Joan Vinge Occhi d’ambra

La mendicante percorreva con passo strascicato la strada immersa nel silenzio della sera dietro alla città-casa di Lord Chwiul. Ella esitò, alzando lo sguardo alle torri che rilucevano tenui, poi artigliò il braccio della sentinella: — Una parola con il tuo padrone…

— Non toccarmi, megera! — La guardia sollevò la lancia, disgustata. Un agile piede scalciò fuori dagli stracci e gli fece perdere l’equilibrio. La sentinella si trovò lunga distesa sulla schiena, in mezzo alla poltiglia fangosa della neve semisciolta della primavera; la punta della lancia, impugnata da un diverso paio di mani, si abbassò verso il suo ventre. Egli restò a bocca aperta. La mendicante gli gettò un amuleto sul petto.

— Guardalo, sciocco! Ho affari da trattare col tuo Lord. — La mendicante fece un passo indietro. La punta della lancia frugò il ventre della sentinella, impaziente.

La guardia si contorse nello sporco e nel bagnato, portando l’amuleto vicino al viso, nella scarsa luce. — Tu… tu sei quella? Puoi passare…

— Davvero! — una risata soffocata. — Davvero posso passare… Per molte cose, in molti posti. La Ruota della Vita ci porta tutti. — Ella sollevò la lancia. — Sciocco, alzati… e non c’è bisogno di scortarmi. Sono attesa.

La guardia si alzò in piedi, sgocciolante e imbronciata, e si scostò mentre ella liberava le membrane delle sue ali dalle pieghe del tessuto. Egli le vide luccicare e allargarsi; poi lei si raccolse e balzò senza sforzo fino all’ingresso della torre, due volte la sua altezza sopra di lui. Soltanto quando lei fu scomparsa all’interno, la sentinella osò imprecare.

— Lord Chwiul?

— T’uupieh, presumo? — Lord Chwiul si sporse avanti dal giaciglio di muschi fragranti, scrutando fra le ombre della stanza.

Lady T’uupieh. — T’uupieh avanzò a lunghi passi verso la luce, lasciando che il cappuccio cencioso le scivolasse giù, rivelando il suo volto. Provò un aspro piacere a non mostrare alcun segno di riverenza, venendo avanti così, da nobile a nobile. Le sensuali increspature di centinaia di minuscole pelli di miih sotto i suoi piedi le provocarono un formicolio nelle piante callose. Dopo tanto tempo ecco che lo provo ancora, troppo facilmente…

Prese posto sul divano sull’altro lato del basso tavolo di pietracqua, di fronte a lui, stiracchiandosi languidamente nei suoi panni di mendicante. Protese un dito ad artiglio e raccolse una bacca di kelet dalla fruttiera posta sulla superficie del tavolo, scolpita di ornamentali volute, e se la fece scivolare in bocca e poi giù per la gola, come aveva fatto così spesso, tanto tempo prima. Infine sollevò lo sguardo, per misurare gli effetti del suo oltraggio.

— Tu osi venire da me in questo modo…

Soddisfacente. Sì, molto…

— Non sono venuta io da te. Sei tu che sei venuto da me… tu hai cercato i miei servigi. — Il suo sguardo vagò per la stanza con simulata indifferenza, osservando gli elaborati affreschi che ricoprivano le pareti di pietracqua perfino in quella piccola stanza privata… Soprattutto in quella stanza. Quanti incontri di mezzanotte, per i più complicati intrighi, si tenevano in quella stanza?, ella si chiese. Chwiul non era il più ricco della sua famiglia o del suo clan: e in quella città, in quel mondo, contava soprattutto apparire ricco e potente, poiché la ricchezza e il potere erano tutto.

— Ho chiesto i servigi di T’uupieh l’Assassino. Sono sorpreso nel constatare che Lady T’uupieh osa accompagnarlo qui. — Chwiul aveva riacquistato la sua calma; ella sembrò studiare il suo alito, e il proprio, due sbuffi di vapore turbinante. Poi riprese: — Dove va l’uno, l’altro lo segue. Siamo inseparabili. Tu dovresti saperlo meglio di molti altri, mio Lord. — Seguì il suo lungo, pallido braccio che si protendeva a infilzare numerose bacche con un unico movimento guizzante. Nonostante il gelo delle notti, egli indossava soltanto una leggera tunica che gli avvolgeva il corpo consentendogli ugualmente di esibire l’intricato sovrapporsi di gioielli che danzavano sulla superficie delle sue ali.

Egli sorrise; lei colse per un attimo le punte aguzze dei suoi denti. — perché mio fratello ha trasformato l’una nell’altro, quando ha preso le tue terre? Sono assolutamente sorpreso che sia venuta tu… come sapevi che potevi fidarti di me? — I suoi movimenti erano sgraziati; ella ricordò come il peso dei gioielli trascinasse giù le fragili, traslucide membrane delle ali e le braccia sottili fino a rendere il volo impossibile. Come ogni nobile, Chwiul era sempre circondato da servitori che soddisfacevano ogni suo capriccio. L’inettitudine al volo, finta o vera che fosse, era un altro segno distintivo del potere, un’ulteriore viziosità che soltanto i ricchi potevano permettersi. Ella si compiacque nel constatare che i suoi gioielli non erano della miglior qualità.

— Non mi fido di te — lei replicò. — Mi fido soltanto di me stessa. Ma alcuni amici mi hanno detto che tu in quest’occasione sarai sincero quanto basta… E non sono venuta sola, naturalmente.

— I tuoi fuorilegge? — disse incredulo. — Quelli non ti sarebbero di alcuna protezione.

Con calma ella scostò le pieghe del tessuto che celavano il segreto compagno al suo fianco.

— Allora è vero. — La voce sibilante di Chwiul fu quasi inaudibile. — Ti chiamano la Consorte del Demone.

Ella ruotò la lente d’ambra del prezioso occhio del demone, cosicché esso potesse esplorare l’intera stanza, come aveva fatto lei, poi puntò quell’occhio su Chwiul.

Egli si tirò istintivamente indietro, aggrappandosi al muschio.

— «Un demone ha mille occhi, e mille e mille tormenti per quelli che lo offendono» — citò dal Libro di Ngoss, dei cui rituali si era servita per legare a sé il demone.

Chwiul distese nervosamente il corpo, come se volesse fuggire. Ma si limitò a dire: — Credo, allora, che ci comprendiamo. E sono convinto di aver fatto una buona scelta: so che hai servito bene il Feudatario e altri membri della corte… Voglio che tu uccida qualcuno per me.

— Ovviamente.

— Voglio che tu uccida Klovhiri.

T’uupieh ebbe un lieve trasalimento: — A tua volta mi sorprendi, Lord Chwiul. Tuo fratello? — È l’usurpatore delle mie terre. Ho sempre ardentemente desiderato ucciderlo, lentamente, molto lentamente, con le mie stesse mani… Ma egli è sempre troppo ben protetto.

— E anche tua sorella, o mia Lady. — Una vaga sfumatura di scherno. — Voglio che l’intera sua famiglia sia sterminata, la sua compagna, i suoi figli…

Klovhiri… e Ahtseet. Ahtseet, la sua sorella più giovane, la sua amica più cara fin dall’infanzia, tutta la sua famiglia, da quando i loro genitori erano morti. Ahtseet che lei aveva sempre prediletto e protetto; la cara, piccola, connivente, traditrice Ahtseet, che aveva rinunciato all’orgoglio, alla decenza, all’onore della famiglia per unirsi volontariamente all’uomo che li aveva derubati di tutto… Qualunque cosa, pur di conservare le terre della famiglia, aveva strillato Ahtseet; qualunque cosa pur di conservare la sua posizione. Ma non in quel modo! Non con l’arrendersi, bensì contrattaccando… T’uupieh si accorse che Chwiul stava osservando le sue reazioni con vivo interesse, e ciò le dispiacque. Sfiorò il pugnale che aveva alla cintura.

— E perché mai? — gli chiese, scoppiando a ridere.

— Dovrebbe essere ovvio. Sono stanco di essere il secondo. Voglio ciò che ha lui: le tue terre e tutto il resto. Voglio che sia tolto di mezzo, e non voglio che rimanga nessuno che rivendichi la sua eredità più di quanto possa farlo io.

— Perché non agisci tu stesso? Forse avvelenandoli… è già stato fatto.

— No. Klovhiri ha troppi amici, troppi uomini fedeli al suo Clan, troppa influenza sul Feudatario. Dovrà trattarsi di una morte «accidentale». E nessuno è più adatto di te, mia Lady. Fallo per me.

T’uupieh fece un vago cenno di assenso, valutando la cosa. Chwiul non avrebbe davvero potuto scegliere nessuno che più di lei bramasse compiere quell’impresa… e si trovasse altresì nella miglior posizione per colpire. Tutto ciò che le era mancato fino a quel momento era stata l’occasione. Dall’istante in cui era stata spodestata, durante i giorni squallidi dell’autunno e l’interminabile inverno — quasi un terzo della sua vita, adesso — lei aveva imperversato nella selvaggia palude, tra gli acquitrini del suo dominio d’un tempo. Aveva raccolto intorno a sé qualche fedele servitore, un pugno di scontenti, cinque o sei tagliagole, attaccando e assassinando la gente del seguito di Klovhiri, devastando le sue reti per i «phib», rubando dalle sue trappole e cacciando di frodo la sua selvaggina. In più, si era messa a rapinare qualunque viaggiatore s’inoltrasse lungo le strade che attraversavano quelle terre.

Poiché lei apparteneva ancora alla nobiltà, il Feudatario aveva sulle prime tollerato, e più tardi segretamente incoraggiato i suoi atti di banditismo. Forestieri molto ricchi attraversavano frequentemente le sue terre d’un tempo, e in cambio del versamento d’una parte del bottino, egli le consentiva di attaccarli impunemente. T’uupieh ben sapeva che si trattava niente più che di un boccone gettatole perché egli aveva permesso che il suo favorito, Klovhiri, s’impossessasse di quelle terre. Ma lei si era data da fare per accattivarsi il più possibile le simpatie del Feudatario, il quale aveva cominciato a servirsi di lei per affari più delicati e remunerativi: l’eliminazione di certi suoi nemici. E così lei era diventata anche un assassino prezzolato, e aveva scoperto che questo mestiere non era poi granché diverso da quello del nobile: entrambi richiedevano sangue freddo e astuzia, e una completa mancanza di rimorsi. E poiché ella era T’uupieh, c’era riuscita mirabilmente. Ma nessuna ricompensa aveva saziato il suo desiderio di vendetta… Fino ad ora.

— Non rispondi? — stava dicendo Chwiul. — Vuol forse dire che il coraggio ti viene meno, all’idea di assassinare parenti… al contrario di ciò che accade a me?

Ella scoppiò in una secca risata: — Che tu dica questo dimostra che il tuo discernimento è meno della metà del mio… No, il coraggio non mi vien meno… Il mio sangue brucia dal desiderio! Ma non era certo mia intenzione spedire Klovhiri e i suoi sotto il ghiaccio soltanto per offrire in gentile omaggio le mie terre a suo fratello. Perché dovrei farti questo favore?

— Perché ovviamente non riusciresti a vendicarti da sola. Klovhiri non è riuscito a farti uccidere, in tutto questo tempo che lo stai tormentando, il che è la miglior prova della tua abilità. Ma l’hai reso troppo cauto: tu non puoi avvicinarti a lui, egli è troppo ben protetto. Tu hai bisogno della collaborazione di qualcuno che goda della sua fiducia, qualcuno come me, per esempio. Io posso farlo cadere fra le tue mani.

— E quale sarà la ricompensa, se accetterò? La vendetta non basta.

— Pagherò ciò che mi chiedi.

— I miei possedimenti. — Ella sorrise.

— Perfino tu non sei ingenua al punto da…

— No. — T’uupieh protese un’ala nell’aria, verso il nulla. — Perfino io non sono così ingenua. So quanto valgono… — Il ricordo d’una giornata d’estate dalle nuvole color dell’oro l’afferrò… levarsi in volo, in alto, sempre più in alto, sulle placide correnti d’aria sopra il lago… distinguere laggiù le aeree torri rosse e rosa del maniero che spuntavano dalla marea degli alberi spazzati dal vento… le pozze di ammoniaca color zafferano, crèmisi e acquamarina, tinte a vivaci colori dai metalli disciolti, che si stendevano tra le distese fangose costellate da miriadi di riflessi cristallini… le terre della sua famiglia, le terre che si perdevano a vista d’occhio, in questo ribollire dell’estate… — Ne conosco il valore. — La sua voce s’indurì. — E so che Klovhiri è ancora il favorito del Feudatario. Come hai detto, Klovhiri ha amici potenti, ed essi diventeranno tuoi amici quando lui morrà. Io ho bisogno di ben più forza, e ricchezza, prima di poter avere abbastanza influenza e ritornare in possesso di ciò che è mio. Le probabilità non sono a mio favore… adesso.

— Tu sei scolpita nel ghiaccio, T’uupieh. Questo mi piace. — Chwiul si sporse in avanti. Il suo occhio, rosso e inespressivo, esplorò il corpo di lei, disteso sul divano, cercando d’indovinare ciò che giaceva nascosto sotto i cenci, là nel cerchio di luce fosforescente al centro della stanza in ombra. L’occhio, poi, risalì al suo viso.

Ella non si mostrò né infastidita né divertita: — Nessun uomo, a cui piaccia vedermi come un’assassina, potrà mai piacermi.

— Neppure se ciò significa riguadagnare i tuoi possessi?

— Come tua compagna? — La voce di T’uupieh aveva il suono di un ramo ghiacciato che si spezza. — Mio signore… praticamente ho appena deciso di uccidere mia sorella per aver fatto l’identica cosa. Preferirei prima uccidere me stessa.

