Poul Anderson Kyrie


Su un alto picco dei Carpazi Lunari si erge il convento di Santa Marta di Betania. Le mura sono di roccia del luogo; si protendono, scure e dirupate, verso un cielo che è sempre nero. Avvicinandosi dal Polo Nord lungo la pista di Platone si può vedere la croce che sormonta il campanile stagliarsi rigida contro l’azzurro disco della Terra. Ma qui non risuonano rintocchi, non in assenza d’aria.

Si possono udire all’interno, durante le ore canoniche, e nelle cripte giù in basso, dove le macchine si sforzano di mantenere un’apparenza di ambiente terrestre. Con un po’ di pazienza, si potrà anche sentirle chiamare alla messa da requiem. Perché è diventata una tradizione, a Santa Marta, dedicare le preghiere a coloro che sono morti nello spazio; e, col passare degli anni, i morti aumentano sempre più.

Questo non è compito delle sorelle. E se si occupano degli ammalati, dei bisognosi, dei paralitici, degli squilibrati, di tutti coloro che lo spazio ha rovinato e ricacciato indietro. La Luna ne è piena, di questi esuli che non possono più sopportare la gravità terrestre o che si teme possano covare una malattia contratta in qualche sconosciuto pianeta o per i quali gli uomini non hanno più tempo da perdere. Le suore indossano indifferentemente le tute spaziali come gli abiti normali, e sanno tenere in mano sia il rosario che gli strumenti medici.

A loro è consentito un po’ di tempo per la contemplazione. Di notte, quando per metà del mese il sole non manda più i suoi raggi, la cappella è aperta e le stelle risplendono sulle candele attraverso la cupola trasparente. Esse non tremolano e la loro luce è fredda come l’inverno. In particolare una delle suore si trova lì il più spesso possibile, e prega per i suoi defunti. E la badessa si preoccupa che lei possa essere presente quando viene cantata la messa annuale, per la quale fece un’offerta prima di prendere i voti.


Requiem aeternam dona eis, Domine, et lux

perpetua luceat eis.

Kyrie eleison, Christe eleison, Kyrie eleison.


La spedizione Supernova Sagittario comprendeva cinquanta esseri umani e una fiamma. Partì dall’orbita terrestre, fermandosi ad Epsilon Aurigae per raccogliere l’ultimo membro. Di lì si avvicinò per gradi alla sua destinazione.

Questo è il paradosso: tempo e spazio sono aspetti l’uno dell’altro. L’esplosione era avvenuta da più di cent’anni quando fu notata dagli uomini di Lasthope. Essi facevano parte di uno sforzo durato generazioni per mettersi in contatto con civiltà di creature del tutto diverse da noi; ma una notte sollevarono lo sguardo e videro una luce così splendente da proiettare ombre.

Quell’onda luminosa avrebbe raggiunto la Terra parecchi secoli più tardi. Allora sarebbe stata così tenue che nel cielo non sarebbe apparso se non un altro puntino luminoso. Nel frattempo, però, una nave che scavalcasse lo spazio attraverso il quale scorreva la luce, avrebbe potuto rintracciare attraverso il tempo la morte della grande stella.

A distanza di sicurezza, gli strumenti avevano registrato quello che era successo prima dell’esplosione, un’incandescenza che sprofondava in se stessa dopo aver esaurito l’ultimo alimento nucleare. Un balzo, e videro ciò che era successo un secolo prima: uno sconvolgimento, una tempesta di quanti e di neutrini, una radiazione pari alle centinaia di miliardi di soli di questa galassia.

Svanì, lasciando un vuoto nel cielo, e la Raven si avvicinò. Cinquanta anni luce — cinquant’anni — più indietro, scoprì un globo di calore che si rimpiccioliva nel mezzo di una nuvola che risplendeva come fulmine.

Venticinque anni dopo il globo centrale si era ulteriormente ristretto, mentre la nuvola si era allargata e offuscata. Ma poiché la distanza era adesso molto minore, ogni cosa sembrava più grande e più luminosa. Il bagliore era troppo intenso per fissarlo a occhio nudo, e faceva impallidire, per contrasto, le costellazioni. I telescopi mostrarono una scintilla biancazzurra nel cuore di una nuvola opalescente, con i bordi ornati di delicati filamenti.

