Robert Silverberg Il settimo santuario

Un'ultima ripida rampa nella strada aspra e punteggiata di massi divideva il convoglio reale dalla discesa verso la pianura di Velalisier. Valentine, alla testa del corteo, la montò e si fermò ad ammirare con stupore la valle sottostante. Il paesaggio che si estendeva dinanzi a lui sembrava aver subito una sconcertante trasformazione dai tempi della sua ultima visita. «Guardate», disse il Pontifex, perplesso. «Questo luogo è sempre ricco di sorprese; ecco la nostra.»

L'ampio e poco profondo catino dell'arida pianura si apriva sotto i loro sguardi. Dal punto panoramico in cui si trovavano, leggermente a est dell'ingresso della zona archeologica, avrebbero dovuto tranquillamente poter vedere un vasto sito di rovine spazzate dalla sabbia. Un tempo in quel luogo era sorta una potente città, la famosa città dei mutaforma in cui erano state scritte tante tristi pagine di storia, macchiate di sacrilegio ed empietà. Ma certamente era solo un'illusione, non poteva essere altrimenti… la grande distesa di edifici e monumenti diroccati era ora completamente nascosta da un meraviglioso specchio d'acqua increspato, rosa pallido lungo il perimetro e grigio perla al suo interno: un maestoso lago dove nessun lago era mai esistito prima.

Evidentemente anche gli altri membri del convoglio reale vedevano la scena. Ma comprendevano che si trattava semplicemente di un trucco? Un fugace gioco di luce solare e polverosa foschia, unita alla soffocante calura di mezzogiorno, doveva aver dato luogo a un momentaneo miraggio sopra le spoglie di Velalisier, creando l'impressione che nel mezzo di quell'arido deserto, di tutte le cose più improbabili, fosse comparsa una laguna a sommergere la città morta.

Si estendeva da un punto a poca distanza da dove si erano fermati fino a giungere alla lontana parete di monoliti di pietra grigio-azzurra che demarcava il confine occidentale della città. Di Velalisier non era visibile alcunché. Nessuno dei templi, dei palazzi o delle basiliche cadute e segnate dallo scorrere del tempo, né i blocchi di basalto rosso dell'arena, le grandi piattaforme di pietra azzurra che erano servite da altari sacrificali, le tende degli archeologi che dalla fine dell'anno precedente lavoravano allo scavo della città per conto di Valentine. Solo le sei ripide e strette piramidi, le più alte tra le strutture superstiti della capitale preistorica dei metamorfi, erano visibili; o comunque lo erano le loro punte, che si affacciavano dal cuore grigio del presunto lago come una fila di stiletti conficcati a punta in su nelle sue profondità.

«Magia», mormorò Tunigorn, il più anziano degli amici d'infanzia di Valentine, ora investito della carica di ministro degli Esteri presso la corte Pontificia. Estrasse un simbolo sacro e lo agitò nell'aria. Tunigorn era diventato molto superstizioso con l'avanzare dell'età.

«Non direi», lo contraddisse Valentine, sorridendo. «Credo che sia solo uno scherzo della luce.»

E proprio come se il Pontifex stesso l'avesse evocata con una propria forma di contromagia, si levò da nord una tesa folata di vento, che spazzò via rapidamente la foschia. Il lago scomparve con essa, dissolvendosi come la spettrale apparizione che era. Valentine e i suoi compagni si ritrovarono ora sotto un cielo spoglio e spietato, di un azzurro metallico, ad abbracciare con lo sguardo la vera Velalisier: un'immensa, desolata pietraia punteggiata da massi, un brullo e incoerente mucchio di frammenti grigi e schegge incolori e logore, adagiate in letti di tritume e sabbia smossa dal vento. Era tutto ciò che rimaneva della metropoli dei metamorfi, da lungo tempo abbandonata.

«Perbacco», si lasciò sfuggire Tunigorn. «Forse aveva ragione, maestà. Che si sia trattato o no di magia, la preferivo comunque com'era prima. Era un lago grazioso, mentre queste pietre sono decisamente brutte.»

«Qui non c'è un bel niente da preferire, in un modo o nell'altro», commentò il duca Nascimonte di Ebersinul. Era giunto fin dai suoi grandi possedimenti dall'altro lato del Labirinto per prendere parte alla spedizione. «Questo è un luogo mesto e lo è sempre stato. Se fossi Pontifex al posto suo, maestà, farei costruire una diga sul fiume Glayge e farei sommergere una volta per tutte da una muraglia d'acqua impetuosa alta due miglia questa maledetta città e tutta la sua lunga storia di abominazioni.»

In una parte del suo animo Valentine riusciva ad apprezzare i meriti di un simile gesto. Non era difficile credere che gli oscuri incantesimi dell'antichità aleggiassero ancora in quel luogo, che si trovassero in un territorio dove minacciosi malefici esercitavano ancora il loro potere.

Ma naturalmente Valentine non poteva prendere sul serio il suggerimento di Nascimonte. «Sommergere sotto un muro d'acqua la città sacra dei metamorfi, certo! Facciamolo», disse con tono provocatoriamente scherzoso. «Sarebbe un'ottima mossa diplomatica, Nascimonte. Che meravigliosa trovata per promuovere l'armonia tra le razze!»

Nascimonte, un ottantenne asciutto e indurito, con occhi di zaffiro che ardevano come gemme infuocate sotto una fronte ampia e corrucciata, rispose di buon grado: «Le sue parole confermano quanto già sappiamo, maestà: per il mondo è una fortuna che il Pontifex sia lei e non io. Io sono in difetto della sua natura benigna e compassionevole; soprattutto, ci tengo a dirlo, quando ho a che fare con i luridi mutaforma. So che lei li ama e che vorrebbe riscattarli dal loro degrado. Ma ai miei occhi, Valentine, non sono che feccia. E feccia pericolosa, per giunta».

«Finiscila», lo zittì Valentine. Sorrideva ancora, ma lasciò trasparire anche una certa irritazione. «La Rivolta è finita da tempo. È ora di mettere per sempre a riposo gli antichi odi.»

Nascimonte si limitò a rispondere con un'alzata di spalle.

Valentine distolse lo sguardo, portandolo di nuovo sulle rovine. Misteri più grandi di un semplice miraggio li attendevano laggiù. Un episodio funesto e terribile quanto qualsiasi altro nel tormentato passato di Velalisier era avvenuto in quella città di antiche pietre morte: un omicidio, addirittura.

La morte violenta di un essere per mano di un altro non era un fatto comune su Majipoor. Era per indagare su quel delitto che Valentine e i suoi fidi si erano avventurati fino all'antica Velalisier quel giorno.

«Andiamo», disse. «Rimettiamoci in cammino.»

Spronò il cavallo e gli altri lo seguirono lungo la rocciosa discesa che li avrebbe condotti nella città stregata.


Viste da vicino, le rovine erano molto meno lugubri di quanto erano apparse a Valentine nelle sue due precedenti visite. Le piogge di quell'inverno dovevano essere state più pesanti del solito, poiché fiori di campo sbocciavano per ogni dove nella livida, squallida desolazione di dune cineree e blocchi da costruzione rovesciati. Screziavano il malinconico grigiore con piccole esplosioni di giallo, rosso, azzurro e bianco, il cui enfatico effetto era quasi musicale. Schiere di fragili kelebekki dalle ali splendenti svolazzavano tra i boccioli, succhiandone il nettare, e una moltitudine di minuscole ferusce, simili a zanzare, si muovevano in densi sciami, formando nell'aria ampie chiazze fosche che luccicavano come polvere d'argento.

Ma c'era dell'altro, in quel luogo, oltre al crescere dei fiori e alle danze degli insetti. Mentre scendeva verso Velalisier, la mente di Valentine prese improvvisamente a popolarsi di fantasie, stranezze, meraviglie. Aveva l'impressione che inesplicabili sprazzi di stregoneria e portento si stessero levando appena fuori della portata del suo occhio. Spiriti e visitazioni, che gli cantavano senza parole il passato infinito di Majipoor, ascendevano verticalmente dalle lastre di pietra rotte e inclinate, gli volteggiavano attorno ammiccanti, balzando qua e là con frenetica energia sopra il suolo poroso e limaccioso del sito. Una delicata ed eterea iridescenza verde giada, che non era stata visibile a distanza, avvolgeva ogni cosa tingendo l'aria: un effetto creato dalla calda luce del mezzogiorno che incideva su un qualche minerale luminescente nelle rocce, si disse. Quale che fosse la sua origine, era comunque una vista straordinaria.

Quegli inaspettati tocchi di bellezza risollevarono l'umore del Pontifex. Che era stato inconsuetamente mesto, da quando aveva ricevuto la notizia, una settimana prima, della selvaggia e sconcertante morte incorsa al prestigioso archeologo metamorfo Huukaminaan, proprio tra quelle rovine. Valentine aveva tenuto moltissimo al lavoro che veniva svolto nel sito per riportare alla luce e restaurare l'antica capitale dei mutaforma; quell'omicidio rischiava di rovinare tutto.

Comparvero le tende degli archeologi, alte, gaiamente ricavate da ampie fasce di tessuto verde, marrone e scarlatto, rigonfie al centro di una bassa piana sabbiosa in lontananza. Vide che alcuni degli addetti agli scavi gli stavano venendo incontro sui lunghi viali fiancheggiati da rocce, in groppa a cavalli grassi e dal passo pesante: erano una mezza dozzina e alla loro testa c'era la capo archeologa Magadone Sambisa.

«Maestà», lo accolse, scendendo da cavallo e porgendo i suoi rispetti con il complesso gesto di saluto riservato al Pontifex. «Benvenuto a Velalisier.»

Valentine faticò a riconoscerla. Non era passato più di un anno da quando Magadone Sambisa si era presentata al suo cospetto nelle stanze del Labirinto. Ricordava una donna dinamica e sicura, dallo sguardo vispo, robusta ed energica, con gote arrotondate, floride di vita e vigore, e una cascata di folti riccioli rossi sulla schiena. Ora appariva stranamente rimpicciolita, appesantita dalla stanchezza, le spalle curve e gli occhi opachi e affossati, il volto smagrito e solcato da nuove rughe, non più rubicondo come un tempo. Quella sua imponente massa di capelli aveva perso splendore e pienezza. L'imperatore lasciò trasparire solo per un istante il suo stupore, ma bastò perché lei lo notasse. Immediatamente si raddrizzò, cercando, evidentemente, di proiettare una parte del suo vigore di un tempo.

Valentine aveva avuto intenzione di presentarla al duca Nascimonte, al principe Mirigant e al resto del gruppo di visitatori. Ma prima che potesse farlo, Tunigorn si fece avanti per espletare i convenevoli in modo formale.

C'era stato un tempo in cui ai cittadini di Majipoor era vietato conversare direttamente con il Pontifex. Ogni scambio doveva obbligatoriamente avvenire per il tramite di un funzionario di corte che recava il titolo di Alto Portavoce. Era stata una regola che Valentine si era affrettato ad abolire, insieme a molte altre, nel tentativo di sopprimere alcune ridondanze dell'etichetta imperiale. Tunigorn, tuttavia, che era conservatore per natura, non si era mai trovato a proprio agio con certi cambiamenti. Faceva tutto quanto gli era possibile per salvaguardare la tradizionale aura di santità che un tempo aveva circondato i pontefici. Valentine trovava la cosa divertente e affascinante, solo occasionalmente irritante.

Del drappello di benvenuto non faceva parte alcuno degli archeologi metamorfi che erano al centro degli scopi della spedizione. Magadone Sambisa aveva portato con sé solo cinque archeologi umani e un ghayrog. Era strano che avesse lasciato i metamorfi altrove. Tunigorn ripeté come da cerimoniale il nome di ciascuno a beneficio di Valentine, storpiandoli quasi tutti. Quando ebbe concluso, e solo allora, fece un passo indietro e permise al Pontifex di parlare a quattr'occhi con lei.

«Gli scavi», esordì. «Mi dica, stanno andando bene?»

«Molto bene, maestà. Andavano splendidamente, a dire il vero, finché… finché…» Ebbe un gesto di disperazione: cordoglio, choc, smarrimento, impotenza, tutto in un solo incisivo movimento della testa e delle braccia.

L'omicidio doveva essere stato per lei come un lutto in famiglia; per lei e per tutti gli altri. Una perdita improvvisa e devastante.

«Finché, sì. Capisco.»

Valentine le pose una serie di domande, con delicatezza ma rigorosamente. Le chiese se c'erano stati importanti sviluppi nelle indagini. Avevano trovato qualche indizio? Il delitto era stato rivendicato? C'era qualche sospetto? La squadra di archeologi aveva forse ricevuto minacce di ulteriori violenze?

Ma non c'erano novità. L'uccisione di Huukaminaan era stata un episodio isolato, un'improvvisa, sconvolgente e insondabile intrusione nel sereno progresso dei lavori presso il sito. Il corpo del metamorfo ucciso era stato consegnato alla sua gente perché venisse sepolto, gli riferì lei, e mentre parlava venne scossa nella metà superiore del corpo da un brivido che tentò invano di nascondere. Gli scavatori stavano ora tentando di superare il turbamento provocato dal delitto e di riprendere a svolgere le loro mansioni.

Era evidente la pena che le costava affrontare l'argomento. Cambiò discorso appena le fu possibile. «Dev'essere affaticato dal viaggio, maestà. Posso mostrarle i suoi alloggiamenti?»

Per ospitare il Pontifex e il suo entourage erano state erette tre nuove tende. Per raggiungerle dovettero attraversare la zona degli scavi. Valentine vide con piacere che erano stati fatti grandi progressi nel rimuovere i grovigli di filamentose erbacce e di rovi che per tanti secoli avevano lavorato pazientemente all'impresa di staccare i blocchi di pietra gli uni dagli altri.

Lungo il tragitto Magadone Sambisa riversò sui suoi ospiti voluminosi flussi di informazioni a proposito delle caratteristiche salienti della città, come se Valentine fosse un turista e lei la sua guida. Da questa parte l'acquedotto, diroccato ma ancora imponente. Dall'altra il catino ovale e dai lati spigolosi dell'arena. E laggiù il grande corso cerimoniale, pavimentato con eleganti pietre tendenti al verde.

Dopo ventimila anni su quelle pietre erano ancora visibili i geroglifici dei mutaforma, misteriosi simboli spiraleggianti incisi in profondità nella materia. Neppure gli stessi mutaforma contemporanei erano in grado di decifrarli oggi.

La fiumana di nozioni in materia di archeologia e mitologia le usciva di bocca quasi senza sosta. Il suo atteggiamento aveva un che di frenetico, addirittura di disperato, a tradire il disagio che provava in presenza del Pontifex di Majipoor. Valentine era abituato a quel genere di reazione. Ma quella non era la sua prima visita a Velalisier ed era già a conoscenza di buona parte di quanto lei gli stava raccontando. E gli appariva così stanca, così svuotata, che lo preoccupava vederla sprecare inutilmente energie a quel modo.

Eppure non sembrava voler smettere. Ora stavano passando accanto a un enorme e gravemente diroccato edificio di pietra grigia, che dava l'impressione di essere pronto a crollare se solo qualcuno avesse starnutito nelle sue vicinanze. «Questo è il Palazzo del Re Finale», spiegò lei. «Probabilmente è una denominazione errata, una storpiatura, ma è così che lo chiamano i piurivar. E noi ci adeguiamo, per mancanza di un nome migliore.»

Valentine notò come facesse attenzione a usare il nome che i mutaforma usavano per definire stessi piurivar. Gli accademici tendevano sempre a essere molto formali in merito, riferendosi immancabilmente alla popolazione aborigena di Majipoor con quel nome, evitando di chiamarli metamorfi o mutaforma, come faceva la gente comune. Avrebbe cercato di ricordarsi di fare lo stesso.

Avvicinandosi alle rovine del palazzo reale, gli offrì una disquisizione sulla leggenda del mitico Re Finale dei piurivar, colui che aveva presieduto all'atroce atto di profanazione che aveva portato i metamorfi all'abbandono, in tempi antichi, della loro città. Era una storia che tutti loro conoscevano. Chi ignorava quella vicenda così terribile?

Eppure la ascoltarono cortesemente mentre raccontava di come molte migliaia di anni prima, in un'epoca molto antecedente alla comparsa dei primi insediamenti umani su Majipoor, i metamorfi di Velalisier avessero trascinato a terra dalle acque dell'oceano, evidentemente in un accesso di cieca follia, due draghi marini viventi: esseri intelligenti di imponenti dimensioni e straordinari poteri mentali, che i metamorfi stessi avevano considerato alla stregua di dei. Li avevano scaricati su quelle piattaforme di pietra, fatti a pezzi con lunghi coltelli, poi avevano bruciato la loro carne su una pira allestita davanti alla Settima piramide, in un insensato sacrificio agli dei ritenuti ancora più potenti in cui il re e i suoi sudditi avevano preso a credere.

Allorché le popolazioni rurali delle province circostanti avevano appreso dell'orrendo massacro, così narrava la leggenda, erano calate su Velalisier e avevano demolito il tempio presso il quale era stato tenuto il sacrificio. Avevano messo a morte il Re Finale e distrutto il suo palazzo, scacciando i maligni residenti della città e costringendoli a rifugiarsi nella boscaglia, abbattuto l'acquedotto e ostruito con dighe i fiumi che avevano rifornito la città d'acqua, di modo che da quel giorno Velalisier sarebbe stata ridotta a un luogo desertico e maledetto, abbandonato per l'eternità alle lucertole, ai ragni e ai jakkaboles dei campi.

Valentine e i suoi proseguirono in silenzio quando Magadone Sambisa ebbe finito il suo racconto. Avvistarono le sei acute piramidi che erano diventate le più note vestigia di Velalisier, la più vicina delle quali si ergeva da un'area poco oltre il cortile del palazzo del Re Finale, le altre cinque affiancate l'una all'altra a formare una linea retta che si estendeva verso est. «Un tempo ce n'era una settima», disse Magadone Sambisa. «Ma i piurivar stessi la distrassero prima di lasciare la città per l'ultima volta. La ridussero a un cumulo di macerie. Stavamo per cominciare a scavare proprio là, la settimana scorsa, ma è stato allora che… che…» Distolse lo sguardo, incapace di continuare.

«Sì», disse con dolcezza Valentine. «Certo.»

La strada li condusse tra due colossali piattaforme ricavate da gigantesche lastre di pietra azzurra, chiamate dai metamorfi contemporanei Tavole degli dei. Per quanto circondate da resti e rovine accumulatesi nel corso di duecento secoli, si innalzavano comunque sopra la pianura circostante di oltre tre metri e la loro superficie piatta era tanto grande da poter ospitare centinaia di persone contemporaneamente.

Con tono di voce basso e sepolcrale Magadone Sambisa disse: «Sa che cosa sono queste, maestà?»

Valentine annuì. «Sì, gli altari sacrificali. Dove ebbe luogo l'atto sacrilego.»

«Esattamente», confermò Magadone Sambisa. «È questo è stato anche il teatro dell'omicidio di Huukaminaan. Posso mostrarle il luogo esatto. Ci vorrà solo un attimo.»

Indicò una scalinata poco più in là lungo la strada, fatta di grandi blocchi quadrati della stessa pietra azzurra delle piattaforme. Conduceva in cima alla piattaforma più occidentale. Magadone Sambisa smontò da cavallo e la scalò rapidamente. Sostò sull'ultimo gradone e tese una mano a Valentine, come se il Pontifex incontrasse difficoltà nell'ascesa, il che non era affatto vero. Aveva conservato buona parte dell'agilità che aveva avuto da giovane. Accettò comunque l'aiuto, in segno di cortesia, proprio nell'istante in cui lei, rendendosi conto che forse non era permesso ai comuni sudditi toccare la persona di un Pontifex, fece per ansiosamente ritrarre la mano. Valentine si sporse in avanti e gliel'afferrò con un sorriso, tirandosi su.

Il vecchio Nascimonte salì a grandi balzi alle sue spalle, seguito dal cugino e prezioso consigliere di Valentine, il principe Mirigant, che portava in spalla il piccolo mago di razza vroon Autifon Deliamber. Tunigorn rimase giù. Evidentemente quel luogo di antico sacrilegio e infame spargimento di sangue non faceva per lui.

La superficie dell'altare, resa ruvida dal tempo e punteggiata da ciuffi di erbacce e da incrostazioni di licheni rossi e verdi, si estendeva davanti a loro per una distanza stupefacente. Era difficile immaginare che anche una grande moltitudine di mutaforma, esseri longilinei e apparentemente privi di ossa, potessero mai aver trascinato e collocato lì un numero così grande di enormi blocchi di pietra.

Magadone Sambisa indicò una stella a sei punte tracciata sulla pietra con nastro adesivo giallo, a quattro o cinque metri da loro. «L'abbiamo trovato là», disse. «O comunque una parte di lui. E un'altra parte là.» C'era una seconda stella più a sinistra, circa sette metri più avanti. «E qui.» Una terza stella di nastro giallo.

«L'hanno smembrato?» domandò Valentine, atterrito.

«Già. Si vedono ancora le macchie di sangue tutt'intorno.» Esitò un istante. Valentine notò che ora stava tremando.

«Era tutto qui tranne la testa. Quella l'abbiamo trovata lontana, tra le rovine della Settima piramide.»

«Non conoscono vergogna», dichiarò con veemenza Nascimonte. «Sono peggio di bestie. Avremmo dovuto sradicarli tutti.»

«A chi ti riferisci?» domandò Valentine.

«Sa bene a chi mi riferisco, maestà. Lo sa bene.»

«Dunque credi che questo delitto sia opera dei mutaforma?»

«Oh, no, maestà, no!» rispose Nascimonte, con tono sprezzante e provocatorio. «Come potrei pensare una cosa simile? Dev'essere stato uno dei nostri archeologi, non ci sono dubbi. Un caso di gelosia professionale, forse, poiché il mutaforma aveva fatto un'importante scoperta e la nostra gente voleva arrogarsene il merito… È questo che credi, Valentine? Credi che esista un essere umano capace di rendersi colpevole di uno scempio come questo?»

«Siamo venuti a indagare proprio su questo, amico mio», disse amabilmente Valentine. «Credo sia ancora presto per giungere a conclusioni.»

Magadone Sambisa aveva gli occhi spalancati e quasi fuori dalle orbite, come se l'audacia di Nascimonte nel rivolgersi a quel modo al Pontifex, dandogli oltretutto del tu, fosse uno spettacolo che trascendeva la sua capacità di comprensione. «Forse dovremmo proseguire verso le tende, ora», disse.


