Vernor Vinge Quando la luce tornerà

PROLOGO

Il direttore dell’ospizio si faceva chiamare Fratello Song, ed era un vecchio decrepito. — Bidwel Ducanh? — Il suo sguardo evitò nervosamente Park. Non conosceva la sua faccia ma conosceva gli ufficiali del Dipartimento della Foresteria di Triland che lo avevano accompagnato lì. — Bidwel Ducanh è morto dieci anni fa.


Sta mentendo. Park trasse un lungo respiro e si guardò attorno nella sudicia astanteria. A un tratto si sentiva pericoloso come lo dipingevano certi gaglioffi scansafatiche della sua flotta. Dio mi perdoni, ma farò qualsiasi cosa per tirar fuori la verità da quest’uomo. Si avvicinò a Fratello Song ed esibì un sorriso amichevole. Forse non gli riuscì troppo bene; il vecchio fece un passo indietro. — Un ospizio è un posto dove gli anziani vengono a morire, non è così, Fratello Song?

— È un posto dove tutti possono vivere in pienezza di spirito la loro età. Noi usiamo il denaro che la gente ci offre, per aiutare i bisognosi che si presentano qui. — Nell’infelice situazione di Triland il primitivo concetto di carità di Fratello Song aveva una sua terribile logica. Lui curava meglio che poteva quelli che si ammalavano di povertà.

Park alzò una mano. — Io donerò l’equivalente di cento anni delle vostre entrate annuali a ogni ospizio del vostro ordine… se lei mi porta da Bidwel Ducanh.

— Io… — Fratello Song fece un altro passo indietro, e sedette pesantemente. In qualche modo sapeva che Park avrebbe tenuto fede a quell’offerta… ma poi il vecchio lo guardò, e sul suo volto ci fu una disperata ostinazione. — Bidwel Ducanh è morto dieci anni fa.

Park attraversò l’astanteria e appoggiò le mani sui braccioli della sedia, accostando la faccia a quella del vecchio. — Lei sa chi è la gente che ho portato con me. Ha qualche dubbio che, se io dicessi una parola, ridurrebbero in macerie questo ospizio? Ha qualche dubbio che, se io non trovassi qui quel che cerco, faremmo lo stesso a ogni ospizio del vostro ordine, in tutto il pianeta?

Era chiaro che Fratello Song non ne dubitava. Conosceva il Dipartimento della Foresteria. Tuttavia per un momento Park temette che l’uomo avrebbe tenuto testa anche a quella minaccia. In tal caso io farò ciò che devo fare; Poi il vecchio parve crollare su se stesso e cominciò a piangere in silenzio.

Park si scostò dalla sedia. Trascorsero alcuni secondi. Fratello Song smise di piangere e si alzò in piedi. Non guardò Park, non fece un gesto; si limitò a uscire dalla stanza.

Sam Park e la sua scorta lo seguirono. Percorsero in fila indiana un lungo corridoio. Era un luogo così deprimente da dare gli incubi. Non si trattava della penombra, delle lampade rotte che pendevano dal soffitto chiazzato di umidità, né del sudiciume che ingombrava il pavimento. Lungo tutto il corridoio c’era gente che sedeva su vecchi divani polverosi e sedie a rotelle. Stavano seduti e guardavano… il niente. Dapprima Park pensò che portassero lenti a contatto proiettive, e che vedessero cose che non si trovavano lì, cose trasmesse da qualche banca dati. Dopotutto alcuni di loro stavano parlando, alcuni facevano gesti continui e complessi. Poi si accorse che le macchie sulle pareti erano disegni. Quelli, e la vernice scrostata dei muri, era semplicemente tutto ciò che c’era da vedere. E i pallidi vecchi seduti nel corridoio avevano occhi inespressivi, vuoti.