La Raven si preparò al suo balzo finale, diretto nelle immediate vicinanze della supernova.

Il capitano Teodor Szili effettuò l’ultimo giro d’ispezione. Intorno a lui la nave mormorava, accelerando a una gravità per raggiungere le velocità effettiva desiderata. I motori ronzavano, i regolatori stridevano, i sistemi di ventilazione frusciavano. Sentì le forze venirgli meno nelle ossa. Ma era circondato di metallo, freddo e inospitale. Gli oblò rivelavano un’orda selvaggia di stelle, e lo spettrale arco della Via Lattea: il vuoto, i raggi cosmici, la temperatura non lontano dallo zero assoluto, distanti al di là di ogni immaginazione dal più vicino focolare umano. Stava per condurre i suoi uomini dove nessuno era mai stato prima, in condizioni di cui non si sapeva nulla di sicuro, ed era un duro fardello.

Trovò Eloise Waggoner al suo posto, un cubicolo collegato per intercom direttamente con il ponte di comando. Fu accolto da una musica, una trionfante serenità che non riconobbe. Si fermò sulla soglia, e la vide seduta con un piccolo registratore sul banco.

«Che cos’è?», domandò.

«Oh!». La donna (non riusciva a pensare a lei come a una ragazza, malgrado avesse appena superato i vent’anni) sussultò. «Io… io stavo aspettando il balzo».

«Deve aspettare e stare all’erta».

«Perché?», replicò lei meno timidamente di quanto desiderasse. «Voglio dire, non faccio parte dell’equipaggio e non sono una scienziata».

«Lei fa parte dell’equipaggio. Tecnico per le comunicazioni speciali».

«Con Lucifero. E a lui piace la musica. Dice che, tra le cose che conosce di noi, è quella che più ci avvicina all’identità».

Szili aggrottò la fronte. «Identità?».

Le guance delicate di Eloise si imporporarono. Guardò il banco e intrecciò le mani. «Forse non è la parola esatta. Pace, armonia, unità… Dio?… Io afferro cosa intende dire, ma non abbiamo alcuna parola che ne renda il significato».

«Hmmm. Be’, tocca a lei tenerlo felice». Il comandante la fissò, sentendo riaffiorare quel senso di disgusto che aveva cercato di reprimere. Era una brava ragazza, pensò, sia pure in quel suo modo impacciato e inibito; ma com’era brutta! Magra, con i piedi grossi, il naso enorme, gli occhi sporgenti, i capelli stopposi color della terra… E poi, per dire la verità, i telepatici lo avevano sempre fatto sentire a disagio. Lei diceva di poter leggere soltanto nella mente di Lucifero, ma era vero?

No. Meglio non pensarci. Bastano la solitudine e la diversità a logorare i nervi, senza doverci aggiungere i sospetti sui propri compagni.

Chissà se Eloise Waggoner era davvero umana? Come minimo doveva essere una specie di mutante. Chiunque potesse comunicare attraverso il pensiero con un vortice vivente doveva esserlo per forza.

«Che cosa sta suonando, comunque?», le chiese Szili.

«Bach. Il terzo concerto brandeburghese. A lui, a Lucifero, non piace la musica moderna. E nemmeno a me».

È a te che non piace, decise Szili. Poi, ad alta voce: «Senta, noi facciamo il balzo fra mezz’ora. Non so dirle dove emergeremo. Questa è la prima volta che qualcuno si avvicina tanto a una supernova recente. Possiamo solo essere sicuri che ci sarà una radiazione intensissima e che, se gli schermi cedono, saremo spacciati. Del resto, non possiamo che basarci sulla teoria. E il nucleo di una stella che si disintegra è qualcosa di così differente da tutte le altre cose dell’universo che sono piuttosto scettico sulla bontà della teoria. Quindi non possiamo starcene qui a sognare ad occhi aperti. Dobbiamo essere preparati».

«Sì, signore». Ridotta a un bisbiglio, la sua voce aveva perso l’abituale asprezza.

Lui fissò un punto dietro la ragazza, al di là degli occhi incantatori dei quadranti e dei manometri, come se potesse penetrare l’acciaio e guardare direttamente nello spazio. Là, lo sapeva, fluttuava Lucifero.

