Leigh Brackett La spada di Rhiannon

Capitolo I LA PORTA DELL’INFINITO

Matt Carse si accorse di essere seguito, subito dopo avere lasciato la casa di Madam Kan. Le risate delle piccole donne brune erano ancora nelle sue orecchie, risuonavano come un’eco non del tutto spenta, e i fumi dei thil gli offuscavano la vista come una calda, dolce foschia… ma non gli celarono il mormorio dei piedi calzati di sandali che lo seguivano nella fredda notte marziana.

Silenziosamente, Carse allentò la fibbia della fondina, per essere pronto a estrarre la pistola protonica, ma non fece nulla per far perdere le tracce a colui che lo seguiva. Non rallentò né affrettò il passo, mentre attraversava Jekkara.

La Città Vecchia, pensò. Sarà quello il posto più adatto. Qui intorno c’è troppa gente.

Perché Jekkara non dormiva, malgrado l’ora tarda. Le città sul Canale Inferiore non dormono mai, perché sono fuori dalla legge, e il tempo non significa nulla per esse. A Jekkara e a Valkis e a Barrakesh la notte è soltanto la parte più oscura del giorno.

Carse camminava lungo l’antico canale, pieno di acqua cupa e immobile, scavato nel fondo del mare morto. Vedeva ondeggiare le fiamme delle torce che il vento secco non riusciva mai a spegnere, e ascoltava la musica singhiozzante delle arpe che non tacevano mai. Uomini magri e slanciati, donne snelle e asciutte, gli passavano accanto nelle, strade buie, silenziosi come gatti, tranne che per il tintinnio e il brusio lieve delle campanelle che le donne portavano come ornamento, un suono delicato come la pioggia, un distillato di tutta la dolcissima crudeltà di quel mondo.

Nessuno prestava attenzione a Carse, benché egli fosse chiaramente un terrestre, malgrado il suo abbigliamento marziano, e benché di solito la vita di un terrestre valga assai meno della luce di una candela spenta, nelle città dei Canali Inferiori. Perché Carse era uno di loro. Gli uomini di Jekkara, di Valkis e Barrakesh costituiscono l’aristocrazia della malavita, e ammirano l’abilità, rispettano il sapere, e riconoscono un gentiluomo quando ne incontrano uno.

Per questo Matthew Carse, già membro della Società Interplanetaria di Archeologia, già assistente alla cattedra di Antichità Marziane a Kahora, vissuto su Marte per trenta dei suoi trentacinque anni, era stato ammesso in quella ben più ristretta ed esigente società di ladri, e aveva pronunciato con loro il giuramento di amicizia che non si sarebbe mai potuto infrangere.

Eppure adesso, attraverso le strade di Jekkara, uno degli «amici» di Carse lo stava pedinando, con tutta l’astuzia di un gatto delle sabbie. Egli si domandò per un momento se il Controllo di Polizia Terrestre non avesse per caso mandato un agente alla sua ricerca, ma scartò immediatamente quella possibilità. A Jekkara non potevano esistere degli agenti di nessun corpo di polizia. No, doveva trattarsi di qualche abitante dei Canali Inferiori, che lo seguiva per qualche suo affare personale.

Carse si allontanò dal canale, voltando la schiena al letto del mare morto, dirigendosi verso quello che un tempo era stato l’entroterra. Il terreno s’innalzava bruscamente in erti dirupi, antiche colline corrose e sgretolate dal tempo e dall’eterno vento. Là riposava cupa la Città Vecchia, antica fortezza dei Re del Mare di Jekkara, spogliata da tempo immemorabile della sua gloria dal lento, inesorabile ritirarsi del mare.

La Città Nuova di Jekkara, la città viva che si trovava più in basso, quasi sulla riva del canale, era stata già antica quando Ur dei Caldei era stato soltanto un villaggio giovane e primitivo. La Vecchia Jekkara, coi suoi moli di pietra e di marmo ancora in piedi nel porto asciutto e coperto di polvere, era antica, inconcepibilmente antica, al di là di quanto il pensiero terrestre potesse interpretare quella parola. Perfino Carse, che su di essa sapeva più cose di qualunque altro uomo vivente, provava sempre un timore reverenziale a questo pensiero.

