Paolo Villaggio VITA, MORTE E MIRACOLI DI UN PEZZO DI MERDA

Sono le tre del mattino nella mia casa bianca sul mare, alle Bocche di Bonifacio, in Corsica.

È una magnifica notte senza luna.

Il faro di Capo Pertusato illumina, a intervalli regolari, il soffitto della mia stanza.

L'acqua è immobile, non una bava di vento, solo l'odore del mare. Non è una notte normale, questa è la mia grande notte, perché è l'ultima della mia vita.

Maura è addormentata vicino a me: la guardo e provo uno slancio di grande affetto. Sorrido, perché nel suo volto c'è sempre l'espressione di bambina che ho tanto amato.

È il momento del distacco.

Le bacio la fronte e il suo odore mi fa tornare a una notte lontana, quando le ho illuminato il viso con un bicchiere pieno di lucciole.


È il 10 agosto di tantissimi anni fa. Ora sono a Genova, in un boschetto di pitosfori sulla spiaggia di San Giuliano, in corso Italia. Anche questa notte il mare è piatto, non c'è la luna, ma centinaia di lucciole. E i pitosfori sembrano alberi di Natale.

Lì vicino c'è una baracchetta di legno dove vendono pezzi di cocco e si può bere della gazzosa squisita. Prendo un bicchiere di vetro, lo riempio di lucciole, lo capovolgo sul palmo della mano sinistra e, con quella lanterna magica, illumino il viso di mia moglie, che ha quindici anni. E solo in quel momento, per la prima volta e a quella luce speciale, noto una cosa che di giorno non ero mai riuscito a vedere: tante, tantissime piccole efelidi sul suo naso.

Sono sempre stato ossessionato dall'idea di capire se un momento che sto vivendo è un momento felice. Vi confesso, a distanza di molti anni, che quello è stato il momento più felice della mia vita.

* * *

Ora sono volato lontano, a quel viaggio in Messico con Vittorio Gassman, sua moglie Diletta e Maura. Eravamo arrivati dopo un lungo percorso a Cuernavaca. A metà strada, in un posto che si chiama Taxo, una vecchia india si è quasi buttata sul cofano della nostra Buick, agitando nelle mani due iguane mostruose: «Es bueno corno pollo, senor! Un dolar como propina!».

«Ok, ok…»

«No hay problema! Voy a poner las iguanas en el trac del coche!»

Arriviamo alla Mananita di Cuernavaca che il sole è tramontato. La Mananita è un albergo fantastico, è il più bell'albergo di tutto il Messico.

L'arrivo di Gassman è un evento.

Portieri, impiegati del ricevimento, camerieri, cameriere, tutti a far circolo intorno a lui e ad applaudire: «The Great Gassman! El grande actor!».

E un facchino: «Senor Gassman, yo voy a tomar las valijas nel coche».

Gassman lo ferma imperioso: «No! Vado io! Faccio da me, grazie».

Un po' d'imbarazzo in tutta la hall. In uno strano silenzio, Gassman esce nella notte. Apre il baule della Buick e, al buio, affonda le mani alla ricerca delle valigie.

Noi siamo dentro in attesa: da fuori, arriva un urlo agghiacciante!

Escono in molti ed ecco, portato a spalla come Amleto, the Great Gassman, bianco come un cencio. Sono in sei, lo depositano sul banco del portiere e qui scoppia un applauso.

Lui è un uomo di teatro, l'applauso lo sveglia e, mettendosi seduto, dice: «M'ero scordato delle iguane!».

Un'ora dopo stiamo cenando nel grande giardino incantato della Mananita; ci sono le lucciole, che non vedevo da molti anni.

Mi ha sorpreso allora, alle spalle, una sensazione di grande felicità.

«Che strana felicità» ho pensato. «Certo, il posto è bellissimo, gli amici speciali, ma questa felicità è del tutto immotivata.» Poi ho incontrato gli occhi sorridenti di Maura, seduta di fronte a me, che a voce bassa, quasi non volendo farsi sentire dagli altri, mi ha sussurrato: «Lo senti? E il profumo del pitosforo!».

