Robert Silverberg La strada del crepuscolo

Il cane ringhiò e corse in avanti. Katterson osservò i due uomini magri dagli occhi fiammeggianti che si lanciavano all’inseguimento, e si sentì pervaso da un senso di orrore che lo tenne inchiodato al suolo. Improvvisamente il cane balzò al di là di un mucchio di pietrisco e scomparve; i suoi inseguitori si lasciarono cadere a terra pesantemente, appoggiandosi ai bastoni e cercando di riprendere fiato.

— Diventerà ancora peggio di così — disse un ometto dall’aspetto sudicio apparso dal nulla accanto a Katterson. — Ho sentito che faranno oggi l’annuncio ufficiale, ma è già da un po’ che corre la voce.

— Così dicono — rispose lentamente Katterson. La caccia a cui aveva appena assistito lo teneva ancora paralizzato. — Siamo tutti molto affamati.

I due uomini che avevano dato la caccia al cane si alzarono, ancora senza fiato, e se ne andarono. Katterson e l’ometto osservarono la loro lenta ritirata.

— È la prima volta che vedo qualcuno fare una cosa simile — disse Katterson. — Così, allo scoperto…

— E non sarà l’ultima — rispose l’uomo sudicio. — Meglio farci l’abitudine, ora che non c’è più cibo.

Lo stomaco di Katterson si contrasse dolorosamente. Era vuoto e sarebbe rimasto così fino alla distribuzione serale di cibo. Senza quella razione, non avrebbe saputo come sfamarsi. Lui e l’ometto camminarono lungo le strade silenziose, superando cumuli di macerie e vagando senza meta.

— Mi chiamo Paul Katterson — disse poi. — Abito nella Quarantasettesima. Sono stato congedato dall’esercito l’anno scorso.

— Oh, sei uno di quelli — disse l’ometto. Svoltarono lungo la Quindicesima. La strada era una completa desolazione; non c’era un solo edificio d’anteguerra ancora in piedi, e poche tende malconce sorgevano all’estremità della strada. — Hai trovato lavoro da quando sei stato congedato?

— Ma che bella barzelletta! Raccontamene un’altra! — rise Katterson.

— Lo so. Tempi duri. Mi chiamo Malory, sono un commerciante.

— In che cosa commerci?

— Oh… prodotti utili.

Katterson annuì. Evidentemente Malory non voleva che insistesse sull’argomento, e quindi lasciò perdere. I due uomini proseguirono in silenzio, l’uno grosso e l’altro minuto, e Katterson non riusciva a pensare ad altro che al suo stomaco vuoto. Poi il pensiero gli corse di nuovo alla scena a cui aveva assistito pochi minuti prima, i due uomini affamati che rincorrevano un cane. Ci si era arrivati così presto? si chiese Katterson. Che cosa sarebbe successo se il cibo fosse divenuto ancora più scarso fino a scomparire del tutto?

Ma l’ometto stava indicando un punto davanti a loro. — Guarda — disse. — Un raduno a Union Square.

Ketterson strizzò gli occhi e vide una folla che andava radunandosi intorno ad una piattaforma riservata agli annunci pubblici. Accelerò il passo, obbligando Malory ad arrancare faticosamente.

Un giovane con l’uniforme militare era salito sulla piattaforma e fissava impassibile la folla. Katterson guardò la jeep lì accanto e automaticamente notò che era il modello 2036, il più recente, vecchio di soli diciotto anni. Dopo pochi minuti il soldato sollevò una mano per ottenere il silenzio e parlò con voce fredda e controllata.

— Amici Newyorkesi, devo fare un annuncio ufficiale del Governo. È arrivata notizia dall’Oasi di Trenton…

La folla cominciò a rumoreggiare. Sembrava che già sapessero quello che sarebbe seguito.

— È appena arrivata notizia dall’Oasi di Trenton che, a causa della recente situazione di emergenza, tutti i rifornimenti alimentari per New York e dintorni saranno temporaneamente sospesi. Ripeto: a causa di una improvvisa emergenza nell’Oasi di Trenton, tutti i rifornimenti alimentari per New York e dintorni saranno temporaneamente sospesi.

Il mormorio della folla assunse toni rabbiosi, e ciascuno commentò aspramente la piega che avevano preso gli avvenimenti. Non era certo una notizia inaspettata; da parecchio tempo Trenton voleva scrollarsi di dosso il peso di dover sfamare una New York devastata dalle bombe, e la recente inondazione era una buona opportunità per liberarsi di quella responsabilità. Katterson rimase in silenzio, torreggiando su quelli che gli stavano intorno, incapace di credere a quello che aveva udito. Sembrava che volesse starsene in disparte, quasi assente, mentre osservava l’atteggiamento del soldato sulla piattaforma, contava le mostrine, pensando a tutto tranne che alle implicazioni dell’annuncio, e cercando di combattere la fame crescente.

L’uomo in uniforme aveva ripreso a parlare: — Ho anche un messaggio del governatore di New York, il generale Halloway: egli afferma che sono stati fatti dei tentativi per ripristinare i rifornimenti di cibo per la città, e che alcuni messaggeri sono stati inviati all’Oasi di Baltimora per assicurarsi altre forniture. Nel frattempo, la distribuzione di cibo da parte del Governo da questa sera non viene più garantita fino a nuovo ordine. Questo è tutto.

Il soldato scese agilmente dalla piattaforma e si fece strada tra la folla fino alla jeep. Vi salì rapidamente e mise in moto. Era ovviamente un uomo importante, decise Katterson, dato che jeep e carburante erano piuttosto rari, e non venivano usati alla leggera da chiunque.

Katterson rimase dov’era e volse lentamente il capo per guardare la gente che lo circondava: piccoli scheletri magri, famelici, e quasi tutti sembravano invidiare segretamente la sua corporatura gigantesca. Un uomo emaciato con gli occhi infuocati ed un naso adunco aveva radunato una piccola folla intorno a sé e stava tenendo una specie di arringa. Katterson lo conosceva, si chiamava Emerich ed era il capo della colonia che viveva nella stazione abbandonata della metropolitana della Quattordicesima Strada. Istintivamente Katterson si avvicinò per sentire e Malory lo seguì.

— È tutto un complotto! — stava gridando l’uomo emaciato. — Parlano di una emergenza a Trenton! Quale emergenza? Io vi chiedo: quale emergenza? L’inondazione non li ha danneggiati. Vogliono semplicemente toglierci di mezzo affamandoci, ecco come stanno le cose! E noi che cosa possiamo fare? Niente. Trenton sa che non riusciremo mai a ricostruire New York e vuole liberarsi di noi, così ci taglia i viveri.

A quel punto, tutta la folla si era radunata intorno a lui. Emerich era conosciuto; la gente gridava il suo assenso, sottolineando il suo discorso con applausi convinti.

— Ma noi moriremo di fame? No, non moriremo!

— Giusto, Emerich! — urlò un uomo tarchiato con la barba.

— No — continuò Emerich, — gli faremo vedere cosa siamo capaci di fare. Raccoglieremo ogni briciola di cibo che riusciremo a trovare, ogni filo d’erba, ogni animale e ogni pezzo di suola da scarpe. E sopravviveremo, proprio come siamo sopravvissuti al blocco e alla carestia del ’47 e a tutto il resto. E uno di questi giorni andremo a Trenton e… e… e li arrostiremo vivi!

