Hiram Taine, del tutto sveglio, si mise a sedere sul letto. Towser latrava, raspando sul pavimento.
— Piantala — disse Taine al cane.
Towser drizzò le orecchie verso di lui con aria interrogativa, quindi riprese a latrare e a raspare sul pavimento.
Taine si stropicciò gli occhi. Si passò una mano nel roveto dei capelli meditando di sdraiarsi di nuovo e tirarsi le coperte sul naso.
Ma con Towser ad abbaiargli accanto proprio no.
— Insomma, che ti piglia? — chiese a Towser, non poco irritato.
— Uoff - rispose Towser, proseguendo con diligenza il suo raspare.
— Se ti va di uscire — disse Taine — devi solo aprire la porta a rete, sai bene come si fa, lo fai sempre.
Towser interruppe il suo latrare e si lasciò andare seduto, guardando il padrone alzarsi dal letto.
Taine si cacciò addosso la camicia, infilò i pantaloni e ignorò del tutto le scarpe.
Towser trotterellò d’ambio fino a un angolo della stanza e abbassò il naso umido allo zoccolo, fiutando rumorosamente.
— Hai trovato un topo? — chiese Taine.
— Uoff - rispose Towser con energia.
— Non ricordo che tu abbia mai fatto tanto fracasso per un topo — riprese Taine, lievemente perplesso. — Devi aver perso la bussola.
Era una splendida mattinata d’estate; dalla finestra aperta il sole invadeva la stanza.
Bella giornata per pescare, si disse Taine, poi si ricordò che non c’era tempo per la pesca, sarebbe dovuto andare in giro per vedere quel vecchio letto a baldacchino di cui gli avevano parlato dalle parti di Woodman. Era più che probabile, pensò, che gli chiedessero il doppio di quanto valeva; così andava a finire che un uomo non poteva guadagnarsi un onesto dollaro, si disse. Si stavano facendo furbi un po’ tutti a proposito delle antichità.
Si rialzò in piedi e si diresse verso la stanza di soggiorno. — Andiamo — disse a Towser.
Towser gli trottò dietro, fermandosi di tanto in tanto per fiutare gli angoli e latrare verso il pavimento.
— Te la prendi calda — osservò Taine.
Forse era proprio un topo, pensò. La casa stava diventando vecchia. Aprì la porta a rete e Towser schizzò fuori.
— Lascia stare quella marmotta per oggi — lo ammonì Taine. — È una battaglia perduta, non potrai mai stanarla.
Towser girò l’angolo della casa.
Taine si accorse che qualcosa era accaduto all’insegna appesa al palo accanto al vialetto che portava alla strada: una delle catenelle si era sganciata e l’insegna penzolava.
Si incamminò sulle pietre erbose del vialetto, ancora umide di rugiada, per rimettere a posto l’insegna: non c’era niente che non andasse… soltanto la catenella sganciata. Poteva essere stato il vento, pensò, o qualche discolo di passaggio. Non proprio un discolo, forse; coi ragazzini andava d’accordo. Non gli davano mai fastidio, come facevano con qualcun altro giù in paese; il banchiere Stevens, per esempio, tormentavano sempre quel povero Stevens.
Retrocesse un poco per esser sicuro che l’insegna fosse diritta. Vi lesse, scritto in grossi caratteri:
E un po’ sotto, in caratteri più piccoli:
Più sotto ancora:
Forse, si disse, sarebbe stato meglio avere due insegne, una per il laboratorio di riparazioni e una per l’antiquariato e gli scambi. Un giorno, quando ne avesse avuto il tempo, pensò, ne avrebbe dipinte un paio di nuove: una per ogni lato del vialetto. Così sarebbe stato più elegante.
Si voltò e gettò un’occhiata lungo la strada che portava al Bosco Turner: era una gran bella vista, pensò. Un bosco di proporzioni considerevoli e proprio ai limiti dell’abitato: un bel posto per gli uccelli, i conigli, le marmotte e gli scoiattoli ed era pieno di fortilizi costruiti generazione dopo generazione dai ragazzi di Willow Bend.
Un giorno o l’altro, naturalmente, qualche furbo speculatore avrebbe finito per comprarlo e metter su una lottizzazione o qualcosa di altrettanto discutibile: e quando fosse accaduto una gran parte della sua infanzia sarebbe stata cancellata.
Towser arrivò da dietro l’angolo della casa, furtivo, puntando al minimo rumore, le orecchie ben dritte.
— Che cane balordo — commentò Taine e rientrò in casa.
Entrò nella cucina, acciaccando il pavimento coi piedi nudi, riempì la teiera, la mise sul fornello e accese la piastra sotto la teiera.
Accese la radio, dimenticando che era fuori uso. Se ne ricordò non avvertendo alcun suono e, disgustato, la richiuse con un colpo secco.
Finiva sempre così, pensò: aggiustava la roba degli altri, ma non trovava mai il tempo per riparare le sue cose.
Ritornò nella camera da letto e infilò le scarpe, poi rifece sommariamente il letto.
Tornato in cucina s’accorse che il fornello ancora una volta non aveva funzionato. La piastra sotto la teiera era ancora fredda.
Taine spostò il fornello e gli dette un calcio, poi sollevò la teiera e tenne la mano aperta vicino alla piastra; dopo un po’ riuscì a sentire che si riscaldava.
— Funziona ancora — si disse.
Sapeva bene che, prima o poi, non sarebbe più servito prendere a calci il fornello per farlo funzionare: quando fosse accaduto avrebbe proprio dovuto lavorarci su. Probabilmente non era niente di più che un contatto staccato.
Rimise la teiera sul fornello.
Si udì del fracasso fuori, sulla strada, e Taine uscì per vedere che cosa stesse accadendo.
Beasly, il garzone autista giardiniere et cetera di Horton, stava spingendo a marcia indietro sul vialetto uno sgangherato camioncino. Al suo fianco sedeva Abbie Horton, la moglie di H. Henry Horton, il cittadino più influente del paese. Sul camioncino, ormeggiato con delle corde e parzialmente protetto da una sgargiante trapunta rossa e porpora, si ergeva un mastodontico televisore. Taine lo trovò parecchio antiquato: era di un buon dieci anni fuori moda e, confrontato agli altri, era il più dispendioso televisore che avesse mai illeggiadrito qualunque casa a Willow Bend.
Abbie saltò giù dal camioncino; era una donna energica, faccendiera e autoritaria.
— Buondì, Hiram — disse. — Puoi rimettermi a posto quest’apparecchio?
— Mai visto niente che non potessi aggiustare — rispose Taine, tuttavia sogguardò l’apparecchio con qualcosa di assai simile a sgomento. Non era la prima volta che ci metteva le mani e capì subito quel che non andava.
— Potrebbe costarti più di quel che vale — l’avvertì. — Hai proprio bisogno di prenderne uno nuovo; questo televisore è troppo vecchio e…
— È proprio quel che ha detto Henry — rispose Abbie, aspra. — Henry vuole prenderne uno di quelli a colori, ma io non voglio separarmi da questo qui. Non è soltanto tv, lo sai. È una combinazione con la radio e il giradischi e il mobile è proprio in stile con gli altri, e poi…
— Sì, lo so — interruppe Taine: aveva già sentito tutto altre volte.
Povero vecchio Henry, pensò, che vita doveva condurre. Tutto il giorno a quella fabbrica di calcolatori, a sbraitare e a dare ordini a chiunque, per poi tornare a casa sottomesso a quella meschina tirannia.
— Beasly — ordinò Abbie col suo più bel tono da sergente istruttore — sali subito lì sopra e slega quel coso.
— Sìssi’ora — rispose Beasly, un lungagnone dinoccolato dall’aria non troppo acuta.
— E vedi di starci un po’ attento. Non voglio che me lo segni tutto.
— Sìssi’ora — rispose Beasly.
— Ti aiuto — si offrì Taine.
I due si arrampicarono sul camioncino e cominciarono a disancorare quella mostruosa antichità.
— È pesante — li avvertì Abbie. — Stateci un po’ attenti, voi due.
— Sìssi’ora — rispose Beasly.
Era pesante ed era anche una cosa piuttosto scomoda da maneggiare, ma Beasly e Taine lo portarono a spalle fin sul retro della casa, poi su per la veranda, attraverso l’ingresso posteriore e giù per le scale dello scantinato con Abbie sempre alle calcagna occhiuta e attenta alla minima scalfittura.
Lo scantinato era per Taine una combinazione di laboratorio ed esposizione per l’antiquariato. Da un lato si ammucchiavano sui banconi attrezzi e meccanismi, scatole piene di cianfrusaglie, e ammassi di cordame grezzo erano disseminati dappertutto. Il lato opposto ospitava una collezione di sedie sgangherate, di baldacchini da letto ripiegati, alti cassettoni ornati, vecchie secchie da carbone dipinte in oro, pesanti parafuoco d’acciaio, e un mucchio di altra roba che aveva raccolto a destra e a sinistra al minor prezzo che gli fosse possibile.
Appoggiarono il televisore sul pavimento con molta attenzione: Abbie li sorvegliava strettamente dalla scala.
— Ma, Hiram — esclamò la donna eccitata — hai messo il soffitto allo scantinato. Così sta assai meglio.
— Eh? — chiese Taine.
— Il soffitto. Ho detto che hai messo su un soffitto.
Taine guardò di scatto verso l’alto e vide che lei aveva detto la verità. C’era un soffitto, ma lui non ce l’aveva messo davvero.
Deglutì lievemente, abbassò la testa e poi la rialzò di colpo e dette un’altra occhiata. Il soffitto c’era ancora.
— Non è di quella roba prefabbricata — dichiarò Abbie con aperta ammirazione. — Non si vede neppure una giuntura. Come ci sei riuscito?
Taine deglutì ancora e ritrovò la voce. — Qualcosa che mi è venuto in mente — disse come debole spiegazione.
— Dovresti venir su a farlo al nostro scantinato. Il nostro scantinato è un vero disastro. Beasly ha fatto il soffitto alla stanza dei giochi, ma Beasly è talmente sbadato.
— Sìssi’ora — disse Beasly contrito.
— Appena avrò tempo — promise Taine, pronto a promettere qualsiasi cosa pur di farli uscire di lì.
— Di tempo ne avresti molto di più — gli rispose acida Abbie — se non andassi a bighellonare per tutta la campagna a comprare quella vecchia mobilia scassata che tu chiami antiquariato. Forse puoi imbrogliare quelli di città quando vengono qui a far le gite, ma non puoi imbrogliare me.
— Posso ricavare un bel po’ di soldi da qualcuno di quei pezzi — le spiegò calmo Taine.
— E rimetterci la camicia sugli altri — rispose lei.
— Ho trovato delle vecchie porcellane che sono proprio il genere di roba che stai cercando — disse Taine. — Pescate giusto un paio di giorni fa; le ho avute a buon prezzo e posso dartele per poco.
— Non mi interessa — gli rispose e si decise a chiudere la bocca. Poi si voltò e risalì le scale.
— Ha un diavolo per capello, oggi — Beasly avvertì Taine. — Sarà una brutta giornata; lo è sempre quando comincia la mattina presto.
— Non darle retta — consigliò Taine.
— Ci provo, ma non è mica possibile. Sei sicuro che non hai bisogno d’un uomo? Per te lavoro per poco.
— Mi dispiace, Beasly. Ti ho detto come… vieni presto una di queste sere e giocheremo un po’ a scacchi.
— Lo farò, Hiram. Tu sei l’unico che mi parli; tutti gli altri non fanno altro che ridermi dietro o sgridarmi.
Dalle scale arrivò il muggito di Abbie. — Beasly, arrivi o no? Non star lì tutto il giorno. Ho ancora i tappeti da battere.
— Sìssi’ora — disse Beasly e schizzò su per le scale.
Arrivati al camioncino, Abbie si voltò con aria decisa verso Taine. — Lo aggiusti subito quell’apparecchio, vero? Senza, sono perduta.
— Immediatamente — rispose Taine.
Stette a guardarli mentre si allontanavano, poi dette un’occhiata in giro cercando Towser, ma il cane era scomparso. Molto probabilmente era tornato alla tana della marmotta, nel bosco lungo la strada. Per di più, pensò Taine, senza neppure far colazione.
La teiera bolliva furiosamente quando Taine rimise piede in cucina. Mise del caffè nell’infusore e vi versò l’acqua; poi tornò disotto.
Il soffitto era ancora lì.
Accese tutte le luci e fece il giro dello scantinato, osservando attentamente.
Era un materiale d’un bianco abbagliante e sembrava trasparente… fino a un certo punto, però. Ci si poteva vedere dentro, ma non attraverso. E non c’erano segni di sutura; intorno ai tubi dell’acqua e agli attacchi per la luce sul soffitto era stato montato in una connessione assolutamente ermetica.
Taine montò su una sedia e provò a battervi contro le nocche: ne ebbe un suono tintinnante, pressappoco lo stesso suono che avrebbe ottenuto battendo l’unghia contro una coppa di fine cristallo.
Scese dalla sedia e stette lì in piedi, scuotendo la testa. Tutta la faccenda gli sfuggiva. Aveva passato parte della serata precedente a riparare la falciatrice del banchiere Stevens e allora di soffitti non ce n’erano.
Rovistò in una scatola e scovò un trapano, poi vi applicò una delle punte più piccole; inserì la spina e risalì sulla sedia per saggiare il soffitto con la punta del trapano. La punta rotante scivolò velocemente avanti e indietro ma senza produrre neppure una scalfittura. Fermò il trapano e studiò più da vicino il soffitto; non c’era sopra alcun segno. Tentò ancora, spingendovi contro il trapano con tutta la sua forza: la punta fece ping e il frammento spezzato schizzò per tutto lo scantinato, andando poi a colpire il muro.
Taine smontò dalla sedia; scovò un’altra punta e la inserì sul trapano poi salì lentamente la scala, tentando di pensare. Ma era troppo sconcertato per pensare. Quel soffitto non avrebbe dovuto esserci, però c’era. E a meno che non fosse rimbambito, pazzo oppure smemorato, era sicuro di non averlo messo.
Tornato nel soggiorno, ripiegò un angolo del logoro e sbiadito tappeto, attaccò il trapano e, inginocchiatosi, cominciò a trapanare il pavimento. La punta penetrò dolcemente nel vecchio intavolato di quercia, poi si arrestò. Spinse con più forza ma il trapano girò senza più mordere.
A quel che ne sapeva lì sotto non c’era nient’altro che legno! Niente che potesse fermare un trapano. Una volta forato il pavimento, avrebbe dovuto trovarsi nello spazio fra le travi.
Taine disinnestò il trapano e lo gettò da una parte. Andò in cucina: ora il caffè era pronto; ma prima di versarlo annaspò in un cassetto e ne estrasse una matita luminosa. Tornato nel soggiorno, fece così luce nel buco fatto dal trapano.
In fondo al buco c’era qualcosa di lucente.
Tornò in cucina e, trovata qualche frittella stantia, si versò una tazza di caffè. Rimase seduto al tavolo della cucina, mangiando le frittelle e chiedendosi che cosa fare.