Eccolo il motivo della felicità! Ho riacchiappato l'odore della mia Il profumo del pitosforo è un odore leggero. Non è invadente come la magnolia o il gelsomino, ma direi un odore aristocratico, va e viene, come se fosse un miraggio di profumo.

Gli odori colpiscono l'inconscio: prima arriva l'emozione, poi il ricordo di un momento felice. Ecco, di quegli anni lontani mi piacerebbe poter avere, in una zona nascosta di casa, dietro una tenda in soffitta, tante boccette di vetro scrupolosamente sigillate.

Chiamerei quella raccolta «Odoroteca».

Su ogni boccetta c'è scritto, per esempio: «Odore del pitosforo», «Odore del mare sotto la pioggia», «Odore della cucina di mia nonna nel 1939».


Io, di notte, come tutti i vecchi, non riesco a dormire e deambulo sinistramente per la casa completamente nudo. Sembro un lemure del Madagascar.[1] Mi dirigo, spinto da un istinto suicida, verso il frigo. Lo apro e una luce gelida illumina l'animale, che non si limita a vedere tutto quello che mangia ma, purtroppo, mangia tutto quello che vede.

Pensate che in una notte senza luna, divorato da un'ansia devastante, ho sradicato con violenza dal freezer una mattonella di trippa surgelata e l'ho scaraventata per terra con un urlo da samurai. Poi, a fatica, mi sono chinato a succhiare con sinistri mugolii di goduria delle stalattiti di trippa, guardato con grande pietà dai miei quattro cani labrador. I vicini, in questi casi, tirano anche scarpe contro la mia finestra: «Basta! Maiale! Vai a dormire… Fatti ricoverare in un manicomio navale! Così ti suicidi!».

Purtroppo lo so, e vengo investito da una grave forma di mancanza di felicità.

È in quelle occasioni, allora, che mi piacerebbe andare verso l'Odoroteca: mi guardo in giro con fare circospetto, alzo la tenda nera e prendo una boccetta sigillata. Apro quella «Odore di uno scoglio battuto dal sole in una giornata di agosto». È un odore vagamente putrescente. Sentirei la voglia invincibile di tuffarmi nel mare trasparente d'allora, vicino al moletto dei Bagni Lido. Ora nuoto sott'acqua a occhi aperti, scambiando occhiate con i pesci di scoglio. Poi riemergo lentamente, all'altezza della marea, fra le patelle, i cespugli di alghe rossastre e i granchi che ti vengono a spiare.

Se fossi molto depresso, stapperei la boccetta in cui c'è scritto «Odore di Maura a quindici anni».

Il pezzo di merda del titolo sono io. Mi definisco spesso così, ma soltanto per essere accettato.

Fin da ragazzo avevo problemi nei rapporti con gli altri e, forse per difesa, diventavo aggressivo usando tecniche rudimentali per essere offensivo.

Quando incontravo delle compagne di scuola, per esempio durante lo struscio serale in via XX Settembre, fingevo di non riconoscerle, attraversandole da parte a parte come se fossero invisibili. Con chi conoscevo meno, invece, adottavo una tecnica perfida: storpiavo leggermente il nome. «Buongiorno, Sturchi» a chi si chiamava Storchi. E un certo Franco Pazzi, per anni, l'ho salutato con: «Ciao, Pupazzi!».

Tutto questo mi rendeva cordialmente antipatico.

Eppure, pur non piacendomi questo aspetto del mio carattere, ero stranamente fiero della mia spiacevolezza.

Sono passati molti anni da allora, e adesso che sono vecchio cerco invece di sembrare simpatico. Mi riesce bene del resto, non faccio nessuna fatica, ma ho un grande rimpianto per quel lato premeditato della mia personalità.

Voi, giovani lettori caduti nella trappola della cultura cattolica che vuole i vecchi migliori dei giovani, non sapete che i vecchi sono, in realtà, profondamente risentiti e cattivi.

Li avete mai osservati sugli attraversamenti pedonali di certe strade trafficate, come viale Parioli a Roma? Dove sciamano giovani in motoretta e dove, d'estate, le giovanette sfrecciano con l'ombelico scoperto e con quelle magliette aderenti che evidenziano i capezzoli?