Chwiul scrollò le spalle, tornando a stendersi sul divano. — Come vuoi… — Fece con la mano un gesto di rinuncia: — Dunque, che cosa ci vorrà per sbarazzarmi di mio fratello… e anche di te?

— Ah — lei annuì, in segno d’intesa. — Vuoi comperare i miei servigi, e allo stesso tempo tacitarmi, pagandomi. Questo non potrebbe essere tanto facile a ottenersi. Comunque… — Comunque, per ora fingerò di adeguarmi alle tue richieste. Infilzò altre quattro bacche dalia fruttiera sul tavolo, fissò il serico velo di acqua-ammoniaca color smeraldo che faceva da tendaggio a una parete. Precipitava da grande altezza all’interno della torre dentro una vasca producendo un fragore che avrebbe impedito a chiunque di ascoltare la conversazione da fuori. Discrezione e bellezza…

La fragranza del divano di muschio le riportò alla memoria, quasi sconcertandola, la sua infanzia: il ricordo di un morbido letto sul quale giaceva, in una tiepida notte di primavera… — Man mano le stagioni cambiano, eccomi trasportata in direzioni diverse. Di nuovo in città, forse. Mi piace la tua torre, Lord Chwiul. Unisce la discrezione alla bellezza.

— Grazie.

— Dammela, e farò ciò che mi chiedi.

Chwiul si rizzò a sedere, aggrottando la fronte. — La mia città-casa! — Poi, riprendendosi: — È tutto ciò che vuoi?

T’uupieh allargò le dita, studiando il rudimentale abbozzo di membrana fra esse: — Mi rendo conto che è una richiesta piuttosto modesta. — Tornò a chiudere la mano. — Ma considerando la soddisfazione che ricaverò nel guadagnarla, sarà sufficiente. E tu non ne avrai più bisogno, una volta che avrò compiuto ciò che vuoi.

— No… — Egli si rilassò un poco. — Suppongo di no. Non ne sentirò certo la mancanza, una volta che avrò le tue terre.

T’uupieh lasciò correre questa affermazione: — Bene, allora siamo d’accordo. E adesso, dimmi qual è la chiave per aprire la barriera che protegge Klovhiri? Qual è il tuo piano per consegnare lui, e la sua famiglia, nelle mie mani?

— Tu sai che tua sorella e i suoi figli sono in visita qui, nella mia casa, stanotte? E che Klovhiri li raggiungerà prima che sorga il nuovo giorno?

— Lo so. — Lei annuì, con più indifferenza di quanta ne provasse in realtà, poiché si era resa conto che Chwiul, anche senza dimostrarlo a parole, era rimasto assai colpito dal sangue freddo che lei aveva manifestato nel venire lì. Estrasse dunque il pugnale dalla guaina accanto all’occhio d’ambra del demonio e accarezzò la lama seghettata di legno impregnato di pietracqua. — Vuoi che tagli loro la gola, finché dormono sotto il tuo tetto? — Riuscì a esprimere la giusta dose d’incredulità.

— No! — Chwiul si accigliò ancor di più. — Che razza di sciocco credi io sia? — E si affrettò a proseguire: — Col nuovo giorno essi torneranno ai tuoi possessi per la solita strada. Ho promesso di scortarli per garantir loro un viaggio sicuro. E avremo anche una guida per farci strada attraverso gli acquitrini. Ma la guida commetterà un errore…

— E io sarò lì in attesa. — Gli occhi di T’uupieh s’illuminarono. Durante l’inverno i ricchi usavano slitte per compiere lunghi viaggi, superando la superficie impervia e accidentata del suolo trainati da schiavi. Ma quando arrivava la primavera e il suolo cominciava a fondere in superficie, bacini e pozze traditrici si aprivano come lo sbocciare di grandi fiori, pronti a inghiottire gli incauti. Soltanto una guida esperta poteva «leggere» le superfici, distinguere la solida pietracqua dalla mutevole poltiglia ammoniacale. — Bene — disse T’uupieh in un sussurro. — Sì, molto bene… La tua guida farà in modo che finiscano a dibattersi in qualche buca poltigliosa, e io potrò coglierli in trappola come dei phib al momento della muta.

— Esattamente. Ma io voglio esser lì quando lo farai. Voglio vedere. Troverò qualche scusa per allontanarmi dal gruppo, e t’incontrerò alla palude. La guida li condurrà fuori strada soltanto a un mio segnale.

— Come vuoi. Hai pagato bene il privilegio. Ma vieni da solo. I miei seguaci non hanno bisogno di aiuto, e ancor meno d’interferenze altrui. — Si rizzò a sedere, mise giù i lunghi piedi palmati, appoggiandoli di nuovo sulle pelli sensuali del tappeto.

— Ma se pensi che io sia uno sciocco, e che mi consegni stupidamente nelle tue mani — replicò Chwiul, — tieni presente che tu sarai la sospettata numero uno quando Klovhiri sarà stato assassinato. Io sarò l’unico testimonio che potrà giurare al Feudatario che i tuoi fuorilegge non erano gli aggressori. Tienilo a mente.

Ella annuì: — Lo farò.

— Come ti troverò, dunque?

— Non mi troverai. I miei mille occhi troveranno te. — Riavvolse l’occhio del demonio nei suoi cenci.

Chwiul parve sconcertato: — Quello… quello prenderà parte all’attacco?

— Potrebbe; o forse no. Sarà lui a sceglierlo. I demoni non sono legati alla Ruota della Vita, come noi due. Ma l’incontrerai di sicuro faccia a faccia (anche se non ha faccia) se verrai. — Sfiorò con la mano il fianco. — Sì… tieni a mente che anch’io ho le mie salvaguardie in questo accordo. Un demone non dimentica mai.

Infine, lei si alzò in piedi, guardandosi intorno ancora una volta. — Sarò perfettamente a mio agio, qua dentro. — Si volse una volta ancora verso Chwiul. — Ti cercherò, quando verrà il nuovo giorno.

— Quando verrà il nuovo giorno. — Anch’egli si alzò, le sue ali ingioiellate rifletterono la luce.

— Non c’è bisogno di scortarmi. Saprò essere discreta. — Fece un breve inchino, da pari a pari, e si diresse verso il corridoio in penombra. — Dovrò decisamente sbarazzarmi del tuo guardiano. Non sa distinguere una Lady da un mendicante.


— La Ruota gira un’altra volta per me, mio Demone. La mia vita fra le paludi terminerà con la vita di Klovhiri. Andrò a vivere in città… e sarò nuovamente Lady nel mio maniero quando i pesci siederanno fra gli alberi!

Il volto alieno di T’uupieh ardeva di gioia malevola quando si girò, sullo schermo sopra il terminal del computer. Shannon Wyler si lasciò andare contro lo schienale, terminò di battere la sua traduzione, e si tolse la cuffia. Si lisciò i lunghi capelli biondi, lustri e pettinati all’indietro, il gesto abituale che l’aiutava a riorientarsi nel suo ambiente. Quando T’uupieh parlava, non riusciva mai a mantenere l’obiettività di cui aveva bisogno per ricordare che era ancora sulla Terra, e non realmente su Titano, in orbita intorno a Saturno, separato da esso da oltre millecinquecento milioni di chilometri. T’uupieh, tutte le volte che penso di amarti, ecco che tu decidi di tagliare la gola a qualcuno…

Distrattamente annuì ai mormorii di congratulazione del personale e dei tecnici, che letteralmente bevevano ogni sua singola parola per avere nuove informazioni. Poi cominciarono a disperdersi, alle sue spalle, man mano il computer stampava copia della trascrizione. Era difficile credere che si trovasse impegnato con quel lavoro da più di un anno. Lui alzò lo sguardo ai manifesti dei suoi concerti, sulla parete, con nostalgia ma senza alcun rimpianto.

Qualcuno stava telefonando a Marcus Reed. Egli sospirò, rassegnato.

— "Quando i pesci siederanno fra gli alberi"? Stai cercando di fare del sarcasmo?

Egli si voltò: alle sue spalle vide la forma massiccia della dottoressa Garda Bach. — Salve, Garda. Non ti ho sentito entrare.

Lei alzò gli occhi da una copia della trascrizione e gli batté leggermente sulla spalla col suo bastone biforcuto. — Lo so, mio caro ragazzo. Tu non senti mai nulla quando T’uupieh parla. Ma cosa intendi dire con questo?

— Quando su Titano sarà estate… quando i trifibiani si metamorfizzano per la terza volta. Perciò lei intende dire fra cinque anni, del nostro tempo.

— Ah, Naturalmente. Il mio vecchio cervello non è più quello di un tempo… — Scosse la testa grigio-bianca; il suo mantello nero turbinò melodrammaticamente.

Lui sogghignò, ben sapendo che lei non intendeva parlare sul serio. — Forse imparare il titaniano, oltre ad altre cinquanta lingue, è la goccia che fa traboccare il vaso.

— Ja… ja… Forse lo è. — Ella sprofondò pesantemente sul seggiolino accanto al suo, immersa nella lettura. Non si sarebbe mai aspettato, egli pensò, di trovare così simpatica la vecchia ragazza. Era diventato acutamente conscio della sua presenza quando studiava linguistica a Berkeley: lei era la grande dame degli studi di linguistica fin dai tempi in cui esistevano ancora delle lingue non documentate sulla Terra. Ma l’abilità di Garda nel riuscire ad avere il proprio nome sui giornali e il suo volto alla televisione, come la maggiore esperta di quello che chiunque «intendeva realmente dire», l’aveva convinto che il vero talento di lei stava nel mercanteggiare. L’averla finalmente incontrata di persona non aveva affatto cambiato la sua opinione in merito; ma l’aveva ugualmente convinto della sua eccellenza nella linguistica culturale. E questo, a sua volta, l’aveva convinto che il suo marcato accento era un totale imbroglio. Ma malgrado quella sua vistosità in tutto, o forse addirittura a causa di essa, lui aveva scoperto che le idee di Garda sulla linguistica, oggi arcaiche, erano assai più vicine alle sue personali opinioni sul comunicare, che le idee dell’uno o dell’altro dei suoi genitori.

Garda sospirò: — Straordinario, Shannon! Sei semplicemente straordinario! La tua sensibilità per questa lingua completamente aliena mi stupisce. Che cosa avremmo fatto, se tu non ti fossi unito a noi?

— Avreste fatto senza di me, immagino. — Egli assaporò quello speciale piacere che proveniva dall’essere ammirato da qualcuno che lui rispettava. Tornò ad abbassare lo sguardo sulla tastiera del computer, sulle due scintillanti lastre di plastica irradianti una luminosità verde, ognuna di una trentina di centimetri di lato, che gli davano, contemporaneamente, la versatilità di un virtuoso di violino e di un dattilografo con a disposizione centinaia di migliaia di tasti. Il suo collegamento con T’uupieh, la sua voce… il nuovo sintetizzatore IBM, le cui piastre sensibili al tatto potevano esser manipolate per ricreare le impossibili complessità della sua lingua. Il dono di Dio all’universo della linguistica… salvo il fatto che esigeva la sensibilità e l’ispirazione di un musicista per sfruttare completamente la sua pressoché infinita gamma di suoni.

Egli alzò nuovamente lo sguardo e aguzzò gli occhi fuori della finestra verso l’orizzonte sfocato dalla nebbia di Coos Bay, che gli era ormai familiare.

Quei pochi linguisti che erano anche musicisti inevitabilmente erano attirati dal sintetizzatore come api dal miele. Ma i superstiti dell’ormai invecchiata Nuova Ondata, che comprendeva Suo Padre il Professore e Sua Madre la Specialista in Comunicazioni, si aggrappavano ancora con fede religiosa quanto vana alle traduzioni logico-matematiche dei computer. Essi lottavano ancora con goffi, complicati programmi, appesantiti da interminabili elenchi di morfemi, che nelle ipotesi di partenza avrebbero dovuto garantire, un giorno, la perfetta sintesi di un qualunque messaggio in qualunque lingua. Ma anche dopo anni di continui perfezionamenti, le traduzioni prodotte in tal modo dal computer erano grezze, sciatte.

Alla scuola superiore non c’erano state nuove lingue da cercare, e non aveva avuto il permesso di usare il sintetizzatore per esplorare quelle vecchie. E così, dopo un’ultima, amara discussione con la famiglia, egli aveva lasciato la scuola superiore. Aveva trasferito la sua fede nel sintetizzatore nel mondo del suo secondo amore, la musica; un campo in cui, lo sperava, le autentiche comunicazioni avevano ancora un valore. Adesso, a ventiquattro anni, egli era Shan, il Musicista dei musicisti, l’eroe di un’immensa schiera di appassionati invecchiati e di una nuova, fresca generazione che aveva ereditato il loro amore per quella musica eternamente sfavillante e mutevole chiamata «rock».

Né l’uno, né l’altro dei suoi genitori gli aveva più rivolto la parola.

— Niente false modestie — lo stava rimbrottando Garda. — Che cosa avremmo potuto fare senza di te? Tu stesso hai criticato in tutti i modi i metodi che si ostinava a impiegare tua madre. Sai bene che non saremmo riusciti a ottenere un decimo delle informazioni su Titano che abbiamo avuto da T’uupieh, se fossimo stati costretti a servirci ancora di quelle meccaniche, rozze traduzioni del computer.