Ruggiti di approvazione riempirono l’aria. Katterson si volse e si aprì la strada attraverso la folla, pensando ai due uomini e al cane, e si allontanò senza voltarsi indietro. Si diresse verso la Quarta Avenue finché non udì più il rumore della folla ad Union Square e si sedette su di un ammasso di travi contorte che una volta erano state il Monumento di Carden.

Si prese la testa fra le mani e si mise a sedere. Gli avvenimenti del pomeriggio lo avevano intontito. Per quanto riuscisse a ricordare il cibo era sempre stato scarso: i ventiquattro anni di guerra con gli Sferisti avevano esaurito tutte le risorse della nazione. La guerra si era trascinata per lungo tempo. Dopo la prima ondata di bombardamenti era diventata una guerra di logoramento, che aveva lentamente eroso le opposte sfere.

In qualche modo Katterson era diventato grande e grosso con pochissimo cibo e svettava sugli altri dovunque andasse. La generazione di americani a cui apparteneva non era certo formata da uomini alti e robusti: i bambini nascevano denutriti, deboli e con la pelle avvizzita. Ma lui era grosso ed aveva avuto la fortuna di entrare a far parte dell’esercito. Almeno aveva mangiato regolarmente.

Katterson diede un calcio ad un pezzetto di metallo e vide il piccolo Malory che veniva verso di lui dalla Quarta Avenue. Katterson rise fra sé, ricordando i giorni passati nell’esercito. Aveva passato tutta la sua vita da adulto indossando l’uniforme, e con i privilegi del soldato. Ma era stato troppo bello per durare: due anni prima, nel 2052, la guerra era arrivata ad un punto morto, con entrambi gli emisferi logorati fino all’osso, e quasi tutto l’esercito era stato smobilitato all’improvviso e rimandato alla vita civile. Lui era stato scaricato a New York, solo e abbandonato.

— Andiamo a farci una caccia al cane — disse Malory con un sorriso mentre si avvicinava.

— Stai attento a quello che dici, amico. Potrei anche mangiarti se mi venisse abbastanza fame.

— Eh? Pensavo che fossi sconvolto dalla sola vista di due uomini che danno la caccia ad un cane.

Katterson sollevò lo sguardo. — Lo ero — disse. — Siediti o vattene, ma non fare dello spirito — borbottò. Malory si lasciò cadere sulle macerie accanto a Katterson.

— La vedo brutta — disse Malory.

— Già — rispose Katterson. — Non ho mangiato niente in tutto il giorno.

— E perché? Ieri sera c’è stata una normale distribuzione di cibo e ce ne sarà un’altra questa sera.

— Eh, magari — disse Katterson. Il giorno stava morendo e le ombre della sera calavano rapidamente. Nella luce del crepuscolo New York in rovina aveva un aspetto magico: le travi contorte e gli edifici diroccati sembravano fantasmi di giganti morti da lungo tempo.

— Avrai ancora più fame domani — disse Malory. — Non ci saranno più distribuzioni di cibo, mai più.

— Non ricordarmelo, amico.

— Sono nel ramo delle forniture alimentari, io — disse Malory, mentre un debole sorriso gli aleggiava sulle labbra.

Katterson sollevò la testa di scatto. — Stai di nuovo scherzando?

— No, — replicò in fretta Malory. Scarabocchiò il suo indirizzo su di un pezzo di carta e lo diede a Katterson. — Ecco. Passa da me ogni volta che avrai davvero fame. E… di’, sei un tipo piuttosto grosso, vero? Potrei anche avere del lavoro per te, visto che dici di non avere un impiego.

Una vaga idea colpì Katterson. Si voltò verso l’ometto e lo fissò.

— Che genere di lavoro?

Malory impallidì. — Oh, mi servono uomini robusti che mi procurino il cibo. Tu lo sai — sussurrò.

Katterson si sporse in avanti e afferrò l’ometto per le spalle magre. Malory trasalì. — Sì, lo so — ripeté adagio Katterson. — Dimmi, Malory, — chiese, — che genere di cibo vendi?

Malory sembrò imbarazzato. — Ma… ma… senti, volevo solo aiutarti e…

— Piantala — Katterson si alzò lentamente senza abbandonare la presa. Malory si ritrovò in piedi contro la sua volontà. — Sei nel commercio della carne, vero Malory? Che genere di carne vendi?

Malory cercò di liberarsi. Katterson lo colpì con disprezzo e lo mandò lungo disteso su un mucchio di pietre. Malory rotolò via, gli occhi dilatati dalla paura, e si lanciò di corsa lungo la Tredicesima Strada immersa nell’oscurità. Katterson rimase a lungo immobile ad osservare la sua fuga, ansimando e rifiutandosi di pensare all’accaduto. Poi piegò il pezzo di carta con l’indirizzo di Malory, lo mise in tasca e si incamminò, ancora stordito.


Barbara lo stava aspettando quando lui suonò il campanello del suo appartamento nella Quarantasettesima Strada, un’ora più tardi.

— Suppongo che tu abbia sentito le notizie — gli disse lei non appena ebbe varcato la soglia. — Un tenente tutto azzimato ha dato l’annuncio in strada. Ho già preso la nostra razione per questa sera ed è l’ultima. Ehi, c’è qualcosa che non va? — lo guardò preoccupata mentre lui si lasciava cadere su una sedia senza parlare.

— Niente, piccola. Solo, ho fame… e un po’ di mal di stomaco.

— Dove sei stato oggi? Di nuovo sulla Piazza?

— Sì. La mia solita passeggiata del giovedì pomeriggio che si è tramutata in un piacevole picnic. Prima ho visto due uomini che davano la caccia ad un cane… non potevano essere più affamati di me, eppure inseguivano quella povera bestia macilenta. Poi quel tenente ha fatto l’annuncio riguardo al cibo. E infine un lurido spacciatore di carne ha cercato di vendermi della «merce» e di darmi un lavoro.

La ragazza trattenne il fiato. — Un lavoro? Carne? Che cosa è successo? Oh, Paul…

— Smettila — le disse Katterson. — L’ho fatto cadere lungo e disteso ed è scappato con la coda fra le gambe. Lo sai che cosa vendeva? Lo sai che genere di carne voleva che mangiassi?

Lei abbassò gli occhi. — Sì, Paul.

— E il lavoro che voleva darmi… ha visto che sono un tipo robusto, così voleva che diventassi un suo fornitore. Avrei dovuto andare a caccia di notte. Alla ricerca di sbandati da mettere fuori combattimento per trasformarli in bistecche il giorno dopo.

— Ma siamo così affamati, Paul… quando si ha fame quella è la cosa più importante.

Che cosa? — la sua voce era il muggito di un toro oltraggiato. — Che cosa? Tu non sai quello che stai dicendo, donna. Mangia prima di uscire completamente di senno. Troverò un altro modo per ottenere del cibo, ma non mi trasformerò in un maledetto cannibale. Niente carne umana per Paul Katterson.

Lei non disse nulla. La luce sul soffitto cominciò a tremolare.

— Si avvicina l’ora dell’oscuramento. Prendi le candele, se non hai sonno — disse. Non aveva un orologio, ma il tremolio della luce era il segnale che si stavano avvicinando le otto e mezza. Tutte le sere a quell’ora l’elettricità veniva interrotta in tutte le zone residenziali tranne in quelle con uno speciale permesso fuori quota.

Barbara accese una candela.

— Paul, Padre Kennon è di nuovo stato qui, oggi.

— Gli avevo detto di non farsi più vedere — disse Katterson dall’oscurità del suo angolo.

— Lui pensa che dovremmo sposarci, Paul.

