ALGIS BUDRYS
INCOGNITA UOMO
(Who?, 1965)

CAPITOLO I

Era notte fonda. Il vento soffiava dalla parte del fiume, sibilando tra le strutture d'acciaio dei ponti, e le banderuole che si trovavano sui tetti dei vecchi edifici oscuri indicavano il nord.

Il sergente della Polizia Militare che si trovava in servizio aveva schierato il suo plotone sui due lati della strada sassosa. La strada era bloccata da una muraglia dall'aria antica, nella quale si apriva un passaggio, chiuso in quel momento da sbarre di legno. I fari delle jeep della Polizia Militare e della guida interna del Governo Alleato illuminavano gli elmetti a prova di pallottola dei soldati in attesa. Sopra di loro si trovava un cartello:


STATE ABBANDONANDO LA ZONA ALLEATA
STATE ENTRANDO NELLA ZONA SOCIALISTA SOVIETICA

All'interno dell'automobile Shawn Rogers era seduto, in attesa, in compagnia di un rappresentante del Ministero degli Esteri degli Alleati. Rogers era a capo della Sicurezza, in quel settore della Zona di Frontiera Centro-Europea amministrato dagli Alleati. Stava aspettando pazientemente, e i suoi occhi verdi erano fissi nelle tenebre.

Il rappresentante del Ministero degli Esteri diede una occhiata all'orologio d'oro che portava al polso.

«Saranno qui, con lui, entro un minuto.» Tamburellò con la punta delle dita sulla superficie levigata della valigetta diplomatica. «Se rispettano gli orari.»

«Lo faranno» disse Rogers «sono fatti così. Lo hanno trattenuto per quattro mesi, ma adesso arriveranno al momento giusto, per dimostrare la loro buona fede.» Guardò fuori dal finestrino, al di là delle spalle del silenzioso conducente, verso il muro. Le guardie di confine sovietiche, che si trovavano dall'altra parte… slavi e asiatici, che indossavano divise informi… stavano ignorando il plotone alleato. Erano tutti intorno a un falò, acceso vicino alla postazione principale, e tendevano le mani verso la fiamma per riscaldarsi. Le pesanti mitragliatrici, che pendevano dalle loro spalle, avevano un aspetto ingombrante e poco efficiente. Tutte le guardie di frontiera comuniste parlavano e scherzavano tra di loro, senza degnare di un'occhiata il confine.

«Guardateli» disse il rappresentante del Ministero degli Esteri, con aria pigra. «A loro non importa un accidente di quello che facciamo. Non si preoccupano neppure di vederci arrivare con dei soldati armati.»

Il rappresentante del Ministero degli Esteri veniva da Ginevra, che si trovava a cinquecento chilometri di distanza. Rogers viveva là, in quel settore, da sette anni. Si strinse nelle spalle:

«Ormai siamo tutti vecchi amici. Il confine è qui da quarant'anni. Loro sanno benissimo che noi non cominceremo a sparare, e viceversa. Non è qui che si svolge la guerra.»

Osservò nuovamente i soldati sovietici raggruppati intorno al fuoco, e si ricordò di una vecchia canzone, che aveva imparato diversi anni prima: “Date al Compagno con la Mitragliatrice il Diritto di Parola”. Si chiese se, dall'altra parte del confine, quella canzone fosse conosciuta. C'erano molte cose che avrebbe voluto sapere, a proposito di coloro che si trovavano dall'altra parte. Ma ci sperava poco.

La guerra si svolgeva in tutti gli archivi segreti del mondo. Le armi erano le informazioni: cose che si sapevano, cose che si scoprivano sugli altri, cose che gli altri sapevano su di voi. E così si mandavano degli agenti al di là del confine, o si sfruttavano agenti locali, ed essi cominciavano la ricerca. Erano in pochi a tornare indietro. Alcuni ce la facevano. E così si mettevano assieme i frammenti da essi portati, sperando che non fossero troppo confusi, e, con una buona dose d'intelligenza, si arrivava a scoprire quello che avevano intenzione di fare i sovietici.

E i sovietici compivano ricerche, a loro volta. Non erano molti gli agenti che riuscivano a farcela… per lo meno, si aveva un ragionevole margine di sicurezza… ma, alla fine, loro scoprivano quello che avevano intenzione di fare gli altri. E così tutto restava immutato. Si compivano ricerche, dall'una e dall'altra parte, e più si osava, più le cose si facevano difficili. C'era un po' di luce, all'inizio. Ma poi, man mano che ci si addentrava nell'oceano di segreti delle grandi potenze, calavano le tenebre più fitte. E un giorno, si doveva sperare, l'equilibrio delle forze si sarebbe rotto… a vostro favore.

Il rappresentante del Ministero degli Esteri stava sfogando a parole la sua impazienza.

«Perché diavolo abbiamo dato un laboratorio, così vicino al confine, a Martino, tanto per cominciare?»

Rogers scosse il capo.

«Non lo so. Non mi occupo di problemi strategici.»

«Be', perché non abbiamo inviato una squadra di soccorso noi, subito dopo l'esplosione?»

«L'abbiamo fatto. Ma loro sono arrivati per primi, ecco tutto. Sono stati più veloci, e lo hanno portato via.» E nel dire questo si chiese se si fosse trattato semplicemente di un colpo di fortuna.

«Perché non abbiamo potuto farlo tornare indietro?»

«Non mi occupo di problemi tattici, per lo meno a questo livello. Immagino però che avremmo avuto dei fastidi, se avessimo rapito da un ospedale un individuo seriamente ferito.» E l'individuo in questione era un cittadino americano. Se fosse morto? La propaganda sovietica si sarebbe messa al lavoro sugli americani, e quando fosse arrivata al Congresso la nuova cartella annuale dei pagamenti, forse gli americani non avrebbero contribuito con sufficiente rapidità al saldo della loro parte di debito comune. Rogers si strinse nelle spalle. La guerra era fatta così, a quei tempi.

«Penso che sia una situazione ridicola. Un uomo importante come Martino nelle loro mani, e noi non possiamo fare niente. È assurdo.»

«Sono queste faccende che vi forniscono il lavoro, no?»