Gli provocava una sensazione molto strana, pensò Valentine mentre avanzavano verso l'accampamento lungo la strada delimitata da resti di edifici crollati, trovarsi di nuovo lì, in quel triste e inquietante luogo di antiche rovine. Almeno non era nel Labirinto. Per quanto lo riguardava, qualsiasi posto era meglio del Labirinto.

Era la sua terza visita a Velalisier. La prima era avvenuta molti anni prima, all'epoca in cui era stato Coronal, durante lo strano periodo del suo breve spodestamento da parte dell'usurpatore Dominin Barjazid. Si era fermato lì in compagnia del suo manipolo di seguaci, Carabella, Nascimonte, Sleet, Ermanar, Deliamber e gli altri, durante la marcia verso settentrione, al Monte Castello, dove avrebbe riconquistato il suo legittimo trono dal falso Coronal con la Guerra di Restaurazione.

All'epoca Valentine era stato giovane. Ma ora non lo era più. Da nove anni ormai era il sovrano anziano di Majipoor, il Pontifex, dopo aver prestato servizio come Coronal per quattordici. Qualche capello bianco venava la sua chioma dorata e nonostante avesse ancora un corpo d'atleta e la capacità di muoversi con grazia e agilità, cominciava ad avvertire i primi fastidi dell'avanzare dell'età.

Aveva giurato, in quella sua prima visita a Velalisier, che avrebbe fatto rimuovere le erbacce e gli arbusti che stavano soffocando le rovine, inviando squadre di archeologi a scavare nel sito e a restaurare gli edifici crollati. E aveva inteso permettere ai capi metamorfi di partecipare all'impresa, se avessero voluto. Era parte del suo piano di riservare agli indigeni del pianeta, un tempo disprezzati e perseguitati, un ruolo di maggior rilievo nella vita di Majipoor; perché sapeva bene che i metamorfi in ogni parte del pianeta ardevano di una rabbia che ormai faticavano a contenere, e non potevano più essere confinati nelle riserve in cui i suoi predecessori li avevano costretti a vivere.

Valentine aveva tenuto fede al suo giuramento. Ed era tornato a Velalisier anni dopo per verificare i progressi compiuti dagli archeologi.

I metamorfi, tuttavia, si erano rivelati amaramente risentiti per l'intrusione di Valentine nei loro luoghi sacri e avevano interamente boicottato l'impresa. Era una reazione che non si era aspettato.

Avrebbe presto compreso che i mutaforma erano ansiosi di vedere ricostruita Velalisier, ma che intendevano compiere loro stessi l'opera… dopo aver cacciato i coloni umani e tutti gli altri intrusi alieni da Majipoor e aver ripreso il controllo del proprio pianeta. Una rivolta dei mutaforma, pianificata in segreto per anni, era scoppiata solo pochi anni dopo l'ascesa di Valentine al trono. Il primo gruppo di archeologi che aveva inviato a Velalisier non era riuscito a portare a termine altro che una mappatura preliminare del sito, dopodiché era esplosa la Guerra di Ribellione; a quel punto i lavori dovettero essere sospesi indefinitamente.

La guerra si era conclusa con la vittoria degli eserciti di Valentine. Nel gestire la pace che era seguita al conflitto, si era curato di alleviare il più possibile le cause del malcontento dei metamorfi. La Danipiur, così chiamavano la loro regina, venne accolta nel governo a pieno titolo di Potere del Regno, il che la collocava sullo stesso piano del Pontifex e del Coronal. Da allora Valentine era passato dal trono del Coronal a quello del Pontifex. E ora aveva rispolverato l'idea di restaurare le rovine di Velalisier, accertandosi stavolta di godere della piena collaborazione dei metamorfi, e disponendo che archeologi metamorfi lavorassero fianco a fianco con gli accademici della venerabile università di Arkilon, nel Nord, ai quali aveva affidato l'incarico.

Nell'anno da poco conclusosi grandi passi erano stati compiuti nel processo di salvare le rovine dall'oblio che da così a lungo le minacciava. Ma poca era la gioia che poteva trarne. La raccapricciante morte che era toccata al capo spedizione degli archeologi metamorfi in cima a quell'antico altare portava a pensare che forze sinistre si agitassero ancora nelle viscere di quel luogo. L'armonia che sperava di aver ristabilito nel mondo rischiava di mostrarsi molto meno profonda di quanto avesse immaginato.


Quando Valentine si fu sistemato nella sua tenda, era ormai il tramonto. Rispettoso di un'abitudine che egli stesso era reticente ad abbandonare, vi avrebbe dimorato da solo, dal momento che la sua consorte Carabella in quell'occasione era rimasta al Labirinto. La verità era che aveva cercato con forza di dissuadere anche lui dal viaggio. Tunigorn, Mirigant, Nascimonte e il vroon avrebbero condiviso la seconda tenda; la terza era occupata dalla scorta di sicurezza che aveva accompagnato il Pontifex fino a Velalisier.

Uscì all'esterno, dove andavano addensandosi le ombre della sera. Una manciata di stelle precoci aveva cominciato a brillare nel cielo e il bagliore marcato della Grande Luna era visibile basso sull'orizzonte. L'aria era secca e limpida, con un che di friabile, come se si potesse strapparla con le mani, carta asciutta da ridurre in polvere con le dita. Era stranamente ferma, misteriosamente quieta.

Se non altro si trovava all'esterno, a guardare in alto stelle autentiche, e l'aria che respirava, per quanto secca, era aria vera, non la roba artificiale della città Pontificia. Valentine ne era grato.

Di diritto non aveva alcuna facoltà di trovarsi all'esterno e in giro per il mondo.

In quanto Pontifex, il suo posto era il Labirinto, nascosto nella sua segreta tana imperiale, in fondo a tutti quegli spiraleggianti livelli dell'insediamento sotterraneo, celato alla vista dei comuni mortali. Il Coronal, il vicesovrano che abitava l'arioso castello di quarantamila stanza in cima a quella svettante spira di roccia che era il Monte Castello, doveva incarnare la componente attiva del governo, rappresentare in modo visibile la maestà reale su Majipoor. Ma Valentine odiava l'umido Labirinto, dove la sua somma carica lo costringeva a risiedere. Approfittava di ogni occasione per riuscire a sfuggirgli.

E questa in particolare aveva costituito un'incombenza inevitabile. L'uccisione di Huukaminaan era un fatto grave e richiedeva lo svolgimento di indagini ai più alti livelli; e il Coronal, Lord Hissune, si trovava in quel momento impegnato in una visita del distante continente di Zimroel, a molti mesi di viaggio da loro. Pertanto, al posto suo si era recato sul luogo del delitto il Pontifex in persona.

«Adori la vista del cielo aperto, non è vero?» disse il duca Nascimonte, sbucando dalla tenda dall'altra parte dello spiazzo e andando ad affiancare Valentine con passo claudicante. Sotto la durezza della sua voce roca c'era un fondo di tenerezza. «Come ti capisco, vecchio amico mio. Ti capisco davvero.»

«Vedo così di rado le stelle nel luogo dove sono costretto a vivere, Nascimonte.»

Il duca rise. «Costretto a vivere! L'uomo più potente del mondo e si ritiene un prigioniero! Che ironia! Che tristezza!»

«Seppi fin da quando divenni Coronal che prima o poi avrei dovuto vivere nel Labirinto», disse Valentine. «Ho cercato di rassegnarmi a questa realtà. Ma non era mai neppure stato nei miei piani diventare Coronal, sai. Se Voriax fosse vissuto…»

«Già, Voriax…» Il fratello di Valentine, il primogenito dell'Alto Consigliere Damiandane: colui che fin dall'infanzia era stato educato per occupare il trono di Majipoor. Nascimonte scrutò in volto Valentine. «Fu un metamorfo ad abbatterlo nella foresta, o mi sbaglio? Fu provato, vero?»

Con un certo disagio, Valentine rispose: «Che cosa importa ora chi l'abbia ucciso? È morto. E il trono è toccato a me perché ero l'altro figlio di mio padre. Una corona che non avevo mai sognato di portare. Tutti sanno che era Voriax il predestinato». «Purtroppo per lui non era scritto nel suo destino. Povero Voriax!» Povero Voriax, davvero. Falciato da una freccia sbucata dal nulla durante una battuta di caccia nella foresta, otto anni dopo essere assurto alla carica di Coronal; una freccia scoccata dall'arco di un metamorfo assassino nascosto tra gli alberi. Accettando la corona del fratello morto, Valentine aveva condannato se stesso senza appello a scendere un giorno nel Labirinto, quando il vecchio Pontifex sarebbe morto e sarebbe toccato al Coronal ereditare la carica più alta, insieme con il triste obbligo di risiedere sottoterra che essa comportava.

«Come hai detto tu, è stato il destino a decidere così», concordò Valentine. «E ora io sono Pontifex. E così sia, Nascimonte. Ma mi rifiuto di nascondermi laggiù al buio tutto il tempo. Non ce la faccio.»

«E perché dovresti? Il Pontifex è libero di fare come vuole.»

«Sì, certo. Ma solo entro i limiti della nostra legge e della tradizione.»

«Puoi plasmare la legge e le tradizioni a tuo piacimento, Valentine. E lo hai sempre fatto.»

Valentine comprendeva bene che cosa volesse dire Nascimonte. Non era mai stato un sovrano ortodosso. Per molto tempo durante il suo esilio dal potere nel periodo di usurpazione, aveva vagato per il mondo guadagnandosi una umile esistenza come giocoliere itinerante, il suo vero ruolo nascostogli dall'amnesia che la fazione usurpatrice aveva indotto in lui. Quegli anni avevano operato in lui una trasformazione irreversibile; e dopo il suo legittimo ritorno alle reali altezze del Monte Castello si era comportato come pochi Coronal avevano mai fatto prima di lui: mescolandosi apertamente al popolo, diffondendo un gioioso vangelo di pace e amore, pur mentre i mutaforma si preparavano a lanciare la loro lungamente covata campagna di guerra contro gli invasori che avevano sottratto loro il mondo.

Poi, quando l'evolversi della guerra rese inevitabile la salita di Valentine al trono di Pontifex, aveva temporeggiato il più a lungo possibile prima di cedere il mondo superiore al proprio delfino, Lord Hissune, il nuovo Coronal, e scendere nella città sotterranea che tanto aliena era alla sua natura solare.

Nei suoi nove anni da Pontifex aveva trovato ogni sorta di scuse per riemergere da essa. A memoria d'uomo, nessun Pontifex era mai uscito dal Labirinto più di una volta ogni decennio, e anche in quelle occasioni solo per presenziare a solenni riti presso il castello del Coronal; Valentine, al contrario, sbucava fuori appena gli era consentito, percorrendo per ogni dove il suo regno come se fosse ancora soggetto all'obbligo delle grandi processioni per il territorio che erano il dovere del Coronal. Lord Hissune si era mostrato molto paziente con lui in ciascuna di quelle occasioni, sebbene Valentine non dubitasse che la sua insistenza nel comparire in pubblico tanto frequentemente fosse fonte di irritazione per il giovane Coronal.

«Io cambio le cose che ritengo vadano cambiate», replicò Valentine. «Ma è mio dovere nei confronti di Lord Hissune rimanere il più possibile lontano dalla vista di tutti.»

«Be', oggi, a ogni buon conto, sei qui in superficie!»

«Così pare. Anche se questa è una delle poche occasioni in cui avrei rinunciato volentieri a uscire. Ma Hissune si trova a Zimroel…»

«Già. Non avevi scelta. È tuo dovere condurre in prima persona le indagini.» Seguì una pausa di silenzio. «Un vero scempio, questo omicidio», disse Nascimonte dopo qualche tempo. «Puah! C'erano pezzi di quel povero bastardo sparsi dappertutto sull'altare.»

«E a pezzi rischia di cadere anche la politica del governo nei confronti dei metamorfi», commentò il Pontifex con un sorriso amaro.

«Credi che ci sia qualcosa di politico in tutto questo, Valentine?»

«Chi può dirlo? Ma io non posso non pensare al peggio.»

«Ottimista come sempre!»

«Sarebbe più corretto definirmi un realista, Nascimonte. Un realista.»

Il vecchio duca rise. «Come preferisce, maestà.» Ci fu un'altra pausa, più lunga della prima. Poi, parlando a voce più bassa, Nascimonte disse: «Valentine, devo chiederti perdono per il mio comportamento di questo pomeriggio. Ho parlato in toni troppo duri quando ho definito i mutaforma feccia da sterminare. Sai che non la penso davvero così. Sono un uomo anziano. A volte mi esprimo in modo tanto brusco che me ne sorprendo io stesso».

Valentine annuì, ma non parlò.

«E il modo in cui mi sono rivolto a te, così dogmaticamente, affermando che doveva essere stato uno dei suoi compagni mutaforma ad averlo ammazzato. Hai detto bene tu, è fuori luogo trarre conclusioni affrettate. Non abbiamo neppure cominciato a raccogliere indizi. A questo punto non abbiamo alcun diritto di presumere che…»

«Al contrario. Ne abbiamo ogni diritto, Nascimonte.»

Il duca fissò Valentine, sconcertato. «Maestà!»

«Non prendiamoci in giro, vecchio amico mio. In questo momento non c'è nessun altro qui, siamo soli io e te. Saremo pur liberi di pronunciare delle verità in privato, no? E tu oggi pomeriggio hai probabilmente detto il vero. Certo, ti ho ammonito di non balzare a conclusioni affrettate, ma a volte le situazioni si presentano con tanta evidenza che non si può fare a meno di farlo. Non esiste alcuna ragione logica per cui un archeologo umano, o anche un ghayrog, possa aver voluto uccidere uno dei suoi colleghi. E non capisco neppure perché possa averlo fatto qualcun altro. L'omicidio è un crimine così raro, Nascimonte. Non possiamo neppure cominciare a comprendere le motivazioni di chi sia capace di fare una cosa del genere. Eppure è successo.»

«Già.»

«E le motivazioni di quale razza ci è più difficile comprendere? A mio modo di vedere l'assassino deve quasi certamente essere un mutaforma: un membro dell'équipe di archeologi o qualcuno venuto da fuori appositamente per commettere il delitto.»

«Così parrebbe. Ma che motivo potrebbe avere un mutaforma di uccidere uno della propria specie?»

«Non riesco a immaginarlo. Ed è per questo che siamo venuti a indagare», disse Valentine. «Ho il brutto presentimento che quando la troveremo, la risposta non mi piacerà affatto.»


A cena quella sera, nella mensa all'aperto degli archeologi, sotto un limpido cielo nero ora infiammato da turbinanti nastri di stelle che gettavano una luce fredda e splendente sulle misteriose gobbe e i rilievi delle rovine circostanti, Valentine fece la conoscenza dell'intera équipe scientifica di Magadone Sambisa. Gli archeologi erano in tutto diciassette: altri sei umani, due ghayrog e otto metamorfi. Tutti quanti, dal primo all'ultimo, gli parvero creature gentili e appassionate del loro lavoro. Neppure con un immane sforzo della propria fantasia Valentine sarebbe stato in grado di immaginare una di quelle persone mentre uccideva e mutilava il venerabile Huukaminaan.

«Queste sono le uniche persone che hanno accesso alla zona archeologica?» domandò a Magadone Sambisa.

«Oltre ai lavoratori giornalieri, naturalmente.»

«Ah. E loro dove sono ora?»

«Hanno un proprio villaggio, oltre l'ultima piramide. Rientrano a casa al tramonto e non tornano qui fino a quando si riprende a lavorare il giorno dopo.»

«Capisco. Quanti sono in tutto? Sono molti?»

Magadone Sambisa guardò un metamorfo dal volto pallido e allungato, con gli occhi marcatamente inclinati verso l'interno, che sedeva dall'altra parte del tavolo. Era il supervisore del sito, di nome Kaastisiik, responsabile del quotidiano spiegamento di scavatori. «Quanti possono essere? Un centinaio?»

«Centododici», rispose Kaastisiik, serrando la minuscola fessura che aveva per bocca come a sottolineare l'orgoglio per il proprio amor di precisione.

«E sono in maggioranza piurivar?» volle sapere Valentine.

«Sono tutti piurivar», rispose Magadone Sambisa. «Abbiamo pensato che fosse opportuno usare solo operai indigeni, considerato che non stiamo solo operando degli scavi, ma che stiamo in una certa misura ricostruendo la città. Sembrano non avere niente in contrario alla presenza di archeologi non della loro razza, ma molto probabilmente riterrebbero offensivo l'utilizzo di umani per i lavori di ricostruzione veri e propri.»

«Li avete assunti tutti qui sul posto?»

«Non ci sono insediamenti di alcun tipo nelle immediate vicinanze delle rovine, maestà. Né molti piurivar vivono nella provincia circostante. Abbiamo dovuto richiamarli qui da molto lontano. Parecchi giungono finanche dalla stessa Piurifayne.»

Valentine inarcò un sopracciglio. Da Piurifayne? Piurifayne era una delle province del remoto continente Zimroel, a una distanza quasi inimmaginabile, oltre il Mare Interno. Ottomila anni prima, il grande conquistatore Lord Stiamot, colui che aveva cancellato per sempre le residue speranze dei piurivar di conservare l'indipendenza sul proprio pianeta, aveva cacciato i metamorfi sopravvissuti alla guerra che aveva mosso contro di loro nelle umide giungle di Piurifayne, creandovi una riserva nella quale li rinchiuse. Benché le antiche restrizioni fossero da tempo state rimosse e i metamorfi erano ora liberi di stabilirsi dove meglio credevano, la loro presenza era più numerosa a Piurifayne che in qualsiasi altra parte del mondo; e nelle radure subtropicali di Piurifayne il rivoluzionario Faraataa aveva fondato il movimento clandestino che avrebbe scatenato la Guerra di Ribellione, destinata ad abbattersi sulla pacifica Majipoor come un fiume di lava incandescente.

Tunigorn disse: «Naturalmente li avete interrogati tutti, vero? Avete verificato dove si trovassero all'ora del delitto».

Magadone Sambisa apparve scandalizzata. «Vuole dire, trattarli come se fossero sospettati di aver commesso il delitto?»

«Sono sospettati di aver commesso il delitto», assicurò Tunigorn.

«Sono semplici scavatori e trasportatori di carichi, nulla più, principe Tunigorn. Non ci sono assassini tra loro, questo glielo posso assicurare. Adoravano il dottor Huukaminaan. Lo consideravano un custode del loro passato… una figura quasi sacra. È inconcepibile che uno di loro possa essersi macchiato di un crimine tanto grave e terribile. Inconcepibile!»

«In questo stesso luogo, circa ventimila anni fa», intervenne il duca Nascimonte, con lo sguardo rivolto verso l'alto come se stesse parlando con il cielo, «il re dei mutaforma, come lei stessa ci ha ricordato oggi, dispose che due enormi draghi marini venissero macellati vivi in cima a quelle enormi piattaforme di pietra laggiù. Dalle parole che lei stessa ha pronunciato oggi pomeriggio è risultato chiaro che i mutaforma di quell'epoca riservavano ai draghi marini una riverenza ancora maggiore di quella che, secondo lei, i suoi operai nutrivano per il dottor Huukaminaan. Li chiamavano 're delle acque', se non mi sbaglio, e davano loro dei nomi, li consideravano fratelli maggiori sacri, rivolgevano loro delle preghiere. Eppure quel sanguinoso sacrificio si svolse lo stesso, qui a Velalisier, quel gesto che gli stessi mutaforma ricordano come la Profanazione. Non è così? Mi permetta dunque di azzardare che se il re dei mutaforma fu capace di fare una cosa del genere a suo tempo, non è poi così inconcepibile che uno dei suoi operai metamorfi abbia potuto trovare una qualche motivazione per perpetrare un'atrocità simile ai danni dello sventurato dottor Huukaminaan la settimana scorsa, sul medesimo altare.»

Magadone Sambisa sembrò impietrita, come se Nascimonte le avesse dato uno schiaffo. Per un attimo non fu in grado di replicare. Poi, con voce roca, accusò: «Come può usare un antico mito, una leggenda fantastica per gettare discredito e sospetto su un gruppo di innocui, innocenti…»

«Ah, dunque diventa un mito, una leggenda, quando le interessa proteggere questi suoi innocui e innocenti scavatori e trasportatori, mentre è assoluta verità storica quando vuole farci rabbrividire rapiti di fronte all'importanza di questi vecchi cumuli di pietre cadute?»

«Per favore», disse Valentine fulminando Nascimonte con lo sguardo. «Per favore.» Rivolgendosi a Magadone Sambisa chiese: «A che ora è avvenuto l'omicidio?»

«A notte fonda. Dev'essere stato dopo la mezzanotte.»

«Sono stato io l'ultimo a vedere il dottor Huukaminaan», disse uno degli archeologi metamorfi, un piurivar dall'aspetto fragile con la pelle di un'elegante sfumatura di verde smeraldo. Il suo nome era Vo-Siimifon; Magadone Sambisa l'aveva presentato come un'autorità in materia di antica scrittura piurivar. «Siamo rimasti svegli fino a tardi nella nostra tenda, lui e io, a discutere di un'iscrizione che era stata rinvenuta il giorno prima. I caratteri erano estremamente minuti; a un certo punto il dottor Huukaminaan ha detto di avere mal di testa, dopodiché ha deciso di andare a fare una passeggiata all'esterno. Io sono andato a dormire. E il dottor Huukaminaan non è più tornato.»

«È un bel pezzo di strada, da qui ad arrivare alle piattaforme», osservò Mirigant. «Direi che sono piuttosto lontane. A occhio e croce ci vorrà almeno mezz'ora per raggiungerle a piedi. Forse di più, per una persona della sua età. Era un uomo anziano, se non vado errato.»

«Ma se qualcuno l'ha incrociato appena fuori dell'accampamento», intervenne Tunigorn, «e lo ha costretto ad andare fino alle piattaforme…»

«Siete soliti disporre una guardia notturna all'accampamento?» indagò Valentine.

«No. Non pensavamo fosse necessario.»

«E il sito degli scavi? È recintato, o protetto in qualche modo?»

«No.»

«Perciò chiunque avrebbe potuto lasciare il villaggio degli operai sul fare della notte», disse Valentine, «e aspettare in strada che uscisse il dottor Huukaminaan.» Guardò Vo-Siimifon. «Il dottor Huukaminaan faceva abitualmente una passeggiata prima di mettersi a letto?»