Aveva deciso di seguire quella strada, ora, perché era completamente morta e deserta, e là un uomo avrebbe potuto essere in perfetta solitudine, se avesse voluto parlare condifenzialmente a un amico.

Le case vuote si aprivano alla notte. Il tempo e il vento impetuoso avevano sgretolato gli angoli e gli stipiti delle porte, avevano steso sul paesaggio un velo di uniformità e di silenzio, trasformando la Città Vecchia in una landa confusa e stanca degli innumerevoli anni di decano, le piccole lune basse creavano un disegno fiabesco d’ombre e luci contrastanti tra le rovine. Senza alcuno sforzo, l’alto terrestre avvolto nel lungo, nero mantello, parve fondersi con le ombre, e scomparve.

Rannicchiato al riparo di un muro, egli ascoltava il rumore dei passi dell’uomo che lo seguiva. Il rumore si fece più forte, più affrettato, rallentò indeciso, e poi fu di nuovo più veloce. I passi risuonarono davanti a lui, l’oltrepassarono, e d’un tratto Carse si mosse, con un lungo balzo felino, lasciò il riparo del muro e fu sulla strada, e un piccolo corpo magro si dibatté freneticamente tra le braccia del terrestre, miagolò di paura, cercando di scostarsi dal gelido contatto della pistola protonica contro il suo fianco.

«No!» piagnucolò. «No! Sono disarmato. Non intendo farti alcun male. Voglio solo parlarti.» Anche nella paura, una nota di astuzia e di calcolo parve insinuarsi nella sua voce. «Ho un dono per te.»

Carse si assicurò che l’uomo fosse veramente disarmato, e poi allentò la stretta. Poteva vedere distintamente il marziano, nel chiarore soffuso delle lune… un ladruncolo di poco conto, a giudicare dal gonnellino consunto, e dalla mancanza di ornamenti.

La feccia e i rifiuti dei Canali Inferiori producevano simili uomini, che erano fratelli dei vermi dal pungiglione avvelenato, nati dai sedimenti melmosi del canale, pronti a uccidere furtivamente, rimanendo celati nella polvere. Carse non ripose la sua pistola.

«Avanti,» disse. «Parla!»

«Prima di tutto,» disse il marziano, «Io sono Penkawr di Barrakesh. Forse hai sentito parlare di me.» Parve gonfiarsi come un gallo, nell’udire il suono del proprio nome pronunciato dalla sua voce.

«No,» disse Carse. «Non ho mai sentito parlare di te.»

Il suo tono era duro, secco come uno schiaffo in pieno viso. Penkawr tentò un sorriso, e sul suo viso parve un ringhio di delusione.

«Non ha importanza. Io, invece, ho sentito parlare di te, Carse. Come t’ho detto, ho un dono per te… un dono rarissimo e di grande valore.»

«Un dono così raro e prezioso, che hai dovuto seguirmi nell’ombra per parlarmene, perfino a Jekkara.» Carse fissò Penkawr, duramente, cercando di scandagliarne la doppiezza. «Ebbene, di che si tratta?»

«Vieni, e te lo farò vedere.»

«Dove si trova?»

«Nascosto. Ben nascosto, lassù, vicino ai moli del palazzo.»

Carse annui.

«Qualcosa di troppo raro e prezioso per metterlo in mostra, perfino al mercato dei ladri… e perfino per portarlo con te, sul tuo corpo. Mi incuriosisci, Penkawr. Andiamo a vedere il tuo dono.»

I denti aguzzi del ladro marziano scintillarono brevemente, nel chiarore lunare, e subito egli si mise in cammino, seguito da Carse. Il terrestre si muoveva silenziosamente, agilmente, tenendosi pronto ad agire istantaneamente, se fosse scaturita la necessità di agire. Aveva riposto la pistola nella fondina, ma la fondina era aperta, e la mano gli pendeva sul fianco, pronta a muoversi, con le dita lievemente contratte. Si stava chiedendo che genere di prezzo progettava di chiedergli Penkawr di Barrakesh, in cambio del suo ’dono’.

