Ben Bova Orion

PARTE PRIMA Fenice

1

Non sono un superuomo.

Certo, ho delle capacità che vanno molto al di là di quelle di una persona normale, però sono umano e mortale come qualsiasi altro abitante della Terra.

Il nucleo delle mie capacità è a quanto pare nella struttura del mio sistema nervoso. Sono in grado di assumere consapevolmente il controllo di tutto il mio corpo. Sono in grado di dirigere la mia volontà lungo la catena delle sinapsi all’istante, per far sì che qualsiasi parte del corpo faccia esattamente quello che voglio.

L’anno scorso ho imparato a suonare il piano in due ore. Il mio insegnante, un ometto grigio gentile, si rifiutava nella maniera più assoluta di credere che non avevo mai toccato una tastiera prima di quel giorno. Quest’anno ho strabiliato un maestro di Tae Kwan Do imparando in meno di una settimana tutto ciò che lui aveva assimilato in una vita di lavoro incessante. Il maestro ha cercato di prendere la cosa con umiltà ed educazione, ma era chiaro che era furioso con me e si vergognava profondamente della propria reazione. Ho smesso di frequentare le sue lezioni.

I miei poteri stanno crescendo. Sono sempre stato capace di controllare il battito cardiaco e il respiro. Pensavo che tutti potessero farlo, finché non ho cominciato a leggere degli yogi e delle loro capacità mistiche. Per me i loro numeri sono un gioco da ragazzi.

Due mesi fa me ne stavo seduto in un ristorante di Manhattan. Sono tendenzialmente un solitario, quindi spesso pranzo tardi per evitare le folle rumorose. Erano le 3 passate e il ristorante era quasi vuoto. Alcune coppie sedevano ai tavoli, parlando sottovoce. Due turisti di mezz’età stavano studiando circospetti il menù francese, considerando sospettosi piatti mai sentiti nominare. Una coppia di amanti clandestini sedeva verso l’estremità del locale, tenendosi la mano furtivamente e lanciando frequenti occhiate alla porta. Una giovane donna, sola, occupava un posto non lontano dal mio tavolo, vicino all’ingresso. Era molto bella, con capelli scuri che le si arricciavano sulle spalle, e i lineamenti classici e decisi di una fotomodella.

Guardò per caso nella mia direzione, e i suoi occhi calmi e intelligenti mi penetrarono nell’anima. Aveva due grandi occhi, grigi come un mare polare, che sembravano racchiudere tutto lo scibile di questo mondo. D’un tratto mi resi conto che non ero soltanto un tipo solitario; ero anche un uomo solo. Come un ragazzino alla prima cotta, avvertii il desiderio disperato di andare al suo tavolo e presentarmi.

Ma il suo sguardo si spostò verso la porta. Mi girai e vidi entrare un uomo, un uomo incredibilmente bello dalla chioma dorata, di quell’età indefinita che va dai trenta ai cinquanta. Si fermò un attimo sulla soglia, poi andò al banco del bar accanto alla vetrina di cristallo e prese uno sgabello. Anche se indossava un completo grigio, assomigliava più a un divo del cinema o a un’antica divinità greca che a un dirigente di Manhattan intenzionato ad anticipare l’ora del cocktail.

La mia bellezza dagli occhi grigi lo fissò, quasi fosse incapace di sottrarsi al suo fascino. Era circondato da un’aura d’oro. L’aria attorno a lui sembrava sprigionare un luccichio. Nel mio intimo, un ricordo sepolto da lungo tempo cominciò a punzecchiarmi. Avevo l’impressione di conoscerlo, di averlo incontrato tanto tempo prima. Però non riuscivo a ricordare dove o quando, o in quali circostanze.

Tornai a guardare la donna. Con uno sforzo visibile, staccò gli occhi dal tipo radioso e mi osservò, piegando le labbra in un lieve sorriso che poteva essere un invito. Ma la porta si aprì ancora, e lei distolse nuovamente lo sguardo da me.

Un altro uomo entrò nel ristorante e andò dritto al bar, sedendosi lungo la curva del banco e volgendo le spalle alle tende della vetrina. Se il primo uomo era un angelo radioso, costui invece aveva un’aria tenebrosa e infernale. Faccia massiccia e truce, muscoli possenti sotto i vestiti, capelli nerissimi, e occhi che ardevano rabbiosi sotto sopracciglia irsute. Perfino la sua voce sembrava esprimere una furia cupa quando ordinò un cognac.

Finii il caffè e decisi di chiedere il conto, e di fermarmi al tavolo della modella nell’uscire. Cercai il mio cameriere tra i quattro che bighellonavano presso la porta della cucina sul retro del locale conversando in un misto di italiano e francese. Fu questo a salvarmi.

Un ometto calvo in nero sbucò dalla porta a ventola della cucina e lanciò nella sala un oggetto nero ovoidale. Una bomba a mano.

Vidi la scena come se stesse svolgendosi al rallentatore. Ora mi rendo conto che probabilmente i miei riflessi di colpo ingranarono la quinta, entrando in funzione a una velocità fantastica. Vidi l’uomo ritirarsi in cucina, i camerieri irrigidirsi per la sorpresa, le coppie ai tavoli continuare a chiacchierare ignare del fatto che la morte era vicinissima. La bellezza a breve distanza dal mio tavolo volgeva le spalle all’ordigno, ma il barista lo fissò mentre rimbalzava sulla moquette e rotolava pigramente fermandosi a un metro e mezzo da me.

Lanciai un grido d’allarme e balzai al di sopra dei tavoli per spingere la modella fuori dal raggio della deflagrazione. Atterrammo sul pavimento; io le stavo sopra. Lo spicinio di piatti e bicchieri si perse nel ruggito dell’esplosione. Un bagliore, e la sala vibrò, tremò. Poi… fumo, urla, il calore delle fiamme, il puzzo acre dell’esplosivo.

Mi alzai incolume. Il tavolo era spaccato e la parete dietro di noi devastata dalle schegge. Attraverso il fumo, inginocchiandomi, vidi che la giovane donna era svenuta.

Aveva un taglio sulla fronte, però sembrava che non presentasse altre ferite. Mi girai e scorsi le altre persone nel ristorante, mutilate, sanguinanti, esanimi a terra, rannicchiate contro le pareti. Alcuni gemevano. Una donna singhiozzava.

Presi la modella tra le braccia e la portai sul marciapiede. Poi rientrai e portai fuori un paio di feriti. Mentre li depositavo sull’asfalto tra i frammenti della vetrina, la polizia e i pompieri cominciarono ad arrivare a sirene spiegate, seguiti da un’ambulanza. Mi feci da parte, lasciando che fossero i professionisti a prendere in mano la situazione.

Non c’era traccia dei due uomini seduti al bar. Sia il tipo radioso sia quello tenebroso sembravano scomparsi nell’attimo stesso dell’esplosione. Quando mi ero drizzato dal pavimento non c’erano più. Il barista era stato tagliato in due dallo scoppio. I suoi due clienti erano spariti.

Mentre i pompieri domavano le fiamme, i poliziotti stesero quattro cadaveri sul marciapiede e li coprirono con dei lenzuoli. Gli infermieri stavano occupandosi dei feriti. Caricarono su una barella la modella, ancora svenuta. Arrivarono altre ambulanze, e sulla scena dell’esplosione si radunò una folla di curiosi.

— Quei maledetti dell’IRA! — borbottò un poliziotto.

— Cristo, si sono messi a buttare bombe anche qui da noi, adesso?

— Potrebbero essere stati i soliti portoricani, magari — suggerì un altro agente, con voce stanca, esasperata, quasi desolata.

— O i serbocroati. Hanno piazzato quella bomba alla Statua della Libertà, ricordi?

Mi interrogarono per parecchi minuti, poi mi consegnarono al personale sanitario per un rapido controllo sul retro di un’ambulanza.

— Siete fortunato, amico — disse un medico in giacchetta bianca. — Non vi si sono nemmeno scompigliati i capelli.

Fortunato. Mi sentivo intorpidito, come se il mio corpo fosse stato immerso in una densa nebbia avvolgente. Potevo vedere, muovermi, respirare, pensare. Però non provavo nulla, ero insensibile. Avrei voluto essere arrabbiato, o addolorato, o magari spaventato. Invece avevo la stupida calma di un ruminante, fissavo il mondo placido e beato. Pensai alla giovane che stava raggiungendo un ospedale. Cosa mi aveva spinto a cercare di salvarla? Chi era il responsabile dell’attentato? Era lei la vittima designata? O uno degli uomini al banco?

O io?

Intanto erano arrivati due furgoni della televisione, e i reporter stavano parlando con il capitano di polizia mentre i tecnici smontavano con le loro telecamere portatili. Una giornalista dal viso spigoloso e la voce nasale mi intervistò per alcuni minuti. Risposi alle sue domande meccanicamente, la testa vuota, frastornato.

Quando la polizia mi lasciò andare, mi feci largo tra la ressa che si era formata attirata dal trambusto e percorsi a piedi i tre isolati fino al mio ufficio. Non raccontai a nessuno dell’esplosione. Mi ritirai nel mio cubicolo privato e chiusi la porta.

Mentre calava la sera, ero ancora seduto alla scrivania, chiedendomi perché avessero scagliato quella bomba e in che modo fossi riuscito a sfuggire al suo effetto micidiale. Il che mi portò a domandarmi come mai possedessi simili capacità fisiche, e se per caso i due sconosciuti scomparsi dal bar avessero poteri identici. Pensai di nuovo alla giovane. Chiudendo gli occhi, rievocai l’immagine dell’ambulanza che l’aveva portata via… Sulla fiancata c’era scritto: St. Mercy Hospital. Un rapido controllo tramite il mio computer, ed ebbi l’indirizzo dell’ospedale. Mi alzai e lasciai l’ufficio mentre le luci si spegnevano automaticamente dietro di me.

2

Solo quando varcai la porta girevole del St. Mercy mi resi conto di ignorare il nome della donna che volevo vedere. Immobile in mezzo all’atrio affollato e pieno di movimento, capii che sarebbe stato inutile chiedere aiuto a una delle impiegate della accettazione, già sommerse di lavoro. Per un attimo mi sentii smarrito; poi adocchiai un poliziotto.

Passai da un agente all’altro, chiedendo informazioni sulle persone ricoverate in seguito all’attentato di qualche ora prima. Dissi che ero della compagnia assicuratrice del ristorante. Solo un poliziotto, un negro corpulento con un bel paio di baffi, mi fissò sospettoso e mi chiese di identificarmi. Gli mostrai la tessera assicurativa; la guardò appena, ma l’aspetto ufficiale del documento parve bastargli. Forse anche la mia aria estremamente sicura servì a convincerlo.

In meno di mezz’ora entrai in una corsia che conteneva sedici letti, metà dei quali vuoti. L’infermiera incaricata mi guidò al letto dove la modella riposava con gli occhi chiusi e un cerotto color carne sulla fronte.

— Solo qualche minuto — mormorò l’infermiera.

Annuii.

— Signorina Promachos — chiamò sottovoce l’infermiera, chinandosi. — Ci sono visite.

La giovane aprì gli occhi, quegli stupendi occhi grigi profondi come l’eternità.

— Solo qualche minuto — ripeté l’infermiera. Poi si allontanò, e il cigolio delle sue scarpe si perse in fondo alla sala.

— Voi… siete quello che mi ha salvata, al ristorante.

Il cuore mi batteva impazzito, e io non mi sforzai di calmarlo.

— State bene? — chiesi.

— Sì, grazie a voi. Solo questo taglio sulla fronte. Dicono che non ci sarà bisogno di chirurgia plastica, che non rimarrà nessuna cicatrice.

— Bene.

Incurvò leggermente le labbra.

— E qualche ammaccatura sul corpo e sulle gambe per essere stata messa al tappeto.

— Oh. Mi spiace…

Rise. — Non è il caso. Se non mi aveste messa al tappeto… — Il riso si spense. Il suo bel viso divenne serio. Mossi un passo verso il letto. — Sono contento che non siate rimasta ferita in modo grave. Io… non so nemmeno il vostro nome.

— Aretha. Chiamami Aretha. — La sua voce era una melodia bassa, dolce, totalmente femminile senza essere acuta o stridula.

Non mi chiese quale fosse il mio nome, mi fisso invece con uno sguardo che sembrava perfettamente calmo, eppure ansioso, quasi aspettasse che le dicessi qualcosa. Qualcosa di importante. Cominciai a sentirmi a disagio, confuso.

— Non sai chi sono, vero? — mi chiese.

Avevo la bocca secca. — Dovrei saperlo?