«Non che io ricordi.»

«E se per qualche motivo abbia deciso di uscire di notte, è probabile che abbia affrontato un tratto di strada così lungo?»

«Era un uomo piuttosto resistente per la sua età», rispose il piurivar, «ma la distanza mi sembra comunque troppo grande perché si sia trattato di una passeggiata prima di andare a dormire.»

«Già. Così parrebbe.» Valentine si rivolse di nuovo a Magadone Sambisa. «Temo che dovremo interrogare i suoi operai. E anche tutti i componenti della sua spedizione. Comprenderà che allo stato attuale non possiamo arbitrariamente escludere nessuno dalla lista di potenziali sospetti.»

Un lampo le balenò negli occhi. «Sono sospettata anch'io, maestà?»

«Allo stato attuale», ripeté Valentine, «nessuno dei presenti è sospettato. E al tempo stesso lo sono tutti. A meno che lei non voglia farmi credere che il dottor Huukaminaan si sia tolto la vita smembrandosi e spargendo parti del suo corpo per tutta la superficie della piattaforma.»


La notte era stata fresca, ma il sole si levò nel cielo del mattino con incredibile rapidità. Quasi subito, per quanto fosse molto presto, l'aria cominciò a pulsare del calore del deserto. Era assolutamente necessario cominciare di buon'ora i lavori presso il sito, aveva spiegato Magadone Sambisa, poiché già a mezzogiorno il caldo rendeva molto difficili le operazioni di scavo.

Valentine era pronto quando lei lo fece chiamare, poco dopo l'alba. Dietro sua esplicita richiesta, si sarebbe fatto accompagnare solo da alcuni membri del suo corpo di sicurezza, lasciando all'accampamento i suoi funzionali. Tunigorn protestò, e così fece Mirigant. Ma la capo spedizione si mostrò irremovibile: quel mattino desiderava compiere un sopralluogo con il solo Pontifex, e una volta visto quanto lei aveva da mostrargli, sarebbe stato lui a decidere se condividere le informazioni con gli altri.

Lo stava conducendo alla Settima piramide. O piuttosto a ciò che di essa restava, dato che non c'era altro che la base tronca, una struttura quadrata di circa sei metri di lato e un paio di metri d'altezza, costruita con lo stesso basalto rossastro utilizzato per la grande arena e alcuni degli altri edifici pubblici. A est della base, i frammenti della parte superiore della piramide, blocchi piuttosto piccoli e frantumati della medesima pietra rossastra, giacevano sparsi su una vasta area di terreno. Era come se un colosso furioso avesse colpito sprezzantemente con un poderoso manrovescio la faccia occidentale della piramide, spaccandola in mille pezzi. Sul lato della piramide opposto a quello delle rovine, a una distanza di circa centocinquanta metri, Valentine vedeva la punta della Sesta piramide, ancora intatta, che svettava sopra una macchia di alberi dai rami contorti, e alle sue spalle le altre cinque, che si succedevano in fila fino ai margini del palazzo reale.

«Secondo la tradizione dei piurivar», spiegò Magadone Sambisa, «la gente di Velalisier celebrava una grande festa ogni mille anni e per commemorarla costruiva ogni volta una piramide. Quello che abbiamo scoperto studiando e datando le sei piramidi intatte sembra confermare questa versione. Sappiamo che questa fu l'ultima della serie. Stando alla leggenda», e a questo punto rivolse un'occhiata pregna di significato a Valentine, «fu eretta proprio in occasione della festa durante la quale ebbe luogo la Profanazione. Ed era stata appena completata quando la città venne invasa e distrutta da coloro che arrivarono qui per punire i suoi abitanti per quanto avevano fatto.»

Gli fece cenno di seguirla, conducendolo sul lato settentrionale della piramide abbattuta. Oltrepassarono di una quindicina di metri la base tronca, poi lei si fermò. Erano in un punto in cui la vegetazione era stata rimossa con cura. Valentine vide un'apertura rettangolare grande abbastanza da consentire appena il passaggio di un uomo, e l'inizio di un passaggio sotterraneo che si estendeva in direzione delle fondamenta della piramide.

Una stella di nastro adesivo giallo era applicata su un masso di notevoli dimensioni alla sinistra dello scavo.

«È qui che avete trovato la testa, vero?» domandò.

«No, non qui. Giù da basso.» Indicò l'apertura. «Vuole seguirmi, maestà?»

Sei membri della guardia personale di Valentine lo avevano accompagnato quel mattino al sito della piramide: la guerriera gigante Lisamon Hultin, la sua guardia del corpo personale, che era stata al suo fianco in tutti i suoi spostamenti fin dai tempi in cui faceva il giocoliere; due skandar grossi e pelosi; un paio di funzionari pontifici che aveva ereditato dal suo predecessore; e anche un metamorfo, tale Aarisiim, che si era unito alle forze di Valentine defezionando dallo schieramento dell'arcirivoltoso Faraataa nelle ore conclusive della Guerra di Ribellione e da allora era sempre rimasto con lui. Tutti e sei fecero un passo in avanti, come se intendessero scendere con lui nel cunicolo, nonostante gli skandar e Lisamon Hultin fossero palesemente troppo grossi per passare attraverso la botola. Ma Magadone Sambisa scosse energicamente la testa e Valentine, sorridendo, fece loro cenno di aspettarlo all'esterno.

L'archeologa accese una torcia e varcò l'apertura nel terreno. La discesa era ripida e una successione di gradini scolpiti con precisione nella terra li portò a una profondità di circa tre metri. Poi, a un tratto, il passaggio sotterraneo tornava in piano. Il pavimento era rivestito di grandi lastre ricavate da una lucida roccia verde. Magadone Sambisa ne illuminò una con la torcia e Valentine vide che recava incisi alcuni geroglifici, delle rune, simili a quelle che aveva notato sul lastricato del maestoso viale cerimoniale che correva accanto al palazzo reale.

«Questa è la nostra grande scoperta», annunciò lei. «Sotto ciascuna delle sette piramidi ci sono dei santuari, di cui prima ignoravamo, anzi neppure sospettavamo l'esistenza. Eravamo al lavoro vicini alla Terza piramide circa sei mesi fa e stavamo cercando di stabilizzarne le fondamenta quando ci siamo imbattuti nel primo. Era stato saccheggiato, molto probabilmente già in epoca antica. Ma è stata comunque una scoperta eccitante e ci siamo subito messi alla ricerca di santuari simili sotto le altre cinque piramidi, quelle intatte. E li abbiamo trovati. Anch'essi saccheggiati. Non ci siamo dati fretta di scavare sotto la Settima piramide. Eravamo convinti che non ci avremmo rinvenuto nulla di interessante, che avremmo trovato anche gli eventuali santuari là sotto spogliati di tutto fin dall'epoca in cui la piramide venne distrutta. Ma poi Huukaminaan e io abbiamo deciso che sarebbe valsa comunque la pena dare un'occhiata e abbiamo aperto uno scavo, nel punto dal quale siamo entrati oggi. In poco più di una giornata abbiamo trovato questo pavimento lastricato. Venga.»

Si inoltrarono nel passaggio, entrando in una galleria costruita con cura, larga abbastanza da poter essere percorsa da quattro persone di fianco. Le pareti erano formate da sottili lamine di pietra nera posate di lato, come libri sugli scaffali di una biblioteca, e sostenevano un tetto a volta dello stesso materiale che si restringeva in una serie di archi a sesto acuto. Tutti gli elementi architettonici erano di ottima fattura e avevano un aspetto distintamente arcaico. L'aria nella galleria era calda, stantia e secca: aria antica, senza vita. Valentine ne sentiva l'odore morto e viziato nelle narici.

«Chiamiamo questo genere di passaggio sotterraneo un ipogeo processionale», spiegò Magadone Sambisa. «Probabilmente veniva percorso dai sacerdoti che andavano a offrire doni al santuario della piramide.»

La sua torcia gettava un pallido cerchio di luce che permise a Valentine di intravedere una parete di pietra bianca finemente lavorata che ostruiva il passaggio poco più avanti. «Quelle sono le fondamenta della piramide?» domandò.

«No. È la parete del santuario adagiata contro la base della piramide. La piramide vera e propria comincia dall'altra parte della parete. Anche gli altri santuari sono posizionati accanto alle piramidi allo stesso modo. La differenza è che tutti gli altri erano stati aperti, le pareti che li chiudevano distratte. Questa, invece, pare non essere mai stata toccata.»

Valentine domandò con voce poco più alta di un sussurro: «E che cosa credete ci sia all'interno?»

«Non ne abbiamo idea. Avevamo rimandato l'apertura del santuario in attesa del ritorno di Lord Hissune da Zimroel, di modo che avreste potuto essere entrambi qui nel momento in cui avremmo perforato la parete. Ma poi… l'omicidio…»

«Già», disse sobriamente Valentine. Dopo un attimo aggiunse: «È curioso che i distruttori della città abbiano demolito la Settima piramide con tanta ferocia e lasciato intatto il santuario. A rigor di logica avrebbero dovuto radere tutto al suolo».

«Forse nel santuario c'era murato qualcosa da cui volevano tenersi lontani. Chi può dirlo? Può essere che non scopriremo mai la verità, anche dopo esserci entrati. Se decideremo di entrarci.»

«Se?»

«Potrebbero insorgere problemi, maestà. Problemi di natura politica, intendo. Dovremo discuterne. Ma questo non è il momento adatto.»

Valentine annuì. Indicò una fila di piccole nicchie, profonde una ventina di centimetri e alte trenta, scolpite nella parete a mezzo metro di altezza dal pavimento. «Le nicchie erano per le offerte?»

«Esattamente.» Magadone Sambisa le percorse da sinistra a destra con il fascio di luce della torcia. «In alcune di esse abbiamo trovato tracce microscopiche di fiori secchi, frammenti di vasi e ciottoli colorati, in altre… ecco, sono ancora al loro posto. E alcuni resti di animali.» Esitò. «Poi, in quella più a sinistra…»

La luce della torcia si posò su una stella di nastro giallo applicata al fondo della nicchia.

A Valentine mancò brevemente il fiato per lo choc. «Lì dentro

«La testa di Huukaminaan, sì. Sistemata con cura al centro della nicchia, rivolta verso l'esterno. Una sorta di offerta, immagino.»

«A chi? A che cosa?»

L'archeologa si strinse nelle spalle e scosse la testa.

Poi, a un tratto, disse: «Dovremmo tornare in superficie ora, maestà. L'aria quaggiù non è buona e non è saggio soffermarsi a lungo. Volevo semplicemente mostrarle dove si trova il santuario. E dove abbiamo trovato la parte mancante del corpo del dottor Huukaminaan».


Più tardi quello stesso giorno, Magadone Sambisa mostrò a Valentine, stavolta accompagnato da Nascimonte, Tunigorn e gli altri componenti della sua scorta, il sito dell'altra importante scoperta della spedizione: il bizzarro cimitero, precedentemente ignoto, dove gli antichi abitanti di Velalisier avevano seppellito i loro morti.

O, più precisamente, avevano seppellito alcuni frammenti dei loro morti. «Pare non esserci un corpo integro in tutto il cimitero. In ognuna delle tombe che abbiamo aperto abbiamo trovato solo minuscoli pezzetti: un dito, un orecchio, un labbro, un dito del piede. O addirittura qualche organo interno. Tutti imbalsamati con cura, riposti in un bellissimo cofanetto di pietra e sepolto sotto una di queste lapidi. Una parte a simboleggiare il tutto: una specie di tumulazione simbolica.»

Valentine fissava le lapidi con meraviglia e stupore.

Il cimitero dei metamorfi, vecchio di ventimila anni, era una delle viste più strane che gli si fossero mai parate davanti agli occhi in tutti gli anni passati a esplorare la miriade di strabilianti stranezze di Majipoor.

Copriva un'area che misurava poco più di trenta metri in lunghezza e diciotto in larghezza, in una zona isolata tra dune ed erbacce poco oltre la fine di uno dei viali lastricati che correvano da nord a sud. In quel piccolo appezzamento di terreno dovevano esserci forse diecimila tombe, tutte accalcate insieme. Una piccola stele di pietra arenaria marrone, larga come la mano di un uomo e alta una quarantina di centimetri, spuntava verso l'alto da ciascuna di esse. E ognuna andava a disturbare quelle adiacenti, inclinandosi di lato e incrociandosi con esse, cosicché il cimitero risultava alla vista come un fitto agglomerato di sottili lapidi irregolarmente disposte ad angolo, una sorta di intricato roveto che avrebbe stordito l'occhio di chiunque.

Un tempo tutte le lapidi dovevano essere state amorevolmente sistemate in posizione verticale, sopra il cofanetto di pietra che conteneva il pezzo del defunto che si era scelto di seppellire in quel luogo. Tuttavia, nel corso dei secoli, i metamorfi di Velalisier avevano evidentemente continuato ad affollare sempre più la piccola necropoli con nuove sepolture, finché ogni tomba si sovrapponeva a quelle vicine nella maniera più caotica immaginabile. Ogni metro quadrato di terreno ne ospitava a decine.

A mano a mano che le lapidi si moltiplicavano, affollandosi l'una contro l'altra senza che nessuno si curasse dei danni che ogni nuova tumulazione arrecava alle tombe preesistenti, le pietre più vecchie venivano scalzate dalla posizione perpendicolare da quelle nuove. Le sottili stele erano tutte precariamente inclinate in un verso o nell'altro, e avevano l'aspetto che potrebbe avere una foresta dopo il passaggio di un terribile uragano, o dopo che il terreno sottostante fosse stato deformato da una violenta e devastante scossa di terremoto. Avevano tutte assunto angolazioni folli e non sembravano essercene due inclinate nella stessa direzione.

Ciascuna delle esili lapidi recava inciso un unico, elegante geroglifico, in un punto a esattamente un terzo della lunghezza della pietra dalla cima. Si trattava di intricate spire arabescate, del genere di quelle rinvenute in altre zone della città. Ma ciascun simbolo era diverso da tutti gli altri. Rappresentavano i nomi dei deceduti? Preghiere rivolte a un dio dimenticato da secoli?

«Non avevamo idea dell'esistenza di questo posto», confessò Magadone Sambisa. «È il primo luogo di sepoltura mai scoperto a Velalisier.»

«E io posso confermarlo», assicurò Nascimonte, strizzando giovialmente l'occhio. «Io stesso ho fatto qualche scavo da queste parti, sapete, molti anni fa. Ero a caccia di tombe, di tesori nascosti che avrei potuto rivendere, nel periodo in cui ero esiliato dai miei possedimenti sotto il regno del falso Lord Valentine. Vivevo da bandito nel deserto. Ma all'epoca nessuno di noi trovò alcuna tomba. Neppure una.»

«E non ne avevamo trovate neppure noi, per quanto le avessimo cercate», ammise Magadone Sambisa. «Imbatterci in questo luogo è stato un autentico colpo di fortuna. Era sepolto in profondità sotto le dune, a tre, quattro, cinque metri sotto la superficie della sabbia. Poi un giorno, lo scorso inverno, la valle venne spazzata da una terribile tromba d'aria che insistette su questa parte della città per circa mezz'ora. L'intera duna venne sollevata e gettata da qualche altra parte e quando il vento si calmò trovammo rivelata questa stupefacente collezione di lapidi. Ecco, guardate.»

S'inginocchiò e rimosse un sottile strato di sabbia dalla base di una lapide vicina. Le bastarono pochi gesti per portare alla luce il coperchio di un cofanetto di pietra grigia lucidata. Lo liberò dal terreno e lo posò da un lato.

Tunigorn emise un suono di disgusto. Valentine si chinò, scrutò l'interno del cofanetto e vide sul fondo qualcosa che sembrava un ricciolo di cuoio scuro.

«Sono tutte così», disse Magadone Sambisa. «Sepolture simboliche che occupano uno spazio minimo. Un sistema efficiente, considerata la popolazione che Velalisier doveva contare nei suoi anni di massimo splendore. Un pezzettino del corpo del defunto veniva sepolto qui, preparato con tanta abilità da essere ancora in discrete condizioni dopo migliaia di anni. Per quanto ne sappiamo, il resto del cadavere veniva probabilmente esposto sulle colline attorno alla città, lasciato a consumarsi attraverso il naturale processo di decomposizione. Un cadavere di piurivar si decompone molto rapidamente. È assurdo pensare di trovarne traccia dopo tutto questo tempo.»

«Sono molto diverse le usanze dei mutaforma di oggi, in fatto di sepoltura?» domandò Mirigant.

Magadone Sambisa gli rivolse uno sguardo curioso. «Non sappiamo praticamente nulla a proposito delle pratiche funerarie dei piurivar contemporanei. Come lei saprà, sono una razza piuttosto riservata. Hanno scelto di non dirci nulla su tali argomenti ed evidentemente noi non abbiamo voluto essere indiscreti facendo loro domande, perché non esistono praticamente documenti scritti in merito. Non abbiamo nulla.»

«Eppure ci sono scienziati mutaforma nell'équipe di cui lei stessa è a capo», osservò Tunigorn. «Certamente non apparirebbe invadente nel consultare i suoi colleghi su argomenti del genere. Che senso ha far studiare archeologia ai mutaforma se poi ci mostriamo tutti troppo timorosi di offenderli per mettere a frutto la loro conoscenza dei costumi del loro popolo?»

«La verità è che ho discusso di questo sito con il dottor Huukaminaan non molto tempo dopo la sua scoperta», disse Magadone Sambisa. «Sembrava molto colpito dalla disposizione del luogo e dalla densità delle sepolture. Ma per nulla sorpreso dall'usanza di tumulare parti del corpo anziché il cadavere intero. Ha lasciato intendere che quanto vediamo qui per alcuni aspetti non differisce molto dalle pratiche seguite ancora oggi dai piurivar. In quell'occasione non abbiamo avuto tempo di scendere in ulteriori dettagli e abbiamo lasciato cadere entrambi l'argomento. E ora… ora…»

Di nuovo il suo volto si contrasse in quella espressione di attonita impotenza, di futilità e smarrimento nei confronti di una morte violenta, che aveva la meglio su di lei ogni volta che si toccava l'argomento dell'omicidio di Huukaminaan.

Non differisce molto dalle pratiche seguite ancora oggi dai piurivar, ripeté tra sé Valentine.

Rifletté sul modo in cui il corpo di Huukaminaan era stato sezionato, i pezzi martoriati lasciati in diversi punti della piattaforma sacrificale, la testa portata nel cunicolo sotto la Settima piramide e sistemata con cura in una delle nicchie del santuario sotterraneo.

C'era qualcosa di implacabilmente alieno in quel truce atto di smembramento, che portò di nuovo Valentine alla conclusione, mistificante e odiosa, eppure apparentemente inevitabile, che si era fatta prepotentemente strada in lui fin dal momento del suo arrivo. L'omicida dell'archeologo metamorfo dev'essere anch'egli un metamorfo. Come notato in precedenza da Nascimonte, sembrava esserci un che di rimale in quello scempio, un qualcosa che portava a pensare immediatamente all'opera di un metamorfo.

Ma il mistero rimaneva fitto. Valentine faticava a credere che il vecchio potesse essere stato ucciso da un suo simile.

«Che tipo era Huukaminaan?» domandò a Magadone Sambisa. «Io non ho mai avuto occasione di conoscerlo. Era litigioso? Irascibile?»

«Per nulla. Era una persona dolce e gentile. Uno studioso brillante. Tutti, piurivar e umani, lo amavano e lo ammiravano.»

«Tutti tranne uno, evidentemente», commentò sarcasticamente Nascimonte.

Forse la teoria di Nascimonte meritava di essere presa in considerazione. Valentine volle sapere: «C'è forse stata una divergenza di vedute per motivi professionali? Una polemica per arrogarsi il merito di una scoperta, una controversia nata da teorie contrastanti?»

Magadone Sambisa fissò il Pontifex come se avesse perso il senno. «Maestà, pensa davvero che possiamo arrivare a ucciderci tra colleghi per simili questioni?»

«Un'ipotesi sciocca, la mia», lasciò cadere Valentine con un sorriso. «Molto bene», continuò, «ammettiamo allora che nel corso del suo lavoro qui Huukaminaan sia venuto in possesso di un reperto prezioso, di un tesoro di valore inestimabile che avrebbe certamente ottenuto un prezzo fantastico se venduto sul mercato dell'antiquariato. Questo non avrebbe potuto costituire un movente?»

Di nuovo uno sguardo incredulo. «I reperti che troviamo qui, maestà, consistono in semplici statuette di pietra arenaria e mattoni recanti iscrizioni, non in tiare dorate e smeraldi grandi come uova di gihorna. Tutto quanto valeva la pena di essere saccheggiato fu portato via molto, molto tempo fa. E la tentazione di vendere privatamente i piccoli reperti che rinveniamo è tanto distante da noi quanto… quanto… be', quanto il pensiero di ucciderci tra di noi. I nostri ritrovamenti vengono divisi equamente tra il museo dell'università ad Arkilon e la tesoreria piurivar a Ilirivoyne. In ogni caso… no, no, non vale neppure la pena discuterne. L'idea è assolutamente assurda.» Le sue guance divennero istantaneamente rosso fuoco. «Mi perdoni, maestà, non volevo essere irrispettosa.»

Valentine sorvolò sulle sue scuse. «Vede, sto solo cercando di trovare una spiegazione plausibile per questo delitto. Un elemento dal quale cominciare a investigare, se non altro.»

«Te lo fornisco io, Valentine», intervenne Tunigorn. Il suo volto solitamente franco e gioviale era contratto in un cipiglio bilioso, la fronte corrucciata in modo da unire in un'unica riga scura le sue folte sopracciglia. «L'aspetto fondamentale che dobbiamo tenere sempre presente è che questo luogo è maledetto. E tu lo sai, Valentine. Su questo posto grava una maledizione. Furono gli stessi mutaforma a farla cadere sulla città, solo il Divino sa quante migliaia di anni fa, quando la distrussero per punire quelli che avevano fatto a pezzi i due draghi marini. Il loro intento era garantire che il luogo fosse abbandonato ed evitato per sempre. Da allora è popolato solo di fantasmi. Inviando qui questi tuoi archeologi, Valentine, hai disturbato quei fantasmi. Li hai irritati. E ora stanno reagendo. L'uccisione del vecchio Huukaminaan è stato il primo passo. Ce ne saranno altri. Ricordati queste mie parole!»