Non sembrava che, almeno per il momento, potesse fare niente di speciale. Avrebbe potuto perderci la giornata e tentare di immaginarsi che cosa fosse accaduto al suo scantinato e probabilmente non ne avrebbe capito molto di più.
La sua anima di affarista yankee si ribellava a un simile spaventoso sciupio di tempo.
C’era, si disse, quel letto d’acero a baldacchino su cui avrebbe potuto mettere le mani, prima che qualche amorale antiquario cittadino potesse prendersene una cotta. Un pezzo come quello, calcolava, avrebbe potuto essere venduto a buon prezzo davvero, se uno aveva un po’ di fortuna. Se appena si fosse dato da fare nel modo giusto, avrebbe potuto tirarne fuori un utile niente male.
Forse, pensò, avrebbe potuto anche organizzare uno scambio. C’era quel modello portatile di televisore che aveva avuto l’inverno scorso in cambio di un paio di pattini per ghiaccio; quei tipi sulla strada per Woodman avrebbero potuto essere ragionevolmente lieti di scambiare quel letto per un televisore revisionato, quasi come nuovo. Dopo tutto, con ogni probabilità non usavano quel letto e, lo sperò vivamente, non avevano alcuna idea del suo valore.
Mangiò le frittelle di furia e ingollò una tazza supplementare di caffè. Mise insieme un piatto di avanzi per Towser e lo sistemò fuori della porta; poi scese nello scantinato a prendere il televisore portatile e lo mise sul camion. Per buona misura, aggiunse poi un fucile da caccia revisionato, perfettamente funzionante purché nessuno si fosse azzardato a usare quei potenti proiettili da lunga distanza, e alcune altre cianfrusaglie che avrebbero potuto tornar comode in uno scambio.
Tornò a casa tardi, poiché era stata una giornata piena e piuttosto soddisfacente. Non soltanto il letto troneggiava col suo baldacchino sopra il camion, ma aveva con sé una sedia a dondolo, un parafuoco, un pacco di vecchie riviste, un’antiquata zangola, un cassettone di noce e un Governatore Winthrop su cui qualche gioconda testa di cavolo di decoratore aveva dato una mano di vernice verde mela. Il televisore, il fucile e cinque dollari se n’erano andati nel cambio e c’era di meglio: se l’era cavata tanto bene nelle trattative che in quel momento la famiglia di Woodman stava probabilmente ridendo alle sue spalle convinta di averlo fatto fesso.
Provò un po’ di vergogna, adesso: erano stati tanto cordiali con lui… Gli avevano fatto un mucchio di gentilezze, lo avevano fatto restare a pranzo, erano stati seduti a parlare della fattoria, gliel’avevano mostrata e gli avevano persino detto di fermarsi ancora se fosse tornato da quelle parti.
Aveva buttato via l’intero giorno, pensò, e questo gli seccava ma forse era servito a consolidargli la fama del tizio che ha battuto la testa da piccolo e non conosce il valore di un dollaro. Un altro giorno forse, avrebbe potuto così far qualche affare migliore nel vicinato.
Udì la televisione quando aperse la porta sul retro, un suono forte e chiaro: fece di corsa le scale dello scantinato, balbettando, in uno stato d’animo simile al panico. Adesso che aveva dato via il televisore portatile, l’apparecchio di Abbie era l’unico lì sotto e l’apparecchio di Abbie era guasto.
Era l’apparecchio di Abbie, rimesso a nuovo. Era rimasto dove lui e Beasly lo avevano appoggiato quella mattina e non c’era niente di guasto… proprio niente di guasto. Stava persino trasmettendo a colori.
Trasmettendo a colori!
Si fermò ai piedi della scala e si appoggiò al parapetto per sorreggersi.
L’apparecchio continuava a trasmettere a colori.
Taine si avvicinò cautamente all’apparecchio e vi girò attorno.
La parte posteriore dell’apparecchio era smontata, appoggiata a una panca posta dietro il televisore: poté così vedere l’interno brillare vivamente.
Si accovacciò sul pavimento a rimirare con gli occhi socchiusi quell’intrico illuminato che appariva molto differente da quel che sarebbe dovuto essere. Aveva riparato quell’apparecchio più volte in passato e pensava di conoscere con notevole precisione che forma avrebbero dovuto avere quei congegni. Adesso invece sembravano tutti diversi, per quanto non sapesse dire fino a qual punto.
Un passo pesante risuonò sulle scale e una voce cordiale rimbombò fino a lui.
— Bene, Hiram, vedo che l’hai già riparato.
Taine scattò in piedi e rimase lì sudando freddo e incapace di dir parola.
Henry Horton si fermò fortunatamente sulle scale con un’aria molto compiaciuta.
— Ho detto a Abbie che non potevi averlo già fatto, ma lei mi ha detto di venire lo stesso… Ehi, Hiram, ma è a colori! Come diavolo hai fatto?
Taine fece un triste sorriso. — Così, ci ho messo un po’ le mani — rispose.
Henry scese gli ultimi gradini con passo solenne e si fermò dinnanzi all’apparecchio, con le mani dietro la schiena, rimanendo a fissarlo con la sua più scelta aria da dirigente.
Poi scosse lentamente la testa. — Non avrei mai pensato che questo fosse possibile — affermò.
— Abbie aveva detto che tu lo volevi a colori.
— Sì, certo. Naturalmente lo volevo. Ma non su questa vecchia baracca. Non mi sarei mai aspettato di prendere la tv a colori con quest’apparecchio. Come ci sei riuscito, Hiram?
Taine disse la verità, tutta la verità. — Non lo so proprio.
Henry vide un bariletto per chiodi abbandonato davanti a una panca e lo fece rotolare davanti all’antiquato televisore, poi vi si sedette cautamente, rilassandosi in un concreto benessere.
— Così va il mondo — affermò. — Ci sono uomini come te, mica poi tanti però; dei qualunque artigiani yankee. Raccogli in giro un po’ di cianfrusaglie, provi a mettere una cosa qua un’altra là e prima che te ne sia reso conto te ne vieni fuori con qualcosa.
Rimase a fissare il televisore, seduto sul barilotto.
— È bello davvero — dichiarò. — È meglio dei colori che ho visto a Minneapolis. Ho dato un’occhiata in un paio di posti, l’ultima volta che ci sono stato, e ho visto gli apparecchi a colori. E devo dirti onestamente, Hiram, che non ce n’era uno che fosse buono come questo.
Taine si terse la fronte con la manica della camicia. Per una ragione o l’altra, lo scantinato sembrava diventare più caldo: era del tutto sudato.
Henry tirò fuori un grosso sigaro da una delle sue tasche e lo porse a Taine. — No, grazie, non fumo.
— Forse sei un saggio — enunciò Henry. — È un brutto vizio.
Si cacciò il sigaro in bocca e lo fece rotolare da est a ovest.
— A ogni uomo il suo — proclamò espansivo. — Quando capita una cosa del genere, tu sei l’uomo adatto. Sembra che tu pensi attraverso aggeggi meccanici e circuiti elettronici; io non ci capisco proprio niente. Anche per quella faccenda dei calcolatori, ancora adesso non ci capisco niente; assumo degli uomini perché lo facciano. Non so segare una tavola né piantare un chiodo. Però so come organizzare. Ti ricordi, Hiram, come tutti mi ridevano dietro quando ho messo su la fabbrica?
— Be’, penso che qualcuno l’abbia fatto, allora.
— Puoi dirlo forte, che l’hanno fatto. Mi hanno girato attorno per settimane con la mano sulla bocca per nascondere quei loro sorrisetti presuntuosi. Ma che cavolo pensa di fare Henry, dicevano, impiantando una fabbrica di calcolatori, qui in provincia; non crederà mica di poter competere con quelle grosse società dell’est, no? E non hanno smesso col loro sogghigno finché non ne ho venduto un paio di dozzine e ho avuto ordini per un anno o due.
Pescò un accendino dalla tasca e accese il sigaro amorevolmente, senza mai togliere gli occhi dal televisore.
— Qui dentro — disse con aria saggia — hai qualcosa che potrebbe valere un pozzo di quattrini: qualche piccolo adattamento che si può fare su qualche apparecchio. Se hai messo il colore in questa vecchia baracca, puoi metterlo in qualunque apparecchio.
Ridacchiò in una nuvola di fumo. — Se alla R.C.A. sapessero quello che hai combinato qui adesso, andrebbero tutti a tagliarsi la gola.
— Ma io non so proprio che cosa ho fatto — protestò Taine.
— Be’, fa lo stesso — disse Henry tutto allegro. — Domani mi porto questo televisore giù in fabbrica e ci lascio divertire su qualcuno di quei ragazzi. Troveranno quello che hai combinato prima di aver finito.
Si tolse il sigaro di bocca, lo studiò intento e poi se lo ricacciò in bocca.
— Come ti stavo dicendo, Hiram, è questa la differenza tra noi. Tu sai fare le cose ma non ne capisci le possibilità: io non so far niente, però quando una cosa è fatta sono capace di organizzarla. Prima che abbiamo finito con questa roba nuoterai in un mare di biglietti da venti dollari.
— Ma io non ho…
— Non ti preoccupare. Lascia fare tutto a me. La fabbrica e tutto il denaro necessario ce l’ho io. Poi faremo a mezzo.
— Gentile da parte tua — disse Taine meccanicamente.
— Di niente — insistette Henry magnanimo. — È soltanto il mio aggressivo e avido senso del profitto. Dovrei vergognarmi di intromettermi così nell’affare.
Tornò a sedere sul bariletto, fumando e guardando gli squisiti colori della trasmissione televisiva.
— Sai, Hiram — disse — ci ho pensato spesso, ma non mi sono mai risolto a farne nulla. Giù in fabbrica ho un vecchio calcolatore di cui vorremmo liberarci perché ci occupa una stanza di cui abbiamo davvero bisogno. È uno dei nostri primi modelli, un affare sperimentale che è stato un vero bidone. Davvero un coso balordo: nessuno è mai riuscito a tirarne fuori qualcosa. Abbiamo fatto qualche tentativo che probabilmente era sbagliato… o forse giusto, ma non ne sapevamo abbastanza perché si arrivasse a un risultato. È stato lì in un angolo tutti questi anni e avrei dovuto liberarmene già da molto tempo, mi secca un po’ farlo, però. Mi chiedo se non ti piacerebbe… giusto per provare.
— Be’, non lo so — rispose Taine.
Henry prese un’aria espansiva. — Nessun obbligo, intendiamoci. Potresti anche non cavare un ragno dal buco… e francamente se ci riuscissi ne sarei sorpreso, ma tentare non nuoce. Magari potresti anche decidere di smontarlo per recuperarne le parti. C’è dentro materiale per parecchie migliaia di dollari. Probabilmente potresti utilizzarne la maggior parte in un modo o in un altro.
— Potrebbe essere interessante — concesse Taine, seppure non troppo entusiasta.
— Benissimo — disse Henry, con tutto l’entusiasmo che mancava a Taine. — Te lo faccio portar qui dai ragazzi domani. È bello pesante: ce ne vorranno di braccia per scaricarlo, portarlo in cantina e rimontarlo.
Henry si alzò in piedi cautamente e spazzolò via la cenere del sigaro dai pantaloni.
— Contemporaneamente dirò ai ragazzi di prender su il televisore — continuò. — Devo dire a Abbie che non l’hai ancora aggiustato. Se mai glielo lasciassi entrare in casa, così com’è adesso, non lo molla più.
Henry salì pesantemente le scale, e Taine lo guardò uscire dalla porta nella notte estiva.
Taine rimase in piedi nell’ombra, a guardare la sagoma scura di Henry attraversare l’aia della vedova Taylor diretta verso la strada dietro la sua casa. Aspirò una profonda boccata della fresca aria notturna e scosse il capo per scacciare il ronzio che aveva nella testa, ma il ronzio rimase.
Troppe cose erano successe, si disse. Troppe cose per un solo giorno… prima il soffitto e adesso il televisore. Una volta che avesse fatto una buona dormita sarebbe stato abbastanza in forma per tentare di venirne a capo.
Towser arrivò dall’angolo della casa e salì lento e zoppicante i gradini fermandosi davanti al suo padrone. Era pieno di fango fino alle orecchie.
— Hai avuto la tua giornata, vedo — disse Taine. — Però, come ti avevo detto, la marmotta non l’hai presa.
— Uoff - rispose tristemente Towser.
— Sei proprio come un bel po’ di noialtri — lo ammonì severo Taine. — Come me, Henry Horton e tutti noialtri. Vai a caccia di qualcosa e credi di sapere che cosa stai cacciando, ma in verità non lo sai. E quel che è peggio non hai la più pallida idea del perché ne vai a caccia.
Towser percorse stancamente con la coda l’impiantito. Taine aprì la porta e ristette su un lato, per lasciar passare Towser, poi entrò anch’egli.
Nel frigorifero trovò un avanzo di arrosto, un paio di fette di carne, un pezzo di formaggio secco, una mezza scodella di spaghetti: si fece una tazza di caffè e spartì il cibo con Towser.
Quindi Taine scese nuovamente nello scantinato e staccò il televisore. Trovata una lampada d’emergenza la inserì nella presa e illuminò l’interno dell’apparecchio. Naturalmente era diverso, ma era alquanto difficile capire in che modo fosse diverso. Qualcuno aveva pasticciato con le valvole e le aveva deformate e poi c’erano cubetti di metallo bianco ficcati qua e là in una disposizione che sembrava casuale e illogica… sebbene non vi fosse probabilmente nulla di casuale, ammise Taine. E il circuito, a quanto vide, era stato rifatto ed era stata aggiunta una gran quantità di collegamenti.
Ma la cosa più sconcertante in proposito era che tutta quella roba sembrava sistemata in qualche modo… come se qualcuno avesse fatto un lavoro affrettato e raffazzonato per rimettere di nuovo l’apparecchio in condizioni di funzionare temporaneamente, in una situazione di emergenza.
Qualcuno, pensò.
E chi era stato quel qualcuno?
Si chinò in avanti per sbirciare negli angoli oscuri dello scantinato mentre sentiva corrergli lungo il corpo innumerevoli quanto immaginari insetti.
Qualcuno aveva staccato la parte posteriore dell’apparecchio e l’aveva appoggiata contro la panca, lasciandone le viti in bella fila sul pavimento. Poi avevano sistemato l’apparecchio, ma di gran lunga meglio di quanto fosse mai stato sistemato prima.
Se questo era un lavoro raffazzonato, pensò Taine, che diavolo di lavoro sarebbe stato se avessero avuto il tempo di rifinirlo?
Non ne avevano avuto il tempo, naturalmente. Forse si erano spaventati quando lui era tornato a casa… spaventati prima di poter pensare di rimettere a posto il retro dell’apparecchio.
Si alzò in piedi e si allontanò rigidamente.
Dapprima il soffitto, quella mattina… e adesso, di sera, il televisore di Abbie.