Mentre salivano verso il palazzo, inerpicandosi per scogli corrosi e dirupi che mostravano ancora i segni dell’erosione del mare, Carse ebbe, come sempre, la sensazione di salire una scala di polvere e roccia, che conduceva al passato. La visione di quei grandi moli ancora intatti, che portavano ancora i segni degli attracchi delle navi e degli ormegggi, gli faceva scorrere per tutto il corpo un lungo brivido di timore e di eccitazione. Nel chiarore spettrale delle lune, si poteva quasi immaginare…

«Di qua,» disse Penkawr.

Carse lo seguì in una oscura pietraia di massi antichi e sgretolati, torvi nel chiarore delle lune. Prese una piccola lampada a cripton dalla borsa che teneva legata alla cintura, e l’accese, tenendola al minimo, in modo che producesse solo un chiarore tenue, indistinguibile dal basso, poco più intenso del chiarore delle lune, la cui vista era impedita dai grandi massi che sorgevano tutt’intorno. Penkawr s’inginocchiò, e cominciò a frugare tra le pietre spezzate che coprivano il pavimento dell’antica casa, fino a quando non tirò fuori un involto lungo e stretto, avvolto in stracci.

Con una strana reverenza, quasi con paura, il ladro cominciò a sciogliere il fagotto. Carse s’inginocchiò accanto a lui. Si rese conto di trattenere il respiro, mentre osservava il movimento delle piccole mani brune e magre del marziano, mentre aspettava di vedere ciò che si trovava nell’involto. Qualcosa, nell’atteggiamento dell’uomo, l’aveva contagiato, comunicandogli una strana, irragionevole tensione.

La fioca luce della lampada trasse una scintilla di intenso fuoco da un gioiello, e poi riverberò lucente sul metallo. Carse si avvicinò ancor di più al ladro. Gli occhi di Pen kawr, subdoli occhi di lupo, gialli come topazio e sottili come fessure, si sollevarono per fissare lo sguardo azzurro e duro del terrestre; quello sguardo durò solo per un momento, poi il marziano guardò altrove, e, rapidamente, liberò l’oggetto che si trovava sul pavimento degli ultimi stracci che lo celavano.

Carse non si mosse. La cosa giaceva sul pavimento, tra loro, luminosa e ardente, e i due uomini la fissarono immobili, trattenendo il respiro. Il bagliore rossigno della lampada coloriva i loro volti, traendo dall’ombra grigia i lineamenti affilati; e gli occhi di Matthew Carse erano quelli di un uomo che assiste a un miracolo.

Dopo un momento d’attesa che parve protrarsi all’infinito, Carse tese la mano, e prese l’oggetto. Lo rigirò tra le mani, osservandone la bella e mortale snellezza bilanciata in modo mirabile, la lunghezza, l’impugnatura nera e la guardia che si adattavano perfettamente alla sua grande mano, la gemma solitaria, fosca e fumosa, che pareva fissarlo con saggezza viva, il nome inciso sulla lama nei caratteri più rari e più antichi. Parlò, e la sua voce non fu che un bisbiglio.

«La spada di Khiannon!»

Penkawr respirò di nuovo, allora, e nella penombra si udì il suo sospiro profondo, sibilante.

«L’ho trovata io,» disse. «L’ho trovata io.»

«Dove?» disse Carse.

«Non importa dove, io l’ho trovata. È tua… per un piccolo prezzo.»

«Un piccolo prezzo.» Carse sorrise. «Un piccolo prezzo, per la spada di un dio.»

«Un dio’ malvagio,» mormorò Penkawr. «Per più di un milione di anni, Marte l’ha chiamato il Maledetto.»

«Lo so.» Carse annuì. «Rhiannon, il Maledetto, lo Sconfitto, il ribelle tra gli dei del più remoto passato. Sì, conosco la leggenda. La leggenda di come gli dei vinsero Rhiannon, e lo gettarono in una tomba nascosta.»

Penkawr distolse lo sguardo, e disse:

«Io non so nulla di tombe nascoste.»

«Tu menti,» gli disse Carse, con voce sommessa. «Tu hai trovato la Tomba di Rhiannon, perché altrimenti non avresti potuto trovare la spada. Tu sei riuscito a scoprire, chissà come, la chiave della più antica leggenda sacra di Marte. Perfino le pietre di quel luogo valgono il loro peso in oro, agli occhi delle persone giuste.»