Ecco, i vecchi se ne stanno lì, sulle strisce, davanti al fiume di macchine e motorette, magari con il bastone in mano (quello dei più facoltosi ha il manico d'argento), sorridenti, e accarezzano con dolcezza il capo dei piccini che incontrano. E le mamme tutte: «Che bravo signore è questo! È proprio un signore buono!».

Poi, arriva il momento di guadare quel fiume infernale. I vecchi, con molta prudenza, compiono il primo passo appoggiando il piede un po' barcollanti.

Il traffico continua all'impazzata, senza dare segno di tregua. A questo punto i vecchi, imbizzarriti come cavalli andalusi, urlano: «Fermatevi, mascalzoni! Giovani maledetti. Stronzi! Andate tutti a fare in culo!», e cercano di abbattere il nemico a bastonate.

Quando raggiungono la sponda opposta si ricompongono, riassumono lo sguardo da bravi nonnini e ricominciano a elargire carezze e sorrisi.

«Che brava persona deve essere questo signore. Un signore veramente buono.»

Non vi fidate, giovani lettori! I vecchi, che io ben conosco perché vivo dall'interno questa condizione, sono delle autentiche carogne. Risentiti come nani, cattivi come tutti i gobbi della terra, parlano male di tutti, disprezzano tutti e odiano, soprattutto, gli altri vecchi.

E pensate che io, quand'ero giovane, dico «quand'ero» con una certa incredulità perché arriva una stagione della vita in cui ti sembra impossibile essere stato giovane, non ricordo d'aver mai provato risentimento per nessuno, o di essere stato invidioso.

A proposito: i vecchi hanno un odore sgradevole, aliti come fogne di Calcutta nella stagione monsonica, sono quasi ciechi, sordi, e dormono poche ore per notte respirando con delle macchine infernali per non morire soffocati.

I più stupidi poi, sono sicuri che il passato sia sempre l'epoca più felice, e vedono il presente come una specie di babilonia triste.

Sono invidiosi come rettili, ma se domandate a uno di questi fetidi vecchi se è mai stato invidioso, ecco che lo vedete fare una lenta panoramica con la testa, da sinistra a destra. E fare una ricerca attenta, quasi per ricordare un segmento della sua vita nel quale, per caso, ha provato invidia per qualcuno. Per poi dire: «Sinceramente no. È strano sa? Ma l'invidia, io proprio non so cosa sia».

Però, a ben guardare, un sottile filo di bava verde gli cola dall'angolo destro della bocca.

D'accordo! Forse esagero raccontandovi la condizione di questi disgraziati, ma come sempre lo faccio per ben figurare. Del resto, mi è sempre piaciuto stupire, apparire, essere considerato un animale diverso.


L'invidia, purtroppo, viene accuratamente nascosta nel più profondo della nostra coscienza. Ma state attenti a nasconderla! L'invidia non è un sentimento ignobile, è sicuramente più intenso dell'odio che si può spegnere prendendo a mannaiate il vostro nemico, e sicuramente più forte dell'amore che si può urlacchiare, dichiarare scrivendo «ti amo» sulle pareti delle case. Diffidate comunque, giovani donne, delle grandi dichiarazioni d'amore dei poeti, quelli che parlano di luna e di stelle e di batticuorismo alla vostra presenza. Vi usano ignominiosamente per abbellirsi. In realtà sono loro stessi l'unico vero oggetto del loro amore.

La verità è che in una cultura competitiva e feroce come la nostra, dove l'unica cosa che conta è apparire, non è possibile non essere invidiosi.

Oggi, purtroppo, crediamo solo nell'Aldiqua. Nell'Aldilà, ormai, credono soltanto quei poveri kamikaze che si fanno saltare in aria sulla striscia di Gaza, pensando che disintegrarsi in mezzo a un gruppo di coloni israeliani sia la strada più breve per raggiungere il paradiso islamico. Ma noi, invece, con la presunzione di avere in mano la verità, viviamo le nostre fedi, certi che la felicità sia il denaro, il successo, gli amici di successo, le donne di successo e le barche di successo. Tutti valori, lo capite, vero? che sono surrogati della vera felicità, quello stato di grazia che io non so indicarvi, perché colpevole, a mia volta, d'aver vissuto tutta la vita alla caccia di quei valori.