— Non ricordi?

E cosa dovrei ricordare? fui tentato di ribattere. Invece scossi la testa.

Lei mi prese la mano. Le sue dita mi trasmisero una sensazione di calma e di freschezza. — Non preoccuparti — mi disse. — Ti aiuterò. Sono qui per questo.

— Per aiutarmi? — Adesso la mia mente vorticava. Cosa intendeva dire?

— Ricordi i due uomini seduti al bar oggi pomeriggio?

— Quello radioso… — La sua immagine splendeva vivida nella memoria.

— E l’altro tipo. Quello tenebroso. — Il viso di Aretha si era incupito. — Ricordi l’altro?

— Si.

— Però non ricordi chi sono, vero?

— Dovrei?

— Devi — disse lei, stringendomi forte la mano. — È assolutamente necessario.

— Ma io non posso saperlo. Non li ho mai visti prima.

Lasciò ricadere la testa sui cuscini. — Li hai visti, eccome. Li abbiamo visti tutti e due. Però non riesci a ricordare nulla di tutto ciò.

Sentii i passi cigolanti dell’infermiera avvicinarsi. — È una storia sconcertante — dissi ad Aretha.

— Perché quella bomba nel ristorante? Chi c’è dietro?

— Questo non è importante. Sono qui per aiutarti a ricordare la tua missione. Quanto è successo oggi pomeriggio è trascurabile.

— Trascurabile? Ci sono stati quattro morti!

Il mormorio dell’infermiera interruppe la nostra conversazione.

— Basta così, signore. Ha bisogno di riposare.

— Ma…

— Ha bisogno di riposare!

Aretha mi sorrise. — Va bene. Puoi tornare domani. Ti racconterò tutto domani.

A malincuore, la salutai e lasciai l’ospedale.

Mentre percorrevo lentamente l’intrico di corridoi affollati non prestai attenzione alle persone che mi passavano accanto. Le loro storie individuali di sofferenza erano lontane anni luce da me. La mia mente ribolliva, fremeva, stuzzicata dalle informazioni frammentarie che Aretha mi aveva fornito.

Mi conosceva! Ci eravamo già incontrati. Avrei dovuto ricordarmi di lei e dei due uomini visti al bar. Ma la mia memoria era vuota come lo schermo di un computer spento. Scendendo la scalinata del St. Mercy e cercando un taxi libero, decisi di non andare a casa. Diedi invece all’autista l’indirizzo del mio ufficio… dove c’era in archivio la mia scheda personale.

Gli aspetti esteriori non presentano problemi. Il mio nome è John G. O’Ryan. Cosa che mi aveva sempre creato un certo disagio, quasi si trattasse di un nome non adatto a me, quasi non si trattasse affatto del mio vero nome. John O’Ryan. Non mi calzava bene. Sono il capo delle ricerche di mercato della Continental Electronics Corporation, una multinazionale che produce laser e altre apparecchiature a tecnologia avanzata. La mia scheda personale, esaminata tramite il terminale del mio ufficio, diceva che avevo trentasei anni, ma io mi ero sempre sentito più giovane…

Sempre?

Cercai di ricordare il mio trentesimo compleanno, e constatai scioccato di non riuscirci. Avevo chiaro in mente il trentatreesimo, invece: quella notte l’avevo passata con Adrienna, la segretaria privata del capo. Una circostanza memorabile. Adrienna era stata trasferita presso la filiale londinese della compagnia alcune settimane più tardi, e da allora a quanto pareva avevo trascorso tutto il mio tempo coi computer e il mio lavoro. Cercai di ricordare il viso di Adrienna, ma fu inutile. Affiorò solo un’immagine vaga fatta di capelli scuri, di un corpo forte e snello, e di splendidi occhi grigi.

Oltre il mio trentatreesimo compleanno la mia mente era una tabula rasa. Mi concentrai finché non sentii che i muscoli contratti della mascella mi facevano male, eppure non riuscii a ricordare nulla al di là di quella barriera di tre anni. Non sapevo chi fossero i miei genitori. Nessun ricordo d’infanzia. Non avevo nemmeno qualche amico al di fuori della cerchia ristretta di colleghi e compagni di lavoro.

Un sudore freddo mi coprì tutto il corpo. “Chi sono? Perché?” mi chiesi.

Rimasi seduto per ore mentre fuori l’oscurità si infittiva, solo nel mio cubicolo tranquillo e climatizzato tutto cuoio e acciaio cromato, dietro la mia bella scrivania di mogano, e fissai il mio profilo personale sullo schermo del computer. Non che ci fosse molto da fissare. Nomi. Date. Scuole. Tutti dati privi di senso, che non suscitavano il benché minimo barlume di ricordo.

Guardai lo specchio metallico sulla parete di fronte. John G. O’ Ryan mi restituì lo sguardo: uno sconosciuto dai folti capelli scuri, una faccia anonima dai tratti leggermente mediterranei (perché quell’O’Ryan. allora?), un tipo sul metro e ottanta di corporatura snella in completo blu da dirigente, camicia beige e cravatta bordò.

La scheda diceva che a scuola ero stato un buon atleta. Mi sentivo ancora forte, in forma. Ma decisamente nella media. Avrei potuto mescolarmi a una folla e scomparire facilmente nell’anonimato.

“Chi sono?” Inevitabilmente, avevo la sensazione di essere stato messo lì, di essere stato piazzato in questa vita, solo tre anni prima da qualche forza o entità che aveva cancellato tutti i ricordi della mia esistenza precedente.

Dovevo scoprire chi, o cosa, mi avesse messo in una posizione del genere. E la chiave del mio passato era Aretha; lei sapeva, e voleva che anch’io sapessi. Il cuore mi batteva forte, respiravo in fretta, ansimavo quasi. Cominciavo a provare finalmente qualche stato emotivo, e mi ci abbandonai per parecchi minuti. Poi, però, con uno sforzo cosciente, abbassai il livello dell’adrenalina nel sangue, rallentando il ritmo del cuore e del respiro.

Ora intuivo che la bomba era destinata a me. Non ad Aretha né a nessun altro. Già. Proprio così. Qualcuno aveva tentato di uccidermi. Con la certezza assoluta dell’istinto, mi resi conto che cercando di scoprire le mie origini sarei andato incontro a pericoli mortali. Ma non potevo tirarmi indietro. Dovevo sapere. E mi resi conto che, chiunque fossi, qualunque fosse il mio passato, nella mia esistenza precedente dovevano aver recitato un ruolo importante non solo Aretha ma anche quei due uomini… l’angelo e lo spirito delle tenebre. Uno di loro aveva tentato di uccidermi… forse tutti e due.

3

La mattina successiva all’attentato arrivai in ufficio alle nove in punto, un po’ più tardi del solito. Dovetti schivare le domande della mia segretaria e di parecchi colleghi che avevano visto il servizio nel notiziario televisivo serale o che stavano sventolando quotidiani del mattino con la mia foto in prima pagina, tra i morti e i feriti.

Scivolai dietro la scrivania e ordinai al mio computer di telefonare al St. Mercy Hospital. Il computer della segreteria dell’ospedale mi annunciò, nei toni cordiali di una brava attrice, che gli orari di visita erano dalle 14 alle 16 e dalle 18 alle 20. Le condizioni della signorina Promachos erano buone. Non poteva venire all’apparecchio perché il medico la stava visitando.

Lasciai un messaggio, dicendo che sarei andato là alle 2 di quel pomeriggio. Quindi mi tuffai nel lavoro, sbrigandone una mole enorme. Per chissà quale sciocca ragione, mi sentivo meravigliosamente. Era come se mi avessero tolto un velo dagli occhi, o si fosse spalancata di colpo una finestra su un incantevole paesaggio. Sì, mi rendevo conto che la mia memoria presentava lacune paurose, che ignoravo chi fossi e perché mi trovassi lì. Mi rendevo conto che la mia vita probabilmente era in grave pericolo. Eppure perfino questo fatto per me era meraviglioso ed eccitante. Ventiquattr’ore prima ero un automa privo di emozioni; non immaginavo nemmeno che la maggior parte della mia memoria era stata cancellata. Mi limitavo a vivere meccanicamente, a vegetare. Respiravo, però non avevo sentimenti veri. Adesso era come emergere sulla superficie illuminata del mare dopo aver passato molto, troppo tempo nell’oscurità degli abissi.

Lavorai anche durante la sosta per il pranzo; ero troppo eccitato per mangiare. Come un adolescente che si precipitasse al suo primo appuntamento, lasciai l’ufficio poco prima delle 2 e chiamai con un cenno un taxi, agitandomi poi nervosamente mentre la vettura si insinuava a fatica nel traffico pomeridiano diretta al St. Mercy.

— La signorina Promachos se n’è andata circa mezz’ora fa — disse l’infermiera all’ingresso della corsia di Aretha.

Rimasi paralizzato, quasi avessi ricevuto una mazzata in piena fronte. — Andata…?

— Sì. Siete il signor O’Ryan?

Annuii.

— Ha lasciato un messaggio per voi. — L’infermiera mi porse un pezzo di carta piegato. C’era scritto il mio nome, frettolosamente, in modo errato. Aprii e lessi: Non c’è tempo. Il tipo tenebroso… Poi, in uno scarabocchio quasi illeggibile: Sotterranea.

Appallottolai il foglio.

— Quando avete detto che se n’è andata?

L’infermiera era una vecchia volpe. Dall’espressione dei suoi occhi socchiusi capii che non voleva trovarsi invischiata in un triangolo amoroso.

— Quando? — ripetei.

Guardò l’orologio digitale sulla parete. — Ventotto minuti fa, per la precisione.

— Chi c’era con lei?

— Non ho afferrato il suo nome. È stata lei a firmare per essere dimessa.

— Che tipo era?

L’infermiera esitò, in preda a un conflitto interiore. Poi: — Un tipo grande e grosso. Non alto come voi, ma… grosso. Un vero armadio, se rendo l’idea. Sembrava un sicario della Mafia… anzi, peggio. Aveva un che di… minaccioso. Spaventava a prima vista.

— Carnagione scura, capelli neri, sopracciglia folte.

— Proprio lui — annuì l’infermiera. — Solo che… la signorina Promachos non sembrava spaventata. A me faceva paura quel tipo, a lei no. Ho avuto l’impressione che lei lo conoscesse bene, come se fosse uno della sua famiglia.

— Bella famiglia.

L’infermiera non aveva idea di dove fossero andati. Era contro il regolamento dell’ospedale darmi l’indirizzo di Aretha, ma la donna lo fece ugualmente e non dovetti neanche insistere tanto. Il tipo scuro l’aveva davvero spaventata a morte.

Presi un altro taxi e diedi l’indirizzo fornitomi dall’infermiera, un posto del vecchio centro cittadino, vicino al ponte di Brooklyn. L’autista, un latino dell’America Centrale, finì col perdersi nel labirinto di viuzze del Lower East Side. Lo pagai e feci parecchi isolati a piedi, cercando l’appartamento di Aretha.

Un indirizzo del genere non esisteva. Un’informazione falsa. Mi fermai a un incrocio, cominciando a sentirmi un po’ vistoso nel mio completo mentre tutti gli altri lì attorno portavano jeans, tute, magliette, e addirittura scialli che un tempo erano stati tovaglie. Non avevo paura di subire un’aggressione, anche se era l’ambiente giusto. Ero troppo concentrato nel tentativo di capire come mai Aretha avesse dato all’ospedale un indirizzo inventato. Ero certo che l’infermiera mi avesse detto la verità; era stata Aretha stessa a contraffare l’informazione.

Sotterranea. Cosa aveva voluto dire con quella parola? Guardai l’ora. Aveva lasciato l’ospedale da quasi un’ora. In un’ora avrebbe potuto andare da qualsiasi parte, in quella metropoli brulicante.

— Ehi, bello il tuo orologio, amico.

Sentii la punta di un coltello contro la schiena, e l’alito fetido di chi lo impugnava mi scaldò il collo.

— Mi piace proprio quest’orologio, amico. — Il tono era basso, minaccioso.

Non avevo voglia di farmi rapinare in una strada affollata, e in pieno giorno. L’idiota mi si era appiccicato alle spalle, premendomi il coltello tra le reni, cercando di alleggerirmi senza che nessuno se ne accorgesse.

— Forza, dammi l’orologio, faccia di merda, e tieni la bocca chiusa.

