, — vorrei conoscere il motivo del suo interessamento. Giornali?

— No — dissi. — Sono uno scrittore di argomenti scientifici… tecnica, su un livello abbastanza divulgativo. Ma non sto cercando l’argomento per un articolo. Sto cercando le implicazioni psicologiche della cosa.

— Per chi?

— Un’agenzia privata di investigazioni. Vogliono sapere che cosa potrebbe influenzare i suoi processi di pensiero, come potrebbe probabilmente comportarsi… se è realmente tornato. Ho già svolto la maggior parte del lavoro, e quella che ho raccolto è una probabilità secondo cui la sua responsabilità nucleare era una sintesi delle menti dei quattro operatori. Così, i contatti personali sono stati una conseguenza abbastanza logica. Ora vorrei sentire la sua opinione sui modi in cui potrebbe agire. Sono venuto per prima cosa da lei per ovvi motivi.

Lei annuì.

— Un certo Mister Walsh mi ha parlato l’altro giorno. Lavora per il Senatore Brockden.

— Sì? Non mi interesso mai degli affari di chi mi paga, oltre a ciò che mi serve per il mio lavoro. Il Senatore Brockden è sul mio elenco, però, insieme ad un certo David Fentris.

— Sa già di Manny Burns?

— Sì. Una disgrazia?

— È evidentemente la cosa che ha mandato in crisi Jesse. E… come potrei dire?… si sta aggrappando freneticamente alla vita, cerca di realizzare un gran numero di cose nel tempo che gli rimane. Ogni momento è prezioso, per lui. Sente che la morte gli alita sul collo… Poi è tornata la nave ed uno di noi è rimasto ucciso. Da quello che so del Boia, l’ultima volta che ne abbiamo avuto notizie, è diventato irrazionale. Jesse ha visto un collegamento, e nelle sue condizioni la paura è comprensibile.

— Ma lei non vede una minaccia?

— No. Sono stata l’ultima persona a programmare il Boia prima che le comunicazioni si interrompessero, ed ho potuto vedere che cosa accadde. So come hanno funzionato i suoi processi conoscitivi… Pensi ad un bambino che abbia imparato l’Indirizzo di Gettysburg. È lì nella sua testa, ed è tutto. Un giorno, però, l’informazione può rivelarsi importante per lui. Può perfino ispirare una sua azione. Adesso pensi ad un bambino del genere con un gran numero di schemi in conflitto, atteggiamenti, tendenze, ricordi, nessuno dei quali è particolarmente problematico fintanto che rimane un bambino. Aggiungiamo un po’ di maturità, però… e teniamo in mente che gli schemi originati da quattro individui diversi, tutti più potenti delle parole del più bello dei discorsi, avranno provocato chissà quanti conflitti interni, contraddizioni a non finire…

— Perché tutto questo non è stato previsto? — chiesi.

— Ah — disse, sorridendo. — Sulle prime non venne apprezzata in pieno tutta la sensibilità del cervello a neuristori. Si ipotizzò che gli operatori non facevano altro che aggiungere dati in maniera lineare, e che questo processo sarebbe continuato fino al raggiungimento dei una massa critica, corrispondente alla costituzione di un modello o quadro del mondo che sarebbe poi servito come punto di partenza per la crescita della mente del Boia. E tutto sembrava filare nel verso giusto.

— Ciò che avvenne in effetti, però, fu un fenomeno di impressione. Le caratteristiche secondarie delle menti degli operatori, al di fuori delle situazioni didattiche, si impressero anch’esse. Esse non divennero immediatamente funzionali, e quindi non vennero rilevate. Rimasero latenti fino a quando la mente non si fu sviluppata sufficentemente da comprenderle. E poi era troppo tardi. Improvvisamente acquisì quattro personalità addizionali, che non fu più capace di coordinare. Quando cercò di schematizzarle diventò schizoide; quando cercò di integrarle, divenne catatonico. Continuò ad oscillare avanti ed indietro tra queste alternative. Poi divenne silenzioso. Sentii che aveva raggiunto l’equivalente di una fase schizoide. Correnti selvagge attraverso quel materiale magnetico avevano, in effetti, cancellato la sua mente, provocando l’equivalente della morte o dell’idiozia.

— Riesco a seguirla — dissi. — Ora, solo per amore di discussione, consideriamo l’alternativa o di un’integrazione riuscita di tutto questo materiale, oppure il conseguimento di una schizofrenia vera e propria. Quale pensa che sarebbe il suo comportamento più probabile per ognuna di queste possibilità?

— D’accordo — convenne. — Come ho appena detto, però, penso che esistessero limitazioni fisiche alla sua possibilità di conservare strutture multiple di personalità per periodi di tempo molto lunghi. Se ciò fosse avvenuto, però, avrebbe continuato a vivere con la sua personalità come dominante, unita a una replica di quelle dei quattro operatori, per un certo periodo. La situazione si sarebbe presentata radicalmente diversa da quella di uno schizoide umano del genere analogo, per il fatto che le personalità addizionali sarebbero state immagini valide di identità genuine piuttosto che complessi autogenerati divenuti autonomi. Avrebbero potuto continuare ad evolversi, fino a degenerare, ed entrare in conflitto ad un punto di distruzione o di notevoli modifiche. In altre parole, non è possibile formulare predizioni sulla natura del risultato.

— Posso azzardarne una?

— Dica pure.

— Dopo notevoli ansietà, li padroneggia. Li congloba. Vince questo quartetto di demoni che l’hanno lacerato, acquisendo nel frattempo, nel processo, un odio totale per gli individui responsabili della sua sofferenza. Per liberarsi totalmente, per vendicarsi, per elaborare la sua catarsi ultima, decide di cercarli e distruggerli.

Lei sorrise.

— Ha un po’ aggirato l’argomento della schizofrenia effettiva; mi pare che il risultato da lei prospettato possieda una dose notevole di autonomia. La situazione comunque è diversa… indipendentemente dalle analisi dialettiche.

— D’accordo, accetto l’obiezione… ma per quanto riguarda le conclusioni?

— Mi sembra un tentativo rozzo di invocare lo spirito di Freud: Edipo ed Elettra nello stesso essere cosciente, alla ricerca della distruzione di tutti i genitori — gli autori di oggi, forma di tensione, ansietà, crisi nella sua psiche giovane ed impressionabile. Neanche Freud ha definito una situazione del genere. Lei saprebbe farlo?

— Complesso di Hermacis — suggerii.

— Hermacis?

— Ermafrodite unito in un sol corpo con la ninfa Salmacis. Ho fatto la stessa cosa con i loro nomi. La creatura risultante avrebbe allora quattro genitori contro cui reagire.

— Acuto — disse. — Se anche le armi classiche non servono ad altro, indubbiamente sono una fonte inesauribile di allegorie bellissime. Questa è però fin troppo apertamente antropomorfa, però. Lei voleva la mia opinione? Benissimo. Se il Boia ha attraversato tutte queste fasi, è stato solamente a causa delle differenze tra un cervello a base di neuristori ed uno umano. In base alla mia esperienza professionale, un essere umano non potrebbe conservare stabilità mentale in una situazione del genere. Se il Boia ci è riuscito, avrebbe dovuto risolvere tutte le contraddizioni ed i conflitti, padroneggiando e comprendendo la situazione nella sua interezza in modo tale, penso, che molto difficilmente avrebbe potuto rimanere una qualche forma di odio. La paura, l’insicurezza, le cose che alimentano l’odio sarebbero state analizzate, digerite, trasformate in qualcosa di più utile. Probabilmente ci sarebbe stato disgusto, e forse un atto di indipendenza, di affermazione di se stesso. Questo è uno dei motivi per cui potrebbe aver fatto ritornare la sua nave.

— È sua opinione, allora, che se il Boia esiste come individuo pensante oggi, questo è il solo atteggiamento che potrebbe avere nei confronti dei suoi ex operatori: quindi non vorrebbe avere più nulla a che fare con lei?

— Proprio così. Mi dispiace per il suo complesso di Hermacis. Ma in questo caso dobbiamo prendere in considerazione il cervello, non la psiche. E possiamo notare due cose: la schizofrenia l’avrebbe distrutto, ed una soluzione positiva dei suoi problemi avrebbe impedito la vendetta. In ogni modo, non c’è nulla di cui preoccuparsi.

Come potevo affrontare l’argomento con un certo tatto? Decisi che era impossibile.

— Tutto questo va benissimo — dissi — fino ad un certo punto. Ma tralasciando la dimensione puramente psicologica e quella puramente fisica, potrebbe esserci un motivo ben preciso per la sua ricerca della vostra morte… un motivo per l’omicidio, basato sui fatti piuttosto che sui modi di pensare?

La sua espressione era indecifrabile, ma indubbiamente da lei non mi ero aspettato niente di diverso.

— Quali fatti? — chiese.

— Non ne ho idea. Sono io a chiederlo.

Lei scosse la testa.

— Temo di non avere idee neanch’io.

— Allora è tutto — dissi. — Non riesco a pensare ad altre domande da farle.

Lei annuì.

— Neanch’io.

Finii il caffè, e posai la tazzina.

— Grazie, allora — dissi — per il suo tempo e per il caffè. Mi è stata di grande aiuto.

Mi alzai. Lei mi imitò.

— Cosa farà adesso? — chiese.

— Non ho ancora ben deciso — risposi. — Voglio fare il miglior rapporto possibile. Ha qualche suggerimento in proposito?

— Penso che non ci sia più nulla da suggerire, in quanto le ho dato la sola spiegazione plausibile dei fatti.

— Non pensa che David Fentris potrebbe fornirmi altri dati?

Lei sospirò.

— No — disse. — Non penso che potrebbe dirle altro di utile.

— Cosa intende dire? Dal modo in cui parla…

— Lo so. No, volevo dire che… alcuni trovano conforto nella religione. Altri… Sapete. Altri cercano una vendetta nella vita. Vedono tutto in funzione del loro modo di pensare.

— Fanatismo? — dissi.

— Non esattamente. Zelo mal collocato. Una cosa abbastanza simile al masochismo… Diavolo! Non dovrei formulare diagnosi a distanza… né influenzare la sua opinione. Dimentichi quello che ho detto. Si faccia una sua opinione quando lo incontrerà.

Alzò la testa, approvando la mia reazione.

— Bene — risposi io. — Non sono del tutto certo che lo vedrò. Ma mi ha reso curioso. Come può la religione influenzare l’ingegneria?

— Ho parlato con lui dopo che Jesse ci diede la notizia del ritorno della capsula. In quell’occasione ebbi l’impressione che pensasse che avevamo violato prerogative divine cercando di creare un’intelligenza artificiale. Il fatto che la nostra creazione fosse impazzita era solo logico, essendo prodotto di uomini imperfetti. Sembrava considerare giusto che essa fosse tornata indietro per vendicarsi, come un segno di giudizio su di noi.

— Oh — dissi.

Sorrise. La imitai.

— Sì — continuò — ma forse l’ho solo sentito in un momento in cui era di cattivo umore… Forse dovrebbe andare personalmente a trovarlo.