E il soffitto, adesso che ci pensava, non era affatto un soffitto. Un altro rivestimento, se questa era la definizione adatta, dello stesso materiale del soffitto era stato steso sotto il pavimento, formando una specie di area inscatolata fra le travi. Era incappato in quel rivestimento quando aveva cercato di forare il pavimento col trapano.
E che ne diresti, si chiese, se anche tutta la casa fosse così?
A tutto questo c’era solo una risposta: Nella casa c’era qualcosa con lui!
Quel qualcosa Towser l’aveva udito, odorato, o sentito in qualche altro modo, e aveva raspato frenetico il pavimento tentando di scoprirlo, come se fosse stata una marmotta.
Tranne che questa, qualunque cosa potesse essere, non era certo una marmotta.
Ripose la lampada di emergenza e salì le scale.
Towser era acciambellato sul tappeto del soggiorno, accanto alla poltrona, e dimenò la coda salutando il padrone con dignitosa cortesia.
Taine ristette a fissare il cane. Towser si voltò a guardarlo con occhi soddisfatti e sonnolenti, poi emise un sospiro e si sistemò a dormire.
Qualunque cosa Towser avesse udito, fiutato o sentito la mattina, era chiarissimo che ora non ne era più consapevole.
Poi Taine ricordò un’altra cosa.
Aveva riempito la teiera d’acqua per il caffè e l’aveva messa sul fornello. Aveva girato la manopola e la piastra si era accesa al primo tentativo.
Non aveva dovuto dare un calcio al fornello per farlo funzionare.
Quando si svegliò la mattina, qualcuno gli stava tenendo fermi i piedi e schizzò a sedere per vedere che c’era.
Ma non c’era nulla di cui allarmarsi: era soltanto Towser che era strisciato a letto con lui e ora stava sdraiato sui suoi piedi.
Towser si lamentava sottovoce con le zampe posteriori che scalciavano, come se sognasse di cacciare conigli.
Taine liberò i piedi da sotto il cane e si mise a sedere, raggiungendo i vestiti. Era presto, ma si era ricordato all’improvviso di aver lasciato fuori nel camioncino tutti i mobili che aveva raccolto il giorno prima e di doverli portare nello scantinato per poter incominciare ad aggiustarli.
Towser continuava a dormire.
Taine si trascinò in cucina e guardò fuori dalla finestra: fuori sulla veranda stava accucciato Beasly, l’uomo di fatica degli Horton.
Taine andò alla porta a vedere che succedeva.
— Li pianto, Hiram — gli disse Beasly. — C’è lei che continua a beccarmi ogni minuto del santo giorno, e non riesco a fare niente che la soddisfi, così prendo e me ne vado.
— Be’, vieni dentro — disse Taine. — Immagino che ti andrà di mangiare qualcosa con una tazza di caffè.
— Mi stavo proprio chiedendo se potevo restare qui, Hiram. Solo per mantenermi finché non trovo qualcosa d’altro.
— Mangiamo, prima — disse Taine — poi possiamo anche parlarne.
Non gli piaceva la cosa, si disse. Non gli piaceva affatto. Fra un’ora o due si sarebbe fatta viva Abbie e avrebbe piantato una buriana accusandolo di aver adescato Beasly. Infatti, non importa quanto potesse essere tonto, Beasly faceva un sacco di lavoro, si sottometteva a un sacco di angherie, e nel paese non c’erano altri che avrebbero lavorato per Abbie Horton.
— La tua mamma mi dava sempre i dolci — disse Beasly. — Era proprio una brava donna la tua mamma, Hiram.
— Sì, è vero — disse Taine.
— La mia mamma diceva sempre che voi Taine siete dei signori, mica come quelli del paese anche se si danno un sacco di arie. Diceva che la tua famiglia è venuta con i primi pionieri. È proprio vero, Hiram?
— Be’, non proprio con i primi, credo, comunque questa casa sta qui da quasi un secolo. Mio padre diceva che in tutti questi anni non c’è mai stata notte in cui non ci fosse un Taine sotto il suo tetto. Sembra che cose come questa contassero molto per mio padre.
— Dev’essere bello — disse pensoso Beasly — avere una sensazione così. Devi essere orgoglioso di questa casa, Hiram.
— Più che orgoglioso è come se ne facessi parte. Non riesco a immaginarmi di vivere in un’altra casa.
Taine si volse al fornello e riempì la teiera. Tornando con la teiera allungò un calcio al fornello, ma non c’era affatto bisogno di prenderlo a calci: la piastra aveva già incominciato a prendere un bagliore rosato.
Due volte di fila, pensò Taine. Le cose vanno meglio!
— Fischi, Hiram — disse Beasly. — Questa è una radio coi fiocchi.
— Non va bene — disse Taine. — È rotta. Non ho avuto il tempo di aggiustarla.
— Mi sembra di no, Hiram. L’ho appena accesa. Comincia a scaldarsi.
— Comincia a… ehi, fammi vedere! — gridò Taine.
Beasly aveva detto la verità. Dalle valvole veniva un leggero ronzio.
Cominciò a sentirsi una voce, che aumentava di volume man mano che l’apparecchio si scaldava.
Parlava con un borbottio senza senso.
— Che razza di parlata è questa? — chiese Beasly.
— Non lo so — disse Taine, ormai sull’orlo del panico.
Prima il televisore, poi la cucina, e adesso la radio!
Girò la manopola e l’indicatore attraversò lentamente il quadrante, invece di ruotare come Taine ricordava, e man mano si attivavano e svanivano le stazioni una dopo l’altra.
Si fermò sulla successiva stazione che riuscì a captare e anche in quella c’era uno strano gergo… e in quell’istante seppe con esattezza che cosa aveva.
Invece di un affare da trentanove dollari e mezzo, aveva lì sul tavolo della cucina un ricevitore di tutte le frequenze, come quelli a cui fanno pubblicità sulle riviste di lusso.
Si raddrizzò e disse a Beasly: — Guarda se riesci a pescare qualcuno che parli inglese. Io vado avanti con le uova.
Accese la seconda piastra e tirò fuori la padella. La mise sul fornello e trovò uova e bacon nel frigorifero.
Beasly trovò una stazione che suonava musica bandistica.
— Che ne dici? — chiese.
— Va bene — rispose Taine.
Dalla camera da letto uscì Towser, stiracchiandosi e sbadigliando. Andò alla porta e fece capire che voleva uscire.
Taine lo lasciò uscire.
— Se fossi in te — disse al cane — la lascerei perdere quella marmotta. Dovrai scavare tutta la foresta.
— Non è dietro una marmotta che sta scavando, Hiram.
— Be’, a un coniglio, allora.
— Neanche a un coniglio. L’ho spiato ieri mentre avrei dovuto battere i tappeti. Ecco perché Abbie si è arrabbiata tanto.
Taine grugnì rompendo le uova nella padella.
— Sono andato a spiare dove era stato Towser. Ho parlato con lui e mi ha detto che non era una marmotta né un coniglio. Ha detto che si trattava di qualcosa d’altro. Mi son messo al lavoro aiutandolo a scavare. Mi sembra che abbia trovato un vecchio serbatoio di non so che tipo, sepolto laggiù nei boschi.
— Towser non disseppellirebbe mai un serbatoio — protestò Taine. — Non si cura di nulla che non siano marmotte e conigli.
— Lavora sul serio — insistette Beasly. — Sembrava eccitato.
— Forse la marmotta ha scavato la sua tana proprio sotto il serbatoio, o qualunque cosa possa essere.
— Forse sì — convenne Beasly. Si era ancora gingillato con la radio e aveva pescato un programma di dischi piuttosto terribile.
Taine trasferì nei piatti le uova col bacon e le portò in tavola. Versò due grandi tazze di caffè e incominciò a imburrare il pane tostato.
— Buttati — disse a Beasly.
— È gentile da parte tua, Hiram, prendermi così. Resterò solo il tempo necessario a trovare un lavoro.
— Be’, non è che abbia detto…
— Certe volte — disse Beasly — quando mi metto a pensare che non ho mai avuto un amico, allora mi viene in mente la tua mamma, com’era gentile con me e tutte…
— Oh, va bene — disse Taine.
Sapeva riconoscere quando lo sopraffacevano.
Portò in tavola il pane tostato e una tazza di marmellata, sedette e incominciò a mangiare.
— Forse ti potrei aiutare in qualcosa — suggerì Beasly, adoperando il dorso della mano per pulirsi l’uovo dal mento.
— Ho in strada un sacco di mobili. Mi farebbe comodo un uomo che mi aiutasse a portarli giù nello scantinato.
— Sarei contento di farlo — disse Beasly. — Sono bravo e forte. Non m’importa affatto di lavorare. Quello che non mi piace è la gente che mi dà addosso.
Finirono la colazione, poi portarono i mobili nello scantinato. Ebbero qualche difficoltà con il Governatore Winthrop che era una cosa molto voluminosa da maneggiare.
Quando l’ebbero scaricato, Taine si fermò a guardarlo. L’uomo, si disse, che aveva dato una mano di vernice su quel bel legno di ciliegio si era preso una bella responsabilità.
Disse a Beasly: — Dobbiamo rimuovere la vernice da quella roba, e dobbiamo farlo con cautela. Adopera un solvente e uno straccio avvolto intorno a una spatola, girandola pian piano. Vuoi provare?
— Sì, certo. Di’ Hiram, cosa abbiamo per pranzo?
— Non lo so — disse Taine. — Metterò insieme qualcosa. Non dirmi che hai fame.
— Be’, è stato un lavoro un po’ duro portare quaggiù tutta quella roba.
— Ci sono dei biscotti in cucina, nella scatola sullo scaffale — disse Taine. — Vai e serviti.
Mentre Beasly saliva le scale, Taine fece un lento giro dello scantinato. Notò che il soffitto era ancora intatto. Non sembrava che ci fosse nient’altro in disordine.
Forse il televisore, la cucina e la radio, pensò, rappresentano la loro maniera di pagarmi l’affitto. E se la situazione era quella, si disse, chiunque fossero sarebbe stato più che contento di lasciarli rimanere.
Si guardò ancora un po’ intorno e non riuscì a trovare nulla che non andasse.
Risalì le scale e chiamò Beasly in cucina.
— Vieni nel garage, dove tengo la vernice. Cercheremo del solvente e ti insegnerò come usarlo.
Con una scorta di biscotti serrata in mano Beasly gli trotterellò dietro volenteroso.
Mentre giravano l’angolo della casa udirono l’abbaiare smorzato di Towser. Nell’ascoltarlo sembrò a Taine che stesse diventando più fievole.
Tre giorni, pensò… o erano quattro?
— Se non facciamo qualcosa — disse — quello stupido cane si consumerà.
Andò in garage e ne uscì con due pale e un piccone.
— Andiamo — disse a Beasly. — Non avremo più pace se non la faremo finita.
Towser aveva fatto uno stupendo lavoro di scavo. Era quasi completamente fuori di vista. Dal buco che aveva scavato nel suolo della foresta emergeva soltanto la punta della sua coda considerevolmente infangata.
Beasly aveva ragione per la cosa che assomigliava a un serbatoio. Se ne vedeva un’estremità sporgere dalla parete del buco.
Towser uscì rinculando e sedette con pesantezza, coi baffi che colavano argilla e la lingua penzoloni.
— Dice che è anche ora che ci facessimo vivi — disse Beasly.
Taine andò dall’altra parte del buco e si inginocchiò. Allungò una mano per togliere lo sporco dal lato sporgente del serbatoio. L’argilla era refrattaria a venir via, ma al tatto il serbatoio era di metallo pesante.
Taine raccolse una pala con cui grattò il serbatoio. Il serbatoio risuonò.
Si misero al lavoro, spalando quel mezzo metro di suolo superficiale che giaceva sull’oggetto. Era un lavoro duro, la cosa era più grande di quanto non avessero pensato e ci volle un po’ di tempo per metterla alla luce, anche approssimativamente.
— Ho fame — si lamentò Beasly.
Taine gettò un’occhiata all’orologio. Era quasi l’una.
— Fa’ una corsa fino a casa — disse a Beasly. — Troverai qualcosa nel frigorifero e c’è del latte da bere.
— E tu, Hiram? Non hai fame?
— Puoi portarmi un panino e vedere se riesci a trovarmi una cazzuola.
— Per che cosa vuoi una cazzuola?
— Voglio grattar via lo sporco da quest’affare e vedere cos’è.
Si accovacciò vicino alla cosa che avevano dissotterrato e osservò Beasly sparire tra gli alberi.
— Towser — disse — questo è l’animale più strano che tu abbia mai cacciato sotto terra.
È meglio che uno ci scherzi sopra, si disse, almeno per tenere lontano la paura.
Naturalmente Beasly non era spaventato. Beasly non aveva il buonsenso di aver paura di una cosa del genere.
Larga tre metri e mezzo, lunga sei e ovale di forma. Circa le dimensioni, pensò, di un ampio soggiorno. E a Willow Bend non c’era mai stato un serbatoio di quella forma e di quelle dimensioni.
Tirò fuori di tasca il coltello a serramanico e grattò lo sporco da un punto della superficie della cosa.
Ne ripulì qualche centimetro quadrato e un metallo del genere non l’aveva mai visto. Aveva tutta l’apparenza di vetro.
Continuò a grattare lo sporco finché ebbe pulito una zona grande un palmo.
Non era metallo. Quasi l’avrebbe giurato. Sembrava vetro annebbiato… come le coppe e i bicchieri opalini per cui stava sempre sul chi vive. C’era un mucchio di gente che ne era pazza e pagava delle belle cifre.
Chiuse il coltello e se lo rimise in tasca e si accovacciò, guardando la forma ovale che Towser aveva scoperto.
E la convinzione cresceva: qualunque cosa fosse venuta a vivere con lui, senza dubbio era giunta con questo mezzo.
Dallo spazio o dal tempo, pensò, e fu sorpreso d’averlo pensato, perché non aveva mai pensato prima una cosa del genere.
Raccolse la pala e ricominciò a scavare, questa volta verso il basso, seguendo il lato curvo di questa cosa estranea che giaceva dentro il terreno.
Scavando rimuginava. Che cosa avrebbe dovuto raccontare… o non doveva raccontare niente? Forse la politica migliore sarebbe stata di riseppellire la cosa e non farne parola con essere vivente.
Beasly naturalmente ne avrebbe parlato. Ma nel paese nessuno prestava attenzione a quello che Beasly diceva. Chiunque sapeva a Willow Bend che Beasly era scemo.
Infine Beasly ritornò. Aveva tre panini confezionati con mano inesperta e avvolti in un vecchio giornale e una bottiglia da un quarto quasi piena di latte.
— Certo che ci hai messo tutto il tempo che volevi — disse Taine, un po’ irritato.
— Sono stato occupato — spiegò Beasly.
— Occupato a far che?
— Be’, c’erano tre grossi camion e portavano nello scantinato un mucchio di roba pesante. Due o tre grossi armadi e un sacco di altra roba. Poi, sai la televisione di Abbie? Be’, l’hanno portata via. Gli ho detto che non dovevano, ma l’hanno portata via lo stesso.