«Non ho trovato nessuna tomba,» insisté Penkawr, cupamente. Poi si affrettò ad aggiungere, «Però la spada, da sola, ha un valore immenso. Non oso venderla… quei lupi di Jekkara me la strapperebbero di mano, se solo la vedessero. Ma tu puoi venderla, Carse.» Il ladruncolo era scosso da un brivido, tanta era la sua bramosia. «Tu puoi portarla di nascosto a Kahora, e venderla a qualche terrestre, pronto a dare in cambio una fortuna.»

«E lo farò,» assentì Carse. «Prima, però, prenderemo gli altri oggetti che si trovano in quella tomba.»

Il volto di Penkawr era coperto di sudore, e la sua espressione tradiva un’intima sofferenza, un’intensità di dolore che si mescolava alla bramosia e alla paura. Carse vide succedersi sul volto del ladro dei sentimenti contrastanti, vide le sue labbra tremare, per un momento, ma poi il piccolo marziano bisbigliò, dopo un lungo silenzio:

«Accontentati della spada, Carse. È sufficiente.»

Carse capì che il tormento di Penkawr era provocato dal conflitto tra la cupidigia e la paura. E non si trattava della paura dei Jekkariani, ma di un’altra paura… una paura oscura e terribile, un terrore che doveva essere immenso e potente, per vincere perfino la cupidigia di Penkawr.

Carse imprecò, con disprezzo.

«Hai paura del Maledetto? Hai paura di un’antica leggenda, che il tempo ha intessuto intorno alla figura di un vecchio re, che da un milione di anni non è che uno spettro?» Rise, e mosse la spada, facendola scintillare alla luce rossastra della lampada. «Non temere, piccolo. Terrò a bada io i fantasmi. Pensa al denaro. Potrai avere un palazzo tutto per te, con cento adorabili schiave, pronte a farti felice a ogni tuo gesto.»

Vide ancora una volta la paura combattere con la cupidigia, sul viso del marziano.

«Laggiù ho visto qualcosa, Carse. Qualcosa che mi ia spaventato. Non so perché.»

La cupidigia vinse la sua battaglia. Penkawr si passò la lingua sulle labbra aride.

«Ma forse, come tu dici, è soltanto una leggenda. E laggiù ci sono dei tesori… perfino la metà che mi spetta basterà a rendermi ricco, al di là di ogni immaginazione!»

«La metà?» ripeté Carse, in tono ingannevolmente dolce. «Ti sbagli, Penkawr. Ti toccherà un terzo.»

Il viso del marziano si contrasse per l’ira, ed egli balzò in piedi, furibondo.

«Ma tu dimentichi che sono stato io a scoprire la Tomba! È stato merito mio!»

Carse si strinse nelle spalle.

«Se non accetti le mie condizioni, tieni per te il segreto. Tienilo… finché i tuoi ’fratelli’ di Jekkara te lo strapperanno con le pinze roventi, quando io avrò detto loro ciò che hai trovato.»

«Tu saresti capace di fare questo?» esclamò Penkawr, quasi soffocando per l’incredulità e la collera. «Saresti capace di raccontarlo, sapendo che mi uccideranno, per strapparmi il segreto?»

Il piccolo ladro fissò, con rabbia impotente, l’alta figura di Carse, che si ergeva nell’alone rossigno della lampada con la spada tra le mani, il mantello che gli scendeva dalle spalle nude, il coltello e la cintura sfolgoranti di gioielli, bottino strappato alla tomba di qualche antico re dimenticato. Non c’era alcuna dolcezza, in Carse. Né alcuna pietà. I deserti e il sole di Marte, con il loro freddo e il loro calore e le loro fatiche, con la fame e la sete e gli stenti e i pericoli senza numero e senza nome, avevano tolto al suo corpo e al suo spirito ogni fardello di debolezza, di grasso e di pietà, lasciando soltanto i muscoli ferrei e l’ancor più ferrea determinazione che ardeva nel suo sguardo.

Penkawr guardò il terrestre, e rabbrividì.

«Va bene, Carse,» disse. «Ti porterò alla tomba… per un terzo.»

Carse annuì, e sorrise.