— Non ricominciamo. Ti ho già detto troppe volte che non voglio la responsabilità di due bocche da sfamare quando non sono capace di riempire nemmeno il mio, di stomaco. È meglio così… ognuno per sé.

— Ma i bambini, Paul…

— Sei impazzita, questa notte? — esplose lui. — Avresti il coraggio di far nascere un bambino in questo mondo? Soprattutto adesso che abbiamo perso il cibo dell’Oasi di Trenton? Ti vorresti divertire a guardarlo morire lentamente di fame in mezzo a queste macerie e a questa sporcizia, o magari vederlo crescere per trasformarsi in un piccolo scheletro dalle guance incavate? Forse tu lo faresti. Io non credo proprio di volerlo.

Tacque. Lei lo guardava, singhiozzando piano.

— Siamo morti, tu ed io — disse alla fine. — Non vogliamo ammetterlo, ma siamo morti. Tutto questo mondo è morto… abbiamo passato gli ultimi trent’anni a suicidarci. Non ho molti ricordi del passato, al contrario di te, ma ho letto alcuni vecchi libri che parlavano di come era nuova, pulita e splendente questa città prima della guerra. La guerra! Per tutta la mia vita non c’è stato altro che la guerra, senza mai sapere contro chi stavamo combattendo e perché. Semplicemente, il mondo cadeva a pezzi senza alcuna ragione.

— Piantala, Barbara — disse Katterson. Ma lei continuò con voce monotona. — Dicono che una volta l’America si estendesse da costa a cosa, senza essere divisa in piccole strisce di terra separate da fasce radioattive inabitabili. E c’erano fattorie e cibo, laghi e fiumi, e gli uomini viaggiavano in aereo da un luogo all’altro. Perché è dovuto succedere tutto questo? Perché siamo tutti morti? Cosa faremo ora, Paul?

— Non lo so, Barbara. Credo che non lo sappia nessuno. — Stancamente soffiò sulla candela e l’oscurità avvolse completamente la stanza.


Chissà come si era ritrovato a vagare nei pressi di Union Square ed era fermo nella Quattordicesima, dondolandosi lentamente sulla punta dei piedi, e sperimentando quella sensazione di vertigine che è il primo sintomo della morte per inedia. C’era poca gente per le strade, e tutti procedevano speditamente con sguardo cupo. Il sole splendeva alto nel cielo.

Le sue riflessioni vennero interrotte dal suono di grida concitate e dall’insolito rumore di gente che correva. Il suo addestramento militare gli suggerì di tuffarsi in un fosso lì accanto e di tenersi nascosto, domandandosi che cosa stesse succedendo.

Un attimo dopo, si sporse a guardare. Quattro uomini, tutti grossi come Katterson, avanzavano lungo la strada ora deserta. Uno di essi trascinava un sacco.

— Eccone una — gridò rauco l’uomo con il sacco. Guardò incredulo i quattro uomini che avevano scovato una ragazza acquattata in un edificio diroccato.

Era una creatura pallida, magra, dall’aspetto disfatto, di forse vent’anni, che in un altro mondo avrebbe potuto essere attraente. Ma le sue guance erano scarne e ruvide, gli occhi opachi e spenti, e le braccia ossute ed angolose.

Mentre quelli si avvicinavano, lei indietreggiò, imprecando in segno di sfida e pronta a difendersi. Non capisce, pensò Katterson, crede che vogliano attaccarla.

Il sudore gli colò lungo il corpo e si costrinse a guardare, trattenendosi dal balzare fuori dal proprio nascondiglio. I quattro predoni si avvicinarono alla ragazza. Lei sputò, cercando di colpire con una mano simile ad un artiglio.

Loro sogghignarono e la afferrarono per il braccio. Il grido di lei improvvisamente divenne acutissimo mentre quelli la trascinavano allo scoperto. Un coltello brillò: Katterson digrignò i denti, trasalendo, mentre vide la lama andare a segno.

— Nel sacco, Charlie — disse una voce aspra.

Katterson fumava di rabbia. Era la prima volta che vedeva i macellai di Malory (almeno credeva che fossero della banda di Malory). Sentendo il coltello premergli contro il fianco, nel fodero, provò l’impulso di attaccare i quattro cacciatori di carne, ma poi, ritornando lucido, si lasciò di nuovo cadere nel fosso.

Così presto? Katterson sapeva che il cannibalismo si era andato lentamente diffondendo in una New York che moriva di fame già da molti anni, e che pochi cadaveri raggiungevano le loro tombe, ma questa era la prima volta che gli capitava di vedere dei razziatori braccare un essere umano per ucciderlo allo scopo di procurarsi del cibo. Rabbrividì per il disgusto. La lotta per la vita era cominciata, allora.

I quattro predatori scomparvero in direzione della Terza Avenue, e Katterson si alzò cautamente dal fosso, lanciando un’occhiata circospetta tutt’intorno e si avventurò all’aperto. Doveva stare attento: un uomo della sua taglia significava carne per parecchi mesi.

Altra gente stava uscendo dagli edifici, ora, ed ognuno aveva sul viso la stessa espressione di orrore. Katterson guardò quegli scheletri ambulanti che vagavano con aria stranita, alcuni in preda ai singhiozzi, altri ormai incapaci persino di piangere. Furioso, strinse i pugni, bruciando dal desiderio di soffocare il suo crescente malessere, pur sapendo che era impossibile.

Un uomo alto e magro, con i lineamenti cesellati, era salito sulla piattaforma dell’oratore. La sua voce era soffocata dalla rabbia.

— Fratelli, ora è tutto chiaro. Gli uomini si sono allontanati dalle vie del Signore, e Satana li ha condotti alla distruzione. Proprio ora avete visto con i vostri occhi quattro delle Sue creature distruggere un proprio simile per il cibo… il più terribile di tutti i peccati.

«Fratelli, il nostro tempo sulla Terra è quasi compiuto. Io sono vecchio, ricordo i giorni prima della guerra e, anche se qualcuno di voi non mi crederà, ricordo i giorni in cui c’era cibo per tutti, in cui tutti avevano un lavoro, e questi edifici diroccati erano alti, splendenti e si stendevano a perdita d’occhio, ed i cieli erano pieni di aerei a reazione. Nella mia giovinezza ho viaggiato per tutto il paese, fino al Pacifico. Ma la guerra ha messo fine a tutto questo e la Mano di Dio è su di noi. La nostra ora è giunta, e presto avremo la nostra ricompensa.

«Andate incontro al Signore e che le vostre mani non siano sporche di sangue, Fratelli. Quei quattro uomini che avete visto oggi bruceranno per l’eternità a causa del loro crimine. Chiunque mangi la carne sacrilega che essi hanno macellato oggi, brucerà con loro nell’Inferno. Ma ascoltatemi, fratelli, ascoltatemi! A quelli di voi che ancora non sono perduti, io dico: salvatevi! Meglio restare senza cibo, come molti di voi stanno facendo, che contaminarsi con questo nuovo genere di cibo, la carne più preziosa di tutte.

Katterson osservò la gente intorno a lui. Voleva porre fine a tutto questo: ebbe la visione di una crociata per il cibo, di una campagna contro il cannibalismo, con bandiere che sventolavano, tamburi che rullavano e lui stesso a capo della lotta. Qualcuno si era fermato ad ascoltare il vecchio predicatore e altri si erano allontanati. Qualcuno sorrideva, facendo commenti derisori all’indirizzo del vecchio, ma lui li ignorava.