Park camminava alle spalle di Fratello Song. Il monaco stava parlando da solo, ma le sue parole erano comprensibili. — Bidwel Ducanh non è mai stato una persona affabile. Non è mai stato uno che poteva piacere agli altri… specialmente nei primi tempi. Diceva di essere ricco, ma non ci ha dato niente. Nei primi trent’anni, quando io ero giovane, lavorava più di chiunque fra noi. Non c’era incarico troppo difficile, né troppo sporco, per lui. Ma aveva sempre critiche da fare a tutti. Prendeva in giro tutti. Poteva vegliare un malato nell’ultima notte della sua vita, e poi essere sarcastico e sprezzante. — Fratello Song usava il passato, ma dopo qualche secondo Park capì che non stava cercando di convincerlo di qualcosa; non stava neppure parlando fra sé. Era come se parlasse di qualcuno che sarebbe morto molto presto. — E poi, mentre gli anni passavano, come tutti noi l’aiuto che poteva dare si è ridotto sempre più. Diceva che i suoi nemici lo avrebbero ucciso, se fossero riusciti a trovarlo. Rideva, quando gli assicuravamo che lo avremmo protetto. E alla fine è sopravvissuta solo la sua indifferenza… il suo rifiuto di rivolgerci la parola.

Fratello Song si fermò davanti a una larga porta. La targa sul battente scrostato diceva: SOLARIUM.

Ducanh è quello che guarda il tramonto — disse Fratello Song, ma non aprì la porta. Restò lì a capo chino, bloccandola a mezzo.

Park fece per aggirarlo, poi si fermò e disse: — La ricompensa di cui ho parlato: sarà depositata sul conto del vostro ordine.

Il vecchio non lo guardò negli occhi. Sputò sulla giacca di Park e tornò indietro nel corridoio, spingendo da parte i conestabili.

Park si volse e girò la maniglia meccanica della porta.

— Signore? — Era il Commissario per la Sicurezza Urbana. Il poliziotto-burocrate si fece avanti e disse in fretta: — Non lo abbiamo chiesto noi questo lavoro di scorta. Lei avrebbe dovuto portarsi dietro qualcuno dei suoi.

— Uh? Sono d’accordo. Commissario. E allora perché non me li avete lasciati portare?

— Non è stata una mia decisione. Forse perché i conestabili avrebbero fatto il lavoro con più discrezione. — Il poliziotto distolse lo sguardo. — Senta, comandante di flotta. Noi sappiamo che voi Qeng Ho portate rancore a lungo.

Park annuì, anche se quel concetto si applicava alle società più che ai singoli individui.

Il poliziotto finalmente lo guardò negli occhi. — D’accordo. Noi abbiamo collaborato. Ci siamo accertati che nessuna voce della vostra indagine filtrasse al vostro… obiettivo. Ma non faremo fuori quel tipo per lei. Guarderemo dall’altra parte, non la fermeremo. Ma non saremo noi a farlo fuori.

— Ah. — Park cercò di immaginare in quale nicchia del Pantheon della morale si poteva incasellare un tipo così. — Bene, Commissario. Restatemi fuori dai piedi per il tempo che mi occorrerà. Posso provvedere alla cosa da solo.

Il poliziotto ebbe un assenso secco. Fece un passo indietro e non si mosse quando Park aprì la porta che conduceva al solarium.


L’aria era fredda e sapeva di chiuso, un miglioramento rispetto alla rancida umidità del corridoio. Park scese una scala oscura. Era sempre al coperto, ma non nell’edificio; un tempo quella era stata una scala di servizio esterna, ora sfoglie di plastica la coprivano formando una specie di veranda.

E se fosse ridotto come quei relitti umani nel corridoio? Gli ricordavano la gente che viveva oltre le possibilità dei sistemi di sopravvivenza medica. O le vittime di un esperimento folle. La loro mente era andata a pezzi. Questa era una fine che lui non aveva mai considerato seriamente, ma ora…

Park giunse in fondo alle scale. Oltre l’angolo c’era una promessa di luce diurna. Si asciugò le labbra col dorso di una mano e restò lì un momento, in silenzio.

Vai avanti. Park girò l’angolo e si trovò in uno stanzone spoglio. Aveva fatto parte del parcheggio prima che lo chiudessero con pannelli di plastica semi-opaca. Non c’era riscaldamento, e il vento entrava da tutte le fessure. Alcune figure pesantemente imbacuccate sedevano qua e là. Non erano rivolte in una direzione particolare; un paio guardavano il grigio muro posteriore dell’edificio.

Tutto ciò che era di contorno fu a malapena registrato dalla mente di Park. Dalla parte opposta della stanza un raggio di sole entrava di traverso da un lucernario polveroso; al centro di esso sedeva una sola persona.