«Lo sapevo che avresti accettato.»

Due ore dopo, essi cavalcavano sulle oscure colline consumate dal tempo, che s’innalzavano dietro Jekkara, e dietro il fondo del mare che era diventato polvere.

Era molto tardi, ormai, ed era un’ora che Carse amava, perché gli sembrava che allora Marte desse l’immagine più vera di sé, che rivelasse la sua essenza, senza veli e senza sfumature. A quell’ora il pianeta gli ricordava un vecchio, vecchissimo guerriero, avvolto in un nero mantello, con una spada spezzata tra le mani, intento a sognare i sogni della vecchiaia, quei sogni che sono tanto vicini alla realtà, e a ricordare l’eco squillante delle trombe, e le risate e la potenza e la gioia di un’età più giovane, perduta in tutto, se non nel ricordo.

La polvere delle antiche colline sussurrava al soffio del vento eterno suscitato da Fobos, e le stelle splendevano fredde, grappoli di stelle sfolgoranti di una luce di ghiaccio in un cielo nero e immenso. Le luci di Jekkara, e la grande desolazione nera e cupa del fondo del mare morto, si stendevano ora lontanissime, sotto di loro. Penkawr guidava il loro cammino, su per le gole ripide e le balze dirupate, mentre le loro strane cavalcature trovavano la strada con sorprendente agilità su quel terreno insidioso e scosceso.

«Ecco come ho trovato il posto,» disse Penkawr. «Mi trovavo su un pendio, quando la mia bestia si spezzò una zampa, incespicando in un buco… e la sabbia, precipitando all’interno, smossa dall’incidente, allargò il buco. E sotto c’era la tomba, scavata nella roccia del dirupo. Ma l’entrata era ostruita, quando l’ho scoperta.» Si voltò, sul dorso della sua bizzarra cavalcatura, e guardò Carse, con i suoi occhi gialli, malevoli. «Sono stato io a trovare la tomba,» ripeté. «E ancora non capisco per quale motivo dovrei concederti le parti del leone.»

«Perché io sono il leone,» disse Carse, allegramente.

Fece qualche gesto con la spada, affondando i fendenti nell’aria, provando la flessibilità dell’arma con rapide torsioni del polso, mentre le stelle di ghiaccio si riflettevano scintillando sulla lama, traendone vaghi, soffusi bagliori. Gli batteva il cuore, per l’eccitazione, e si trattava dell’eccitazione dell’archeologo, e non solo di quella del predone.

Lui conosceva molto più di Penkawr la vera importanza della scoperta. La storia marziana era così incredibilmente antica, che percorrendo a ritroso il fiume del tempo essa impallidiva, svaniva in una nebbia confusa, dalla quale solo vaghe leggende erano giunte… leggende che parlavano di razze umane e semi-umane, di guerre dimenticate, di dei scomparsi.

I più grandi tra tutti gli dei erano stati i Quiru, eroi umani e sovrumani a un tempo, depositari di tutta la sapienza e di tutta la potenza. Ma c’era stato un ribelle, tra loro… l’oscuro Rhiannon, il Maledetto, il cui orgoglio peccaminoso aveva provocato una misteriosa catastrofe.

I Quiru, dicevano i miti, avevano schiacciato Rhiannon per quel peccato, e per punirlo l’avevano rinchiuso in una tomba nascosta. E per oltre un milione di anni gli uomini avevano cercato la Tomba di Rhiannon, pensando che i segreti della potenza di Rhiannon fossero nascosti in essa.

Carse era uno studioso troppo profondo di archeologia per poter prendere troppo sul serio le antiche leggende. Però egli credeva nell’esistenza di una tomba incredibilmente antica, una tomba che aveva generato tutti quei miti. E poiché doveva trattarsi della reliquia più antica esistente su Marte, la sua scoperta e le cose che essa conteneva, avrebbero certamente fatto di Matthew Carse l’uòmo più ricco dei tre pianeti… se fosse vissuto per godere il frutto della sua scoperta.

«Da questa parte,» disse Penkawr, spezzando improvvisamente il silenzio. Il ladro aveva cavalcato per molto tempo in silenzio, immerso nei suoi pensieri, con il volto cupo e ostile.