— Ascoltatemi! Ascoltatemi prima di andarvene. Siamo tutti condannati comunque: il Signore ce lo indica chiaramente. Ma pensate, gente: questo mondo finirà presto, ed uno più grande verrà. Non rinunciate alla possibilità della vita eterna, fratelli! Non vendete la vostra anima immortale per un morso di carne corrotta!

La folla era sempre meno numerosa, notò Katterson. Si stava disperdendo in fretta e la gente si defilava e spariva. Il predicatore continuava a parlare. Katterson si alzò in punta di piedi e si voltò per guardare verso est, al di là della folla. Lasciò vagare lo sguardo per un momento e poi egli impallidì. Quattro figure sinistre percorrevano la strada con passo deciso.

Quasi tutti le avevano viste. Camminavano fianco a fianco al centro della strada, con il più alto che reggeva il sacco. La gente spariva rapidamente in tutte le direzioni e quando i quattro giunsero all’angolo della Quattordicesima con la Quarta Avenue, vicino alla piattaforma erano rimasti solo Katterson ed il predicatore.

— Vedo che sei rimasto solo tu, giovanotto. Sei già corrotto o fai ancora parte del Regno dei Cieli?

Katterson ignorò la domanda. — Vecchio, scendi di lì! — disse brusco. — I predatori stanno ritornando. Avanti, andiamocene prima che arrivino.

— No. Voglio parlare con loro quando saranno qui. Ma tu salvati, giovanotto, salvati finché sei ancora in tempo.

— Ti uccideranno, vecchio sciocco — ribatté duramente Katterson.

— Siamo tutti condannati in un modo o nell’altro, figliolo. Se è giunta la mia ora, io sono pronto.

— Tu sei pazzo — disse Katterson. I quattro erano ora a portata di voce. Katterson guardò un’ultima volta il vecchio e poi si lanciò attraverso la strada ed entrò in un edificio. Si guardò alle spalle e vide che non era stato seguito.

I quattro razziatori raggiunsero la piattaforma, e si misero ad ascoltare il vecchio. Katterson non riusciva a sentire le sue parole, ma vide che agitava le mani mentre parlava. I quattro sembravano ascoltarlo con attenzione. Katterson continuò a fissare la scena. Vide uno dei predatori rivolgersi al vecchio e poi quello che reggeva il sacco si arrampicò sulla piattaforma. Uno degli altri gli lanciò un coltello.

L’urlo fu penetrante. Quando Katterson osò di nuovo guardare, l’uomo alto stava ficcando nel sacco il corpo del predicatore. Katterson chinò il capo. Le trombe del giudizio svanirono in lontananza: capì che la resistenza era impossibile. Una corrente inarrestabile si era messa in moto.


Katterson si trascinò faticosamente fino al suo appartamento. Gli isolati si susseguivano mentre lui metodicamente metteva un piede avanti all’altro, percorrendo le due miglia tra le macerie degli edifici diroccati e deserti. Teneva una mano sul coltello e lanciava sguardi a destra e a sinistra, notando lo scalpiccio furtivo nelle strade laterali, le forme confuse delle persone seminascoste tra le ceneri e le macerie. Quelle quattro figure, tra cui quella con il sacco, sembravano in agguato dietro ogni lampione, in attesa famelica.

Deviò verso Broadway, prendendo una scorciatoia tra ciò che rimaneva del Parker Building. Cinquant’anni prima, il Parker Building era stata la costruzione più alta di tutti l’emisfero occidentale: i muri massicci semidiroccati erano tutto quello che restava. Katterson passò oltre quello che una volta era stato il più maestoso ingresso del mondo e guardò all’interno. Sui gradini esterni sedeva un ragazzino, intento ad addentare un pezzo di carne. Aveva otto o dieci anni; lo stomaco era teso sopra le costole che risaltavano come l’intreccio di un canestro. Soffocando la propria repulsione, Katterson si domandò che genere di carne stesse mangiando il ragazzo.

Proseguì. Mentre attraversava la Quarantaquattresima, un gatto scheletrito gli passò tra le gambe e scomparve oltre un mucchio di ceneri. Katterson pensò alle storie che aveva sentito, a proposito delle Grandi Pianure, dove si diceva che gatti giganteschi scorazzassero liberi e indisturbati, e gli venne l’acquolina in bocca.

Il sole era basso sull’orizzonte, e New York stava lentamente assumendo una sfumatura grigio-nerastra. Ormai il sole del tardo pomeriggio aveva perso tutto il suo splendore; riusciva a malapena ad insinuarsi tra i cumuli di macerie, gettando una luce spettrale sulle rovine di New York. Katterson attraversò la Quarantasettesima e si diresse verso il suo edificio.

Affrontò la lunga arrampicata fino alla sua stanza (l’ascensore era da tempo bloccato, un lusso che ormai era solo un vago ricordo) e cercò nell’oscurità la targhetta della porta. Dall’interno venne una risata, un suono strano per orecchi che non vi erano più abituati, e fu investito da un forte odore di cibo. Cominciò a deglutire convulsamente e si ricordò di quella massa informe e indolenzita che era il suo stomaco.

Katterson aprì la porta. L’odore di cibo riempiva completamente la piccola stanza. Appena entrato, vide Barbara alzare lo sguardo di scatto, bianca in viso. Nella sua sedia c’era un uomo che aveva incontrato un paio di volte, un tipo con pochi capelli ed una folta barba, di nome Heydahl.

— Che cosa succede? — domandò Katterson.

La voce di Barbara era stranamente soffocata. — Paul, tu conosci Olaf Heydahl, vero? Olaf, Paul.

— Che cosa succede? — ribatté Katterson.

— Io e Barbara abbiamo appena fatto una piccola cenetta, signor Katterson — disse Heydahl con voce profonda. — Abbiamo pensato che avrebbe avuto fame, così gliene abbiamo lasciato un po’.

Il profumo era irresistibile e Katterson stava per avere la schiuma alla bocca. Barbara continuava ad asciugarsi il viso con il tovagliolo; Heydahl sembrava a sua agio nella sedia di Katterson.

In tre rapidi passi Katterson raggiunse l’altro lato della stanza ed aprì la porta del cucinino. Sul fornello un piccolo pezzo di carne sfrigolava piano. Katterson guardò la carne e poi Barbara.

— Dove hai presto questo — chiese. — Noi non abbiamo denaro.

— Io… io…

— L’ho portato io — disse piano Heydahl. — Barbara mi aveva detto che eravate a corto di cibo e dal momento che io ne avevo più di quanto mi servisse, ho portato un piccolo regalo.

— Capisco. Un regalo. Niente in cambio?

— Ma signor Katterson! Si ricordi che sono ospite di Barbara.

— Certo, ma lei per favore ricordi che questo appartamento è mio, non di Barbara. Mi dica, Heydahl, che tipo di pagamento si aspetta per questo… questo regalo? E quanto ne ha già avuto in cambio?

Heydahl fece per alzarsi dalla sedia. — Per favore, Paul — disse Barbara in fredda. — Niente guai, Paul. Olaf stava solo cercando di essere gentile.

— Barbara ha ragione, signor Katterson — disse Heydahl conciliante. — Avanti, si serva. Le farà bene, e renderà felice anche me.

Katterson lo fissò per un momento. La debole luce che proveniva dal basso cadeva sulle spalle di Heydahl, illuminandogli la testa quasi calva e la barba fluente. Katterson si domandò come mai le guance di Heydahl fossero così paffute.

— Avanti — ripeté Heydahl, — noi abbiamo avuto la nostra parte.