Il rappresentante del Ministero degli Esteri mutò rapidamente tattica.

«Vorrei sapere comeiiha presa lui. Mi hanno detto che, dopo l'esplosione, era ferito piuttosto gravemente.»

«Be', adesso è in convalescenza.»

«Mi hanno detto che ha perduto un braccio. Ma immagino che loro se ne siano occupati. Sono abilissimi in questo campo. Dopotutto, già nell'immediato dopoguerra erano in grado di tenere in vita organismi animali servendosi di un cuore artificiale.»

«Uhm.» Un uomo scompare sul confine, stava pensando Rogers, e tu spedisci degli agenti alla sua ricerca. Pian piano, i rapporti cominciano a raggiungerti. Sono contrastanti. È morto, si dice. Ha perduto un braccio, ma è vivo. Sta morendo. Non sappiamo dove si trova. È stato inviato a Novoya Moskva. Si trova proprio là, in quella città, chiuso in un ospedale. Per lo meno, laggiù c'è qualcuno in un ospedale. Di quale ospedale si tratta?

Non si sa. E tu non scoprirai nient'altro. Consegni il tuo rapporto al Ministero degli Esteri, e iniziano i negoziati. Quelli della tua parte bloccano un'autostrada che attraversa il confine. Quelli dell'altra parte per poco non abbattono un aereo. Quelli della tua parte sequestrano alcuni pescherecci. E finalmente, non per qualcosa fatto da quelli della tua parte, ma per qualche loro recondita ragione, decidono di arrendersi.

E per tutto questo tempo, un uomo della tua parte è rimasto in uno dei loro ospedali, ferito e sconvolto, in attesa che tu e i tuoi faceste qualcosa.

«Si dice che fosse sul punto di realizzare qualcosa, che si chiama K-88» continuò il rappresentante del Ministero degli Esteri. «Abbiamo ricevuto l'ordine di non fare pressioni troppo forti, nel timore che capissero l'importanza della cosa. Cioè, nel caso che non ne fossero già al corrente. Ma, naturalmente, dovevamo farlo tornare indietro, e così non potevamo dimostrarci troppo accomodanti. Un affare molto delicato.»

«Lo immagino.»

«Pensate che siano riusciti a strappargli il segreto del K-88?»

«Loro hanno un individuo chiamato Azarin. È terribilmente in gamba.» Come faccio a saperlo, in nome del cielo, finché non ho parlato a Martino? Ma Azarin è davvero in gamba. E la voce si è diffusa nelle alte sfere. Tutti individui fidati?

Al di là del confine, in distanza, si vide la luce dei fari di un'automobile che compì una curva a gomito, prima di fermarsi dopo pochi metri. La portiera posteriore di una limousine Tatra si spalancò, e nello stesso tempo una delle guardie sovietiche si diresse verso il confine e alzò le sbarre. Il sergente della Polizia Militare Alleata ordinò ai suoi uomini di mettersi sull'attenti.

Rogers e il rappresentante del Ministero degli Esteri uscirono dalla loro automobile.

Un uomo scese dalla Tatra e attraversò il confine. Esitò, prima di fare un ulteriore passo avanti, e poi avanzò rapidamente, tra le due file di soldati della Polizia Militare.

«Buon Dio!» mormorò il rappresentante del Ministero degli Esteri.

Le luci provocarono un'ondata di riflessi bluastri sull'uomo che aveva attraversato il confine. Era fatto quasi interamente di metallo.


Indossava un informe abito civile sovietico, di colore grigio, scarpe pesanti e camicia beige spiegazzata. Le maniche erano troppo corte, e le mani ne uscivano abbondantemente. Una era fatta di carne, l'altra no. La testa era un ovoide metallico levigato, assolutamente privo di lineamenti, all'infuori di una griglia là dove avrebbe dovuto trovarsi la bocca, e una rientranza a forma di mezzaluna, con le punte incurvate verso l'alto, là dove avrebbero dovuto trovarsi gli occhi. Si fermò, chiaramente a disagio, al termine della lunga, doppia fila di soldati. Rogers lo raggiunse, tendendo la mano:

«Lucas Martino?»

L'uomo annui.

«Sì.»

La mano buona era la destra. La tese e afferrò quella di Rogers. La sua stretta fu forte e ansiosa.

«Sono felice di essere qui.»

«Mi chiamo Rogers. Vi presento il signor Haller, del Ministero degli Esteri.»

Haller strinse automaticamente la mano a Martino, con gli occhi sbarrati.

«Piacere di conoscervi» disse Martino.

«Piacere mio» mormorò il rappresentante del Ministero degli Esteri.

«L'automobile è pronta signor Martino» intervenne Rogers. «Io appartengo all'ufficio locale della Sicurezza. Vi sarei grato se voleste venire con me. Prima parliamo, prima termineremo questo affare.» Rogers sfiorò la spalla di Martino, spingendolo gentilmente verso la macchina.

«Sì, certo. Bando agli indugi.» L'uomo seguì Rogers velocemente, ed entrò nell'automobile. Haller salì dall'altra portiera, e subito dopo, l'autista mise in moto la vettura, compì una svolta e si diresse verso l'ufficio di Rogers. Dietro di loro, gli uomini della Polizia Militare salirono sulle loro jeep e si accodarono. Rogers si voltò a guardare attraverso il finestrino posteriore dell'automobile. Le guardie di confine sovietiche stavano seguendo con lo sguardo la piccola autocolonna.

Martino sedeva rigidamente, a braccia conserte.

«È meraviglioso essere di ritorno» disse con voce stanca.

«Lo credo» fu il commento di Haller. «Dopo quello che vi avranno…»

«Penso che il signor Martino stia semplicemente esprimendo i sentimenti che chiunque, in una situazione del genere, dovrebbe provare, signor Haller. Credo che ben difficilmente lui si senta in grado di trovare meravigliosa qualsiasi cosa.»

Haller osservò Rogers con aria piuttosta sorpresa.

«Mi sembrate piuttosto brusco, signor Rogers.»

«È esattamente il mio stato d'animo.»

Martino fissò prima l'uno poi l'altro.