L’immagine prese corpo in lui: un globo infuocato del diametro di venti metri, con scintillii bianchi, rossi, dorati, azzurri, lingue di fiamma danzanti come i riccioli di Medusa, una coda di cometa che bruciava per un centinaio di metri, un bagliore, una gloria, un pezzo d’inferno. Il pensiero di ciò che guidava la nave non era che l’ultimo dei suoi problemi.

Dentro di sé preferiva aggrapparsi alle spiegazioni scientifiche, malgrado non fossero più che congetture. Nel sistema stellare multiplo di Epsilon Aurigae, in mezzo al gas e all’energia che riempivano lo spazio circostante, avvenivano cose che nessun laboratorio avrebbe potuto imitare. Un fulmine su un pianeta può forse essere qualcosa di simile, così come lo può essere la formazione in un oceano primordiale di un composto organico semplice nei confronti della vita che alla fine si evolverà da esso. In Epsilon Aurigae le dinamiche idromagnetiche avevano fatto ciò che la chimica aveva fatto sulla Terra. Erano comparsi dei vortici di plasma stabile, erano cresciuti, avevano acquistato complessità e poi, dopo milioni di anni, erano divenuti qualcosa che per forza si doveva definire organismo. Si trattava di un insieme di ioni, nuclei e campi di forza. Metabolizzava gli elettroni, i nucleoni, i raggi X. Manteneva la sua forma per lungo tempo. Si riproduceva. Pensava.

Ma che cosa pensava? I pochi telepati che riuscivano a comunicare con gli aurigei, e che per primi avevano informato il genere umano della loro esistenza, non l’avevano mai spiegato chiaramente. Del resto anche loro erano individui piuttosto strani. Perciò il capitano Szili disse: «Voglio che lei gli comunichi questo».

«Sì, signore». Eloise abbassò il volume del registratore. Lo sguardo le divenne vago. Attraverso le sue orecchie passavano le parole e il suo cervello (fino a che punto era efficiente, come traduttore?) ne trasmetteva il significato all’essere che si muoveva a lunghi balzi a fianco della Raven, servendosi della sua propria energia.

«Stammi a sentire, Lucifero. L’hai già sentito, lo so, ma voglio essere sicuro che tu abbia capito bene. La tua psicologia deve essere molto diversa dalla nostra. Perché hai acconsentito a venire con noi? Non lo so. La tecnica Waggoner ha detto che sei curioso e amante delle avventure. È questa, tutta la verità?

«Non importa. Tra mezz’ora effettueremo il balzo. Penetreremo nella supernova per cinquecento milioni di chilometri. E a questo punto inizia il tuo compito. Tu puoi recarti dove noi non osiamo nemmeno, osservare ciò che noi non possiamo, dirci molto più di quanto potrebbero mai scoprire i nostri strumenti. Ma per prima cosa dobbiamo accertarci di poter restare in orbita attorno alla stella. Anche questo riguarda te. Se dovessimo morire, non potremmo mai più riportarti a casa.

«Perciò, per racchiuderti nel campo di lancio senza smembrare il tuo corpo, dobbiamo disinserire gli schermi. Emergeremo in una zona di radiazioni letali. Tu dovrai allontanarti subito dalla nave, perché sessanta secondi dopo il transito rimetteremo in funzione gli schermi. Poi dovrai esplorare la zona circostante. I rischi da cui guardarsi…». E Szili li elencò. «Questi sono gli unici che possiamo prevedere. Forse ce ne capiteranno altri che non abbiamo previsto. Se ti sembra di vedere una minaccia, ritorna subito, avvisaci e preparati per un altro balzo all’indietro. Hai capito? Ripeti».

Le parole uscirono dalla bocca di Eloise. Una ripetizione corretta; ma quante ne aveva omesse la ragazza?

«Molto bene», Szili esitò. «Continui pure ad ascoltare il suo concerto, se lo desidera. Ma quando mancano dieci minuti all’ora zero si interrompa e stia pronta».

«Sì, signore». Lei non lo guardò in faccia. Sembrava che non stesse guardando nulla in particolare.

I passi del capitano rimbombarono nel corridoio e si persero lontani.


«Perché mi hai ripetuto le solite cose?», domandò Lucifero.

«Ho paura», rispose Eloise.

«Non credo che tu sappia cos’è la paura», disse lei.