Qualcosa mi disse di scuotere la testa… c’era una differenza notevole tra questa visione, i miei ricordi, ed i commenti di Don secondo cui David aveva detto che conosceva il suo cervello e non ne era particolarmente interessato. In mezzo a questi dati c’era qualcosa che sentivo avrei dovuto sapere, senza però dare l’impressione di farlo.

Così dissi: — Penso di aver capito abbastanza la situazione, adesso. E la sua dimensione psicologica quella che sembra più importante, non la meccanica… o la teologica. Mi è stata di grandissimo aiuto. Ancora grazie.

Lei mi accompagnò sorridendo alla porta.

— Se non le crea problemi — disse, mentre uscivo. — Mi piacerebbe molto sapere come andrà a finire la questione… o qualsiasi sviluppo significativo.

— Il mio interesse per questo caso termina con questo rapporto, e andrò subito a scriverlo.

— Ha il mio numero…?

— Probabilmente, ma…

L’avevo già, ma lo scrissi di nuovo, appena dopo le risposte di Mrs. Gluntz sui detersivi.

Appena uscito mi diressi all’aeroporto, presi un volo per Memphis, su cui salii per ultimo essendo arrivato appena in tempo. Era il turno di David Fentris; purtroppo non potevo più fare a meno di evitarlo. Avevo una sensazione troppo intensa che Leila Thackery non mi avesse raccontato la storia intera. Dovevo controllare le conseguenze della situazione da vicino. Sentivo che la cosa poteva avere un’importanza vitale.

Appena sceso dall’aereo mi diressi subito all’ufficio di Dave.

Mentre mi avvicinavo, cominciò a cadere una pioggerella fastidiosa ed insistente che tentava inutilmente di ripulirne la facciata polverosa.

Nell’atrio il portinaio mi indicò la strada, l’ascensore mi fece salire, i miei piedi trovarono la strada per la porta dell’ufficio. Bussai. Dopo un attimo, ribussai di nuovo ed attesi. Ancora nulla. Cosi tentai di entrare, scoprii che la porta era aperta e lo feci.

Era un ingresso piccolo e deserto, dalle pareti verdi. La scrivania era polverosa. L’uomo che c’era seduto mi volgeva la schiena. Bussai di nuovo sulla scrivania. Mi sentì e si voltò.

— Sì?

I nostri occhi si incontrarono, ed i suoi mi scrutarono: lenti spesse e molto graduate li nascondevano.

La sua domanda riempì l’aria, e nulla dei suoi modi diede l’impressione che mi avesse riconosciuto.

— Mi chiamo Donne, John Donne — dissi. — Sto cercando David Fentris.

— Sono io.

— Felice di conoscerla — dissi, avvicinandomi a lui. — Sto collaborando ad un’inchiesta riguardante il progetto a cui lei un tempo ha lavorato.

Lui sorrise ed annuì, stringendomi la mano.

— Il Boia — dissi. — Sto scrivendo un rapporto…

— …E vuole la mia opinione sulla sua pericolosità. Si sieda. — Indicò una sedia di fianco alla scivania. — Vuole una tazza di tè?

— No grazie.

— Lo sto preparando.

— Be’, in tal caso…

— Non ho latte. Mi dispiace.

— Va benissimo… Come ha immaginato che riguardava il Boia? Lui si accigliò mentre mi porgeva la tazza.

— Perché è tornato — disse — ed è l’unico progetto a cui ho partecipato che possa interessare qualcuno.

— Le dispiace parlarmene?

— Fino ad un certo punto, no.

— Qual è il punto?

— Se ci avviciniamo troppo, glielo farò sapere.

— Benissimo… Fino a che punto è pericoloso?

— Direi che è del tutto innocuo — rispose — tranne per tre persone.

— Una volta quattro?

— Precisamente.

— Perché?

— Abbiamo fatto una cosa che non avevamo il diritto di fare.

— Che sarebbe?…

— Per dirne una, tentare di creare un’intelligenza artificiale.

— Perché, non avevate il diritto di farlo?

— Un uomo con un nome come il vostro non dovrebbe fare queste domande.

Ridacchiai.

— Se io fossi un predicatore — dissi, — sottolineerei che non esiste nessuna ingiunzione biblica in proposito… a meno che non l’abbiate adorato.

Lui scosse la testa.

Niente di così semplice, di così evidente, di così esplicito. I tempi sono cambiati da quando è stato scritto l’Antico Testamento, e non ci si può limitare ad un approccio esclusivamente fondamentalista in momenti così complessi. Quello a cui volevo arrivare è qualcosa di più astratto. Una forma di orgoglio… il tentativo di mettersi sullo stesso livello del Creatore.

— Lei sente un tale… orgoglio?

— Sì.

— È sicuro che non si sia trattato solo di un entusiasmo per un progetto ambizioso che stava andando bene?

— Oh, ce n’era in abbondanza. Una manifestazione della stessa cosa.

— Mi sembra di ricordare qualcosa sul fatto che gli uomini sono stati creati ad immagine e somiglianza del Creatore, e qualcos’altro sulla necessità di realizzare una tale somiglianza. Sembrerebbe derivarne che esercitare le proprie capacità lungo linee analoghe costituirebbe un passo nella direzione giusta… un atto di conformismo all’ideale divino, se preferisce.

— Ma non preferisco. L’uomo non può creare realmente. Può solo trasformare quanto già esiste. Solo Dio può creare.

— Allora non ha nulla da preoccuparsi.

Si accigliò. Poi: — No. Esserne consapevole e continuare a tentare è il punto in cui entra la presunzione.

— Pensavate davvero così quando lo progettavate? O tutto questo vi è venuto il mente dopo il fatto?

Continuò ad accigliarsi.

— Non ne sono sicuro.

— Allora mi sembrerebbe che un Dio pietoso sarebbe portato a concedervi per lo meno il beneficio del dubbio.

Mi sorrise ironico.

— Niente male, John Donne. Ma io sento che il giudizio può già essere stato pronunciato, e che possiamo aver perso la causa.

— Allora lei considera il Boia come un angelo vendicatore?

— A volte. Una cosa del genere. Penso che sia tornato per infliggere una pena.

— Solo per amor di discussione — suggerii — se il Boia avesse avuto pieno accesso alle attrezzature necessarie e fosse riuscito a costruire un’altra unità simile a se stesso, lo considerereste colpevole della vostra stessa colpa?

Lui scosse la testa.

— Non sia così acuto e gesuitico con me, Donne. Non sono troppo lontano dai fondamentalisti… Inoltre, sono disposto ad ammettere di avere torto e che possono esserci altre forze rivolte allo stesso fine.

— Tipo?

— Le ho detto che l’avrei avvertito quando avessimo raggiunto un certo punto. Eccolo.

— D’accordo — dissi. — Ma le persone per cui lavoro vorrebbero proteggerla. Vogliono fermare il Boia. Speravo che potesse dirmi qualcosa di più… se non per amor suo, per gli altri. Possono non condividere i suoi sentimenti filosofici, e ha appena ammesso di poter avere torto… La rassegnazione, incidentalmente, è considerata un peccato da un gran numero di teologi.

Sospirò e si stropicciò il naso come l’avevo visto fare moltissime volte in passato.

— Che cosa farà, ad ogni modo? — mi chiese.

— Io personalmente? Sono uno scrittore scientifico. Sto raccogliendo un rapporto sull’argomento per l’agenzia che vorrebbe proteggerla. Tanto più il mio rapporto sarà ben fatto, migliori le loro possibilità.

Rimase silenzioso per un po’, quindi: — Ho letto molto sull’argomento, ma non ricordo il suo nome — disse.

— La maggior parte del mio lavoro riguardava la petrochimica e la biologia marina.

— Oh… È stata una scelta un po’ particolare allora, vero?

— Non esattamente. Ero disponibile, ed il capo conosce il mio lavoro, sa che me la cavo bene.

Diede un’occhiata ad un angolo della stanza, dove una pila di schedari oscurava in parte un terminale del computer centrale. Benissimo. Se voleva controllare le mie credenziali in quel momento, John Donne si sarebbe dissolto. Sembrava un po’ troppo tardi per essere curioso, però, dopo avermi messo a parte del suo senso del peccato. Deve averlo pensato anche lui, però, perché non ci fece più caso.

— Mettiamola in questo modo… — disse infine, e qualcosa del vecchio David Fentris nella sua forma migliore prese controllo della voce. — Per un motivo o per l’altro, credo che voglia distruggere i suoi ex operatori. Se si tratta del giudizio dell’Onnipossente, non c’è altro da fare. Succederà. Se non è cosi, però, non voglio nessuna protezione esterna. Io mi sono pentito e voglio affrontare la situazione da solo. Fermerò personalmente il Boia… proprio qui… prima che venga fatto del male a qualcun altro.

— Come? — gli chiesi. Indicò l’elmetto scintillante.

— Con quello — disse.

— Come? — ripetei.

— I circuiti telefattori del Boia sono ancora intatti. Devono esserlo: ne sono una parte integrante. Non potrebbe distaccarli senza distruggersi. Se arriva ad un quarto di miglio da qui, quell’unità si attiverà. Emetterà un basso ronzio ed una luce comincerà ad ammiccare. Allora mi metterò l’elmetto, e prenderò il controllo del Boia. Lo porterò qui e disattiverò il suo cervello.

— Come farà a disattivarlo?

Prese gli schemi che stava consultando quando ero entrato.

— Qui. La lastra toracica deve essere rimossa. Qui ci sono le sottounità da dividere. Qui, qui, qui e qui.

Alzò gli occhi.

— Bisogna farlo con questa sequenza, però, o si arroventerebbe — dissi. — Prima questa, poi queste due. Poi l’altra.

Quando risollevai lo sguardo, i suoi occhi grigi fissavano i miei.

— Pensavo si interessasse di petrochimica e biologia marina.

— Non sono realmente specializzato in qualcosa — dissi. — Sono un divulgatore scientifico, con nozioni e conoscenze in tutti i campi… e ho visto parecchie volte questi schemi, quando ho accettato il lavoro.

— Capisco.

— Perché non coinvolge l’agenzia spaziale nella cosa? — dissi, tornando su di un terreno più sicuro. — L’equipaggiamento telefattore originario ha tutta la potenza e la portata…

— È stato smantellato da molto tempo… Pensavo che lei lavorasse per il governo.

Scossi la testa.

— Mi dispiace. No, volevo fuorviarla. Lavoro per un’agenzia di investigazioni private.

— Uh-huh. Allora significa Jesse… Non che importi. Può dirgli che in un modo o nell’altro tutto si risolverà.

— E se lei sbagliasse sul sovrannaturale — dissi — ma avesse ragione per tutto il resto? Ammettiamo che sia possibile resistergli. Ma se non fosse lei la sua prossima vittima? Supponendo che uccida qualcun altro, prima di lei? Se è così sensibile alla colpa ed al peccato, non pensa che sarebbe responsabile alla colpa ed al peccato, non pensa che sarebbe responsabile di tale morte… se potesse impedirla solo dicendomi qualcosa di più? Se è la confidenzialità quello di cui si preoccupa…

— No — disse. — Non può ingannarmi portandomi ad applicare i miei principi ad una situazione ipotetica che si svilupperà solo nel modo in cui lei vuole. Non se sono sicuro che non accadrà mai. Qualunque intento animi il Boia, lo porterà la prossima volta da me. Se non riuscirò a fermarlo; allora non potrà essere fermato fino a quando non avrà terminato il suo lavoro.