Alzai le mani, quasi intendessi sfilarmi l’orologio dal polso, poi ruotai di scatto, gli mollai una gomitata nell’addome e lo colpii di taglio sul setto nasale. Il coltello cadde a terra. La gomitata gli aveva mozzato il respiro, così l’aggressore non poteva nemmeno gridare. Si accasciò come un sacco vuoto, col naso rotto, mentre il sangue gli zampillava sugli stracci e sul cemento. Lo afferrai per i capelli, drizzandogli la testa. La faccia era una maschera di sangue.

— Levati dai piedi prima che perda la pazienza — gli dissi, allontanando con un calcio il coltello.

Ansimando, gli occhi sbarrati dal dolore e dallo shock, si alzò barcollando e si trascinò via. Alcuni passanti mi guardarono, ma nessuno disse una parola o accennò a intervenire. La città nella sua luce migliore.

Sotterranea… Sentii sotto i piedi lo sferragliare di un convoglio della metropolitana, lo stridore delle ruote sui binari. Sotterranea, un termine inglese che indica la metropolitana. C’era una stazione della metropolitana appena fuori dall’ingresso dell’ospedale. Guardando il lato opposto della strada, notai l’entrata di un’altra stazione. Attraversai di corsa, suscitando un coro di clacson e imprecazioni, e mi precipitai lungo la scala. Nel sudiciume e nel tanfo di urina della stazione, mi affrettai da una pianta delle linee all’altra finché non ne trovai una ancora leggibile sotto gli arabeschi di vernice spray. Sì, una linea rossa collegava la stazione vicino all’ospedale a questa fermata centrale.

Erano arrivati lì in metropolitana, ed erano scesi. Ne ero sicuro. Era questo il significato del messaggio frettoloso di Aretha.

E adesso? Dov’erano andati, una volta raggiunta quella stazione? Un treno si arrestò cigolando. Le quattro carrozze erano decorate con vivaci affreschi, disegni satirici, e le firme degli artisti. Mi ritrovai a osservare le parole sulle fiancate, in cerca di un messaggio. Sciocca disperazione. Le porte si aprirono sibilando, e tutti scesero. Mi avviai verso la prima carrozza, ma un negro con l’uniforme dell’Azienda Municipale Trasporti mi chiamò:

— Capolinea. Questo treno va in deposito. Il prossimo treno di ritorno, tra cinque minuti. Il prossimo treno per il ponte, dall’altra piattaforma.

Le porte si chiusero, e il convoglio vuoto si allontanò seguendo una curva dei binari. Mi misi in ascolto con la massima attenzione, escludendo gli altri rumori che echeggiavano nella stazione: le conversazioni, una radio che trasmetteva rock, le risate stridule di un trio di ragazzine. Il treno superò la curva, scomparve, poi si fermò. Il deposito di cui aveva parlato il negro. Treni fuori servizio, fermi al termine della linea, in attesa di essere utilizzati di nuovo.

Mi guardai attorno. Nessuno mi stava osservando. Raggiunsi l’estremità della banchina, scavalcai il cancelletto chiuso che sbarrava l’accesso ai binari e scesi i gradini che portavano sul fondo del tunnel. I gradini, le pareti, la ringhiera che toccai, erano coperti da uno strato di unto e sporcizia accumulatosi nel corso degli anni. Il fondo del tunnel era una specie di fogna con binari. Nel riflesso fioco dell’illuminazione vidi che il terzo binario, quello percorso dall’alta tensione, era sormontato da una passerella di legno. Salii là sopra; avevo già le scarpe impregnate dall’umidità fetida che si condensava sul fondo della galleria.

In lontananza, sentii un treno avvicinarsi. Nelle pareti erano scavate delle nicchie sufficienti ad accogliere una persona in piedi, e quando i fari del convoglio mi inquadrarono accompagnati da un fischio io mi schiacciai nell’anfratto, lasciando che il mostro metallico transitasse. Fu un’esperienza mozzafiato, farsi sfiorare da quella massa sferragliante.

Quando il convoglio fu passato, mi scossi e proseguii. Sì, oltre la curva c’erano una dozzina di treni fermi affiancati, tutti decorati di scritte spray. Le rade luci sul soffitto proiettavano chiazze fioche nell’oscurità sudicia che avvolgeva il deposito.

“Sono qui,” mi dissi. “Sono qui, da qualche parte.” Mi fermai e trattenni il respiro, ascoltando. La vista serviva a poco in quel buio.

Un fruscio, uno sdrucciolio. Il raspìo di qualcosa sui binari. Poi una specie di squittìo. Qualcosa mi strusciò contro una caviglia. Ritrassi il piede involontariamente, perdendo quasi l’equilibrio sulle assi traballanti che coprivano il binario elettrificato.

Topi. Scrutai nell’oscurità e scorsi degli occhi rossi malefici che mi fissavano. Topi. Parecchi.

Poi sentii le voci. Dapprima non riuscii a distinguere le parole, ma una era una voce di donna, l’altra aveva il tono brutale e minaccioso che poteva appartenere unicamente al tipo tenebroso che avevo visto di sfuggita nel ristorante.

Seguii la direzione delle voci, silenzioso come uno spettro, ignorando la miriade di occhietti rossi dei topi che baluginavano nell’oscurità attorno a me.

— Cosa gli hai detto? — insisté la voce maschile.

— Nulla.

— Voglio sapere quanto gli hai raccontato.

— Non gli ho detto nulla. — Sì, era la voce di Aretha, non c’erano dubbi. Poi mi giunse un rantolo, un gemito di dolore e di paura.

— Dimmelo!

Accantonando ogni tattica prudenziale, mi precipitai lungo la passerella sconnessa. Aretha urlò, lanciò un grido strozzato, mentre sfrecciavo tra due convogli fermi, e finalmente li vedevo in un cerchio di luce.

Aretha sedeva sul fondo in mezzo alla sporcizia, le braccia bloccate dietro la schiena, la fronte ancora incerottata. L’uomo se ne stava in disparte, parzialmente in ombra, e la fissava. Aretha era circondata da decine di topi. Le gambe e i piedi nudi le sanguinavano. Aveva la camicetta strappata, e un ratto enorme, disgustoso, ritto sulle zampe posteriori, stava allungandosi verso il suo bel viso.

Con un ringhio soffocato, partii alla carica. Vidi il tipo tenebroso girarsi verso di me, gli occhi rossi e maligni come quelli dei topi. Sembrò riconoscermi mentre mi scagliavo nella sua direzione, e arretrò nell’oscurità.

Disarmato, scalciai selvaggiamente la marea di topi attorno ad Aretha, mi chinai e ne afferrai un paio con le mani, gettandoli contro le pareti con quanta forza avevo in corpo. Girando su me stesso, menando calci all’impazzata, agitando le braccia, riuscii a disperderli. I topi fuggirono, squittendo, cercando rifugio nell’oscurità.

Scomparvero, e con loro scomparve anche l’uomo. Guardai Aretha. I suoi occhi mi fissavano senza vedermi. Aveva la gola squarciata. Il suo sangue mi macchiava le scarpe e i pantaloni.

Mi inginocchiai e la sollevai da quel sudiciume. Ma era troppo tardi. Era morta.

4

Trascorsi i due giorni successivi in una specie di stato di choc provocato dalla rabbia, reprimendo i miei sentimenti fino a non provare nulla. Interrogatori della polizia, prove con la macchina della verità, visite mediche, test psichiatrici… mi comportai sempre come un robot, rispondendo alle domande e alle stimolazioni senza alcuna manifestazione emotiva.

Per qualche motivo non parlai con nessuno dell’uccisore di Aretha. L’aveva assassinata controllando chissà come i topi che le avevano lacerato la vena giugulare, usandoli come un altro uomo avrebbe potuto usare una pistola. Ma non feci alcun accenno a lui. Dissi semplicemente alla polizia e ai medici che avevo seguito Aretha dall’ospedale e l’avevo trovata mentre i topi l’aggredivano nel deposito della metropolitana. Ero arrivato troppo tardi per salvarla. Almeno, quest’ultima dichiarazione era vera.

Qualcosa nei recessi del mio intimo mi consigliò di non parlare del tipo maligno. Dentro di me, in profondità, dove le fiamme della furia covavano momentaneamente circoscritte, sapevo che avrei solo passato inutili guai con le autorità e i sanitari se avessi parlato della sua esistenza. Ma, soprattutto, volevo rintracciarlo e trovarlo di persona. Volevo affrontarlo con le mie stesse mani.

Così nascosi parte dei fatti. Gli investigatori che mi interrogarono non erano stupidi. Sapevano che una donna non si mette a gironzolare nelle gallerie della metropolitana per essere attaccata dai topi, seguita da uno sconosciuto che l’aveva incontrata solo il giorno prima… soprattutto se si tratta di due persone vittime recentissime di un attentato terroristico. Mi dissero chiaro e tondo che non mi credevano e che volevano sottopormi alla prova con la macchina della verità. Io accettai con la massima indifferenza quasi le loro domande riguardassero l’ora o il colore del cielo. La macchina della verità rivelò quello che io volevo che rivelasse, naturalmente; per me era un giochetto controllare i battiti cardiaci e la sudorazione.

Dopo una notte al Bellevue in osservazione psichiatrica, la polizia pur con riluttanza mi lasciò andare. Andai a casa e telefonai in ufficio, annunciando che la mattina dopo mi sarei presentato al lavoro in perfetto orario. Il capo parve sorpreso, mi chiese come mi sentissi dopo due esperienze traumatiche nella stessa settimana.

— Sto bene — dissi.

Era vero, non avevo subito danni fisici, e tenevo sotto controllo le mie reazioni emotive. Un controllo troppo stretto, forse.

— Sicuro di non volere riposare fino alla settimana prossima? — mi chiese il capo. I suoi lineamenti normalmente arcigni apparivano piuttosto premurosi nel piccolo schermo telefonico.

— No. Sto benissimo. Domattina vengo in ufficio. Spero che la mia assenza non abbia creato troppi problemi lì al lavoro.

Lui cercò di sdrammatizzare la situazione. — Oh, possiamo tirare avanti senza di te… per un po’. Comunque non vediamo l’ora di vederti, domani.

— Grazie.

Quando ebbi riappeso, la mia mente era già lontana dall’ufficio e stava dedicandosi al problema di scovare l’assassino di Aretha. Il tipo tenebroso. Lui e il tipo radioso. Quei due facevano parte di… cosa? Della mia vita, stando agli accenni di Aretha.

Cercai di ricordare come si fossero comportati al ristorante. Non si erano detti una sola parola; ne ero certo. Si erano guardati di sfuggita, ora che ci pensavo, però quell’unica occhiata che si erano scambiati non era amichevole. Per una frazione di secondo, i loro occhi si erano incrociati sprizzando odio puro.

Si conoscevano. Si odiavano. Capii che se fossi riuscito a trovare uno dei due, sicuramente avrei trovato anche l’altro nelle vicinanze.

Ma come si fa a trovare due uomini in una città con sette milioni e mezzo di abitanti? E se le mie conclusioni fossero state errate? Ero pazzo? Ero stato io a provocare la morte di Aretha, come avevano insinuato gli investigatori durante i lunghi interrogatori? Perché non riuscivo a ricordare nulla, a parte gli ultimi tre anni? Ero vittima di un’amnesia, un paranoico, un pazzo che costruiva fantasie omicide nella mente? Avevo inventato io quei due uomini, avevo creato creature immaginarie della luce e delle tenebre nei sentieri morbosi del mio cervello?

Non c’era che una risposta a tutte queste domande. Trascorsi una notte insonne di riflessioni per giungere a quella semplice risposta, ma tanto non ho mai dormito molto. In genere, un paio d’ore di sonno mi bastano; spesso sono rimasto in piedi parecchi giorni concedendomi solo qualche pisolino. I miei colleghi a volte si sono lamentati, scherzando, per la quantità di lavoro che porto a casa. Battute anche cattive, di tanto in tanto.

La mattina seguente, dopo avere salutato il personale ed essermi sottratto a una serie di domande e di occhiate interrogative, andai nel mio stanzino e telefonai subito al medico della compagnia. Gli chiesi di consigliarmi un bravo psichiatra. Sul minuscolo schermo, il dottore parve un po’ allarmato.

— Si tratta dei problemi che avete avuto con la polizia negli ultimi giorni? — domandò.

— Sì. Mi sento… un po’ scosso per questa faccenda.

Il che era vero.

Mi fissò attraverso le lenti bifocali. — Scosso? Voi? L’imperturbabile signor O’Ryan?

Non dissi nulla.

— Hmm… Be’, immagino che chiunque sarebbe scosso dopo che gli è esplosa una bomba nel piatto. E poi quella ragazza, morta in modo così atroce.