«E dunque credi che i fantasmi siano capaci di tagliare una persona in cinque o sei pezzi e di spargerli per ogni dove?»

Tunigorn non sembrava affatto divertito. «Non so che cosa siano o non siano capaci di fare i fantasmi», replicò seccamente. «Ti sto solo dicendo quali sono le mie sensazioni.»

«Grazie, vecchio amico mio», disse sinceramente Valentine. «Daremo al tuo pensiero la considerazione che merita.» Poi, rivolgendosi a Magadone Sambisa, disse: «Devo confessarle quali sono state le mie sensazioni oggi, scaturite da quanto lei mi ha mostrato, qui e al santuario della piramide. Ossia che l'omicidio di Huukaminaan ha tutto l'aspetto di essere stato un'uccisione rituale, e che il rito in questione appartenga alla cultura piurivar. Non sto dicendo che è così: sto solo affermando che le apparenze sono queste».

«E con questo?»

«Con questo abbiamo il nostro punto di partenza. Ora credo che dobbiamo passare alla fase successiva della nostra indagine. La prego gentilmente di voler convocare per questo pomeriggio tutti gli archeologi piurivar che fanno parte della sua équipe. Voglio parlare con loro.»

«Uno alla volta o tutti insieme?»

«Per cominciare, tutti insieme», rispose Valentine. «Poi vedremo.»


Il problema era che i componenti dell'équipe di Magadone Sambisa erano sparsi per tutta l'enorme zona archeologica, ciascuno impegnato in un progetto specifico, e lei lo pregò di permetterle di non disturbarli finché non si fosse conclusa la giornata di lavoro. Sarebbe occorso molto tempo per raggiungerli, disse, e ora che si fossero incamminati verso l'accampamento il sole sarebbe ormai stato alto, costringendoli ad attraversare le rovine della città nella canicola di mezzogiorno, anziché rifugiarsi in una delle buie caverne in attesa delle ore più fresche della sera. Li incontri al tramonto, lo implorò. Lasci che portino a termine i loro programmi per la giornata.

Sembrava una richiesta ragionevole. Valentine acconsentì.

Ma il Pontifex fu incapace di mettersi in paziente attesa del tramonto. L'omicidio l'aveva profondamente scosso. Era un nuovo sintomo di quelle strane nuove tenebre che nel corso della sua esistenza aveva visto addensarsi sopra il mondo. Nonostante la sua vastità, Majipoor era da lungo tempo un pianeta pacifico, che offriva agi e abbondanza a tutti i suoi abitanti; e i crimini di qualsiasi natura erano una straordinaria rarità. Eppure, in quell'epoca condivisa da una sola generazione, gli abitanti del pianeta erano stati testimoni prima dell'assassinio del Coronal Lord Voriax, poi dell'usurpazione, diabolicamente concepita, che aveva temporaneamente allontanato dal trono il suo legittimo successore, Valentine.

Ora tutti sapevano che dietro entrambi quei riprovevoli atti si erano celati i metamorfi.

E dopo il ritorno al potere di Valentine, si era scatenata la Guerra di Ribellione, mossa dal rancoroso metamorfo Faraataa, che portò con sé pestilenze, carestie, scontri nelle città, distruzione ovunque e un diffuso senso di panico. Valentine era riuscito infine a reprimere la rivolta prendendosi carico in prima persona di togliere la vita a Faraataa, un atto che Valentine, per natura gentile d'animo, aveva avuto in orrore, ma che aveva dovuto compiere comunque perché così andava fatto.

Ora, in quella nuova era di pace e armonia che Valentine, il Pontifex in carica, aveva inaugurato, un ammirevole e amato anziano accademico metamorfo era stato ucciso nella maniera più efferata. Ucciso nella città sacra degli stessi metamorfi, mentre conduceva un'opera di recupero archeologico voluta da Valentine, tra le altre, per dimostrare il nuovo rispetto degli umani nei confronti del popolo aborigeno che aveva colonizzato con il suo arrivo a Majipoor. E c'erano tutte le indicazioni, fino a quel momento, se non altro, che l'assassino fosse anch'egli un metamorfo.

Eppure pareva assurdo.

Forse Tunigorn aveva ragione nel dire che la fonte di tutto doveva essere una qualche antica maledizione. Una supposizione che Valentine trovava difficile da accettare. Credeva poco alle maledizioni e non era superstizioso. Eppure… eppure…

Passeggiava irrequieto per le rovine della città, sfidando le ore più calde della giornata, incurante del disagio, trascinandosi dietro il suo riluttante seguito. Il gigantesco occhio verde-oro del sole li fissava dall'alto, impietoso. All'orizzonte l'aria appariva increspata dal calore. Gli arbusti dalle piccole foglie della consistenza di cuoio che crescevano per ogni dove tra le rovine sembravano ripiegarsi su se stessi, nel tentativo di nascondersi dalle torride ondate di luce. Addirittura le lucertole di cui le antiche pietre erano infestate si facevano sempre più reticenti a mostrarsi a mano a mano che la temperatura si alzava.

«Ho quasi l'impressione di essere stato trasportato a Suvrael», commentò Tunigorn, ansimando per il caldo mentre teneva doverosamente il passo impostato dal Pontifex. «Questo è il clima delle sventurate terre del Sud, non della nostra verdeggiante Alhanroel.»

Nascimonte gli rivolse un ghigno sardonico. «Un altro chiaro esempio della malevolenza dei mutaforma, mio caro Lord Tunigorn. Ai tempi in cui la città era abitata, fitte foreste verdi si estendevano tutt'intorno e l'aria era fresca e balsamica. Poi venne deviato il fiume, le foreste morirono e qui non rimase altro che le scarne rocce che puoi ben vedere, che assorbono il calore del mezzogiorno e lo trattengono come spugne. Chiedine conferma alla signora archeologa, se non mi credi. Questa provincia fu deliberatamente trasformata in un deserto, al fine di punire coloro che vi abitavano e che avevano commesso un imperdonabile peccato.»

«Un motivo in più per farmi desiderare di trovarmi altrove», mormorò Tunigorn. «Ma no, il nostro posto è qui, al fianco di Valentine, ora e per sempre.»

Valentine udiva appena le loro parole. Avanzava senza una meta precisa, percorrendo viottoli ricoperti di erbacce, passando davanti a colonne cadute e facciate di edifici distrutte, ai gusci vuoti di quelli che forse un tempo erano stati negozi e taverne, alle linee accennate che segnavano le fondamenta di dimore scomparse che un tempo erano probabilmente state grandiose come palazzi. Nessun reperto era etichettato e Magadone Sambisa non era a portata di mano per riempirgli le orecchie con interminabili disquisizioni sulla precedente identità e funzione di quei luoghi. Erano frammenti della Velalisier perduta: sapeva solo questo. Resti scheletrici di un'antica metropoli.

Non risultava difficile neppure a lui immaginare quel luogo come un covo di antichi fantasmi. Un vitreo fulgore di luce che si levava da un cumulo di colonne spezzate… strani rumori che forse erano prodotti da creature, laddove nessuna creatura era visibile… lo sporadico soffio e fruscio di sabbia smossa; sabbia che apparentemente si muoveva di sua spontanea volontà…

«Ogni volta che vedo queste rovine», disse a Mirigant, che in quel momento era il più vicino a lui, «rimango colpito dall'antichità di tutto questo. Dal peso della storia che grava su ogni pietra.»

«Storia che nessuno ricorda», osservò Mirigant.

«Ma il suo peso rimane.»

«Non è la nostra storia.»

Valentine lanciò al cugino un'occhiata sdegnosa. «Forse tu la pensi così. Ma è la storia di Majipoor, e dunque è anche la nostra.»

Mirigant alzò le spalle senza ribattere.

Aveva senso quello che aveva appena detto, si domandò Valentine? O era il calore che cominciava a offuscargli la mente?

Meditò sulla questione. Gli si formò nella mente, con forza quasi pari a quella di un'esplosione, una visione della totalità del vasto pianeta di Majipoor. I suoi sconfinati continenti e travolgenti fiumi, gli immensi oceani, le giungle umide e i grandi deserti, le foreste di alberi torreggianti e le montagne, densamente popolate di strane e meravigliose creature, la moltitudine di città, le loro popolazioni di milioni di abitanti. Si sentì inondare l'anima di un sovraccarico di sensazioni, del profumo di mille specie di fiori, dell'aroma di mille spezie, del sapore gustoso di mille carni succulente, del bouquet di mille vini. Era un mondo di infinita ricchezza e varietà, la sua Majipoor.

E per uno strano caso di discendenza, a seguito della sventura del fratello, si era trovato a vestire prima i panni del Coronal, e ora quelli del Pontifex, la massima autorità di quel vastissimo mondo. Venti miliardi di persone riconoscevano in lui il loro imperatore. Il suo profilo adornava le monete; il mondo risuonava degli elogi che gli venivano fatti; il suo nome sarebbe stato iscritto per sempre nel rostro dei monarchi nella Casa del Registro, era divenuto una parte imperitura della storia del suo mondo.

Ma un tempo in quel mondo non vi erano stati né Pontifex, né Coronal. Città meravigliose come Ni-Moya e Alaisor e i cinquanta grandi centri urbani del Monte Castello non erano esistite. E in quel tempo, precedente all'inizio dell'insediamento degli umani su Majipoor, la città di Velalisier era già una realtà.

Che diritto aveva di appropriarsi della storia di quella città, morta e desolata già da migliaia di anni quando i primi coloni erano giunti dallo spazio, facendola confluire nella storia scritta dagli umani su quel pianeta? La soluzione di continuità tra la loro Majipoor e la nostra Majipoor, pensò, è in realtà così grande che forse non potrà mai essere colmata.

In ogni caso non riusciva a scrollarsi di dosso la sensazione che la grande legione di fantasmi che popolava quel luogo, alla quale neppure credeva, si celasse tutto attorno, la propria furia ancora inappagata. Toccava a lui fronteggiare e gestire in qualche modo quella furia, che finalmente era venuta a galla, o così sembrava, in forma di un terribile delitto costato la vita a un uomo anziano, amante della cultura e inoffensivo. Il senso logico che pervadeva ogni aspetto dell'animo di Valentine si rifiutava di comprendere un simile gesto. Eppure sapeva che il suo stesso destino, e forse anche quello del mondo, sarebbe potuto dipendere dalla soluzione del mistero che aveva per teatro quel luogo.

«Mi perdoni, maestà», disse Tunigorn, interrompendo le riflessioni di Valentine proprio mentre davanti a loro si apriva un nuovo labirinto di viuzze in rovina, «ma credo che se dovrò muovere ancora un passo in questo caldo, cadrò a terra delirando come un pazzo. Mi sento squagliare il cervello.»

«Allora ti consiglio di cercare rifugio alla svelta e rinfrescarlo, Tunigorn! Non puoi permetterti di danneggiare la materia grigia che ancora ti rimane, vecchio amico mio.» Valentine alzò un braccio e lo puntò in direzione dell'accampamento. «Torna pure indietro. Vai. Io invece proseguirò.»

Non sapeva perché, ma qualcosa gli imponeva di proseguire il suo mesto attraversamento dell'immensa distesa di rovine ingolfate dalla sabbia e scottate dal sole, come se fosse in cerca di qualcosa di cui però ignorava la natura. Uno alla volta anche gli altri suoi compagni lo abbandonarono, avanzando ciascuno una giustificazione plausibile, finché al suo fianco non rimase che l'instancabile Lisamon Hultin. La gigantessa gli era eternamente fedele. Lo aveva protetto dalle insidie della Foresta Mazadone prima della sua riconquista del trono di Coronal. Era stata la sua guardiana nella pancia del drago di mare che li aveva inghiottiti entrambi nel mare al largo di Piliplok, quella volta in cui erano stati vittima di un naufragio durante la traversata da Zimroel ad Alhanroel, riuscendo poi a liberarlo e a condurlo alla salvezza. E non lo avrebbe certo abbandonato ora. Al contrario, appariva pronta a camminare con lui tutto il giorno e tutta la notte, e anche tutto il giorno successivo, se era questo che lui voleva.

Ma ben presto anche Valentine dovette desistere. Il sole aveva da tempo superato lo zenit. Ombre rosa, viola e di un profondo color ossidiana cominciavano ad allungarsi in pozze dai contorni netti attorno a lui. Avvertiva un lieve capogiro e la vista cominciava a procurargli qualche problema per lo sforzo prolungato di contrastare l'incessante bagliore del sole. Ogni strada fiancheggiata da edifici crollati cominciava a risultargli identica alla precedente. Era ora di rientrare. Quale che fosse la penitenza che aveva sentito di dover pagare sottoponendosi a una camminata tanto faticosa in quel dominio di morte e distruzione, ora doveva certamente essere stata tributata. Più volte si appoggiò al braccio di Lisamon Hultin per cercare sostegno durante il tragitto di ritorno verso le tende dell'accampamento.

Magadone Sambisa aveva radunato i suoi otto archeologi metamorfi. Valentine, dopo essersi concesso un bagno ristoratore, un breve riposo e qualcosa da mangiare, li ricevette nella propria tenda poco dopo il tramonto, accompagnato solo dal piccolo vroon Autifon Deliamber. Voleva farsi una propria opinione dei metamorfi senza essere distratto dall'ingombrante presenza di Nascimonte e degli altri; Deliamber, tuttavia, possedeva certi poteri magici propri dei vroon che Valentine teneva in grande considerazione: forse il piccolo essere dai molti tentacoli avrebbe percepito, con quei suoi enormi e vispi occhi dorati, cose che potevano sfuggire alla vista umana di Valentine.

I mutaforma presero posto disponendosi a semicerchio di fronte a Valentine, alla cui sinistra sedeva il minuscolo e saggio anziano vroon. Il Pontifex scrutò con gli occhi il gruppo, dall'estremità a cui sedeva il direttore degli scavi Kaastisiik fino all'altra, segnata dal paleografo Vo-Siimifon. Loro ricambiarono compostamente il suo sguardo, quasi con indifferenza: otto piurivar dai volti di gomma e gli occhi a mandorla che rimanevano immobili mentre raccontava loro delle cose che aveva visto nel corso della giornata, del cimitero, della piramide in rovina e del santuario sotto di essa, della nicchia dove la testa di Huukaminaan era stata sistemata con tanta cura dal suo carnefice.

«Non direste che l'omicidio presenta alcuni aspetti marcatamente formali, quasi estetici?» domandò Valentine. «Il sezionamento del corpo, il trasferimento della testa al santuario, la deposizione di offerte nella nicchia…» I suoi occhi si fissarono sul volto di Thiuurinen, l'esperta di ceramiche antiche, una metamorfa minuta, flessuosa, dalla bella pelle color giada. «Lei che cosa ne pensa?»

La sua espressione rimase assolutamente impassibile. «Sono una ceramista. Non ho alcuna opinione in merito.»

«Non voglio la sua opinione di ceramista, ma in quanto componente dell'équipe. E collega del dottor Huukaminaan. Crede che la deposizione della testa nella nicchia abbia voluto rappresentare una specie di offerta a qualche divinità?»

«La supposizione che le nicchie fossero destinate ad accogliere offerte alle divinità è solo il risultato di congetture», rispose concisamente Thiuurinen. «Io non ho alcun elemento a disposizione per sostenere o negare questa tesi.»

Né lo avrebbe fatto comunque. Come gli altri, del resto. Nessuno si sarebbe esposto, né Kaastisiik, né Vo-Siimifon, né lo stratigrafo Pamikuuk, né la responsabile della catalogazione dei reperti Hieekraad, lo storico dell'architettura Driismiil, Klelliin, la massima autorità in materia di paleotecnologia piurivar, o Viitaal-Twuu, specialista in metallurgia.

Con gentilezza, sommessamente, con fermezza, irremovibilmente, scartarono tutte le argomentazioni avanzate da Valentine sull'ipotesi che il delitto fosse stato un omicidio rituale. Il macabro smembramento del dottor Huukaminaan era forse un rimando alle pratiche funerarie dell'antica Velalisier? L'aver posizionato la sua testa nella nicchia era forse un atto di propiziazione rivolto a qualche essere soprannaturale? C'erano elementi nella tradizione piurivar che potessero fornire una spiegazione dell'uccisione di una persona con tali modalità? Dissero di non sapere. O non volevano dire quanto sapevano. Si rifiutarono di dargli alcuna informazione anche quando chiese se il loro collega defunto potesse essersi fatto qualche nemico in rapporto agli scavi.

E allorché si domandò ad alta voce se potessero esserci state controversie e accese rivalità legate alla scoperta di qualche reperto particolarmente prezioso, sfociate poi nel brutale assassinio di Huukaminaan, oppure un litigio di natura più astratta, nato da un feroce disaccordo sui ritrovamenti fatti dalla spedizione o gli obiettivi che essa doveva porsi, si limitarono all'equivalente in uso presso i piurivar di una scrollata di spalle. Nessuno tradì alcuna traccia di sdegno di fronte all'implicazione che potesse essere stato uno di loro a uccidere il vecchio Huukaminaan per simili ragioni. Si comportarono come se la stessa nozione di poter compiere un atto del genere trascendesse la loro comprensione, un concetto a loro troppo alieno anche solo per essere preso in considerazione.

Nel corso del colloquio Valentine colse l'occasione di porre almeno una domanda diretta a ciascuno di loro. Ma il risultato fu sempre lo stesso. Negarono qualsiasi aiuto, ma senza mai mostrarsi troppo evasivi. Non rivelavano nulla, ma non sembravano tradire secondi fini o il desiderio di nascondere un segreto. Non c'era nulla di palesemente sospetto nel loro rifiuto di collaborare. Sembravano essere esattamente ciò che dichiaravano: scienziati, accademici appassionati, devoti al compito di svelare i misteri nascosti risalenti ai remoti trascorsi della loro razza, ma che nulla sapevano del mistero che era esploso proprio lì, al centro della loro spedizione. Non aveva la sensazione di trovarsi in mezzo a degli assassini.

Eppure… eppure…

Erano mutaforma. Lui era il Pontifex, l'imperatore della razza che li aveva soggiogati, il successore del quasi leggendario re soldato Lord Stiamot, che ottomila anni prima li aveva privati per sempre della loro indipendenza. Per quanto colti e dai modi gentili potessero essere, gli otto piurivar al suo cospetto non potevano certamente fare a meno di provare rabbia, a qualche livello del proprio animo, nei confronti dei loro dominatori umani. Non avevano alcuna ragione di collaborare con lui. Non si sentivano in alcun dovere di rivelargli la verità. E il suo intuito, ma Valentine si domandò se non fosse piuttosto il suo innato e irreprimibile pregiudizio razziale che veniva in superficie, gli diceva che non poteva fidarsi di quella gente. Poteva davvero dare credito all'impressione di apparente innocenza che comunicavano? Sarebbe mai stato possibile per un essere umano leggere quanto si celava dietro i freddi e impenetrabili connotati di un metamorfo?

«Tu che ne pensi?» domandò a Deliamber dopo aver congedato gli otto mutaforma. «Sono o non sono assassini?»

«Probabilmente no», rispose il vroon. «Non questi. Troppo pacati, troppo urbani. Ma le hanno nascosto qualcosa. Di questo sono certo.»

«Anche tu hai avuto la stessa sensazione?»

«Oltre ogni dubbio. Ho avvertito… maestà, lei conosce il significato della parola vroon hsirthiir

«No, non credo.»

«Non è facile da tradurre. Ma ha a che fare con il porre domande a qualcuno che non intende mentire, ma non vuole neppure raccontare necessariamente la verità, a meno che non si sappia esattamente come ottenerla. Si ha la forte percezione che ci sia un'importante strato di significato da qualche parte sotto la superficie di quanto viene detto, ma che non si potrà guadagnare l'accesso a tale significato nascosto a meno che non venga posta con precisione la domanda giusta. In sostanza, occorre essere già al corrente delle informazioni di cui si è alla ricerca prima di poter porre la domanda che ha il potere di schiudere la verità. È una sensazione molto frustrante, lo hsirthiir, quasi dolorosa. È come sbattere contro un muro di pietra. E io mi sono sentito sprofondare in uno stato di hsirthiir pochi minuti fa. Evidentemente è stato così anche per lei, maestà.»

«Evidentemente», rispose Valentine.


C'era ancora una visita da fare. Era stata una lunga giornata e Valentine cominciava ad avvertire una grande spossatezza. Ma sentiva il bisogno di coprire tutti i punti fondamentali della questione in un'unica passata; così, quando ormai era calato il buio, chiese a Magadone Sambisa di condurlo al villaggio dei lavoratori metamorfi.

Lei non accolse l'idea di buon grado. «Solitamente evitiamo di disturbarli quando hanno terminato la loro giornata di lavoro e sono rientrati a casa, maestà.»

«Solitamente qui non avvengono omicidi. Né sono solite le visite di un Pontifex. Preferisco parlare con loro stasera ed evitare di interrompere gli scavi domani, se per lei non è un problema.»

Volle nuovamente Deliamber al suo fianco. Dietro propria insistenza, andò con loro anche Lisamon Hultin. Tunigorn era troppo stanco per seguirli, ancora prostrato dalla lunga camminata di mezzogiorno tra le rovine, e Mirigant aveva qualche linea di febbre, vittima forse di una lieve insolazione; il formidabile vecchio duca Nascimonte, invece, a dispetto dell'età avanzata, si unì prontamente al gruppo e affiancò a cavallo il Pontifex. A completare la spedizione fu Aarisiim, il membro metamorfo del servizio di sicurezza di Valentine, che Valentine portò con sé non tanto per farsi proteggere, compito che Lisamon Hultin avrebbe assolto splendidamente, quanto per preoccupazioni legate alla questione hsirthiir.

Nonostante i suoi trascorsi, agli occhi di Valentine Aarisiim era fidato più di quanto potesse esserlo qualsiasi altro piurivar: aveva messo a repentaglio la propria vita tradendo Faraataa ai tempi della Ribellione, quando decise che il proprio capo aveva oltrepassato il limite della decenza minacciando di uccidere la regina metamorfa. Ora poteva essere utile al Pontifex, cogliendo forse sfumature che sarebbero sfuggite anche al perspicace Deliamber.