— Me n’ero dimenticato — disse Taine. — Henry aveva detto che mi avrebbe mandato il calcolatore e me ne sono dimenticato completamente.
Taine mangiò i panini dividendoli con Towser, che gliene fu fangosamente riconoscente. Quando ebbe finito, si alzò e raccolse la pala.
— Torniamo al lavoro — disse.
— Ma hai tutta quella roba giù nello scantinato.
— Può aspettare — replicò Taine. — Questo è il lavoro che dobbiamo terminare.
Quando ebbero finito era l’imbrunire.
Taine si appoggiò stanco alla pala.
Tre metri e mezzo per sei e profondo tre… e tutto quanto, in ogni sua parte, fatto di una cosa opalina che suonava come una campana quando lo si colpiva con la pala.
Dovevano essere piccoli, pensò, se ce n’erano molti a vivere in uno spazio di quelle dimensioni, specialmente se dovevano restarci molto a lungo. Il che corrispondeva, naturalmente, perché se non fossero stati piccoli non avrebbero potuto vivere nello spazio che c’era fra le travi del pavimento.
Se in effetti vivevano là, pensò Taine. Se non era soltanto un mucchio di supposizioni.
Forse, pensò, anche se avessero vissuto in casa, potevano non esserci più… perché Towser li aveva odorati, o sentiti, o percepiti in qualche modo la mattina, ma da quella sera stessa non aveva più prestato loro la minima attenzione.
Taine si mise la pala in spalla e raccolse il piccone.
— Su — disse — andiamo. Abbiamo avuto una giornata lunga e faticosa.
Raggiunsero la strada calpestando la boscaglia. Nell’oscurità del bosco tremolavano lucciole e i lampioni delle strade dondolavano alla brezza estiva. Le stelle erano dure e lucenti.
Forse erano ancora in casa, pensò Taine. Forse quando si erano accorti che Towser era contrario a loro si erano sistemati in modo che non fosse più consapevole della loro presenza.
Probabilmente erano molto adattabili. Era più che logico che dovessero esserlo: non c’era voluto tanto, si disse torvo, per adattarsi alla casa di un essere umano.
Entrò con Beasly nel ghiaioso vialetto d’ingresso nell’oscurità per riporre gli utensili in garage ed era successo qualcosa di molto strano, perché non c’era nessun garage.
Non c’erano affatto né garage, né veranda, né facciata della casa. Era come se qualcuno avesse preso gli angoli opposti della facciata e li avesse ripiegati fino a toccarsi, nascondendo l’intera facciata dell’edificio nella piega formatasi.
Adesso Taine aveva una casa con la facciata ricurva. Però in effetti non era neanche così semplice, perché la curvatura non era in proporzione con ciò che sarebbe accaduto con un’impresa del genere. La curva era lunga e aggraziata e in un certo qual modo non completamente apparente. Era come se fosse stata eliminata la facciata della casa e fosse stata messa insieme un’illusione di casa per mimetizzare la sparizione.
Taine lasciò cadere pala e piccone che risuonarono sul fondo ghiaioso. Alzò la mano sulla faccia e la strofinò sugli occhi quasi a ripulirsi da qualcosa impossibile da trovarvi.
E quando tolse la mano non era cambiata neanche un poco.
Non c’era affatto la facciata della casa.
Poi, rendendosi conto a malapena di correre, Taine corse dietro la casa, colmo di paura per quello che potesse esserle accaduto.
Ma il retro della casa era normale. Era esattamente quello che era sempre stato.
Corse ciabattando per il porticato, con Beasly e Towser che lo seguivano da presso. Spalancò la porta, si precipitò all’interno e si arrampicò su per le scale fino in cucina, che attraversò in tre passi per vedere che cosa era accaduto alla facciata della casa.
Si fermò alla porta che divideva la cucina dal soggiorno e con le mani che ne artigliavano lo stipite fissò incredulo le finestre del soggiorno.
Fuori era notte. Su questo non c’erano dubbi. Aveva visto brillare le lucciole nella boscaglia e fra l’erba quando era fuori, e i lampioni erano accesi, e c’erano le stelle.
Ma dalle finestre del soggiorno si riversava un’ondata di sole e al di là delle finestre si stendeva un paesaggio che non era quello di Willow Bend.
— Beasly — gridò con voce strozzata — guarda là di fronte!
Beasly guardò.
— Che razza di posto è? — chiese.
— È quello che mi piacerebbe sapere.
Towser intanto aveva trovato il suo piatto e lo stava spingendo con il naso in giro per il pavimento della cucina; la sua maniera di indicare a Taine che era ora di mangiare.
Taine attraversò il soggiorno e aprì la porta principale. Vide che il garage c’era; col muso contro la porta aperta c’era il camioncino e dentro c’era la macchina intatta.
Non c’era nulla che non andasse nella facciata della casa.
Ma questa era l’unica cosa giusta.
Il vialetto infatti era stato troncato un paio di metri dietro il camion e non c’era più aia, né boschi né strada. C’era solo un deserto… un ampio e sterminato deserto, piano come un pavimento, qua e là mucchi di roccia e casuali ammassi di vegetazione e il suolo del tutto coperto di sabbia e ciottoli. Su un orizzonte che sembrava troppo lontano brillava un grosso sole accecante con la particolarità strana di essere al nord, dove non sarebbe stato nessun sole onesto. Ed era anche particolarmente bianco.
Anche Beasly uscì nella veranda e Taine notò che tremava come un cane spaventato.
— Forse è meglio — gli disse con tono gentile — che rientri a fare un po’ di minestra.
— Ma, Hiram…
— Va tutto bene — disse Taine. — Ti assicuro che va tutto bene.
— Se lo dici tu, Hiram.
Rientrò sbattendosi dietro la porta a rete e subito dopo Taine lo udì affaccendarsi in cucina.
Non biasimava, ammise, il tremito di Beasly. Era un bel colpo uscire dalla porta principale e trovarsi in una landa sconosciuta. Uno alla fine avrebbe potuto anche prenderci l’abitudine, naturalmente, ma ci sarebbe voluto un po’ di tempo.
Scese dalla veranda, oltrepassò il camion, girò l’angolo del garage, e mentre girava l’angolo del garage era mezzo preparato a rientrare nella familiare Willow Bend… perché quando era andato alla porta del retro il paese era là.
Willow Bend non c’era. C’era dell’altro deserto, un’enorme quantità di altro deserto.
Girò intorno alla casa e il retro della casa non c’era. Il retro della casa ora era uguale a quello che era stata prima la facciata… la stessa morbida curva che teneva insieme gli angoli dell’edificio.
Fece il giro completo della casa finché tornò alla facciata, e dappertutto c’era deserto. E la facciata era ancora normale: non era cambiata affatto. Il camion era là sul vialetto interrotto e il garage era aperto con la macchina nell’interno.
Taine si inoltrò un poco nel deserto, si chinò e raccolse una manata di sassolini, e i sassolini erano soltanto sassolini.
Si accucciò e lasciò scorrere i sassolini dalle dita.
A Willow Bend c’era una porta sul retro e non c’era la facciata. Qui, dovunque potesse essere, c’era la porta principale ma non c’era retro.
Si alzò, gettò via il resto dei sassolini e si ripulì la mano sulle brache.
Ebbe con la coda dell’occhio la sensazione di un movimento; ed eccoli.
Scendeva le scale una fila di animaletti, se animali erano, uno dietro l’altro. Erano alti una decina di centimetri e camminavano a quattro zampe, sebbene si vedesse chiaramente che le loro zampe anteriori erano mani, non zampe. Avevano una faccia da topo, vagamente umana, dal naso lungo e appuntito. Sembrava che avessero scaglie invece della pelle, perché i loro corpi brillavano increspandosi intanto che procedevano. E avevano tutti la coda che assomigliava moltissimo a quelle code di filo arrotolato che hanno certi giocattoli; e le code si protendevano dritte su di loro, fremendo a ogni passo.
Scesero le scale in fila indiana, in perfetto ordine militare ciascuno distante dall’altro una quindicina di centimetri.
Scesero le scale e si avviarono nel deserto in fila dritta e decisa, come se sapessero con esattezza dove fossero diretti. C’era in loro qualcosa di simile a una determinazione mortale, eppure non si affrettavano.
Taine ne contò sedici e li guardò andare nel deserto finché non furono fuori di vista.
Ecco che se ne vanno, pensò, quelli che erano venuti a vivere con me. Sono quelli che hanno aggiustato il soffitto, riparato il televisore di Abbie e modificato la cucina e la radio. E più che probabilmente quelli che erano venuti sulla Terra in una strana macchina opalina, laggiù nei boschi.
E se erano venuti sulla Terra con quell’affare laggiù nei boschi, allora che razza di posto era questo?
Si issò sulla veranda, aprì la porta a rete e vide il foro accurato di quindici centimetri che gli ex ospiti vi avevano praticato per uscire. Prese nota mentalmente che un giorno o l’altro, quando avrebbe avuto tempo, doveva ripararla.
Entrò sbattendosi dietro la porta.
— Beasly — gridò.
Non ci fu risposta.
Towser strisciò fuori di sotto la poltrona con aria di scusa.
— Tutto bene, amico — disse Taine. — La squadra ha spaventato anche me.
Entrò nella cucina. La sbiadita luce centrale illuminava la teiera capovolta, la tazza rotta in mezzo al pavimento, la scodella delle uova sottosopra. Un uovo rotto era una chiazza bianca e gialla sul linoleum.
Taine scese nel pianerottolo e vide che la porta a rete era sfasciata al di là di ogni speranza di riparazione. La rete rugginosa era rotta, forse la parola più adatta era “esplosa” e parte del telaio era sfasciato.
Taine la fissò con meravigliata ammirazione.
— Poveraccio — disse. — Ci è passato attraverso senza neanche aprirla.
Accese la luce e scese le scale dello scantinato.
A metà strada si fermò in preda al più grande sbalordimento.
Alla sua sinistra c’era un muro… un muro dello stesso tipo di materiale usato per il soffitto.
Si curvò e vide che il muro correva immacolato per tutto lo scantinato dal soffitto al pavimento, rinchiudendo tutta la zona del laboratorio.
E dentro il laboratorio che c’era?
Per prima cosa, ricordò, il calcolatore che Henry aveva appena mandato la mattina. Tre camion, Beasly aveva detto, il contenuto di tre camion di apparati consegnato dritto nelle loro grinfie!
Debolmente Taine si lasciò andare a sedere sui gradini.
Dovevano aver pensato, si disse, che collaborava! Forse s’erano immaginati che lui avesse capito che cosa facevano e così se l’erano portato via. O forse avevano pensato che li voleva pagare per aver accomodato il televisore, la cucina e la radio.
Ma per cominciare dal principio, perché avevano riparato il televisore, la cucina e la radio? Una forma di pagamento di affitto? Un gesto amichevole? O una specie di corso di addestramento per determinare che cosa potessero fare con la tecnologia di questo mondo? Per determinare forse le possibili applicazioni della loro tecnologia ai materiali e alle condizioni del pianeta che avevano scoperto?
Taine alzò la mano e bussò con le nocche nel muro della scala, e la morbida superficie rimandò un suono squillante.
Appoggiò l’orecchio contro il muro e ascoltò attentamente: gli sembrava di sentire un mormorio in chiave di basso, ma era così debole da non poterne essere del tutto sicuro.
La falciatrice del banchiere Stevens era là, dietro il muro, insieme a un sacco di altre cose in attesa di essere riparate. Gli avrebbero tolto la pelle di dosso, pensò, specialmente il banchiere Stevens. Stevens era tirchio.
Beasly dev’essere diventato mezzo matto dalla paura, pensò. Quando aveva visto quegli esseri che salivano dallo scantinato non doveva aver capito più niente. Era passato dritto attraverso la porta senza neanche provare ad aprirla e ora era certamente in paese a latrare in viso a chiunque si fermasse ad ascoltarlo.
In genere nessuno prestava molta attenzione a Beasly, ma se avesse blaterato abbastanza a lungo e abbastanza forte, sarebbero probabilmente venuti a controllare. Sarebbero venuti a frotte, avrebbero esaminato il luogo, sarebbero rimasti con gli occhi sbarrati di fronte alla facciata e ben presto qualcuno di loro avrebbe faticosamente cercato di ricostruire come erano andate le cose.
E non erano affari loro, si disse Taine caparbio, con il suo sempre presente senso degli affari che riaffiorava. C’era proprio un sacco di terreno là fuori nella sua aia, e l’unica maniera per chiunque di raggiungerlo era di passare attraverso casa sua. Stando così le cose, ne conseguiva che tutto quel terreno là fuori era suo. Forse non era di alcuna utilità. Avrebbe potuto anche non esserci niente. Ma prima che l’altra gente vi dilagasse, avrebbe fatto meglio ad andare ad assicurarsene.
Salì le scale e uscì verso il garage.
Il sole si trovava ancora a nord dell’orizzonte e non c’era nulla che si muovesse.
Trovò un martello, dei chiodi, qualche asse, e li portò in casa.
Vide che Towser aveva approfittato della situazione e dormiva nella poltrona dalla tappezzeria dorata. Taine lo lasciò stare.
Taine chiuse la porta sul retro e vi inchiodò sopra qualche asse. Serrò le finestre della cucina e della camera da letto e inchiodò qualche asse anche su di loro.
Questo avrebbe trattenuto i paesani per un po’, si disse, quando sarebbero venuti a far danni per vedere che succedeva.
Prese il fucile da cervi, una scatola di cartucce e da un cassetto un binocolo e una vecchia borraccia. Riempì la borraccia al rubinetto della cucina e cacciò nel sacco del cibo per sé e per Towser, cibo da mangiare strada facendo, perché di fermarsi a mangiare non c’era tempo.
Poi andò nel soggiorno e sbatté giù Towser dalla poltrona con la tappezzeria dorata.
— Andiamo, Towser — disse. — Andiamo a vedere come stanno le cose.
Controllò la benzina del camion: il serbatoio era quasi pieno.
Vi salì col cane e mise il fucile a portata di mano, innestò la marcia indietro, fece fare un mezzo giro al camion e partì in direzione nord, verso il deserto.
Il viaggio era facile: il deserto era piano come un pavimento. Ogni tanto aveva qualche asperità, ma non peggiore di quelle che c’erano in tante strade che aveva percorso a caccia di antichità.
Il paesaggio non cambiava. C’erano basse colline qua e là, ma principalmente il deserto continuava a essere livellato, dipanandosi in quell’orizzonte troppo lontano. Taine continuava a puntare a nord, in direzione del sole. Incappò in qualche banco di sabbia, ma la sabbia era dura e compatta e non gli procurò fastidi.
Mezz’ora dopo capitò sui piccoli esseri, tutti e sedici, che avevano lasciato la casa. Andavano ancora in fila, col loro passo fermo.
Rallentando, Taine si mise per un poco ad andare di fianco a loro, ma senza grandi risultati: continuavano per la loro strada, senza guardare né a destra né a sinistra. Taine accelerò e se li lasciò dietro.