Rimasi zitto, inespressivo. Il medico attese qualche secondo, ma quando si rese conto che non avevo intenzione di chiacchierare borbottò qualcosa e si girò per controllare il suo schedario.

Mi diede il nome di uno psichiatra. Lo chiamai e fissai un appuntamento per il pomeriggio. Lui cercò di posticipare, ma feci il nome della compagnia e del nostro dottore, aggiungendo che volevo solo pochi minuti per un colloquio preliminare.

Fu un incontro brevissimo. Gli parlai dei miei vuoti di memoria e lui si affrettò a indirizzarmi a una collega specializzata in problemi del genere.

Occorsero parecchie settimane, sballottato da uno psichiatra all’altro, ma finalmente trovai quello che volevo. L’unico specialista che accettasse di ricevermi subito, il giorno stesso della mia telefonata. Dal tono sembrava quasi che aspettasse che lo chiamassi. Il suo telefono era senza schermo, ma non ne avevo bisogno. Sapevo già che aspetto dovesse avere.

— Ho parecchi impegni — mi disse la sua voce tenorile. — Comunque, se passate da me stasera verso le nove potrei ricevervi.

— Grazie, dottore. Verrò.

Lo studio era deserto quando arrivai. Aprii la porta dell’anticamera. Nessuno. Fuori c’era buio, e la stanza aveva le luci spente. Tetra, scura, rischiarata solo dai riflessi della strada da basso. Mobili antiquati. Scaffali alle pareti. Nessuna infermiera, nessuna segretaria.

Un breve corridoio partiva dall’anticamera, fiancheggiato da uffici. In fondo, una porta socchiusa da cui filtrava un chiarore tenue. Mi avviai e spinsi la porta.

— Dottore? — Non mi presi la briga di pronunciare il nome scritto sulla porta. Sapevo che non era il vero nome dell’uomo nello studio.

— O’Ryan — disse la voce tenorile. — Entra pure.

Era il tipo radioso del ristorante. Lo studio era angusto e stipato di mobili, con due divani, una scrivania massiccia, tendoni, moquette spessa. Lui sedeva dietro la scrivania, sorridendo. L’unica luce proveniva da una piccola lampada a stelo in un angolo, ma sembrava che quel tipo stesso brillasse, irradiasse un’energia aurea.

Portava una semplice camicia di maglia. Niente giacca. Aveva spalle ampie, era bello. Sembrava in grado di affrontare qualsiasi cosa. Le sue mani erano intrecciate con decisione sulla superficie della scrivania. Invece di proiettare un’ombra, la facevano brillare quasi.

— Siediti, O’Ryan — disse calmo.

Mi accorsi di tremare. Con uno sforzo, controllai i miei riflessi e presi la poltrona di cuoio di fronte alla scrivania.

— Hai detto di avere problemi di memoria.

— Lo sai qual è il mio problema — dissi. — Non perdiamo tempo.

Inarcò le sopracciglia e il suo sorriso si allargò.

— Questo non è il tuo studio — continuai. — Non ti si addice. Dunque, dato che sai il mio nome e il tuo non è quello sulla targhetta, chi sei? E io, chi sono?

— Molto pratico e sbrigativo. Ti sei adattato molto bene a questa cultura, — Si appoggiò allo schienale della poltroncina girevole. — Puoi chiamarmi Ormazd, anche se i nomi non hanno grande importanza.

— Ormazd…

— Sì. E adesso ti dirò qualcosa riguardo il tuo nome. L’hai usato nel modo errato, il tuo nome è Orion… come la costellazione. Orion.

— Il Cacciatore.

— Benissimo! Vedo che capisci! Orion il Cacciatore. Il tuo nome, e la tua missione.

— Dimmi qualcos’altro.

— Non serve. Sai già quello che devi sapere. Le informazioni sono riposte nella tua memoria, ma per la maggior parte sono bloccate nel tuo inconscio.

— Perché?

La sua espressione divenne seria. — Ci sono molte cose che non posso dirti. Non ancora. Sei stato inviato qui per una missione di caccia. Il tuo compito è trovare il Tenebroso… Ahriman.

— L’uomo che era nel ristorante con te?

— Esattamente. Ahriman.

— Ahriman. — dunque, si chiamava così. — Ha ucciso Aretha.

— Sì, lo so.

— Lei, chi era? — chiesi.

Ormazd scrollò le spalle. — Aretha era un messaggero. Una figura senza importanza nel…

— Per me era importante!

Mi guardò con un’espressione nuova nei suoi occhi oro palliò. Sembrava quasi sorpreso. — L’hai vista una sola volta nel ristorante…

— E la sera all’ospedale — aggiunsi. — E il giorno dopo… — Mi mancò il fiato. — Il giorno dopo l’ho vista morire. L’ha uccisa lui.

— Una ragione in più perché trovi il Tenebroso — disse Ormazd. — Il tuo compito consiste nel trovarlo e distruggerlo.

— Perché? Chi mi ha mandato qui? E da dove?

Si drizzò sulla poltroncina, e un sorrisetto sicuro gli riaffiorò sulle labbra. — Perché? Per salvare dalla distruzione il genere umano. Chi ti ha mandato qui? Io, ti ho mandato. Da dove? Da circa 50 mila anni nel futuro rispetto all’epoca presente.

Avrei dovuto essere scioccato, sorpreso, o almeno scettico. Invece mi sentii risollevato. Era come se l’avessi saputo fin dall’inizio, e sentire la verità da lui allevio i miei timori. Mi accorsi di mormorare: — Cinquantamila anni nel futuro.

Ormazd annuì, solenne. — È quella la tua epoca. Io ti ho rimandato in questo cosidetto ventesimo secolo.

— Per salvare il genere umano dalla distruzione.

— Sì. Trovando Ahriman.

— E quando l’avrò trovato?

Per la prima volta parve sorpreso. — Be’, dovrai ucciderlo, ovvio.

Lo fissai, muto.

— Non credi a quanto ti ho detto?

Mi sarebbe piaciuto dire che non ci credevo. Invece risposi: — Ti credo. Ma non capisco. Perché non ricordo nulla? Perché…?

— Choc temporale, forse — m’interruppe. — O forse Ahriman ha già raggiunto la tua mente e bloccato alcuni tuoi poteri.

— Alcuni?

— Conosci i poteri della tua mente? L’addestramento al quale ti abbiamo sottoposto? La capacità di usare ogni emisfero cerebrale indipendentemente?

— Cosa?

— Sei destro o mancino?

La domanda mi colse in contropiede. — Sono… ambidestro — mi resi conto.

— Sai scrivere con ambedue le mani, vero? Puoi suonare la chitarra anche con la tastiera girata dall’altra parte.

Annuii.

— Hai la capacità di usare indipendentemente i due lati del cervello. Potresti usare un computer e dipingere un paesaggio nel medesimo tempo.

Mi sembrava ridicolo. — Insomma, potrei trovare lavoro in un circo come fenomeno da baraccone, eh?

Ormazd tornò a sorridere. — Puoi fare di più, Orion. Molto di più.

— E questo Ahriman? — chiesi. — Che pericolo rappresenta per il genere umano?

— È il male stesso — rispose Ormazd, e la luce che avvampò nei suoi occhi d’oro mi confermò che era sincero. — Cerca di distruggere il genere umano. Se glielo permetteremo, cancellerà l’uomo dalla faccia della Terra per l’eternità.

Strano, eppure la mia mente accettava tutto quanto. Era come se stessi reimparando le storie della mia infanzia. Echi lontani di racconti semidimenticati si agitarono in me. Ma adesso si trattava di storie reali, non più di leggende narrate ai bambini dagli adulti.

— Se è vero che sono arrivato qui da 50 mila anni nel futuro — dissi lentamente, riflettendo — questo significa che il genere umano esiste ancora in quell’epoca. Il che significa che il genere umano non è stato distrutto, qui nel ventesimo secolo.

Ormazd sospirò. — Pensiero lineare.

— Cosa vuol dire?

Piegandosi in avanti, appoggiando le mani dorate sulla scrivania, Ormazd spiegò pazientemente: — Tu hai salvato il genere umano. È già successo, in questa sequenza spazio-temporale. Cinquantamila anni nel futuro, l’umanità ha eretto un monumento in tuo onore. Si trova nella Vecchia Roma, vicino alla cupola che copre l’antico Vaticano.

Fui io a sorridere, adesso. — Dunque, ho già salvato l’umanità, quindi…

— Devi ancora recitare la tua parte — ribatté Ormazd. — Devi trovare Ahriman e bloccarlo.

— E se rifiutassi?

— Non puoi!

— Come lo sai?

La luce attorno a lui sembrò pulsare, in una reazione di collera. — Come ti ho detto, è già successo… in questa sequenza temporale. Hai trovato Ahriman. Hai salvato la razza umana. Ora devi solo recitare il ruolo che come dimostra la nostra storia hai già recitato.

— Ma se rifiutassi?

— È inconcepibile.

— Già… ma se rifiutassi? — insistei.

Ormazd scintillò come una nube di lucciole. La sua espressione si fece torva. — Se non ti adeguerai al tuo ruolo predestinato, se non bloccherai Ahriman, la struttura stessa dello spazio-tempo si frantumerà. Questa sequenza temporale si spaccherà, liberando energia sufficiente a distruggere l’universo che conosciamo. L’umanità scomparirà. Tutto lo spazio-tempo si sposterà lungo linee diverse, in un continuum diverso. Il pianeta Terra si dissolverà. Questo universo spazio-temporale svanirà, quasi non fosse mai esistito.

Era decisamente convincente.

— E se collaboro? — chiesi.

— Troverai Ahriman. Salverai dalla distruzione il genere umano. Il continuum spazio-temporale non si disgregherà. L’universo continuerà.

— Ucciderò Ahriman, allora?

Ormazd esitò un attimo prima di rispondere. — No. Non puoi ucciderlo. Lo fermerai, gli impedirai di raggiungere il suo scopo. Ma… lui ti ucciderà.

Avrei dovuto capirlo quando mi aveva parlato del monumento. Il mio ruolo era quello dell’eroe morto. Era già andata così.

D’un tratto, tutto mi parve insostenibile. Scattai dalla poltrona, lanciandomi sulla scrivania, verso il braccio di Ormazd. La mia mano attraversò completamente la sua immagine luccicante.

— Sciocco: — ringhiò lui, volatilizzandosi.

Mi ritrovai solo nello studio dello psichiatra. Avevo già visto proiezioni olografiche in precedenza, ma mai così convincenti, concrete. Avevo le ginocchia molli per il peso che Ormazd mi aveva caricato sulle spalle. Mi afflosciai sulla poltrona, avendo come unica compagnia la consapevolezza che il destino dell’umanità dipendeva da me. E l’unico essere umano che desiderassi veramente salvare era già morto. Non potevo accettarlo. La mia mente si rifiutava di pensarci.

Invece, mi ritrovai a frugare lo studio in cerca dell’apparecchio olografico che quell’imbroglione aveva usato per proiettare la propria immagine. Frugai fino all’alba, ma non riuscii a scovare alcun laser né qualsiasi altro impianto elettrovisivo.

5

Per parecchi giorni mi rifiutai di prendere in considerazione quello che Ormazd mi aveva detto. Era troppo fantastico, continuavo a ripetermi. Eppure, sotto sotto, sapevo che era vero. Stavo solo rimandando l’inevitabile.

E nel mio intimo, smaniavo dalla voglia di trovare il Tenebroso, l’uomo che aveva ucciso Aretha. Fremevo dal desiderio di stanarlo e distruggerlo. Non per il dramma cosmico che Ormazd mi aveva descritto. Volevo mettere le mani addosso ad Ahriman per una ragione semplicissima, umanissima: volevo fare giustizia, vendicare il mio amore morto.

Finalmente, un barlume di memoria mi mise sulle tracce di Ahriman. Ricordai l’origine dei nomi usati dal radioso: Ormazd, il dio della luce e della verità; Ahriman, il dio delle tenebre e della morte. Appartenevano all’antica religione della Persia, lo Zoroastrismo, fondata dall’uomo che gli antichi greci chiamavano Zoroastro.

Così il radioso si considerava un dio della luce e del bene. Perlomeno, era un viaggiatore temporale, se mi aveva detto la verità. Era davvero lo stesso Ormazd apparso a Zoroastro millenni addietro in Persia? Lottava contro Ahriman fin da allora? Certo. Allora e adesso, futuro e passato, il corso del tempo cominciava ad apparirmi chiaro.

Riflettei sulla situazione per giorni interi, non sapendo che fare, aspettando un indizio, un’indicazione che mi dicesse come procedere. Poi un nuovo ricordo mi pungolò, e capii perché fossi stato inviato in quell’epoca, a lavorare in quella compagnia.