Il villaggio dei lavoratori consisteva in un'accozzaglia di misere capanne di vimini che sorgevano oltre i confini esterni del settore centrale degli scavi. Il suo aspetto improvvisato ricordò a Valentine la città di Ilirivoyne, la capitale mutaforma nella giungla di Zimroel che aveva visitato molti anni prima. Ma quel luogo era ancora più desolato e squallido di Ilirivoyne. Nella giungla, se non altro, i metamorfi avevano a disposizione un'abbondanza di giovani alberi alti e dritti e di liane con cui costruire le loro povere capanne, mentre qui, in mezzo al deserto, non potevano ricorrere ad altro che ai nodosi e contorti arbusti che punteggiavano la pianura di Velalisier. Di conseguenza, le loro capanne erano costruzioni piccole e anguste, spaventosamente contorte e distorte.

Chissà come, la notizia dell'arrivo del Pontifex li aveva preceduti. Valentine li trovò raccolti a gruppi di otto o dieci persone davanti alle loro dimore, chiaramente in attesa della sua comparsa. Avevano tutti un aspetto miserevole e patito, erano magri, trascurati e malvestiti, molto diversi dai metamorfi urbani e colti che appartenevano all'équipe di archeologi di Magadone Sambisa. Valentine si domandò dove trovassero le forze necessarie per scavare e lavorare nel clima inospitale della valle.

Alla comparsa del Pontifex gli si fecero incontro per salutarlo, circondando rapidamente lui e il suo seguito al punto da allarmare Lisamon Hultin, che emise un sibilo e portò la mano all'elsa della sua spada a vibrazione.

Ma non sembravano avere cattive intenzioni. Gli si raccolsero attorno eccitati, rendendogli omaggio, con sua grande sorpresa, nel modo più ossequioso, spintonandosi l'uno con l'altro per riuscire a baciargli l'orlo della tunica, inginocchiandosi nella sabbia davanti a lui, alcuni addirittura prostrandosi. «No», gridò Valentine, sconcertato. «Non è necessario. Non è giusto.» Magadone Sambisa stava già ordinando loro, bruscamente, di farsi indietro, e Lisamon Hultin e Nascimonte allontanavano con spinte decise quelli che si erano avvicinati troppo a lui. I gesti della gigantessa erano calmi, per nulla affrettati, efficienti, laddove gli spintoni di Nascimonte erano più violenti, cattivi, l'avversione che provava evidente negli occhi infuocati. Al ritirarsi della prima ondata, tuttavia, se ne sostituì una seconda, che cercò di raggiungerlo con frenetica decisione.

Il vigore con cui quella gente sembrava voler mostrare al Pontifex la propria sottomissione era tale, in realtà, da destare in lui il sospetto che il loro entusiasmo fosse totalmente falso, una ostentata esagerazione di gesti altrimenti appropriati. Quanto era plausibile, si domandò, che un gruppo di piurivar, per quanto semplici e di bassa estrazione, potesse provare autentica e incontenibile gioia alla vista del Pontifex di Majipoor? Ed era davvero possibile che avessero organizzato di propria iniziativa una tale spontanea dimostrazione di affetto?

Alcuni, sia donne, sia uomini, si permettevano addirittura di assumere le sembianze dei visitatori per rendere loro omaggio, dimodoché Valentine si trovò di fronte cinque o sei versioni distorte e lievemente offuscate di se stesso, un paio di Nascimonte e una grottesca, diminutiva imitazione di Lisamon Hultin. Valentine si era già imbattuto in passato in quel peculiare modo di rendere tributo, nel corso della sua visita a Ilirivoyne, risultandone anche allora turbato e inquietato. Provava le medesime sensazioni ora. Che cambiassero pure forma, se lo desideravano: era una loro capacità e potevano utilizzarla a proprio piacimento. Ma c'era qualcosa di quasi sinistro in quell'appropriazione indebita dei connotati dei loro visitatori.

La calca cominciò a farsi ancora più frenetica e incontrollata. Suo malgrado, Valentine cominciò ad avvertire un certo allarme. Gli abitanti del villaggio erano più di cento, mentre il Pontifex e i suoi accompagnatori non erano che un drappello sparuto. Se la situazione fosse sfuggita al controllo, avrebbero potuto trovarsi in guai seri.

Poi, una voce potente tuonò sopra la ressa ordinando: «Indietro! Indietro!» E a un tratto l'intera compagine di trasandati mutaforma si ritirò da Valentine come se venisse esortata da colpi di frusta. Calò un improvviso silenzio e ogni cosa sembrò farsi immobile. Dalla folla, ora placata, emerse e si fece avanti un metamorfo di corporatura insolitamente imponente e potente. Si produsse in un ampio gesto e annunciò, con tono cupo e roboante diverso da ogni altra voce metamorfa mai giunta alle orecchie di Valentine: «Sono Vathiimeraak, il capo di questi lavoratori. La prego di volersi sentire il benvenuto tra noi, o Pontifex. Noi siamo suoi servi».

Eppure in lui non c'era alcunché di servile. Era chiaramente un uomo di forte presenza e autorità. Si scusò brevemente per il comportamento inadeguato della sua gente, spiegando che i lavoratori erano semplici contadini, sopraffatti dall'eccitazione per la presenza tra loro di una delle massime espressioni di potere del reame. Era semplicemente il loro modo di tributare rispetto.

«Io lo conosco, quell'uomo», mormorò Aarisiim nell'orecchio sinistro di Valentine.

Ma il Pontifex non ebbe il tempo di farsi dire altro, poiché Vathiimeraak, voltandosi, alzò una mano come a dare un segnale e tutt'intorno riesplosero istantaneamente confusione e clamore. Gli abitanti del villaggio si allontanarono in decine di direzioni diverse. Alcuni ricomparvero quasi immediatamente recando taglieri di salsicce e ciotole di vino da offrire agli ospiti; altri trascinavano tavoli e panche malferme fuori dalle capanne. Tornarono a sciamare attorno a Valentine e ai suoi compagni, esortandoli stavolta ad assaggiare le prelibatezze che avevano portato.

«Ci stanno dando le loro cene!» protestò Magadone Sambisa, che ordinò a Vathiimeraak di porre fine al banchetto. Ma il caposquadra rispose con tono piatto che opporre un rifiuto all'ospitalità dei lavoratori sarebbe stato interpretato come un grave atto d'offesa. Non ci fu nulla da fare: dovettero sedersi e accettare tutto quanto veniva portato dagli abitanti del villaggio.

«La prego, maestà», intervenne Nascimonte mentre Valentine si allungava per accettare una ciotola di vino. Il duca la prese dalle sue mani e ne assaggiò per primo il contenuto, attendendo poi qualche attimo prima di restituirgliela. Volle a tutti i costi assaggiare anche la salsiccia di Valentine e le misere verdure lesse di contorno.

In effetti Valentine non aveva pensato che quella gente potesse volerlo avvelenare. Permise comunque senza obiezioni a Nascimonte di espletare quel suo piccolo rito cavalieresco di sapore medievale. Voleva troppo bene al vecchio per negargli quel gesto.

Quando i festeggiamenti erano ormai ben avviati, Vathiimeraak disse: «Maestà, presumo che lei sia qui per via della morte del dottor Huukaminaan».

Il modo di esprimersi senza mezzi termini del caposquadra era allarmante. «Non potrei forse essere venuto qui per verificare i progressi compiuti nell'opera di scavo?» rispose benevolmente Valentine.

Vathiimeraak non sembrò neppure aver sentito le sue parole «Farò tutto quanto mi chiederà per aiutarvi a trovare l'assassino», disse, picchiando la mano sul tavolo per sottolineare quella dichiarazione. Per un istante il suo volto ampio dalle guance pesanti s'increspò e vibrò, come se stesse per cedere a un'involontaria metamorfosi. Valentine sapeva che una tale manifestazione in un piurivar tradiva un accesso di sentimento. «Io nutrivo il più grande rispetto per il dottar Huukaminaan. Era un privilegio lavorare al suo fianco. Ho spesso scavato per lui in prima persona, quando ritenevo che l'operazione fosse troppo delicata per essere affidata a mani meno esperte delle mie. Dapprima si opponeva, dicendo che non era giusto che un caposquadra scavasse, ma io protestavo: 'No, no, dottar Huukaminaan, la prego di concedermi questo onore', allora lui comprendeva e me lo permetteva… Mi dica, come posso esservi utile per smascherare l'autore di questo odioso crimine?»

Sembrava tanto solenne, diretto e franco che Valentine non poté fare a meno di ammonirsi di stare in guardia. La voce tonante di Vathiimeraak e il suo modo formale di esprimersi avevano un che di teatrale. La sua elaborata sincerità somigliava molto all'esagerata manifestazione di affetto degli abitanti del villaggio che si erano prostrati e avevano baciato le sue vesti: tanto eccessiva da risultare affatto convincente.

Sei troppo sospettoso di questa gente, si disse. Questo uomo sta semplicemente parlando nei termini che ritiene opportuno nel rivolgersi a un Pontifex. E, a ogni modo, ho la sensazione che possa esserci d'aiuto.

Gli domandò: «Che cosa sa delle modalità dell'omicidio?»

Vathiimeraak rispose senza esitare, come se avesse già avuto in serbo una replica pronta e ben provata. «So che è accaduto di notte, l'altra settimana, tra l'ora del gihorna e l'ora dello sciacallo. Una o più persone hanno attirato il dottor Huukaminaan fuori dalla tenda e l'hanno condotto alle Tavole degli dei, dove è stato ucciso e fatto a pezzi. Abbiamo ritrovato le varie parti del suo corpo il mattino seguente, in cima alla piattaforma occidentale, con la sola eccezione della testa. Quella l'abbiamo rinvenuta più tardi quello stesso giorno in una delle nicchie lungo la base del Santuario della disfatta.»

Più o meno la solita versione dei fatti, pensò Valentine. A eccezione di un unico, piccolo dettaglio.

«Il Santuario della disfatta? È la prima volta che ne sento parlare.»

«Intendevo dire il santuario della Settima piramide», precisò Vathiimeraak. «Il santuario sigillato trovato dalla dottoressa Magadone Sambisa. L'ho chiamato con il nome che usa per definirlo la mia gente. Noterà che non ho detto 'scoperto' dalla dottoressa. Noi abbiamo sempre saputo della sua esistenza lì dove si trova, adiacente alla piramide caduta. Ma nessuno ci aveva mai chiesto nulla, e noi non ne abbiamo mai fatto cenno.»

Valentine indirizzò un'occhiata a Deliamber, il quale annuì quasi impercettibilmente. Un nuovo caso di hsirthiir.

I conti, però, non tornavano. Valentine disse: «Se non erro, la dottoressa Magadone Sambisa mi ha detto di essersi imbattuta nel settimo santuario insieme con il dottor Huukaminaan. Mi ha detto che lui sembrava sorpreso quanto lei della sua presenza lì, in quel punto. Mi sta forse dicendo che lei era al corrente della sua esistenza e lui no?»

«Non esiste piurivar che ignori l'esistenza del Santuario della disfatta», ribatté impassibile Vathiimeraak. «Fu sigillata all'epoca della Profanazione e crediamo che contenga prove della Profanazione stessa. Se la dottoressa Magadone Sambisa ha avuto l'impressione che il dottor Huukarninaan non fosse al corrente della sua esistenza, evidentemente era un'impressione errata.» Di nuovo i contorni del volto del caposquadra vibrarono e s'incresparono leggermente. Si voltò preoccupato a guardare Magadone Sambisa e disse: «Nel contraddirla non è assolutamente mia intenzione offenderla, dottoressa Magadone Sambisa».

«Nessuna offesa», rispose lei, in realtà un po' seccata. «Ma se Huukarninaan sapeva del santuario prima del ritrovamento, certo è che non ne ha mai fatto cenno con me.»

«Forse sperava che non venisse trovato», commentò Vathiimeraak.

A quelle parole, sul volto di Magadone Sambisa comparve un'espressione di malcelata costernazione; e Valentine stesso percepì che forse si erano imbattuti in una pista che valeva la pena di battere. Ma stavano esulando dalla questione principale.

«Quello che lei dovrebbe fare per me», disse Valentine rivolgendosi a Vathiimeraak, «è verificare dove si trovassero tutti i suoi lavoratori, dal primo all'ultimo, nelle ore in cui è stato commesso l'omicidio.» Notò le avvisaglie di una reazione del caposquadra e aggiunse rapidamente: «Con questo non voglio insinuare che sia stato uno degli abitanti di questo villaggio a uccidere il dottor Huukarninaan. In questo momento non ci sono affatto sospettati. Ma è nostro dovere conoscere i movimenti di chiunque quella sera fosse presente nella zona degli scavi, o nelle sue vicinanze».

«Farò quello che posso.»

«So che il suo aiuto sarò preziosissimo», assicurò Valentine.

«Credo che sia opportuno chiedere anche l'aiuto del nostro khivanivod», disse Vathiimeraak. «Stasera non è tra noi. Si trova in ritiro spirituale in una delle zone più remote della città, a pregare per la purificazione dell'anima dell'assassino del dottor Huukarninaan, chiunque esso sia. Lo invierò da lei al suo ritorno.»

Ancora una sorpresa.

I khivanivod erano gli uomini sacri dei piurivar, figure a metà strada tra un sacerdote e uno stregone. Erano presenze relativamente rare nella vita moderna dei metamorfi, e il fatto che uno di loro risiedesse in quel remoto e improvvisato villaggio era certamente degno di nota. A meno che, naturalmente, le più alte autorità religiose dei piurivar avessero deciso di stanziarne uno a Velalisier per l'intera durata degli scavi, per accertare che tutte le operazioni fossero condotte con il dovuto rispetto dei luoghi sacri. Strano che Magadone Sambisa non gli avesse parlato della presenza di un khivanivod.

«Certamente», disse Valentine, con una punta di disagio. «Me lo mandi. Assolutamente.»


Mentre si allontanavano dal villaggio dei lavoratori, Nascimonte disse: «Valentine, mi duole confessarti che mi trovo nuovamente costretto a dubitare del tuo giudizio».

«Quanta pena ti dai per colpa mia», osservò Valentine con un sorriso. «Dimmi, Nascimonte: dove ho sbagliato questa volta?»

«Hai arruolato quel Vathiimeraak come tuo alleato nell'investigazione. Di più, l'hai trattato come se fosse un fidato agente di polizia.»

«A me è sembrato una persona a posto. E gli abitanti del villaggio ne sono tutti terrorizzati. Che male c'è se ci affidiamo a lui perché faccia domande in giro per conto nostro? Se provassimo a interrogarli noi, si chiuderebbero come ricci… oppure ci racconterebbero ogni sorta di fandonia. Vathiimeraak, invece, potrebbe essere in grado di cavare loro la verità, con quel suo fare minaccioso. O comunque qualche frammento di verità che potrebbe tornarci utile.»

«Non se è lui l'assassino», osservò Nascimonte.

«Ah, dunque è questo che pensi? Hai risolto il caso, caro amico mio? È Vathiimeraak il colpevole?»

«Potrebbe tranquillamente essere così.»

«Vuoi spiegarmi, se non ti dispiace?»

Nascimonte rivolse un gesto ad Aarisiim. «Diglielo.»

Il metamorfo disse: «Maestà, ricorderà che quando ho visto Vathiimeraak le ho detto che avevo l'impressione di averlo già conosciuto da qualche parte. Ed è così, benché abbia avuto bisogno di un po' di tempo per collocarlo. È un parente del ribelle Faraataa. Ai tempi in cui ero al seguito di Faraataa a Piurifayne, questo Vathiimeraak era spesso al nostro fianco».

Era una notizia inaspettata, ma Valentine tenne per sé le proprie reazioni. Con calma domandò: «Che importanza ha, questo? Abbiamo concesso un'amnistia, Aarisiim. A tutti i ribelli che si sono impegnati a vivere in rispetto della pace dopo la sconfitta di Faraataa sono stati pienamente restituiti tutti i diritti civili. E tu sei l'ultima persona a cui credo di doverlo rammentare».

«Questo non significa che siano tutti diventati bravi sudditi nel giro di una notte, non credi, Valentine?» volle sapere Nascimonte. «È certamente possibile che questo Vathiimeraak, che oltretutto aveva legami di sangue con Faraataa, nutra ancora sentimenti di…»

Valentine si rivolse a Magadone Sambisa: «Quando lo ha assunto, lei sapeva che era imparentato con Faraataa?»

Rispose con un certo imbarazzo: «No, maestà, assolutamente no. Ma ero al corrente che aveva partecipato alla Ribellione e che aveva accettato i termini dell'amnistia. Mi era stato caldamente raccomandato. Dobbiamo pur dare credito al significato dell'amnistia, no? La ribellione è stata repressa, è un capitolo chiuso, e coloro che vi hanno partecipato e si sono pentiti meritano di essere…»

«E secondo lei Vathiimeraak è realmente pentito?» indagò Nascimonte. «Chi può affermarlo con certezza? A mio modo di vedere è falso dalla testa ai piedi. E quella voce! Il suo modo altezzoso di parlare! Le espressioni di profonda riverenza nei confronti del Pontifex! Tutto falso. E per quanto riguarda la morte di Huukaminaan, guardatelo! Credete che sia stato facile tagliare a pezzi a quel modo il povero vecchio? Vathiimeraak ha la corporatura di un toro bidlak. In quel villaggio di scavatori mingherlini si distingueva come un albero dwikka in mezzo a una pianura.»

«Il fatto che sia forte abbastanza da aver commesso il crimine non prova certo che ne sia colpevole», ribatté con un accenno d'irritazione Valentine. «E quest'altra faccenda del legame di sangue con Faraataa… non vedo in che modo possa avergli fornito un movente per l'efferata uccisione di un anziano e inoffensivo archeologo piurivar. No, Nascimonte. No, no, no. So che tu e Tunigorn non impieghereste più di cinque minuti per decretare che quell'uomo debba essere rinchiuso a vita nelle segrete di Sangamor, nelle profondità della terra sotto il Castello. Ma occorrono delle prove prima di poter dare dell'omicida a qualcuno.» Girandosi verso Magadone Sambisa disse: «Mi dica qualcosa a proposito di questo khivanivod. Perché non siamo stati informati che nel villaggio ne risiede uno?»

«Si è allontanato il giorno dopo l'omicidio, maestà», si giustificò lei, rivolgendo a Valentine uno sguardo preoccupato. «In tutta franchezza, mi ero completamente dimenticata di lui.»

«Che tipo di persona è? Me lo descriva.»

Lei alzò le spalle. «Vecchio. Sporco. Un miserabile seminatore di superstizione, come tutti gli altri sciamani tribali della sua specie. Che cosa posso dire? La sua presenza mi infastidisce. Ma è il prezzo che devo pagare per avere il permesso di scavare qui, immagino.»

«Le ha causato problemi?»

«Qualcuno. Ficca il naso dappertutto, sempre timoroso che possiamo compiere qualche sacrilegio. Un sacrilegio, dico, in una città che gli stessi piurivar rasero al suolo e maledissero. Che male possiamo fare noi qui, dopo tutto quello che loro stessi hanno inflitto a questo luogo?»

«Questa era la loro capitale», rispose Valentine. «Erano liberi di farne ciò che volevano. Ciò non significa che faccia loro piacere vederci arrivare qui per rovistare tra le rovine. Ma quello che mi interessa sapere è se questo khivanivod abbia mai cercato di interrompere il suo lavoro.»

«È contrario all'apertura del Santuario della disfatta.»

«Ah. In effetti lei aveva già accennato a qualche problema politico in merito. Che cosa ha fatto, ha sporto una protesta ufficiale?» Gli accordi in base ai quali Valentine aveva ottenuto il consenso dei piurivar all'invio di archeologi a Velalisier riconosceva loro il diritto di veto per bloccare qualsiasi aspetto dei lavori che incontrasse la loro opposizione.

«Per il momento si è semplicemente limitato a dirci che non vuole che il santuario venga aperto», rispose Magadone Sambisa. «Il dottor Huukaminaan e io avevamo in programma una riunione con lui la settimana scorsa per cercare di raggiungere un compromesso, benché abbia difficoltà a immaginare che tipo di compromesso ci possa essere tra l'aprire e il non aprire il santuario. A ogni modo, la riunione non si tenne, per ovvi e tragici motivi. Ora che siete qui vorrete forse essere voi ad appianare la disputa al rientro di Torkkinuuminaad, ovunque si sia cacciato.»

«Torkkinuuminaad?» domandò Valentine. «È così che si chiama il khivanivod?»

«Sì. Torkkinuuminaad.»

«Che fatica questi nomi mutaforma», sbottò Nascimonte. «C'è da spaccarsi le mascelle: Torkkinuuminaad! Vathiimeraak! Huukaminaan!» Si rivolse con tono acceso ad Aarisiim. «Compagno mio, in nome del Divino, era proprio necessario per la tua gente darsi dei nomi tanto smaccatamente impossibili da pronunciare, quando avreste benissimo potuto…»

«Il sistema è assolutamente logico», rispose serenamente Aarisiim. «Il raddoppio delle vocali nella prima parte del nome indica…»

«Rimandiamo questa discussione a un altro momento, se non vi dispiace», intervenne Valentine, fendendo l'aria con un gesto della mano a mo' di ascia. Riprese a interrogare Magadone Sambisa. «Per curiosità, che tipo di rapporto aveva il khivanivod con il dottor Huukaminaan? Difficile? Teso? Riteneva che fosse sacrilego sgombrare le rovine dalle erbacce e rimettere in sesto alcuni degli edifici?»

«Per nulla», disse Magadone Sambisa. «Lavoravano in perfetta armonia. Nutrivano il massimo rispetto l'uno per l'altro, sebbene solo il Divino può spiegare come mai il dottor Huukaminaan tollerasse anche solo per un minuto quel vecchio e lurido selvaggio. Crede forse che… l'assassino possa essere Torkkinuuminaad

«La ritiene un'ipotesi tanto improbabile? Lei stessa sembra non avere nulla di positivo da dire sul suo conto.»

«È fastidioso e irritante, e certamente si è reso di grande ostacolo al nostro lavoro, se non altro per quanto riguarda il santuario. Ma pensare che sia un omicida… Neppure io potrei spingermi a tanto, maestà. Era chiaro a tutti che lui e il dottor Huukaminaan nutrivano grande affetto l'uno per l'altro.»

«Dovremo comunque interrogarlo», disse Nascimonte.

«Certamente», concordò Valentine. «Voglio che domani vengano inviati messaggeri in tutta la zona archeologica a cercarlo. Si trova da qualche parte tra le rovine, no? Troviamolo e riportiamolo qui. Se questo vorrà dire interrompere il suo ritiro spirituale, così sia. Ditegli che è stato convocato dal Pontifex.»