«Puoi mostrarmela?… No, non farlo. Sento che fa male. Non voglio che tu provi del male.»

«In ogni caso non posso aver paura, quando la tua mente tiene la mia».

(Un calore la riempì. E c’era allegria, come piccole fiammelle sulla superficie che giocavano al Papà-che-la-prendeva-per-la-ma-no-quando-era-bambina-e-uscivano-in-un-giorno-di-estate-a-raccogliere-i-fiori-di-campo; e forza, e dolcezza, e Bach, e Dio). Lucifero vorticò intorno allo scafo in una curva risplendente. Sulla sua scia danzavano scintille.

«Pensa ancora ai fiori, ti prego.»

Lei tentò.

«Sono come (un’immagine, nitida quanto può produrla un cervello umano, di fontane germoglianti del colore dei raggi gamma nel cuore della luce, luce dovunque). Ma tanto piccoli. Una dolcezza così breve.»

«Non capisco come puoi capire», bisbigliò lei.

«Hai capito tu per me. Io non avevo quel genere di cose da amare, prima che tu venissi.»

«Ma hai tante altre cose. Io cerco di dividerle con te, ma non sono fatta per capire che cosa sia una stella».

«Né io sono fatto per capire che cosa sia un pianeta. Eppure noi possiamo toccarci.»

Le guance di lei bruciavano di nuovo. Il pensiero continuò, facendo da contrappunto alla musica che proseguiva.

«Ecco perché sono venuto, lo sai? Per te. Io sono fuoco e aria. Non avevo mai conosciuto la freschezza dell’acqua, la pazienza della terra, finché tu non me le hai mostrate. Tu sei un raggio di luna su un oceano.»

«No, no», disse lei. «Per favore».

Stupore: «Perché no? La gioia fa male? Non sei abituata a goderne?»

«Io… io credo che tu abbia ragione». Lasciò ricadere la testa all’indietro. «No! Che sia dannata se dovrò sentirmi triste per questo!».

«Perché dovresti? Non abbiamo tutta la realtà in cui vivere, e non è forse piena di soli e di canzoni?»

«Sì. Per te. Insegnami».

«Se tu a tua volta mi insegnerai…». Il pensiero si interruppe. Rimase un contatto, senza parole, come lei immaginava dovesse succedere spesso agli innamorati.

Guardò un po’ seccata il volto color cioccolata di Motilal Mazundar, mentre il fisico si stagliava sull’ingresso. «Che cosa vuole?».

Lui ne fu sorpreso. «Solo vedere se va tutto bene, signorina Waggoner».

Lei si morse il labbro. Lui aveva provato più di tutti gli altri uomini a bordo a essere gentile con lei. «Mi spiace», disse la ragazza. «Non volevo essere scortese con lei. Un po’ di nervosismo».

«Siamo tutti nervosi». Lui sorrise. «Per quanto possa essere eccitante quest’avventura, sarà bello tornare a casa, vero?».

Casa, pensò lei: le quattro mura di un appartamento sopra la strada rumorosa di una città. Libri e televisione. Poteva presentare una relazione al prossimo congresso scientifico, ma nessuno l’avrebbe invitata poi a qualche ricevimento.

Sono così brutta? si domandò. So di non essere particolarmente attraente, ma cerco di essere gentile e interessante. Forse troppo.

«Non per me,» intervenne Lucifero.

«Tu sei diverso», replicò lei.

Mazundar sbatté gli occhi. «Prego?».

«Nulla», rispose la ragazza frettolosamente.

«Ho riflettuto su una cosa», disse Mazundar nel tentativo di ravvivare la conversazione. «Presumibilmente Lucifero andrà molto vicino alla supernova. Potrà ancora mantenere il contatto con lui? L’effetto della dilatazione del tempo non cambierà troppo la frequenza dei suoi pensieri?».

«Che cos’è la dilatazione del tempo?». Si sforzò di ridere. «Non sono un fisico. Solo un’insignificante bibliotecaria che si è ritrovata addosso uno strano talento».