Chiusi gli occhi e ricordai la faccia canina lunga e seria di Tom Dempsey. Era stato al party natalizio della società, l’anno prima, che lui un po’ brillo mi aveva detto: «I laser Sunfire, amico… Quei laser ultrapotenti maledettamente belli… La cosa più importante che la compagnia stia facendo, sai? La cosa più importante che stia capitando in tutto il mondo, cazzo!»

I laser per il reattore a fusione termonucleare. I laser che avrebbero alimentato un sole in miniatura opera dell’uomo, che a sua volta avrebbe fornito la risposta permanente a tutti i bisogni energetici dell’umanità. Il dio della luce incarnato in un mondo di scienza e tecnologia. Dove altro avrebbe dovuto colpire il Tenebroso?

Mi occorse quasi una settimana per convincere i miei superiori che era giunto il momento di fare una nuova proiezione di mercato per il progetto fusione laser. La Continental Electronics produceva i laser per il primo RTC, Reattore Termonucleare Controllato, industriale al mondo. Verso la fine di quella settimana ero sul jet della società, diretto ad Ann Arbor, dove si stavano costruendo il reattore a fusione e la centrale annessa. Tom Dempsey sedeva accanto a me, mentre osservavamo il panorama di nubi invernali lungo la riva del lago Erie, diecimila metri sotto di noi.

Tom mi rivolse un ampio sorriso. — È la prima volta che ti vedo un po’ interessato al progetto fusione. Ho sempre pensato che non te ne fregasse mente di questo lavoro.

— Mi hai convinto della sua importanza — dissi, e una parte di verità c’era.

— Altroché se è importante — annuì Tom, giocherellando con la cintura di sicurezza. Era il classico tecnico ordinato e meticoloso, eppure non riusciva a tenere ferme le mani un attimo.

— Il reattore a fusione è pronto per il primo collaudo? — lo sollecitai.

Lui annuì entusiasta. — Sì. Abbiamo avuto i nostri intoppi, ma perdio, adesso siamo pronti a partire. Inserisci il deuterio, che si può ottenere con della comunissima acqua, lo bombardi coi nostri laser, e ti esce l’energia. Megawatt di energia, caro mio. C’è più energia in un secchio d’acqua che in tutti i giacimenti petroliferi dell’Iran.

Era un’esagerazione, ma fino a un certo punto. Dovetti sorridere a quell’accenno all’Iran, la Persia moderna.

Fu un volo calmo, e un’auto della compagnia ci aspettava all’aeroporto. Mentre ci avvicinavamo al laboratorio di fusione, fui sorpreso dalle dimensioni modeste dell’edificio, anche se Dempsey mi aveva detto che un giorno gli impianti RTC sarebbero stati così piccoli da stare negli scantinati delle case private.

— Non ci sarà bisogno di aziende elettriche e via dicendo, con l’avvento della fusione. Basta l’acqua. Apri il rubinetto della cucina e in cinque minuti ricavi tanto deuterio da mandare avanti la casa per un anno intero.

Era un tecnico felice. Le sue macchine funzionavano. Il mondo, pure.

Ma vidi che c’erano dei picchetti di dimostranti lungo il reticolato di fronte ai laboratori. Si trattava perlopiù di giovani, studenti et similia, anche se c’erano alcuni uomini più anziani e una decina di donne dall’aria di casalinghe. I cartelli che portavano erano di stampo professionale:


NON VOGLIAMO BOMBE H IN GIARDINO!
SÌ ALLA GENTE! NO ALLA TECNOLOGIA!
LA FUSIONE VADA VIA!
LE RADIAZIONI SONO CANCEROGENE!

L’auto rallentò. Il conducente, un autista della compagnia, ci disse senza girarsi: — Quelli della sicurezza non vogliono aprire il cancello. Hanno paura che i dimostranti penetrino all’interno.

Erano appena poche decine, ma quando ci fermammo davanti alla recinzione sembravano una marea umana. Sciamarono attorno all’auto, gridandoci contro.

— Tornatevene a casa!

— Smettetela di avvelenarci!

Di colpo intonarono in coro: — Sì alla gente! No alla tecnologia! La fusione vada via! — E cominciarono a percuotere l’auto coi cartelli, a farla dondolare spingendo.

— Dov’è la polizia? — chiesi all’autista.

L’uomo si strinse nelle spalle.

— Ma si sbagliano di peso — esclamò Dempsey, con espressione offesa per quella mancanza di apprezzamento delle sue macchine da parte della folla. — L’energia di fusione non produce abbastanza radiazioni da poter risultare nociva.

Prima che mi venisse in mente di bloccarlo, aprì la portiera e sgusciò tra i manifestanti, urlando: — Quel reattore non emette radiazioni! La scoria principale della fusione è del normalissimo elio. Potete darlo ai vostri figli per gonfiarci i palloncini.

Non erano disposti ad ascoltarlo. I dimostranti si ammassarono attorno a Dempsey, sbraitando, sommergendo le sue parole. Un paio di giovanotti, abbastanza robusti da essere giocatori di football universitari, lo spinsero contro la fiancata dell’auto, bloccandolo.

Cominciai a smontare, mentre l’autista borbottando spalancava violentemente la portiera e colpiva qualcuno, strappandogli un grido di dolore. Mentre scendevo sull’altro lato della macchina, qualcuno scagliò un pugno nella mia direzione. Lo parai di riflesso, e spinsi via lo studente. Con la coda dell’occhio, vidi una delle casalinghe calare il cartello che reggeva sulla testa di Dempsey. Tom si afflosciò, e uno dei giocatori di football gli sferrò un diretto allo stomaco, facendolo stramazzare sull’asfalto a faccia in giù. L’autista cercò di strappare il cartello a una dimostrante, mentre la donna urlava e si dimenava per sfuggirgli. Parecchi studenti si gettarono sull’autista e cominciarono a malmenarlo.

— Diamogli una lezione!

Girai attorno alla macchina e mi tuffai nella mischia, aprendomi un varco a strattoni per raggiungere il corpo steso di Dempsey e l’autista barcollante. Quest’ultimo aveva il naso che sanguinava, la bocca spalancata, le labbra arricciate in una smorfia rabbiosa.

Presi un pugno sulla guancia. Prima che il giovanotto ringhiante che mi aveva colpito potesse ritrarre il braccio, lo afferrai per il polso e il gomito e lo scagliai addosso ai suoi compagni, abbattendoli come birilli. Tutto accadde molto in fretta. All’improvviso la folla si separò, comincio a scappare, a parte le cinque persone rimaste a terra con contusioni o fratture varie. Tutti gli altri mollarono i cartelli e fuggirono lungo la strada.

Gli addetti alla sicurezza aprirono il cancello, facendosi in quattro per scusarsi del loro intervento tardivo. In lontananza si sentiva il gemito di una sirena della polizia avvicinarsi… troppo tardi.

Le guardie ci portarono nell’infermeria del laboratorio, dove incontrai il capo del servizio di sicurezza, un ometto bisbetico di nome Mangino. Aveva la pelle color tabacco, e un paio di occhietti scaltri.

— Proprio non capisco — brontolò, mentre fasciavano la testa a Dempsey. — Mai avuto il minimo guaio fino a oggi. Questo branco di pazzi è saltato fuori dal nulla e si è messo a sfilare davanti al cancello.

Erano lì per me. Un comitato di ricevimento di Ahriman. Ma non dissi nulla.

— Sono anni che il nostro ufficio pubbliche relazioni spiega ai mass media che questo reattore non sarà come le vecchie centrali a uranio fissile — proseguì Mangino. — Non ci sono scorie radioattive. Dal guscio del reattore non escono radiazioni. Non può verificarsi la fusione del nocciolo.

Dempsey, seduto sul lettino mentre un medico e una infermiera graziosa lo bendavano, intervenne: — Non si può ragionare con gente simile. Si montano la testa e non guardano i fatti.

— No — lo corressi. — Non si montano la testa da soli. C’è qualcuno che gliela monta.

Mangino spalancò gli occhi per una frazione di secondo, poi annuì. — Avete ragione.

— Sarebbe bene scoprire chi è questo qualcuno — suggerii.

— Già. E da dove viene — convenne Mangino. — Potrebbero essere gli arabi, i responsabili. O le compagnie petrolifere. O qualche gruppo di fanatici.

Chiunque fosse c’era sotto lo zampino di Ahriman. Io lo sapevo.

6

Non fu difficile trovare il quartier generale dei dimostranti. Appartenevano a una organizzazione battezzatasi STOP, una sigla per Stop alla Tecnologia che Opprime i Popoli.

La sede della STOP era una vecchia casa di tre piani di fronte al campus universitario. Parcheggiai l’auto che avevo noleggiato davanti alla casa e rimasi a osservarla. Passavano un sacco di studenti, e altri studenti si radunavano nei pressi delle pizzerie e delle tavole calde lungo la via. Questo lato del viale un tempo era stato occupato da una fila di solenni abitazioni vittoriane. Ora, con l’espandersi del complesso universitario, le abitazioni erano state trasformate in appartamenti, uffici e negozi.

Sul lato opposto della strada sorgeva il campus, una serie di edifici dalle linee aggraziate, siepi ben curate, e alberi che tendevano i rami spogli verso il grigio cielo invernale. La parte del viale in cui mi trovavo sembrava invece un monumento all’avidità dei proprietari: squallida, sporca, rumorosa, redditizia. E lì il traffico era costante: suoni di clacson, motori, un andirivieni di camion, autobus, moto, e perfino qualche bicicletta elettrica.

Scesi dall’auto, convinto che l’approccio migliore fosse quello diretto. Salii i gradini di legno, superai il portico e premetti l’antiquato pulsante del campanello. Non sentendo nulla, aprii l’uscio ed entrai.

Mentre l’esterno della casa era in stile Vecchia America Vittoriana, l’interno era decorato in stile Studente Attivista Contemporaneo. Le pareti del corridoio d’ingresso erano coperte di poster ingialliti che raffiguravano una gamma di personaggi diversi tra loro come Martin Luther King e Jane Fonda. Il manifesto più recente, già sbiadito, proclamava: VIA GLI U.S.A. DAL BRASILE! NON VOGLIAMO UN ALTRO EL SALVADOR! Guardai gli opuscoli ammucchiati su un tavolo. C’era di tutto, dall’aborto al disarmo, ma nessuno che parlasse del reattore a fusione.

Ai lati del corridoio c’erano delle porte aperte. Prima diedi un’occhiata a sinistra, ma lo stanzone era deserto; vidi solo un paio di divani logori, tre brandine dell’esercito e un tavolo con un elaboratore verbale piuttosto sgangherato.

Provai la stanza sulla destra. Una ragazza dall’aria sveglia sedeva dietro un modernissimo centralino telefonico portatile appoggiato guarda un po’ su un massiccio tavolo vittoriano di mogano intarsiato. Sui capelli biondi, tagliati corti, aveva una cuffia con microfono. Senza interrompere la conversazione in corso, mi fece segno di entrare e mi indicò una delle sedie di plastica lungo la parete.

Rimasi in piedi, aspettando che finisse. La mia attenzione si spostò, la mia mente vagò, e rividi il volto serio, finemente cesellato di Aretha, i suoi luminosi occhi grigi, i suoi capelli scurissimi. Allontanai quell’immagine e mi sforzai di concentrarmi sulla ragazza al centralino.

La bionda concluse la conversazione telefonica e mi guardò. I loro telefoni non avevano schermo visivo, notai.

— Benvenuto alla STOP — esordì allegramente. — Cosa possiamo fare per voi, signor…?

— Orion — dissi. — Vorrei vedere il capo di questa organizzazione.

Il suo sorriso sbarazzino si rabbuiò. — Siete del municipio? Dei pompieri?

— No. Sono dell’impianto RTC. Il reattore a fusione.

— Oh! — esclamò sorpresa. Il nemico in casa.

— Voglio vedere il vostro capo.

— Don Maddox? È a lezione, adesso.

— No, non lui. Quello per cui lavora.

La ragazza parve perplessa. — Ma è Don il nostro presidente. È stato lui a fondare la STOP, a…

— È stato lui a decidere di manifestare contro l’impianto a fusione, oggi?

— Sì… — fu la risposta, incerta.

— Voglio sapere chi lo ha istigato a farlo.

— Ehi, un momento, signore… — La ragazza cominciò a giocherellare nervosa col bordo del centralino, leggermente sudata, il respiro un po’ affannoso.