Ormai si trovavano sulle colline più alte, dietro Jekkara, e la città era lontana. Carse seguì il ladro lungo uno stretto costone roccioso, sul fianco di un dirupo ripidissimo.

Perkawr scese di sella, e fece rotolare da un lato un grosso masso, rivelando così un’apertura nella roccia, ampia quanto bastava perché un uomo vi si potesse introdurre strisciando.

«Entra tu per primo,» disse Carse. «Prendi la lampada.»

Con palese riluttanza, Penkawr obbedì, e Carse lo seguì nell’angusta tana.

Dapprima agli occhi di Carse si presentò soltanto un compatto, denso muro di tenebre, nel quale l’alone rossigno della lampada a cripton penetrava solo per un breve tratto, senza violare, in realtà, quel misterioso manto di oscurità. Penkawr continuava ad avanzare, strisciando, circospetto come uno sciacallo impaurito.

Spazientito, Carse gli strappò di mano la lampada, e la tenne alta. Dopo essere penetrati nello stretto pertugio, erano passati in un corridoio che s’inoltrava diritto nelle viscere della montagna; era quadrato e disadorno, e le pareti di pietra erano mirabilmente levigate. Rialzandosi, Carse s’incamminò lungo quel corridoio tenebroso, inoltrandosi nella montagna, seguito da Penkawr.

Il corridoio sfociava in una vasta camera. Anch’essa era quadrata, e, per quello che Carse poteva vedere, le sue pareti erano levigate e perfette come quelle del corridoio. C’era un palco, a un’estremità, con un altare di marmo sul quale era scolpito lo stesso simbolo che appariva sull’elsa della spada… l’oroborus, in forma di serpente alato. Ma il circolo era spezzato, poiché la testa del serpente era ritta, come se avesse voluto fissare un nuovo e misterioso infinito.

La voce di Penkawr giunse, in un roco sussurro, dal circolo di luce rossigna alle spalle di Carse.

«È qui che ho trovato la spada. Ci sono altre cose, nella camera, ma non le ho toccate.»

Carse aveva già notato degli oggetti che scintillavano pallidi nelle tenebre. Assicurò la lampada alla cintura, e si fece avanti, per esaminarli meglio.

Davanti ai suoi occhi apparve un tesoro incalcolabile… il suo tesoro! C’erano superbe armature, uscite dalle fucine di incomparabili maestri d’armi, ornate di blasoni fatti di gioielli mai visti; c’erano degli elmi di strana forma, forgiati con sconosciuti metalli rilucenti, che scintillavano di misteriose fiammelle ulteriori nel chiarore velato della lampada rossastra. C’era un seggio d’oro massiccio, forse un trono, con fantastici intarsi di un metallo brunito, e che su ciascun bracciolo era ornato di un’enorme gemma fulva, che raccoglieva il chiarore della lampada e lo scomponeva in mille e mille guizzi di purissimo fuoco, aggiungendo splendore allo splendore.

E Carse si rese conto che tutte queste cose dovevano essere incredibilmente antiche. Uscivano dalla polverosa storia del rosso pianeta morente, e dovevano provenire dagli angoli più remoti di Marte.

«Affrettiamoci!» lo esortò Penkawr, in tono supplichevole.

Carse si riscosse, e sorrise della propria debolezza: per un momento lo studioso che era in lui aveva sopraffatto il predone.

«Porteremo via tutto quello che potremo, scegliendo i monili più piccoli,» disse. «Basterà questo primo carico a renderci ricchissimi.»

«Ma tu sarai due volte più ricco di me,» disse Penkawr, in tono astioso. «Avrei potuto rivelare il mio segreto a un terrestre di Barrakesh, e lui avrebbe accettato di vendere tutti questi oggetti, lasciandomi la metà del ricavato.»

Carse si mise a ridere.

«Certo, avresti potuto farlo, Penkawr. Ma hai voluto chiedere l’aiuto di un famoso esperto, e sai bene che gli esperti si fanno pagare cari, per i loro servigi.»

Aveva terminato di fare il giro della camera, ed era ritornato vicino all’altare. E in quel momento notò, per la prima volta, che dietro a esso si trovava una porta. Vi entrò, e Penkawr, riluttante, lo seguì.