«Ci penserò io», assicurò Magadone Sambisa.

«Ora il Pontifex è molto stanco», disse Valentine. «Mi ritirerò a dormire.»


Rimasto da solo nella tenda reale dopo le interminabili fatiche di quella intensa giornata, Valentine si ritrovò a sentire la mancanza di Carabella con sorprendente intensità: quella donna piccola e sinuosa che aveva condiviso il suo destino fin quasi dall'inizio dello strano periodo in cui si era trovato a Pidruid, all'altro capo del continente, spogliato di ogni ricordo, di ogni conoscenza e consapevolezza di sé. Era stata lei, che l'amava solo per ciò che era, totalmente all'oscuro del fatto che in realtà fosse un Coronal costretto a un inconsapevole esilio dalla sua vera identità, ad aiutarlo a entrare nella troupe di giocolieri di Zalzan Kavol, dopodiché, a poco a poco le loro vite si erano fuse in una sola; e quando aveva intrapreso il suo stupefacente ritorno alle vette del potere, lei lo aveva seguito, fino in cima al mondo.

Desiderava ardentemente che fosse con lui anche in quel momento. Sedutagli accanto, a parlare con lui come sempre facevano prima di mettersi a letto. Avrebbe voluto ripercorrere con lei le ingarbugliate ramificazioni di tutto quanto aveva appreso durante il giorno, poter contare sul suo aiuto per dare una spiegazione agli intricati misteri di quella città morta da millenni. E, semplicemente, poter stare con lei.

Ma Carabella non l'aveva seguito a Velalisier. Aveva obiettato che era uno sciocco spreco del tempo prezioso di un Pontifex recarsi di persona a investigare l'omicidio. Manda Tunigorn, gli aveva detto; manda Sleet; manda chi vuoi tra i tanti alti funzionali pontificali. Ma perché andare di persona?

«Perché devo», le aveva risposto Valentine. «Perché mi sono preso la responsabilità di reintegrare i metamorfi nella vita di questo mondo. Gli scavi a Velalisier sono un aspetto fondamentale di tale impresa. E l'omicidio di questo anziano archeologo mi fa sorgere il sospetto che ci siano dei cospiratori, intenzionati a interferire con i lavori.»

«È solo una tua supposizione», ribatté Carabella.

«Spero che rimanga tale. Ma sai bene quanto brami l'occasione di sfuggire al Labirinto, anche solo per una o due settimane. Voglio andare a Velalisier.»

«Io, invece, non ci voglio andare affatto, Valentine. È un posto orribile, di morte e distruzione. Ci sono stata due volte e non ho alcun desiderio di tornarci. Se vuoi partire, dovrai farlo senza di me.»

«Ho deciso di andare, Carabella.»

«Allora vai. Se proprio devi.» Detto questo, gli aveva baciato la punta del naso, perché non erano avvezzi a litigare, o anche solo a discutere animatamente. Ma quando poi partì, dovette effettivamente farlo senza di lei. Quella sera lei si trovava negli appartamenti reali del Labirinto. E lui era lì, nella sua grandiosa ma solitaria tenda, in quella riarsa e diroccata città di antichi fantasmi.

Fantasmi che quella notte gli fecero visita, in sogno.

Fantasmi che gli fecero visita con tale intensità da dargli l'impressione che si trattasse di un invio: una lucida forma di comunicazione diretta in forma di sogno.

Ma l'esperienza fu diversa da qualsiasi altro invio avesse mai avuto. Aveva a malapena chiuso gli occhi che si trovò a vagare nel sonno tra gli edifici caduti e distrutti della diroccata Velalisier. Da ciascuna pietra infranta si levava una luce strana e misteriosa, spettrale e danzante. La città era avvolta in un bagliore prima verdastro, poi giallastro, pulsando di una propria luminescenza interiore. Volti schiariti dalla luce, volti di fantasmi, si libravano nell'aria rivolgendogli ghigni di scherno. In alto, il sole volteggiava e balzava follemente, descrivendo improbabili archi nel cielo.

Davanti a lui vide una buia apertura che si estendeva nel terreno e la attraversò, senza esitare, scendendo una lunga rampa di imponenti scale di pietra, coperte di licheni e intarsiate di arcaiche rune. Ogni movimento gli risultava arduo. Benché scendesse sempre più in profondità, lo sforzo era paragonabile a quello di una scalata. Avanzando faticosamente, s'inoltrava nelle viscere del suolo provando tutto il tempo la sensazione di muoversi verso l'alto contrastando un'insistente forza contraria, come se stesse ascendendo una sorta di piramide capovolta, non di quelle snelle e allungate che si ergevano dalla superficie di Velalisier, bensì una gigantesca, di massa e diametro insondabili. Si immaginò impegnato a risalire la ripida parete di una montagna, facendo ricorso a tutte le sue forze; ma era una montagna la cui cima era rivolta verso il basso, che affondava nelle profondità della terra. E il sentiero che seguiva lo stava conducendo, ne aveva la consapevolezza, verso un labirinto di gran lunga più spaventoso di quello in cui abitualmente dimorava.

I vorticanti volti dei fantasmi gli comparivano improvvisamente accanto per poi scomparire roteando come trottole, provocandogli un senso di vertigine. Si allontanavano lasciandosi alle spalle nell'oscurità l'eco di grasse risate. L'aria era umida, calda e pesante. La forza di gravità opprimente. A mano a mano che scendeva, passando da un livello all'altro in una successione interminabile, repentini e momentanei lampi di luce gialla gli rivelavano alla vista caverne tortuose che si estendevano verso l'esterno dal sentiero su tutti i lati, irradiandosi ad angolazioni incomprensibili, concave e convesse al tempo stesso.

Poi venne investito da un'improvvisa e accecante cascata di luce. Il fuoco pulsante di un sole sotterraneo gli fluiva incontro librandosi dalle profondità davanti a lui, un duro e minaccioso splendore.

Valentine si trovò irresistibilmente attratto da quella terribile luce; poi, senza alcuna percettibile transizione, a un tratto si trovò non più sottoterra, bensì all'aperto, nella vasta pianura di Velalisier, in cima a una delle grandi piattaforme di pietra azzurra note con il nome di Tavole degli dei.

Aveva in mano un lungo coltello, una scimitarra curva che rifulgeva come una saetta sotto il cocente sole di mezzogiorno.

Scrutando dall'alto la pianura vide un'imponente folla venire in processione verso di lui da est, dalla direzione in cui si trovava, molto distante, il mare: migliaia di persone, centinaia di migliaia, come un esercito di formiche in marcia. Anzi, due eserciti; perché la folla avanzava in due grandi colonne parallele. In coda a ciascuna colonna, in lontananza, quasi all'altezza dell'orizzonte, Valentine vedeva due giganteschi carri di legno montati su ruote di dimensioni titaniche. Ai carri erano fissate enorme gomene e la gente, con possenti tiri alla fune sottolineati da grugniti e sbuffi, li trainava lentamente in avanti, mezzo metro alla volta, dirigendosi verso il centro della città.

Sopra ciascuno dei carri giaceva un colossale re delle acque, un drago marino di dimensioni mostruose. Le grandi creature rivolgevano sguardi furiosi ai loro carcerieri ma erano incapaci, per quanto si sforzassero e nonostante la prodigiosa e leggendaria forza dei draghi marini, di liberarsi dai legacci che li immobilizzavano. E a ogni trazione delle gomene i carri che li trasportavano li conducevano più vicini alle piattaforme gemelle chiamate Tavole degli dei.

Il luogo del sacrificio.

Il luogo che avrebbe fatto da teatro alla terribile follia della Profanazione. E dove Valentine, il Pontifex di Majipoor, attendeva stringendo nel pugno il manico della lunga e luccicante lama.


«Maestà? Maestà?»

Valentine batté le palpebre e si destò, intontito. Sopra di lui incombeva un mutaforma, estremamente alto e di forma marcatamente attenuata, con gli occhi dal taglio tanto allungato e stretto che a un primo sguardo sembrava esserne privo. Valentine stava per tirarsi su d'un balzo; poi, riconoscendo l'istante dopo nell'intruso il fidato Aarisiim, si rilassò.

«Ha gridato, maestà», lo informò il metamorfo. «Stavo venendo qui a riferirle una strana notizia che ho appreso, e quando sono giunto fuori della sua tenda ho sentito la sua voce. Si sente bene?»

«È stato solo un sogno. Un bruttissimo sogno.» Che ancora aleggiava spiacevolmente alla periferia della sua mente. Valentine cedette a un brivido e cercò di sfuggire alla presa che ancora aveva su di lui. «Che ora è, Aarisiim?»

«L'ora di haigus, maestà.»

Era dunque passata la mezzanotte. E non mancava poi molto all'alba.

Valentine si sforzò di tornare in uno stato di completa veglia. Riuscendo ad aprire per intero gli occhi, alzò lo sguardo e fissò quel volto pressoché privo di lineamenti. «Ci sono notizie, hai detto? Che notìzie?»

Il colorito del metamorfo mutò in una tonalità più ricca e scura del consueto verde pallido e le fessure degli occhi si contrassero tre o quattro volte in rapida successione. «Questa notte ho parlato con uno degli archeologi, una donna di nome Hieekraad, responsabile della catalogazione dei reperti rinvenuti. È stato il caposquadra degli scavatori a portarla da me, Vathiimeraak, dal villaggio. A quanto pare lui e questa Hieekraad sono amanti.»

Valentine si rigirò, impaziente. «Vieni al dunque, Aarisiim.»

«Certo, maestà. Sembra che la donna, Hieekraad, abbia rivelato a Vathiimeraak più informazioni di quante un caposquadra sarebbe potuto venire in possesso altrimenti. E questa notte lui le ha riferite a me.»

«Allora?»

«Ci hanno mentito, maestà… tutti gli archeologi, dal primo all'ultimo, nascondendoci intenzionalmente una notizia importante. Qualcosa di molto importante. Quando Vathiimeraak ha appreso da questa Hieekraad che eravamo stati ingannati tanto sfacciatamente, l'ha portata da me e le ha ordinato di raccontarmi tutto.»

«Continua.»

«La notizia è questa», riprese Aarisiim. Fece una pausa, barcollando lievemente come se stesse per precipitare in un abisso senza fondo. «Due settimane prima di morire, il dottor Huukaminaan scoprì un sepolcro mai individuato prima. Si trova in una zona desolata nella periferia occidentale della città. Con lui c'era anche Magadone Sambisa. Si tratta di un sepolcro risalente a un periodo storico più recente rispetto all'abbandono di Velalisier. Di poco successivo, a dire il vero, all'era di Lord Stiamot.»

«Ma com'è possibile?» disse Valentine, corrucciando la fronte. «Anche trascurando il fatto che su questo luogo gravava una maledizione e dunque nessun piurivar avrebbe mai osato metterci piede dopo la sua distruzione, in quel periodo nessun piurivar abitava questo continente. Stiamot li aveva relegati nelle riserve di Zimroel, come del resto tu sai bene, Aarisiim. C'è qualcosa che non quadra.»

«Ma questo non è un sepolcro dei piurivar, maestà.»

«Come?»

«È la tomba di un umano», lo informò Aarisiim. «E per giunta la tomba di un Pontifex, secondo Hieekraad.»

La sorpresa di Valentine non avrebbe potuto essere più grande neppure se Aarisiim avesse fatto detonare una carica esplosiva. «Un Pontifex?» ripeté ebetemente. «La tomba di un Pontifex qui a Velalisier?»

«Così afferma questa donna di nome Hieekraad. E l'identificazione non lascerebbe adito a dubbi. I simboli sulle pareti della tomba, tra cui il sigillo del Labirinto e altri, gli oggetti cerimoniali rinvenuti accanto al corpo, le iscrizioni… tutto quanto, insomma, indica che si tratta della tomba di un Pontifex, risalente a migliaia di anni fa. Così mi ha detto; e credo che mi abbia detto la verità. Vathiimeraak le stava accanto con fare arrabbiato e minaccioso mentre parlava. Era troppo impaurita dalla sua presenza per raccontare falsità.»

Valentine si alzò e prese a passeggiare nervosamente per la tenda. «Nel nome del Divino, Aarisiim! Se tutto questo è vero, si tratta di una notizia che avrebbe dovuto essere portata alla mia attenzione nel momento stesso del ritrovamento della tomba! O comunque comunicatami al mio arrivo qui. Ritrovano la tomba di un antico Pontifex e osano nascondermela? Incredibile! Incredibile!»

«L'ordine di bloccare ogni notizia della scoperta è partito da Magadone Sambisa in persona. Non doveva essere fatto alcun annuncio pubblico. Neppure gli scavatori erano al corrente di quanto era stato rinvenuto. Doveva rimanere un segreto noto unicamente agli archeologi presenti nel sito.»

«Anche questo ti è stato riferito da Hieekraad?»

«Sì, maestà. Mi ha detto che Magadone Sambisa ha dato ordini in tal senso il giorno stesso del ritrovamento della tomba. Questa Hieekraad mi ha rivelato che il dottor Huukaminaan si oppose strenuamente a quella decisione, al punto che il suo disaccordo con Magadone Sambisa degenerò in un furioso litigio. Ma alla fine cedette. E dopo l'omicidio, quando si diffuse la voce del suo imminente arrivo a Velalisier, maestà, Magadone Sambisa convocò una riunione di tutta l'équipe, reiterando che nulla doveva essere detto di quella scoperta neppure a lei. Di più, tutti coloro che avevano partecipato allo scavo vennero istruiti di evitare in ogni modo che lei ne venisse a conoscenza.»

«Assolutamente incredibile», mormorò Valentine.

Con franchezza, Aarisiim disse: «Occorre proteggere questa Hieekraad, maestà, mentre indaghiamo sull'accaduto. Si troverà in guai seri se Magadone Sambisa viene a sapere che è stata lei a lasciar trapelare la notizia».

«Hieekraad non è l'unica che si troverà in guai seri», assicurò Valentine. Si sfilò gli indumenti notturni e cominciò a vestirsi.

«Un'altra cosa, maestà. Il khivanivod… Torkkinuuminaad. È lì che si trova. Presso il sepolcro. È quello il luogo che ha scelto per ritirarsi in preghiera. L'informazione mi è giunta dal caposquadra Vathiimeraak.»

«Fantastico», commentò sarcasticamente Valentine. Aveva la mente in fiamme. «Il khivanivod del villaggio che recita preghiere piurivar sulla tomba di un Pontifex! Splendido! Meraviglioso! Aarisiim, vai subito a chiamare Magadone Sambisa e portala da me.»

«Maestà, è molto presto e…»

«Mi hai sentito, Aarisiim?»

«Certamente, maestà», rispose il mutaforma, con tono ossequioso. Fece un profondo inchino. E uscì, diretto alla residenza di Magadone Sambisa.


«La tomba di un antico Pontifex, Magadone Sambisa, e non viene fatto alcun annuncio? Viene ritrovata la tomba di un antico Pontifex e quando l'attuale Pontifex giunge sul luogo per ispezionare gli scavi, lei fa di tutto per impedire che ne venga a conoscenza? Trovo tutto questo estremamente difficile da credere, glielo assicuro.»

Mancava ancora un'ora all'alba. Magadone Sambisa, tirata giù dal letto per presentarsi da lui, sembrava ancora più pallida e patita di quanto gli fosse apparsa il giorno prima; in più, nel suo sguardo pareva balenare ora un barbaglio di paura. Nonostante tutto ciò, riuscì comunque a fare appello all'inesauribile forza che le aveva permesso di primeggiare nella sua professione. La sua voce era addirittura venata da un tono di sfida quando domandò: «Chi le ha detto della tomba, maestà?»

Valentine la ignorò. «Ha dato lei l'ordine di non diffondere la notizia?»

«Sì.»

«Scontrandosi con la strenua opposizione del dottor Huukaminaan, ho saputo.»

Ora la sua espressione si fece furiosa. «Le hanno raccontato tutto, non è vero? Chi è stato? Chi?»

«Signora, mi permetto di ricordarle che qui le domande le faccio io, non lei. Allora è vero che Huukaminaan si oppose all'idea di nascondere la notizia del ritrovamento?»

«Sì», ammise lei con un filo di voce.

«E perché?»

«Lo riteneva un oltraggio alla verità», disse Magadone Sambisa, a voce ormai pacata. «Deve capire, maestà, che il dottor Huukaminaan era totalmente devoto al suo lavoro. Che consisteva, come del resto per noi tutti, nel recupero di aspetti perduti del nostro passato attraverso la rigorosa applicazione di discipline archeologiche formali. A questo lui aveva dedicato la vita, era uno scienziato vero e puro.»

«Lei invece non lo è nella stessa misura?»

Magadone Sambisa arrossì e distolse vergognosamente lo sguardo. «Ammetto che il mio comportamento potrebbe creare questa impressione. Ma a volte anche la ricerca della verità deve cedere il passo, almeno temporaneamente, a realtà di tipo tattiche. Certamente non sarà lei a negarlo, in quanto Pontifex. E io avevo dei motivi, buoni motivi, per non lasciare che la notizia del ritrovamento diventasse di dominio pubblico. Il dottor Huukaminaan non era d'accordo; e ci scontrammo a lungo e duramente sulla questione. Fu la prima e unica volta che ci trovammo in disaccordo in veste di condirettori di questa spedizione.»

«E alla fine fu necessario farlo uccidere? Perché accettò malvolentieri la sua decisione e non le dava sufficienti garanzie che avrebbe tenuto la bocca chiusa?»

«Maestà!» Fu un grido di quasi inesprimibile choc.

«In quello che mi ha raccontato è evidente la presenza di un possibile movente. Mi sbaglio, forse?»

Sembrava attonita. Agitava disperatamente le braccia, i palmi rivolti verso l'alto in un gesto di supplica. Passò un lungo attimo prima che riuscisse di nuovo a parlare. Ma quando finalmente lo fece, aveva recuperato buona parte della propria compostezza.

«Maestà, ciò che lei ha appena ipotizzato è motivo di grave offesa per me. Sono colpevole di aver nascosto il ritrovamento del sepolcro, lo ammetto. Ma le giuro che non ha nulla a che fare con la morte del dottor Huukaminaan. Non posso dirle quanto ho ammirato quell'uomo. Avevamo alcune divergenze professionali, ma…» Scosse la testa. Sembrava sfinita. Quasi in un sussurro disse: «Non l'ho ucciso io. E non ho idea di chi possa essere stato».

Valentine scelse di crederle, per il momento. Trovava difficile credere che la sua disperazione fosse una messinscena.

«D'accordo, Magadone Sambisa. Ma ora mi spieghi perché ha voluto far passare sotto silenzio il ritrovamento di quella tomba.»

«Prima dovrei narrarle un'antica leggenda piurivar, un racconto tratto dalla loro mitologia che ascoltai dalla bocca del khivanivod Torkkinuuminaad il giorno del ritrovamento della tomba.»

«È necessario?»

«Sì.»

Valentine sospirò. «Forza, allora.»

Magadone Sambisa si inumidì le labbra e trasse un profondo respiro.

«C'era un tempo un Pontifex, così narra la leggenda», cominciò, «che visse negli anni successivi alla sottomissione dei piurivar per mano di Lord Stiamot. Il Pontifex stesso, da giovane, aveva combattuto nella Guerra di conquista e gli era stato affidato il comando di un campo di prigionieri piurivar. Aveva così avuto modo di ascoltare alcuni dei racconti che i prigionieri si scambiavano di sera attorno ai falò, tra i quali la storia della Profanazione di Velalisier: il sacrificio da parte del Re Finale dei due draghi marini e la distruzione della città che ne seguì. Apprese anche della Settima piramide, quella abbattuta, e del santuario che si trovava sotto di essa, che chiamavano il Santuario della disfatta. I prigionieri dicevano che al suo interno si celavano alcuni reperti risalenti al giorno della Profanazione, reperti che se utilizzati nel modo corretto avrebbero conferito al loro possessore un potere divino su tutte le forze dello spazio e del tempo. Il racconto lo impressionò molto e molti anni più tardi, quando divenne Pontifex, venne qui a Velalisier con l'intenzione di localizzare il santuario della Settima piramide, il Santuario della disfatta, e aprirlo.»

«Allo scopo di rinvenire quei magici reperti e utilizzarli per esercitare un potere da semidio sulle forze dello spazio e del tempo?»

«Esattamente», confermò Magadone Sambisa.

«Credo di aver capito dove andremo a parare.»

«Può essere, maestà. Si narra che il Pontifex si sia portato nel sito della piramide abbattuta e fece scavare una galleria nel terreno; s'imbatté nel cunicolo di pietra che conduce alla parete del santuario. Giunse fino alla parete stessa e avviò i preparativi per passare oltre.»

«Ma lei mi ha detto che il settimo santuario è intatto. Nessuno ci è mai entrato dai tempi dell'abbandono della città. O, comunque, questa è la sua convinzione.»

«È così. Ne sono sicura.»

«Questo Pontifex, dunque…»

«Era sul punto di penetrare nel santuario quando un piurivar che si era nascosto nel cunicolo nottetempo balzò fuori dall'oscurità e gli trafisse il cuore con una spada.»

«Aspetti un minuto», disse Valentine. Cominciò ad agitarsi in lui una certa esasperazione. «Mi sta dicendo che un piurivar sbucò fuori dal nulla e lo uccise? Un piurivar? Ho da poco discusso di questo con Aarisiim. Non solo non c'erano piurivar in tutta Alhanroel a quel tempo, dato che Stiamot li aveva fatti rinchiudere tutti nelle riserve di Zimroel, ma pare che su questo luogo pendesse una maledizione che avrebbe scoraggiato qualunque appartenente a quella razza di avvicinarsi.»

«A eccezione dei guardiani del santuario, dispensati dalla maledizione.»

«Guardiani?» domandò Valentine. «Quali guardiani? Non ho mai sentito parlare della presenza di guardiani piurivar qui.»

«Neppure io, fino a quando Torkkinuuminaad mi ha raccontato questa storia. E pare che all'epoca della distruzione e dell'abbandono della città venne presa la decisione di lasciare qui una piccola guarnigione di guardie, il cui compito era di impedire a chiunque di entrare nel santuario e dunque di guadagnare l'accesso a ciò che si trova al suo interno, di qualunque cosa si tratti. E quegli uomini rimasero di guardia qui nel corso dei secoli. C'erano ancora guardiani qui quando il Pontifex venne per saccheggiare il santuario. Uno di loro si nascose nel cunicolo e uccise il Pontifex quando ormai si stava apprestando ad abbattere la parete.»