— D’accordo — dissi, allentando la pressione. — Chi è stato il primo a suggerire la manifestazione di protesta all’impianto? Non è stato uno degli studenti, lo so.

— Oh, volete dire il signor Davis. — La bionda si drizzò sulla sedia, assumendo un tono convinto. — È stato lui ad aprirci gli occhi riguardo i vostri esperimenti e tutta la propaganda che avete propinato alla gente.

Inutile discutere con lei. Davis. Sorrisi tra me. Un piccolo cambiamento di pronuncia e ne usciva Deve, gli dei del male nella vecchia religione di Zoroastro.

— Il signor Davis — annuii. — È lui che voglio vedere.

— Perché? Ha intenzione di arrestarlo o di minacciarlo?

Sorrisi di fronte a tanta ingenuità. — Se intendessi farlo, ve lo direi? Stamattina all’impianto non è stato arrestato nessuno, vero?

Scuotendo la testa, la ragazza rispose: — Da quel che ho sentito, avevano piazzato una squadra di gorilla là fuori per pestare i nostri.

— Davvero? Be’, comunque mi piacerebbe vedere Davis. È qui?

— No. — Era chiaro che mentiva. — Sarà assente per un po’… Va e viene. Non so altro.

Scrollando le spalle, dissi: — Bene. Mettetevi in contatto con lui e riferitegli che Orion vuole vederlo. Subito.

— Il signor O’Ryan?

— Orion. Orion, e basta. Capirà chi sono. Aspetto fuori in auto. È parcheggiata proprio qui davanti.

La ragazza corrugò la fronte. — Può darsi che stia via a lungo. Magari fino alla settimana prossima.

— Voi pensate a mettervi in contatto e a dargli il mio nome. Aspetterò.

— D’accordo — disse, e nel tono era sottinteso: Ma credo che tu sia pazzo.

Attesi in auto per meno di un’ora. Era un pomeriggio grigio, gelido, ma mi adattai facilmente al freddo. Strinsi i vasi sanguigni periferici, così che il calore corporeo non si disperdesse troppo in fretta. Aumentai un po’ il ritmo metabolico, bruciando parte dei grassi immagazzinati nei tessuti. Così conservai la stessa temperatura nonostante il freddo. Avrei potuto ottenere lo stesso risultato andando all’angolo a prendere qualcosa da mangiare, ma il mio sistema era più comodo, e poi non volevo abbandonare l’auto. Potevano succedere troppe cose mentre avevo le spalle girate. Mi venne fame, comunque. Come ho detto, non sono un superuomo.

La bionda uscì sul portico, rabbrividendo anche se si era buttata addosso un maglione. Fissò la mia auto. Scesi, e lei mi rivolse un cenno. La seguii in casa. Mi aspettava tremante nel corridoio, le braccia strette sul seno.

— C’è un freddo tremendo, fuori — disse, strofinandosi le braccia. — E non avete nemmeno un cappotto!

— Avete trovato Davis? — le chiesi.

Annuì. — Sì. È… entrato dal retro. In fondo al corridoio. Vi aspetta.

La ringraziai e raggiunsi la porta in fondo all’atrio. Si apriva su una rampa di scale che portava in cantina. “Un posto logico per lui”, pensai, chiedendomi quante leggende oscure e maligne avesse originato nel corso dei millenni.

C’era buio in cantina. L’unica luce proveniva dal corridoio in cima alle scale. Intravidi una tozza, voluminosa, caldaia a carbone irta di tubature, simile a una gigantesca Medusa metallica. Cassoni, scatole, cianfrusaglie, se ne stavano rintanate nell’oscurità.

Mossi qualche passo incerto in fondo alla scala, e mi fermai.

— Da questa parte. — La voce era un mormorio aspro.

Girandomi, lo vidi. Una presenza più oscura tra le ombre della cantina. Era grande e grosso, alto quasi quanto me. Spalle massicce, corpo poderoso, braccia che erano un intreccio di muscoli. Avanzai verso di lui. Non riuscii a vederlo in faccia; c’era troppo buio. Si voltò e mi guidò verso la caldaia. Mi chinai sotto una tubatura…

E di colpo mi ritrovai in una stanza illuminata! Socchiusi gli occhi e barcollai un attimo all’indietro, sbattendo contro una parete. La stanza era rivestita di moquette e di legno pregiato, arredata con poltrone e divani. Non c’erano finestre. Le pareti erano spoglie. E soprattutto, non c’erano porte.

— Mettiti comodo, Orion — mi disse indicandomi un divano con la mano dalle dita tozze e nerborute.

Mi sedetti e lo studiai mentre prendeva posto lentamente su una poltrona di cuoio.

La sua faccia non era del tutto umana. Lo era abbastanza da passare inosservata incrociandolo per strada. Però esaminandolo attentamente si notavano gli zigomi troppo spaziati, il naso troppo piatto, e gli occhi dalla sfumatura rossastra. Gli occhi! Ardevano, avvampavano, irradiavano il tormento di una furia continua… e guardando in profondità vidi altre cose in quegli occhi: un odio implacabile e, misto all’odio, qualcos’altro, qualcosa che non riuscivo a decifrare. Non che avesse importanza per me. L’odio c’era, bruciava nei suoi occhi. Come nei miei.

Aveva capelli scuri, a spazzola. La pelle di un pallore grigiastro. Portava calzoni di tela e una camicia aperta sul collo. Era muscoloso come un professionista del sollevamento pesi.

— Tu sei Ahriman — dissi finalmente.

La sua espressione era truce, cupa. — Non ti ricordi di me, è naturale. Ci siamo già incontrati. — La sua voce era un mormorio, il sussurro di un fantasma, o l’ansito sofferente di un moribondo.

— Davvero?

Annuì energicamente. — Sì. Ma stiamo muovendoci in direzioni temporali diverse. Tu stai tornando indietro verso La Guerra. Io sto avanzando verso La Fine.

— La Guerra? La Fine?

— Avanti e indietro sono termini relativi nei viaggi temporali. Ma la verità è che ci siamo già incontrati. Arriverai in certi punti e ricorderai le mie parole. Se vivrai.

— Stai tentando di distruggere il reattore a fusione. — dissi.

Sorrise, e non fu uno spettacolo simpatico. — Sta cercando di distruggere tutta la tua razza.

— Sono qui per impedirtelo.

— Può darsi che tu ci riesca — ribatté Ahriman, sottolineando il può darsi con una punta di ironia.

— Ormazd dice che ci riuscirò… che ci sono già riuscito. — Non accennai alla parte riguardante la mia uccisione. Non potevo. Altrimenti la cosa si sarebbe avverata. Avrei accresciuto la sua forza, indebolendomi.

— Ormazd sa molte cose — disse Ahriman lentamente. — Però te ne dice solo alcune. Per esempio, sa che se eluderò il tuo tentativo di fermarmi questa volta…

Questa volta! Allora c’erano già stati altri confronti!

— … oltre a distruggere interamente la tua razza, infrangerò anche la struttura del continuum spazio-temporale e annienterò Ormazd stesso.

— Vuoi ucciderci tutti.

Quegli occhi rossi e tormentati mi perforarono. — Sì, voglio uccidervi tutti. Voglio abbattere i pilastri dell’universo. Tutto morirà. Le stelle, i pianeti, le galassie… tutto. — Ahriman serro i pugni massicci. Credeva in quello che diceva, ed era piuttosto convincente.

— Ma perché? Perché vuoi…

Mi zittì con lo sguardo. — Se Ormazd non te l’ha detto, perché dovrei dirtelo io?

Cercai di vedere oltre le sue parole, ma la mia mente si scontrò con un muro impenetrabile.

— Ti dirò questo, comunque — mormorò Ahriman. — Il vostro reattore a fusione è un punto di connessione basilare nello sviluppo della tua razza. Se riuscirete a rendere operativo il processo di fusione, entro una generazione comincerete a espandervi nello spazio, verso le stelle. Io non ve lo permetterò.

— Non capisco.

— E come potresti? — Si sporse in avanti, e mi parve di sentire che emanava un odore di ceneri e di morte. — Questo impianto a fusione, questa macchina che voi chiamate RTC, è la chiave del futuro della vostra razza. Se avrà successo, la fusione vi fornirà quantità illimitate di energia. Ricchezza e benessere per tutti. La tua razza potrà smettere di giocare coi suoi ridicoli razzi chimici e cominciare a costruire astronavi vere. Potrà espandersi in tutta la galassia.

— Infatti, ci è riuscita — mi resi conto.

— Sì. Ma se io riuscirò a cambiare questo punto di connessione, in questo particolare periodo, se riuscirò a distruggere il reattore a fusione… — Ahriman sorrise. E io rabbrividii.

Cercai di scuotermi. — Quello che dici è falso. Il mancato funzionamento di una macchina non può uccidere il genere umano.

— Sì, può farlo, grazie alla natura maniacale della tua razza. Quando il reattore a fusione esploderà…

— Non può esplodere! — esclamai.

— Certo che no. Non in circostanze normali. Ma io dispongo di mezzi straordinari. Posso creare uno sbalzo di energia improvviso nei laser. Posso provocare la detonazione della schermatura di litio che circonda la camera di combustione del reattore. Invece della fusione di un microgrammo di deuterio e dell’emissione di una minuscola quantità di energia, si avrà l’esplosione di decine di chili di litio e metalli pesanti.

— È impossibile che…

— Invece di una microscopica stella artificiale che irradia un flusso energetico controllato, io creerò una supernova artificiale, una bomba al litio. L’esplosione distruggerà Ann Arbor completamente. Il pulviscolo radioattivo ucciderà milioni di persone da Detroit a New York.

Mi afflosciai sul divano, allibito.

— Anche se i vostri capi saranno abbastanza saggi da capire che si sarà trattato di un incidente e non di un attacco nucleare, anche se non bombarderanno di missili i nemici, la gente reagirà in modo violento contro l’energia di fusione. Le proteste passate che hanno portato alla chiusura di tutte le centrali nucleari a uranio fissile sembreranno uno scherzo innocuo rispetto alle reazioni provocate da questo disastro. Per qualsiasi ricerca nucleare sarà la fine, ovunque. Non otterrete mai l’energia di fusione. Mai.

— Comunque, sopravviveremo.

— Davvero? Io dispongo di tutto il tempo che voglio. Posso pazientare. Col passare degli anni, la crescita della popolazione richiederà quantità sempre maggiori di energia. Le vostre grandi nazioni si scontreranno tra loro per il possesso del petrolio, del carbone, delle risorse alimentari. La guerra sarà inevitabile. E per la guerra, avete dei congegni a fusione che funzionano a meraviglia… le bombe H.

— L’apocalisse — dissi.

Ahriman annuì, trionfante. — Invece di espandervi nella galassia, vi distruggerete a vicenda con la guerra atomica. Su questo pianeta la vita verrà cancellata. La struttura spazio-temporale si spezzerà a tal punto che l’intero continuum crollerà e morirà. L’apocalisse, sì.

Volevo farlo smettere, ridurlo al silenzio. Volevo ucciderlo, come lui aveva ucciso Aretha. Ringhiando mi scagliai in avanti per stringergli la gola. Era vero, non un ologramma. Ed era mostruosamente forte. Mi respinse facilmente, atterrandomi quasi fossi un bambino.

Ritto su di me come la forza oscura di un destino funesto, sibilò: — Nonostante tutto quello che Ormazd ti ha detto, io riuscirò nella mia impresa. Tu morrai, Orion. Qui. Sarai intrappolato in questa camera, mentre io distruggerò l’impianto di fusione.

— Ma… perché? — chiesi, issandomi lentamente sul divano. — Perché vuoi cancellare il genere umano?

— Non lo sai proprio, vero? Non te l’ha mai detto, lui… o te ne ha cancellato il ricordo.

— No, non lo so. Perché odi la razza umana?

— Perché voi avete sterminato la mia razza — rispose Ahriman in un rantolo strozzato. — Millenni fa, la tua gente ha ucciso la mia gente. Avete annientato interamente la mia specie. Io sono l’unico superstite, e vendicherò la mia razza distruggendo la vostra… e i vostri signori.

Mi sentivo svuotato. Mi abbandonai debolmente sul divano, incapace di sfidarlo, di muovermi.

— E adesso, addio — disse tenebroso Ahriman. — Devo sbrigare del lavoro prima del primo collaudo del vostro reattore. Tu rimarrai qui… — Indicò con un gesto circolare la stanzetta. Non c’erano porte, né finestre. Non c’erano ingressi né uscite. “Come ci siamo entrati, qui dentro?” mi chiesi. — Se riuscirò, sarà tutto finito in poche ore — continuò. — Il tempo stesso comincerà a vacillare, e l’universo si ripiegherà su se stesso come un palloncino bucato. Se fallirò, be’… — di nuovo quel sorriso raccapricciante — …tu non lo saprai mai. Questa camera sarà la tua tomba. O, per essere più precisi, il tuo forno crematorio.