Park attraversò lentamente il locale, senza distogliere lo sguardo dalla figura che riposava nella luce dorata del tramonto. La faccia aveva una somiglianza razziale con le Famiglie Qeng Ho, ma non era quella che Park ricordava. Poco importava. L’uomo poteva essersi cambiato la faccia molto tempo prima. Comunque Park aveva un analizzatore di DNA in tasca nella giacca, e una copia del vero DNA dell’uomo.

Era avvolto in una coperta gialla e aveva un berretto di lana. Non si muoveva, ma sembrava che guardasse qualcosa, forse soltanto il tramonto. È lui. La convinzione emergeva senza un motivo razionale, come un’onda empatica che lo investisse. Forse incompleto, ma questo è lui.

Park prese una sedia libera e sedette di fronte alla figura, sotto la luce. Trascorsero cento secondi. Duecento. Gli ultimi raggi del sole stavano svanendo. L’uomo aveva lo sguardo vuoto, ma reagì alla diminuzione di temperatura sulla sua faccia. Mosse il capo, cercando vagamente qualcosa, e parve notare il visitatore. Park avvicinò la sedia per farsi vedere meglio. Negli occhi dell’altro apparve uno sguardo più vivo, stupore, ricordi che risalivano dai più profondi abissi della memoria. Le sue mani uscirono da sotto la coperta e sfiorarono il volto di Park come artigli.

— Lei!

— Sì, signore, io. — La lunga ricerca era finita.

L’uomo si agitò a disagio sulla sedia a rotelle, sistemando meglio la coperta. Per qualche secondo tacque, e quando parlò la sua voce era rauca. — Lo sapevo che la sua… gente non avrebbe mai smesso di cercarmi. Ho finanziato questo dannato culto di Xupere, ma ho sempre saputo… che non sarebbe bastato. — Si mosse ancora. Nei suoi occhi c’era una luce che Park non aveva mai visto ai vecchi tempi. — Non me lo dica. Ogni Famiglia ha partecipato un poco. Forse su ogni nave Qeng Ho c’era un membro dell’equipaggio che aveva il compito di cercarmi.

Non immaginava neppure la vastità della ricerca che finalmente li aveva condotti a lui. — Noi non vogliamo farle del male, signore.

L’uomo ebbe una risata aspra, incredula. — È una vera sfortuna che sia lei l’agente che loro hanno assegnato a Triland. Lei era il più abile di tutti. Ma avrebbero dovuto impiegarla meglio, Park. Lei dovrebbe ormai essere un comandante di flotta, a dir poco, invece di un sicario itinerante. — Si agitò ancora, come per grattarsi le natiche. Cos’aveva? Emorroidi? Un cancro? Signore Iddio, scommetto che è seduto su una pistola. Ha aspettato di essere rintracciato per tutti questi anni, e ora è impastoiato nella coperta.

Park si piegò in avanti, teso. L’uomo si aspettava di dover uccidere o essere ucciso. Bene. Poteva essere l’unico stato d’animo in cui avrebbe parlato. — E cosi alla fine la fortuna ci ha arriso, signore. Ha arriso a me. Suppongo che lei sia qui a causa della stella OnOff.

La mano che frugava sotto la coperta si fermò un momento. L’uomo sbuffò, sprezzante. — Dista solo cinquanta anni-luce, Park. L’enigma astrofisico più vicino allo Spazio Umano. E voi, potenti Qeng Ho senza palle, non l’avete mai visitata. Il profitto è l’unica cosa che importa alla vostra gente. — Con la mano destra accennò che questo era scusabile, mentre con la sinistra continuava a tastarsi il sedere. — Ma del resto l’intera razza umana è fatta così. Ottocento anni di osservazioni col telescopio e due sonde automatiche inviate nella zona, questo è tutto ciò che la cosa merita… Io pensavo che forse qui, cosi vicino, avrei potuto organizzare una spedizione con equipaggio umano. E forse avrei trovato qualcosa, là. Poi, quando fossi tornato indietro… — Di nuovo quella strana luce negli occhi. Aveva sognato quel sogno impossibile tanto a lungo che esso l’aveva consumato. E Park capì che l’uomo non era un frammento di se stesso. Era semplicemente impazzito.