Katterson si voltò verso la carne. Prese un piatto dalla credenza e vi fece cadere il pezzo di carne, sfoderando il coltello. Stava per tagliare, quando si voltò a guardare gli altri due.

Barbara si sporgeva in avanti sulla sedia. Gli occhi erano dilatati ed in essi brillava la paura. Heydahl, invece, se ne stava tranquillo nella sedia di Katterson con un’espressione compiaciuta che Katterson non aveva mai visto sul volto di nessuno da quando aveva lasciato l’esercito.

Un pensiero lo colpì, raggelandolo. — Barbara — chiese controllando la voce, — che genere di carne è questa? Manzo o agnello?

— Non lo so, Paul — rispose lei incerta. — Olaf non ha detto cosa…

— Forse cane arrosto? O filetto di gatto randagio? Perché non hai chiesto a Olaf qual era il menù? Perché non glielo chiedi ora?

Barbara guardò Heydahl e poi di nuovo Katterson.

— Mangialo, Paul, È buono, credimi… e io so quanto sei affamato.

— Io non mangio cibi senza etichetta, Barbara. Chiedi al signor Heydal di che genere di carne si tratta, prima.

Lei si voltò verso Heydahl. — Olaf…

— Non credo che dovrebbe fare tanto il difficile di questi tempi, signor Katterson — disse Heydahl. — Dopo tutto, non ci sono più distribuzioni di cibo e lei non sa quando potrà avere di nuovo della carne.

— A me piace fare il difficile, Heydahl. Che genere di carne è questa?

— Perché è così curioso? Lei sa che cosa dice il proverbio: a caval donato… eh, eh.

— Non sono nemmeno sicuro che questo sia cavallo, Heydahl. Che genere di carne è questa? — La voce di Katterson, di solito ben modulata, divenne un ringhio. — Una fettina scelta di un ragazzino grasso? O forse la bistecca di qualche povero diavolo che una sera si è trovato nel posto sbagliato?

Haydahl impallidì.

Katterson prese la carne dal piatto e la tenne in mano per un attimo. — Non riuscite nemmeno a spicciccare parola, nessuno di voi due. Vi si strozzano in gola. Tenete, cannibali!

Lanciò con forza la carne verso Barbara; le sfiorò la guancia e cadde a terra. Il viso di lui fiammeggiava di rabbia. Spalancò la porta, si voltò e la richiuse violentemente dietro di sé, tuffandosi nell’oscurità. L’ultima cosa che vide prima di sbattere la porta, fu Barbara in ginocchio che cercava la carne.


La notte stava calando rapidamente, e Katterson sapeva che le strade non erano affatto sicure. Aveva la sensazione che il suo appartamento fosse inquinato; non poteva ritornarci. Il problema era trovare del cibo. Non aveva mangiato da quasi due giorni. Si cacciò una mano in tasca e trovò il pezzo di carta ripiegato su cui c’era scritto l’indirizzo di Malory, e con una smorfia amara si rese conto che quella era l’unica fonte di cibo e di denaro. Ma non ancora… almeno finché era in grado di reggersi in piedi.

Senza riflettere, si diresse verso il fiume, verso l’enorme cratere dove una volta, così gii era stato detto, sorgevano gli edifici delle Nazioni Unite. Il cratere era profondo almento trecento metri; le Nazioni Unite erano state cancellate durante il primo bombardamento, nel 2028. Allora Katterson aveva appena un anno, e fu allora che scoppiò la Guerra. I combattimenti ed i bombardamenti veri e propri erano continuati per altri cinque o sei anni, finché entrambi gli emisferi non furono completamente devastati, e a quel punto era cominciata la lunga guerra di logoramento. Katterson aveva compiuto diciotto anni nel 2045, nove lunghi anni fa, rifletté, e la sua corporatura gigantesca ne aveva fatto un candidato naturale per un tranquillo posto nell’esercito. Durante la carriera militare aveva girato in lungo e in largo quella parte del mondo che considerava il suo paese: quel pezzo di terra delimitato dalla cintura radioattiva degli Appalachi da un lato e dell’oceano Atlantico dall’altro. Il nemico aveva accuratamente costruito linee di fuoco che suddividevano l’America in una dozzina di strisce, ciascuna completamente isolata dall’altra. Un aeroplano avrebbe potuto attraversarle agevolmente, ma non ne era rimasto neppure uno. La scienza, l’industria, e la tecnologia erano morte, pensò stancamente Katterson mentre fissava il fiume con sguardo vacuo. Si sedette sull’orlo del cratere con le gambe a penzoloni.

Che cosa era successo a quel coraggioso nuovo mondo che era entrato nel ventunesimo secolo con tante orgogliose speranze? Ecco qui Paul Katterson, probabilmente uno degli uomini più alti e robusti del paese, che faceva dondolare le gambe al di là di una enorme area devastata, con un tremendo dolore alla bocca dello stomaco. Il mondo era morto, il mondo luccicante delle cromature e degli aerei a reazione. Un giorno, forse, ci sarebbe stata una nuova vita. Un giorno.

Katterson fissò le acque al di là del cratere. Da qualche parte oltre il mare c’erano altri paesi, anch’essi distrutti. E da qualche parte, in un’altra direzione, c’erano pianure sconfinate, erba, grano, animali selvaggi separati da centinaia di migliaia di montagne radioattive. La guerra si era divorata campi, pascoli e bestiame, piegando la resistenza di tutto il genere umano.

Si alzò e riprese a camminare attraverso le strade solitarie. Era buio, ed i pochi lampioni a gas gettavano una luce spettrale, come piccole lune in eclissi. I campi erano aridi e quello che restava dell’umanità si accalcava nelle città devastate, tranne quei pochi fortunati delle rare Oasi sparse qua e là per il paese. New York era una città di scheletri alla ricerca di un po’ di cibo.

Un ometto andò a sbattere contro Katterson. Katterson abbassò lo sguardo verso di lui e lo afferrò per un braccio. Un padre di famiglia, pensò, che si affrettava a tornare a casa dai propri figli affamati.

— Chiedo scusa, signore — disse l’ometto nervosamente, cercando di liberarsi dalla stretta di Katterson. Sul suo viso si leggeva la paura. Katterson si domandò se quell’ometto preoccupato temesse che il gigante volesse arrostirlo all’istante.

— Non voglio farle del male — disse Katterson. — Sto solo cercando del cibo, Cittadino.

— Non ne ho.

— Ma io sto morendo di fame — disse Katterson. — Lei mi sembra uno che ha denaro, un lavoro. Mi dia del cibo ed io sarò la sua guardia del corpo, il suo schiavo, qualunque cosa.

— Senti, amico, non ho cibo per nessuno. Ohi! Lasciami andare il braccio!

Katterson lo lasciò e guardò l’ometto lanciarsi giù per la strada. La gente cercava di evitare ogni contatto in questi giorni, pensò. Anche Malory era scappato nello stesso modo.

Le strade erano buie e vuote. Katterson si chiese se prima del mattino sarebbe diventato una bistecca per qualcuno e francamente non gliene importava. All’improvviso provò prurito al petto ed infilò la mano sporca sotto la camicia per grattarsi. La carne sopra i muscoli pettorali era stata quasi completamente assorbita scoprendo le ossa del torace. Si toccò le guance ispide, notando che la pelle era tesa sopra le mascelle.