Oltre la soglia c’era un breve passaggio, in fondo al quale si trovava un’altra porta di metallo, piccola, e chiusa da pesanti sbarre. Ma le sbarre erano state sollevate, e ora la porta era lievemente socchiusa, una fessura di pochi centimetri. Sopra lo stipite c’era un’iscrizione, vergata negli antichi caratteri dell’Alto Marziano, rimasti immutati e immutabili attraverso i millenni. Carse lesse con facilità la scritta.

«La condanna di Rhiannon, imposta su di lui per l’eternità dai Quiru, signori dello spazio e del tempo.»

Carse spinse la porta di metallo, e varcò la soglia. E subito si fermò, sorpreso, rimase immobile, con lo sguardo fisso davanti a sé.

Oltre la soglia si apriva una grande camera di pietra, uguale a quella che avevano appena lasciato.

Ma non c’erano oggetti, in quella nuova camera. Non c’erano troni d’oro e diademi e armature e monili.

In quella camera c’era soltanto una cosa.

Era una grande bolla di tenebre. Un’immensa, cupa sfera di oscuri Là vibrante, nella quale si muovevano minuscole particelle corrusche, luminose, che somigliavano a stelle cadenti viste da un altro mondo. E da quella mostruosa bolla di oscurità vibrante perfino la luce della lampada pareva ritirarsi, impaurita, cercando rifugio nelle accoglienti, familiari tenebre del breve corridoio e della soglia.

Qualcosa fece tremare Carse, qualcosa che era forse timore, superstizione, o forse una strana forza puramente fisica. Il corpo del terrestre sussiiltò, percorso da un innaturale, vibrante brivido di freddo. Sentì che i capelli, e tutti i peli del suo corpo, formicolavano, come se fosse stato al cospetto di qualche potente corrente elettrica; gli parve che la mente stessa affondasse per un istante in un gorgo oscuro, freddo e tenebroso e occulto, e il freddo innaturale gli penetrò perfino nelle ossa. Cercò di parlare, e non vi riuscì, perché aveva la gola serrata da un nodo di tensione e di ansia.

«Questa è la cosa di cui ti ho parlato,» bisbigliò Penkawr. «Questa è la cosa che ti ho detto di aver visto.»

Carse lo udì appena. Una congettura, un’ipotesi, così enorme che era impossibile afferrarla, gli aveva scosso in quell’istante la mente. L’estasi dello scienziato era sopra di lui, quell’estasi prodigiosa della scoperta che è tanto vicina alla follia.

Quella bolla cupa, palpitante, di tenebre… era stranamente simile alla tenebrosità di quelle nere macchie vuote, agli estremi confini della galassia, quei buchi neri nel cosmo che, secondo alcuni scienziati particolarmente audaci, sarebbero buchi nel continuum dello spazio-tempo, misteriose finestre sull’infinito al di fuori del nostro universo.

Era un concetto incredibile, certo, eppure c’era stata quella misteriosa, enigmatica iscrizione Quiru.,. affascinato dalla cupa bolla palpitante, malgrado l’aura di pericolo che si sprigionava da essa, Carse mosse due passi avanti.

Udì alle sue spalle lo scalpiccio dei sandali sul pavimento di pietra, il fruscio dei piedi di Penkawr che si muovevano veloci. Carse capì istantaneamente di avere commesso un errore, voltando le spalle al piccolo marziano deluso e astioso. Cominciò a voltarsi, sollevando, nel medesimo tempo, la lunga spada.

Prima ancora che Carse avesse potuto completare il movimento, sentì la spinta subitanea, brutale, delle mani di Penkawr contro la sua schiena. Senza alcuna possibilità di reagire, Carse si sentì sospinto verso quella minacciosa oscurità.

Avvertì un urto pauroso, violento, che si ripercosse in ogni atomo del suo corpo, e poi gli parve che il mondo precipitasse intorno a lui, sotto di lui, allontanandosi e svanendo nel nulla.

«Va a condividere la condanna di Rhiannon, terrestre! Ti avevo detto che avrei potuto trovare un altro socio!»

Il grido beffardo, crudele, di Penkawr, gli giunse da un’immensa distanza, mentre già egli stava precipitando in un nero infinito senza fondo.

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