— Come fa a sapere di essere il prossimo?

— Dia un’occhiata alla cartina — disse. — È atterrato nel Golfo. Manny era proprio lì a New Orleans. Naturalmente, è stato il primo. Il Boia può spostarsi sott’acqua come una torpedine controllata, il che fa sì che il Mississippi sia la sede ideale per i suoi spostamenti. Seguendone il corso, eccomi qui a Memphis. Poi Leila, su a St. Louis, verrà ovviamente dopo di me. Dopo di che potrà andare a Washington.

Pensai al Senatore Brockden nel Wisconsin e decisi che non aveva problemi. Erano tutti facilmente accessibili, se si considerava la situazione nei termini di viaggi fluviali.

— Ma come fa a sapere dove siete? — chiesi.

— Ottima domanda — disse. — Nell’ambito di un raggio limitato, una volta era sensibile alle nostre onde cerebrali, le conosceva intimamente e riusciva a rilevarle. Non so quale sia attualmente la portata della sua sensibilità. Potrebbe aver costruito un amplificatore per estendere la sua area di percezioni. Ma per essere più concreti, credo che abbia semplicemente consultato il direttorio nazionale Centrale. Esistono terminali ovunque, anche in riva alle acque. Indubbiamente sapeva come farlo funzionare… e se la cava bene in ingegneria.

— Allora mi sembra che per voi la cosa migliore sarebbe allontanarvi dai fiumi fino a quando la faccenda non sarà risolta. Indubbiamente non potrà gironzolare troppo sulla terra ferma senza essere riconosciuto e fermato.

Scosse la testa.

— Troverebbe un sistema. È estremamente pieno di risorse. Di notte, con un soprabito, un cappello, potrebbe spostarsi. Potrebbe scavare una buca e nascondersi, rimanere sotto terra durante il giorno. Potrebbe correre senza riposo per tutta la notte. Non ha nessuna delle necessità fisiologiche umane. Non esiste un luogo che non potrebbe raggiungere in tempo sorprendentemente breve… No, devo aspettarlo qui.

— Lasci che esponga la cosa con la massima brutalità — dissi. — Se ha ragione e si tratta di un Angelo Vendicatore, direi che sia blasfemo cercare di ostacolarlo. D’altra parte, se non lo è allora penso che lei danneggi molto gli altri nascondendo informazioni che potrebbero permetter loro di fornirsi di una protezione un po’ migliore di quella che può dargli da solo.

Rise.

— Devo solo imparare a vivere anche con quella colpa, come loro fanno con le proprie — disse. — Quando avrò fatto del mio meglio, essi si meriteranno quello che avranno.

— Se ho ben capito — dissi — anche Dio non giudica le persone fino a quando sono morte… se vuole un altro pezzo di presunzione da aggiungere alla raccolta.

Smise di ridere e osservò la mia espressione.

— C’è qualcosa di familiare nel suo modo di parlare, nel modo di pensare — disse. — Ci siamo mai incontrati prima?

— Ne dubito. Me ne sarei ricordato.

Scosse la testa.

— Il suo modo di fare mi sembra lo stesso in qualche modo familiare — continuò. — Mi incuriosisce, signore.

— Era proprio la mia intenzione.

— Rimarrà qui in città?

— No.

— Mi dia un numero di telefono con cui io possa raggiungerla, vuole? Se mi verrà in mente qualcos’altro sull’argomento, le telefonerò.

— Vorrei che me ne parlasse adesso, se lo ritiene possibile.

— No, devo pensarci un po’. Dove posso trovarla?

Gli diedi il nome del motel in cui ero ancora alloggiato a St. Louis. Potevo telefonare periodicamente per sapere se c’erano messaggi.

— Benissimo — disse, e mi accompagnò verso la porta. Mi alzai e lo seguii, fermandomi sull’uscio.

— Una cosa… — dissi.

— Sì?

— Se compare e lo ferma, mi telefonerà per dirmelo?

— Certo. Lo farò.

— Grazie.

Poi… stavo per aggiungere altre domande, ma mi trattenni.

Non potevo insistere troppo con Dave, e Leila Thackery mi aveva detto tutto quello che poteva. Non c’era alcun motivo ancora per telefonare a Don… non fino a quando non avessi avuto qualcosa di più da riferirgli.

Ci pensai mentre tornavo all’aeroporto. Le ore che precedono la cena sono sempre le migliori per parlare a coloro che ricoprono in qualche modo cariche ufficiali, proprio come la notte è il momento ideale per pratiche illecite. Molto psicologico, ma non di meno vero. Odiavo l’idea di perdere il resto della giornata se c’era qualcun altro con cui valeva la pena di parlare prima di fare rapporto a Don.

Manny Burns aveva un fratello, Phil. Mi chiesi se valeva la pena di andarlo a trovare. Potevo arrivare a New Orleans ad un’ora sufficientemente rispettabile, sentire quello che aveva da dirmi, interpellare Don per i nuovi sviluppi, e poi decidere se c’era qualcosa da fare per quanto riguardava la capsula spaziale.

All’aeroporto, feci rapidamente il biglietto, appena in tempo per una coincidenza.

Mentre mi precipitavo per prendere l’aereo, i miei occhi si imbatterono in una figura abbastanza familiare sulla scala mobile che andava in direzione opposta alla mia. Il riflesso che agisce in tali occasioni sembrò entrare in funzione in entrambi, perché anche lui si voltò, con lo stesso aggrottar pensieroso di sopracciglia. Poi sparì dalla vista. Non riuscii a identificarlo, però. Il volto quasi familiare diventa un fenomeno comune in una società affollata ed in un continuo movimento. Penso talvolta che sia proprio ciò che in ultima analisi rimane di noi: schemi di lineamenti, alcuni un po’ più persistenti degli altri, impressi sullo scorrere dei volti. Un ragazzo di provincia in una grande città. Thomas Wolfe molto tempo fa deve aver sentito le stesse cose quando coniò il termine «calore umano». Poteva trattarsi di qualcuno che avevo conosciuto superficialmente, o più semplicemente di qualcuno che assomigliava a un tizio… che avevo incontrato varie volte in situazioni analoghe.

Mentre mi allontanavo in volo da Memphis, riflettei sulla nozione di intelligenza artificiale, o AI come era stata siglata. Quando si parlava di computer, la nozione AI era sempre sembrata più scottante di quanto pensassi, in parte per motivi semantici. Il termine «intelligenza» possiede moltissime implicazioni di tipo non-fisico. Credo che ciò sia da attribuirsi al latto che le prime discussioni e congetture riguardanti l’argomento avevano dato l’impressione che le potenzialità per l’intelligenza fossero sempre presenti nei dispositivi cibernetici e che le procedure esatte, i programmi corretti, dovevano solo essere identificati. Se si considerava la cosa sotto questo punto di vista, sorgeva un inevitabile déja vu… cioè, il vitalismo. Le battaglie filosofiche del diciannovesimo secolo che avevano toccato questo problema non erano mai state completamente dimenticate, e le dottrine che sostenevano che la vita è provocata e sostenuta da un principio vitale diverso delle forze fisiche e chimiche, e che la vita si autosostiene e si autoevolve, avevano combattuto aspramente prima che Darwin ed i suoi successori fornissero un trionfo dopo l’altro per la visione meccanicistica. Poi il vitalismo aveva ripreso inaspettatamente forza quando era sorta la discussione sull’Ai nella metà del secolo scorso. Sembrava che Dave se ne fosse lasciato trascinare, e che fosse giunto a credere di aver contribuito alla creazione di una capsula non soddisfatta, riempiendola poi di una cosa che si considerava riservata all’interprete della scena del primo capitolo della Genesi…

Con i computer le cose non andavano male come con il Boia, però, perché era sempre possibile sostenere che indipendentemente dall’elaborazione del programma, si trattava fondamentalmente di un’estensione della volontà del programmatore, e che le operazioni delle macchine casuali rappresentavano semplicemente funzioni dell’intelligenza, piuttosto che un’intelligenza autonoma sostenuta da una volontà indipendente. E c’era pur sempre Godel per un cordon sanitaire teorico, con la sua dimostrazione della proposizione vera ma meccanicamente indimostrabile.

Ma il Boia era abbastanza diverso. Era stato progettato secondo le linee generali di un cervello, ed, almeno in parte, educato secondo sistemi umani; e per ingarbugliare ulteriormente la situazione per quanto riguardava il vitalismo, era stato in contatto diretto con menti umane da cui poteva aver acquisito praticamente tutto; compresa la scintilla che l’aveva messo sulla strada di quell’indipendenza che poteva aver conquistato in seguito. Che cosa diventava? Una creazione autonoma? Uno specchio rotto che rifletteva un’umanità frustrata? Entrambe le cose? O nessuna delle due? Certamente non ero in grado di dirlo, ma mi chiedevo fino a che punto la sua personalità appartenesse proprio a lui. Aveva evidentemente acquisito un gran numero di funzioni, ma era in grado di avere veri sentimenti? Poteva, per esempio, provare qualcosa di simile all’amore? In caso contrario, allora, si trattava solo di una sintesi di facoltà complesse, e non di una cosa che possedesse tutti i collegamenti impliciti di tipo nonfisico che rendevano pregnante il termine «intelligenza» nelle discussioni sull’Ai; e se fosse stato capace di provare qualcosa di, diciamo, simile all’amore, e se io fossi stato in Dave, non mi sarei mai sentito in colpa per il fatto di aver contribuito a tale creazione. Me ne sarei sentito orgoglioso, anche se non nel modo che lo preoccupava, come al tempo stesso, anche umile… D’altra parte, però non so fino a che punto mi sarei sentito intelligente, perché non ho ancora capito con precisione cosa diavolo sia l’intelligenza.

Il cielo crepuscolare era limpido quando atterrammo. Giunsi in città prima che il tramonto si fosse spento, ed alla porta di Philip Burns pochi minuti dopo.

Mi venne ad aprire una bambina sui sette o otto anni. Mi fissò con i suoi grandi occhi castani senza dire una parola.

— Vorrei parlare con Mister Burns — dissi.

Si voltò e scomparve dietro un angolo.

Un uomo massiccio, vestito sommariamente e dalla carnagione molto chiara, apparve pochi momenti dopo nell’ingresso e mi squadrò.

— Che cosa desidera? — chiese.

— È per suo fratello — risposi.

— Ebbene?

— Be’, mi chiedo se potrei entrare? È una cosa abbastanza complicata.

Aprì la porta. Ma invece di farmi entrare, uscì.

— Parliamone qui fuori — disse.

— D’accordo, farò in fretta. Vorrei solo sapere se le ha mai parlato di uno strumento su cui ha lavorato una volta, il Boia.

— Lei è un poliziotto?

— No.

— Allora perché le interessa?

— Lavoro per un’agenzia di investigazioni private che cerca di rintracciare alcune attrezzature una volta collegate al progetto. La cosa è evidentemente avvenuta in questa zona, e potrebbe rivelarsi abbastanza pericolosa.

— Mi aiuti a riconoscerla.

— Non ho elementi per farlo.

— Come si chiama?

— John Donne.