Inamovibile, il sole continuava a restare a nord e questo era certo strano. Forse, si disse Taine, questo mondo ruotava sul proprio asse più lentamente della Terra e le giornate erano più lunghe. Dal modo in cui sembrava che il sole restasse fermo, dovevano essere lunghe un bel po’.
Mentre curvo sul volante fissava la distesa senza fine del deserto, fu colpito per la prima volta dalla stranezza dell’insieme in tutto il suo significato.
Questo era un altro mondo, e su ciò non c’erano dubbi, un altro pianeta orbitante intorno a un’altra stella e nessuno sulla Terra poteva avere la minima idea della sua effettiva posizione nello spazio. E d’altra parte, mediante una diavoleria di quegli strani esseri che marciavano in fila indiana, si trovava proprio davanti alla facciata di casa sua.
Dall’uniformità del deserto davanti a lui si stagliò una collina un po’ più grande. Man mano che si avvicinava cominciò a distinguere una fila di oggetti brillanti in fila sulla sua cresta. Dopo un poco fermò il camion e si mise a guardare col binocolo.
Attraverso le lenti vide che le cose brillanti erano macchinari opalini dello stesso tipo di quello dei boschi. Ne contò otto che brillavano al sole e si ergevano su rampe grigio roccia. E c’erano altre rampe vuote.
Allontanò dagli occhi il binocolo e rimase un momento a considerare l’opportunità di arrampicarsi per la collina e investigare più da vicino. Ma scosse la testa. Per questo ci sarebbe stato tempo in seguito. Era meglio continuare a muoversi. Non si trattava di una vera esplorazione, ma di una rapida ricognizione.
Risalì nel camion e ripartì, tenendo d’occhio l’indicatore del carburante. Quando si fosse avvicinato alla metà, avrebbe dovuto voltare e tornare a casa.
Sopra una confusa linea dell’orizzonte vide davanti a sé un debole biancore e l’osservò con attenzione. Di tanto in tanto svaniva per poi tornare, ma qualunque cosa fosse era troppo lontano perché potesse capirci qualcosa.
Scoccò un’occhiata all’indicatore del carburante: era vicino al “mezzo pieno”. Fermò il camion e tirò fuori il binocolo.
Mentre si portava davanti alla macchina si meravigliò di avere le gambe tanto deboli e tanto lente, poi ricordò che si doveva essere alzato dal letto ormai da moltissime ore. Guardò l’orologio: erano le due, il che voleva dire che sulla Terra erano le due di notte. Era sveglio da più di venti ore e la maggior parte del tempo era stata spesa a rompersi la schiena nel disseppellire la strana cosa nel bosco.
Puntò il binocolo e la bianca linea elusiva che aveva visto si cambiò in una catena di montagne. La grande massa scoscesa e azzurra torreggiava sul deserto col brillare delle nevi sui picchi e sulle creste. Erano a grande distanza e perfino le potenti lenti le ingrandivano a poco di più che un azzurro e nebbioso baluginare.
Spazzò l’orizzonte a destra e a sinistra con le lenti e le montagne occupavano una grande porzione della sua linea.
Puntando le lenti più in basso esaminò il deserto che si stendeva davanti a lui. Era più o meno lo stesso che aveva visto, la stessa uniformità da pavimento, le stesse collinette sparse, la stessa vegetazione irregolare.
E una casa!
Abbassò il binocolo con le mani tremanti, poi lo rialzò con un’altra occhiata. Era vero, era una casa. Una casa dall’aria buffa che si ergeva ai piedi di una collinetta, ancora nell’ombra di questa, così che non si poteva notarla a occhio nudo.
Sembrava una casa piccola. Il tetto somigliava a un cono spuntato e la casa giaceva contro il suolo come se ne fosse trattenuta per amore o per forza. C’era un’apertura ovale, che probabilmente era una porta, ma non c’era segno di finestre.
Riabbassò il binocolo e fissò la collinetta. Sette od otto chilometri, pensò. La benzina sarebbe bastata fino a quel punto, anche se egli avesse dovuto percorrere a piedi gli ultimi chilometri per Willow Bend.
Era strano, pensò, che una casa dovesse stare lì tutta sola. Per tutti i chilometri di deserto non aveva veduto alcun segno di vita, eccettuati i sedici piccoli esseri dalla faccia di topo che marciavano in fila indiana e nessun segno di costruzione artificiale, tranne le otto macchine opaline che riposavano sulle loro rampe.
Salì sul camion e lo mise in marcia. Dieci minuti dopo era di fronte alla casa, che giaceva ancora all’ombra della collinetta.
Scese dal camion e si portò dietro il fucile. Towser balzò al suolo e rimase immobile con il pelo ritto e un basso ringhio in gola.
— Che c’è che non va, Towser? — chiese Taine.
Towser ringhiò ancora.
La casa rimaneva silenziosa. Sembrava deserta.
Taine vide che le pareti erano fatte di rozza muratura malamente messa insieme, con una sostanza sgretolata simile a fango come intonaco. Il tetto era originariamente stato fatto con zolle, il che era davvero strano, perché in quella parte di deserto non c’era nulla che potesse assomigliare a una zolla. Ora però, per quanto si potessero vedere connessure dove le zolle erano state messe insieme, non c’era nient’altro che terra cotta dal sole del deserto.
Tutta la casa era senza caratteristiche, priva completamente di ornamenti, senza alcun tentativo di addolcire la sua rude utilità di semplice rifugio. Era il tipo di casa che può edificare un popolo di pastori. Aveva i segni dell’età: la pietra era sgretolata e sfaldata dal tempo.
Taine vi si diresse con il fucile a tracolla, raggiunse la porta e scoccò un’occhiata all’interno. Vide solo oscurità e nessun movimento.
Si voltò a guardare Towser e vide che il cane era strisciato sotto il camion e sbirciava ringhiando.
— Resta qui in giro — disse Taine. — Non scappartene.
Col fucile proteso Taine attraversò la porta entrando nell’oscurità. Rimase fermo un istante, per permettere ai propri occhi di abituarsi alla penombra.
Finalmente poté rendersi conto della stanza in cui stava. Era semplice e rozza, con un nudo sedile di pietra lungo un muro e strane nicchie poco funzionali scavate in un altro. In un angolo stava un traballante mobile di legno, ma Taine non riuscì a capire a quale uso potesse servire.
Un vecchio posto deserto, pensò, abbandonato tanto tempo fa. Forse poteva essere vissuto lì, in un’epoca trascorsa da un pezzo, un popolo di pastori, quando il deserto era stato una pianura fertile ed erbosa.
C’era una porta che dava in un’altra stanza, e come l’attraversò udì un rombo smorzato e lontano e qualcosa d’altro tale e quale… al suono della pioggia! Dalla porta aperta che conduceva sul retro lo colpì una zaffata d’aria di mare ed egli rimase immobile nella stanza come se fosse stato congelato.
Un’altra!
Un’altra casa che conduceva a un altro mondo!
Avanzò lentamente, attratto dalla porta che dava sull’esterno, ed entrò in un giorno scuro e nuvoloso, con la pioggia che precipitava fumando da nubi che si rincorrevano selvaggiamente. Un chilometro più in là, oltre un campo di pietre grigio ferro confusamente spezzate, c’era un mare in tempesta che infuriava sulla costa, lanciando in aria grandi getti di spuma e spruzzi rabbiosi.
Uscì dalla porta, guardò il cielo e le gocce di pioggia gli colpirono la faccia con furia pungente. Nell’aria c’era freddo e umidità, e il luogo era soprannaturale… un mondo uscito da qualche antica leggenda gotica di fantasmi e di spiriti.
Diede un’occhiata in giro, e non c’era nulla da vedere, perché la pioggia cancellava il mondo al di là di quella parte di costa, ma al di là della pioggia sentì o gli sembrò di sentire la presenza di qualcosa che gli fece correre brividi per la spina dorsale. Deglutendo per il terrore, Taine si girò verso la porta e si precipitò in casa.
Un mondo estraneo, pensò, era già abbastanza; due mondi estranei erano più di quanto uno potesse sopportare. Fu scosso da un tremito per la sensazione di completa solitudine che gli era nata in mente; all’improvviso questa casa dimenticata da tanto tempo gli divenne insopportabile e si precipitò fuori.
Fuori brillava il sole e c’era un gradito calore. Taine aveva gli abiti inzuppati di pioggia e piccole gocce di umidità si stagliavano sulla canna del fucile.
Guardò in giro in cerca di Towser, e non c’era nessuna traccia del cane. Sotto il camion non c’era: non era da nessuna parte.
Taine emise un richiamo, ma non ci fu risposta. Il suono della sua voce era vuoto e solitario nel deserto e nel silenzio.
In cerca del cane andò dietro la casa, e sul retro della casa non c’era nessuna porta. Le rozze mura della casa erano piegate in quella buffa curva e la casa non aveva affatto il retro.
Ma Taine non provava interesse: se l’era immaginato che sarebbe stata così. Adesso cercava il suo cane e sentiva il panico sorgergli dentro. In un certo modo si sentiva molto lontano da casa.
Passò tre ore a cercarlo. Tornò dentro la casa, ma Towser non c’era. Rientrò nell’altro mondo e cercò tra le rocce ammassate, ma Towser non c’era. Ritornò nel deserto, fece il giro della collina, poi si arrampicò sulla cima e adoperò il binocolo per vedere nient’altro che un deserto senza vita che si stendeva in tutte le direzioni.
Morto di stanchezza, inciampando, mezzo addormentato anche se camminava, ritornò al camion.
Vi si appoggiò contro e cercò di rimettere insieme i pensieri.
Continuare come aveva fatto fino a quel momento sarebbe stato uno sforzo inutile. Doveva dormire un po’. Doveva tornare a Willow Bend, riempire il serbatoio, procurarsi della benzina di scorta in modo d’avere un campo di azione più ampio nella ricerca di Towser.
Non poteva lasciare lì il cane, questa era una cosa impensabile. Però doveva fare un programma, agire con intelligenza. Non avrebbe per nulla giovato a Towser andare in giro inciampando nella forma attuale.
Si spinse nel camion e si diresse a Willow Bend, seguendo ogni tanto la debole impressione che i pneumatici toccassero posti sabbiosi, combattendo una mortale sonnolenza che gli sigillava gli occhi.
Passando vicino alle colline su cui aveva visto ergersi le cose opaline, si fermò a camminare un poco per non cadere addormentato sul volante. E vide che ora sulle rampe c’erano soltanto sette di quelle cose.
Ma ora questo non significava nulla per lui. Aveva solo significato trattenere la stanchezza che lo attanagliava, stare attaccato al volante e divorare le miglia per arrivare a Willow Bend, concedersi un po’ di sonno e poi ritornare alla ricerca di Towser.
A oltre metà della strada verso casa vide l’altra macchina e la osservò con torbida confusione, perché da questa parte della casa c’erano solo due veicoli: il camion che stava guidando e la macchina nel suo garage.
Bloccò il camion e ne ruzzolò fuori.
L’auto si fermò e ne vennero fuori rapidamente Henry Horton, Beasly e un uomo che portava una stella.
— Grazie a Dio ti abbiamo trovato! — gridò Henry, correndogli incontro.
— Non mi ero perso — protestò Taine — stavo tornando.
— È partito — disse l’uomo che portava la stella.
— Questo è lo sceriffo Hanson — disse Henry. — Seguivamo le tue tracce.
— Ho perso Towser — grugnì Taine. — Devo andare. Lasciatemi andare a cercare Towser. Ce la faccio fino a casa.
Si protese ad afferrare il bordo dello sportello del camion e si tenne dritto.
— Avete sfondato la porta — disse a Henry. — Avete sfondato la porta della mia casa e vi siete presi la mia macchina.
— Dovevamo farlo, Hiram. Avevamo paura che ti fosse successo qualcosa. Beasly la raccontava in un modo che ti faceva drizzare i capelli.
— È meglio che lo mettiate nella macchina — disse lo sceriffo. — Guiderò io il camion.
— Ma devo andare a cercare Towser!
— Non può fare niente se prima non si riposa un poco.
Henry lo prese per un braccio e lo condusse fino alla macchina, di cui Beasly teneva la porta aperta.
— Hai un’idea di che posto sia questo? — gli sussurrò Henry con aria da cospiratore.
— Non lo so con precisione — brontolò Taine. — Potrebbe essere un altro.
Henry ridacchiò. — Be’, non credo che abbia poi tanta importanza. Qualunque cosa possa essere ci ha messo a posto. Siamo in tutti i notiziari, i giornali ci stanno cospargendo di titoli, la città è zeppa di giornalisti e fotografi, e stanno arrivando le personalità. Sissignore, te lo dico io, Hiram, questo farà di noi…
Taine non sentì altro; si era già addormentato prima di toccare il sedile.
Si risvegliò nel suo letto e giacque tranquillo a guardare i disegni delle cortine nella camera fresca e quieta.
Era bello, pensò, risvegliarsi in una stanza che conosci… in una stanza che hai conosciuto per tutta la tua vita, in una casa che è stata la casa dei Taine almeno per un centinaio di anni.
Poi lo colpì il ricordo e scattò a sedere di colpo.
E adesso sentiva… sentiva l’insistente mormorio fuori della finestra.
Saltò giù dal letto e scostò una delle cortine, sbirciando all’esterno. Vide il cordone di militari arginare la folla che aveva invaso l’area posteriore alla sua casa e a quelle dei vicini.
Lasciò ricadere la cortina e cominciò la caccia alle sue scarpe, per il resto era ancora del tutto vestito. Evidentemente Henry e Beasly, si disse, l’avevano scaricato sul letto così com’era, togliendogli soltanto le scarpe. Ma non riusciva a ricordare assolutamente nulla. Doveva essere morto al mondo non appena Henry lo aveva messo sulla macchina.
Trovò le scarpe sul pavimento ai piedi del letto e sedette per infilarle, mentre il suo pensiero correva a quel che avrebbe dovuto fare.
Avrebbe dovuto trovare abbastanza benzina per fare il pieno al camioncino e riporvi su anche un paio di bidoni; e poi doveva prendere con sé anche del cibo e dell’acqua e magari anche il suo sacco a pelo. Non sarebbe tornato indietro finché non avesse ritrovato il suo cane.
Infilò le scarpe e le allacciò, poi si recò nel soggiorno. Qui non c’era nessuno, ma udì delle voci provenire dalla cucina.
Guardò fuori dalla finestra: il deserto era sempre lì, immutato. Il sole, notò poi, era salito più in alto nel cielo ma sull’aia era ancora mattino.
Guardò l’orologio, erano le sei. Le sei del pomeriggio: se ne accorse ricordando il cadere dell’ombra quando aveva sbirciato dalla finestra della camera da letto. Con un senso di colpa, si rese conto che doveva aver dormito quasi dodici ore: non avrebbe voluto dormire tanto a lungo. Non avrebbe voluto lasciare Towser là fuori tanto a lungo.