Shannon accennò ad accigliarsi, provando una sorta di segreta colpevolezza. — Senti, so di aver pronunciato alcune battute sarcastiche, e aggiungo che intendevo ciò che veramente ho detto… Ma non avrei spiccato il volo se lei non avesse compiuto tutte le analisi preliminari prima ancora che io arrivassi. — Sua madre aveva fatto, praticamente da sempre, parte della missione, avendo lavorato per anni con la NASA sulle complicazioni quasi esoteriche delle comunicazioni a mezzo computer con i satelliti e le sonde spaziali; e a causa della sua preparazione in campo linguistico Marcus Reed, il direttore del progetto Titano, l’aveva subito nominata capo della sezione comunicazioni non appena questa era stata organizzata. Lei era stata incaricata dell’analisi fonetica iniziale, usando il computer per comprimere lo spettro delle frequenze della voce aliena entro il campo delle vibrazioni udibili dagli esseri umani. Poi, aveva scomposto quei suoni complessi nelle loro componenti più semplici… aveva identificato i fenomeni, separato i morfemi, li aveva inquadrati in una struttura grammaticale, e aveva assegnato i suoni equivalenti in lingua inglese. Shannon l’aveva guardata, durante le prime interviste televisive, chiaramente infelice e a disagio, mentre Reed teneva in pugno la stampa che lo ascoltava ammaliata. Ma alla fine era stato proprio quello che la dottoressa Wyler, la Specialista nelle Comunicazioni, aveva detto, ad avvincere i suoi ascoltatori; al punto che, incapace di resistere, lui era saltato sul primo aereo e aveva raggiunto Coos Bay.

— Be’, non intendevo offendere — replicò Garda. — Tua madre è ovviamente una specialista assai abile. Ma avrebbe bisogno di un po’ più di… ehm… flessibilità.

— A me lo dici? — lui sospirò, mesto. — So che ancora oggi la sua più grande felicità sarebbe quella di poter sprofondare il sintetizzatore attraverso il pavimento. Il mio arrivo, qui, è stato un colpo, per lei, dal quale ancora oggi non si è ripresa. È una fortuna che almeno Reed apprezzi il mio… valore. — Reed gli aveva riservato le accoglienze di un figliuol prodigo quando si era presentato all’istituto, quel primo giorno… non era forse, lui, un abile linguista oltre che un ispirato musicista, non sarebbe forse riuscito a trovare un po’ di tempo, fra una tournée e l’altra… non avrebbe magari allungato un po’ già quella prima visita, per farsi un’idea più approfondita del lavoro di sua madre?

Egli aveva acconsentito, con modestia, alle richieste: ed ecco che telecamere e reporter erano saltati fuori come se avessero ricevuto l’imbeccata, e lui aveva capito che non erano lì per la trascurabile notizia della visita del figlio della dottoressa Wyler, bensì per celebrare l’ingresso ufficiale all’istituto di Shannon, il Musicista.

E poi… lui aveva avuto la sua prima seduta, parlando con la voce di un altro mondo. Ed era bastato quel primo ascolto per fare di lui un drogato… perché quella lingua aliena era musica. Ogni fonema era composto da due o tre suoni sovrapposti, e ogni morfema era un miscuglio di fonemi che fluivano insieme come acqua. Essi gorgheggiavano accordi, non parole, e il risultato era un rintocco di campane di cristallo, un tintinnio di limpido vetro…

Perciò era rimasto; prima, con sofferta frustrazione, aveva dovuto limitarsi a guardare sua madre e i suoi assistenti: i metodi di analisi a mezzo computer impiegati da sua madre avevano funzionato bene durante la transfonemizzazione iniziale della voce di T’uupieh, consentendo ben presto d’inviare le prime risposte, sia pure impacciate, goffe, servendosi del localizzatore a eco della sonda, per impedire che l’interesse di T’uupieh deviasse altrove, interrompendo il contatto. Ma battere una successione di dati in codice su una tastiera e aspettarsi che anche il più sofisticato dei programmi d’un computer potesse trasformarli in un’altra lingua, fosse pure una lingua umana conosciuta, era un risultato ancora sconsolatamente lontano. E lui, Shannon, sapeva invece, con fervore quasi religioso, che il sintetizzatore era stato concepito proprio per compiere questo miracolo di comunicazione, e che soltanto lui avrebbe potuto usarlo per cogliere tutte le sfumature e le sottigliezze che una traduzione meccanica non sarebbe mai stata in grado di fornire. Egli aveva provato ad avvicinare sua madre perché gli concedesse di tentare, ma lei aveva sempre rifiutato, recisamente. — Questo è un centro di ricerche, non uno studio di registrazioni musicali.

E così, lui aveva finito per scavalcarla, recandosi personalmente da Reed, che si era mostrato subito entusiasta. E quando finalmente aveva sentito le sue mani muoversi su quelle piastre, nella calda luce da esse irradiata, mentre un vago pizzicore le invadeva, e aveva tentato di ricreare quel linguaggio di un altro mondo, egli seppe di aver avuto ragione da sempre. Lasciò perdere senza rimpianti i suoi impegni musicali, quasi con sollievo, mentre nuovamente scivolava nel campo che per lui era sempre venuto per primo.


Shannon studiò lo schermo dove T’uupieh spiccava, appoggiata disinvoltamente a! fianco curvo della sonda, nascondendo così buona parte dell’accampamento. Fortunatamente sia lei che la sua scorta trattavano la sonda con precauzione quasi ossessiva, anche quando la trascinavano da un posto all’altro, poiché essi non restavano mai fermi a lungo. Shannon si chiese che cosa sarebbe accaduto se essi avessero attivato inavvertitamente il sistema automatico di difesa, concepito per difendere la sonda da animali aggressivi e che produceva una scossa elettrica d’intensità variabile da un’acuta sofferenza alla morte. E si chiese anche che cosa sarebbe accaduto se la sonda e i suoi «occhi» non si fossero così perfettamente inquadrati nelle credenze di T’uupieh sui demoni. L’idea che avrebbe anche potuto non conoscerla mai, non udire mai la sua voce…

Più di un anno era trascorso dal giorno in cui lui e il resto dei mondo avevano appreso l’incredibile notizia che la luna più grande di Saturno ospitava vita intelligente. Egli non aveva alcun ricordo delle due sonde automatiche passate vicino a Titano nel 1979 e nel 1981, ma aveva ben presente l’impresa dell’Orbiter che nel 1990 aveva colto fugaci immagini della sua superficie, attraverso la densa coltre di nubi dorate. La manciata di microsonde sganciate dall’Orbiter avevano dimostrato che Titano godeva dello stesso «effetto serra» che faceva di Venere un inferno ribollente. E nonostante le temperature stagionali non si alzassero mai al di sopra dei duecento gradi Kelvin, le fotografie avevano mostrato, senza alcun dubbio, che su Titano esisteva la vita.

La scoperta della vita, dopo tante delusioni sugli altri mondi del sistema solare, era stata più che sufficiente al lancio di una nuova sonda, concepita per scendere sulla superficie di Titano e inviare il maggior numero possibile di dati ottenibili dal contatto diretto.

Quella sonda aveva scoperto una forma di vita d’intelligenza paragonabile a quella umana… o più esattamente, era stata quella forma di vita a scoprire la sonda. E la scoperta di T’uupieh aveva trasformato una missione potenzialmente fallita in un successo: la sonda era stata dotata di un’unità principale, fissa, per l’analisi e la ritrasmissione dei dati, e dieci «occhi» o unità sussidiarie che avrebbero dovuto esser disseminate sull’intera superficie di Titano per ritrasmettere informazioni. Lo sganciamento delle sonde sussidiarie durante l’atterraggio, tuttavia, era fallito, e tutti gli «occhi» erano caduti nel raggio di pochi chilometri quadrati, in mezzo alla palude disabitata. Ma l’egocentrismo affascinato di T’uupieh, e la sua disponibilità a soddisfare il suo «demone» avevano compensato ogni errore.

Shannon alzò di nuovo gli occhi sul piatto schermo alla parete, al volto incredibilmente disumano di T’uupieh, un volto che adesso gli era familiare come il suo allo specchio. Lei era lì, immobile, aspettando con incredibile pazienza una risposta dal suo «demone»: avrebbe dovuto aspettare per più di un’ora che le sue parole la raggiungessero attraverso il baratro fra i due mondi, e altrettanto, se non di più, sarebbe durata la sua attesa, mentre essi discutevano quale risposta darle e lui la ritrasmetteva verso Titano. Ella, adesso, passava più tempo con la sonda che con la sua gente. La solitudine del comando… Il profilo quasi piatto del suo viso bianco come la luna si girò leggermente verso di lui, verso la lente della telecamera; la sua bocca sottile si dischiuse appena in un sorriso, senza ostentare i lunghi denti acuminati. Egli vide un occhio rosso senza pupilla e la fessura a mezzaluna del naso che lo circondava per metà; il suo alito di cianuro condensato scintillava bianco-azzurro, illuminato dall’alone spettrale del fuoco di Sant’Elmo che circondava la sonda per tutta l’interminabile notte di otto giorni di Titano.

Egli distingueva altre sfere luminose appese come lanterne giapponesi all’intrico dei rami penduli imprigionati dal ghiaccio, in una macchia lontana.

Era incredibile… o perfettamente logico, a seconda del punto di vista dei vari esperti di biologia… che la vita basata sull’azoto e l’ammoniaca su Titano avesse tante analogie con la vita basata sull’ossigeno e l’acqua sulla Terra. Ma T’uupieh non era umana, e la musica delle sue parole gli aveva portato continuamente messaggi che si facevano beffe di qualunque ideale egli avesse tentato di nutrire su di lei, e su quel loro incredibile rapporto. Fino a oggi, durante quell’ultimo anno, lei aveva assassinato undici persone, e con i suoi fuorilegge chissà quante altre ne aveva sulla coscienza. Assassinio e rapina. L’unica ragione per cui collaborava con la sonda, gliel’aveva detto chiaramente, era che soltanto un demone aveva una reputazione più sanguinaria della sua… soltanto un demone poteva incuterle rispetto. Eppure, da quel poco che aveva saputo dire e mostrare del mondo in cui viveva, lei non era né meglio né peggio di chiunque altro: soltanto più abile. Era forse prigioniera di un’epoca, di una cultura, in cui il sangue era qualcosa che doveva essere versato e non condiviso. Oppure si trattava di qualcosa di biologicamente innato, che le permettava di filosofeggiare sulla brutalità e di brutalizzare la filosofia…

Alle spalle di T’uupieh, intorno al fuoco del campo alimentato dall’azoto, alcuni dei suoi fuorilegge avevano cominciato a cantare; le melodie popolari aliene, una volta tradotte, non erano altro che semplici versi ripetitivi, ma udite nella loro forma autentica, non tradotta, erano strutture armoniche di straordinaria complessità, un linguaggio musicale entro una più ampia, affascinante struttura melodica. Shannon protese la mano e s’infilò nuovamente la cuffia, dimentico di ogni altra cosa. Una volta aveva fatto un sogno in cui era riuscito a cantare quegli impossibili suoni…

Utilizzando i lunghi periodi di attesa fra una comunicazione e l’altra egli era riuscito, alcuni mesi addietro, a riprodurre in studio una serie di canzoni aliene, usando il sintetizzatore. Ma erano risultate versioni fin troppo scarne e lineari, in confronto agli originali, poiché, nonostante l’abilità da lui raggiunta in quella lingua, esse risentivano ancora fin troppo delle sue deficienze umane. Cantare faceva parte del loro rituale religioso, gli aveva detto T’uupieh. — Ma loro non cantano perché sono religiosi; cantano perché gli piace cantare. — Una volta, senza che gli altri sentissero, aveva suonato per lei una delle sue composizioni sul sintetizzatore. Lei l’aveva fissato (o meglio, aveva fissato l’occhio color ambra della sonda) in un silenzio gelido, anche se tollerante. Lei non cantava mai, anche se a volte lui l’aveva udita armonizzare sommessamente. Si chiese come avrebbe reagito se lui le avesse detto che le canzoni dei suoi fuorilegge gli avevano fatto vincere il suo primo Disco di Platino. Niente, probabilmente… ma conoscendola, se fosse riuscito a chiarirle i concetti, lei sarebbe stata probabilmente, e con entusiasmo, in completo favore dello sfruttamento commerciale.

Egli aveva acconsentito a donare i profitti del disco alla NASA (e nonostante fosse stata sua intenzione di farlo fin dall’inizio, si era sentito infastidito quando Reed gliel’aveva chiesto esplicitamente), col patto che nessuno avrebbe dovuto divulgare il suo gesto. Ma in qualche modo, alla successiva conferenza stampa, un paio di reporter avevano saputo fare le domande giuste, e Reed aveva spifferato tutto. E sua madre, quando le era stato chiesto di commentare il sacrificio di suo figlio, aveva mormorato: — Saturno sta proprio diventando un circo a tre piste. — E lo aveva lasciato a chiedersi se dovesse mettersi a ridere o a imprecare.

Shannon tirò fuori di tasca un pacchetto di sigarette tutto spiegazzato e ne accese una. Garda alzò la testa e annusò l’aria, in gesto di disapprovazione: lei non fumava, e del resto non sembrava avere alcun vizio (anche se lui sospettava che si desse da fare con gli uomini) e un giorno gli aveva tenuto una lunga lezione, del tutto sprecata, sull’argomento, terminando con la frase sibillina: — E non sanno neppure di tabacco! — Lui la fissò, scuotendo a sua volta la testa.

— Che cosa pensi dell’ultima vittima designata di T’uupieh? — Garda sventolò l’ultima trascrizione. — Pensi che ucciderà la propria sorella?

Egli esalò lentamente il fumo intorno alle proprie parole: — Sintonizzatevi domani per il nuovo, eccitante episodio! Credo che Reed ne sarà enormemente soddisfatto, non è vero? — Indicò il giornale che giaceva per terra accanto alla sua sedia. — Hai notato che siamo passati a pagina tre? — T’uupieh aveva infilato nel raccoglitore della sonda alcuni manufatti di metallo: qualcosa che, aveva detto, era noto soltanto agli «antichi»; e le congetture scientifiche circa l’esistenza di una precedente cultura tecnologica avevano nuovamente riacceso l’interesse del pubblico, riportando la sonda agli onori della prima pagina. Ma neppure notizie di simili scoperte potevano durare per sempre… — Dobbiamo tener alti quegli indici di gradimento, gente. Fare in modo che le sovvenzioni e le donazioni continuino ad arrivare.