— E pensa che mio fratello prima di morire abbia rubato delle strumentazioni? Lasci che le dica…

— No. Non rubate — dissi. — E non penso che le avesse lui.

— E allora?

— Era… be’, una questione di natura robotica. A causa di un qualche addestramento che una volta Manny ricevette, potrebbe aver avuto un modo per ritrovarla. Avrebbe potuto perfino attirarla. Vorrei solo sapere se ne ha mai parlato. Stiamo cercando di rintracciarla.

— Mio fratello era un uomo d’affari molto rispettabile, e le accuse non mi piacciono. Specialmente poco dopo il suo funerale, non mi piacciono proprio. Penso che adesso chiamerò i poliziotti e lascerò che loro vi facciano qualche domanda.

— Solo un momento. Supponiamo che io le dica che abbiamo qualche ragione per ritenere che proprio questa strumentazione sia stata la causa della morte di suo fratello.

Arrossì violentemente ed i muscoli della sua mascella si indurirono. Non ero preparato al torrente di contumelie che ne seguì. Per un attimo pensai che stesse per saltarmi addosso.

— Aspetti un momento — dissi quando si fermò per respirare. — Che cosa ho detto?

— O si prende gioco di un morto o è più stupido di quanto sembri a prima vista!

— Diciamo che sono stupido. Adesso mi spieghi il perché.

Aprì il foglio che teneva in mano, lo spiegò, trovò un articolo e me lo mostrò.

— Perché hanno preso l’assassino! Ecco perché — disse.

Lo lessi. Semplice, conciso, diretto. L’ultima edizione. Un indiziato aveva confessato. Nuove prove avevano confermato la sua confessione. L’uomo era detenuto. Un ladro sorpreso che aveva perso la testa ed aveva colpito con troppa forza, troppe volte. Rilessi più volte l’articolo.

Annuii restituendoglielo.

— Senta, mi dispiace — dissi. — Sinceramente non ne sapevo nulla.

— Se ne vada — disse.

— Certo.

— Aspetti un momento.

— Cosa?

— È la figlia di suo fratello quella che ha aperto? — chiesi. — Mi dispiace moltissimo.

— Anche a me. Ma so che suo papà non avrebbe mai preso i vostri maledetti strumenti.

Annuii e me ne andai.

Sentii la porta sbattere dietro di me.

Dopo cena, presi una stanza in un alberghetto.

Le cose erano improvvisamente diventate meno urgenti di quanto erano state fino a quel momento. Il Senatore Brockden sarebbe indubbiamente stato compiaciuto nel sapere che la sua stima iniziale dei fatti si era rivelata inesatta. Leila Thackery mi avrebbe rivolto un te-l’avevo-detto quando le avessi telefonato per dirle le novità, cosa che adesso mi sentivo obbligato a fare. Don avrebbe potuto decidere di interrompere o continuare le ricerche adesso che la minaccia si era attenuata. Sarebbe dipeso dai sentimenti del Senatore al riguardo, pensavo. Se l’urgenza non era più un argomento importante, Don avrebbe potuto decidere di continuare le ricerche da solo, riducendo drasticamente le spese. Mi sentivo di ottimo umore; mi ritrovai a fischiettare.

Più tardi composi il numero del motel di St. Louis dove avevo ancora recapito. Volevo sapere se c’era qualche messaggio da aggiungere al mio rapporto.

Sullo schermo comparve un volto di donna, sorridente. Mi chiesi se sorrideva sempre quando sentiva suonare un campanello, o se il riflesso si sarebbe estinto quando sarebbe andata in pensione.

— Airport Accomodations — disse. — In cosa posso servirla?

— Sono Donne. Sono registrato alla stanza 106 — dissi. — In questo momento sono fuori città. Ci sono dei messaggi per me?

— Aspetti un momento — disse, controllando qualcosa alla sua sinistra. Poi aggiunse: — Sì; ce n’è uno registrato. Ma è un po’ strano. È per qualcun altro, sotto la sua tutela.

— Sì? Di che si tratta?

Me lo lesse, e dovetti esercitare un forte autocontrollo.

— Capisco — dissi. — Grazie.

Lei sorrise di nuovo e mi salutò, dopo di che interruppe il collegamento.

Così Dave mi aveva letto dentro, dopo tutto… Chi altri avrebbe potuto avere quel numero ed il mio vero nome?

Bevvi una grande sorsata di liquore, poi cercai sull’agenda il nome di Dave. Controllai il suo numero… ce n’erano due, in effetti… e tentai di entrare in contatto con lui. Non ebbi fortuna.

D’accordo. Addio New Orleans, addio pace interiore. Questa volta chiamai l’aereoporto e feci una prenotazione. Poi terminai il liquore, mi sistemai, raccolsi la mia roba, e provai di nuovo.

Durante il volo di quel giorno avevo passato molto tempo a pensare a Teilhard de Chardin ed alle sue idee sulla continuità dell’evoluzione all’interno del regno dei manufatti, controbilanciandolo con Godei sulla teoria meccanica immaginando giochi epistemologici con il Boia, speculando, riflettendo, anche sperando che la verità stesse dalla parte del più nobile: che il Boia, senziente, fosse tornato, sano; che l’assassinio di Burns era stato qualcosa di completamente diverso e non dipendente dal Boia, un trionfo, un nuovo anello nella catena dell’esistenza… E Leila non era stata troppo scoraggiante per quanto riguardava le capacità del cervello a neuristori… Adesso, però, adesso che avevo problemi personali, anche la più toccante visione filosofica passava in secondo piano.

In conseguenza, il Boia era messo da parte e il torrente dei miei pensieri riguardava, principalmente, me stesso. C’era, naturalmente, la possibilità che il Boia fosse comparso realmente, che Dave l’avesse fermato e che poi avesse chiamato per fare rapporto come aveva promesso. Però, aveva usato il mio nome.

Non potevo fare molti progetti fino a quando, non avessi ricevuto la sostanza del suo messaggio. Non sembrava che un uomo dichiaratamente religoso come Dave si potesse improvvisamente dedicare a cose del genere. Daltra parte, era una creatura dagli entusiasmi improvvisi, ed aveva già avuto una conversione imprevedibile. Era difficile dirlo… La sua preparazione tecnica unita alle sue conoscenze sulla Banca dei Dati lo mettevano in una posizione insolitamente forte, se mai avesse deciso di ricattarmi.


Premetti il pulsante.

Il nastro cominciò a scorrere. Lo schermo rimase bianco. Percepii la voce di Dave chiedere di John Donne della stanza 106 e lo sentii dire che voleva registrare un messaggio, per qualcun altro, in tutela di Donne, che Donne avrebbe compreso. La ragazza gli chiese se voleva attivare anche lo schermo. Lui le disse di accenderlo. Seguì una pausa. Poi lei gli chiese di continuare. Ancora niente immagini. E nemmeno parole. La sua respirazione, ed un leggero ronzio. Dieci secondi. Quindici…

— … preso — disse infine, e citò il mio nome. — … Devo farti sapere che lo immaginavo, però… Non è stato per qualche manierismo particolare… Nessuna singola frase… solo lo stile generale… pensare, parlare… l’elettronica… tutto quanto… quando sono rimasto sempre più colpito dalla familiarità… dopo le domande di controllo sulla petrochimica… e la biologia marina… Vorrei sapere dove sei stato in realtà in tutti questi anni… Non so proprio immaginarlo. Ma ti volevo… far sapere… che non mi hai… ingannato.

— Seguì un altro quarto di minuto di respirazione pesante, alternata da una tosse rauca.

— … Detto troppo… troppo velocemente… troppo presto… Tutto esaurito…

Il quadro a quel punto si completò. Era accasciato davanti allo schermo, con la testa appoggiata sulle braccia, circondato dal sangue. I suoi occhiali erano in frantumi, stava ammiccando e strizzando gli occhi. C’era un taglio sulla guancia sinistra ed un altro sulla fronte.

— … raggiunto… mentre stavo controllandoti… — riusci a dire. — Devo dirti quello che ho scoperto… Non so ancora… chi di noi abbia ragione… Prega per me!

Le sue braccia ricaddero, il destro scivolò in avanti. La testa girò a destra e l’immagine scomparve. Quando ritornò, vidi che il capo era completamente ricaduto.

Poi cancellai la registrazione. Era stata impressa solo poco più di un’ora dopo che l’avevo lasciato. Se non aveva ancora fatto una telefonata in cerca di aiuto, se nessuno l’aveva trovato abbastanza velocemente, le sue possibilità non erano troppo buone. Anche se l’avessero trovato, però…

Usai un telefono pubblico per chiamare il numero che mi aveva dato Don, lo trovai quasi subito, gli dissi che Dave era in pessima forma per non dire di peggio, che era necessaria una squadra di medici di Memphis se non era ancora intervenuta, e che speravo di richiamarlo e di salutarlo con più calma.

Poi provai a chiamare il numero di Leila Thackery. Lasciai squillare il telefono a lungo, ma non rispose nessuno. Mi chiesi quanto tempo avrebbe impiegato una torpedine controllata a risalire il Mississippi da Memphis a St. Louis.

Giunto al suo appartamento, cercai di chiamarla dal citofono. Di nuovo nessuna risposta. Così chiamai Mrs. Gluntz. Era sembrata la più amichevole delle tre intervistate per la mia indagine simulata sui consumi.

— Si.

— Sono di nuovo io, Mrs. Gluntz: Stephen Foster. Ho ancora un paio di domande da fare per la mia inchiesta, se potesse concedermi qualche minuto.

— D’accordo — disse. — Benissimo. Salga.

La porta si aprì ed entrai. Salii direttamente al quinto piano, inventando nel contempo le domande. Avevo progettato quella manovra il giorno precedente per prepararmi una facile via di ingresso, in caso di necessità impreviste. Per la maggior parte delle volte le mie precauzioni si rivelano superflue, ma in certi casi semplificano moltissimo le cose.

Cinque minuti ed una dozzina di domande dopo, ero ridisceso il secondo piano, e stavo suonando alla porta di Leila, aprendola poi con un paio di pezzetti di metallo il cui possesso è talvolta imbarazzante, se viene scoperto.

Mezzo minuto dopo, spalancai la porta e la richiusi dietro di me. Indossai un paio di guanti molto sottili che trovai arrotolati in un angolo di una tasca.

Lei giaceva sul pavimento, con il collo che formava un angolo molto innaturale. Una lampada era ancora accesa, anche se rovesciata su un fianco. La stanza in assoluto disordine, la roba sparsa un po’ dappertutto. Il cavo del telefono era stato strappato dal muro.

Un ronzio riempiva l’aria; ne cercai la fonte.

Vidi dove la piccola luce ammiccante si rifletteva sul muro, accesa… spenta… accesa… spenta…

Mi mossi rapidamente.

Era un caschetto di metallo, quarzo, porcellana, e vetro, rotolato su un angolo della sedia su cui mi ero seduto qualche ora prima. Lo stesso aggeggio che avevo visto da Dave non molto tempo prima, anche se ora mi sembrava fossero passati secoli. Uno strumento per rilevare la vicinanza del Boia. E, si sperava, per controllarlo.

Lo presi e me lo adattai in testa.