Si diresse in cucina e vi trovò tre persone… Abbie e Henry Horton e un tizio in tenuta militare.
— Eccoti qui — strillò allegramente Abbie. — Ci stavamo chiedendo quando ti saresti svegliato.
— C’è del caffè pronto, Abbie?
— Ma sì, ce n’è una pentola piena. E ti preparo subito qualcosa d’altro.
— Un po’ di pane tostato — rispose Taine. — Non ho molto tempo. Devo andare in cerca di Towser.
— Hiram — interloquì Henry. — Questo è il colonnello Ryan della Guardia Nazionale. Fuori ci sono i suoi ragazzi.
— Sì, li ho visti dalla finestra.
— Necessario — disse Henry — assolutamente necessario. Lo sceriffo non ce l’avrebbe fatta da solo. La gente è arrivata di corsa e avrebbe sfasciato tutto. Così ho chiamato il governatore.
— Taine — interruppe il colonnello. — Segga. Voglio parlarle.
— Certamente — disse Taine e prese una sedia. — Spiacente d’aver tanta fretta, ma ho perso il mio cane là fuori.
— Questa faccenda è assai più importante di qualunque cane — affermò il colonnello con aria tronfia.
— Be’, colonnello, questo dimostra soltanto che lei non conosce Towser. È il cane migliore che io abbia mai avuto, e sì che ne ho avuti. L’ho tirato su fin da cucciolo e per tutti questi anni è stato un ottimo amico.
— Va bene — interruppe il colonnello — è un suo amico. Però io devo parlarle.
— Siediti e parla un momento — disse Abbie a Taine. — Io ti preparo intanto qualche frittella e Henry ha portato un po’ di quelle nostre salsicce fatte in casa.
La porta sul retro si aprì e Beasly entrò barcollando, accompagnato da un terrificante fragore metallico; trasportava con una mano tre bidoni da benzina vuoti della capacità di circa venti litri e altri due con l’altra mano. Quando si muoveva i bidoni ballonzolavano e si urtavano tra loro.
— Ehi, che sta succedendo? — gridò Taine.
— Stai calmo un momento — gli rispose Henry. — Tu non hai idea dei problemi che abbiamo. Volevamo far passare di qui una cisterna di benzina ma non è stato possibile; abbiamo tentato di buttar giù un pezzo della cucina per farlo passare, ma non abbiamo…
— Avete fatto cosa?
— Abbiamo tentato di buttar giù un pezzo della cucina — ripeté in tono calmo Henry. — Non puoi mica far passare attraverso una normale porta uno di quei grossi carri cisterna. Però quando abbiamo tentato abbiamo scoperto che tutta la casa è rivestita con lo stesso materiale che hai usato giù nello scantinato. Roba che se gli vai addosso con l’ascia è l’acciaio che si rovina.
— Ma, Henry, questa è casa mia e nessuno ha il diritto di farmela a pezzi.
— Accidenti — disse il colonnello. — Quello che voglio sapere, Taine, è che cos’è quella roba che non siamo riusciti a rompere!
— Calmati un momento, Hiram — ammonì Henry. — Abbiamo un nuovo grande mondo che ci aspetta là fuori.
— Non sta aspettando te né nessun altro — gridò Taine.
— E noi dobbiamo esplorarlo e per esplorarlo abbiamo bisogno di una bella riserva di benzina. Così, dal momento che non possiamo usare una cisterna, mettiamo insieme quanti più bidoni sia possibile dall’altra parte e poi facciamo passare di qui un condotto.
— Ma, Henry…
— Vorrei che tu la smettessi di interrompermi e mi lasciassi dire — osservò severo Henry. — Non puoi nemmeno immaginare i problemi logistici che dobbiamo affrontare. Siamo incastrati dalle dimensioni di quella porta; dobbiamo portare là fuori delle provviste e dei mezzi di trasporto. Macchine e camion non saranno un problema: possiamo smontarli e portarli di là a pezzi. Invece sarà un guaio con gli aerei.
— Ascolta un po’ me, Henry. Nessuno farà passare di qui un aereo. Questa casa è della mia famiglia da almeno un centinaio d’anni e adesso è mia e ho dei diritti io e tu non puoi venir qui a fare il prepotente e a farmi passare la roba dentro casa.
— Però — disse Henry in tono lamentoso — abbiamo davvero bisogno d’un aereo. Quando hai un aereo puoi andare assai più lontano.
Beasly attraversò la cucina sbatacchiando i suoi bidoni ed entrò nel soggiorno.
Il colonnello sospirò. — Speravo, signor Taine, che avrebbe capito com’è la questione. Secondo me è molto chiaro che è suo dovere di patriota cooperare con noi in questa faccenda. Il governo, naturalmente, potrebbe esercitare il diritto di pubblico interesse ed espropriare la casa, ma non vorrebbe arrivare a tanto. È ovvio che io sto parlando soltanto in via ufficiosa, ma penso sia opportuno dirle che il governo preferirebbe arrivare a un accordo amichevole.
— Dubito che il diritto di pubblico interesse possa essere applicato — rispose Taine bluffando, senza saper nulla sull’argomento. — Se non sbaglio, si applica alle costruzioni e alle strade che…
— Questa è una strada — affermò perentoriamente il colonnello. — Una strada che attraverso la sua casa conduce a un altro mondo.
— Prima di tutto — dichiarò Taine — il governo dovrebbe dimostrare che è di pubblico interesse e che il rifiuto del proprietario di rinunziare al suo costituisce una interferenza nella procedura governativa e…
— Credo che il governo — affermò il colonnello — possa provare il pubblico interesse.
— Credo che farò meglio a cercarmi un avvocato — rispose irato Taine.
— Se proprio lo vuoi fare — si offerse Henry, sempre servizievole — e vuoi trovarne uno buono… e suppongo di sì… sarò lieto di raccomandarti uno studio che, ne sono sicuro, potrà difendere i tuoi interessi nel modo migliore ed essere, nello stesso tempo, di un costo abbastanza equo.
Il colonnello si alzò in piedi, fremente. — Avrà molte cose a cui rispondere, Taine. Ci sono un mucchio di cose in cui il governo vorrà vederci chiaro. Prima di tutto, vorranno sapere come sia riuscito a mettere in piedi una cosa del genere. È pronto a rispondere?
— No, non credo di esserlo — rispose Taine.
Un po’ allarmato cominciò a riflettere: pensano che sia stato io a farlo e mi piomberanno addosso come un branco di lupi per scoprire come ho fatto. Gli apparvero alla mente l’FBI, il dipartimento di Stato, il Pentagono e, per quanto fosse già seduto, gli vennero meno le gambe.
Il colonnello si voltò, marciò altero fuori dalla cucina e uscì dalla porta sul retro, sbattendo la porta. Henry guardò interrogativamente Taine.
— Vuoi davvero farlo? — gli chiese. — Intendi proprio metterti contro quelli?
— Mi fanno incavolare — rispose Taine. — Non possono venire qui a prendere il mio posto senza neppure chiedermi il permesso. Non me ne frega di quello che possono pensare gli altri, questa è casa mia. Io sono nato qui e qui ho passato tutta la vita, il posto mi piace e…
— Certo — disse Henry — certo, so bene, che cosa provi.
— Può darsi che sia infantile da parte mia, ma non me la prenderei tanto se mostrassero appena un po’ di buona volontà di sedersi e discutere delle loro intenzioni una volta che abbiano preso il mio posto. Ma qui mi pare che non ci sia la minima intenzione neppure di chiedermi che cosa ne penso. E te lo dico io, Henry, la cosa è ben diversa da quel che sembra. Quello non è un posto dove noi possiamo entrare e impadronircene, checché ne pensi Washington. C’è qualcosa là fuori e noi faremmo bene ad andarci cauti.
— Stavo pensando — lo interruppe Henry — mentre sedevo qui, che la tua posizione è la più lodevole e meritevole di appoggio. Mi è venuto in mente che sarebbe da parte mia assai poco amichevole starmene qui seduto e lasciarti solo a combattere. Insieme possiamo assumere una bella squadra di cervelloni per farci vincere la battaglia legale e intanto mettiamo su una società fondiaria; così saremo sicuri che questo tuo mondo nuovo sia usato nel modo giusto… È evidente, Hiram, che io sono l’unico che possa sostenerti, fianco a fianco, in questa faccenda, dal momento che siamo già soci in quella del televisore.
— Cos’è ’sta storia del televisore? — sbraitò Abbie, sbattendo un piatto di frittelle davanti al naso di Taine.
— Ma, Abbie — disse Henry pazientemente — ti ho già spiegato che il tuo apparecchio televisivo sta dietro a quel tramezzo giù nello scantinato e non si può affatto dire quando potremo riaverlo.
— Sì, lo so — disse Abbie, portando un piatto di salumi; poi versò una tazza di caffè.
Beasly arrivò dal soggiorno e uscì dal retro zufolando.
— Dopo tutto — aggiunse Henry, sfruttando il suo vantaggio — suppongo di averne qualche diritto. Dubito che tu avresti potuto far molto se non ti avessi mandato quel calcolatore.
Ci siamo di nuovo, pensò Taine. Persino Henry pensava che fosse stato lui a combinar tutto.
— Ma Beasly non te l’ha detto?
— Beasly dice un mucchio di cose, ma sai bene che tipo è Beasly.
Questo spiegava tutto, naturalmente. Per quelli giù in paese non sarebbe stata altro che un’ennesima storiella di Beasly… un’altra fandonia che Beasly aveva inventato. Non ce n’era uno che credesse una parola di quanto Beasly andava dicendo.
Taine sollevò la tazza e bevve il suo caffè, cercando di guadagnar tempo per mettere insieme una risposta che non riusciva a trovare. Se avesse detto la verità, sarebbe suonata assai più incredibile di qualunque bugia.
— Puoi dirmelo, Hiram. Dopo tutto, siamo soci.
Crede di farmi su come un fesso, pensò Taine. Henry pensa di riuscire a far su come un fesso chiunque voglia.
— Se te lo dicessi non mi crederesti, Henry.
— Bene — disse Henry rassegnato, alzandosi in piedi — penso che una parte di questa faccenda possa aspettare.
Beasly riattraversò la cucina con gran fracasso, portando un altro carico di bidoni.
— Devo avere un po’ di benzina — disse Taine — se voglio andare fuori a cercare Towser.
— Me ne occupo immediatamente — promise Henry con voce melliflua. — Ti mando Ernie con l’autocisterna: possiamo far passare un condotto per di qua e riempire quei bidoni. E vedrò anche se riesco a trovare qualcuno che voglia accompagnarti.
— Non è necessario. Posso andare da solo.
— Se avessimo una radio trasmittente, potremmo tenerci in contatto.
— Ma non ne abbiamo E poi, Henry, non posso aspettare. Towser è là fuori, da qualche parte.
— Certamente, so bene quanto ci tieni a lui. Vai fuori a cercarlo se pensi di doverlo fare e io mi occupo delle altre questioni. Ti metto insieme qualche avvocato e così buttiamo giù un abbozzo di statuto per la nostra società fondiaria…
— Senti, Hiram — interruppe Abbie. — Ti spiace fare qualcosa per me?
— Perché? Ma certo — rispose Taine.
— Dovresti parlare a Beasly. Si comporta in maniera insensata; non c’era nessun motivo perché dovesse pigliar su e andarsene. Posso essere stata un po’ brusca con lui, ma è talmente povero di spirito che se l’è presa. È corso via e ha passato mezza giornata aiutando Towser a stanare quella marmotta e…
— Gli parlerò — promise Taine.
— Grazie, Hiram. A te darà ascolto. Tu sei l’unico a cui dà ascolto. E spero che tu possa aggiustare il mio televisore prima che tutto questo finisca. Senza, sono proprio perduta: ha lasciato un vuoto nel soggiorno. Lo sai che sta bene insieme agli altri mobili che ho…
— Sì, lo so — rispose Taine.
— Andiamo, Abbie? — chiese Henry, in attesa accanto alla porta. Alzò una mano, quale confidenziale arrivederci per Taine. — Ci vediamo, Hiram. Metto tutto a posto io.
Scommetto proprio che lo farai, pensò Taine.
Dopo che se ne furono andati, tornò verso la tavola e sedette pesantemente. La porta principale sbatté e Beasly arrivò ansimante ed eccitato.
— Towser è tornato! — urlò. — Sta arrivando e si tira dietro la più grossa marmotta che tu hai mai visto.
Taine balzò in piedi.
— Marmotta? È un altro pianeta, non ci sono marmotte!
— Vieni a vedere! — strillò ancora Beasly. Si voltò e corse di nuovo fuori, e Taine lo seguì dappresso.
Certamente somigliava in maniera considerevole a una marmotta… una specie di marmotta a taglia d’uomo. Più simile a una marmotta uscita da un libro per bambini, forse, dal momento che camminava sulle gambe posteriori e tentava di mantenere un’aria solenne pur tenendo d’occhio Towser.
Towser lo seguiva a trenta metri o pressappoco, tenendosi a distanza di sicurezza dall’enorme marmotta. Aveva tutta l’aria del buon cane da pastore e camminava quatto, attento a rintuzzare qualche colpo di testa della marmotta.
La marmotta arrivò vicino alla casa e si fermò, poi fece un dietrofront in modo da avere lo sguardo verso il deserto e sedette sulle gambe posteriori.
Girò quindi la testa massiccia per dare un’occhiata a Beasly e a Taine: negli scuri occhi limpidi Taine vide più che lo sguardo d’un semplice animale.
Taine uscì rapido dal porticato e prese il cane in braccio, stringendoselo al petto. Towser alzò il muso e leccò il viso al suo padrone. Taine rimase fermo col cane tra le braccia a guardare la marmotta grossa quanto un uomo: ne ebbe un senso di sollievo e di subitanea riconoscenza.
Adesso tutto andava bene, pensò: Towser era tornato.
Si avviò verso casa ed entrò poi in cucina.
Mise a terra Towser, prese una scodella e la riempì sino all’orlo, poi la appoggiò sul pavimento. Towser lappò l’acqua avidamente, spruzzandola dappertutto sul linoleum.
— Vacci piano, tu — lo ammonì Taine. — Non fare l’esagerato.
Rovistò nel frigorifero e, trovati un po’ di avanzi, li mise nella scodella di Towser.
Il cane agitò la coda tutto felice.
— Dovrei proprio attaccarti a una corda — disse Taine — non spariresti più in quel modo.
Beasly rientrò trotterellando. — Quella marmotta ha una faccia simpatica — annunciò. — Sta aspettando qualcuno.
— Simpatica — borbottò Taine, senza prestargli attenzione. Gettò un’occhiata all’orologio.
— Le sette e mezzo — disse poi. — Sentiamo il notiziario. Ti va, Beasly?
— Certo. So bene come si fa. Non è quel tipo di New York?
— Proprio lui — disse Taine. Tornò nel soggiorno e guardò fuori dalla finestra. La grossa marmotta non si era mossa, era ancora seduta con la schiena verso la casa, a guardare la strada da cui era giunta.