— Dove siamo? — chiesi.

— Quarantacinque chilometri sottoterra, in una comoda bolla di sicurezza temporanea creata deformando l’energia degli atomi attorno a noi. Pensaci mentre bruci… sei solo a un passo dalla casa di Ann Arbor. Un passo davvero piccolo, se si capisce a fondo il modo in cui l’universo è costruito. Ahriman si girò di scatto e attraversò la parete, scomparendo.

7

Per parecchi minuti restai immobile sul divano, incapace di reagire per lo shock, la mente in fermento.

«Voi avete sterminato la mia razza… la tua gente ha ucciso la mia gente… e io vendicherò la mia razza distruggendo la vostra… e i vostri signori…»

Non poteva essere vero. E cosa intendeva dire parlando di noi due che ci muovevamo in direzioni temporali diverse, parlando di un nostro incontro precedente? I tuoi signori? A chi si riferiva? A Ormazd? Ma aveva detto signori, al plurale. Ormazd era il rappresentante di una razza diversa, una razza aliena che controllava il genere umano? Così come Ahriman era l’unico superstite di una razza aliena contro cui noi umani avevamo combattuto tanto tempo addietro?

Quante volte ci eravamo incontrati in precedenza? Ahriman aveva detto che questo punto temporale, questo primo test del reattore a fusione, segnava una tappa vitale per l’umanità. In caso di successo, avremmo avuto l’energia per raggiungere le stelle. In caso contrario, ci saremmo uccisi a vicenda entro una generazione. Dovevano esserci stati altri punti di connessione basilari, indietro nel tempo… molti punti.

E chissà dove lungo la corrente degli eoni c’era una guerra, La Guerra, tra la razza umana e quella di Ahriman. Quando? Perché? Come potevamo combattere degli invasori da un altro mondo nel passato, migliaia di anni fa?

Tutti questi pensieri mi ribollivano nel cervello, finché finalmente il mio corpo non prese il sopravvento.

— Il caldo sta aumentando qui dentro — dissi ad alta voce.

La mia attenzione tornò al presente. A quella cella. L’aria era molto calda, secca. Avevo la gola riarsa. Sudavo.

Mi alzai, tastando la parete più vicina. Scottava quasi. E anche se sembrava rivestita di legno, il tatto mi diceva che quella era pietra. Era un’illusione, tutto quanto.

«Un passo davvero piccolo… se si capisce a fondo il modo in cui l’universo è costruito…»

Non capivo nulla. Non ricordavo nulla. Il mio pensiero fisso era che Ahriman era di nuovo in superficie, ad Ann Arbor, e stava dandosi da fare per trasformare l’RTC in una megabomba al litio che avrebbe innescato la distruzione dell’umanità. E io ero intrappolato quarantacinque chilometri sottoterra, pronto per essere arrostito come un agnello sacrificale.

«Sei solo a un passo dalla casa di Ann Arbor», aveva detto. Era una bugia? Uno scherzo? La macabra concezione di ironia?

— Un piccolo passo — mormorai. “Com’è strutturato l’universo? È fatto di atomi. E gli atomi, di particelle più piccole, frammenti infinitesimali di energia congelata che può essere fatta sgelare, scorrere, crescere di intensità…”

Quella stanza era stata creata deformando l’energia degli atomi della crosta terrestre. Energia che adesso stava riacquistando la forma naturale. Lentamente, la stanza si stava trasformando di nuovo in magma. L’aria era sempre più densa, rovente. Sarei rimasto incastrato nella roccia a 45 chilometri di profondità… roccia così calda da essere quasi fusa.

Eppure stando ad Ahriman ero a un passo dalla salvezza. Mentiva? No, impossibile. Lo avevo visto attraversare la parete di roccia. Doveva essere ritornato nella cantina della casa di Ann Arbor. Se c’era riuscito lui, potevo riuscirci anch’io. Ma come?

Lo avevo già fatto! Ero entrato in quella prigione sotterranea dalla cantina. Quindi perché non avrei dovuto essere in grado di tornare indietro?

Provai, ma finii sempre con l’andare a sbattere contro le pareti di pietra. Provare non bastava.

Ma… un momento. Se avevo attraversato 45 chilometri di roccia in un unico passo, questo significava per forza che esisteva un collegamento tra quella casa e questa cella. Non solo gli atomi della crosta terrestre erano stati deformati per creare la camera, anche la geometria dello spazio stesso era stata distorta per colmare la distanza chilometrica.

Tornai a sedere sul divano, riflettendo in maniera febbrile. Avevo letto articoli sulle distorsioni dello spazio, ipotesi su come un giorno le astronavi sarebbero riuscite a coprire migliaia di anni luce quasi istantaneamente. Gli astrofisici avevano scoperto i buchi neri nello spazio interstellare, buchi neri che deformavano lo spazio-tempo coi loro campi gravitazionali mostruosi. Era tutta questione di geometria. Uno schema. Come prendere un foglio di carta e piegarlo a forma di fiore o di uccello.

E io avevo visto quello schema! Lo avevo attraversato entrando nella cella. Ma era successo così in fretta che non riuscivo a ricordarlo consciamente in modo dettagliato.

O potevo riuscirci?

Compressione dati… I satelliti in orbita possono accumulare dati su nastri magnetici per giorni e giorni, e poi riversarli a una stazione ricevente in pochi secondi. I dati compressi vengono poi riprodotti dai tecnici a una velocità molto più lenta, e tutta la mole di informazioni è perfettamente integra e leggibile.

Potevo rallentare la memoria in modo tale da ricordare, microsecondo per microsecondo, cosa mi era successo durante quel breve passo dalla casa nella tomba sotterranea? Mi appoggiai allo schienale del divano e chiusi gli occhi. Era sempre più difficile respirare, ma cercai di ignorare il bruciore ai polmoni e di concentrarmi.

Un passo di quarantacinque chilometri. Attraverso la roccia. Mi rividi nella cantina. Mi ero chinato sotto una tubatura della caldaia ed ero penetrato nell’oscurità…

Nel freddo. Per un attimo avevo avvertito un’ondata di freddo intenso, quasi avessi attraversato una cortina di aria liquida. Freddo criogenico. Un freddo così intenso che gli atomi erano quasi immobili, una temperatura vicina allo zero assoluto.

In quei pochi microsecondi di gelo insopportabile avevo visto che la struttura cristallina degli atomi attorno a me era effettivamente bloccata dal freddo, paralizzata. Gli atomi brillavano come minuscole gemme luminose, deboli e fiochi perché svuotati di quasi tutta la loro energia. Il reticolo cristallino degli atomi aveva formato un sentiero per me, un tunnel abbastanza ampio da permettermi di coprire 45 chilometri in un unico passo.

Aprii gli occhi. Adesso la stanza ardeva; l’aria era irrespirabile. Trattenni il fiato, chiedendomi quanto avrei potuto resistere con l’ossigeno immagazzinato nelle mie cellule e nel sangue.

Sapevo come ero arrivato lì dentro. C’era un reticolo di energia che collegava quella cripta con la casa di Ann Arbor… un tunnel che sfruttava l’energia rubata agli atomi per creare un passaggio sicuro e quasi istantaneo tra i due posti. Ma il tunnel stava dissolvendosi, come la stanza. L’energia di quegli atomi torturati stava tornando alla normalità. Tra poco tutto si sarebbe ritrasformato in roccia.

Come potevo trovare l’ingresso del tunnel? Mi concentrai, ma non approdai a nulla. Sudavo, e per il calore e per lo sforzo mentale. Niente da fare. Il mio cervello non era in grado di capire.

Il mio cervello non… Sbagliato! Mi resi conto che finora avevo usato solo una metà del mio cervello per affrontare il problema. Ormazd mi aveva detto che potevo impiegare consciamente entrambi gli emisferi contemporaneamente, dote che gli esseri umani comuni non possedevano. Mi ero servito di un emisfero per visualizzare lo schema geometrico della distorsione energetica che collegava quella tomba alla superficie. Ma quella metà del mio cervello poteva solo percepire geometricamente quelle relazioni spazio-forma.

Sforzandomi, costrinsi l’altro emisfero a esaminare il problema. Mi sembrò quasi di sentire una risata nella testa, mentre la parte inutilizzata della mia mente diceva qualcosa tipo: “Be’, era ora!”

Sì, volendo c’entrava proprio l’ora. La soluzione del problema di trovare la soglia del reticolo di atomi era una questione di scelta di tempo. Quegli atomi opachi stavano ancora vibrando lentamente, una lentezza innaturale, perché erano quasi privi di energia. Però vibravano. Solo quando assumevano una certa formazione il loro allineamento era tale da aprire l’ingresso del tunnel. Per gran parte del tempo erano spostati fuori fase, sparsi, ammassati e confusi come una folla di persone assiepate in una via del centro. Però una volta al secondo raggiungevano la disposizione corretta che schiudeva il tunnel verso la salvezza. Disposizione che si dissolveva poi in pochi microsecondi.

Solo durante quella frazione infinitesimale di tempo il passaggio era aperto. Dovevo entrare nel reticolo, attraversare la parete rovente della camera, esattamente in quell’attimo. Altrimenti…

Mi alzai, avvicinandomi alla parete. Il calore mi strinò le sopracciglia e i peli sul dorso delle mani. Tenni gli occhi chiusi, immaginando il passaggio con una parte del cervello, e calcolando con l’altra il preciso istante in cui il reticolo sarebbe stato percorribile.

Feci un passo avanti. Un attimo di calore tremendo, poi un freddo più intenso del gelo polare. Poi…

Aprii gli occhi. Ero nella cantina buia della casa della STOP. Finalmente, sospirai, e inspirai a pieni polmoni quell’aria fresca e fragrante.

Trovai una porta secondaria e lasciai la cantina, uscendo nella notte fredda. Era una sensazione meravigliosa. Un vicolo tra la casa e la costruzione vicina immetteva sulla strada. La mia auto era ancora là, abbellita da una multa infilata sotto il tergicristallo. Infilai in tasca il foglietto e mi misi al volante, contento che non me l’avessero portata via col carro attrezzi o rubata.

Impiegai dieci minuti per tornare all’impianto. Nell’atrio deserto dell’edificio, telefonai a Tom Dempsey, al capo della sicurezza Mangino, e al direttore tecnico. Era quasi mezzanotte, ma probabilmente il mio tono di voce li convinse che stava accadendo qualcosa di importante. Nessuno dei tre fece discussioni, anche se il computer telefonico dovette provare tre numeri diversi prima di localizzare il dottor Wilson, il direttore tecnico.

Arrivarono nel giro di mezz’ora, e in quei trenta minuti interrogai di persona tutte le guardie di servizio. Nessuno aveva notato alcunché di sospetto. Pattugliavano continuamente i laboratori, dentro e fuori, e la situazione sembrava normalissima.

Il dottor Wilson era un inglese dinoccolato, rubizzo, scarmigliato, che parlava in tono sommesso e aveva un’aria di assoluta imperturbabilità. Arrivò per primo. Mentre gli spiegavo che qualcuno avrebbe tentato di fare esplodere il reattore a fusione, e lui sorrideva tollerante a quell’idea assurda, Dempsey e il capo della sicurezza entrarono nell’atrio insieme. Dempsey sembrava più perplesso che sconvolto. Era spettinato; sicuramente dormiva quando lo avevo chiamato, e si era vestito in fretta e furia. Mangino era decisamente arrabbiato. I suoi occhi castani mi fissarono in cagnesco.

— Sono un sacco di sciocchezze isteriche — ringhiò quando gli esposi i miei timori. Naturalmente, mi guardai bene dal parlare di Ormazd e di Ahriman, e della camera sotterranea da cui ero appena sfuggito. Mi bastava convincerli dell’esistenza di un pericolo reale. Non volevo che mi spedissero in manicomio.

Wilson cercò di dirmi che il reattore non poteva assolutamente esplodere. Lo lasciai parlare; più si dilungava in spiegazioni, più saremmo rimasti sul posto, pronti a intervenire per contrastare le mosse di Ahriman.

— Nel reattore non c’è mai deuterio sufficiente perché possa verificarsi un’esplosione — ribadì Wilson, la voce bassa e amichevole, seduto su uno dei divanetti di plastica dell’atrio. Io ero in piedi accanto alla scrivania della reception. Dempsey si era steso su un altro divano e si era addormentato. Mangino, dietro la scrivania, stava contattando i sorveglianti tramite il videotelefono.