«Vi prego, non sentitevi a disagio per causa mia» disse, «Mi spiace di essere la causa di tutto ciò. Forse, sarebbe stato meglio che avessi detto subito di conoscere il mio aspetto, e di essere il primo ad averlo accettato.»

«Scusatemi» disse Rogers, «Non volevo.»

«E vi prego di accettare anche le mie scuse» aggiunse Haller. «Mi rendo conto che, a modo mio, sono stato indelicato, almeno quanto il signor Rogers.»

Martino disse:

«E così adesso ci siamo fatti tutti le nostre scuse,»

Proprio così, pensò Rogers. Tutti dispiaciuti.

La macchina percorse la breve salita che portava alla porta di servizio dell'ufficio di Rogers, e si fermò.

«Benissimo, signor Martino, noi scendiamo qui» disse Rogers. «Haller, passerete subito dal vostro ufficio?»

«Immediatamente, signor Rogers.»

«Bene. Immagino che il vostro capo e il mio cominceranno a trarre grandi conclusioni politiche sulla faccenda, no?»

«Sono certo che la parte del mio Ministero si è conclusa con il ritorno del signor Martino» disse Haller. «Voglio andarmene a letto, non appena terminato il rapporto. Buonanotte, Rogers. È stato un piacere lavorare con voi.»

«Ma certo.» Una breve stretta di mano, e poi Rogers e Martino scesero dall'automobile ed entrarono nell'edificio.

«Ha fatto presto a lavarsene le mani, di questa faccenda, non è vero?» commentò Martino, seguendo Rogers che scendeva una rampa di scale che conduceva nel seminterrato.

Rogers borbottò:

«Da questa porta, prego, signor Martino.»

Entrarono in un corridoio stretto, sul quale si aprivano moltissime porte, dalle pareti imbiancate e dal pavimento di linoleum grigio. Rogers si fermò, e guardò per un attimo le porte.

«Andrà bene questa, immagino. Per favore, seguitemi, signor Martino.» Estrasse di tasca un mazzo di chiavi, e aprì la porta.

La stanza interna era piccola. C'era una branda appoggiata alla parete, con un cuscino bianco e una coperta militare. C'era un tavolino, con una sedia. La stanza era illuminata da una lampada al neon che si trovava sul soffitto, e su una parete si aprivano due porte, una che conduceva nel bagno, l'altra che nascondeva un piccolo armadio a muro.

Martino si guardò intorno.

«È qui che interrogate solitamente coloro che ritornano dall'altra parte?» domandò con voce gentile.

Rogers scosse il capo.

«Temo di no. Devo chiedervi di restare qui, d'ora in poi.» Ritornò nel corridoio, senza dare a Martino la possibilità di rispondere. Chiuse a chiave la porta.

Sospirò profondamente. Si appoggiò contro la porta metallica, e accese una sigaretta, con le dita che tremavano lievemente. Poi percorse rapidamente il corridoio, raggiunse l'ascensore automatico e salì al piano in cui si trovava il suo ufficio. Quando accese la luce, piegò lievemente le labbra, pensando a come avrebbero reagito i suoi uomini, svegliati nel bel mezzo della notte.

Sollevò la cornetta del telefono che si trovava sulla sua scrivania. Ma prima doveva parlare a Deptford, il suo superiore. Formò il numero.

Deptford rispose quasi subito.

«Pronto?»

Rogers aveva immaginato di trovarlo sveglio.

«Sono Rogers, signor Deptford.»

«Salve, Shawn. Aspettavo la chiamata. Tutto bene con Martino?»

«No, signore. Ho bisogno di personale di emergenza immediatamente. Voglio un… voglio un uomo che abbia esperienza nel campo dei microapparecchi di precisione… con tutti gli assistenti di cui ha bisogno. Voglio un esperto di apparecchi-spia. E uno psicologo. Naturalmente, anche per questi due, assistenti quanti ne servono. Voglio i tre migliori, stanotte o al massimo domattina. Avranno libertà di scelta per il personale, ma voglio che siano tutti debitamente autorizzati, per evitare interruzioni dovute a motivi di segretezza. E vorrei soprattutto che nessuno avesse mai pensato di imbottire gli uomini migliori di antidoti contro il siero della verità.»

«Rogers, che succede? Cosa c'è che non va? I vostri uffici non sono in grado di affrontare una cosa del genere!»

«Mi spiace, signore. Non ho il coraggio di spostarlo. In questa città, ci sono troppi posti nei quali anche i muri hanno orecchie. L'ho portato qui e l'ho chiuso in cella, e mi sono assicurato che non potesse neppure avvicinarsi al mio ufficio. Dio soltanto sa quello che cerca, e quello che può fare.»

«Rogers… Martino ha attraversato il confine, stanotte, o no?»

Rogers esitò.

«Non lo so» rispose.


Rogers ignorò gli uomini che riempivano la stanza, e abbassò il capo sui due incartamenti; non pensava, cercava semplicemente di radunare tutte le sue forze.

Entrambi gli incartamenti erano aperti alla prima pagina. Uno era piuttosto voluminoso, pieno di informazioni ricavate dalla Sicurezza, di rapporti, di notizie sulla carriera, e di tutti gli altri dati che, nel corso degli anni, si accumulano su un individuo che lavora per il governo. In copertina era scritto: Martino, Lucas Anthony. La prima pagina era piena dei soliti dati riguardanti l'identità: altezza, peso, colore degli occhi, colore dei capelli, data di nascita, impronte digitali, dentatura, segni particolari e cicatrici. C'erano le solite fotografie, che rappresentavano un uomo nudo, muscoloso e robusto, dai lineamenti intelligenti e rassicuranti, dal naso un po' grosso; le foto erano le solite, primo piano, di fronte e di schiena, di profilo da entrambe le parti.

Il secondo incartamento era più sottile. Per il momento, all'interno di esso non c'era nulla, all'infuori delle fotografie, e sulla copertina era stato scritto: Vedi Martino, L.A. (?). Le fotografie mostravano un uomo muscoloso e robusto con il fianco sinistro solcato da profonde cicatrici, che risalivano verso il petto, sulle spalle, e praticamente lo avvolgevano. Il braccio sinistro era artificiale, fino alla spalla, e sembrava inserito direttamente tra i muscoli pettorali e dorsali. La base della gola era circondata da profonde cicatrici, e la testa era completamente metallica.