Aspettava qualcuno, gli aveva detto Beasly, e sembrava che fosse proprio così: ma forse era tutta un’idea di Beasly.
E se stava aspettando qualcuno, si chiese poi Taine, chi poteva essere questo qualcuno? Ormai si era certamente diffusa la voce dell’esistenza di una porta su un altro mondo. E si chiese, ancora, quante altre porte erano state aperte attraverso i secoli?
Henry aveva detto che là fuori un altro grande mondo aspettava soltanto che i terrestri si muovessero. Ma le cose non stavano sicuramente così, doveva anzi essere proprio il contrario.
La voce di un radiocronista arrivò sonora, nel bel mezzo di una frase: “…finalmente preso in esame. Radio Mosca ha annunciato stasera che il delegato sovietico farà domani richiesta all’ONU di internazionalizzare questo nuovo mondo nonché il suo accesso. Per quanto riguarda questo accesso, la casa di un certo Hiram Taine, non vi sono notizie. Sono state prese severe misure di sicurezza e un cordone militare forma un solido muro attorno alla casa, trattenendo la folla dei curiosi. Ogni tentativo di telefonare alla residenza è bloccato da una voce decisa che dice che nessuna chiamata per quel numero viene accettata. Lo stesso Taine non è uscito di casa”.
Taine tornò in cucina e si mise a sedere.
— Sta parlando di te — gli disse Beasly con sussiego.
“È corsa questa mattina la voce che Taine, un tranquillo artigiano e antiquario locale, fino a ieri relativamente sconosciuto, è finalmente ritornato da un viaggio esplorativo in questa terra nuova e ignota. In quanto a quel che vi abbia trovato, seppure ha trovato qualcosa, nessuno sa dire ancora nulla. Né vi sono ulteriori informazioni su quest’altro mondo, a parte il fatto che è un deserto e, fino a questo momento, privo di segni di vita.
“Un’ondata di curiosità ha destato ieri nel tardo pomeriggio il ritrovamento di qualche strano oggetto nei boschi intorno alla strada che porta alla residenza, ma anche quest’area è stata rapidamente isolata e il colonnello Ryan, comandante delle truppe, rifiuta ogni particolare su quel che è stato effettivamente rinvenuto.
“L’incognita dell’intera situazione sembra essere un certo Henry Horton, che è, a quanto pare, l’unico privato a cui sia permesso di entrare in casa Taine. Horton, che è stato intervistato oggi, ha detto ben poco, ma ostenta un atteggiamento di autentica cospirazione. Ha accennato al fatto che lui e Taine sono soci in qualche misteriosa impresa e ha dato vagamente a intendere di aver collaborato con Taine alla scoperta del nuovo mondo.
“Horton, è interessante notare, gestisce una piccola fabbrica di calcolatori ed è stato accertato da fonte autorevole che soltanto di recente egli ha consegnato a Taine un calcolatore, o quanto meno qualche macchina le cui funzioni appaiono del tutto misteriose. A quanto risulta, questa particolare macchina è stata messa a punto in un periodo di sei o sette anni.
“Alcune delle domande a proposito di come tutto questo sia accaduto e a quel che sta tuttora accadendo, potranno avere una risposta soltanto dalle ricerche di un gruppo di scienziati che ha già lasciato Washington dopo una riunione alla Casa Bianca durata tutto il giorno, riunione a cui hanno partecipato rappresentanti delle forze armate, del dipartimento di Stato, della divisione di sicurezza e della sezione armamenti speciali.
“In ogni parte del mondo lo shock per quanto è avvenuto ieri a Willow Bend può essere paragonato soltanto a quello provocato, circa vent’anni orsono, dalla notizia dello sganciamento della prima bomba atomica. Tra numerosi osservatori, c’è una certa tendenza a credere che le implicazioni degli avvenimenti di Willow Bend, in sostanza, possano scuotere il mondo assai più dei fatti di Hiroshima.
“Com’è naturale, a Washington si insiste sul fatto che questa è una questione esclusivamente interna e che si intende tenere in pugno la situazione dal momento che riguarda l’interesse nazionale.
“Da altre parti però si insiste sempre più sul fatto che non si tratterebbe di una questione esclusivamente interna, ma bensì di interesse internazionale.
“Secondo notizie non confermate, un osservatore delle Nazioni Unite sta per giungere a Willow Bend da un momento all’altro. Francia, Gran Bretagna, Bolivia, Messico e India hanno già chiesto autorizzazione a Washington per inviare sul posto loro osservatori; non c’è dubbio che altre nazioni stiano pensando di avanzare analoga richiesta.
“Il mondo è all’erta stasera, in attesa di una parola da Willow Bend e…”
Taine allungò una mano e mise a tacere la radio.
— Da quanto ha detto quello — commentò Beasly — saremo travolti da un casino di gente straniera.
Già, pensò Taine, ci sarebbe stato un casino di gente straniera, ma non esattamente nel senso che intendeva Beasly. L’uso di questa parola, si disse, sarebbe passato di moda, dal momento che la cosa riguardava ogni essere umano. Nessun uomo sulla Terra avrebbe più potuto d’ora innanzi essere chiamato uno straniero, con una forma di vita extraterrestre alla porta accanto… letteralmente alla porta. E che gente era quella della casa di pietra?
Forse non soltanto la vita extraterrestre di un solo pianeta, ma quella di molti pianeti, poiché lui stesso aveva trovato un’altra porta su un altro pianeta e dovevano esserci un gran numero di queste porte: quale sarebbe stata la natura di questi mondi e qual era lo scopo di queste porte?
Qualcuno, qualcosa, aveva trovato un modo per raggiungere un altro pianeta eliminando i lunghi anni luce nello spazio solitario… un modo più semplice e più rapido che volare attraverso gli abissi dello spazio. E una volta che la porta fosse stata aperta sarebbe rimasta aperta: passarla era tanto facile quanto passare da una stanza all’altra.
Ma una cosa, una cosa assurda, continuava a renderlo perplesso: la rotazione e la rivoluzione dei pianeti così collegati, di tutti i pianeti che dovevano essere collegati. Non puoi, si disse, stabilire solidi ed effettivi legami tra due oggetti che si muovono indipendentemente l’uno dall’altro. Appena un paio di giorni prima avrebbe sostenuto stoltamente che un’idea del genere sarebbe stata del tutto fantastica e impossibile. Eppure era stata realizzata. E quando una cosa impossibile diviene reale, quale uomo dotato di logica può sostenere con sincerità che la seconda non possa esserlo altrettanto?
Il campanello suonò e si avviò alla porta. Era Ernie, l’uomo del distributore.
— Henry mi ha detto che hai bisogno di benzina; sono venuto a dirti che non posso fartela avere prima di domattina.
— Va bene — rispose Taine. — Adesso non ne ho bisogno. — E gli sbatté la porta in faccia.
Vi si appoggiò contro, pensando: dovrò affrontarli prima o poi. Non posso chiudere la porta in faccia al mondo. Presto o tardi, questa faccenda tra me e la Terra dovrà essere risolta.
Era sciocco, pensò, ragionare in questo modo, ma le cose stavano proprio così.
Qui lui aveva qualcosa che la Terra voleva; qualcosa che la Terra voleva o pensava di volere. E, in ultima analisi, la responsabilità era ancora sua. Tutto era accaduto sulla sua terra, nella sua casa; senza sapere, forse lui aveva persino aiutato, favorito la cosa.
E la terra e la casa sono mie, si disse orgogliosamente, e il mondo là fuori era un’estensione della sua aia. Non importa quanto fosse lunga o larga, era sempre un’estensione della sua aia.
Beasly aveva lasciato la cucina e Taine passò nel soggiorno. Towser era sulla poltrona dalla tappezzeria dorata, acciambellato e ronfante. Taine decise di lasciarlo stare. Dopo tutto, pensò, Towser si era conquistato il diritto di dormire dove più gli facesse piacere.
Oltrepassò la poltrona e si avviò alla finestra, verso il deserto che si stendeva fino al lontano orizzonte; davanti alla finestra, la gigantesca marmotta e Beasly sedevano fianco a fianco, le schiene volte alla casa, a guardare il paesaggio desertico.
In qualche modo gli sembrò naturale che la marmotta e Beasly fossero seduti lì insieme… quei due, sembrava a Taine, potevano avere molto in comune.
E poi era un buon inizio… che un uomo e una strana creatura di quest’altro mondo fossero lì seduti insieme, socievolmente.
Tentò di dare forma all’idea dell’organizzazione di questi mondi collegati, di cui ora anche la Terra faceva parte, e le possibilità intrinseche a questa catena gli rimbombavano nella testa come un tuono.
Sarebbe stato possibile un contatto tra la Terra e questi altri mondi e che cosa ne sarebbe risultato?
A quel che sembrava, il contatto era già stato effettuato, tanto naturalmente però, in modo tanto privo di drammaticità, da essere persino deludente da registrare come un grande e importante evento. Infatti Beasly e la marmotta erano in contatto e se fosse andato tutto nello stesso modo, non c’era assolutamente nulla di cui preoccuparsi.
Non c’era niente di casuale, rammentò a se stesso, nella faccenda; era stato tutto preparato ed eseguito con la disinvoltura di una lunga pratica. Non era questo il primo mondo a essere aperto e non sarebbe stato l’ultimo.
Quei piccoli esseri dalla faccia di topo avevano attraversato lo spazio (una serie inimmaginabile di anni luce) nel veicolo che aveva dissotterrato nel bosco. Poi lo avevano seppellito, forse come un bimbo può nascondere un piatto cacciandolo sotto un monticello di sabbia. Poi si erano diretti proprio verso questa casa e avevano messo in funzione l’apparato che aveva reso questa casa un passaggio tra un mondo e l’altro. Una volta che questo fosse stato fatto era eliminata per sempre la necessità di attraversare lo spazio; questo era necessario soltanto per iniziare il collegamento tra i pianeti.
Una volta terminato il lavoro, i piccoli esseri dalla faccia di topo erano andati via, non prima però, di essersi assicurati che questo passaggio al loro pianeta fosse reso inespugnabile a qualunque tipo di assalto. Avevano rivestito ogni intercapedine della casa con un prodigioso materiale che avrebbe resistito a un’ascia e che senza dubbio avrebbe resistito a qualcosa di più che una semplice ascia.
Poi avevano marciato in fila indiana fino alla collina dove altri otto ordigni spaziali riposavano sulle loro rampe. E adesso su quelle rampe ce n’erano soltanto sette: gli esseri dalla faccia di topo erano partiti e forse, prima di ritornare, sarebbero atterrati su un altro pianeta ad aprirvi un’altra porta, un legame con un altro mondo. Ma assai più, pensò Taine, che un semplice legame tra i mondi: sarebbe anche stato un legame tra i popoli di questi mondi.
Le piccole creature dalla faccia di topo erano gli esploratori, i pionieri in cerca di altri pianeti simili alla Terra e la creatura che attendeva con Beasly fuori della finestra doveva anch’ella assolvere un compito, un compito che nel tempo a venire anche l’uomo, forse, avrebbe dovuto assolvere.
Voltò le spalle alla finestra e guardò la stanza, la stanza era esattamente come era sempre stata fin da quando lui poteva ricordare. Con tutto quel che era cambiato fuori, con tutto quel che era accaduto fuori, la stanza era rimasta immutata.
Questa è la realtà, pensò Taine, questa è tutta la mia realtà. Qualunque cosa possa ancora accadere, io rimarrò qui… in questa stanza col camino annerito dal fuoco di molti inverni, gli scaffali pieni di vecchi libri sciupati, la poltrona, il vecchio tappeto logoro… logorato dai passi delle persone amate e non dimenticate nel corso di lunghi anni. E anche questo, comprese, era la calma prima della bufera.
Tra breve avrebbe avuto inizio la grande parata… il gruppo degli scienziati, i funzionari governativi, i militari, gli osservatori di altri Paesi e quelli ufficiali delle Nazioni Unite.
E contro tutto questo, si rese conto, lui era disarmato e privo di forza. Non importa quel che un uomo può dire o pensare, non può ergersi contro il mondo.
Questo era l’ultimo giorno in cui questa casa sarebbe stata la casa dei Taine. Dopo quasi cent’anni, il suo destino sarebbe cambiato. E, per la prima volta in tutti questi anni, nessun Taine avrebbe dormito sotto il suo tetto.
Rimase a fissare il camino e la libreria e avvertì i vecchi pallidi fantasmi muoversi per la stanza: sollevò una mano esitante come per salutari, non soltanto i fantasmi ma anche la stanza, poi la lasciò ricadere. A che serviva ormai?
Uscì sul porticato e sedette sui gradini. Beasly lo udì arrivare e si voltò.
— È simpatico — disse a Taine, battendo la mano sulla schiena della marmotta. — È proprio come un gran bell’orsacchiotto.
— Sì, vedo — rispose Taine.
— È la cosa più bella è che posso parlare con lui.
— Capisco — rispose Taine, ricordandosi che Beasly poteva parlare anche con Towser. Si chiese come gli sarebbe apparso vivere nel semplice mondo di Beasly. A volte, concluse, doveva essere confortevole.
Gli esseri dalla faccia di topo erano arrivati con l’astronave, ma perché erano scesi a Willow Bend, perché avevano scelto questa casa, la sola casa in tutto il paese in cui avrebbero potuto trovare l’equipaggiamento di cui avevano bisogno per costruire il loro apparato in modo facile e rapido? Poiché non c’erano dubbi sul fatto che essi avevano riutilizzato ogni pezzo del calcolatore per disporre dell’equipaggiamento di cui avevano bisogno. In questo modo, tutto sommato. Henry aveva avuto ragione: ripensandoci, dopo tutto Henry aveva avuto una parte decisiva nella faccenda.
Potevano aver previsto che in questa particolare settimana, in questa casa particolare, le probabilità di compiere in modo rapido e facile quel che erano venuti a fare sarebbero state tanto alte?
Insieme ai molti talenti e capacità tecnologiche di cui disponevano, c’era anche la chiaroveggenza?
— Sta arrivando qualcuno — disse Beasly.
— Non vedo niente.
— Neppure io — riprese Beasly. — Però Marmotta mi ha detto che li ha visti.
— Ti ha detto?
— Te l’ho detto che stavamo parlando. Guarda, adesso posso vederli anch’io.
Erano ancora lontani, ma si avvicinavano rapidamente… tre macchie che correvano rapide in pieno deserto.
Sedette e li guardò avvicinarsi, pensò di andar dentro a prendere il fucile, ma non si mosse dal suo posto sui gradini. Il fucile non sarebbe servito a niente, si disse; sarebbe stato insensato prenderlo e, ancora peggio, un atteggiamento insensato. La sola cosa che l’uomo poteva fare, pensò, era quella di incontrare queste creature di un altro mondo con le mani vuote e pulite.
Adesso erano più vicini; gli sembrò che sedessero su invisibili sedili che si spostavano molto velocemente. Vide che erano umanoidi, almeno fino a un certo punto, ed erano soltanto tre.