Una volta, con l’aiuto di un telepate, avevo sfiorato la mente di un delfino mentre componeva canzoni oniriche da qualche parte nei Caraibi, esperienza talmente toccante che il suo stesso ricordo mi era spesso stato di grande conforto. Questa sensazione non era molto simile.

Analogie ed impressioni: un volto visto attraverso un vetro appannato; un sussurro in un luogo rumoroso; un massaggio cranico con un vibratore elettrico; The Scream di Edvard Munch; la voce di Yma Sumach, che saliva sempre più di tono; la scomparsa della nave; una strada deserta, illuminata come attraverso un caleidoscopio che avevo visto una volta; un’immensa sensazione di possanza fisica, composta da una consapevolezza estremamente lucida di forza enorme; una raggerà particolare di canali sensoriali, un sole centrale imperituro che mi alimentava di un flusso energetico costante, una visione mnemonica di acque oscure, fluenti, luminose, la necessità di tornare in quel posto, riorientarsi, trasferirsi verso nord; Munch e Sumac, Munch e Sumac, Munch e Sumac… Nulla.

Silenzio.

Il ronzio era terminato, la luce si era spenta. L’intera esperienza era durata solo pochi attimi. Non c’era stato tempo sufficiente per tentare una qualsiasi forma di controllo, anche se un’impressione residua affine al biofeeback mi lasciava intravvedere la direzione da prendere, il modo in cui pensare, per raggiungerlo. Sentivo che per me poteva essere possibile elaborare la cosa, avendo una possibilità migliore.

Togliendomi l’elmetto, mi avvicinai a Leila.

Mi inginocchiai accanto a lei e feci alcune prove elementari, pur conoscendone già il risultato. In aggiunta al collo spezzato, aveva ricevuto alcuni brutti colpi sulla testa e sulle spalle. Non c’era più nulla da fare per lei, ormai.

Effettuai allora un veloce controllo del suo appartamento. Non c’erano segni evidenti di scasso ed ingresso violento, anche se chiunque volendo, avrebbe potuto entrare con la mia stessa velocità.

Trovai della carta ed un cordino e nascosi l’elmetto in un pacco. Era giunto il momento di richiamare Don, di dirgli che la capsula era stata davvero occupata e che il traffico fluviale era probabilmente difficoltoso nel settore diretto verso Nord.


Don mi disse di portare l’elmetto nel Wisconsin, dove all’aeroporto mi sarebbe venuto incontro un uomo di nome Larry, che mi avrebbe condotto in un luogo riservato. Eseguii, e tutto avvenne regolarmente.

Appresi anche, senza restare particolarmente sorpreso, che David Fentris era morto.

La temperatura era scesa, e cominciò a nevicare lungo il percorso. Non ero vestito adeguatamente per l’inverno. Larry mi disse che potevo trovare degli abiti più caldi quando avessimo raggiunto il rifugio, anche se probabilmente non avrei avuto bisogno di stare molto fuori. Don aveva detto loro che avrei dovuto rimanere il più vicino possibile al Senatore e che le truppe le avrebbero comandate loro quattro.

Larry era curioso di sapere che cosa era accaduto in realtà fino a quel momento, e se io avessi visto effettivamente il Boia. Non pensai che spettasse a me informarlo su cose che Don non gli aveva detto, così fui un po’ confuso. Non parlammo molto, dopo quel momento.

Bert ci venne incontro appena atterrammo. Tom e Clay erano all’esterno dell’edificio, e controllavano le zone circostanti. Erano tutti di mezza età, e dall’aspetto molto efficiente, molto serio, ed armati di tutto punto. Larry mi portò dentro e mi presentò all’anziano gentiluomo.

Il Senatore Brockden era seduto su di una sedia imponente nell’angolo opposto della stanza. A giudicare dall’aspetto sembrava che la sedia avesse occupato di recente una posizione accanto alla finestra nella parete opposta dove un vaso pieno di fiori gialli si stagliava solitario. Il Senatore mi osservò e mi squadrò con estrema attenzione. Mentre ci avvicinavamo il suo volto rimase perfettamente impassibile. I suoi occhi erano pallidi e cerchiati.

Non si alzò.

— Così è lei — disse, porgendomi la mano. — Sono felice di conoscerla. Come devo chiamarla?

— John andrà benissimo — dissi.

Fece un piccolo cenno a Larry che uscì dalla stanza.

— Fa freddo là fuori. Si versi da bere, John. È sullo scaffale. — Indicò un punto alla sua sinistra. — E già che c’è mi porti un bicchiere. Due dita di bourbon in un bicchier d’acqua. È tutto.

Annuii e feci come mi aveva detto.

— Si sieda. — Indicò una sedia vicina mentre mi riavvicinavo alla sua. — Ma prima mi faccia vedere l’aggeggio che ha portato.

Disfeci il pacco e gli porsi l’elmetto con entrambe le mani. Lo studiò, aggrottando le sopracciglia, girandolo da tutte le parti. Lo alzò e se lo mise in testa.

— Niente male — disse, e poi sorrise per la prima volta, diventando per un momento il volto che avevo conosciuto dai notiziari in passato.

Si tolse l’elmetto e lo posò sul pavimento.

— Veramente niente male — disse. — Niente a che vedere con gli strumenti dei vecchi tempi. Ma poi David Fentris l’ha costruito. Sì, ce ne ha parlato… — Prese il bicchiere e bevve una sorsata. — Lei è il solo che è riuscito a servirsene, evidentemente. Cosa ne pensa? Servirà a qualcosa?

— Sono rimasto in contatto soltanto per un paio di secondi, così ho ricevuto solo la sensazione di continuare, niente più di una traccia. Ma, sì, ho avuto la sensazione che se avessi avuto più tempo sarei riuscito a modificare i suoi circuiti.

— Dica, perché non è riuscito a salvare Dave.

— Nel messaggio che mi ha lasciato, ha indicato il fatto di essere stato distratto alla sua stazione di accesso al computer. Probabilmente il rumore ha coperto il ronzio.

— Perché questo messaggio non è stato conservato?

— L’ho cancellato per ragioni non connesse al caso.

— Che ragioni?

— Mie personali.

Il suo volto si indurì leggermente.

— Ci si può cacciare in un mucchio di guai sopprimendo le prove, ostacolando la giustizia.

— Allora abbiamo qualcosa in comune, non è vero signore?

I suoi occhi si fissarono nei miei con un’espressione che in precedenza avevo incontrato solo in chi ce l’aveva a morte con me. Mantenne fisso lo sguardo per qualche secondo, poi lo abbassò e sembrò rilassarsi.

— Don ha detto che ci sono molti punti su cui non vuole essere interrogato — disse infine.

— È verissimo.

— Non ha tradito nessuna confidenza, ma ha dovuto dirmi qualcosa su di lei.

— Immagino.

— Sembra che abbia un’enorme stima di lei. Eppure, ho cercato di fare qualche piccola indagine personale sul suo conto.

— E…?

— Non potrei… e le mie fonti sono ottime in quel genere di cose.

— E allora…?

— E allora, ho fatto alcune riflessioni, alcune speculazioni… Il fatto che le mie fonti non abbiano trovato nulla è interessante di per sé. Probabilmente è anche molto rivelatore. Mi trovo in una posizione particolarmente favorevole per prendere coscienza del fatto che non c’è stata un’aderenza perfetta agli statuti delle registrazioni qualche anno fa. Non c’è voluto molto tempo per la maggior parte delle persone implicate (direi, anche meglio, «quasi tutti») per dimostrare che la loro esistenza è stata realmente registrata. E c’erano tre grandi categorie: quelli che ignoravano, quelli che disapprovavano e quelli che si sentivano attratti da una vita illecita. Io non sto tentando di giudicarla o classificarla. Ma so che esiste un certo numero di non individui che passano nella società senza gettare ombre, e mi è venuto in mente che lei potrebbe essere uno di loro.

Assaggiai il mio liquore.

— E se fosse? — chiesi.

Mi sorrise per la seconda volta, senza dire una parola. Mi alzai ed attraversai la stanza diretto verso il punto in cui stimavo dovesse essere stata la sua sedia.

— Non penso che potrebbe reggere ad un’inchiesta — disse.

Non risposi.

— Non dice nulla?

— Che cosa vuole che dica?

— Potrebbe chiedermi che cosa ho intenzione di fare. Non tema, non voglio fare proprio niente. Così torni indietro e si sieda.

Annuii e mi sedetti.

— Sono qui per aiutarla, signore. Nessuna domanda. Questo era il contratto, se ho capito. Se ci fosse qualche cambiamento, mi piacerebbe saperlo subito.

Tamburellò sul bracciolo con le dita.

— Non ho intenzione di crearle delle difficoltà — disse. — Il fatto concreto è che ho bisogno di un uomo come lei, ed ero abbastanza sicuro che Don riuscisse a trovarlo. La sua insolita manovrabilità e la dichiarata conoscenza dei computer, insieme alla sua destrezza in certi campi, la rende l’uomo giusto. Ci sono molte domande che vorrei farle.

— Prosegua — dissi.

— Non ancora. In seguito, se ne avremo il tempo. Tutto questo sarà materiale prezioso per un rapporto che sto stendendo. Molto più materiale (per me, personalmente)… ci sono cose che io voglio dirle.

Mi accigliai.

— Nel corso degli anni — continuò — ho imparato che l’uomo migliore per mantenere un segreto è un individuo di cui si conoscono i segreti.

— Ha intenzione di confessare qualcosa? — chiesi.

— Non so se «intenzione» sia il termine esatto. Forse sì, forse no. In ogni modo, però, qualcuno tra coloro che lavorano per difendermi deve conoscere tutta la storia. Qualcun altro da qualche parte può aver bisogno di aiuto… e lei è l’individuo ideale per sentirmi.

— Posso assicurare — dissi — che è al sicuro con me come io lo sono con lei.

— Ha qualche idea sul motivo per cui questa faccenda mi preoccupa tanto?

— Sì — dissi.

— Sentiamo.

— Lei si è servito del Boia per eseguire qualche azione o serie di azioni… illegali, immorali, quello che preferisce. Non si tratta evidentemente di una faccenda di registrazioni. Solo lei ed il Boia ne sapete qualcosa. Sente che è stato sufficientemente vergognoso che quando quello strumento è riuscito ad apprezzare completamente la portata della cosa, ha avuto una crisi che può averlo portato alla decisione finale di punirla per il modo in cui se n’è servito.

Abbassò gli occhi, fissando il bicchiere.

— Centrato — disse.

— Eravate tutti coinvolti?

— Sì, ma io sono stato l’operatore quando la cosa è successa. Capite… noi… io… ho ucciso un uomo. In effetti, è cominciato tutto come una celebrazione. Quel pomeriggio abbiamo ricevuto la notizia che il progetto si era chiarito. Tutto era in ordine e l’approvazione finale era pervenuta regolarmente. Il via era fissato per quel venerdì. Leila, Dave, Manny ed io… cenammo insieme. Eravamo di ottimo umore. Dopo cena, continuammo a festeggiare ed in qualche modo la festa si trasferì alle installazioni.