Rogers si alzò, e appoggiando le mani sulla scrivania osservò i componenti del personale speciale, che stavano aspettando.

«Ebbene?»

Barrister, l'esperto inglese di servomeccanismi, si tolse la pipa di bocca.

«Non so. È quasi impossibile dirlo, dopo poche ore di esami.» Sospirò profondamente. «A dire il vero, sto facendo degli esami, ma non ho la minima idea dei risultati che potrò ottenere, se li potrò ottenere, e in quanto tempo.» Fece un gesto significativo. «Non si può ricavare qualcosa da un individuo ridotto nelle sue condizioni. Non possiamo penetrare al di sotto della superficie. Metà degli strumenti sono inservibili. Nelle sue parti meccaniche ci sono tanti componenti elettrici, che le immagini e i dati che cerchiamo di ottenere risultano irrimediabilmente “bianchi”. E non possiamo neppure determinare l'amperaggio che hanno usato. Quando tentiamo, gli facciamo male.» Abbassò la voce, con aria di scusa. «Comincia a gridare.»

Rogers fece una smorfia:

«Ma è Martino?»

Barrister si strinse nelle spalle.

Rogers improvvisamente batté il pugno sul piano della scrivania.

«Che diavolo facciamo?»

«Prendiamo un apriscatole» suggerì Barrister.

Nel silenzio che seguì, si udì la voce di Finchley, che era stato temporaneamente assegnato a Rogers dal Federal Bureau of Investigation americano:

«Guardate questo.»

Premette un pulsante, e il proiettore che aveva portato con sé cominciò a ronzare, mentre l'americano abbassava le luci dell'ufficio. Puntò il proiettore contro una parete libera, e la pellicola cominciò a svolgersi.

«Ripresa dall'alto» spiegò. «Illuminazione a infrarossi. Crediamo che non possa notarla. Crediamo che stia dormendo.»

Martino… Rogers doveva chiamarlo così, malgrado i suoi dubbi… giaceva sulla branda. La falce di luna che occupava lo spazio degli occhi era chiusa dall'interno, e soltanto una sottile linea divisoria la rendeva visibile. Sotto di essa, la griglia, che si trovava appena sopra la curva netta della mascella, era socchiusa. L'impressione creata era vagamente quella di un uomo privo di capelli, che teneva gli occhi chiusi e respirava attraverso la bocca. Rogers cercò di ricordare che quell'uomo non respirava.

«È stato ripreso verso le due di stanotte» disse Finchley. «È rimasto sulla branda circa un'ora e mezzo.»

Rogers aggrottò le sopracciglia, sentendo la perplessità che si insinuava nella voce di Finchley. Certo, era sconcertante non essere in grado di dire se un uomo stesse dormendo o meno. Ma non sarebbe servito a nulla tentare di scoprire la verità, se tutti fossero stati pronti a lasciarsi prendere dai nervi. Fu quasi sul punto di dire qualcosa, quando si rese conto di provare un certo dolore al petto. Scosse il capo, chinando le spalle, rendendosi conto che era inutile rimproverare gli altri.

La pellicola mostrò per un istante un segno di richiamo.

«Bene» disse Finchley. «Ascoltate, adesso.» Entrò in azione il sonoro.

Martino aveva cominciato ad agitarsi, sulla branda, e batteva selvaggiamente il braccio artificiale contro la parete.

Improvvisamente, l'uomo aveva cominciato a parlare nel sonno. Le parole uscivano veloci, e ogni sillaba era chiaramente distinguibile. Ma l'uomo parlava in fretta, e la sua voce aveva un accento disperato.

«Nome! Nome! Nome!

«Nome Lucas Martino nato a Bridgetown, New Jersey dieci maggio millenovecentoquarantotto, circa… di fronte! Particolari… avanti… marsh!

«Nome! Nome! Particolari… Alt!

«Nome Lucas Martino nato a Bridgetown, New Jersey dieci maggio millenovecentoquarantotto!»

Finchley sfiorò il braccio di Rogers:

«Pensate che lo facessero camminare?»

Rogers si strinse nelle spalle.

«Se si tratta di un incubo autentico, e se quello è Martino, allora, sì… sembra proprio che lo facessero camminare avanti e indietro, in una piccola stanza, bombardandolo di domande. Conoscete la loro tecnica: tenere in piedi il soggetto, farlo muovere, e bombardarlo di domande. Gli addetti all'interrogatorio si danno il cambio ogni cinque ore, in modo da restare freschi. Non lasciano dormire né sedere il soggetto. Lo fanno camminare fin quasi a farlo impazzire. Sì, potrebbe trattarsi di questo.»

«Credete che stia fingendo?»

«Non so. Può darsi. Ma forse, stava dormendo davvero. E forse è uno di loro, e stava sognando di essere interrogato da noi.»

Dopo qualche tempo, l'uomo che si trovava sulla brandina tornò a distendersi. Giacque immobile, con le braccia rigide. Sembrava che fissasse direttamente la cinepresa, con il suo volto imperscrutabile, e nessuno avrebbe potuto dire se egli stesse dormendo o meno, pensando o meno, se avesse paura o se soffrisse, né chi, o che cosa, fosse.

Finchley spense il proiettore.


Rogers era rimasto sveglio per trentasei ore. Ormai, l'uomo aveva attraversato il confine da un giorno intero. Rogers si sfregò rabbiosamente gli occhi che bruciavano, entrando nel suo appartamento. Lasciò in disordine i vestiti, avviandosi verso il bagno. Cercando nell'armadietto dei medicinali un Alka-Selzer, invidiò i piccoli individui instancabili, come Finchley, che potevano restare svegli per giorni e giorni senza che il loro stomaco protestasse.

Cominciò a farsi la barba. Poi si passò le dita tra i capelli rossi, aridi e spettinati, e aggrottò le sopracciglia notando la piccola nevicata di forfora che ne usciva.

Dio, pensò stancamente, ho trentasette anni e sto diventando vecchio.