L'invidia, allora, che, ripeto, è un sentimento nobile e non ignobile, vi consiglio di curarla e accudirla.

Sapete come? Accettando l'idea di essere, giustamente, invidiosi. Lo suggerisco per il vostro bene, perché l'invidia nascosta e repressa può ^ essere pericolosa.

È causa di emicranie, insonnie, ulcere gastriche e infarti miocardici.

Forse ho esagerato nel raccontarvi la vecchiaia.

Comunque sia, una cosa che adesso, miseramente, voglio, è sentirmi dire: «Ma lei sembra più giovane della sua età! Guardi, veramente, lei ha un animo giovanile e dimostra… cinque… anzi no, dieci anni in meno».

Da un po' di tempo, allora, ho messo in atto una tecnica banalissima: io sono nato il 30 dicembre del 1932 e, da circa un annetto, quando mi si domanda l'età, magari mentre faccio una lastra o una tomografia in ospedale, baro ignobilmente aumentandomi gli anni.

Poco tempo fa, per esempio, mi trovavo all'aeroporto di Fiumicino per prendere il volo diretto a Zurigo; al banco della Swissair c'era una hostess molto giovane e carina che mi ha detto: «Scusi, ma viste le nuove regole antiterrorismo mi dovrebbe favorire un documento».

Non lo avevo, neppure la patente, finita assieme al passaporto in una valigia già spedita. Allora, con tono sinceramente desolato ho risposto: «Ma… mi dispiace… sono in grave difficoltà. Ho già spedito tutto con le valigie».

La ragazza mi ha fatto un magnifico sorriso: «Vabbe'! Va bene così, tanto io la conosco. Però mi scusi, mi dichi la sua data di nascita».

Dietro di me c'erano una decina di stronzi in coda e io, che sono nato il 30/12/32, per il solito, inutile gusto di stupire e di essere paradossale, ho risposto: «30/12/1912».

Novant'anni!

La ragazza non ha fatto una piega, rispondendo soltanto: «La ringrazio». Poi ha chinato la testa e ha scritto la data su un foglio. Io avevo la carta d'imbarco in mano, ma sono rimasto lì, in attesa che quella, rialzando la testa, mi guardasse con stupore e dicesse: «Ma andiamo! Ma è incredibile! Ma lei… veramente sembra ancora un giovanotto!». E speravo che lo dicesse non solo la ragazza, ma anche qualcuno di quegli imbecilli che avevo intorno.

Invece, non uno che mi abbia detto: «Complimenti, lei dimostra meno sa?». Anzi, si è creato subito… non dico un clima di cordoglio, ma di grande pietà per un povero vecchio.

La ragazza si è poi voltata verso una collega e le ha detto una frase tecnica, però urlacchiata: «Arriva un vecchio!».

E allora intorno a me c'è stata una gara di solidarietà: «Venghi! Si appoggi qua, l'aiutiamo noi… le portiamo la borsa!».

Ero imbizzarrito, però mi sono controllato, e ho cercato di scrollarmeli di torno: «Faccio da me!» ruggivo in silenzio. «Grazie, faccio da me!»

Baravo. In realtà avrei avuto voglia di pugnalarli e di urlare: «Non ho bisogno di nulla, farabutti! Lasciatemi in pace!».

Anche sulla scaletta del DC9 della Swissair c'è stata una penosa gara di bontà.

«C'è un vecchio! Arriva un vecchio!»

«Venghi, venghi!» mi hanno detto due giovani hostess in cima alla scaletta.

A questo punto io ho fatto il vecchio, perché fare il vecchio, vi confesso, è una condizione di grande privilegio. Sulla porta dell'aereo, con voce da vecchio, ho domandato: «Dove mi sedio?».