«E la sua gente lo seppellì qui? Perché mai decisero di fare una cosa del genere?»

Magadone Sambisa sorrise. «Per coprire l'accaduto, naturalmente. Rifletta, maestà: un Pontifex viene a Velalisier in cerca di conoscenze mistiche proibite e viene assassinato da un piurivar che si aggirava invisibile e indisturbato in una città che si supponeva abbandonata. Se la notizia fosse trapelata, avrebbero tutti fatto una pessima figura.»

«Già, immagino di sì.»

«Non dubito che i funzionari pontificali volessero impedire che si sapesse come il loro sovrano era stato abbattuto davanti ai loro occhi. Né potevano essere ansiosi di pubblicizzare la storia del santuario segreto, che avrebbe indotto altri a venirlo a cercare. E certamente nessuno doveva sapere che il Pontifex era morto per mano di un piurivar, un evento che avrebbe potuto riaprire tutte le ferite della Guerra di conquista e innescare forse una serie di terribili rappresaglie.»

«Così coprirono tutto l'accaduto», disse Valentine.

«Esattamente. Scavarono una tomba tra le rovine in una zona remota e isolata e ci seppellirono il Pontifex seguendo il rituale appropriato, dopodiché tornarono al Labirinto recando la notizia che sua maestà era morto improvvisamente presso le rovine, falciato da una malattia sconosciuta, cosa che aveva sconsigliato il trasporto della salma da Velalisier perché venissero celebrati i consueti funerali di stato. Si chiamava Ghorban. C'è un'iscrizione nella tomba che lo identifica. Ghorban Pontifex, il terzo Pontifex dopo Stiamot. È realmente esistito. Ho fatto delle ricerche nella Casa del registro. Il suo nome è riportato nella lista dei sovrani.»

«Non mi è familiare.»

«No. Non è tra i più noti. Ma chi può ricordarli tutti? Centinaia e centinaia hanno regnato, nel corso di migliaia di anni. Ghorban fu Pontifex per un breve periodo e l'unico evento importante del suo regno venne scrupolosamente omesso dai registri ufficiali. Mi riferisco alla sua visita a Velalisier, naturalmente.»

Valentine annuì. Aveva sostato più volte davanti alla grande lastra di marmo all'esterno della Casa del registro del Labirinto, scrutando in diverse occasioni la lunga lista dei suoi predecessori, provando meraviglia per i molti nomi di monarchi ormai pressoché dimenticati: Meyk, Spurifon, Heslaine, Kandibal e decine di altri. Dovevano tutti essere stati grandi uomini, nel loro periodo storico. Senza dubbio c'era anche un Ghorban in quella lista, se così affermava Magadone Sambisa, che aveva regnato da Coronal con il nome di Lord Ghorban, vivendo in regale splendore in cima al Monte Castello, assurgendo poi al Pontificato in età matura, quando per qualche ragione si era recato in visita alla maledetta città di Velalisier, dov'era morto, era stato sepolto e poi era caduto nell'oblio.

«Un racconto curioso», commentò Valentine. «Ma che cosa contiene che possa averla indotta a tenere nascosta la scoperta della tomba di Ghorban?»

«Le stesse ragioni che indussero quegli antichi funzionari pontificali a nascondere le vere circostanze della sua morte», rispose Magadone Sambisa. «Certamente lei sa che la maggioranza delle persone comuni è già sufficientemente spaventata dall'idea di venire in questa città. L'orribile vicenda della Profanazione, la maledizione, il racconto di fantasmi che si aggirano tra le rovine, l'aria sinistra del luogo stesso… lei sa com'è fatta la gente, maestà. Ha paura dell'ignoto, delle cose che non conosce. E io ho temuto che se fosse venuta alla luce la stona di Ghorban, del santuario segreto, di come un antico e sconosciuto Pontifex sia venuto qui alla ricerca di misteriosi reperti magici, di come sia poi stato assassinato da un piurivar… ebbene tutto questo potrebbe causare una sollevazione pubblica dettata dallo sdegno per gli scavi in corso a Velalisier, determinandone addirittura l'interruzione. E io non voglio che questo accada. Tutto qui, maestà. In ultima analisi, stavo solo cercando di difendere il mio posto di lavoro. Nulla più.» Era una confessione umiliante. Il suo tono di voce, rimasto piuttosto vigoroso durante tutto il racconto della vicenda di Ghorban, si era fatto piatto, stanco, quasi spento. A Valentine parve comunicare assoluta sincerità.

«E il dottor Huukaminaan non era d'accordo che l'annuncio della scoperta potesse minacciare la prosecuzione del vostro lavoro qui?»

«Era cosciente del rischio. Ma non se ne curava. Per lui la cosa più importante era sempre la verità. Se l'opinione pubblica avesse esercitato pressioni tali da far chiudere gli scavi, facendo sì che nessuno più avrebbe lavorato qui per cinquanta, cento, o cinquecento anni, a lui sarebbe andato bene così. La sua integrità non gli permetteva di nascondere un tale sorprendente pezzo di storia, per nessuna ragione. Così battagliammo a lungo e alla fine riuscii a convincerlo. Lei stesso ha visto quanto so essere testarda. Ma non l'ho ucciso. Se avessi voluto uccidere qualcuno, la vittima non sarebbe stato il dottor Huukaminaan. Me la sarei presa con il khivanivod: lui sì che vuole vedere interrotti gli scavi.»

«Davvero? Non mi ha forse detto che lui e Huukaminaan lavoravano in perfetta simbiosi?»

«In generale, sì. Come le ho detto ieri, c'era un solo punto sul quale lui e Huukaminaan la vedevano diversamente: l'apertura del santuario. Il dottor Huukaminaan e io, come lei sa, stavamo progettando di aprirlo appena fosse stato possibile organizzare la presenza sua, maestà, e di Lord Hissune, permettendovi di assistere all'operazione. Ma il khivanivod si è opposto strenuamente. Trovava accettabile tutto il resto del nostro lavoro qui, ma non l'apertura del santuario. Il Santuario della disfatta, ripete in continuazione, è il sacrario dei sacrari, il luogo più sacro dei piurivar.»

«Forse non ha tutti i torti», commentò Valentine.

«Anche lei crede che sia meglio non entrare nel santuario?»

«Credo che alcuni importanti leader piurivar potrebbero dirsi assolutamente contrari a che ciò accada.»

«Ma la Danipiur in persona ci ha dato il permesso di lavorare qui! Non solo; lei e le altre autorità piurivar sanno bene che siamo qui per restaurare la città… per porre rimedio, nella misura in cui ci è possibile, ai danni causati da migliaia di anni di abbandono. Non hanno nulla in contrario. E per avere l'assoluta certezza che il nostro lavoro non avrebbe in alcun modo arrecato offesa alla comunità piurivar, abbiamo deciso insieme che la spedizione sarebbe stata composta in parti uguali da archeologi piurivar e umani, e che sarebbe stata guidata dal dottor Huukaminaan e da me su basi assolutamente paritarie.»

«Anche se poi lei non ha esitato a forzare tale principio in suo favore nel momento in cui si è presentata un'accesa discordia tra voi due…»

«Su quell'unica questione della tomba di Ghorban, sì», disse Magadone Sambisa, perdendo solo per un attimo parte della propria compostezza. «Ma solo in quell'occasione. Eravamo sempre in completo accordo su tutto il resto. Anche riguardo all'apertura del santuario, per esempio.»

«Una decisione sulla quale ha però posto il suo veto il khivanivod.»

«Il khivanivod non ha il potere di imporre alcun veto, maestà. Gli accordi prevedono che qualunque piurivar abbia qualcosa da obiettare, per motivi religiosi, in merito a qualsiasi aspetto del nostro lavoro, possa fare appello alla Danipiur, alla quale spetta poi il compito di dirimere la questione consultandosi con lei e con Lord Hissune.»

«Già. Sono stato io stesso a scrivere quel decreto.»

Valentine chiuse per un attimo gli occhi e si massaggiò le palpebre con i polpastrelli. Aveva dovuto prevedere l'insorgenza di problemi di quel tipo, disse tra sé. La storia della città era troppo ricca di tragedia. Vi erano accadute cose terribili. La misteriosa aura della società piurivar aleggiava ancora in quel luogo, migliaia di anni dopo la sua distruzione.

Aveva sperato di dissipare in parte quell'aura inviando sul posto quell'équipe di scienziati. Invece, era solo riuscito a rimanere impigliato anch'egli nelle sue pieghe spinose.

Dopo qualche attimo alzò lo sguardo e disse: «Aarisiim mi ha informato che il luogo scelto dal khivanivod per il suo ritiro spirituale è proprio la tomba di Ghorban che vi siete dati tanta pena di tenermi nascosta. È così?»

«Credo di sì.»

Il Pontifex si avvicinò all'entrata della tenda e guardò fuori. Le prime ampie striature color bronzo dell'alba desertica cominciavano a estendersi ad arco sull'immensa volta del cielo.

«Ieri sera», disse, «ho chiesto che fossero inviati messaggeri a trovarlo e lei si è offerta di occuparsi di tale incombenza, Naturalmente non mi ha detto che sapeva già dove si trovasse. Ma dato che ne è perfettamente a conoscenza, voglio che dia una mossa ai suoi messaggeri. Voglio parlargli stamani, al più presto.»

«E se dovesse rifiutarsi di venire, maestà?»

«Portatemelo con la forza.»


Il khivanivod Torkkinuuminaad si rivelò in tutto antipatico e indisponente quanto la descrizione di Magadone Sambisa aveva portato Valentine a temere, e certamente le minacce del suo servizio di sicurezza di trascinarlo via di peso dalla tomba di Ghorban non avevano fatto nulla per migliorare il suo umore. Era stata Lisamon Hultin a ordinargli di venire fuori dal sepolcro, incurante delle sue minacce e maledizioni. Le sciamanerie e gli incantesimi piurivar non la preoccupavano minimamente e gli fece capire chiaramente che se non si fosse lasciato condurre più o meno pacificamente da Valentine, se lo sarebbe caricato in spalla lei stessa per portarlo dal Pontifex.

Lo sciamano mutaforma era un uomo antico ed emaciato, che girava nudo fatta eccezione per un fascio d'erba secca che gli cingeva la vita e un amuleto dall'aspetto malevolo, ricavato da zampe d'insetti intrecciate e altri materiali simili, agganciato a un Uso cordino che gli pendeva dal collo. Era tanto vecchio che la sua pelle verde si era sbiadita, assumendo un pallore grigiastro, e i suoi occhi a mandorla, accesi di rabbia, fissavano Valentine attraverso numerose pieghe cascanti di pelle gommosa.

Valentine esordì con tono conciliante: «Le chiedo perdono di aver interrotto il suo ritiro. Ma devo affrontare alcune questioni urgenti prima di tornare al Labirinto e la sua presenza mi è necessaria».

Torkkinuuminaad non disse nulla.

Valentine continuò. «Per prima cosa, un crimine molto grave è stato commesso nella zona archeologica. L'uccisione del dottor Huukaminaan è un oltraggio non solo alla giustizia, ma anche alla cultura. Sono qui per accertare che l'assassino venga identificato e punito.»

«E io che c'entro?» domandò scorbuticamente il khivanivod. «Se c'è stato un omicidio, deve trovare l'assassino e punirlo, se è quello che pensa di dover fare. Ma per quale motivo un servo degli Dei Che Sono dev'essere costretto con la forza a interrompere la sua sacra comunione a questo modo? Perché è il Pontifex di Majipoor a ordinarlo?» Torkkinuuminaad rise rocamente. «Il Pontifex! Che importanza vuole che abbiano gli ordini del Pontifex per me? Io obbedisco solo agli Dei Che Sono.»

«Lei obbedisce anche alla Danipiur», ribatté con voce calma e pacata Valentine. «E la Danipiur e io siamo colleghi nel governo di Majipoor.» Indicò Magadone Sambisa e gli altri archeologi, umani e metamorfi, che assistevano al colloquio. «Queste persone sono al lavoro qui a Velalisier perché la Danipiur ha dato loro il permesso di farlo. Lei stesso si trova qui su richiesta della Danipiur, se non vado errato. In qualità di consulente spirituale per la gente della sua razza coinvolta nei lavori.»

«Io sono qui per volontà degli Dei Che Sono, che hanno voluto che fossi qui, e per nessun altro motivo.»

«Comunque sia, ora si trova al cospetto del suo Pontifex, che le farà qualche domanda. E lei risponderà.»

L'unico cenno di risposta dello sciamano fu un'occhiata acida.

«È stato scoperto un santuario nei pressi delle rovine della Settima piramide», continuò Valentine. «Ho appreso che era intenzione del dottor Huukaminaan aprirlo. Lei si è opposto strenuamente, è così?»

«Sì.»

«Per quali motivi?»

«Quel santuario è un luogo sacro che non deve essere disturbato da mani profane.»

«Com'è possibile che ci sia un luogo sacro in una città sulla quale grava una maledizione?» incalzò Valentine.

«Il santuario è comunque sacro», replicò ostinatamente il khivanivod.

«Sebbene nessuno sappia che cosa ci sia all'interno?»

«Io so che cosa c'è all'interno», disse il khivanivod.

«Lei? E come può?»

«Io sono il guardiano del santuario. La conoscenza del suo contenuto viene tramandata di guardiano in guardiano.»

Valentine si sentì percorrere la schiena da un brivido. «Ah», disse. «Il guardiano. Del santuario.» Fece una pausa di silenzio. «Il legittimo successore, immagino, del guardiano che qui assassinò un Pontifex migliaia di anni fa. E il luogo dove l'hanno trovata stamane, mi dicono, è proprio il sepolcro di quel Pontifex. È così?»

«Sì.»

«In tal caso», disse Valentine, lasciando che un sorriso gli comparisse agli angoli della bocca, «dovrò chiedere alle mie guardie di tenerla sotto stretto controllo. Perché ora, amico mio, sto per dare l'ordine a Magadone Sambisa e alla sua équipe di procedere immediatamente all'apertura del settimo santuario. E mi rendo conto che questo potrebbe espormi al pericolo di qualche atto irresponsabile ordito da lei.»

Torkkinuuminaad appariva stupefatto. A un tratto lo sciamano metamorfo cominciò a manifestare un intero repertorio di violenti cambiamenti di forma, contraendosi e allungandosi selvaggiamente, mentre i contorni del suo corpo si offuscavano e si ricomponevano con sconcertante rapidità.

Ma anche tutti gli archeologi, gli umani, i due ghayrog e il compatto gruppetto di mutaforma, fissavano Valentine come se avesse appena pronunciato parole che trascendevano ogni possibilità di comprensione. Addirittura Tunigorn, Mirigant e Nascimonte rimasero a bocca aperta. Tunigorn si girò verso Mirigant e gli disse qualcosa, ricevendo in risposta solo un'alzata di spalle; Nascimonte, poco distante, si limitò a sua volta a stringersi nelle spalle, fortemente perplesso.

Con tono roco e rotto dalla tensione, Magadone Sambisa pretese di sapere: «Maestà? Dice sul serio? Solo poco tempo fa mi ha detto che la miglior cosa da fare è di lasciare il santuario sigillato!»

«Ho detto così? Io?» Valentine scosse la testa. «No, no. Nient'affatto. Quanto tempo vi occorre per cominciare i lavori?»

«Be', mi lasci riflettere…» mormorò lei. «Le apparecchiature di registrazione, il sistema d'illuminazione, le trivelle…» Fece una pausa di silenzio, come se stesse controllando mentalmente una lista di altre esigenze. Poi annunciò: «Potremmo essere pronti per cominciare tra mezz'ora».

«Molto bene. Allora muoviamoci.»

«No! Non può!» gridò Torkkinuuminaad in un accesso di furore.

«Invece posso», lo contraddisse Valentine. «E lei sarà presente sul posto. Come lo sarò io.» Chiamò con un gesto Lisamon Hultin. «Parlagli, Lisamon. Convincilo che sarà molto meglio per lui se rimane calmo.»

Tradendo una certa dubbiosità, Magadone Sambisa domandò: «Vuole davvero farlo, Pontifex?»

«Oh, sì. Certamente. Dico proprio sul serio.»


La giornata sembrò lunga cento ore.

L'apertura di un camera sigillata durante uno scavo archeologico era sempre un'operazione da condurre con minuziosa metodicità. Ma nel caso di un sito così importante, tanto pregno di significato simbolico, dalle implicazioni politiche a dir poco esplosive, ogni fase doveva essere portata a termine con una tripla dose di cura e attenzione.

Valentine rimase in superficie durante la prima parte dei lavori. Gli era stato spiegato tutto quanto stavano facendo laggiù: la posa dei cavi per il sistema d'illuminazione; l'inserimento di tubi di ventilazione per le scavatrici; l'uso di sonde acustiche per accertarsi che la perforazione della parete del santuario non avrebbe determinato il crollo del soffitto della cripta; l'esame acustico dell'interno del santuario stesso per verificare che nulla d'importante oltre la parete fosse messo a repentaglio dalla trivellazione.

Ci vollero ore. Ma finalmente furono pronti a cominciare la perforazione della parete.

«Vuole assistere, maestà?» domandò Magadone Sambisa.

Nonostante il sistema di ventilazione, Valentine faticava a respirare nel cunicolo. L'aria era già stata sufficientemente calda e pesante alla sua prima visita; ma ora, con tutte quelle persone accalcate nel cunicolo, la mancanza d'ossigeno lo costringeva a sforzare i polmoni per sottrarsi al senso di vertigine.

Gli archeologi, stretti gli uni accanto agli altri, si divisero per lasciarlo passare. I fari inondavano di luce la facciata di pietra bianca del santuario. Davanti a essa, cinque persone erano in attesa, tre piurivar e due umani. La trivellazione vera e propria sembrava essere stata affidata al robusto caposquadra Vathiimeraak. Kaastisiik, l'archeologo piurivar nominato direttore degli scavi, era presente per guidarlo. Subito alle loro spalle Driismiill, lo storico dell'architettura piurivar, e una donna umana di nome Shimrayne Gelvoin, evidentemente anch'essa architetto. Magadone Sambisa era posizionata più indietro e dava ordini con voce pacata.

Stavano smantellando la parete una pietra alla volta. Una parte della facciata, pari a circa un metro quadrato, era già stata rimossa appena sopra la fila di nicchie per le offerte. Dall'altra parte era visibile una parete di mattoni grezzi, di spessore pari a una sola fila di laterizi. Vathiimeraak, che mormorava tra sé in lingua piurivar mentre lavorava, era impegnato a liberare uno dei mattoni con uno scalpello. Riuscì a sfilarlo, producendo una piccola cascata di polvere e detriti e rivelando la presenza, dall'altra parte, di una nuova parete interna eretta con le stesse lastre di pietra nera di cui era rivestito il cunicolo.

Seguì una lunga pausa, durante la quale i diversi strati della parete vennero misurati e fotografati. Poi Vathiimeraak riprese la perforazione. In quell'ambiente viziato e acre Valentine cominciò ad avvertire un senso di nausea, ma cercò di contrastarlo.

Vathiimeraak si spinse più in profondità, sostando per permettere a Kaastisiik di rimuovere alcuni frammenti della pietra nera. I due architetti si fecero avanti e ispezionarono il foro, conferendo prima tra loro, poi con Magadone Sambisa; dopodiché Vathiimeraak riposizionò la sua trivella.

«Serve una torcia», disse Magadone Sambisa a un tratto. «Qualcuno mi dia una torcia!»

Una torcia giunse dalla calca in fondo al cunicolo, passata di mano in mano. Magadone Sambisa la infilò nel foro, vi guardò dentro e rimase senza fiato.

«Maestà! Maestà, venga a vedere!»

Al chiarore di quell'unico fascio di luce Valentine si trovò a guardare dentro una grande camera rettangolare, che sembrava completamente vuota a eccezione di un grande blocco quadrato di pietra scura. Somigliava molto al lucido blocco di opale nero, percorso da venature scarlatte e rubino, dal quale era stato scolpito il glorioso trono Confalume che si trovava nel castello del Coronal.

Sul blocco erano disposti alcuni oggetti. Ma a quella distanza era impossibile capire che cosa fossero.

«Quanto vi occorre per praticare un'apertura grande abbastanza da consentire l'accesso di una persona all'interno?» domandò Valentine.

«Tre ore, direi.»

«Riusciteci in due. Io aspetterò in superficie. Chiamatemi quando l'apertura sarà pronta. E si accerti che nessuno entri prima di me.»

«Le do la mia parola, maestà.»

Anche l'aria secca del deserto era un piacere da respirare dopo un'ora trascorsa all'interno del cunicolo. Valentine vide le ombre cominciare ad allungarsi nei profondi avvallamenti delle dune in lontananza e capì che il pomeriggio volgeva ormai al termine. Tunigorn, Mirigant e Nascimonte passeggiavano tra le rovine della piramide abbattuta. Il vroon Deliamber si teneva in disparte da un lato.

«Allora?» indagò Tunigorn.

«Hanno aperto un buco nella parete. Dentro c'è qualcosa, ma non sappiamo ancora di che si tratti.»

«Un tesoro?» domandò Tunigorn con un ghigno lascivo. «Cumuli di smeraldi, diamanti e giada?»

«Sì», rispose Valentine. «E molto altro ancora. Un autentico tesoro. Un tesoro enorme, Tunigorn.» Rise e si voltò. «Hai con te del vino, Nascimonte?»

«Come sempre, amico mio. Dell'ottimo Muldemar d'annata.»

Passò la fiaschetta al Pontifex, che bevve d'un fiato, senza sostare affatto per assaporare il bouquet, trangugiando vino come se fosse acqua.

Le ombre andarono addensandosi. Una delle lune minori spuntò ai margini del cielo.

«Maestà? Vuole scendere da basso?»

Era l'archeologo Vo-Siimifon. Valentine lo seguì nel cunicolo.

Trovò che l'apertura nella parete era stata allargata in modo da consentire il passaggio di una persona. Magadone Sambisa, con mano tremante, passò la torcia a Valentine.

«Le devo chiedere, maestà, di non toccare nulla, di non spostare in alcun modo ciò che si trova all'interno. Non vogliamo negarle il privilegio di entrare per primo, ma non bisogna dimenticare che la nostra è un'impresa scientifica. Prima di toccare alcunché dobbiamo documentare ogni cosa, per quanto banale possa sembrare all'apparenza, così come viene trovata.»

«Capisco», disse Valentine.