Garda ridacchiò: — Sei arrabbiato con Reed, o con T’uupieh?

Shannon scollò le spalle, scoraggiato: — Con tutti e due. E non vedo come potremmo impedire a T’uupieh di uccidere sua sorella… — S’interruppe quando il brusio delle numerose persone che lavoravano al progetto in quella stanza s’intensificò, concentrandosi qua e là: Marcus Reed stava facendo il suo ingresso, risolvendo come al solito simultaneamente i problemi di tutti.

Shannon si meravigliava delle energie di Reed, pur provando nello stesso tempo qualcosa di simile al disgusto per il modo in cui le impiegava. Reed sfruttava tutti e tutto con affascinante cinismo, nell’interesse supremo della scienza, e l’osservarlo al lavoro aveva gradualmente prosciugato qualunque rispetto e buona volontà Shannon avesse portato con sé al progetto. Sapeva che la reazione di sua madre nei confronti di Reed non era molto dissimile dalla sua, anche se lei non gli aveva mai confidato niente in proposito; lo sorprendeva comunque il fatto che potesse esserci ancora qualcosa su cui andavano d’accordo.

— Dottor Reed…

— Mi scusi, dottor Reed, ma…

Ora sua madre aveva affiancato Reed e stavano percorrendo insieme la stanza; sua madre aveva le labbra strette e un’espressione rassegnata, e teneva il camice da laboratorio abbottonato fino in cima come nel tentativo di evitare ogni contaminazione. Reed, come al solito, sembrava uscito dalla rivista «Manstyle». Shannon abbassò gli occhi su quella specie di caffettano grigio che l’avvolgeva, dal quale spuntavano le estremità inferiori dei jeans.

— … Noi veramente vorremmo…

— Il senatore Foyle desidera che lei lo richiami…

— … Sì, va bene; e dica a Dinocci che può procedere a far esaminare un altro campione dalla sonda. Sì, Max, arriveremo anche a questo… — Reed invitò con un gesto al silenzio, quando Shannon e Garda si voltarono verso di lui, sui loro seggiolini. — Bene, ho appena sentito la notizia dell’ultimo sanguinario impegno sottoscritto dalla nostra «Robin Hood».

Shannon sogghignò in silenzio. Lui era stato il primo che aveva soprannominato T’uupieh «Robin Hood» per scherzo.

Reed l’aveva colto al volo e aveva chiamato le sue paludi di ammoniaca «Foresta di Sherwood» a beneficio della stampa. Ma quando la sanguinaria attività di lei, e la conseguente lunga lista di cadaveri, si erano risapute, ella era apparsa piuttosto una stretta collaboratrice dello Sceriffo di Nottingham, e alcuni cronisti avevano aggiunto che T’uupieh non assomigliava a Robin Hood più di quanto Rima assomigliasse a un uccello. Reed aveva replicato, ridendo: — Be’, dopotutto l’unica ragione per cui Robin Hood rubava ai ricchi era perché i poveri non avevano i soldi! — Questa frase, pensò Shannon, aveva segnato il vero inizio della sua profonda antipatia.

— … Questo potrebbe darci l’occasione di mostrare al mondo, visivamente, le aspre realtà della vita su Titano…

Ein moment — s’intromise Garda. — Ci stai dicendo che tu vuoi che il pubblico assista a queste atrocità, Marcus? — Fino a quel giorno, non avevano mai diffuso i nastri con le registrazioni di scene di assassinio; perfino Reed non era riuscito a escogitare nessuna giustificazione scientifica a una simile esibizione.

— No, non lo farà, Garda. — Shannon drizzò occhi e orecchi nell’udire sua madre pronunciare queste parole. — Eravamo tutti d’accordo, infatti, che non avremmo rilasciato nessun nastro a scopo puramente sensazionalistico.

— Carly, sai fin troppo bene che la stampa mi è sempre stata addosso perché rilasciassi quei nastri, e non l’ho mai fatto perché tutti abbiamo votato contro. Ma sento che questa situazione è diversa: la dimostrazione di una condizione socioculturale aliena… un documento unico, eccezionale. Che cosa ne pensi, Shann?

Shannon scrollò le spalle, senza preoccuparsi di nascondere la sua irritazione. — Non so che cosa ci sia di così maledettamente unico: un film di ammazzamenti è un film di ammazzamenti, dovunque lo si giri. Mi pare che l’idea puzzi di stantio. — Una volta, mentre era all’università, aveva visto un film in cui la vittima, senza nulla sospettare, veniva aggredita e fatta a pezzi. Quel film, e ogni altro simile, così rappresentativi di ciò che era la razza umana, gli avevano sempre fatto venire il voltastomaco.

Ach! C’è più verità che poesia in questo! — esclamò Garda. Reed si accigliò, e Shannon vide che sua madre faceva lo stesso.

— Ho un’idea migliore. — Shannon schiacciò il mozzicone di sigaretta nel portacenere sotto il quadro di comando. — Perché non lasci che cerchi di dissuaderla?

Nel preciso istante in cui lo disse si rese conto di ciò che voleva realmente tentare; e quanto il successo avrebbe significato per la sua fede nelle comunicazioni, per l’immagine che si era creato della gente di T’uupieh e forse di se stesso.

Tutti si mostrarono sorpresi. — E come? — domandò Reed.

— Be’… non lo so ancora. Lascia soltanto che le parli, che cerchi un’autentica comunicazione con lei, che scopra ciò che lei pensa e quello che prova, senza che tutta questa apparecchiatura tecnica interferisca, almeno per un po’.

Le labbra di sua madre compirono il prodigio di restringersi ancora un poco; egli vide le fin troppo familiari rughe della preoccupazione formarsi fra le sue sopracciglia. — Il nostro lavoro, qui, è di raccogliere qualunque «spazzatura» dallo spazio. Non cominciare a voler imporre i tuoi valori morali all’universo. Abbiamo anche troppo da fare con l’universo così com’è.

— Perché, è forse un’imposizione il tentativo di fermare un assassinio, anzi, un massacro? — Gli occhi solitamente sbiaditi di Garda lampeggiarono. — Ora, questo sì che ha delle vere implicazioni sociali. Pensaci, Marcus…

Reed annuì, dopo aver dato un’occhiata ai volti pazienti e attenti che lo circondavano. — Sì… infatti. Una massiccia dose d’interesse umano… — Mormorii e cenni del capo in risposta. — Va bene, Shann. Mancano circa tre giorni prima che il mattino sorga nuovamente sulla «Foresta di Sherwood». Puoi averli tutti per te, per lavorarti T’uupieh. La stampa vorrà continui rapporti dei tuoi progressi… — Egli guardò il suo orologio e annuì in direzione della porta, già mezzo voltato. Shannon evitò ostentatamente di guardare in viso sua madre, quando gli passò davanti.

— Buona fortuna, Shann — gli disse Reed con fare assente. — Non ci conterei molto, sulla possibilità di cambiar la testa a Robin Hood; ma puoi sempre provarci.

Shannon s’ingobbì sul seggiolino, aggrondato, e tornò a voltarsi verso il quadro di controllo. — Nella tua prossima incarnazione, possa tu ritornare sotto forma di water-closet.


T’uupieh era confusa. Ella sedeva su un’ingobbatura viscida di pietracqua, accanto al demone prigioniero, in attesa che le desse una risposta. Dall’istante in cui si era imbattuta in esso nella palude, più volte era rimasta stupita per la scarsissima rassomiglianza del suo comportamento con tutto ciò che la tradizione le aveva insegnato sui demoni. E stanotte…

Ella sussultò, sorpresa, quando il braccio grottesco e artigliato della sonda si animò all’improvviso, avanzando a tentoni fra i germogli scintillanti di ghiaccio argenteo che facevano capolino attraverso la poltiglia semifusa ai piedi della bassa collina. Il demone faceva molte cose incomprensibili (il che era appunto ciò che ci si poteva aspettare da un demone): esigeva offerte di carne, vegetazione, perfino di pietre… a volte addirittura parte del bottino che ella aveva sottratto agli incauti viaggiatori. Lei gli aveva offerto tutto questo con gioia, sperando di guadagnarsi il suo favore e il suo aiuto… sia pure col più vivo rincrescimento gli aveva concesso gli ornamenti di prezioso metallo degli «antichi» di cui aveva spogliato un piagnucolante signore straniero. Il demone l’aveva elogiata con particolare effusione per questo; tutti i demoni accumulavano metallo, le aveva detto, ed ella supponeva che esso fosse necessario a sostenere la loro forza: in particolare, il carapace a forma di cupola di questo demone, che in quel momento appunto riluceva del fuoco stregato che sempre lo avvolgeva, la notte, lo trasformava in un immenso gioiello metallico color del sangue. Eppure, lei aveva sempre sentito dire che i demoni preferivano la carne degli uomini e delle donne. Ma quando lei aveva cercato di cacciar dentro le fauci del demone l’ala del signore straniero, esso l’aveva sputata fuori, e le aveva imposto di lasciarlo andare. Sbalordita, aveva obbedito, lasciando che quello sciocco fuggisse urlando per perdersi in mezzo alla palude.

E poi, stanotte… — Stai per uccidere tua sorella, T’uupieh — le aveva detto, — e due bambini innocenti. Che cosa provi, dentro di te? — Ella aveva risposto subito, in tutta sincerità: — Che il nuovo giorno non sorgerà mai abbastanza presto per me! Ho aspettato tanto a lungo, troppo a lungo, per vendicarmi di Klovhiri! Mia sorella e i suoi mocciosi partecipano della sua sozzura: meglio trucidati, prima che possano moltiplicarsi! Istintivamente, aveva estratto il pugnale, conficcandolo nella poltiglia muschiosa, con l’identico ardore con cui l’avrebbe cacciato dentro i loro cuori.

Il demone aveva taciuto a lungo, come sempre faceva (la tradizione affermava che i demoni erano immortali, e perciò lei aveva sempre supposto che non avessero alcun motivo di darle rapide risposte, anche se, a volte, avrebbe desiderato che questo mostrasse un po’ di considerazione per la sua vita breve… Poi, alla fine, il demone aveva replicato, con la sua voce piena di strane risonanze: — Ma i bambini non hanno fatto del male a nessuno. E Ahtseet è la tua sola sorella, lei e i bambini sono i tuoi consanguinei. Ella ha condiviso la tua vita. Hai detto che una volta tu… — Il demone fece una pausa, cercando nel suo limitato magazzino di parole: — … Tu la adoravi, proprio per questo. Ciò che un tempo lei significava per te, non conta più nulla, adesso? Non rimane alcun amore in te che possa arrestare la tua mano, mentre la levi su di lei?

— Amore! — aveva esclamato lei, incredula. — Che razza di discorsi sono mai questi, o Senz’anima? Ti fai gioco di me… — Una rabbia improvvisa le aveva fatto digrignare i denti. — L’amore è un giocattolo, mio demone, e io mi sono lasciata alle spalle, da tempo, i giocattoli. E anche Ahtseet… ella non è più una mia consanguinea. Traditrice! — Le parole erano sibilate come le braci morenti del falò del campo; si era allontanata disgustata dal demone, per riattizzare, sotto lo strato isolante di polvere sulfurea, il falò, aggiungendovi qualche ramo inzuppato. Y’lirr, il suo secondo in comando, le aveva sorriso dal punto in cui era disteso, avvolto nel suo mantello, invitandola a dormire. Ma lei l’aveva ignorato, ed era tornata alla sua veglia sulla collina.

Anche se quella notte era fredda al punto da rivestire di cristalli i rami degli alberi di safilil, l’equinozio era passato da tempo, e ora la nebbiolina sottile, lo spolverio di pioggia di polimeri, faceva presagire i giorni dorati dell’estate in arrivo. T’uupieh, avvoltasi più strettamente nel mantello, aveva tirato su il cappuccio, per impedire che la nebbiolina vischiosa le si attaccasse alle ali e le insudiciasse le membrane auricolari; la precedente estate, la sua prima estate, le ritornò, come sempre, alla memoria.

…Ahtseet era una piccolina goffa, le minuscole ali sbattacchianti, quando quella prime estate era cominciata, e T’uupieh, la bambina più grandicella, aveva pensato che quella sua nuova sorella era stupida e inutile. Ma l’estate aveva lentamente traformato il mondo, e riempito i suoi occhi di miracoli; e anche la sua piccola sorella si era trasformata in un’allegra compagna di giochi, ubbidiente e fedele seguace in ogni avventura. Insieme avevano imparato a servirsi delle proprie ali, e a servirsi delle calde correnti ascendenti per esplorare i confini e le vaste estensioni del loro dominio.

E adesso, mentre la primavera nuovamente andava trasformandosi nell’estate, T’uupieh si aggrappava ferocemente a quella visione, non volendo perderla, o per ricordare che quella dolce, irragionevole estate della sua giovinezza non sarebbe mai più ritornata, anche se le stagioni ritornavano, poiché la Ruota della Vita, girando, non ripassava mai su se stessa. Nessun ritorno, dunque… Lei era diventata adulta alla fine dell’estate, e non si sarebbe mai più levata in volo libera e leggera sulle sue giovani ali. E Ahtseet, la piccola Ahtseet, sempre dietro di lei come un’ombra… No! Non avrebbe provato rincrescimento! Sarebbe stata lieta di…

— Hai mai pensato, T’uupieh — aveva detto il demone all’improvviso, — che è sbagliato uccidere qualcuno? Tu non vuoi morire… nessuno vuol morire troppo presto. Perché mai dovrebbe? Ti sei mai chiesta come sarebbe il mondo se potessi cambiarlo in modo che tu… che tu trattassi tutti gli altri allo stesso modo in cui vorresti che gli altri trattassero te, e gli altri la pensassero allo stesso modo? Se tutti potessero vivere, e lasciar vivere… — La sua voce era scivolata in una confusione di suoni acuti che lei non era più riuscita a seguire.