Una hostess, un autentico cesso con naso da rapace, mi ha preso per mano, e mi ha detto: «Si sedia qua in prima fila», sottintendendo: «data la sua condizione». Ho preso posto e, dopo neppure due minuti, il cesso mi ha fulminato: «Si cinturi!».

Ora, io ho un diametro vita di centottanta centimetri e, con tono da fare pena, ho fatto vedere che le cinture non si allacciavano.

«Mi scusi… è troppo corta…»

E il cesso: «Non si preoccupi, ci penso io».

È andata dietro la tenda verde (sapete quelle tende degli aerei che le hostess aprono, chiudono e sbattono sempre con violenza, quasi per nascondere gli orrori in quella specie di antro di Aladino che è l'anticabina dei piloti?), e con voce forte, in modo che sentisse tutto l'aereo, ha urlato: «Prolunga per deforme!».

C'è stata un'agghiacciante risata.


Ogni tanto, girando l'Italia per lavoro, spinto non certo dalla curiosità di conoscere questo mediocre paese, ma solo da una malattia molto diffusa, l'avidità, ho capito che strano rapporto abbiano gli italiani con la città in cui vivono.

I veneziani, per esempio, sfruttano ignobilmente la città di gran lunga più bella del pianeta lasciandola affondare di cinque centimetri l'anno. L'avidità dei suoi abitanti è proprio fantastica. Nella gerarchia del mondo animale le specie più feroci sono le iene del Serengeti, poi i gondolieri veneziani, poi i marabù e gli avvoltoi del Kalahari, poi i motoscafisti veneziani, con tutti i venditori di maschere dorate, oggettini di vetro e atroci gondole in plastica a Rialto, e poi tutti i feroci venditori di portafogli in pelle che assaltano i turisti al Ponte Vecchio a Firenze. Queste belve sono capaci di finanziare spedizioni punitive contro i concorrenti vu cumprà.

È chiaro comunque che odiano la loro città, ne fanno uno sfruttamento intensivo, e ai loro bisnipoti lasceranno solo il ricordo di un passato straordinario.

Ma l'atteggiamento più curioso ce l'hanno gli abitanti delle città del Sud.

Io ho fatto molti spettacoli disastrosi nel Meridione e ho capito che, quando rischiavo di non uscirne vivo, mi conveniva fare una pausa ignobile, ma di grande effetto, e urlacchiare: «Signori di Marsala!» o di Palermo, Messina, Trapani. «Ho il piacere di essere qui nella città più bella…» e con un urlo finale disperato «del mondo!».

Be'! A quel punto fare lo spettacolo non aveva più senso. Gli spettatori si alzavano in piedi e urlavano come ossessi: «Sei un grande! Tu si che sei veramente un uomo intelligente!». E poi altre urla confuse: «Grand'uomo! Superbo!». Spesso dal fondo sala si alzava qualcuno che, in un silenzio orrendo, gridava: «Voi siete un bell'uomo!».


Una sera passeggiavo per le vie di un'agghiacciante cittadina del profondo Sud. Era notte. Con me, il sindaco di mezza età, sua moglie e l'assessore alla cultura. Mi sono fidato e ho detto: «A voi, però, una cosa la posso dire. Amate disperatamente la vostra città, ma in realtà la odiate, la umiliate; non vedete tutta questa sporcizia che c'è in giro?».

Il sindaco si è bloccato: «State a sentire, forse una volta, ma la città negli ultimi dieci anni si è trasformata, è diventata una città civile e noi la rispettiamo…».

Eravamo nella grande piazza con il monumento ai caduti.

«Scusi un attimo» si è interrotto il signor sindaco, «solo un attimo.» È andato verso la lapide e ha fatto una pisciata interminabile, da cavallo ungherese. Quasi due minuti.

* * *

Io sono genovese. Dalle mie parti è difficile sentir dire che viviamo in una città attraente; semmai solo commenti negativi. D'altronde la nostra è una città in declino: triste, piena di gente ringhiosa e inospitale. Uscite in una serata d'inverno quando tira la tramontana, c'è una pioggerellina infernale e siete dalle parti dello scalo di Terralba: non c'è un'anima, tutto chiuso. E allora l'unica soluzione possibile è impiccarvi in silenzio a un palo della luce.