Il violento getto di acqua calda aveva già riempito la vasca da bagno. Rogers entrò, e provò una lieve fitta di dolore al fianco che era stato colpito tanto tempo prima da un sasso, lanciato da un facinoroso nel corso di una sommossa. Nessun esercizio fisico avrebbe più potuto guarirlo completamente; e a questo pensiero, ricominciò a meditare.

Tra qualche anno, sarà un acciacco insopportabile. Non appena il tempo volgerà al brutto, il fianco comincerà a farmi male. Una volta ero capace di stare sveglio per tre o quattro giorni, senza soffrire troppo… ormai non potrò mai più farlo. Un giorno cercherò di compiere uno sforzo che la settimana prima ero riuscito a sopportare benissimo, e non ce la farò più.

E poi, un giorno o l'altro prenderò una decisione… magari molto complessa… o farò qualcosa che crederò giusto. Sarò sicuro di avere agito bene… e invece avrò sbagliato. Comincerò a perdere il controllo dei miei nervi, e in seguito avrò i brividi, ogni volta che mi toccherà di prendere una decisione. Comincerò a cedere, a lasciarmi prendere dai nervi, vivrò di eccitanti, e se i capi lo scopriranno in tempo, mi daranno un bel lavoretto innocuo, in qualche angolo sperduto del mondo. Se invece non lo scopriranno, un giorno Azarin mi concerà per le feste, e tutti i nostri figli studieranno a scuola il cinese.

Rabbrividì. E si udì squillare il telefono, nel soggiorno.

Uscì dalla vasca da bagno, appoggiandosi pesantemente alla sponda, e si avvolse in un enorme asciugamano, dalle dimensioni di un lenzuolo, tipicamente europeo, che aveva deciso di portare con sé in America se gli fosse capitata qualche missione laggiù. Entrò scalzo nel soggiorno, e sollevò la cornetta.

«Sì?»

«Signor Rogers?» Riconobbe la voce di un centralinista del Ministero della Guerra.

«Sono io.»

«Il signor Deptford è in linea. Attendete, prego.»

«Grazie.» Attese, desiderando che il pacchetto di sigarette si trovasse nella camera da letto.

«Shawn? In ufficio mi hanno detto che eravate a casa.»

«Sì, signore. Dovevo cambiarmi e ripulirmi.»

«Sono al Ministero. Ho parlato adesso al sottosegretario della Sicurezza. Come va l'affare Martino? Avete raggiunto, fino a questo momento, delle conclusioni definitive?»

Rogers pensò accuratamente alla risposta.

«No, signore, mi dispiace. Siamo al lavoro da un solo giorno.»

«Sì, lo so. Avete per lo meno qualche idea sul tempo che vi sarà necessario per raggiungere dei risultati abbastanza concreti?»

Rogers aggrottò le sopracciglia. Calcolò quanto tempo sarebbe stato possibile risparmiare.

«Direi una settimana.» Per lo meno, lo sperava.

«Una settimana?»

«Temo di sì. Gli esperti stanno lavorando a buon ritmo, adesso, ma sarà molto difficile arrivare a qualcosa. È un problema complicatissimo.»

«Capisco.» Deptford sospirò profondamente. Il rumore giunse distintamente attraverso il microfono. «Shawn… Karl Schwenn mi ha chiesto se vi rendevate conto di quanto fosse importante per noi il progetto Martino.»

Rogers disse, piano:

«Potete rispondere al sottosegretario che io conosco il mio lavoro.»

«Ma certo, Shawn. Non voleva criticarvi. Voleva semplicemente esserne sicuro.»

«Sta facendo delle pressioni su di voi?»

Deptford esitò:

«C'è qualcuno che fa delle pressioni anche su di lui, si vede.»

«Posso ancora farcela, nel mio dipartimento, anche senza una strettissima disciplina teutonica.»

«Avete dormito, nelle ultime ore, Shawn?»

«No, signore. Invierò rapporti quotidiani, e quando troveremo qualcosa, telefonerò.»

«Benissimo, Shawn. Glielo dirò. Buonanotte.»

«Buonanotte, signore.»

Riappese, e la luce rossa che indicava la linea occupata si spense. Ritornò a immergersi nella vasca, e rimase immobile nell'acqua calda, a occhi chiusi, riesaminando mentalmente i pochi dati raccolti sull'affare Martino.

Erano davvero pochi. L'altezza era rimasta uguale, mentre il peso era lievemente aumentato. Ma il cranio metallico giustificava ampiamente delle differenze minime.

Ma non si poteva procedere sulla strada dell'identificazione, secondo i dati raccolti prima dell'incidente. Non c'erano riferimenti né per gli occhi, né per i capelli, né per i lineamenti. Nessun riferimento possibile per la data di nascita, anche se un fisiologo gli aveva attribuito il 1948, sempre con il consueto margine di errore. Impronte digitali? Segni particolari e cicatrici?

Rogers sorrise amaramente. Si asciugò, gettò in un angolo gli abiti sporchi, e ne indossò di nuovi. Prima di uscire di casa ritornò nel bagno, si infilò in tasca lo spazzolino da denti, ci pensò sopra un momento, e aggiunse il tubetto di Alka-Selzer, poi si diresse verso il suo ufficio.


Prime ore del mattino, secondo giorno. Rogers sedeva dietro la scrivania.

Osservò attentamente Willis, lo psicologo.

«Se avevano intenzione di lasciare andare Martino» disse Rogers «per quale motivo avrebbero dovuto darsi tanta pena per lui? Per farlo sopravvivere non c'era bisogno di tutta quella ferraglia. Perché ne hanno ricavato, con ogni premura, un fenomeno da baraccone?»

Willis si passò una mano sul volto, ispido a causa della barba di due giorni.

«Supponendo che sia Martino, potrebbe darsi che loro non avessero mai avuto la minima intenzione di lasciarlo andare. Sono d'accordo… se la loro intenzione primitiva fosse stata quella di restituircelo, probabilmente lo avrebbero rimesso insieme usando i sistemi più antichi. Invece, si sono presi tutti i fastidi possibili per ricostruirlo dandogli, per quanto possibile, le parvenze di un essere umano.