Ella aveva aspettato, ma il demone non aveva detto altro, come per invitarla a riflettere su ciò che aveva appena udito. Ma non c’era bisogno di pensare a ciò che era ovvio: — Soltanto i morti «vivono e lasciano vivere». Io tratto tutti come mi aspetto che essi trattino me, altrimenti finirei per raggiungere fin troppo presto quei morti così pacifici! La morte è una parte della vita. Noi moriamo quando il fato lo vuole, e quando il fato lo vuole, noi uccidiamo.

— Tu sei immortale, tu hai il potere di distorcere la Ruota, di deviare il destino, se lo vuoi. Puoi anche giocare con oziose fantasie, perfino farle diventare reali, e non soffrirne mai le conseguenze. Noi non abbiamo posto per simili cose nella nostra breve vita. Non importa quanto io tenti di amarti, alla fine morirò come tutti gli altri. Noi non possiamo cambiare nulla, la nostra vita è preordinata. Così è fra i mortali. — Ed ella era ripiombata nel silenzio, piena d’inquietudine a causa delle strane divagazioni della mente del demone. Ma lei non doveva permettere che ciò intaccasse il suo sangue freddo. Ben presto sarebbe spuntato il giorno, non doveva essere nervosa; doveva avere il completo controllo di se stessa, quando avrebbe guidato l’attacco contro Klovhiri. Nessun’altra emozione doveva interferire… non importava quanto ardesse dal desiderio di sentire il sangue bluastro di Klovhiri schizzare sulle sue mani, e quello di sua sorella, e quello dei suoi figli… I mocciosi di Ahtseet non avrebbero mai sentito il vento caldo sollevarli nel cielo, né si sarebbero tuffati, come lei aveva fatto, nelle profondità dai colori dell’arcobaleno, né avrebbero visto le torri spuntare alte e sottili fra gli alberi. Mai! Mai!

E all’improvviso aveva trattenuto il respiro, quando un fiammeggiante ruotaspillo era schizzato fuori dall’intricata cortina dei cespugli, dietro di lei, ruzzolando oltre la sua testa nella radura dell’accampamento. Lei l’aveva visto girare intorno al fuoco, sputacchiando scintille, sibilando furioso nell’aria tranquilla, tre volte e mezzo prima di proseguire la sua rapida corsa nei buio. Nessuno dei dormienti si era svegliato e soltanto un paio si erano mossi. Ella afferrò una delle gambe dure e angolose del demone, scossa nell’intimo, poiché sapeva che quel girare in cerchio intorno al fuoco aveva il significato d’un presagio… che però le era oscuro. Il bruciante silenzio che esso si era lasciato alle spalle l’opprimeva; lei continuò incessantemente ad agitarsi, allungando le ali.

E, completamente impassibile, il demone aveva cominciato a ronzare ancora una volta i suoi strani e cupi pensieri: — Non tutto ciò che hai sentito sui demoni è vero. Noi possiamo soffrire… — sembrò cercare le parole, — … le conseguenze delle nostre azioni. Fra noi lottiamo e moriamo. Siamo cattivi e brutali, e spietati. Ma non ci piace essere così. Noi vogliamo cambiarci in qualcosa di meglio, di più misericordioso, di più pronto a perdonare. Sbagliamo più spesso di quanto facciamo le cose giuste… ma crediamo di poter cambiare. E tu sei più simile a noi di quanto ti renda conto. Tu puoi tracciare una linea fra… fra la lealtà e il tradimento, fra il giusto e lo sbagliato, fra il bene e il male; puoi scegliere di non varcare mai quella linea…

— E come, dunque? — Si era voltata per fronteggiare l’occhio d’ambra grande quanto la sua testa, osando interrompere il discorso del demone. — Come può una goccia fermare l’onda di marea? È impossibile! Il mondo fonde e scorre, si alza sotto forma di bruma, diventa di nuovo ghiaccio, per poi fondere e scorrere di nuovo. Una ruota non ha né principio né fine; non comincia in nessun punto. Non esiste alcun «bene», alcun «male»… nessuna linea fra essi. Soltanto l’accettazione. Se tu fossi un mortale penserei che sei pazzo!

E aveva girato nuovamente la testa, graffiando la pietra rivestita di polimeri, mentre lottava per controllarsi. Follia… Era forse possibile? si chiese all’improvviso. Era forse possibile che il suo demone fosse impazzito? Come avrebbe potuto spiegare altrimenti, lei, i pensieri che le aveva insinuato nella mente? Pensieri folli, bizzarri, suicidi… pensieri che già lo stavano ossessionando.

Oppure era possibile che quella follia fosse soltanto un’apparenza, una finta? Ella sapeva che l’inganno si annidava nel cuore di ogni demone. Esso poteva semplicemente mentirle, quando le parlava di fiducia e di perdono, ben sapendo che lei doveva tenersi pronta per l’indomani, nella speranza, così facendo, di renderla dubbiosa di se stessa, di farla fallire. Sì, questo era assai più comprensibile. Ma allora, perché le era così difficile credere che quel demone stesse cercando d’impedirle di raggiungere gli obiettivi che lei da tanto tempo stava accarezzando, ciò a cui lei teneva di più? Dopotutto lei lo teneva prigioniero, e nonostante i suoi incantesimi gli impedissero di fare a pezzi il suo corpo, egli forse ancora tentava di fare a pezzi la sua mente, di farla impazzire. Perché mai non avrebbe dovuto odiarla, deliziarsi dei suoi tormenti, e sperare nella sua distruzione?

Com’era possibile che esso fosse così poco riconoscente? Ma lei era quasi scoppiata a ridere del proprio risentimento, quando le era venuta quell’idea. Come se un demone avesse mai conosciuto la gratitudine! Ma dal giorno in cui lei l’aveva intrappolato con i suoi incantesimi nella palude, gli aveva riservato il miglior trattamento. L’aveva preso e trasportato, ordinando ai suoi seguaci che l’aiutassero alla bisogna. Gli aveva dato il meglio di ogni cosa, qualunque cosa desiderasse. Secondo i suoi ordini, lei aveva mandato degli esploratori a cercare gli occhi smarriti del demone. E lui le aveva permesso, l’aveva perfino incoraggiata a usare quegli occhi come se fossero suoi, quali guardiani e protettori. Ella gli aveva insegnato a comprendere il proprio linguaggio (perché il demone era ignorante come un infante per ciò che riguardava il mondo dei mortali) quando si era resa conto che voleva comunicare con lei. Aveva fatto tutte queste cose per guadagnarsi i suoi favori, poiché sapeva che, se era caduto fra le sue mani, doveva esserci una ragione; e se lei fosse riuscita a guadagnarsi la sua collaborazione, non ci sarebbe stato più nessuno che avrebbe osato sbarrarle la strada.

Ella aveva trascorso ogni ora libera a tenergli compagnia, alimentando la sua curiosità, e la propria, mentre nutriva le sue fauci ingioiellate… fino a quando, gradualmente, queste conversazioni col demone erano diventate un fine in se stesse, un tesoro che valeva il sacrificio anche dei metalli più preziosi. Perfino la lunga, continua attesa che il demone valutasse con la sua mente aliena le sue domande e le sue risposte, non l’aveva mai stancata, lei era giunta perfino a provar piacere in questo condividere i suoi silenzi, e nel rilassarsi alla calda luce ambrata del suo sguardo.

T’uupieh abbassò lo sguardo alla cintura di fibre finemente intessute che, passando tra i suoi fianchi e le ali, le stringeva la tunica al corpo. Siorò i massicci grani ambrati che la decoravano: pasta intrisa di metallo racchiusa in pietracqua lucidata dalle arti segrete del gioielliere. Ciò le ricordava sempre gli innumerevoli occhi del suo demone. Il suo demone…

Volse di nuovo lo sguardo verso il fuoco, verso le forme avvolte nei mantelli dei suoi fuorilegge. Sin da quando il demone era venuto da lei, aveva sentito allargarsi gradualmente, ma ineluttabilmente, lo spazio sia fisico che mentale che la separava, come capo, dalla sua banda di seguaci. Era sempre il loro capo, oggi, anzi, ben più saldamente, poiché aveva dominato il demone; e il legame del pericolo condiviso che li univa non si era mai indebolito. Ma c’erano altri bisogni che la sua gente poteva reciprocamente soddisfare, mentre lei ne rimaneva irrimediabilmente esclusa.

Li fissò: dormivano profondamente, come morti; anche lei avrebbe dovuto dormire così, preparandosi all’indomani. Perché essi dormivano a intervalli irregolari, quando potevano, come faceva la gente comune, come faceva anche lei, adesso, senza ibernarsi durante la notte come la vera nobiltà. Molti dormivano a coppie, maschio e femmina, anche se usavano accoppiarsi con la mancanza di discriminazione tipica della gente comune, tutte le volte che la femmina sentiva che era giunta la sua stagione. T’uupieh si chiese che cosa mai s’immaginavano, nel vederla seduta lì, accanto al demone, fino a tarda notte. Lei sapeva ciò che essi credevano: che l’aveva scelto per suo consorte, o che esso aveva scelto lei. Vide che Y’lirr continuava a dormire solo. Y’lirr le piaceva, e si fidava di lui più di chiunque altro; era fulmineo e spietato, e sapeva anche che la venerava. Ma era un plebeo… e, cosa più importante, egli non l’aveva sfidata. In nessun luogo, neppure tra la nobiltà, aveva trovato qualcuno che le offrisse il tipo di compagnia che lei bramava… fino ad ora, finché il demone non era giunto. No, non era disposta a credere che tutte le sue parole fossero state menzogne…

— T’uupieh — il demone chiamò il suo nome ronzando nell’aria nebbiosa e scura. — Forse tu non puoi cambiare il disegno del fato, ma puoi sempre cambiare idea. Hai già sfidato il fato diventando una fuorilegge, e dichiarando la tua fame del sangue di Klovhiri. Tua sorella ha invece accettato… — alcune parole inintelleggibili. — …Lascia perciò che sia la Ruota a prenderla. Puoi davvero ucciderla per questo? Perché invece non ti sforzi di capire perché lo ha fatto, come ha potuto farlo? Non devi ucciderla per questo… non devi uccidere nessuno di loro. Hai forza sufficiente, hai coraggio, per mettere da parte la vendetta e trovare un’altra via per giungere ai tuoi scopi. Puoi scegliere di essere misericordiosa, puoi scegliere il tuo sentiero attraverso la vita, anche se la meta finale della vita è sempre, fatalmente, la stessa.

T’uupieh si alzò in piedi, risentita, fissando il demone in tutta la sua altezza, stringendosi il mantello intorno al corpo. — Anche se desiderassi cambiare idea, è troppo tardi. La Ruota è già in movimento… e io ora devo dormire, se voglio esser pronta. — S’incamminò verso il fuoco; si fermò un attimo, guardando dietro di sé: — Non c’è niente che io possa fare, adesso, o mio demone. Non posso cambiare il domani. Soltanto tu puoi farlo. Tu.

Ella lo udì, più tardi, che chiamava sommessamente il suo nome, mentre lei giaceva insonne sul gelido suolo. Ma voltò ostentatamente le spalle a quel suono e giacque immobile, e finalmente il sonno sopraggiunse.

Shannon ricadde nell’abbraccio del seggiolino imbottito, sfregandosi la testa dolorante. Le sue palpebre erano come carta vetrata, il suo corpo pesava come piombo. Fissò lo schermo, la schiena di T’uupieh girata ostentatamente verso di lui mentre ella dormiva accanto al falò dalle fiamme di azoto.

— D’accordo, è finita. Mi arrendo. Non ha voluto neppure ascoltare. Chiama Reed e digli che abbandono.

— Che abbandoni ogni tentativo di convincere T’uupieh? — chiese Garda. — Ne sei sicuro? Potrebbe ancora tornare sulle sue decisioni. Metti più enfasi sulle… sull’aspetto spirituale. Dobbiamo esser certi di aver fatto tutto quello che potevamo per… per farle cambiare idea.

Per salvare la sua anima, pensò lui, acido. Garda aveva ricevuto la sua prima istruzione in un istituto dedito alla lettura della Bibbia; durante le ultime ore, egli aveva scoperto in lei il desiderio ancora vivo, anche se inconscio, di far proseliti. Ma quale anima? — Stiamo sprecando il nostro tempo. Sono ormai sei ore che non mi rivolge più la parola. E non ha alcuna intenzione di tornare a farlo… Di’ pure a Reed che intendo abbandonare tutto. Non voglio esser qui per la scena madre, ne ho avuto abbastanza.

— Tu non parli sul serio — ribatté Garda. — Sei stanco. Hai anche tu bisogno di riposo. Quando T’uupieh si sveglierà, potrai parlarle di nuovo.

Egli scosse la testa, ricacciando indietro i capelli. — Dimenticatene. Chiama Reed e basta. — Guardò fuori dalla finestra, all’alba brumosa contro la quale cominciavano a stagliarsi i profili dei condomini balneari.

Garda scrollò le spalle, delusa, e si voltò verso il telefono.

Shannon studiò le senso-piastre del sintetizzatore, ancora avvolte dalla fosforescenza e in attesa, le quali invitavano, mute, le sue mani stanche e appesantite a tentare ancora una volta… E pensò che se avesse fatto quell’ultimo appello, non sarebbe più stato costretto, almeno, a farlo davanti agli occhi e agli orecchi di un mondo in attesa: era assai difficile che vi fossero dei cronisti talmente dediti al proprio mestiere da trovarsi ancora, a quell’ora, nella sala-osservatorio dalla parete di vetro. La sera prima, sul presto, le loro domande erano state interminabili, e avevano scavato impietose nei suoi sentimenti, nelle sue motivazioni, nei suoi progetti, interrogandolo sulla moralità di «Robin Hood», o meglio sulla mancanza di essa… e anche sulla sua moralità, e frugando fra cento altre cose che erano soltanto affari suoi, di lui, Shannon.