Si voltò e si diresse verso la zona residenziale, girando intorno ai crateri, arrampicandosi sui mucchi di pietre. All’altezza della Cinquantesima Strada una jeep del governo si arrestò vicino al marciapiede a pochi metri di distanza. Ne scesero due soldati armati di fucile.

— È un po’ tardi per fare una passeggiata, Cittadino — disse uno dei soldati.

— Volevo prendere un po’ di aria fresca.

— Tutto qui?

— A lei che gliene importa?

— Non è che magari fai anche un po’ di caccia, eh?

Katterson si lanciò contro il soldato. — Tu, piccolo bastardo…

— Calma, spilungone — disse l’altro soldato tirandolo indietro. — Stavamo solo scherzando.

— Bello scherzo — disse Katterson. — Voi potete permettervi di scherzare… vi basta indossare l’uniforme per avere del cibo. Lo so come funziona per voi dell’esercito.

— Non più — disse il secondo soldato.

— Chi credi di prendere in giro? — chiese Katterson. — Sono stato un soldato regolare per sette anni, finché non ci hanno congedato nel ’52. So come vanno le cose.

— Ehi, in che reggimento eri?

— 306° Esploratori, soldato.

— Sei Katterson, Paul Katterson?

— Forse sì — disse Katterson piano. Si fece più vicino ai due soldati. — E allora?

— Conosci Mark Leswick?

— Accidenti se lo conosco — fece Katterson. — Ma tu come mai lo conosci?

— Era mio fratello. Mi parlava sempre di te… Katterson, il tizio più grosso in circolazione, diceva sempre. Con l’appetito di un bue.

Katterson sorrise. — E che fa ora?

L’altro tossicchiò. — Niente. Lui e alcuni amici costruirono una zattera e cercarono di raggiungere il Sud America. Sono stati affondati dalla Guardia Costiera appena fuori dal posto di New York.

— Oh. Maledizione. Un brav’uomo, Mark. Ma aveva ragione a proposito dell’appetito. Ho fame.

— Anche noi, amico — disse il soldato. — Ieri hanno sospeso le distribuzioni per i soldati.

Katterson scoppiò a ridere e l’eco risuonò per le strade silenziose. — Dannazione a loro! Per fortuna che non l’hanno fatto quando ero ancora in servizio; mi avrebbero sentito.

— Puoi venire con noi, se vuoi. Saremo fuori servizio non appena terminato questo pattugliamento e faremo un giro in centro.

— È un po’ tardi, vero? Che ora è? Dove state andando?

— Manca un quarto alle tre — disse il soldato quardando l’orologio. — Cerchiamo un tizio di nome Malory; si dice in giro che abbia del cibo da vendere e noi abbiamo preso la paga ieri. — Batté compiaciuto una mano sulla tasca.

Katterson ammiccò. — Lo sapete che genere di roba vende Malory?

— Sì — disse l’altro. — E allora? La fame è fame ed è meglio mangiare che morire. Ne ho visti di tipi come te, troppo testardi per scendere così in basso per avere un pasto. Ma presto o tardi cederai, credo. Non so, sembri molto testardo.

— Sì — disse Katterson, respirando più affannosamente del solito. — Credo di essere testardo. O forse non sono ancora abbastanza affamato. Grazie per il passaggio, ma io vado verso nord.

E si voltò, avviandosi con passo strascicato nell’oscurità.


C’era un unico posto in cui poteva andare.

Hal North era un uomo tranquillo, circondato dai libri, che si era incontrato abbastanza spesso con Katterson, anche se abitava piuttosto lontano, nella Centoquattordicesima Strada.

Katterson aveva un invito sempre valido per andarlo a trovare in qualunque momento del giorno o della notte, e poiché non aveva un altro posto dove andare, si diresse da lui. North era uno di quei pochi studiosi che ancora cercavano di perpetuare il sapere alla Columbia, che una volta era un tempio della cultura. Si riunivano in una delle aule diroccate, facendo tesoro di libri rovinati e scambiandosi opinioni. North aveva un minuscolo appartamento in un edificio ancora in piedi nella Centoquattordicesima e viveva circondato dai libri e da una ristretta cerchia di conoscenti.

Un quarto alle tre, aveva detto il soldato. Katterson camminava veloce, senza quasi notare gli isolati che si lasciava alle spalle. Raggiunse l’appartamento di North proprio mentre spuntava il sole, e bussò piano alla porta. Un colpo, un altro, ed un terzo un po’ più forte.

Rumore di passi dall’interno. — Chi è? — una voce stanca e dal timbro acuto.

— Paul Katterson — sussurrò lui. — Sei sveglio?

North aprì la porta. — Katterson! Entra! che cosa ti porta qui?

— Hai detto che potevo venire ogni volta che avessi avuto bisogno di aiuto. Be’, ora ne ho bisogno. — Katterson si sedette sul bordo del letto di North. — Non ho mangiato niente in due giorni, o quasi.

North ridacchiò. — Sei venuto nel posto giusto, allora. Aspetta… ti prendo del pane con un po’ di burro. Ce ne è rimasto ancora.

— Sei sicuro di poterne fare a meno, Hal?

North aprì un armadio e ne tolse una fetta di pane e a Katterson venne l’acquolina in bocca. — Certo, Paul. Io non mangio mai molto, e ho conservato la maggior parte delle mie razioni. Puoi servirti di tutto quello che c’è.

Katterson si sentì invadere da un’improvviso sentimento d’amore, una strana emozione struggente che per un attimo sembrò abbracciare tutto il genere umano, e che poi sfiorì e alla fine scomparve.

— Grazie, Hal. Grazie.

Si voltò e guardò il libro consunto e macchiato dalle ditate che era aperto sul letto di North. Katterson lasciò vagare lo sguardo sui minuscoli caratteri da stampa e lesse piano ad alta voce.

Lo ’mperador del doloroso regno

da mezzo il petto uscia fuor de la ghiaccia;

e più con un gigante io mi convegno,

che i giganti non fan con le sue braccia.

North portò il piatto con il cibo dove era seduto Katterson. — L’ho letto per tutta la notte — disse. — Chissà come mi è venuto in mente di sfogliarlo, e così l’ho cominciato ieri sera e ho continuato a leggerlo finché non sei arrivato tu.

— L’Inferno di Dante — disse Katterson. — Molto appropriato. Un giorno piacerebbe anche a me rileggerlo. Ho letto così poco, sai; ai soldati non viene data una grande istruzione.

— Tutte le volte che vorrai leggere, Paul, i libri saranno a tua disposizione. — North sorrise, un sorriso pallido in quel suo viso esangue. Indicò lo scaffale su cui erano ammucchiati libri rovinati e consunti dall’uso. — Guarda, Paul: Rabelais, Joyce, Dante, Enright, Voltaire, Eschilo, Omero, Shakespeare. Sono tutti lì, Paul, le cose più preziose al mondo. Sono i miei vecchi amici; quei libri sono stati la mia colazione, pranzo e cena tante volte, quando non si trovava cibo a nessun prezzo.

— Forse finiremo col dipendere da loro, Hal. Sei uscito spesso in questi giorni?

— No — disse North. — Non esco più da una settimana. Henriks andava a prendere le mie razioni e le portava qui per avere in prestito dei libri. È venuto ieri… no, due giorni fa, per prendere il mio volume delle tragedie greche. Sta scrivendo una nuova opera, basata su di un testo di Eschilo.

— Povero pazzo Henriks — disse Katterson. — Perché continua a scrivere musica quando non ci sono più orchestre, né dischi, né concerti? Non può nemmeno ascoltare quello che scrive.