Scavalcò con attenzione la parte di parete rimasta eretta ai piedi dell'apertura ed entrò.

Il pavimento del santuario era lastricato di pietra liscia e lucida, forse quarzo rosa. Era ricoperto da un sottile strato di polvere. In ventimila anni nessuno ha attraversato questa stanza, pensò Valentine. Nessun piede umano si è mai posato su questo pavimento.

Si avvicinò al massiccio blocco di pietra al centro del sacrario e lo illuminò con la torcia. Sì, era un unico blocco di opale nero striato di rubino, esattamente come il trono Confalume. Su di esso, il suo splendore offuscato solo da una lieve traccia di polvere, era posata una sottile lamina d'oro, incisa con intricati geroglifici piurivar e incastonata di cabochon che sembravano essere di berillo, corniola e lapislazzuli. Due oggetti lunghi e affusolati, che sarebbero potuti essere stiletti ricavati da una qualche pietra bianca, erano posizionati al centro esatto della lamina d'oro, uno accanto all'altro.

Valentine venne scosso da un tremore di profonda soggezione. Sapeva che cosa fossero quei due oggetti.

«Maestà? Maestà?» chiamò Magadone Sambisa. «Ci dica che cosa vede! Le prego!»

Ma Valentine non rispose. Fu come se Magadone Sambisa non avesse neppure parlato. Era assorto nei propri ricordi, riportato indietro nel tempo di otto anni, alle ore decisive della Guerra di Ribellione.

In quel frangente aveva stretto nella rnano un oggetto molto simile ai due che vedeva davanti a sé adesso, avvertendone la strana freschezza, una freschezza che lasciava trasparire un accenno dell'anima infuocata che si celava al suo interno, e sentendo una musica complessa e distante che dall'oggetto si emanava direttamente nella sua mente, un flusso turbolento di suono inebriante.

Era stato il dente di un drago marino che aveva stretto nel pugno allora. Qualcosa di misterioso dentro di esso aveva innescato la comunione della sua mente con quella del possente re delle acque Maazmoorn, un drago del distante Mare Interno. Ed era stato con l'aiuto di Maazmoorn che il Pontifex Valentine aveva attraversato il mondo per colpire l'impenitente ribelle Faraataa e stroncare la tragica rivolta.

E quei denti, a chi appartenevano?

Pensava di saperlo. Si trovava nel Santuario della disfatta, nel luogo della Profanazione. Non lontano da lì, molto tempo prima, due re delle acque erano stati strappati al mare e sacrificati su piattaforme di pietra azzurra. Non era una leggenda. Era realmente accaduto. Valentine ne aveva la certezza, perché il re delle acque Maazmoorn gli aveva mostrato la scena attraverso la piena comunione con la sua mente, in maniera tale da non lasciare adito a dubbi. Conosceva anche i loro nomi: uno era il re delle acque Niznorn e l'altro era il re delle acque Domsitor. Questo dente era dunque di Niznorn, e quest'altro di Domsitor?

Ventimila anni.

«Maestà? Maestà?»

«Un minuto», rispose Valentine, con una voce che sembrava provenire dall'altra parte del pianeta.

Raccolse il dente a sinistra. Lo strinse nella mano. Si lasciò sfuggire un sibilo allorché la bruciante sensazione di freddo gli penetrò nel palmo. Chiuse gli occhi e lasciò che la magia di quell'oggetto gli pervadesse la mente. Sentì il proprio spirito gonfiarsi ed estendersi verso l'esterno, fuori, sempre più lontano, in direzione di un re delle acque in immobile attesa… di nuovo Maazmoorn, per quanto poteva saperne, o forse uno degli altri giganti che popolavano quelle acque remote. Tutto il tempo udiva i rintocchi delle campane, il risuonare della musica che nasceva nella mente del drago marino.

E gli venne concessa una visione dell'antico sacrificio dei due re delle acque, di quell'evento passato alla storia con il nome di Profanazione.

Sapeva già, informato da Maazmoorn durante la precedente comunione di menti anni prima, che quel nome era il risultato di un equivoco. Non era avvenuta alcuna profanazione. Era stato un sacrificio volontario; l'evento aveva segnato l'accettazione formale da parte dei draghi di mare del potere di Ciò Che È, la più grande di tutte le forze dell'universo.

I re delle acque si erano consegnati volentieri ai piurivar della Velalisier di quell'epoca per essere uccisi. Gli stessi uccisori erano molto probabilmente coscienti delle loro azioni, mentre ogni comprensione sfuggiva ai piurivar più umili e semplici delle province circostanti; erano stati loro a definire il gesto una profanazione, mettendo a morte il Re Finale di Velalisier e abbattendo la Settima piramide, procedendo poi a distruggere tutto il resto dell'antica, grandiosa capitale, e pronunciando su di essa una maledizione destinata a durare in eterno. Ma non avevano osato toccare il santuario in cui erano custoditi quei denti.

Valentine, stringendo il dente nella mano, assistette ancora una volta al sacrificio. Ma non più con i draghi marini legati e furiosi che si dimenavano cercando di liberarsi, come gli erano apparsi nell'incubo della notte precedente. Nient'affatto. Gli apparve ora come una cerimonia serena e sacra, una volontaria e benigna offerta di carne viva. Al baluginare dei coltelli, alla morte delle grandi creature marine, al trasporto della loro densa carne nera verso le pire per essere bruciata, una risonante ondata di trionfale armonia riecheggiò fino ai confini dell'universo.

Posò il dente e impugnò l'altro. Lo strinse. Ne avvertì il freddo e la consistenza. Si arrese al suo potere.

Stavolta la musica era più dissonante. La visione che ebbe era incentrata sulla figura di un uomo sconosciuto di mezz'età, abbigliato con ricche vesti di taglio antico, indumenti prestigiosi degni di un Pontifex. Avanzava cautamente, guidato dalla luce fumosa di una torcia, lungo lo stesso cunicolo nel quale ora si trovavano accalcati Magadone Sambisa e i suoi archeologi, all'esterno del sacrario. Valentine osservò quel Pontifex di tanti millenni prima avvicinarsi al muro bianco e intatto del santuario. Lo vide posarci sopra una mano, come se esercitando una pressione sperasse di penetrare al suo interno avvalendosi solo delle proprie forze. Poi si voltò, fece un cenno a una squadra di operai muniti di picconi e pale e ordinò loro di cominciare ad abbattere la parete.

E a quel punto una figura emerse dalle tenebre, un mutaforma, alto, snello e dall'espressione cupa; fece un grande passo in avanti e con un affondo rapido e imparabile trafisse con un coltello l'uomo con gli abiti pontificali broccati, facendo risalire la lama verso l'alto fino a incontrare il cuore…


«Maestà, la prego!»

La voce di Magadone Sambisa era colma d'angoscia.

«Sì», disse Valentine nel tono distante di qualcuno che fino a un attimo prima era perso in un sogno. «Arrivo.»

Aveva avuto abbastanza visioni, per il momento. Posò a terra la torcia e ne indirizzò il fascio di luce verso l'apertura nella parete, illuminando il tragitto che doveva percorrere. Raccolse con cura i due denti di drago, lasciando che si adagiassero delicatamente nei palmi delle mani e facendo attenzione a non stringerli al punto da attivare i loro poteri, poi tornò sui suoi passi e uscì dal santuario.

Magadone Sambisa lo fissò inorridita. «Maestà, le avevo chiesto di non toccare gli oggetti nella camera, di non disturbare quello…»

«Sì, lo so. Mi perdonerà per quello che ho fatto.»

Non era una richiesta.

L'archeologa si fece da parte ossequiosamente mentre attraversava a grandi falcate il gruppo di persone, diretto all'uscita che lo avrebbe ricondotto al mondo esterno. Tutti gli occhi erano rivolti agli oggetti che Valentine recava nelle mani, appoggiati ai palmi, rivolti verso l'alto.

«Portatemi il khivanivod», ordinò ad Aarisiim. La luce del giorno era quasi del tutto scomparsa ora, e le rovine stavano assumendo l'aspetto ancora più misterioso che prendevano di notte, quando il fresco chiarore delle lune danzava sulle antiche pietre della città distrutta.

Il mutaforma si allontanò di fretta. Valentine aveva ordinato che il khivanivod fosse tenuto ben lontano dal santuario durante l'abbattimento della parete; così, protestando violentemente, Torkkinuuminaad era stato confinato nel campo base degli archeologi, affidato alla custodia di alcuni membri del servizio di sicurezza di Valentine. Furono i due immensi e pelosi skandar a recarglielo ora, reggendolo per le braccia.

Lo sciamano ribolliva di rabbia e odio, che emanavano da lui come gas neri da uno stagno inquinato e pestilenziale. Scrutando quell'antico e spigoloso volto verde, Valentine ebbe una vivida percezione dell'antica magia insita in quel mondo, dei misteri che si estendevano a lui dalla brumosa e lontana alba di Majipoor, quando i mutaforma avevano calcato soli e indisturbati quel grande pianeta di meraviglie e splendori.

Il Pontifex ostentò i due denti di drago marino.

«Sa che cosa sono questi, Torkkinuuminaad?»

Le pieghe gommose delle palpebre dello sciamano si ritrassero. I suoi occhi sottili erano gialli di furore. «Lei ha commesso il più terribile dei sacrilegi e morirà nella più terribile delle agonie.»

«Allora sa cosa sono!»

«Sono le più sacre tra le reliquie! Deve riporle immediatamente nel santuario!»

«Torkkinuuminaad, perché ha fatto uccidere il dottor Huukaminaan?»

La sola risposta del khivanivod fu uno sguardo ancor più rabbioso e sprezzante.

Mi ucciderebbe con i suoi poteri magici, se potesse, pensò Valentine. E perché non dovrebbe farlo? Io so che cosa rappresento agli occhi di Torkkinuuminaad. Io sono l'imperatore di Majipoor e dunque sono Majipoor stessa, e se con un solo gesto potesse condannarci tutti alla distruzione e all'oblio, lui farebbe quel gesto.

Sì. Valentine incarnava nella sua persona il nemico: il nemico che era giunto dal cielo e aveva sottratto ai piurivar il loro mondo, che aveva costruito le proprie immense città dove prima c'erano state foreste e radure, aveva popolato con miliardi di intrusi il pianeta, disturbando la fragile tessitura della vita dei piurivar. Dunque Torkkinuuminaad l'avrebbe ucciso, se avesse potuto, e uccidendo il Pontifex avrebbe simbolicamente ucciso, secondo i canoni della magia, tutta la Majipoor dominata dagli umani.

Ma alla magia si può opporre la magia, si disse Valentine.

«Sì, mi guardi», disse allo sciamano. «Mi guardi dritto negli occhi, Torkkinuuminaad.»

Così dicendo strinse tra le dita i due talismani che aveva preso dal santuario.

La duplice forza dei denti avviluppò Valentine con un impatto tremendo nel momento in cui chiuse mentalmente il circuito. Avvertì l'intera gamma di sensazioni contemporaneamente, non semplicemente raddoppiate bensì moltiplicate più volte. Riuscì a rimanere in piedi e si concentrò con tutte le forze; indirizzò la propria mente direttamente verso quella del khivanivod. La scrutò. Vi entrò. Penetrò nella memoria del khivanivod e subito trovò quello che cercava.


Il buio della mezzanotte. Il chiarore di una falce di luna. Il cielo tempestato di stelle. La tenda degli archeologi, gonfiata dalla brezza. Qualcuno che ne esce: un piurivar, molto magro, dai movimenti cauti imposti dalla vecchiaia.

Il dottor Huukaminaan, certamente.

Una figura snella lo attende nella strada: un altro metamorfo, anch'egli anziano, vestito in modo strano e trasandato.

Il khivanivod. Così come si vedeva con l'occhio della propria mente.

Alle sue spalle si muovono alcune sagome scure; sono cinque, sei, sette. Tutti mutaforma. Abitanti del villaggio, a giudicare dalle apparenze. Il vecchio archeologo non sembra accorgersi di loro. Parla con il khivanivod; lo sciamano fa un gesto, indica con la mano. Segue una discussione, un diverbio. Il dottor Huukaminaan scuote la testa. Di nuovo gesti a indicare qualcosa. Ancora scambi di opinione. Poi cenni di assenso. Un accordo. Tutto sembra essersi risolto per il meglio.

Sotto lo sguardo di Valentine il khivanivod e Huukaminaan si avviano insieme lungo la strada che conduce nel cuore delle rovine.

Ora gli abitanti del villaggio emergono dalle ombre che li avevano nascosti. Circondano il vecchio; lo afferrano; gli coprono la bocca per impedire che si odano le sue grida. Il khivanivod gli si avvicina.

Il khivanivod regge un coltello.


Valentine non aveva bisogno di vedere altro. Non voleva vedere altro, il mostruoso rito di smembramento sulla piattaforma di pietra azzurra, né lo strano rituale che sarebbe seguito nel cunicolo che conduceva al Santuario della disfatta, destinato a raggiungere il suo culmine con la deposizione della testa della vittima nella nicchia.

«Ora non c'è più spazio per le menzogne e la finzione», disse al khivanivod, la cui espressione era mutata e comunicava non più furore a stento contenibile, bensì quasi una sorta di rassegnazione. «Perché ha ucciso il dottor Huukaminaan?»

«Perché altrimenti avrebbe aperto il santuario.» Il tono di voce del khivanivod era assolutamente neutro, privo di qualsiasi emozione.

«Certo. Naturalmente. Ma anche Magadone Sambisa era a favore dell'apertura. Perché non ha ucciso lei?»

«Lui era uno di noi, un traditore», disse Torkkinuuminaad. «Lei non importava. E lui rappresentava un pericolo più grande per la nostra causa. Sapevamo che Magadone Sambisa avrebbe dovuto desistere dall'aprire il santuario se ci fossimo opposti con il necessario vigore. Lui, invece… non c'era modo di convincerlo.»

«Il santuario è stato aperto comunque», disse Valentine.

«Sì, ma solo perché lei è venuto qui. Altrimenti gli scavi sarebbero stati chiusi. Lo scalpore suscitato dalla morte del dottor Huukaminaan avrebbe mostrato al mondo che la maledizione che aleggia su questo luogo è ancora attiva. Lei è venuto e ha aperto il santuario; ma la maledizione colpirà anche lei, proprio come colpì il Pontifex Ghorban tanto tempo fa.»

«Qui non c'è alcuna maledizione», replicò tranquillo Valentine. «Questa è una città che ha vissuto molte tragedie, ma non esiste alcuna maledizione: solo una sfortunata successione di incomprensioni.»

«La Profanazione…»

«Non c'è stata alcuna profanazione, bensì solo un sacrificio. La distruzione della città da parte della gente delle province fu uno sbaglio madornale.»

«Dunque lei comprende la nostra storia meglio di noi, Pontifex?»

«Sì», affermò Valentine. «Sì.» Si voltò, distogliendo lo sguardo dallo sciamano, e rivolgendosi al caposquadra disse: «Vathiimeraak, nella tua comunità abitano degli assassini. So chi sono. Vai al villaggio e annuncia a tutti che se i colpevoli si faranno avanti e confesseranno il loro crimine, verranno perdonati dopo essersi sottoposti a una piena purificazione delle loro anime».

Poi si girò verso Lisamon Hultin e disse: «Per quanto riguarda il khivanivod, voglio che venga consegnato ai funzionari della Danipiur perché sia processato da un tribunale della sua gente. La competenza è sua. Poi…»

«Maestà!», gridò qualcuno. «Attento!»


Valentine ruotò su se stesso. Le guardie skandar si erano ritratte dal khivanivod e si fissavano le mani tremanti come se si fossero ustionati in una fornace ardente. Torkkinuuminaad, liberatosi dalla loro presa, avvicinò minacciosamente il volto a quello di Valentine, dal basso verso l'alto. La sua espressione era diabolica.

«Pontifex!» sussurrò. «Mi guardi, Pontifex! Mi guardi!»

Colto di sorpresa, Valentine non ebbe modo di difendersi. Si sentiva già pervadere da uno strano torpore. I denti di drago gli scivolarono dalle mani inerti. Ora Torkkinuuminaad stava mutando forma, passando in rassegna una serie di grotteschi cambiamenti a un ritmo frenetico, al punto da sembrare dotato a tratti di decine di arti e una mezza dozzina di corpi; era un sortilegio. Valentine se ne ritrovò avviluppato come una falena tra i fili di una tela abilmente intessuta da un ragno. L'aria sembrava essersi fatta densa e la vista gli si offuscava; dal nulla si era levata una brezza. Valentine resistette in piedi, in preda allo smarrimento, tentando di sottrarre il suo sguardo dagli occhi infuocati del khivanivod, ma invano. Né trovava la forza per chinarsi e raccogliere i due denti di drago che giacevano ai suoi piedi. Sembrava raggelato, confuso, stordito. Barcollò. Nel petto provava un intenso bruciore e gli risultava arduo anche solo respirare. Si sentiva attorniato da fantasmi. Una decina di mutaforma… cento, mille…

Volti ghignanti. Occhi malevoli. Denti; artigli; coltelli. Era circondato da un'orda danzante di assassini, che gli volteggiavano attorno, saltellando, ruotando, sibilando, schernendolo e chiamando il suo nome con tono derisorio.

Era perduto in un vortice di antichi sortilegi. «Lisamon?» chiamò Valentine, frustrato. «Deliamber? Aiutatemi… aiuto…» ma non era sicuro che le parole gli fossero effettivamente uscite dalle labbra.

Poi vide che le sue guardie avevano finalmente percepito il pericolo in cui si trovava. Deliamber, il primo a reagire, si fece rapidamente avanti e levò a sua volta i propri molti tentacoli evocando un contro-sortilegio, una serie di gesti e affondi di forza psichica tesi a neutralizzare quanto emanato da Torkkinuuminaad. Mentre il minuscolo vroon iniziava a tessere la propria rete di magia attorno allo sciamano piurivar, fu Vathiimeraak ad avventarsi contro il khivanivod dal lato opposto, afferrandolo audacemente e scagliandolo a terra del tutto incurante dei suoi sortilegi. Lo sopraffece, stringendolo in una morsa e premendogli la fronte nel suolo ai piedi di Valentine. Valentine sentì allentarsi la presa della magia dello sciamano, che poi prese a scemare e finalmente cedette ogni residua presa sulla sua anima. Il contatto tra la sua mente e quella di Torkkinuuminaad si spezzò con un botto secco, quasi udibile.

Vathiimeraak mollò il khivanivod e si ritrasse. Lisamon Hultin aveva affiancato lo sciamano e ora incombeva minacciosa su di lui. Ma l'episodio era concluso. Lo sciamano rimase dov'era, assolutamente immobile, gli occhi fissi al suolo, mordendo la polvere in amaro riconoscimento della sconfitta.

«Grazie», disse semplicemente Valentine a Deliamber e Vathiimeraak. Poi, con un gesto della mano: «Portatelo via».

Lisamon Hultin si gettò Torkkinuuminaad sulla spalla come un sacco di calimbot e si allontanò lungo la strada a grandi falcate.


Seguì una lunga pausa di attonito silenzio. Fu Magadone Sambisa a romperla. In una voce che era poco più di un sussurro, domandò: «Maestà, sta bene?»

Lui rispose limitandosi ad annuire.

«E gli scavi?» continuò lei dopo un attimo, tradendo la propria ansia. «Che cosa ne sarà? Potremo continuare il nostro lavoro?»

«Perché no?» replicò Valentine. «C'è ancora molto da fare.» Si allontanò da lei di un paio di passi. Si portò le mani al petto, alla gola. Gli sembrava quasi di avvertire ancora la terribile pressione di quelle implacabili e invisibili mani.

Magadone Sambisa, tuttavia, non aveva intenzione di lasciarlo in pace.

«E questi?» domandò, indicando i denti di drago marino. Il suo tono era più aggressivo, ora, a indicare che stava riprendendo il controllo della situazione, recuperando vigore e contegno. «Se ora posso prenderli, maestà…»

Valentine si girò e con rabbia disse: «Sì, li prenda. Ma li riponga nel santuario. Poi faccia sigillare il foro che abbiamo aperto oggi».

L'archeologa lo fissò come se anch'egli si stesse trasformando in un piurivar. Con una nota di malcelata asprezza nella voce, disse: «Come, maestà? Come sarebbe? Il dottor Huukaminaan è morto per causa di questi denti! Il ritrovamento di quel santuario ha segnato il culmine della sua gloriosa carriera di studioso. Tornare a sigillarlo ora equivarrebbe a…»

«Il dottor Huukaminaan era lo scienziato perfetto», la interruppe Valentine, senza più curarsi di nascondere la propria grande stanchezza. «Il suo amore per la verità gli è costato la vita. Per quanto riguarda lei, credo che il suo amore per la verità sia tutt'altro che perfetto; pertanto, obbedirà ai miei ordini.»

«La prego, maestà…»

«No. Basta preghiere. Io non ho la pretesa di essere a mia volta uno scienziato, ma sono cosciente delle mie responsabilità. È meglio che alcune cose rimangano sepolte. Questi denti non sono reperti da maneggiare, studiare e mettere in mostra in un museo. Il santuario è un luogo sacro per i piurivar, anche se loro stessi non ne comprendono appieno la sacralità. È stata una sciagura per tutti noi che sia stato ritrovato. Gli scavi possono continuare, in altre zone della città. Ma questi li riporrete dove sono stati trovati. Sigillate il santuario e tenetevene lontani. Chiaro?»

Lo guardò senza parlare e annuì.

«Bene. Molto bene.»

Ormai sul deserto stava calando la notte in tutta la sua oscurità. Valentine avvertiva attorno a sé la presenza della miriade di fantasmi di Velalisier. Sembrava che dita ossute gli sfiorassero la tunica, che strane voci sussurrate gli mormorassero pericolose formule magiche nelle orecchie.

Non vedeva l'ora di lasciarsi alle spalle quelle rovine. Le aveva frequentate quanto bastava per una vita intera.

Disse a Tunigorn: «Coraggio, vecchio amico mio; dai tu gli ordini, prepariamoci per una partenza immediata».

«Adesso, Valentine? A quest'ora così tarda?»

«Ora, Tunigorn. Ora.» Sorrise. «Sai, questo posto ha avuto l'effetto di far apparire quasi accogliente il Labirinto! Provo un forte desiderio di tornare alle familiari comodità che offre. Andiamo: organizzate tutto per la partenza. Siamo rimasti qui sufficientemente a lungo.»

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