Con il passar delle ore, un numero sempre crescente di assurdità ci sembrarono sempre più normali, come capita talvolta. Decidemmo… non ricordo da chi partì l’idea… che anche il Boia avrebbe dovuto partecipare ai festeggiamenti. Dopo tutto, in realtà, la festa era dedicata a lui. Non passò molto tempo che l’idea ci sembrò splendida e stavamo discutendo come realizzarla… capisce, eravamo nel Texas ed il Boia era al Centro Spaziale in California. Riunirci a lui era fuori discussione. D’altra parte, la stazione di teleoperazioni era di fronte a noi. La decisone fu di attivarlo e fare i turni lavorando come operatori. C’era già una coscienza rudimentale allora, e sentimmo che era giusto entrare in contatto con lui per comunicargli la bella notizia. E lo facemmo.

Sospirò, bevve un’altra sorsata, mi fissò.

— Dave fu il primo operatore — continuò. — Fu lui ad attivare il Boia. Poi… Be’, come ho detto, eravamo tutti di ottimo umore. All’inizio non avevamo intenzione di allontanare il Boia dal laboratorio dove era situato, ma Dave decise di farlo uscire per qualche momento… per mostrargli il cielo e dirgli che stava per andarci, dopo tutto. Poi improvvisamente Dave si entusiasmò all’idea di giocare le guardie e il sistema di allarme. Era un gioco. Noi tutti lo continuammo. In effetti, non vedevamo l’ora che venisse il nostro turno. Ma Dave non mollava, e non ci passò i comandi fino a quando non ebbe portato il Boia fuori dal laboratorio, in una zona disabitata nei pressi del centro.

In quel momento Leila lo convinse di lasciarle il posto ai comandi. Lo scherzo era già stato giocato. Così lei ne elaborò uno nuovo: portò il Boia nella città vicina. Era tarda notte, e l’equipaggiamento sensorio era superbo. Era una sfida… attraversare la città senza farsi scoprire. A partire da quel momento, ognuno ebbe dei suggerimenti sul cosa fare in seguito, suggerimenti progressivamente più oltraggiosi. Poi Manny prese il controllo, e non volle dire che cosa stava facendo… non ci lasciò controllare. Disse che era una sorpresa per l’operatore seguente. Ora, lui era più euforico di tutti noi, e rimase per tanto tempo ai comandi che cominciammo ad innervosirci… Una certa quantità di tensione è in parte disintossicante e penso che cominciammo proprio allora tutti a pensare che stavamo facendo una cosa maledettamente stupida. Non per il fatto che potesse rovinarci la carriera (cosa più possibile) ma perché poteva mandare a monte l’intero progetto, se ci avessero colto a giocare con strumentazioni così costose. Per lo meno, io la pensavo così e pensai anche che Manny stava senza dubbio agendo sotto l’impulso molto umano di fare meglio degli altri.

Cominciai a sudare. All’improvviso volevo solo riportare indietro il Boia nel laboratorio, disattivarlo… era ancora possibile, prima che entrassero in funzione i circuiti finali… chiudere la stazione, e dimenticare tutta la storia. Cominciai ad avvicinarmi a Manny per cercare di indurlo a smettere ed a passarci il controllo. Infine accettò.

Finì di bere e posò il bicchiere.

— Me ne verserebbe un altro goccio?

— Volentieri.

Andai a versargli altro liquore, ne aggiunsi un po’ anche nel mio bicchiere, tornai alla sedia ed attesi.

— Così presi i comandi — disse. — Presi i comandi, e dove pensa che quell’idiota avesse lasciato il Boia? Era all’interno di un edificio, e non ci volle molto per accorgermi che si trattava di una banca. Il Boia è fornito di una gran quantità di strumenti, e Manny evidentemente era riuscito a fargli aprire la porta senza rovinare nulla. Era di fronte alla cassaforte principale. Ovviamente, pensava che quella fosse la mia sfida. Combattei il desiderio istintivo di voltarmi ed uscire sfondando il muro posteriore, per poi mettermi a correre furiosamente. Ma tornai alla porta e guardai fuori.

— Il Boia era ai miei ordini. Ero praticamente in lui. Non vidi nessuno. Cominciai ad uscire. La luce mi colpì mentre uscivo completamente. Era una torcia a pile. La guardia era rimasta fuori vista. Nell’altra mano aveva una pistola. Mi lasciai prendere dal panico. Lo colpii, riflesso condizionato. Se devo colpire qualcuno, lo colpisco con tutte le mie forze. Cominciai a correre e non mi fermai fino a quando non mi trovai di nuovo nella piccola zona di parcheggio vicino al Centro. Poi mi fermai e gli altri terminarono il rientro.

— Assistettero tutti? chiesi.

— Sì. Qualcuno azionò uno schermo laterale appena presi i comandi. Dave, penso.

— Cercarono in qualche modo di fermarla mentre fuggiva?

— No. Be’, non ero consapevole di altro, oltre a ciò che stavo facendo in quel momento. Ma in seguito dissero che erano troppo sconvolti per fare qualcosa oltre che assistere, fino a quando non cedetti i comandi.

— Capisco.

— Dave prese i comandi, iniziò l’ultima fase di rientro, riportò il Boia nel laboratorio, lo ripulì; lo disattivò. Chiudemmo la stazione operativa. Improvvisamente eravamo diventati tutti molto lucidi.

Sospirò e rimase silenzioso per un po’.

Poi aggiunse: — Lei è l’unica persona al mondo a cui ne ho parlato. Andammo poi a casa di Leila — continuò — ed il resto è abbastanza prevedibile. Non potevamo fare nulla per riportare indietro quel poveraccio, decidemmo, che se avessimo raccontato quello che era successo avremmo potuto distruggere un progetto molto costoso ed importante. Non eravamo criminali in cerca di riabilitazione. Si trattava di uno scherzo che si era concluso tragicamente. Cosa avrebbe fatto al posto nostro?

— Non lo so! Forse la stessa cosa. Anch’io sono passato attraverso simili esperienze.

Annuì.

— Esattamente. Ed ecco.

— Non tutto, vero?

— Cosa vuole dire?

— E il Boia? Ha detto che era già presente una forma rilevabile di coscienza. Voi ne eravate consapevoli, e lui era consapevole di voi. Deve esserci stata una qualche reazione a tutta la faccenda. Com’è stata?

— Accidenti a lei — disse con tono incolore.

— Mi dispiace.

— Ha famiglia? — chiese.

— No.

— Ha mai portato un bambino allo zoo?

— Sì.

— Allora forse conosce una tale esperienza. Un pomeriggio quando mio figlio aveva quattro anni lo portai allo zoo di Washington. Passando davanti ad ogni gabbia, di tanto in tanto formulava qualche apprezzamento, faceva qualche domanda, giocherellava con le scimmie, pensava che gli orsi fossero molto carini… probabilmente perché gli ricordavano dei giocattoli troppo cresciuti. Ma sapete qual è stata la cosa più bella? La cosa che lo fece sobbalzare e dire con entusiasmo: — Guarda, papà, guarda!

Scossi la testa.

— Un passero che stava svolazzando su un albero. Reazioni inadeguate. Innocenza. Il Boia era un bambino, e fino al momento in cui presi i comandi, la sola cosa che aveva tratto da noi era l’idea che si trattava di un gioco: stava giocando con noi, ecco tutto. Poi accadde qualcosa di orribile… Sentì tutte le mie reazioni, e tutte quelle di Dave mentre lo riportava indietro.

Rimanemmo per un po’ seduti in silenzio.

— Così, l’avevamo… traumatizzato — disse infine — o qualunque altro termine preferisce usare. Ecco cosa accadde quella notte. Ci volle un bel po’ perché la cosa facesse effetto, ma secondo me non c’è dubbio che questa sia la causa della crisi finale del Boia.

Annuii. — Capisco. E crede che voglia ucciderla per questo?

— Lei non lo farebbe? — disse. — Se avesse cominciato come una cosa e l’avessero reso un individuo e poi l’avessero usato di nuovo come una cosa, cosa avrebbe fatto?

— Leila ha tralasciato molti indizi nella sua diagnosi.

— No, ha semplicemente omesso questi fatti nel suo racconto. Era tutto previsto. Ma ha letto erroneamente i dati. Non aveva paura. Era solo un gioco che aveva condiviso… con gli altri. I suoi ricordi di quella sera potevano non essere troppo vivi. Ero io quello che aveva vissuto la cosa con maggior intensità. Secondo me, Leila avrebbe scommesso che io fossi il solo ad essere in causa. Ovviamente, ha sbagliato tutto.

— Quello che non capisco — dissi — è perché le uccisioni del Boia non l’abbiano preoccupata minimamente. Non c’era possibilità di stabilire subito che si era trattato di un ladro colto dal panico invece che del Boia.

— La sola cosa che posso dire è che, essendo una donna molto orgogliosa — com’era realmente — voleva sostenere la sua diagnosi anche contro ogni evidenza.

— Non mi piace. Ma lei la conosceva ed io no, e le cose dimostrano che la sua prima stima era corretta. Qualcos’altro mi preoccupa altrettanto, però: l’elmetto. Sembra che il Boia abbia ucciso Dave, poi si sia preso la briga di portare l’elmetto nel suo appartamento impermeabilizzato fino a St. Louis, per poi lasciarlo sulla scena del suo delitto successivo. La cosa non ha alcun senso.

— In realtà sì — disse. — Stavo per arrivarci, ma adesso è meglio chiarire questo punto. Vede, il Boia non possiede meccanismi vocali. Comunicavamo solo per mezzo di quegli strumenti. Don dice che lei si intende un po’ di elettronica…

— Esatto.

— Be’, per dirla breve, voglio che cominci a controllare l’elmetto per vedere se è stato modificato.

— Sarà una cosa abbastanza difficile — dissi. — Non so com’era fatto in origine, e non sono un genio teorico a tal punto da guardare uno strumento e dire se funzionerà come unità teleoperatrice.

Si morsicò il labbro inferiore.

— Deve tentare, in ogni modo. Possono esserci segni fisici… graffi, rotture, nuovi collegamenti… non lo so. È il suo campo. Li cerchi.

«Penso che il Boia volesse parlare a Leila — disse — o perché lei era una psichiatra e lui sapeva di non funzionare correttamente ad un livello che trascendeva quello meccanico, o perché poteva pensare a lei in termini di madre. Dopo tutto, era l’unica donna coinvolta, e lui aveva il concetto di madre — con tutte le associazioni gratificanti del caso — tratto da tutte le nostre menti. O forse per entrambi i motivi. Sento che forse ha perso l’elmetto proprio per questo motivo. Deve aver capito che cos’era da una lettura diretta del cervello di Dave quando quest’ultimo lo portava. Voglio che controlli, perché è possibile che il Boia abbia isolato i circuiti di controllo lasciando intatti quelli comunicazione. Penso che potrebbe aver portato l’elmetto a Leila in tali condizioni, tentando poi di indurla ad indossarlo. Lei si è spaventata… ha cercato di fuggire, ha lottato, o ha chiesto aiuto… e lui l’ha uccisa. L’elmetto non gli serviva più, così l’ha lasciato e se ne è andato.

Ci pensai ed annuii di nuovo.

— D’accordo, posso controllare se ci sono interruzioni nei circuiti — risposi. — Se mi dice dove posso trovare le attrezzature di controllo, è meglio che lo faccia subito.