«Non le è stato detto? Be’ pensavo che tutti lo sapessero. Un intenso campo gravitazionale influisce sul tempo come l’alta velocità. In parole semplici i processi si svolgono più lentamente di quanto facciano nello spazio libero. Ecco perché la luce proveniente da una stella molto densa è arrossata. E il nucleo della nostra supernova è quasi pari a quello di tre masse solari. Inoltre ha acquisito una tale densità che la sua attrazione sulla superficie è, ehm, incredibilmente alta. Perciò, secondo il nostro computo orario, ci vorrà un tempo infinito perché essa si contragga fino al raggio di Schwarzschild; ma per un osservatore posto sulla stella il tempo di contrazione sarebbe molto più breve».

«Raggio di Schwarzschild? Si spieghi meglio, la prego». Eloise si rese conto che era stato Lucifero a parlare tramite lei.

«Se ci riesco senza ricorrere a termini matematici. Vede, questa massa che stiamo per studiare è così grande e così concentrata che nessuna forza può superare quella gravitazionale. Non c’è nulla che possa controbilanciarla. Perciò il processo continuerà finché neppure la minima quantità di energia potrà sfuggire alla stella. Ed essa sarà praticamente sparita dall’universo. In realtà, la contrazione continuerà fino a raggiungere il volume zero. Naturalmente, come ho detto, per quanto ci riguarda la cosa durerà in eterno. E la teoria ignora le considerazioni sui quanti meccanici che entrano in gioco verso la fine. Non si è ancora capito bene come funzionano. Spero di saperne di più proprio con questa missione». Mazundar si strinse nelle spalle. «In ogni modo, signorina Waggoner, mi stavo domandando se la variazione di frequenza conseguente non potrebbe impedire al nostro amico di comunicare con noi, quando fosse vicino alla stella».

«Ne dubito». Era stato ancora Lucifero a parlare; lei era il suo strumento, e non si era mai resa conto di quanto fosse bello essere utile a qualcuno a cui si voleva bene. «La telepatia non è un fenomeno di onde. Non potrebbe esserlo, dal momento che la trasmissione è istantanea. Né sembra che sia limitato dalla distanza. Piuttosto, è un fatto di risonanza. Poiché siamo in sintonia, noi due possiamo continuare benissimo a comunicare per tutta l’ampiezza del cosmo; e non so di alcun fenomeno materiale che potrebbe interferire».

«Capisco». Muzundar lo fissò a lungo. «Grazie», disse poi, un po’ a disagio. «Ah… Devo ritornare al mio posto. Buona fortuna». E si dileguò senza attendere la risposta.

Eloise non ci fece caso. La sua mente era diventata una fiamma e un canto. «Lucifero!», esclamò ad alta voce. «È vero?».

«Credo di sì. Noi siamo tutti telepatici, e quindi ne sappiamo in proposito più di voi. La nostra esperienza ci porta a pensare che non vi siano limiti.»

«Puoi essere sempre con me? Lo vorrai sempre?».

«Se desideri così, ne sono ancora più contento.»

Il corpo a forma di cometa volteggiò e danzò, il cervello di fuoco rise sommessamente. — Sì, Eloise, mi piacerebbe molto rimanere con te. Nessun altro ha mai… Gioia. Gioia. Gioia.

Ti hanno dato un nome migliore di quanto immaginassero, Lucifero, lei voleva dire, e forse lo disse. Pensavano che fosse uno scherzo, e che, chiamandoti come il diavolo, potessero farti diventare piccolo e innocuo come loro. Ma Lucifero non è il vero nome del diavolo. Significa soltanto «colui che porta la luce». C’è perfino una preghiera latina che si rivolge a Cristo chiamandolo Lucifero. Perdonami, Dio, non posso fare a meno di ricordarlo. Ti dispiace? Lucifero non è cristiano, ma non credo che abbia bisogno di esserlo; credo che non abbia mai saputo che cos’è il peccato. Lucifero, Lucifero.

Lei continuò a far andare la musica finché le fu consentito.

La nave balzò. Con un unico cambiamento di parametri si avvicinò di venticinque anni luce alla distruzione.

Ciascuno visse la cosa a suo modo, tranne Eloise che la divise con Lucifero.

Lei avvertì l’urto e udì il metallo straziato gridare, sentì l’odore dell’ozono e la puzza di bruciato e precipitò per l’infinita caduta che è l’assenza di peso. Intontita cercò a tastoni l’intercom. Ne uscirono parole gracchiate: «…Unità saltata… Aumentare forza elettromotrice… Come faccio a sapere per quanto tempo devo fissare quell’affare?… Allontanarsi, allontanarsi…». E su tutto l’ululare della sirena d’emergenza.