Un tempo, anche il mondo della musica aveva tentato di fare lo stesso con lui, ma allora c’erano stati dei paraurti, agenti, addetti alla pubblicità, a proteggerlo. Ora, invece, quando c’era tanto di più in gioco, lui non aveva goduto di nessuna protezione, anzi, Reed, al microfono, aveva ricacciato con la sua eloquenza l’intera stanza e il resto della gente sullo sfondo, esibendo Shann il Terrestre come attrattiva principale, un prodigio (o un mostro?), fino a quando lui aveva cominciato a sentirsi come un uomo spalmato di miele e sepolto in un formicaio. I cronisti guardavano dall’alto delle loro torri d’avorio, criticando le risposte di T’uupieh e le sue, e riempivano gli spazi di tempo fra una domanda e l’altra, quando lui avrebbe avuto più necessità di riflettere, con interruzioni che lo facevano infuriare. Il successo di Reed nello spremere ogni goccia di pathos e d’interesse «umano» dalla sua lotta per impedire la vendetta di T’uupieh contro degli innocenti era stato totale… e proprio in tal modo era riuscito a farlo fallire.

No. Egli si rizzò a sedere, cercando di alleviare la pressione sulla schiena. Non poteva farne colpa a Reed. Quando finalmente ciò che lui rispondeva era diventato realmente importante, i cronisti avevano smesso di ascoltarlo. Il fallimento era suo, soltanto suo: la sua abilità non era bastata, il suo messaggio non era stato abbastanza convincente, lui, soltanto lui non era stato capace di vedere con sufficiente chiarezza attraverso gli occhi di T’uupieh, cosicché lei vedesse attraverso i suoi. Egli aveva avuto questa possibilità di comunicare veramente, per una volta nella sua vita: di comunicare qualcosa d’importante. E aveva fatto fiasco.

Una mano gli comparve davanti e appoggiò una tazza di caffè fumante sulla mensola sotto il terminal. — C’è una cosa buona in questo computer — mormorò una voce. — È programmato per una buona tazza di caffè.

Egli scoppiò a ridere, stupito per questo suo atto istintivo; alzò gli occhi. Il volto di sua madre era stanco e tirato, e lei reggeva un’altra tazza di caffè in mano. — Grazie. — Egli prese la propria tazza e ne inghiottì un sorso, sentì il liquido caldo che gli scivolava nello stomaco vuoto. Senza sollevare un’altra volta gli occhi, disse: — Be’, hai avuto quello che volevi. E così anche Reed. Ha avuto tutte le emozioni che voleva, e anche i suoi assassinili.

Lei scosse la testa: — Non è questo che volevo. Non voglio vederti rinunciare a tutto quello che hai fatto qui, soltanto perché non ti piace il modo in cui Reed se ne serve. Non vale la pena che tu rinunci per questo. Il tuo lavoro significa troppo per questo progetto… e significa troppo per te.

Egli tornò ad alzare lo sguardo.

Ja — s’intromise Garda. — Tua madre ha ragione, Shannon. Non puoi andartene adesso; abbiamo troppo bisogno di te. E anche T’uupieh ha bisogno di te.

Egli rise di nuovo, senza volerlo: — Come uno jo-jo di cemento. Che cosa stai cercando di fare, Garda… di usare il mio moralizzare contro di me?

— Ti sta dicendo ciò che anche un cieco potrebbe vedere stanotte… se non l’avesse visto già molti mesi fa… — La voce di sua madre suonava stranamente remota. — Che questo progetto, cioè, non avrebbe ottenuto i suoi incredibili risultati senza di te. E che avevi ragione, circa il sintetizzatore. E che perderti adesso potrebbe…

S’interruppe, voltandosi a guardare Reed che stava entrando dalla porta in fondo. Una volta tanto era solo, e niente affatto inappuntabile. Shannon intuì che doveva essere addormentato quando gli era giunta la telefonata, e si sentì irrazionalmete contento per averlo svegliato in quel modo.

Reed non era altrettanto contento. Shannon osservò la sua fronte corrugata, che poteva essere o no un segno di preoccupazione, o di dispiacere, o di entrambi, mentre egli attraversava la stanza echeggiante, diretto verso di loro. — Che cosa intendi dire, con questa dichiarazione che vuoi andartene? Soltanto perché non riesci a far cambiare idea a una mente aliena? — Infilò la testa nel cubicolo e scrutò il terminal per assicurarsi che tutti i microfoni collegati con l’esterno della stanza fossero spenti, immaginò Shannon. — Sapevi che era una cosa azzardata, probabilmente senza speranza… Devi accettare il fatto che lei non vuole cambiare, devi renderti conto che i valori di una cultura aliena possono essere diversi dai nostri…

Shannon tornò a lasciarsi andare contro lo schienale, un muscolo all’interno del suo gomito aveva preso a contrarsi per la fatica. — Questo posso accettarlo. Ciò che non posso accettare è che tu voglia trasformarci in un branco di dannati mezzani. Cristo! E non hai neppure un briciolo di giustificazione! Io non sono venuto qui per comporre la colonna sonora di un film di omicidi. Se hai intenzione d’insistere e di dare in pasto al mondo questo massacro, io ne esco fuori. Non ho alcuna intenzione di rinunciare, ma non voglio restare per un carnevale di porno-uccisioni!

Le rughe di Reed si fecero più profonde, ed egli volse lo sguardo altrove. — Be’, e gli altri? Anche voi, nel vostro intimo, mi tacciate di complicità in questi assassinii? Carly?

— No, Marcus… non esattamente. — Ella scosse la testa. — Ma tutti noi sentiamo che non dovremmo screditare la nostra ricerca facendo di essa uno spettacolo pubblico. Dopotutto la gente di Titano ha diritto alla sua privacy e al rispetto come qualunque altra cultura sulla Terra.

Ja, Marcus… credo che siamo tutti d’accordo su questo.

— E quant’è, secondo voi, la privacy di cui oggigiorno chiunque può disporre sulla Terra? Buon Dio, ricordate il Tasaday? Ed è stato trent’anni fa. Non rimane una singola cima montana o un’isola deserta che l’occhio onnipresente delle telecamere non abbia trasmesso in tutto il mondo. E come chiamereste le leggi sulla prevenzione dei crimini? La nostra vita è tutta una serie di buchi di serratura dove in qualunque momento un occhio vi può guardare.

Shannon scosse la testa: — Questo non significa che noi dobbiamo…

Reed si girò a fissarlo, gelido: — E ne ho piene le tasche di quella tua compassione da piccolo fesso furbastro, Wyler. A che cosa devi il tuo successo come musicista se non alla pubblicità? — Indicò con un gesto i manifesti alle pareti. — C’è più battage pubblicitario per vendere il tuo tipo di musica che per qualunque altro strimpellatore!

— Devo rassegnarmi a una qualche spinta pubblicitaria, altrimenti non potrei arrivare alla gente, non potrei fare quello che è importante per me: comunicare. Questo non significa che mi piaccia.

— Credi che a me piaccia?

— Non ti piace?

Reed esitò. — Si dà il caso che io sia in gamba in questo mestiere, il che è quello che conta veramente. Anche se tu non ci crederai, io sono pur sempre uno scienziato, e quello che m’importa di più è assicurarmi che la ricerca ottenga la sua fetta di torta. Tu dici che non ho alcuna giustificazione per propagandare così le nostre scoperte. Ti rendi conto che la NASA ha perso tutti i dati della nostra sonda di Nettuno solo perché qualcuno ci ha tagliato i fondi? Il vero problema di queste lunghe missioni lontane dal nostro pianeta non è nel corretto funzionamento degli strumenti, ma nell’affidabilità finanziaria. Il pubblico è disposto a pagare milioni per uno dei tuoi concerti, ma neppure un centesimo per qualcosa che non capisce…

— Io non…

— La gente vuol dimenticare i propri guai, divertirsi… e chi può biasimarla? Perciò, per competere con i film, con gli spettacoli sportivi, e con la gente come te, gli astri della musica e delle canzoni, per non parlare di altre diecimila meritevoli cause pubbliche e private, noi dobbiamo dare al pubblico ciò che vuole. È mia responsabilità offrire al pubblico questo prodotto, cosicché i «veri scienziati» possano starsene seduti nei loro istituti lustri e luminosi, con mezzo miliardo di dollari di apparecchiature intorno a loro, a parlare di «rispetto per la ricerca»!

Fece una pausa, mentre Shannon continuava a fissarlo ostinatamente. Poi aggiunse: — Pensaci. E quando saprai dirmi in qual modo ciò che hai fatto come musicista è moralmente superiore a quello che stiamo facendo adesso, o più valido, potrai venire nel mio ufficio e dirmi chi è il vero ipocrita. Ma prima pensaci bene… pensateci bene tutti. — Quindi Reed si voltò e uscì dalla stanza.

Stettero in silenzio finché le ante della porta in fondo alla stanza smisero di oscillare. — Be’… — Garda fissò il suo bastone da passeggio, poi abbassò lo sguardo sul suo maglione. — Un punto a suo favore.

Shannon si sporse in avanti, facendo passare le dita sulla complessa, affascinante struttura del sintetizzatore, mentre la mescolanza degli effetti del disappunto e della caffeina ricacciavano indietro la fatica. — Sì, lo so. Ma non è questo che mi sforzavo di dire! Io non volevo far cambiare idea a T’uupieh, o andarmene da questo progetto perché trovo insopportabile che tutto ciò sia offerto al pubblico. È il modo in cui viene venduto, come una specie di spettacolo di perversioni porno-omicide, che non posso sopportare… — Ricordò quel certo tipo di notorietà di cui avevano goduto i concerti rock, quando lui era bambino; ma adesso apparivano rispettabili quanto un concerto di musica sinfonica, paragonati agli «spettacoli elettrizzanti» che li avevano eclissati man mano che lui era cresciuto, dove i protagonisti rischiavano la propria vita per un premio d’un milione di dollari davanti a una folla che interveniva sbavando all’idea di vederli perdere; dove i masochisti si guadagnavano da vivere automutilandosi; dove si proiettavano i film-verità di massacri e di morte.

— Voglio dire, è questo che tutti vogliono veramente? Davvero tutti si sentono meglio guardando il sangue che sprizza dal corpo dei loro simili? Oppure adesso si pensa, addirittura, che noi ne trarremo una sorta di superiorità morale, nel vederlo accadere su Titano, invece che quaggiù? — Si voltò a fissare lo schermo, dove T’uupieh continuava a dormire, immobile e irremovibile. — Se riuscissi a far cambiare idea a T’uupieh, oppure a far cambiare ciò che sta accadendo qui, allora, forse, potrei sentirmi soddisfatto, sì… sentirmi meglio. Se non altro di fronte a me stesso. Ma… — scosse la testa, — … chi sto prendendo in giro, parlando così? — T’uupieh aveva avuto ragione fin dall’inizio, e adesso anche lui era costretto ad ammetterlo: non c’era mai stato alcun modo di cambiare l’una o l’altro. — T’uupieh non è un mostro, semplicemente è come tutti loro, preferirebbero tagliarsi la mano, piuttosto che stringertela… E facendo lo stesso per interposta persona, significa che noi non siamo migliori. E che nessuno di noi lo sarà mai. — Le parole di una canzone più vecchia di lui gli si insinuarono nella mente, con improvvisa ironia: — «Le mani di un solo uomo non possono… — egli cominciò a spegnere il terminal, — … costruire tutto».

— Hai bisogno di dormire… tutti abbiamo bisogno di dormire. — Garda si alzò dalla sedia con movimenti rigidi.

— «… Ma uno e uno e uno e cinquanta fanno un milione» — fece sua madre a bassa voce, continuando inaspettatamente la citazione.

Shannon si girò a guardarla, la vide scuotere la testa; lei sentì che lui la stava guardando e alzò gli occhi. — Dopotutto, se T’uupieh avesse potuto accettare che tutto ciò che lei faceva era moralmente cattivo, allora che cosa sarebbe avvenuto di lei? Lo sapeva fin troppo bene: ne sarebbe stata distrutta… noi l’avremmo distrutta. Sarebbe stata spazzata via, finendo affogata nella marea della violenza. — Sua madre guardò Garda, poi riportò lo sguardo su di lui: — T’uupieh, a prescindere da ogni altra cosa, è una realista.

Egli sentì stringersi la sua bocca contro il risentimento in cui si estrinsecava un’emozione più profonda e più dolorosa; sentì il grugnito d’indignazione di Garda.

— Ma questo non significa che tu ti sia sbagliato o abbia fallito.

— Molto generoso da parte tua. — Si alzò in piedi a sua volta, facendo un cenno a Garda col capo, e si diresse verso l’uscita. — Vieni.

— Shannon.

Egli si fermò senza voltarsi.

— Non credo che tu abbia fallito. Credo che tu sia riuscito a toccare T’uupieh nell’intimo. L’ultima cosa che ha detto è stata: «Non posso cambiare il domani. Soltanto tu puoi farlo»… Credo che ella abbia sfidato il demone ad agire, a fare ciò che lei non poteva da sola. Sono convinta che ti ha chiesto di aiutarla.

Egli si voltò lentamente: — Credi davvero?

— Sì, lo credo. — Chinò la testa, liberando le ciocche di capelli che le si erano infilate nel collo del maglione.

Lui ritornò al suo seggiolino imbottito, le sue dita sfiorarono le piastre ora buie, inerti. — Ma non servirebbe a nulla parlarle di nuovo. In qualche modo il demone deve fermare lui stesso l’attacco. Se soltanto potessi usare la «voce» per avvertirli… Maledizione a questa enorme distanza, al ritardo delle comunicazioni! — Quando la sua voce li avesse raggiunti, l’attacco sarebbe ormai già terminato. Come avrebbe potuto cambiare qualcosa «domani», con quelle due eterne, irrimediabili ore di ritardo?