«Penso che sia andata così: loro erano sicuri di poterlo sfruttare convenientemente. Pensavano di ottenere molto da lui, e volevano che fosse in grado di dare loro quanto desideravano. È molto probabile che non avessero nemmeno preso in considerazione la possibilità di restituircelo. Oh, può darsi che non si siano limitati al funzionale… ma forse volevano impressionare lui. In ogni modo, probabilmente pensavano di ottenere la sua gratitudine e secondo loro questo sarebbe stato molto opportuno. E non dobbiamo sottovalutare un altro fattore: probabilmente speravano di destare in lui l'ammirazione professionale. In particolare, sapevano che era un fisico. La trasformazione avrebbe potuto costituire qualcosa di molto simile a un ponte tra Martino e la loro cultura. Se le cose sono andate così, potrei affermare a ragion veduta che i sovietici hanno applicato un'eccellente tattica psicologica.»

Rogers si accese un'altra sigaretta. Il fumo era amaro e quasi rivoltante, ma era sempre meglio che niente.

«Ne abbiamo già parlato mille volte. Possiamo trarre quasi tutte le conclusioni possibili, e le nostre teorie si applicheranno a quei pochi dati di cui disponiamo. Ma che cosa arriviamo a concludere?»

«Be', come ho detto, potrebbe darsi che essi non avessero mai voluto restituircelo. Se partiamo da questo presupposto, allora dobbiamo chiederci per quale motivo, alla fine, l'hanno lasciato andare. Oltre alle pressioni che abbiamo esercitato su di loro, diciamo che lui ha resistito. Diciamo che finalmente i sovietici scoprirono che Martino non sarebbe stato la miniera d'oro che avevano immaginato di possedere… diciamo che dopo una settimana, o dopo un mese, hanno deciso di agire in altro modo. E così, l'avercelo restituito potrebbe anche essere logico. Può anche darsi che abbiano deciso di farlo, pensando di farla franca la prossima volta, dato il precedente.»

«Qui si presume troppo. Che cosa ha dichiarato lui, a questo proposito?»

Willis si strinse nelle spalle.

«Ha detto che gli hanno fatto delle offerte. Lui ha deciso che si trattava di semplici lusinghe, e così le ha respinte. Ha detto che lo hanno interrogato, e che lui è riuscito a non cedere.»

«Pensate che sia possibile?»

«Tutto è possibile. E lui non è ancora impazzito. È già qualcosa. Martino è sempre stato un individuo perfettamente equilibrato.»

Rogers sbuffò.

«Sentite… sono riusciti a far parlare chiunque, i nostri amici sovietici, se lo hanno veramente voluto. Perché non sono riusciti, in questo caso?»

«Non ho detto questo. Ma esiste una possibilità che egli dica la verità. Forse non hanno avuto tempo a sufficienza. Forse lui ha avuto un vantaggio, rispetto alle loro vittime abituali… senza un volto capace di mostrare delle espressioni, e senza un ciclo respiratorio capace di diventare affannoso, può darsi che non abbia mai dimostrato di essere sul punto di cedere, lasciandoli completamente al buio… è un fattore, questo, da non trascurare.»

«Sì» fece Rogers «mi sto rendendo conto di questa possibilità.»

«Inoltre, neppure i battiti del cuore possono essere di aiuto, con tutti i cambiamenti strutturali operati su di lui. Voglio dire che il suo intero metabolismo è imprevedibile e atipico.»

«Non ci arrivo» sbottò Rogers. «Non ci arrivo, ecco. O è Martino, o non lo è. I sovietici si sono presi un sacco di fastidi per lui. E adesso ce lo hanno restituito. Se è Martino, non riesco ancora a capire cosa sperassero di ottenere. Non posso credere che non sperassero di ottenere nulla… è completamente estraneo alla loro mentalità.»

«E anche alla nostra.»

«Esatto. Dunque… siamo due opposte fazioni, e ciascuna è convinta di essere nel giusto e che l'altra è in errore. Questo secolo condizionerà la vita nel mondo nei prossimi mille anni. Quando si gioca con una posta del genere, non si commettono passi falsi. Se non è Martino, non è possibile che abbiano creduto di mandarcelo così, senza che noi compissimo i consueti controlli. Se questo per loro è un trucco intelligente per metterci tra i piedi una spia, sono caduti davvero in basso. Ma se è Martino, perché lo hanno lasciato andare? È diventato un loro agente? Dio solo sa quante persone, e quanti paesi, sono passati dall'altra parte, senza che noi neppure potessimo immaginarlo.»

Si passò una mano tra i capelli.

«Ci hanno cacciati in un vicolo cieco, mandandoci questo tipo.»

Willis annuì, mestamente.

«Lo so. Sentite… fino a qual punto vi intendete dei russi?»

«Russi? Be', me ne intendo, come mi intendo degli altri sovietici.»

Willis disse, con riluttanza:

«Be', è un male generalizzare. Si cade in trappola spesso e volentieri. Ma per renderci conto di molte cose, non dobbiamo dimenticare una nozione, noi addetti alla Guerra Psicologica. E cioè, l'idea slava di “scherzo”. In particolare, l'idea russa. Non posso fare a meno di pensare che… sia che l'abbiano fatto di proposito, o meno, tutti coloro che sono al corrente di quest'uomo che hanno… restituito, in questo momento stanno ridendo di gusto. Vanno matti per gli scherzi atroci, soprattutto se sono un po' macabri. Immagino quelli di Novoya Moskva, radunati intorno alle bottiglie di vodka, di notte, che ridono, ridono, ridono.»

«Molto bello» disse Rogers. «Delizioso, anzi.» Si passò la mano sul mento. «Molto utile.»

«Credevo potesse interessare.»

«Perdio, Willis, io devo risolvere questo enigma. Non possiamo permettergli di cavarsela. Martino era uno dei migliori, nel suo campo. Si trovava al centro di tutto, conosceva tutti i progetti, faceva parte integrante del nostro futuro, dei prossimi dieci anni! Stava lavorando su quel K-88. E i sovietici lo hanno trattenuto per quattro mesi. Cosa hanno saputo da lui, cosa gli hanno fatto… e, infine, è ancora prigioniero o no?»