Il terrore le crebbe dentro, e lei si aggrappò al crocifisso che portava al collo, e alla mente di Lucifero. Poi sorrise, orgogliosa della forza di lui.

Lucifero era schizzato via dalla nave appena dopo l’emersione, e ora fluttuava lungo la stessa orbita. Tutto intorno a lui la nebulosa riempiva lo spazio di mutevoli arcobaleni. Per lui, la Raven non era il cilindro metallico che avrebbero visto occhi umani, ma uno scintillio, con lo schermo protettivo che rifletteva l’intero spettro cromatico. Più avanti c’era il nucleo della supernova, piccolo a quella distanza, ma luminosissimo.

«Non aver paura (la accarezzò). Io capisco. Il tumulto è vasto, subito dopo la detonazione. Siamo emersi in una regione in cui il plasma è particolarmente denso. Rimasto senza difesa prima che lo scudo protettivo fosse ristabilito, il vostro generatore principale esterno allo scafo è andato in corto circuito. Ma siete salvi. Potete effettuare le riparazioni. E io mi trovo in un oceano di energia. Non mi sono mai sentito così vivo. Vieni, dividi con me queste onde.»

La voce del capitano Szili la richiamò bruscamente alla realtà. «Waggoner! Dica a quell’aurigeo di darsi da fare. La nostra orbita intercetta una sorgente di radiazioni, e forse i nostri schermi non ce la faranno a sopportarla». Diede le coordinate. «Che c’è?».

Per la prima volta, Eloise sentì l’allarme in Lucifero. Lui si incurvò e si allontanò dalla nave.

Subito le giunse il suo pensiero, non meno vivido. Non riuscì a trovare le parole per descrivere il terribile splendore che vedeva insieme a lui: una sfera di gas ionizzato grande un milione di chilometri, dove la luminosità avvampava e le scariche elettriche guizzavano, rimbombando attraverso la nebbia che circondava il cuore esposto della stella. Tutto ciò non poteva fare alcun rumore, perché lì lo spazio era un vuoto assoluto, secondo i limitati parametri terrestri; ma lei udì il tuono, e avvertì la furia che ne sgorgava.

Eloise disse per lui: «Una massa di materiale espulso. Deve aver perso la velocità radiale per l’attrito e per i gradienti statici, essere stata attratta in un’orbita cometaria e tenuta insieme per un po’ dai potenziali interni. Come se questo sole stesse ancora cercando di far nascere pianeti…».

«Ci colpirà prima che possiamo accelerare», disse Szili. «e si scaricherà sullo scafo. Se conosce qualche preghiera, la reciti».

«Lucifero!», gridò la ragazza; perché lei non voleva morire, se lui sopravviveva.

«Penso di poterla deflettere abbastanza», le disse con un accanimento che non aveva mai trovato in lui. «I miei campi mescolati ai suoi; ed energia libera da assorbire; e una configurazione instabile; sì, forse posso aiutarvi. Ma aiutami anche tu, Eloise. Combatti al mio fianco.»

La sagoma luminosa si diresse verso il mostro.

Lei sentì come il caotico campo elettromagnetico attanagliò quello di Lucifero. Lo sentì scuotersi e lacerarsi. Provò il suo dolore. Lui lottò per mantenere la propria coesione, e lei lottò con lui. L’aurigeo e la nube di gas si fusero insieme. Le forze che gli davano forma abbrancarono come se fossero delle braccia; riversò energia dal suo interno, trascinando con sé quella massa enorme e rarefatta lungo il torrente magnetico che scaturiva dalla stella; inghiottì atomi e li scagliò di nuovo fuori finché il getto si riversò per il cielo.

Lei se ne stava seduta nel suo cubicolo, offrendogli tutto il desiderio di vivere e di trionfare sulla nuvola che poteva dargli, picchiando i pugni sul tavolo fino a farli sanguinare.

Passarono le ore, sempre in quel frastuono.

Alla fine lei riuscì appena a cogliere il messaggio che sgorgò flebile dalla spossatezza di lui. «Vittoria.»

«La tua», disse lei, singhiozzando.

«La nostra.»