Arrivarono di corsa e si fermarono all’improvviso a circa trenta metri dai gradini su cui Taine sedeva.
Non si mosse né disse parola… non c’era nulla che potesse dire. Era troppo ridicolo.
Essi erano, forse, un po’ più piccoli di Taine, neri come l’asso di picche, e indossavano pantaloncini attillati e tuniche che sembravano alquanto ampie: sia i pantaloni sia le tuniche erano celesti come il cielo d’aprile.
Ma c’era ben altro. Erano assisi su selle ornate di corni sulla parte anteriore, di staffe, di una specie di coperta arrotolata e legata di dietro, ma non avevano cavalli.
Le selle fluttuavano in aria, con le staffe a circa un metro dal suolo e gli stranieri sedevano comodamente e lo guardavano, mentre lui li guardava.
Finalmente Taine si alzò e avanzò di un paio di passi, mentre i tre si lasciavano scivolare dalle selle e gli venivano incontro. Le selle rimasero sospese in aria, esattamente dove loro le avevano lasciate.
Taine continuò ad avanzare e i tre anche, finché non vi fu tra loro che una distanza di non più che un paio di metri.
— Ti salutano — disse Beasly. — Ti dicono benvenuto.
— Be’, molto bene, allora digli… ma di’, come lo sai?
— Marmotta mi dice quello che dicono loro e io lo dico a te. Tu parli con me, io parlo con lui e lui con loro. Funziona così. È per questo che lui è qui.
— Be’, che io possa… — cominciò Taine. — Ma allora puoi davvero parlare con lui?!
— Te l’ho detto che posso — sbraitò Beasly. — Ti ho detto che posso parlare con Towser, anche, ma tu hai pensato che io fossi scemo.
— Telepatia! — esclamò Taine. E adesso era peggio che mai. Non soltanto gli esseri dalla faccia di topo avevano saputo tutto di quella faccenda, ma avevano saputo anche di Beasly.
— Che cosa hai detto, Hiram?
— Non ci pensare — rispose Taine. — Di’ a questo tuo amico di dir loro che io sono felice di incontrarli e che cosa posso fare per loro.
Rimase in piedi a disagio e fissò i tre: vide che le loro tuniche avevano molte tasche e che le tasche erano rigonfie, probabilmente coi loro equivalenti di tabacco, fazzoletti, temperini e simili.
— Dicono che vogliono farsi spennare — disse Beasly.
— Spennare?
— Ma sì, Hiram. Lo sai, fare a cambio.
Beasly ridacchiò sommesso. — Immagina un po’quelli che si espongono a un mercante yankee. Henry dice che è quello che sei tu: lui dice che puoi spennare un uomo senza nemmeno…
— Lascia Henry fuori da questo — ribatté secco Taine. — Lascia Henry fuori da qualche cosa, almeno.
Sedette per terra e i tre sedettero di fronte a lui.
— Chiedigli che cosa intendono scambiare.
— Idee — disse Beasly.
— Idee! Ma che balordaggine.
Poi capì che non lo era.
Di tutte le merci che potevano essere scambiate con un popolo straniero, le idee potevano essere le più valide e le più facili da maneggiare. Non hanno bisogno di depositi e non alterano la bilancia dei pagamenti… non immediatamente, almeno… e possono portare un contributo assai più grande alla prosperità delle culture che non il commercio in beni effettivi.
— Chiedigli che cosa vogliono per l’idea di quelle selle che cavalcano — disse Taine.
— Dicono, che cosa hai da offrire?
Eccolo il guaio. Una domanda a cui era difficile rispondere.
Automobili e camion, con motore a benzina… be’, non era il caso, dal momento che avevano già le selle. La Terra era un po’ antiquata in quanto a mezzi di trasporto, dal punto di vista di costoro.
Architettura edile… no, questa non poteva chiamarsi un’idea e, comunque, c’era quell’altra casa, così dunque conoscevano già le case.
Abiti? No, avevano già abiti.
Vernice, pensò. Forse la vernice era quella giusta.
— Chiedi un po’, se la vernice gli interessa — disse Taine a Beasly.
— Chiedono, che cos’è? Spiegaglielo, per piacere.
— Va bene. Dunque, vediamo. È un sistema protettivo che si stende praticamente su ogni superficie. Si imballa facilmente e si applica facilmente, protegge dal maltempo e dalla corrosione. È anche decorativa: esiste in tutti colori. Ed è economica da fare.
— Hanno alzato le spalle — disse Beasly. — Li interessa poco; però vogliono saperne di più. Vai avanti e diglielo.
Questo era più adatto a lui, pensò Taine. Questo era il tipo di linguaggio che poteva capire.
Si accomodò meglio dov’era seduto e si curvò un poco in avanti, muovendo gli occhi dall’una all’altra di quelle tre imperturbabili facce d’ebano, tentando di indovinare quel che potevano star pensando. Non c’era niente da indovinare: questi erano i tre tipi più imperturbabili che avesse mai incontrato.
Qualcosa che gli era familiare, che lo faceva sentire a casa sua: era nel suo elemento. In quei tre di fronte a lui sentì in qualche modo inconscio la migliore opposizione ai suoi ragionamenti commerciali che avesse mai dovuto fronteggiare. E anche questo lo rendeva contento.
— Digli che non sono troppo sicuro — disse. — Credo di aver parlato troppo in fretta. La vernice, dopo tutto, è un’idea di gran valore.
— Dicono se proprio per fargli un favore, perché non sono davvero interessati, puoi parlargliene ancora un po’.
Li ho agganciati, si disse Taine. Se solo si fosse dato da fare nel modo giusto.
Si mise d’impegno per fare un onesto scambio.
Qualche ora più tardi ricomparve Henry Horton, accompagnato da un signore dai modi molto urbani che era stato erroneamente allontanato e che portava sotto il braccio una borsa impressionante.
Henry e l’uomo si fermarono sui gradini del porticato completamente sbalorditi.
Taine era accosciato per terra e stava verniciando una tavola sotto lo sguardo degli extraterrestri. Dalle patacche che avevano sul corpo, era chiaro che gli stranieri avevano fatto anch’essi un po’ di verniciatura. Sparsi dappertutto c’erano altri pezzi di tavola verniciati a metà e un paio di dozzine di vecchi barattoli di vernice.
Taine alzò lo sguardo e vide Henry e l’uomo.
— Speravo che qualcuno si facesse vivo — disse ai due.
— Hiram — disse Henry, assai più tronfio del solito — posso presentarti il signor Lancaster. È un delegato speciale delle Nazioni Unite.
— Lieto di conoscerla — disse Taine. — Mi chiedo se lei voglia…
— Il signor Lancaster — cominciò a spiegare Henry, con orgoglio — ha avuto qualche piccola difficoltà a passare gli sbarramenti, così mi sono offerto di accompagnarlo. Gli ho già spiegato quali sono i nostri comuni interessi in questa faccenda.
— È stato molto gentile, il signor Horton — disse Lancaster. — C’era qualche stupido sergente…
— Tutto sta a sapere come trattare la gente — disse Henry. L’osservazione, notò Taine, non fu apprezzata dall’uomo delle Nazioni Unite.
— Posso chiedere, signor Taine, che cosa sta facendo esattamente? — disse Lancaster.
— Sto spennando — rispose Taine.
— Spennando? Che curioso modo di esprimere.
— Un vecchio modo di dire — aggiunse svelto Taine — con alcune caratteristiche sue. Se fa a cambio con qualcuno, è un passaggio di beni; ma se tira a spennare, quel poveretto ci rimette la camicia.
— Interessante — disse Lancaster. — Suppongo che lei stia spennando questi signori dalle tuniche celesti.
— Hiram — interruppe fieramente Henry — è il migliore spennatore che ci sia da queste parti. Si occupa di antiquariato e perciò deve spennare bene.
— E posso chiedere — riprese Lancaster, ignorando del tutto Henry — che cosa sta facendo con quei barattoli di vernice? Questi signori sono acquirenti potenziali di vernice oppure…
Taine mollò la tavola e balzo in piedi irato. — Perché non vi state un po’ zitti, tutti e due? — gridò. — Sto cercando di dire qualcosa da quando siete arrivati e non ho potuto aprir bocca. Ed è importante, vi dico.
— Hiram! — esclamò Henry orripilato.
— Va tutto bene — disse l’uomo delle Nazioni Unite. — Noi stavamo ciarlando. Allora, signor Taine?
— Mi hanno messo alle corde — gli disse Taine — e ho bisogno di aiuto. Ho venduto a questi amici l’idea della vernice, ma non so un accidente su di essa… i princìpi su cui è basata, o come è fatta o con che cosa…
— Ma, signor Taine, se lei sta vendendo loro la vernice, che differenza fa…
— Non gli sto vendendo la vernice — urlò Taine. — Non arriva a capirlo? Quelli non vogliono la vernice, vogliono l’idea della vernice, i princìpi della vernice. È qualcosa a cui non hanno mai pensato e gli interessa. Io gli ho offerto l’idea della vernice per l’idea delle loro selle e ci sono quasi riuscito…
— Selle? Vuol dire quelle cose lì, appese per aria?
— Proprio quelle. Beasly, vuoi chiedere a uno dei tuoi amici di dare una dimostrazione delle selle?
— Certo che lo faccio — rispose Beasly.
— Che cosa ha a che fare Beasly con queste cose? — chiese Henry.
— Beasly è un interprete. Penso che dovresti chiamarlo un telepatico. Ti ricordi che diceva sempre che poteva parlare con Towser?
— Beasly l’ha sempre raccontato.
— Però stavolta aveva ragione. Dice a Marmotta, quel bestione buffo, quello che voglio dire e Marmotta lo dice a questi stranieri. E gli stranieri parlano a Marmotta, Marmotta a Beasly e Beasly ancora a me.
— Ridicolo! — sbuffò Henry. — Beasly non ha l’intelligenza per essere… che cosa hai detto che è?
— Un telepatico — disse Taine.
Uno degli stranieri si era alzato ed era rimontato in sella: la spinse un po’ avanti e indietro, poi scese di nuovo e tornò a sedere.
— Considerevole — disse l’uomo delle Nazioni Unite. — Una specie di complesso di antigravità, completamente controllato. Possiamo trovargli un uso, certamente. — Si passò la mano sul mento. — E lei sta scambiando l’idea della vernice con l’idea di questa sella?
— Esatto — rispose Taine — però ho bisogno di aiuto. Ho bisogno di un chimico o di un fabbricante di vernici o qualcuno che possa spiegare di che cosa è fatta la vernice. E ho bisogno anche di qualche professore o uno del genere che capisca di che cosa parlano, quando mi diranno in che consiste l’idea della sella.
— Vedo — rispose Lancaster. — Sì, è evidente che lei ha un problema. Signor Taine, lei mi sembra un uomo d’un certo discernimento…
— Ah, è proprio così — interruppe Henry. — Hiram è l’astuzia in persona.
— Così suppongo che lei capisca — proseguì l’uomo delle Nazioni Unite — che l’intera procedura è piuttosto irregolare…
— Ma non lo è — esplose Taine. — È il modo in cui agiscono sempre. Aprono la porta su un pianeta e poi scambiano idee. Hanno fatto così con gli altri pianeti da moltissimo tempo. E tutto quello che vogliono sono le idee, solo le nuove idee, perché questo è l’unico modo di far progredire una cultura o una tecnica. E loro hanno un mucchio di idee che l’umanità può usare.
— È proprio questo il punto — disse Lancaster. — Questa è forse la cosa più importante che sia accaduta a noi umani. Nel breve volgere di un anno potremo ottenere dati e idee che ci porteranno, almeno teoricamente, innanzi di un centinaio d’anni. E in una cosa tanto importante, noi abbiamo bisogno che il lavoro venga svolto da esperti…
— Ma lei — protestò Henry — non può trovare nessuno capace di spennare uno meglio di Hiram. Se discute con lui, neppure i suoi denti sono al sicuro. Perché non ce lo lascia stare? Lui lavorerà per voi. Metta insieme i suoi esperti e i suoi progettisti e poi lasci che se ne occupi Hiram. Questi tipi l’hanno accettato e hanno provato che vogliono trattare con lui, che vuole di più? Tutto quello di cui ha bisogno è un piccolo aiuto.
Beasly sopraggiunse a fronteggiare l’uomo delle Nazioni Unite.
— Io non voglio lavorare con nessun altro — dichiarò. — Se lei butta Hiram fuori di qui, io vado con lui. Hiram è la sola persona che mi abbia sempre trattato da umano.
— Ha visto? Ecco qui! — disse Henry trionfante.
— Aspetti un momento, Beasly — disse l’uomo delle Nazioni Unite. — Possiamo fare in modo che per lei ne valga la pena… Immagino che un interprete in una situazione del genere possa richiedere un adeguato stipendio.
— I soldi non sono niente per me — proclamò Beasly. — Non mi ci posso comprare gli amici… La gente riderà ancora di me.
— Vuol dire proprio questo, signore — spiegò Henry. — Non c’è nessuno che sia più cocciuto di Beasly. Lo so bene, lavorava per me.
L’uomo delle Nazioni Unite sembrò sbalordito e alquanto disperato.
— Le ci vorrà un bel po’ di tempo prima di trovare un altro telepatico — precisò Henry. — Sempre che poi riesca a parlare con questi signori.
L’uomo delle Nazioni Unite sembrava stesse soffocando. — Dubito che ce ne sia un altro sulla Terra — disse poi.
— Be’, allora? Vuole decidersi? — disse brutalmente Beasly. — Non mi va di star qui tutto il giorno.
— E vabbene! — urlò l’uomo delle Nazioni Unite. — Occupatevene voi due!… Prego, volete occuparvene voi due? C’è qui una possibilità che non possiamo lasciarci sfuggire. C’è qualcosa d’altro che volete? Nulla che io possa fare per voi?
— Sì che c’è — rispose Taine. — Ci sono quei tizi di Washington e i papaveri degli altri Paesi. Me li tenga lontani.
— Spiegherò attentamente le cose a ognuno. Non ci saranno interferenze.
— E poi ho bisogno di un chimico e di qualcuno che capisca qualcosa in quelle selle. E presto anche: io posso tirare in lungo con questi ragazzi ancora un po’, ma mica tanto ancora.
— Tutti quelli di cui ha bisogno — assicurò l’uomo delle Nazioni Unite. — Proprio tutti. Potrò averli entro poche ore. E in un paio di giorni ci sarà qui un bel gruppo di esperti pronti a darle tutto quello di cui lei abbia bisogno… appena lo chieda.
— Signore — disse Henry mellifluamente — lei è molto comprensivo: io e Hiram lo apprezziamo moltissimo. E ora, dal momento che tutto è a posto, credo di capire che ci siano dei giornalisti che attendono. Potrebbe interessarli l’accordo da lei fatto.
L’uomo delle Nazioni Unite, a quel che sembrava. non aveva certo in animo di protestare e, insieme a Henry, si avviò con passo pesante su per i gradini.
Taine tornò a voltarsi e guardò verso lo sterminato deserto.
— È proprio un’aia grande — mormorò.