— Ma supponiamo che sia possibile incrementare la potenza dei laser… — replicai, per guadagnare tempo.

— Brucerebbero subito, nel giro di un minuto. Li stiamo già spingendo alla massima potenza — ribatté Wilson.

— …e che venga immessa nella camera di reazione una quantità extra di deuterio…

Wilson scosse il capo, e una massa di capelli color sabbia gli piovve sugli occhi. — Non può succedere. Ci sono doppi circuiti di sicurezza per impedirlo. E anche se dovesse succedere, al massimo si avrebbe una detonazione insignificante, una bottarella da niente… non una bomba all’idrogeno.

— E una bomba al litio, invece? — chiesi.

Per la prima volta, corrugò la fronte, preoccupato. — Cosa intendete dire?

— Se le cose andassero in un certo modo, il deuterio non potrebbe innescare con la sua detonazione il litio della schermatura attorno alla camera del reattore?

— No, no. È impos… — Wilson si bloccò, esitò, quindi disse lentamente: — È improbabile. Molto improbabile. Certo, dovrei fare qualche calcolo, ma le probabilità che un…

— Ventiquattro, a rapporto. — La voce aspra di Mangino interruppe la nostra conversazione.

Mi girai verso il capo della sicurezza. Stava fissando corrucciato lo schermo del telefono. — Maledizione, Ventiquattro, rispondi!

Mi guardò, come se il responsabile fossi io. — Una delle guardie esterne non risponde. Quella che sorveglia la banchina di carico.

— La banchina di carico! — Wilson balzò in piedi, cominciando a tremare.

Mangino alzò una mano. — Manteniamo la calma. Quel tratto è coperto da una delle telecamere esterne. Sembra tutto a posto. Solo che non c’è traccia della guardia. Forse sta facendo una pisciatina o qualcosa del genere.

Andai dietro la scrivania e osservai lo schermo. La zona di carico era illuminata a giorno. Non c’erano auto né camion. Sembrava tutto tranquillo.

— Facciamo un salto laggiù, comunque — proposi.

Svegliammo Dempsey, dicendogli di occuparsi dei telefoni e degli schermi video. Dempsey si strofinò gli occhi, annuendo. Poi Wilson, Mangino e io ci affrettammo lungo il corridoio centrale verso l’area di carico. Mangino estrasse dal cappotto una pistola piatta, nero pece, tolse la sicura, e infilò l’arma in tasca.

Le luci si accendevano automaticamente di fronte a noi mentre avanzavamo, spegnendosi alle nostre spalle. L’area di carico era un magazzino in miniatura: mucchi di scatoloni, fusti d’acciaio, casse, attrezzature strane avvolte in plastica trasparente.

— Qui dentro si potrebbe nasconderci un intero plotone — borbottò Mangino.

— Però tutto sembra in ordine — disse Wilson, guardandosi attorno. Feci per confermare, ma sentii una lieve corrente d’aria in faccia. Proveniva dalla direzione del portone di carico, due enormi serrande metalliche chiuse ermeticamente. Chiuse! Mi accostai, e vidi che in una saracinesca c’era una porticina, per consentire il passaggio di una persona senza bisogno di alzare tutto quanto. Tesi la mano.

— Chiusa a chiave — disse Mangino. — Serratura elettronica a timer. Se qualcuno cercasse di forzarla…

Toccai la maniglia e la porta si aprì senza sforzo. Mangino restò a bocca spalancata.

Chinandomi, vidi che l’area attorno al bordo della serratura era leggermente piegata, come se delle mani poderose avessero agito direttamente sul metallo fino a farlo cedere. La corrente d’aria proveniva da quello spiraglio.

— Perché non è scattato l’allarme? — si chiese Mangino a voce alta.

— Non importa, adesso — dissi. — L’attentatore è nel laboratorio! Presto!

Corremmo verso il settore del reattore, mentre Wilson continuava a protestare che nessuno avrebbe potuto manomettere i laser o il reattore per provocare un’esplosione.

La porta della sala controllo laser era stata scardinata. Una rapida occhiata all’interno rivelò che il locale era deserto. I quadri di comando sembravano intatti. Mentre Wilson ispezionava le strumentazioni, Mangino urlò nella radio portatile: — Tutte le guardie nell’area del reattore. Bloccare qualsiasi persona non autorizzata. Sparare in caso di resistenza. Chiamare subito la polizia e l’FBI!

Varcammo la porta che conduceva nella lunga sala di cemento che ospitava i laser. Di nuovo, le luci sul soffitto si accesero automaticamente al nostro passaggio.

— Questa porta avrebbe dovuto essere chiusa a chiave — gemette Wilson allarmato.

I laser erano barre di vetro lunghe e sottili, adagiate su massicci supporti metallici, simili a tante parallele ginniche. A intervalli di circa tre metri, le barre di vetro erano interrotte da gruppi di lenti, convertitori faradici e sensori. La linea multipla di laser percorreva la grande sala, puntando su una feritoia che si apriva nella parete di cemento armato. Oltre quella parete c’era il reattore, il punto in cui l’energia dei laser veniva concentrata su micromasse di deuterio combustibile.

Ci fermammo incerti per un attimo. Poi all’improvviso un ronzio elettrico cominciò a vibrare nell’aria. Percepii un lieve odore di ozono, e i tubi laser si accesero di una luce verdognola spettrale.

— Sono entrati in funzione! — ansimò Wilson.

8

Mangino e io ci girammo di scatto in direzione del centro di controllo all’estremità della sala. Dietro lo spesso vetro protettivo, confusa nell’oscurità, spiccava la sagoma massiccia di Ahriman.

Mangino estrasse la pistola e sparò. Il vetro si incrinò. Mangino continuò a far fuoco, riuscendo infine a rompere il vetro. Ma in quei pochi secondi Ahriman era fuggito.

Le luci si spensero. Si vedeva solo il bagliore accecante dei laser, scie multiple di energia sempre più intensa dirette attraverso la feritoia, nel nocciolo del reattore. Uscimmo incespicando nel corridoio. Buio dappertutto. Forse Ahriman aveva provocato una caduta di corrente in tutta la regione per riversare la massima energia nei laser.

Sopra il ronzio lamentoso dei generatori elettrici sentii dei passi di corsa. Poi degli spari.

— L’hanno beccato! — strillò Mangino. Ma a me sembrava che i passi e gli spari stessero allontanandosi da noi, diventando sempre più deboli. No, non avevano preso Ahriman, lo sapevo.

— Gli vado dietro — disse Mangino, e schizzò via nell’oscurità.

— Dobbiamo spegnere i laser prima che accumulino abbastanza energia da far detonare il litio — dissi a Wilson.

Nel chiarore spettrale venato di verde che usciva dalla porta, gli occhi del direttore tecnico erano sbarrati. — Impossibile che succeda! — insisté.

— Spegnamoli ugualmente.

Non protestò. Andammo nella sala controllo, e scoprimmo che le strumentazioni erano state distrutte. Quadri di comando sbriciolati, pannelli metallici divelti, fasci di cavi che penzolavano dai resti di schede modulari. Sembrava che lì dentro fosse passato un elefante impazzito. E attraverso il vetro rotto, vedemmo che adesso i laser pulsavano, illuminandosi in modo più vivido.

Wilson era a bocca aperta. — Com’è possibile che qualcuno abbia…

All’improvviso il gemito dei generatori si fece acutissimo e le barre presero a brillare ancor più intensamente. Sentii lo schiocco di una lente che scoppiava e cadeva sul pavimento della sala. Ormai la luce feriva la vista. Scostai Wilson dall’ammasso di rottami, e insieme barcollammo lungo il corridoio, verso la camera del reattore.

— Come si fa a disattivare il processo? — chiesi, gridando nello stridio dei generatori impazziti.

Wilson era frastornato. — La linea di alimentazione del deuterio…

— Manomessa anche quella, scommetto. Non riusciremo a bloccarla, come non riusciamo a spegnere i laser.

Wilson scosse la testa, passandosi una mano tra i capelli arruffati. Nell’accecante riflesso verde sembrava un moribondo.

— La rete centrale di alimentazione elettrica — farfugliò infine. — Potrei raggiungere gli interrutori generali e bloccare tutto.

— Bene! Fatelo!

— Ma ci vorrà del tempo. Dieci minuti. Cinque, come minimo.

— Troppo! Sarà già troppo tardi. È terribile. Tra un paio di minuti, qui salta tutto! Due minuti.

— Lo so.

— Che altro possiamo fare? — gridai.

— Nulla!

— Dev’esserci un sistema per…

— Schermare — urlò Wilson. — Se potessimo piazzare nella camera del reattore uno schermo per bloccare i raggi laser…

Avevo capito. Bastava interrompere il flusso di luce che bombardava le microcapsule di deuterio, e il reattore si sarebbe disattivato.

— Uno schermo — dissi a Wilson. — D’accordo. Voi trovate gli interruttori generali. Io troverò uno schermo.

— Ma è impossibile…

— Muovetevi! — sbraitai.

— Non potete entrare nel reattore! Le radiazioni vi uccideranno in meno di un minuto!

— Andate!

Lo spinsi via. Wilson traballò, poi esitò mentre spalancavo la porta della sala del reattore.

— Per l’amor del cielo… No! — urlò.

Lo ignorai ed entrai.

Era una sala circolare, a cupola, bassa e angusta, un grembo di cemento armato immerso nella livida furia infernale dei raggi laser. Il feto al centro era una sfera metallica di un metro e mezzo circondata da tubature a spirale in cui scorreva litio refrigerante. Sembrava una batisfera, però non aveva oblò. Era impossibile interrompere il flusso luminoso dei laser dall’esterno; i raggi penetravano nella sfera attraverso uno spesso condotto di quarzo. Non sarei riuscito a rompere il condotto senza qualche attrezzo, anche se avessi avuto il tempo di provarci.

C’era un portello nella sfera. Senza riflettere, lo aprii con uno strattone. L’intensità allucinante della luce e del calore mi mandò a sbattere contro la parete. Una stella artificiale stava ardendo furiosa in quella camera, in procinto di esplodere.

Chiudendo gli occhi, afferrai i bordi roventi del portello. Penetrai nella camera, e misi il corpo di fronte ai raggi laser.

Scoprii cosa fosse l’inferno.

Dolore. Una sofferenza atroce che ti esplode nel cranio anche se i tuoi occhi sono già evaporati. Una sofferenza che si propaga lungo ogni nervo, ogni sinapsi, ogni sentiero del corpo e della mente. Tutti i ricordi della mia esistenza si mescolarono in una realtà frenetica, terrorizzata, caotica. Passato, presente e futuro si fusero insieme. Vidi fluire tutto quanto in quell’unico istante di dolore sconvolgente, quel guizzo infinitesimale di tempo lungo come l’eternità.

La mia carne nuda bruciava e si consumava, mentre la mia mente vedeva gli ieri e i domani.

Il titolo di testa di un giornale annunciava: FALLISCE UN TENTATIVO DI SABOTARE IL REATTORE A FUSIONE.

Una squadra di agenti dell’FBI e di scienziati perplessi cercava qualche traccia del mio corpo mentre il dottor Wilson, catatonico per lo shock, veniva portato via in ambulanza.

La presenza tenebrosa di Ahriman affiorava al mio orizzonte temporale, gli occhi rossi colmi d’odio e di propositi di vendetta…

Ormazd radioso nell’oscurità dell’infinito, nelle profondità dello spazio interstellare, possente, maestoso, intento a muovere le pedine di un intero universo spazio-temporale sulla scacchiera dell’eternità…

E io. Orion. Il Cacciatore. Vedo tutti i miei passati e i futuri. Finalmente so chi sono… e cosa, e perché.

Sono Orion. Prometeo. Gilgamesh. Zarathustra. Sono la Fenice che muore e risorge dalle proprie ceneri solo per morire un’altra volta.

Da 50 mila anni nel futuro della Terra, Ahriman è stato la mia caccia. Questa volta mi è sfuggito, anche se ho sventato i suoi piani. L’umanità avrà l’energia di fusione. Raggiungeremo le stelle. Questo punto di connessione fondamentale è stato superato con successo, secondo le predizioni di Ormazd. È stata necessaria la mia morte, ma la struttura del continuum spazio-temporale è intatta.

Sono morto. Eppure, vivo ancora. Esisto, e il mio scopo è dare la caccia ad Ahriman, dovunque sia, in qualunque millennio si trovi.

La caccia continua.

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