Ma i debiti con un pazzo erano pur sempre debiti.

Park si avvicinò un po’ di più. — Lei avrebbe potuto farcela. So che una nave interstellare passò di qui quando “Bidwel Ducanh” era all’apice della sua carriera.

Quella era Qeng Ho. Che si fottano, i Qeng Ho! Io me ne sono lavato le mani, di voi. — Il suo braccio non si agitava più. Evidentemente aveva trovato la pistola.

Park appoggiò una mano sul braccio dell’uomo, attraverso la coperta. Non era tanto un gesto fatto per bloccarlo, quanto la richiesta che non avesse fretta di agire. — Pham. Ora c’è un motivo per andare alla stella OnOff. Anche dal punto di vista Qeng Ho.

— Uh? — Park non sapeva se fosse stato il suo tocco, le sue parole, o quel nome che non veniva pronunciato da tanto tempo, ma qualcosa trattenne il vecchio e lo indusse ad ascoltare ancora.

— Tre anni fa, mentre già facevamo rotta verso l’interno dello Spazio Umano, i Trilandesi captarono una trasmissione da un punto assai vicino alla stella OnOff. Era uno spruzzo di onde radio, come quelle che una civiltà decaduta potrebbe reinventare dopo aver perso tutta la sua tecnologia. Noi facemmo le nostre triangolazioni e le nostre analisi. Le emissioni ricordano un codice Morse manuale, con la differenza che la mano e i riflessi umani non potrebbero mai avere questo ritmo.

La bocca del vecchio si aprì e si richiuse, ma non ne uscì alcun suono. — Impossibile — disse infine, molto debolmente.

Park si accorse di sorridere. — È strano sentire questa parola da lei, signore.

Un’altra pausa di silenzio. L’uomo chinò la testa. Poi: — Il colpo grosso. L’ho mancato di sessant’anni. E voi, che mi avete dato la caccia fin qui… ora voi avrete tutto. — Il suo braccio era ancora nascosto, ma si accasciò sulla sedia, sconfitto dalla visione della sua sconfitta.

— Signore, alcuni di noi… più che alcuni, hanno avuto l’incarico di cercarla. Lei ci ha reso assai difficile questa ricerca, e ci sono ancora tutte le vecchie ragioni per mantenerla segreta. Ma non abbiamo mai pensato di farle del male. Volevamo trovarla per… — Fare ammenda? Essere perdonati? Park non poté dire quelle parole, e non erano completamente vere. Dopotutto l’uomo s’era sbagliato. Così parlò al presente: — Saremmo onorati se lei venisse con noi. Alla stella OnOff.

— Mai. Io non sono Qeng Ho.

Park si teneva sempre aggiornato sullo stato e sulla posizione delle sue navi. E proprio in quel momento… be’, forse valeva la pena di fare un tentativo. — Io non sono venuto su Triland solo soletto, signore. Ho una flotta.

L’altro alzò il mento di una frazione di millimetro. — Una flotta? — L’interesse era un vecchio riflesso non ancora morto.

Le navi sono in orbita, e fra pochi momenti saranno visibili anche da questa latitudine. Le piacerebbe vederle?

Il vecchio scrollò le spalle, ma ora entrambe le sue mani erano scoperte, appoggiate in grembo.

Mi permetta di mostrargliele. — C’era una porta nella parete di plastica stinta, a qualche metro da lì. Park si alzò e spinse la sedia a rotelle da quella parte. Il vecchio non fece obiezioni.


All’esterno era freddo, probabilmente sotto il punto di congelamento dell’acqua. I colori del tramonto indugiavano ancora sopra i tetti davanti a loro, ma l’unico ricordo del calore diurno era il fango non ancora congelato sotto le scarpe. Lui spinse la sedia verso un angolo del parcheggio da cui si poteva vedere una porzione maggiore del cielo orientale. Mi chiedo quanto è passato dall’ultima volta che lo hanno portato fuori.

— Non ha mai pensato. Park, che potrebbe esserci altra gente interessata ad aggregarsi alla comitiva?

— Altra gente?

— Ci sono mondi colonizzati umani più vicini di questo alla stella OnOff.