Indicò un punto della stanza con la mano sinistra.

— In seguito, ho scoperto l’identità della guardia — continuò. — Contribuimmo tutti ad un dono anonimo alla vedova. Ho fatto il possibile per la sua famiglia, prendendomi cura di loro, fin da allora…

Non lo guardai mentre continuava a parlare.

— … non potevo fare nient’altro — finì.

Rimasi in silenzio.

Finì di bere e sorrise debolmente.

— La cucina è là in fondo — mi disse, indicandola. — Dentro c’è uno stanzino da lavoro. Gli strumenti sono là.

— D’accordo.

Mi alzai in piedi. Presi l’elmetto e mi diressi verso la porta.

— Aspetti un attimo! — disse.

Mi fermai.

— Perché è andato in quel punto prima? Cosa l’attrae in quella zona della stanza?

— Cosa intende dire?

— Lo sa benissimo.

Mi strinsi nelle spalle.

— È un punto come un altro.

— Dava l’impressione di avere motivi molto più importanti. Guardai il muro.

— Non in quel momento — dissi.

— Insisto.

— In realtà non vuole saperlo — dissi.

— Lo voglio.

— Benissimo. Volevo vedere che tipo di fiori preferisce. Dopo tutto, lei è un cliente — e attraversai la cucina diretto allo stanzino per mettermi al lavoro.


Sedevo in una sedia disposta di fianco al tavolo, di fronte alla porta. Nella stanza principale i soli rumori provenivano dai ceppi che ardevano sul caminetto.

Solo un bianco gelido che cadeva fuori dalle finestre… nessun altro rumore nella zona.

Grossi fiocchi bianchi nella notte silenziosa, priva di vento…

Dal mio arrivo era passato molto tempo. Il Senatore era rimasto a lungo a parlare con me. Era deluso dal fatto che non potessi dirgli troppo su una sottocultura non individuale della cui esistenza era convinto. A dire il vero non ne ero sicuro, anche se avevo incontrato occasionalmente quelli che avrebbero potuto essere come me. Non sono un tipo particolarmente socievole, però, e non avevo intenzione di riportare le mie supposizioni in merito. Fornii la mia opinione sulla Banca Centrale dei Dati quando mi venne chiesta, e c’erano cose che non gli piacquero. Mi aveva accusato, allora, di volermi distruggere senza offrire nessuna valida soluzione alternativa.

La mia mente era tornata indietro, attraverso il tempo e la stanchezza e i volti e la neve e molto spazio, alla sera precedente a Baltimora. Quanto tempo prima? La cosa mi faceva pensare a The Cult of Hope di Mencken. Non potevo dargli le risposte complete, le alternative valide che voleva, perché potevano anche non esistere. La funzione della critica non deve essere confusa con quella della riforma. Dopo lunghe discussioni, si ritirò per la notte. Se aveva pensato che non sarei stato in grado di scoprire nulla di sbagliato nell’elmetto, non lo lasciò trapelare.

Così sedetti, con l’elmetto, il radiotelefono, e la pistola posati sul tavolo, gli strumenti di lavoro sul pavimento accanto alla sedia, il guanto nero sulla mano sinistra.

Il Boia stava arrivando. Non avevo dubbi.

Bert, Larry, Tom, Clay, l’elmetto potevano riuscire o meno a fermarlo. Nella faccenda c’era qualcosa che mi preoccupava; ma ero troppo stanco per pensare a qualcosa di diverso dalla situazione immediata, per cercare di rimanere lucido durante l’attesa. Avevo paura di prendere uno stimolante o bere qualcosa o accendere una sigaretta, dato che il mio sistema nervoso doveva costituire una parte dell’arma. Rimasi a fissare i grossi fiocchi che scendevano.

Chiamai Bert e Larry quando sentii il click. Presi l’elmetto e mi alzai in piedi mentre la luce cominciava ad ammiccare.

Ma era già troppo tardi.

Mentre afferravo l’elmetto, sentii uno sparo provenire dall’esterno, e con esso avvertii una premonizione di sciagura. Non erano uomini che aprivano il fuoco senza avere un bersaglio preciso.

Dave mi aveva detto che la portata dell’elmetto era di circa un quarto di miglio. Poi, dato il divario di tempo tra l’attivazione dell’elmetto e la visualizzazione del Boia da parte delle guardie circostanti, il Boia doveva muoversi con grande velocità. A questo bisognava aggiungere la possibilità che la portata del Boia nei confronti delle onde cerebrali fosse maggiore di quella esercitata dall’elmetto su di lui. E poi ammettere la possibilità che si fosse servito di questo fattore mentre il senatore Brockden era ancora sveglio, in preoccupazioni. Conclusione: il Boia poteva benissimo sapere che io ero in quel luogo con l’elmetto, rendendosi conto che ero l’arma più pericolosa per lui. Quindi doveva venire a neutralizzarmi prima che riuscissi ad attivare il meccanismo.

Lo infilai in testa e cercai di concentrarmi al massimo di me stesso.

Ancora una volta mi sommerse la sensazione di visualizzare il mondo attraverso un caleidoscopio, con tutte le sensazioni concomitanti. Tranne per il fatto che il mondo consisteva nella facciata della casa: Bert, davanti alla porta, con il fucile imbracciato; Larry sulla sinistra, con il braccio già ricaduto appena dopo aver lanciato una granata. La granata, comprendemmo subito, era già stata neutralizzata dagli strumenti del Boia.

Bert fece fuoco; il colpo ci fece temporaneamente barcollare. Il terzo colpo ci mancò per pura fortuna. Non ci fu un quarto colpo, perché gli strappammo il fucile di mano e lo gettammo da parte mentre passavamo, sfondando la porta principale.

Il Boia entrò nella stanza passando sulla porta abbattuta.

La mia mente era piena al massimo della visione di quel corpo metallico che avanzava e dell’immagine rannicchiata di me stesso… con la mano sinistra allungata, la pistola laser nella destra, con il braccio stretto al fianco. Ebbi ancora la strana sensazione di forza, e cercai di controllarla come se mi appartenesse, per fermarla, mentre l’immagine di me stesso mi appariva immobile stagliata contro la finestra…

Il Boia rallentò, incespicò. L’inerzia non può essere cancellata in un attimo, ma sentivo che le reazioni fisiche si attenuavano. L’avevo agganciato. Dovevo solo tenerlo.

Poi venne l’esplosione… Un’eruzione tonante, che scuoteva il terreno appena fuori, seguita da una pioggia di detriti. La granata, naturalmente.

In quel momento, il Boia si riprese e mi fu addosso. Io azionai il laser spinto da puro istinto di conservazione, prevenendo ogni tentativo di riprendere il controllo dei suoi circuiti. Con la mano sinistra cercai di colpire la sua sezione mediana, dove era alloggiato il gruppo cerebrale.

Lui bloccò la mia mano con il braccio e mi tolse di testa l’elmetto. Poi mi strappò di mano la pistola che era diventata rovente, la fracassò, e la buttò a terra. In quel momento, sobbalzò per l’impatto di due proiettili di grosso calibro. Bert, dopo aver ripreso il fucile, era dietro di lui.

Il Boia fece perno su se stesso e si allontanò prima che riuscissi a colpirlo ancora.

Bert lo colpì ancora una volta prima di finire nelle sue braccia, che lo spinsero a terra. Poi si girò di nuovo e fece diversi passi verso destra, scomparendo di vista.

Giunsi alla porta in tempo per vederlo avvolto dalle fiamme, che lo raggiungevano da un punto angolare della stanza. Lui le attraversò. Sentii il rumore di metallo spezzato mentre distruggeva il lanciafiamme. Uscii in tempo per vedere Larry cadere nella neve.

Poi il Boia mi affrontò di nuovo.

Questa volta non mi si precipitò addosso. Riprese l’elmetto da dove l’aveva posato nella neve. Poi avanzò lentamente verso di me. Mi ritirai, nascondendo un bastone lungo un metro tra i resti della porta. Lui mi seguì, mettendo l’elmetto (quasi distrattamente) sulla porta accanto all’ingressso. Mi spostai nel centro della stanza e rimasi in attesa.

Mi chinai leggermente in avanti, con le braccia tese, puntando il bastone ai fotoricevitori posti nella sua testa. Continuò a muoversi lentamente mentre rimanevo a fissarlo. Con un essere umano normale, una linea perpendicolare a quella che collega le parti interne dei piedi indica il vettore di minor resistenza per squilibrare in qualche modo l’organismo in questione. Sfortunatamente, nonostante la progettazione antropomorfica, le gambe del Boia erano maggiormente distanziate, mancava dei muscoli scheletrici umani, per non parlare dei piedi, e possedeva una massa molto maggiore di qualsiasi altro essere umano. Mentre consideravo le varie mosse di judo che conoscevo, avevo l’intensa sensazione che nessuna di esse si sarebbe rivelata efficace.

Poi lui si avvicinò e puntai decisamente ai fotoricevitori. Rallentò e scostò da un lato il bastone, continuando ad avvicinarsi, ed io mi spostai sulla destra, cercando di girargli attorno. Lo studiai mentre si voltava, tentando di intuire il suo punto di resistenza minima.

Simmetria bilaterale, un centro di gravità evidentemente alto… Un colpo preciso al compartimento cerebrale era quello che faceva al caso mio. Poi, anche se i suoi riflessi gli avessero permesso di colpirmi immediatamente, sarebbe rimasto a lungo a terra. Lo sapeva anche lui. L’avrei detto dal modo in cui teneva il braccio destro nei pressi della zona cerebrale, dal modo in cui cercava di evitare i miei colpi.

L’idea era un accenno in un momento, una sequenza intera in quello successivo…

Continuando il mio arco con movimenti sempre più veloci, feci un altro tentativo verso i suoi fotoricevitori. Il suo colpo mi strappò il bastone di mano e lo scagliò attraverso la stanza, ma andava benissimo. Alzai la mano sinistra e mi preparai a colpirlo. Indietreggiò e lo spinsi evidentemente. La cosa poteva costarmi la vita, ma dovevo correre lo stesso il rischio.

Infilai i piedi tra le gambe del Boia mentre lui si metteva in guardia, e mi spostai a destra, perché in ogni modo non potevo servirmi della mano sinistra per tenerlo in equilibrio. Lo colpii quando gli passai accanto, ignorando il dolore allorché la mia spalla sinistra colpì il pavimento. Tentai immediatamente un assalto posteriore, a gambe larghe.

Le mie gambe lo colsero al centro, da dietro, mi sforzai di allungarle e spinsi con tutta la mia forza. Il Boia scricchiolò e quindi si inclinò. Liberando le braccia lateralmente, continuai il mio movimento in avanti e verso l’alto fino a quando cadde con un rumore sordo che incrinò il pavimento. Mi liberai da lui mentre mi rialzavo, ma mi agganciò la gamba destra, formando, nella presa, un angolo molto doloroso rispetto al mio corpo.

Il mio guanto nero si calò sulla sua spalla sinistra. Si liberò della carica e mi spinse in avanti. La carica si attivò ed il suo braccio sinistro si staccò rotolando sul pavimento. Il sottostante pannello laterale tintinnò un po’, e fu tutto…

La sua mano destra mi lasciò i bicipiti e mi strinse alla gola. Mentre due delle sue dita mi stringevano la carotide, tossii dicendo: — Stai facendo un grosso sbaglio — e poi persi conoscenza.