— So come aggirare il problema del ritardo.

— Come? — Garda si sedette a sua volta, lasciando trasparire una ridda di emozioni sul suo ampio volto rugoso. — Non puoi inviare un avvertimento prima del tempo. Nessuno può sapere quando passerà Klovhiri. Potrebbe arrivare troppo presto o troppo tardi.

Shannon si rizzò sul seggiolino: — Sarebbe meglio chiedere «perché?» — Si rivolse a sua madre. — Perché hai cambiato idea?

— Non ho mai cambiato idea — rispose pacatamente sua madre. — E neppure mi è mai piaciuto tutto questo. Quand’ero ragazza, avevamo l’abitudine di credere che le nostre azioni potessero cambiare il mondo; forse non ho mai smesso di volerlo credere.

— Ma a Marcus non piacerà che ci mettiamo a tramare dietro la sua schiena. — Garda agitò il suo bastone. — E che mai potreste obiettare al fatto che, forse, è proprio vero che abbiamo bisogno di questa pubblicità?

Shannon si voltò a guardarla, irritato: — Pensavo che tu fossi dalla parte degli angeli, non l’avvocatessa del diavolo.

— Ma io sono dalla parte degli angeli! — Garda fece una smorfia. — Però…

— E allora che cosa c’è che non va nel fatto che la sonda cercherà di compiere un salvataggio all’ultimo minuto? Non sarà anche questa una notizia sensazionale?

Vide che sua madre sorrideva, per la prima volta dopo tanti mesi.

— Sensazionale… sempre che T’uupieh non ci abbandoni in mezzo alla palude, per il nostro tradimento.

Shannon replicò, in tono più calmo: — No, se T’uupieh desidera veramente il nostro aiuto. E io so che lo vuole… Lo sento. Ma in che modo potremo aggirare l’ostacolo del ritardo?

— Io sono l’ingegnere, ricordi? Mi servirà un tuo messaggio registrato, e un po’ di tempo per trafficarci sopra. — Sua madre gli indicò il terminal del computer. Shannon lo accese, e lasciò libero il seggiolino. Sua madre prese posto e cominciò a formare un programma sullo schermo, prelevando dati dalla memoria del computer. Sullo schermo si formò la scritta: TELECOMUNICAZIONI A COMANDO MANUALE. — Vediamo… — disse. — Mi servirà un controllo a retroazione sull’avvicinarsi del gruppo di Klovhiri.

Shannon si schiarì la gola: — Dicevi sul serio, prima che Reed entrasse?

Ella sollevò lo sguardo, e lui percepì la risposta inespressa che si formava sul volto di lei, che finì per sfumare in un nuovo sorriso: — Garda… questo è mio figlio il Linguista, no?

— E quando mai ti è capitata fra le mani quella canzone di Pete Seeger?

— Ma ti sei mai chiesta perché ho anche un figlio musicista? — A sua volta Shannon fu spinto a sorridere. — Ho ascoltato qualche disco, ai miei tempi — proseguì sua madre, e il suo sorriso sembrò rivolgersi, assorto, a qualche ricordo interiore, mentre continuava a fissarlo: — Credo di non averti mai detto di essermi innamorata di tuo padre perché mi ricordava Elton John.


T’uupieh restò silenziosa, fissando l’occhio impassibile del demone. Il nuovo giorno stava trasformando le nuvole da cumuli bronzei in un fiammeggiare dorato; il bagliore filtrava tra le fronde scintillanti degli alberi nodosi, riflettendosi sulle verdi, lucide superfici dei dirupi e dei pendii, e infine sulla superficie brunita del carapace del demone. Lei rosicchiò le ultime sfilacciature di carne da un osso, costringendosi a nutrirsi, appena cosciente di ciò che stava facendo. Aveva già inviato degli osservatori in direzione della città, per tener d’occhio Chwiul… e il gruppo di Klovhiri. Dietro di lei il resto della banda si stava adesso preparando, provando le armi e i riflessi, oppure riempiendosi la pancia.

E il demone non le aveva ancora parlato. C’erano state altre occasioni in cui aveva scelto di non parlare per molte interminabili ore; ma dopo le sue folli farneticazioni della notte prima, lei era ossessionata dal pensiero che potesse non parlarle mai più. La sua preoccupazione crebbe, accendendo la miccia della sua collera, che quel mattino era già fin troppa. Al punto che, in un accesso di rabbia, avanzò e sconsideratamente colpì la sonda con la mano aperta: — Parlami, mala’ingga!

Ma quando la sua mano toccò la superficie, un dolore, come una fiammata incandescente, le attraversò fulmineo i muscoli del braccio. Ella balzò indietro con un’esclamazione di sorpresa, scrollando la mano. Mai prima di allora il demone aveva reagito contro di lei, mai le aveva fatto del male in alcun modo. Ma lei, non aveva mai osato colpirlo prima di allora, lo aveva sempre trattato con calcolato rispetto. Sciocca! Ella si guardò la mano, temendo di vederla malamente ustionata, il che avrebbe costituito una grave menomazione per l’attacco di oggi. Ma la pelle era perfettamente liscia e senza vesciche, e soltanto un’intensa sensazione di bruciore testimoniava della scossa ricevuta.

— T’uupieh, stai bene?

Si girò e vide Y’lirr, che le era giunto silenziosamente alle spalle, fra il serio e lo spaventato. — Sì — lei annuì, frenando una risposta più tagliente alla vista della sua preoccupazione. — Non è stato nulla. — Egli le aveva portato il suo arco doppio e la faretra, lei si protese ad afferrarli proprio con la mano che le faceva male, con gesto disinvolto, e se li infilò a tracolla. — Vieni, Y’lirr, noi dobbiamo…

— T’uupieh. — La voce arcana del demone la chiamò all’improvviso. — T’uupieh, se credi nel mio potere di cambiare il destino a volontà, allora devi tornare indietro e ascoltarmi.

Ella si voltò; sentì Y’lirr esitare alle sue spalle. — Sì, io credo in tutti i tuoi poteri, mio demone! — Si sfregò la mano colpita.

Le profondità ambrate dell’occhio assorbirono la sua espressione, lessero la sua sincerità; o per lo meno, lei lo sperò. — T’uupieh, so che non sono riuscito a convincerti. Ma voglio che tu… — le sue parole si fecero inintellegibili, — … in me. Voglio che tu sappia il mio nome. T’uupieh, il mio nome è…

Ella udì Y’lirr che, dietro di lei, lanciava un grido di orrore. Girò la testa, vide che si copriva gli orecchi; poi si voltò nuovamente a fissare il demone, paralizzata dall’incredulità.

— … Shang’ang.

Questa parola la sferzò quanto il fuoco del demone, ma questa volta fu colpita soltanto la sua mente. T’uupieh urlò, protestando disperatamente, ma il nome era già penetrato nella sua coscienza. Troppo tardi!

Passò un lungo attimo, poi ella respirò profondamente e scosse la testa. L’incredulità l’inchiodava ancora alla sua immobilità, mentre lasciava che i suoi occhi scrutassero l’accampamento che andava illuminandosi e ascoltava i suoni della foresta che si risvegliava, respirando l’acidulo aroma dei germogli di primavera. Poi, scoppiò a ridere. Aveva udito un demone pronunciare il proprio nome, e lei viveva ancora! E non era né cieca, né sorda, né pazza. Il demone aveva scelto lei, si era unito a lei, si era finalmente arreso a lei!

Stordita dall’improvvisa esultanza, non si rese conto, sulle prime, che il demone aveva continuato a parlarle. Ma subito interruppe la canzone trionfale che s’innalzava dentro di lei, e ascoltò:

— … Quindi ti ordino di condurmi con te quando partirai quest’oggi. Devo vedere ciò che accade a Klovhiri e ai suoi.

— Sì! Sì, mio… Shang’ang. Sarà fatto come tu desideri. Il tuo capriccio è il mio desiderio. — Ella si girò e cominciò a scendere il pendio, ma si arrestò là dove Y’lirr si era gettato a terra quando il demone aveva pronunciato il proprio nome. — Y’lirr? — Ella lo spinse col piede. Provò sollievo quando vide che alzava la testa; vide la propria incredulità riflessa sul volto di lui, quand’egli la fissò.

— Mia signora… non ti ha…

— No, Y’lirr — lei gli rispose in un sussurro. Poi aggiunse, in tono più brusco: — Naturalmente non l’ha fatto! Adesso io sono veramente la Consorte del Demone, nessun ostacolo potrà più fermarmi. — Lo urtò nuovamente col piede, con più forza. — Alzati. Che cosa mai ho qui con me, un branco di codardi piagnucolanti pronti a rovinare il mattino del mio trionfo?

Y’lirr si tirò su in piedi, ripulendosi. — Questo mai, T’uupieh! Siamo pronti a qualunque tuo ordine! Pronti a eseguire la tua vendetta. — La sua mano si strinse intorno all’elsa del pugnale.

— E il mio demone si unirà a noi! — L’orgoglio echeggiava nella sua voce. — Fatti aiutare da qualcuno e porta qui una slitta. E di’ agli uomini di muoverlo con la maggior delicatezza.

Egli annuì, lanciò una rapida occhiata al demone e T’uupieh colse nei suoi occhi un lampo di paura misto a invidia. — Buone notizie — lo rassicurò. Poi Y’lirr si allontanò, brusco e rozzo come sempre, senza neppure voltarsi a guardarla.

Ella udì un clamore levarsi dal campo, e si voltò, aguzzando gli occhi, pensando che la novità del demone si fosse già diffusa. Ma poi vide Lord Chwiul che stava arrivando, come aveva promesso, guidato nella radura dalla scorta che lei gli aveva inviato. Lo fissò sgranando gli occhi: era venuto davvero da solo, ma cavalcava un bliell. Erano montature rare e costose, essendo le uniche bestie che lei conosceva in grado di reggere a tanto peso, ma anche cattive e difficili da addestrare. Ella osservò quest’esemplare che azzannava l’aria, i denti aguzzi che sporgevano dalle labbra carnose gocciolanti saliva, ed ebbe un lieve sorriso. Vide che la scorta si teneva a debita distanza dai piedi palmati grossi come ceppi, le lance protese pronte a conficcarsi nelle sue carni per ridurlo alla ragione. Era un anfibio, troppo pesante per riuscire a volare con le sue gracili ali, ma era assai agile e un eccellente nuotatore.

T’uupieh considerò brevemente le dita palmate delle sue mani e dei piedi, le ali che adesso riuscivano a stento a sollevare il suo corpo per pochi istanti, e tornò a chiedersi, così come l’aveva fatto tante volte, quale strano tiro del destino avesse formato, o trasformato, tutti loro.

Vide Y’lirr parlare con Chwiul, voltandosi a indicarla, vide il suo sogghigno insolente e la traccia di apprensione che Chwiul mostrò, guardando a sua volta verso di lei. T’uupieh fu certa che gli avesse detto: — Lei conosce il suo nome.

Chwiul cavalcò, venendole incontro, controllando l’espressione del proprio viso mentre si sottoponeva all’esame del demone. T’uupieh allungò una mano accarezzando lievemente, con distratta disinvoltura, il fianco sensualmente curvo del demone sfaccettato come un gioiello. I suoi occhi lasciarono per un attimo Chwiul, istintivamente attirati dal cielo sopra di lui, e per un mezzo istante vide squarciarsi le nubi…

Ammiccò, per distinguere più chiaramente, ma quando guardò di nuovo era scomparso. Nessun altro, neppure Chwiul, aveva visto il disco gibboso d’oro verdastro, attraversato da una riga argentea e chiazzato di nero: la Ruota della Vita. Mantenne il proprio viso senza espressione, ma il cuore accelerò i battiti. La Ruota appariva soltanto quando la vita di qualcuno stava per essere cambiata profondamente, e di solito il cambiamento significava morte.

La cavalcatura fece un improvviso scarto, quando Chwiul la fermò. Lei restò immobile accanto al demone, ma un po’ della bava bluastra del bliell finì sul suo mantello quando Chwiul diede uno strattone alla massiccia testa. — Chwiul! — Ella lasciò che la sua emozione sgorgasse sotto forma di collera. — Tieni quella sporcizia sbavante sotto controllo, altrimenti la farò uccidere! — Le sue dita accarezzarono la pelle liscia del demone.

Il mezzo sorriso di Chwiul svanì, ed egli tirò indietro la sua cavalcatura, fissando a disagio l’occhio del demone.

T’uupieh tirò un profondo sospiro, e a sua volta sorrise: — Così, dopotutto, non hai osato venire tutto solo al mio campo, signore.

Egli si curvò leggermente sulla sella: — Semplicemente ho esitato ad avventurarmi in questa palude a piedi, da solo, finché i tuoi non mi avessero incontrato.

— Capisco. — Ella conservò il suo sorriso. — Bene, allora… Presumo che tutto si stia svolgendo come tu hai progettato. Klovhiri e il suo gruppo sono tutti in cammino verso la nostra trappola?

— Lo sono. E la loro guida aspetta soltanto il mio segnale, per condurli lontano dal terreno sicuro, in qualunque pantano tu scelga.

— Bene. Ho in mente un punto tutto circondato da alture. — Ella ammirava l’autocontrollo di Chwiul in presenza del demone, anche se percepiva il suo sforzo per mostrarsi calmo. Vide alcuni dei suoi che venivano verso di loro, con una slitta per trasportare il demone lungo la loro pista. — Il mio demone ci accompagnerà, per suo stesso desiderio. Un presagio sicuro per il nostro successo, oggi, non sei d’accordo?