Gli uomini videro attraverso gli strumenti la morte luminosa che li sfiorava. Si levò un grido di sollievo.

«Torna indietro», gli chiese Eloise.

«Non posso. Sono troppo debole. Ci siamo fusi insieme, io e la nuvola, e stiamo precipitando verso la stella. (Come una mano ferita che si protendesse per confortarla). Non aver paura per me. Man mano che ci avviciniamo trarrò nuova forza dalla sua luce, nuova sostanza dalla nebulosa. Mi ci vorrà un po’ di tempo per uscire fuori a spirale da quell’attrazione. Ma come posso non tornare da te, Eloise? Aspettami. Riposati. Dormi.»

I suoi compagni di viaggio la portarono all’infermeria. Lucifero le inviò sogni di fiori infuocati e gioia e i soli che erano la sua patria.

Ma alla fine si svegliò, gridando. Il medico le dovette somministrare dei forti sedativi.


Lui non sapeva bene cosa significasse affrontare qualcosa di così violento da distorcere addirittura lo spazio e il tempo.

La sua velocità aumentò spaventosamente, secondo i suoi sistemi di misura; dalla Raven, invece, lo videro precipitare per giorni e giorni. Le proprietà della materia erano cambiate. Non poteva più spingere così forte o così in fretta da poter sfuggire.

Radiazione, nuclei strappati, particelle appena nate e distrutte e nate di nuovo, tutto questo gli pioveva e gli urlava dentro. La sua sostanza gli fu strappata via, strato dopo strato. Davanti a lui il nucleo della supernova era un bianco delirio. Man mano che lui si avvicinava, quello si ritraeva, sempre più piccolo, più denso, così luminoso che la luce cessava di avere un significato. Alla fine le forze gravitazionali lo agguantarono in pieno.

«Eloise!», gridò nell’agonia della sua disgregazione. «Oh, Eloise, aiutami!»

La stella lo inghiottì. Divenne infinitamente lungo, infinitamente sottile, e svanì insieme a essa dall’esistenza.


La nave proseguì il suo cammino, esplorando. Si poteva ancora imparare molto.

Il capitano Szili visitò Eloise all’infermeria. Fisicamente si stava riprendendo.

«Vorrei chiamarlo un uomo», dichiarò, attraverso il ronzio dei motori, «ma non è una gran lode. Noi eravamo completamente diversi da lui, eppure è morto per salvarci».

La ragazza lo fissò con occhi troppo asciutti per essere naturali. Lui riuscì appena a sentire la risposta. «Lui è un uomo. Non ha anche lui un’anima immortale?».

«Be’, oh, sì, se lei crede nell’anima, sì, sono d’accordo».

Lei scrollò il capo. «Ma perché non può avere pace?».

Il capitano si guardò intorno alla ricerca del medico e scoprì che erano rimasti soli in quella stretta stanza di metallo. «Che cosa vuole dire?». Le accarezzò la mano. «Lo so, era un suo buon amico. Eppure, la sua deve essere stata una morte pietosa. Rapida, pulita; anche a me piacerebbe morire così».

«Per lui… Sì, immagino di sì. Deve essere così. Ma…». Non riuscì a proseguire il discorso. D’improvviso si coprì le orecchie. «Basta! Per favore!».

Szili cercò di calmarla, poi se ne andò. Nel corridoio incontrò Mazundar. «Come sta?», domandò il fisico.

Il capitano aggrottò la fronte. «Non bene».

«Cosa c’è che non va?».

«Crede di sentirlo».

Mazundar si picchiò il pugno nel palmo della mano. «Speravo che fosse diverso», disse.

Szili incrociò le braccia e attese.

«Lo sente», disse Mazundar. «Evidentemente lo sente».

«Ma è impossibile! È morto!».

«Si ricordi la dilatazione del tempo», replicò Mazundar. «È precipitato dal cielo ed è morto rapidamente, sì. Ma nel tempo della supernova. Che non è il nostro tempo. Per noi il crollo definitivo della stella richiede un numero infinito di anni. E la telepatia non è limitata dalla distanza». Il fisico allungò il passo, allontanandosi dalla cabina. «Sarà sempre con lei».


Titolo originale: Kyrie.

Originariamente apparso in The Fartest Reaches, antologia a cura di Joseph Elder.

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