North aprì la finestra e l’aria del mattino entrò nella stanza. — Oh, ma lui la sente, Paul. La sente nella mente e questo gli basta. Non ha veramente importanza; non vivrà per sentirla suonare.

— Le distribuzioni sono state sospese — disse Katterson.

— Lo so.

— Si stanno divorando a vicenda, là fuori. Ieri ho visto ammazzare una donna per ricavarne del cibo… macellata proprio come un animale.

North scosse la testa e giocherellò con un ricciolo candido e ribelle. — Così presto? Pensavo che non ci saremmo arrivati così presto, una volta che il cibo si fosse esaurito.

— Sono affamati, Hal.

— Si, sono affamati. Ed anche tu. Tra un giorno o due anche le mie scorte saranno finite ed anch’io avrò fame. Ma ci vuole più della fame per infrangere il tabù che ci impedisce di cibarsi di carne umana. La gente là fuori ha rinunciato alle ultime vestigia di umanità, ora; ha subito ogni genere di degradazione e non può cadere più in basso di così. Presto o tardi anche noi lo capiremo, tu ed io, ed andremo là fuori a caccia di carne.

— Hal!

— Non essere così sconvolto, Paul. — North fece un sorriso paziente. — Aspetta un paio di giorni, quando avremo finito le rilegature dei miei libri, quando avremo masticato fino in fondo le suole delle scarpe. Il pensiero fa rivoltare lo stomaco anche a me, ma è inevitabile. La società è condannata: ora cadono anche le ultime inibizioni. Noi siamo solo più testardi degli altri, o forse più esigenti per quello che riguarda i nostri pasti. Ma verrà anche il nostro turno.

— Non ci credo — disse Katterson, alzandosi.

— Siediti. Sei stanco, ed anche tu sei ormai ridotto ad uno scheletro. Che cosa ne è stato del mio grande e muscoloso amico Katterson? Dove sono adesso i suoi muscoli? — North si sporse e strinse i bicipiti del gigante. — Pelle e ossa, che altro? Ti stai consumando, Paul, e quando anche l’ultima scintilla sarà bruciata, cederai anche tu.

— Forse hai ragione, Hal. Appena smetterò di considerarmi un essere umano, appena sarò abbastanza affamato e allo stremo, allora andrò là fuori a caccia come gii altri. Ma resisterò più che portrò.

Si lasciò cadere sul letto e prese a sfogliare lentamente le pagine ingiallite di Dante.


Henriks ritornò il giorno seguente, emaciato e con gli occhi stralunati, per restituire il volume di tragedie greche, e disse che i tempi non erano maturi per Eschilo. Prese in prestito un piccolo volume con le poesie di Ezra Pound. North lo costrinse a prendere un po’ di cibo, cosa che lui fece senza alcuna diffidenza e con molta gratitudine. Poi se ne andò, lanciando una strana occhiata a Katterson.

Altri arrivarono durante il giorno: Komar, Goldman, Metz, tutti uomini che, come Henriks e North, ricordavano i giorni prima della guerra. Erano pietosi scheletri, ma in essi la fiamma della conoscenza era sempre viva. North li presentò a Katterson, e tutti guardarono con meraviglia la sua corporatura ancora robusta, prima di gettarsi avidamente sui libri.

Ma presto le visite si diradarono. Katterson stava alla finestra e per ore osservava la strada che rimaneva vuota. Erano ormai quattro giorni da quando era arrivata l’ultima razione dall’Oasi di Trenton. Si era agli sgoccioli.

Il giorno seguente cominciò a nevicare e continuò per tutto il pomeriggio. Alla sera, North portò la sedia vicino alla credenza e mantenendosi in precario equilibrio rovistò all’interno per qualche minuto. Poi si voltò verso Katterson.

— Siamo ridotti peggio di Mamma Hubbard — disse. — Almeno lei aveva un cane.

— Eh?

— Mi stavo riferendo ad un passo di un libro per bambini — disse North. — Volevo dire che non abbiamo più cibo.

— Per niente? — chiese Katterson scoraggiato.

— Proprio niente. — North fece un debole sorriso. Katterson sentì il vuoto del proprio stomaco e si adagiò all’indietro, chiudendo gli occhi.


Nessuno dei due mangiò nulla il giorno seguente. La neve continuò a cadere. Katterson passò la maggior parte del tempo guardando fuori dalla piccola finestra e vide un leggero e candido strato di neve coprire tutto quello che c’era intorno. E nessuno venne a calpestarla.

Il mattino seguente Katterson si alzò e trovò North occupato a strappare la rilegatura della sua copia di tragedie greche. Con profondo stupore Katterson osservò North mentre metteva quella rossa rilegatura consunta in un bricco di acqua bollente.

— Oh, sei sveglio. Sto preparando la colazione.

Era tutt’altro che commestibile, ma la masticarono fino a farne una molle poltiglia e la inghiottirono solo per offrire al loro stomaco torturato qualcosa da digerire, Katterson ebbe conati di vomito mentre deglutiva l’ultimo boccone.

Il primo giorno in cui mangiarono rilegature di libri.

— La città è morta — disse Katterson dalla finestra, senza voltarsi. — Non ho ancora visto nessuno per le strade. C’è neve dappertutto.

North non disse nulla.

— Tutto questo è folle — disse Katterson all’improvviso. — Io esco a cercare del cibo.

— Dove?

— Andrò fino a Broadway e vedrò di trovare qualcosa. Forse un cane randagio. Vedremo. Non possiamo continuare per molto qui.

— Non andare, Paul.

Katterson si voltò con furia selvaggia. — Perché? È meglio restare qui a morire di fame che uscire e andare a caccia? Tu sei piccolo, non hai bisogno di cibo quanto me. Andrò a Broadway; forse là ci sarà qualcosa. Almeno non staremo certo peggio di adesso.

North sorrise. — Vai, allora.

— Vado.

Si assicurò il coltello alla cintura, prese tutti gli indumenti pesanti che riuscì a trovare e si avviò giù per le scale. Gli sembrò di galleggiare mentre scendeva, tanto la fame gli dava le vertigini. Il suo stomaco era ridotto ad uno stretto nodo.

Le strade erano deserte. Un leggero strato di neve ricopriva ogni cosa, ammantando le rovine contorte della città. Si diresse verso Broadway lasciando le proprie impronte nella neve intatta e puntò verso il centro.

All’incrocio tra la Novantaseiesima e Broadway vide il primo segno di vita, alcuni individui fermi all’angolo della strada. Con crescente eccitazione si diresse verso la Novantacinquesima, ma si fermò di botto.

Riverso sulla neve c’era il cadavere di un uomo morto da poco. E due ragazzi di circa dodici anni stavano combattendo per impossessarsene, mentre un terzo girava circospetto intorno ai due. Katterson li guardò per un attimo, poi attraversò la strada e decise di proseguire. Non gli importava più della neve e della solitudine della città vuota. Manteneva un’andatura ritmata, costante, quasi fosse una macchina. Il mondo si stava sgretolando rapidamente intorno a lui e l’unica speranza era la sua ricerca solitaria.

Si voltò per un attimo guardando dietro di sé. C’erano le sue impronte, una lunga striscia che si perdeva in lontananza, gli unici segni che interrompessero il biancore uniforme. Contò mentalmente gli isolati.

Novantesima. Ottantasettesima. Ottantacinquesima. All’Ottantaquattresima vide una macchia di colore all’isolato seguente e affrettò il passo. Quando fu più vicino, vide che si trattava di un uomo disteso nella neve. Katterson gli si avvicinò e rimase immobile accanto a lui.