Quella comitiva. — Sì, signore. Stiamo perfezionando i nostri metodi di aggiornamento su di loro. — Tre bei pianeti nel sistema di una stella tripla, usciti dalla barbarie negli ultimi secoli. — Si fanno chiamare “gli Emergenti” ora. Noi non abbiamo ancora visitato i loro mondi. A quanto ne sappiamo si tratta di una specie di tirannia, altamente tecnologica ma molto isolazionista, molto xenofoba.

Il vecchio grugnì. — Non m’importa quanto isolazionisti siano quei bastardi. Questa è una faccenda che potrebbe… svegliare i morti. Portatevi armi e missili e bombe nucleari. Park. Un bel po’ di bombe nucleari.

— Sì, signore.

Park manovrò la sedia a rotelle del vecchio fino all’angolo del parcheggio. Nelle sue lenti poté vedere le astronavi che salivano lentamente nel cielo, ancora nascoste all’occhio dagli edifici più vicini. — Altri quattrocento secondi, signore, e le vedrà apparire oltre quei tetti laggiù. — Gli indicò il punto.

Il vecchio non disse niente, ma stava guardando in alto. C’era un po’ di traffico aereo allo spazioporto di Lowcinder. La luce del giorno non era ancora scomparsa, ma a occhio nudo si potevano vedere una mezza dozzina di satelliti. A ovest una piccola luce rossa palpitava, e ciò significava che si trattava di un’icona nelle lenti di Park, non di un oggetto visibile. Era il suo indicatore della stella OnOff. Lui lo guardò un momento. Anche di notte e lontano dalle luci di Lowcinder, OnOff non sarebbe stata visibile, ma un piccolo telescopio l’avrebbe mostrata come una normale stella gialla… per il momento. Da lì a pochi anni sarebbe stata invisibile a tutti, fuorché ai grossi telescopi. Quando la mia flotta arriverà là, sarà oscura da due secoli… e sarà quasi pronta per la sua prossima rinascita.

Park appoggiò un ginocchio al suolo accanto alla sedia, ignorando la melma gelida. — Mi permetta di dirle qualcosa delle mie navi, signore. — E parlò della stazza, delle caratteristiche interne, dei proprietari… be’, della maggior parte dei proprietari. Alcuni di loro era meglio lasciarli fuori per un’altra occasione, quando il vecchio non avesse avuto una pistola a portata di mano. E nel parlargli scrutò la sua espressione. Il vecchio capiva ciò che lui diceva, era chiaro. Le sue imprecazioni furono una sequela monotona, una per ogni nome che Park pronunciò. Salvo l’ultimo…

— Lisolet? Questo sembra Strentmanniano.

— Sì, signore. La mia vice comandante di flotta è Strentmanniana.

— Ah. — Lui annuì. — Quella… quella era brava gente.

Park sorrise fra sé. Il pre-Volo per quella missione sarebbe durato dieci anni. Il tempo sufficiente per rimettere a posto l’uomo, fisicamente. E sufficiente per ammorbidire la sua pazzia. Diede un colpetto sullo schienale della sedia, dietro le spalle dell’altro. Questa volta non ti abbandoneremo.

— Ecco che arriva la prima delle mie navi, signore. — Park indicò ancora. Dopo un secondo, un punto di luce si alzò oltre il tetto dell’edificio. Brillava nel cielo ancora chiaro del crepuscolo, una fulgida stella della sera. Passarono alcuni momenti e la seconda nave comparve. Altri pochi istanti e poi la terza. E un’altra. E un’altra. E un’altra. Quindi una pausa, e infine una più luminosa di tutte le altre. Le sue navi erano ormeggiate su un’orbita bassa, a quattromila chilometri dalla superficie. A quella distanza erano appena punti di luce, come gemme di una collana in fila nel firmamento. Non apparivano più spettacolari di qualsiasi nave da trasporto non interstellare, o di satelliti… salvo che uno non sapesse da quale distanza quei punti luminosi provenivano, e quanto lontano si apprestavano ad andare. Park sentì l’uomo sospirare di meraviglia. Lui sapeva.

I due guardarono i sette punti di luce scivolare lenti nell’arco del cielo. Park ruppe il silenzio. — Vede quella più brillante, in coda? — Il pendente della collana. — È la migliore di ogni astronave mai costruita. È la mia nave ammiraglia, signore… la Pham Nuwen.

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