Chwiul si aggrondò, come se volesse mettere in dubbio la cosa, senza però osare del tutto farlo. — Se ti serve fedelmente, allora sì, mia signora. Un grande onore e un buon presagio.

— Mi serve con vera devozione. — Ella tornò a sorridere, insinuante.

Si scostò, quando la slitta giunse in cima al poggio, e sorvegliò i suoi uomini mentre sollevavano il demone e ve lo adagiavano sopra, per essere sicura che la sua gente usasse la giusta delicatezza. La rinnovata deferenza con cui i fuorilegge trattavano il demone, e il loro capo, non sfuggì né a Chwiul né a lei.

Alla fine chiamò a raccolta la sua gente, e tutti si misero in moto verso la loro destinazione, aprendosi la strada sopra la superficie fumante dell’acquitrino e fra i viscidi tentacoli blu-ardesia del fragile sottobosco che si andava scongelando. T’uupieh si congratulò con se stessa per il fatto che lei e i suoi uomini avevano percorso così spesso quel territorio, poiché le macchie inestricabili della vegetazione primaverile e la muschiosa imprevedibilità del terreno alteravano da un giorno all’altro i percorsi agibili. Lei sperava di separare Chwiul dalla sua orrenda cavalcatura, ma dubitava che lui avrebbe accondisceso, e comunque temeva che non sarebbe riuscito a reggere al loro passo se fosse venuto a piedi. Il demone era saldamente legato alla sua slitta, e i portatori, madidi di sudore, continuavano a trainarlo senza un solo lamento.

Finalmente raggiunsero le alture che sovrastavano la strada principale, anche se difficilmente avrebbe potuto esser definita così, adesso, che conduceva al maniero della sua famiglia. Ella fece disporre il demone in posizione tale da consentirgli di guardare per un lungo tratto lungo la pista cespugliosa, nella direzione da cui Klovhiri sarebbe arrivato, e mandò alcuni dei suoi seguaci a sistemare, ben nascosti, i suoi «occhi» più in là lungo il percorso. Poi ella restò immobile a guardar giù verso il punto in cui la pista sembrava biforcarsi. In realtà, la falsa biforcazione seguiva i bordi giallastri alla base del dirupo, sotto di lei, e finiva direttamente dentro un’ampia pozza di fanghiglia provocata dalla miscela d’acqua e ammoniaca che filtrava giù attraverso le rocce sulfuree, porose. Lì, l’intero gruppo si sarebbe trovato a diguazzare, mentre lei e la sua banda li avrebbero colpiti uno ad uno come ngip schiacciati contro un muro… ella schiacciò istintivamente un ngip che si era appoggiato alla sua mano. A meno che il demone… a meno che il demone non decidesse per un esito del tutto diverso…

— Nessun segno? — Chwiul si avvicinò a lei sempre in sella del suo bliell. Ella si spostò leggermente indietro dall’orlo friabile del dirupo, voltandosi a fissarlo con attenzione. — Non ancora, ma presto. — Aveva appostato alcuni uomini anche sul pendio più basso, sull’altro lato della pista; ma neppure gli occhi del suo demone potevano scrutare molto in profondità attraverso il fitto fogliame. Esso non aveva mai parlato, dall’arrivo di Chwiul, e lei non si aspettava che proprio adesso si mettesse a rivelare i propri segreti. — Che livrea indossano quelli della tua scorta, e quanti di loro vuoi che ne uccidiamo, per rispettare la messa in scena? — Si tolse da tracolla l’arco e cominciò a saggiarne la tensione.

Chwiul scrollò le spalle: — I morti non raccontano storie: uccidili tutti. Presto gli uomini di Klovhiri saranno miei. Uccidi anche la guida: un uomo che si fa comperare una volta, può farsi comperare anche una seconda.

— Ah. — Lei annuì, sogghignando. — Un uomo della tua prudenza e della tua discrezione andrà lontano nel mondo, mio signore. — Incoccò una freccia sull’arco, prima di voltarsi un’altra volta a scrutare la strada. Era ancora vuota. Fissò inquieta le lontane montagne seghettate, verde-azzurro e argentee, ammantate di nebbia, dai rilievi ghiacciati, crivellati di cavità, un tempo altissime su di lei, ora monche e sgocciolanti lungo i bordi del lago più vicino. Il lago dove la scorsa estate lei si era levata in volo…

Un movimento accennato, poco più di un fremito, un leggero rumore innaturale, le fecero riportare lo sguardo sulla strada. La tensione irrigidì i suoi fluidi movimenti, mentre lanciava il trillante richiamo che avrebbe fatto accorrere quelli della sua banda ai posti prefissati lungo il bordo del dirupo. Finalmente! T’uupieh si sporse avidamente in avanti per cogliere la prima immagine di Klovhiri; individuò la guida, e poi la slitta che trasportava sua sorella. Contò il numero dei componenti della scorta, li vide emergere tutti nel tratto spoglio del sentiero. Ma Klovhiri… dov’era Klovhiri? Ella si voltò verso Chwiul, gli sussurrò, sferzante: — Dov’è? Dov’è Klovhiri?

L’espressoine di Chwiul era beffarda e colpevole insieme. — È stato trattenuto. È rimasto in città, ha detto che c’erano ancora faccende a corte…

— Perché non me l’hai detto?

Chwiul diede un improvviso strattone alle redini del bliell: — Non cambia nulla! Possiamo pur sempre sradicare la sua famiglia. Ciò mi lascerà primo nella lista per l’eredità… e Klovhiri potrà sempre essere abbattuto più tardi.

— Ma è Klovhiri che voglio… per me. — T’uupieh sollevò l’arco e puntò la freccia verso il suo cuore.

— Sapranno chi incolpare, se morirò! — Egli allargò un’ala, sulla difensiva. — Il Feudatario si rivolgerà contro di te una volta per tutte, ci penserà Klovhiri. Vendicati di tua sorella, T’uupieh… ed io ti compenserò bene, se manterrai il patto!

— Questo non è il patto che abbiamo sottoscritto! — Il rumore del gruppo che si avvicinava ora le giunse chiaramente dal basso; udì la risata argentina di un bimbo. I suoi fuorilegge, acquattati, erano in attesa del suo segnale; ed ella vide Chwiul che stava per lanciare il richiamo alla guida. Lei guardò il demone dietro di sé, il suo occhio d’ambra era fisso sui viaggiatori, là in basso. Fece per avvicinarsi ad esso. Il demone avrebbe potuto ancora cambiare il destino per lei… Oppure l’aveva già fatto?

Tornate indietro! Tornate indietro! — La voce del demone esplose sopra di lei, e rotolò giù attraverso il bosco silenzioso, come una valanga. — Imboscata… trappola! Siete stati traditi!

— … Tradimento!

Ella udì appena la voce di Chwiul in mezzo al frastuono; guardò dietro di sé, in tempo per vedere il bliell che balzava avanti, per tagliarle il cammino verso il demone. Chwiul sguainò la spada, e lei vide il suo volto sbiancato da una collera irrefrenabile, non non avrebbe saputo dire se contro il demone o lei stessa. Si precipitò allora di corsa contro la slitta e il demone, cercando nuovamente d’impugnare l’arco e le frecce; ma il bliell coprì la distanza in due soli, immensi balzi, la sua testa si girò di scatto verso di lei, le mascelle si spalancarono.

I piedi di T’uupieh scivolarono nella poltiglia viscida, ed ella cadde al suolo, mentre le fauci della bestia si chiudevano con un colpo secco nel punto dove un attimo prima c’era la testa. Una zampa, sferzando l’aria, la colpì casualmente, schiacciandola ancor di più al suolo, mandandola a sbattere, contemporaneamente, dopo aver scavato un solco nella melma, ai piedi del demone…

Il demone. Ella annaspò, nel tentativo d’inspirare l’aria che non voleva riempire i suoi polmoni, cercando d’invocare il suo nome; vide con incredibile chiarezza la bellezza della sua forma, e per contrasto l’ululante orrore del bliell che si precipitava su di loro, per distruggerli entrambi. Lo vide impennarsi sopra di lei, sopra il demone… vide Chwiul… non seppe se lui stesso avesse compiuto il balzo, o fosse stato scagliato via, schizzare attraverso l’aria… e finalmente la voce le ritornò e riuscì a gridare il nome, allarme e implorazione insieme: — Shang’ang!

E quando il bliell calò giù, un lampo guizzò fuori come una sferza dal carapace del demone e avvolse la bestia tra le fiamme. L’ululato del bliell salì stridulo fra le alte frequenze fino a risultare inaudibile; T’uu-Pieh si coprì gli orecchi per proteggersi da questo trafiggente spasimo di dolore. Ma continuò a guardare, affascinata, la bestia che, come svuotata all’improvviso d’ogni energia, interrompeva la sua carica e si abbatteva all’indietro, rotolando e rimbalzando su se stessa, fino a schiantarsi al suolo stecchita. T’uupieh si accasciò ai piedi del demone, travolta da un’ondata di gratitudine mentre avidamente si riempiva d’aria i polmoni doloranti, e volse lo sguardo verso…

Vide Chwiul, afferrato dalle correnti ascendenti oltre l’orlo del dirupo, che planava con esasperante lentezza… e le tre frecce che gli sporgevano dalla schiena; all’improvviso scivolò fuori dalle correnti e, perso il sostegno, scomparve oltre le rocce. Ella sorrise, e si portò le mani al viso.

— T’uupieh! T’uupieh!

Ella di nuovo guardò, ammiccando, rassegnata, la gente che si radunava intorno a lei. La mano di Y’lirr, protesa a sfiorarla, si ritrasse di scatto quando lei alzò il viso a fissarlo, e sorrise, a lui e a tutti gli altri; ma non era lo stesso sorriso che aveva avuto per Chwiul. — Y’lirr… — Gli porse la mano e consentì che l’aiutasse ad alzarsi. Aveva lividi su tutto il corpo e fitte di dolore la trafiggevano ad ogni movimento, ma lei valutò, con sicurezza, che l’unico vero danno subito dal suo corpo era una lacerazione stillante siero all’ala. Tenne le braccia premute sui fianchi.

— T’uupieh…

— Mia signora…

— Che cosa è successo? Il demone…

— Il demone mi ha salvato la vita. — Con un gesto imperioso intimò il silenzio. — E altresì… per qualche sua misteriosa ragione… ha sventato il complotto di Chwiul. — La constatazione di quanto era accaduto, e ciò che esso implicava soltanto adesso furono chiari nella sua mente. Si girò di scatto e per lunghi istanti fissò l’occhio inscrutabile del demone. Poi si allontanò, raggiungendo con passi rigidi l’orlo del dirupo, e guardò giù.

— Ma il patto… — insisté Y’lirr.

— Chwiul ha violato il patto! Non mi ha dato Klovhiri. — Nessuno protestò. T’uupieh aguzzò lo sguardo, cercando di penetrare la boscaglia, indovinando senza troppe difficoltà il punto dove Ahtseet e i suoi si erano gettati a terra, laggiù. Adesso la risata argentina del bambino si era trasformata in un piagnucolio lamentoso. Il corpo di Chwiul giaceva scomposto sulla piatta fangosa, in piena vista di tutti; a T’uupieh parve di vedere che il numero delle frecce conficcate sul suo cadavere fosse aumentato. L’avevano forse crivellato anche le guardie di Ahtseet, scambiandolo per un aggressore? Quest’idea le piacque. E una voce sottile, dentro di lei, le bisbigliò che il fatto che Ahtseet fosse scampata alla morte le piaceva ancora di più… Ma T’uupieh all’improvviso si aggrondò a questo pensiero.

Ahtseet l’aveva scampata, sì, e anche Klovhiri e perciò tanto valeva che lei si servisse di questo fatto incontestabile per salvare quello che poteva. Restò in silenzio ancora per un paio di minuti, raccogliendo i suoi pensieri alquanto scossi. — Ahtseet! — La sua non era la voce del demone, ma echeggiò in modo soddisfacente. — Sono T’uupieh! Vedi il corpo del traditore che giace davanti a te?… Il fratello del tuo compagno, Chwiul! Egli aveva prezzolato degli assassini per ucciderti nella palude. Agguanta la tua guida! Costringila a confessare l’intero complotto! Soltanto grazie all’avvertimento del mio demone sei ancora viva!

— Perché? — La voce di Ahtseet risuonò debole e tremula nel vento.

T’uupieh sorrise amaramente: — Perché, tu chiedi? Per sgomberare le strade dalle canaglie. Per far sì che il Feudatario ami ancora di più la sua fedele servitrice e la ricompensi ancora di più, cara sorella! E per far sì che Klovhiri mi odii. Possa egli masticarsi le budella dalla rabbia di dovere a me la vostra vita! Orsù, Ahtseet, passa liberamente attraverso le mie terre; te ne dò il permesso, questa volta.

Si tirò indietro dal ciglio del dirupo e si allontanò a passi stanchi. Non le importava affatto che Ahtseet le credesse o no. La sua gente la stava aspettando, raccolta silenziosamente intorno al cadavere del bliell.

— E adesso? — chiese Y’lirr, guardando il demone, ponendo la domanda a nome di tutti loro.

Ella rispose, ma rivolgendosi direttamente al silenzioso occhio d’ambra del demone: — Sembra che dopotutto io abbia detto la verità a Chwiul, mio demone… Gli dissi, infatti, che non avrebbe più avuto bisogno della sua casa di città dopo quest’oggi… Forse il Feudatario lo giudicherà un giusto scambio. Forse si potrà trovare una sistemazione che accontenti tutti… perché la Ruota della Vita ci trasporta tutti, ma non con uguale comodità. Non è forse cosi, mio bellissimo Shang’ang?

Ella accarezzò teneramente il carapace della sonda, riscaldato dalla luce del giorno, e si sedette, comoda, sul terreno che si stava ammorbidendo, in attesa della sua risposta.

Загрузка...