Era sdraiato a faccia in giù. Katterson si chinò e lo rivoltò con precauzione. Le guance erano ancora arrossate: evidentemente aveva girato l’angolo ed era morto solo pochi minuti prima. Katterson si raddrizzò e si guardò intorno. Alla finestra della casa più vicina, due visi emaciati erano schiacciati contro il vetro, e stavano osservando con bramosia.

Si voltò di scatto per fronteggiare un uomo piccolo e di carnagione scura in piedi dall’altra parte del cadavere. Si fissarono per un momento, l’uomo piccolo ed il gigante. Katterson notò vagamente gli occhi fiammeggianti dell’altro e la sua espressione decisa. Comparvero altre due persone, una donna scarmigliata ed un bambino di otto o nove anni. Katterson si avvicinò di più al corpo, fingendo di esaminarlo per l’identificazione e intanto teneva d’occhio gli individui di fronte a lui.

Un altro uomo si unì al gruppo e poi un altro ancora. Ora erano in cinque, disposti silenziosamente in semicerchio. Uno di essi fece un cenno e dalla casa vicina uscirono due donne ed un altro uomo. Katterson aggrottò la fronte: stava per succedere qualcosa di spiacevole.

Un fiocco di neve volteggiò nell’aria lentamente. Katterson sentì la fame penetrargli nella carne come un coltello rovente, mentre era lì in piedi ad aspettare che succedesse qualcosa. Il cadavere era come una sorta di steccato tra di loro.

La scena si animò all’improvviso. Il piccolo uomo bruno fece un gesto e si avventò sul cadavere; Katterson si chinò in fretta cercando di sollevare il corpo. Allora tutti gli furono intorno, gridando e tirando il corpo a loro volta. L’uomo bruno afferrò un braccio del cadavere e cominciò a dare degli strattoni, ed una donna afferrò Katterson per i capelli. Katterson sollevò il braccio e colpì più forte che poté e l’ometto si sollevò da terra e volò per alcuni metri, andando a cadere nella neve in un ammasso informe.

Ora gli erano tutti intorno, cercando di afferrare sia lui che il cadavere. Cercò di difendersi, con la mano libera, con i piedi, con le spalle. Nonostante fosse debole e sopraffatto dal numero, la sua statura era ancora un punto di vantaggio. Il suo pugno incontrò la mascella di qualcuno e ci fu un rumore di ossa rotte in risposta; nello stesso momento diede un calcio furibondo che spezzò le costole ad un altro sventurato.

— Andatevene! — gridò. — Andatevene! È mio! Via! — Una delle donne gli balzò addosso e lui le mollò un calcio, mandandola a finire su un mucchio di neve. — Mio! È mio!

Loro erano ancora più indeboliti dalla fame di lui. In pochi minuti tutti giacevano scomposti sulla neve, tranne il bambino, che si avvicinò a Katterson con decisione, fece una finta improvvisa e gli balzò sulla schiena.

Rimase aggrappato, incapace di fare altro. Katterson lo ignorò e fece qualche passo, trasportando sia il cadavere che il ragazzo, mentre sentiva la furia della battaglia raffreddarsi lentamente dentro di sé. Avrebbe portato il cadavere da North; avrebbero potuto tagliarlo in pezzi senza molta difficoltà. Con quello sarebbero vissuti per giorni, pensò. Avrebbero…

Si rese conto di quello che era successo. Lasciò cadere il cadavere e barcollò per un breve tratto cadendo poi nella neve, a capo chino. Il ragazzo scivolò giù dalla sua schiena, e il piccolo gruppo di gente riprese ad avanzare con circospezione, prese il corpo e lo portò via trionfante, lasciando Katterson solo.

— Perdonatemi — mormorò con voce roca. Si leccò nervosamente le labbra, scuotendo il capo. Rimase lì in ginocchio a lungo, incapace di alzarsi.

— No, nessun perdono. Non posso prendere in giro me stesso; sono uno di loro, adesso — disse. Si alzò e fissò le proprie mani e poi cominciò a camminare. Lentamente, metodicamente si trascinò in avanti, giocherellando con il pezzo di carta che aveva in tasca, sapendo che ora aveva perso tutto.

La neve gli si era congelata tra i capelli e lui sapeva di avere la testa imbiancata… la testa di un vecchio. Anche il suo viso era bianco. Per un po’ camminò lungo Broadway, poi tagliò ad ovest verso il Central Park. Davanti a lui la neve era intatta e copriva ogni cosa, segno di un lungo inverno che stava per iniziare.

— North aveva ragione — mormorò sottovoce a quel bianco oceano che era il Central Park. Guardò le macerie che cercavano riparo sotto la neve. — Non resisto più. — Guardò l’indirizzo: Malory, 218 West, 42° Strada, e continuò a camminare, quasi paralizzato dal freddo.

Gli occhi erano ridotti a due fessure, con il volto e le sopracciglia ormai congelate. La gola gli pulsava e le labbra erano serrate per la fame. Settantesima. Sessantacinquesima. Camminava a zig zag, e per un po’ seguì la Columbus Avenue e poi la Amsterdam Avenue, echi di un passato che non era mai esistito.

Passò un’ora, e poi un’altra. Le strade erano vuote. I pochi sopravvissuti se ne stavano al sicuro in casa a morire di fame, e dalle loro finestre guardavano lo strano gigante che arrancava solitario tra la neve. Il sole era quasi scomparso dal cielo quando raggiunse la Cinquantesima. La fame era del tutto svanita: lui non sentiva più nulla, sapeva solo che la meta da raggiungere era diritta davanti a sé. E lui guardava avanti, incapace di seguire qualunque altra direzione.

Finalmente la Quarantaduesima, e subito si diresse dove sapeva di poter trovare Malory. Arrivò all’edificio. Su per le scale, ora, mentre l’oscurità della notte inondava le strade. Su per le scale, un’altra rampa e poi un’altra ancora. Ogni passo era una montagna, ma lui si spinse sempre più sù.

Al quinto piano Katterson ebbe un capogiro e si sedette sull’orlo degli scalini, ansimando. Un cameriere in livrea gli passò davanti, con il naso all’aria, la divisa verde che luccicava nella penombra. Su di un piatto d’argento portava un maialino arrosto con una mela in bocca. Katterson barcollò per afferrare il maialino. Le sue mani annaspanti attraversarono le figure del maiale e del cameriere, e queste ultime esplosero come bolle di sapone dileguandosi nei pianerottoli silenziosi.

Ancora un piano. Carne sfrigolante sul fornello, calda, sugosa, tenera carne che riempiva quel buco dove una volta c’era il suo stomaco. Sollevò con cautela le gambe, uno scalino dopo l’altro, e arrivò infine alla cima. Ebbe un attimo di incertezza appena superato l’ultimo gradino, rischiando di cadere all’indietro, ma all’ultimo momento afferrò la ringhiera e si spinse in avanti.

Ecco la porta. Lui la vide, udì dei suoni che provenivano dall’interno. C’era in corso una festa, un banchetto, e lui moriva dal desiderio di parteciparvi. Lungo il pianerottolo, a sinistra, bussare alla porta.

Rumori sempre più forti.

— Malory! Malory! Sono io, Katterson, il grosso Katterson! Sono venuto! Apri, Malory!

La maniglia cominciò a girare.

— Malory! Malory!

Katterson crollò in ginocchio sul pianerottolo e cadde in avanti, quando finalmente la porta si aprì.

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