«Lo so…» disse lentamente Willis. «Capisco, potrebbe darsi che avesse rivelato quasi tutto, o che magari sia diventato uno dei più attivi agenti sovietici. Ma il fatto che non possa essere Martino… francamente, non riesco a crederci. Cosa mi dite delle impronte digitali della mano sana?»

Rogers bestemmiò.

«La sua spalla destra è una massa di tessuto cicatrizzato. Se i sovietici possono sostituire meccanicamente occhi, bocca e polmoni… se possono costruire un braccio artificiale, e inserirlo nel tronco… quali conclusioni possiamo trarre?»

Willis impallidì.

«Volete dire… potrebbero sostituire qualsiasi altra cosa. Se abbiamo appurato che quello è senza ombra di dubbio il braccio destro di Martino, non dobbiamo necessariamente concludere che il corpo sia quello di Martino.»

«Proprio così.»


Il telefono squillò. Rogers si girò, sulla branda, e sollevò il ricevitore dell'apparecchio che si trovava sul pavimento, accanto a lui.

«Rogers» farfugliò. «Sì, signor Deptford.» Le lancette fosforescenti dell'orologio danzavano davanti ai suoi occhi; dovette battere diverse volte le palpebre, prima di riuscire a leggere l'ora. Le ventitré e trenta. Aveva dormito poco meno di due ore.

«Salve, Shawn. Ho davanti a me il vostro terzo rapporto quotidiano. Mi dispiace di avervi svegliato, ma sembra che non si facciano molti progressi, vero?»

«Non preoccupatevi. Voglio dire, per avermi svegliato. No… no, non sto facendo molti progressi, in questo dannato affare.»

L'ufficio era immerso nell'oscurità: si vedeva soltanto una sottile striscia di luce, che filtrava dalla porta che dava sulla sala d'attesa. Dall'altra parte di essa, in un ufficio più spazioso, un piccolo esercito di specialisti stava confrontando e valutando i rapporti stilati da Finchley, Barrister, Willis e da tutti gli altri. Rogers udiva il debole, continuo ticchettìo delle macchine da scrivere.

«Se venissi io, la cosa sarebbe di qualche utilità?»

«Ad assumere direttamente la direzione delle indagini? Venite. Quando volete.»

Per un istante, Deptford non disse nulla. Poi domandò:

«Riuscirei a fare più di voi?»

«No.»

«È quanto ho detto a Karl Schwenn.»

«Vi sta sempre alle costole, eh?»

«Shawn, lui deve farlo. L'intero progetto K-88 è rimasto fermo per mesi e mesi. Nessun altro progetto al mondo avrebbe potuto godere di tanta autonomia. Al primo dubbio sulla sicurezza, sarebbe stato immediatamente annullato. E invece, tutto è rimasto fermo, con Martino prigioniero dei sovietici. Lo sapete benissimo, e da questo vi potete rendere conto dell'importanza del K-88. Immagino che sappiate quello che sta succedendo in Africa, in questo periodo. Abbiamo bisogno di ottenere qualcosa di grosso. Dare una dimostrazione. Dobbiamo mettere a tacere i sovietici… per lo meno, fino a quando loro non realizzeranno qualcosa di altrettanto importante. Il ministro sta facendo pressioni perché venga presa una decisione rapida su quell'uomo.»

«Mi dispiace, signore. Stiamo esaminando l'uomo, anzi, lo stiamo letteralmente sezionando. Lo trattiamo come se fosse una bomba. Ma nessun indizio ci indica di quale natura sia la bomba.»

«Deve esserci qualcosa.»

«Signor Deptford, quando mandiamo un nostro agente oltre il confine, gli forniamo documenti d'identità sovietici. E non solo quelli. Riempiamo le sue tasche di monete sovietiche, di chiavi sovietiche, di sigarette, pettini, portafogli, valuta, insomma, di oggetti loro. Gli diamo fotografie di parenti e di ragazze, sviluppate sul loro cartoncino, con i loro sistemi e le loro sostanze chimiche… eppure, ciascuno di questi oggetti proviene dai nostri laboratori, e non ha mai neppure sfiorato la loro atmosfera.»

Deptford sospirò. «Lo so. Lui come la prende?»

«Non saprei. Quando uno dei nostri passa il confine, ha sempre un'identità fittizia. Meccanico, fornaio, magari tramviere. Se è un buon agente… e, nel caso di operazioni importanti, inviamo soltanto i migliori… allora, non importa quello che accade, non importa quello che i sovietici gli fanno… rimane meccanico, fornaio o tramviere. Risponde alle domande come risponderebbe un tramviere. Si meraviglia di tutto ciò che gli accade, come si meraviglierebbe un tramviere. In caso di necessità, sanguina e grida e muore come farebbe un tramviere.»

«Sì.» Deptford parlò con estrema calma. «Sì, è così. Pensate che Azarin si chieda mai se l'uomo che si sta lavorando non sia veramente un tramviere?»

«Forse sì, signore. Ma non può mai comportarsi a questo modo, altrimenti perderebbe il posto.»

«Benissimo, Shawn. Ma noi dobbiamo avere la risposta al più presto.»

«Lo so.»

Dopo qualche tempo, Deptford disse:

«È piuttosto dura per voi, vero, Shawn?»

«Piuttosto.»

«Voi avete sempre lavorato per me. Avete sempre svolto il mio lavoro.» La voce di Deptford era quasi un sussurro, e Rogers udì un suono caratteristico, e capì che il suo interlocutore aveva stretto le labbra e poi se le era umettate con la lingua. «Benissimo. Spiegherò la situazione in alto loco, e voi cercherete di fare il possibile.»

«Sì, signore. Grazie.»

«Buonanotte, Shawn. Dormite, se vi riesce.»