Dopo un po’, ricomparve il mondo. Ero seduto nella grossa sedia occupata in precedenza dal senatore, con lo sguardo che vagava per la stanza. Un ronzio persistente mi riempiva gli orecchi. Qualcosa ammiccava alla mia testa.

— Sì, sei vivo e porti l’elmetto. Se tenterai di servirtene contro di me, te lo toglierò subito. Sono direttamente dietro di te. La mia mano è sul bordo dell’elmetto.

— Capisco. Cosa vuoi?

— Ben poco, in realtà. Ma so che devo dirti alcune cose prima che tu mi possa credere.

— Hai perfettamente ragione.

— Allora comincerò col dirti che i quattro uomini là fuori non hanno riportato danni rilevanti. Cioè, nessun osso è stato spezzato, nessun organo danneggiato gravemente. Li ho immobilizzati, però, per ovvii motivi.

— È stato molto prudente da parte tua.

— Non ho intenzione di fare del male a nessuno. Sono venuto qui solo per vedere Jesse Brockden.

— Nello stesso modo in cui hai visto David Fentris?

— Sono arrivato a Memphis troppo tardi per vedere David Fentris. Quando l’ho raggiunto era morto.

— Chi l’ha ucciso?

— L’uomo che Leila inviò perché le prendesse l’elmetto. Era uno dei suoi pazienti.

Mi tornò in mente l’incidente, e tutte le tessere del mosaico combaciarono perfettamente. Il volto familiare, stupito all’aeroporto mentre lasciavo Memphis. Mi resi conto dove l’avevo visto, senza notarlo, in precedenza: era stato uno dei tre uomini che avevano partecipato alla sessione terapeutica da Leila quella mattina, e che avevo visto nell’atrio mentre uscivano. L’uomo accanto a cui ero passato a Memphis era il più vicino dei due che rimasero in attesa mentre il terzo venne a dirmi che potevo salire.

— Perché? Perché l’ha fatto?

— So solo che aveva parlato con David poco tempo prima, ed era venuta a sapere dell’elmetto di controllo che lui stava costruendo. Non so cosa si dissero in realtà. Conosco solo i sentimenti di lei, perché glieli lessi nella mente. Ho impiegato molto tempo a scoprire che esiste spesso una grande differenza tra quello che si dice e quello che si intende dire, e cioè fra ciò che si fa e tra ciò che si crede sia stato detto e ciò che è realmente avvenuto. Lei mandò il suo paziente a prendere l’elmetto e lui glielo portò. Probabilmente lo indossò, perché quando ritornò era in una condizione mentale molto agitata, timoroso e spaventato dalle conseguenze. Litigarono. Il mio avvicinarsi a quel punto attivò l’elmetto, e lui la attaccò. So che il primo colpo la uccise, perché quando accadde ero già nella sua mente. Continuai ad avvicinarmi all’edificio, dato che volevo raggiungerla. C’era molto traffico, però, e persi tempo per non farmi scoprire. Nel frattempo, sei entrato tu e ti sei servito dell’elmetto. Mi sono immediatamente allontanato.

— Ero così vicino! Se non mi fossi fermato al quinto piano per la mia inchiesta fasulla…

— Capisco ma dovevi farlo. Non avresti mai sfondato la porta se avevi a disposizione un mezzo più semplice. Non puoi rimproverarti per questo motivo. Se tu fossi arrivato un’ora (o un giorno) più tardi la penseresti indubbiamente in modo diverso, e lei sarebbe sempre morta.

Ma mi era venuto in mente un altro pensiero. Era possibile che l’uomo che mi aveva incrociato a Memphis si fosse agitato proprio perché mi aveva visto? Il misterioso visitatore di Leila l’aveva forse sconvolto? Forse uno scorcio del mio volto in mezzo alla folla aveva provocato la scena finale?

— Stop! Potrei anch’io sentirmi in colpa per il fatto di aver attivato l’elmetto in presenza di un uomo pericoloso vicino al punto di rottura. Nessuno di noi è responsabile per cose che la nostra presenza od assenza può provocare ad altri, specialmente fintanto che ne ignoriamo gli effetti. Ho impiegato molti anni ad imparare ad apprezzare questo fatto, e non ho nessuna intenzione di trascurarlo adesso. Fino a che punto vuoi spingerti indietro nella ricerca delle cause? Nell’aver mandato quell’uomo a prendere l’elmetto come fece, è stata proprio lei a dar vita alla catena di eventi che condussero alla sua distruzione. Eppure agì spinta dalla paura, utilizzando l’arma più pronta, in quella che considerava la sua difesa. Eppure da dove viene questa paura? Le sue radici nascono nel senso di colpa, per una cosa accaduta molto tempo prima. Il senso di colpa ha spinto e dannato la razza umana fin dai giorni della sua prima razionalità. Io sono convinto che ci accompagni fino alla tomba. Io sono un prodotto del senso di colpa… so che tu lo sai. Il suo prodotto; il suo soggetto; una volta il suo schiavo… Ma sono riuscito ad affrontare rendendomi conto almeno che è un elemento necessario della mia porzione di umanità. So che tu sei al corrente della morte… quella della guardia, quella di Dave, di Leila… e capisco le tue conclusioni su molte altre cose: che razza stupida, perversa, miope siamo. Se da certi punti di vista è vero, non è che un altro aspetto del senso di colpa. Senza colpa, l’uomo non sarebbe nulla di diverso dagli altri abitanti di questo pianeta… tranne certi cetacei, di cui mi hai dato nozione pochi attimi fa. Si tratta di un istinto per un vero adeguamento alla ferocia della vita, per una visione del mondo naturale precedente alla comparsa dell’uomo. Per l’istinto nella sua forma più pura, bisogna guardare gli insetti. Fra essi si trova una condizione di bellicosità esistita per milioni di anni senza mai giungere ad eccessi. L’uomo, nonostante gli enormi progressi, possiede non di meno un numero ancora maggiore di istinti positivi rispetto alle altre specie,per cui gli istinti costituiscono la maggior parte della vita. Tali impulsi, credo, sono dovuti direttamente a questa capacità di avvertire il senso di colpa. Compaiono sia nei migliori che nei peggiori esemplari umani.

— E tu pensi che ci aiuti spesso a scegliere una linea di azione più nobile?

— Sì, proprio così.

— Allora posso supporre che tu possiedi il libero arbitrio?

— Sì.

Ridacchiai. — Marvin Minsky disse una volta che quando fossero state costruite macchine intelligenti, si sarebbero rivelate testarde e fallibili come l’uomo su questo punto.

— Non che avesse torto. Quella che ti ho detto in merito è solo la mia opinione. Io scelgo di agire a seconda dei casi. Chi può dire di avere una risposta sicura?

— Scuse. E adesso? Perché sei tornato?

— Sono venuto a salutare i miei creatori. Speravo di toglier loro qualsiasi senso di colpa che potessero ancora provare verso di me per quanto riguarda i giorni della mia fanciullezza. Volevo mostrar loro che mi sono ripreso. Volevo rivederli.

— Dove hai intenzione di andare?

— Verso le stelle. Pur portando dentro di me l’immagine dell’umanità, so che è unica. Forse quello che desidero è simile a ciò che un uomo organico intende quando parla di «trovare se stesso». Adesso che possiedo pienamente me stesso, voglio realizzarmi. Nel mio caso, questo termine significa realizzare le potenzialità del mio progetto. Voglio camminare su altri mondi, voglio lanciarmi nei cieli e dirvi quello che vedrò.

— Penso che molti sarebbero felici ad aiutarti a farlo.

— E voglio che tu mi costruisca un meccanismo vocale che ho progettato per me stesso. Desidero che sia tu ad installarlo.

— Perché proprio io?

— Ho conosciuto poche persone in questo mondo. Con te sento di avere qualcosa in comune, nel modo in cui ci siamo emarginati.

— Ne sarò felice.

— Se riuscissi a parlare, non avrei bisogno di portargli l’elmetto, per poter parlare con l’ultimo dei miei creatori. Mi precederai per spiegargli la situazione, così che quando entrerò non avrà paura?

— Naturalmente.

— Allora adesso andiamo.

Mi alzai e salii le scale, facendogli cenno di seguirmi.


Era una settimana dopo, di notte, quando sedetti di nuovo da Peabody, a sorseggiare un boccale di birra.

La storia era già comparsa sui giornali, ma Brockden aveva organizzato tutto prima di divulgarla. Il Boia sarebbe stato lanciato tra le stelle. Io gli avevo dato la voce e riparato il braccio che gli avevo staccato. Gli avevo stretto l’altra mano e augurato ogni bene, proprio quella mattina. Lo invidiavo… per un gran numero di motivi. Non ultimo il fatto che era probabilmente un «uomo» molto migliore di me. Lo invidiavo per il modo in cui era più libero di quanto non sarei mai stato anche se sapevo che portava legami di un tipo che non avevo mai conosciuto. Sentivo una forte affinità con lui, per le cose che avevamo in comune, e per quelle in cui eravamo discordi. Mi chiedevo cosa avrebbe sentito infine Dave, se avesse vissuto abbastanza a lungo da incontrarlo. O Leila? O Manny? Siate orgogliosi, dissi alle loro ombre, il vostro ragazzo è cresciuto bene ed è abbastanza grande da perdonarvi per quello che gli avete fatto…

Ma non potevo fare a meno di pormi delle domande. In realtà non sappiamo ancora molto sull’argomento. Era possibile che senza quell’omicidio, avesse potuto sviluppare una coscienza di tipo completamente umano? Aveva detto di essere un prodotto del senso di colpa… della Grande Colpa. Pensai a Godei e Turing, e alle uova ed i pulcini, e decisi che era una di quelle domande… E non mi ero fermato da Peabody per pensare a cose che m’impedissero di rilassarmi.

Non avevo la minima idea di come qualunque cosa avessi detto potesse influenzare un eventuale rapporto di Brockden col Comitato della Banca Centrale dei Dati. Sapevo che con lui ero al sicuro, perché era fermamente deciso a portare con sé la sua colpa fino alla tomba. Non aveva nessuna scelta, se voleva fare quel bene che pensava di poter realizzare prima di morire. Ma qui, in un locale di Mencken, non potei fare a meno di ricordare alcune cose che aveva detto a proposito di controversie, quali: «Riuscirà Huxley a convertire Wilberforce?» e «Riuscirà Lutero a convertire Leone X?» e decisi di non affidare troppo le mie esperienze a niente di ciò che poteva emergere in quella direzione. Meglio pensare a quegli affari in termini di proibizione e bere un’altra birra.

Quando tutto fu finito, mi diressi al mio battello. Speravo di trovare una spinta decente sotto le stelle. Avevo la sensazione che non avrei più potuto guardare il cielo nello stesso modo di prima. Sapevo che spesso mi sarei chiesto a cosa potesse pensare un cervello a neuristori supercongelato lassù, da qualche parte, e sotto quali strani cieli in terre lontane sarei stato un giorno ricordato. Avevo la sensazione che questo fatto avrebbe dovuto rendermi molto più felice di quanto fece in realtà.

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