«Buonanotte, signore.» Rogers riappese. Per qualche tempo, osservò le tenebre che lo circondavano. È strano, pensò. Desideravo un'istruzione, e la mia famiglia viveva a mezzo isolato di distanza dai docks, a Brooklyn. Desideravo essere capace di comprendere che cosa fosse un imperativo categorico, e di riconoscere una citazione di Byron, se ne avessi sentita una. Desideravo indossare una giacca elegante e fumare la pipa, seduto sotto un albero. E mentre frequentavo le scuole superiori, assunsi quel lavoro anonimo nel reparto investigativo di una compagnia di assicurazioni. E così, quando mi fu offerta la possibilità di entrare nella scuola del governo Alleato, la presi al volo. E quando loro scoprirono che avevo una certa pratica nel campo investigativo, mi affidarono ai loro istruttori della Sicurezza. Ed eccomi qui, senza che mi sia mai fermato a riflettere, in un modo o nell'altro. Ho una carriera eccellente alle mie spalle. Dannatamente buona, proprio così. Ma adesso mi domando se non avrei potuto comportarmi ugualmente bene in qualche altro lavoro.

Poi, lentamente, Rogers si infilò le scarpe, si avvicinò alla scrivania, e accese la luce.


La settimana era quasi terminata. Iniziavano a scoprire dei nuovi dati, ma nessuno era importante.

Barrister posò il primo diagramma sulla scrivania di Rogers.

«Ecco come funziona la testa di Martino… per lo meno, come crediamo che funzioni. È difficile, senza potere ottenere delle immagini radiografiche chiare.»

Rogers diede un'occhiata al diagramma, e grugnì. Barrister cominciò a enumerare i particolari del diagramma, usando il cannello della pipa per indicare le diverse parti.

«Questo è il suo apparato visivo. Visione binoculare, con messa a fuoco e selettività delle immagini automatiche. Dipendenti cioè da motori alimentati da questa micropila, che si trova qui, nella cavità toracica. Così pure per gli altri componenti artificiali del suo corpo. È interessante notare come il suo apparato visivo sia fornito di una serie completa di filtri. Lo hanno fatto anche meglio di prima. A dire il vero, può anche sfruttare gli infrarossi, se vuole.»

Rogers si tolse dal labbro il tabacco lasciato dalla sigaretta.

«Interessante.»

Barrister riprese:

«Adesso… qui, su entrambi i lati degli occhi, ci sono due selettori acustici. Sono le sue orecchie. Devono avere pensato che sarebbe stato meglio concentrare entrambe queste funzioni basilari in una sola parte della testa artificiale. L'impianto acustico è direzionale, ma non è efficiente come quello fornito dal buon Dio. Un'altra cosa: la “pellicola” che chiude questa apertura è notevolmente solida… capace di proteggere questi delicati meccanismi. Il risultato è questo: quando chiude gli occhi, è anche sordo. Immagino che questo renda più riposante il suo sonno.»

«Quando non simula degli incubi, certo.»

«O quando non li ha.» Barrister si strinse nelle spalle. «Non tocca a me scoprirlo.»

«Vorrei che non toccasse neppure a me. Bene, e che cosa mi dite, adesso, a proposito dell'altra apertura?»

«La bocca? Be', c'è una protezione anche sull'apparato orale effettivamente funzionante. Le mandibole, le glandole salivari e i denti sono artificiali. La lingua no. L'interno della bocca è rivestito di plastica. Non sappiamo ancora di quale natura. I miei uomini hanno faticato a prendere dei campioni per l'analisi, anche se il soggetto si è dimostrato dispostissimo a collaborare.»

Rogers si umettò le labbra.

«Bene… grazie» disse bruscamente. «Ma come è stato sistemato, tutto questo, nel suo cervello? Come riesce a far funzionare le sue parti artificiali?»

Barrister scosse il capo.

«Non lo so. Le fa funzionare come se fosse nato così, perciò deve esserci una specie di connessione tra i suoi centri nervosi involontari e autonomi. Ma non sappiamo ancora esattamente come è stato eseguito il lavoro. È dispostissimo a collaborare, come ho detto, ma non voglio agire in modo da distaccare dei contatti, o roba del genere. Potrei non essere più capace di riparare i danni. So soltanto una cosa: da qualche parte, dietro a tutte quelle diavolerie meccaniche, c'è un cervello umano funzionante, all'interno di quel cranio. Come siano riusciti a sistemarlo là dentro, è un altro discorso. Dovete ricordare che in questo campo hanno un notevole vantaggio su di noi.» Posò un altro foglio di carta sulla scrivania, senza far caso al pallore di Rogers. «Ecco il suo centro motore. Il disegno è soltanto abbozzato, ma noi pensiamo che si tratti di una micropila abbastanza ordinaria. Si trova là dove c'erano i polmoni, vicino al dispositivo che fa funzionare le sue corde vocali e il più ingegnoso sistema di circolazione dell'ossigeno che abbia mai visto in vita mia. L'energia prodotta è elettrica, naturalmente, e fa agire il braccio, la bocca, l'apparato audiovisivo, e tutti gli altri dispositivi.»

«È schermata bene, la pila?»

La voce di Barrister lasciò trasparire l'ammirazione professionale.

«Direi di sì. Non riusciamo a prendere delle radiografie decifrabili. Però c'è sempre una piccola dispersione di energia. Martino morirà tra circa quindici anni.»

«Uhm.»

«Be', sentite amico, se a loro interessava la sua sopravvivenza, ci avrebbero fornito delle istruzioni particolareggiate.»

«A loro è importato, però. E quindici anni potrebbero essere sufficienti per loro, se quell'uomo non è Martino.»

«E se è Martino?»

«Be', se è Martino, e sono riusciti a persuaderlo con i loro metodi, quindici anni potrebbero essere sufficienti.»

«E se è Martino, e non sono riusciti a convincerlo? Se è lo stesso uomo di sempre, dietro alla sua armatura metallica? Se non fosse, dopotutto, il Mostro piovuto dallo Spazio? Se fosse semplicemente Lucas Martino, il fisico?»

Rogers scosse il capo, lentamente:

«Non lo so. E mi si stanno esaurendo le idee. Ma dobbiamo scoprirlo. Prima della fine, dobbiamo scoprire tutto su di lui, quello che ha fatto e quello che ha provato… dobbiamo conoscere tutti coloro ai quali ha parlato, tutti i pensieri che gli sono venuti in mente.»

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