Vedete, io avrei molte cose da dire su questa città, ma posso sintetizzare tutto in una frase: Genova è la mia città.

E stata la prima volta di tutto.

Dei primi bagni a San Nazaro con mia madre e mio fratello in un mare straordinario, che era pieno di gabbiani, di pesci e di cormorani. E ci si arrivava tutte le mattine su un autobus con il terrazzino posteriore aperto.

E poi, dall'altra parte del cortile, il viso di una ragazza, che ai primi di luglio mi mostrava una ciliegia e mi diceva: «Mangiala! E se è la prima di quest'anno esprimi un desiderio. Ma non rivelarlo! Altrimenti non si avvera».

E poi quelle bonacce di luglio, quando il mare si fonde con l'orizzonte e verso sera ci sono solo le barche dei pescatori diretti a Punta Chiappa.

Non c'erano le automobili e si andava tutti a piedi.

E poi mi piacerebbe tornare a quel pomeriggio di giugno, quando fingevo di non averla vista e invece avevo la sua fotografia nel portafogli. E a quell'altra volta, quando lei mi corre incontro all'orologio del Lido e io che la schivo per gioco. E un'altra volta che ero partito per cinque giorni con i miei genitori e ogni sera le avevo scritto una lettera d'amore molto intensa e bella. E poi quella volta a Londra, che erano quattro mesi che non la vedevo, ed eccola che scendeva le scale di quella casa di mattoni rossi, con quel vestito a scacchi grigio. E come ero felice tornando da quella gita alle Pietre Strette, il giorno di Pasquetta, ed era la prima volta che uscivo con lei e lei aveva le scarpe da tennis e un piccolo sacco da montagna con i panini e la frittata. Nel pullman di ritorno l'abbracciavo davanti alla gente e non mi sembrava vero di avere il coraggio di farlo… e che lei fosse proprio lei, lì a portata di abbraccio solo per me, mia proprietà! Come sarebbe bello rivivere tutto un'altra volta: quei bagni di notte al Boschetto a Bogliasco, e ci andavamo quasi tutte le sere del mese d'agosto senza portare i costumi, fingendo di dimenticarli ogni volta; e lei si tuffava nuda dallo scoglio, l'acqua era fosforescente e il suo corpo lasciava una scia come quella di una stella cadente. E quando usciva dall'acqua si sedeva sullo scoglio e luccicava tutta, come Campanellino nei giardini di Kensington, e mi diceva: «Abbracciami che ho freddo».

E poi sarebbe bello rivedere il panorama di una bellezza straordinaria, che si apriva subito alla vista quando si spuntava nella piazzetta di San Rocco di Camogli. E tornare a Nervi della mia infanzia, con le campane al mattino, le colline verdi sul mare e le macchie di sole che giocano a primavera nelle viuzze ammattonate di Capolungo, e un gatto che le insegue cercando di acchiapparle.

E il mare di giugno con i meloni e le gocce ghiacciate sui bicchieri di orzata… e le lampade elettriche fra le foglie verdi e la rugiada che faceva posare la polvere nel fresco notturno.

E Sant'Ilario Alto, con la svolta tra i cipressi e io e lei che scendiamo dalla bicicletta per mangiare le more lungo la strada.

E a quel novembre grigio del 1938. Il mare invernale è leggermente mosso e color fango, perché in quel punto il torrente Bisagno esce in mare aperto. Sono con mio fratello gemello e mia nonna Delia, e stiamo tornando verso casa. Fa quasi freddo e stiamo mangiando, da un cartoccio fumante, delle castagne arrostite.

Passando vicino alla spiaggia, vediamo dei pescatori che escono con due gozzi, buttano le reti a duecento metri di distanza e da terra, con quattro massicci cavalli color marrone, le tirano su.

È la pesca dei gianchetti, che sono i piccoli delle acciughe. Si mangiavano crudi con un po' di limone, o sbollentati, con olio di oliva e pepe nero.

I pesci vengono raccolti in secchi di zinco e venduti dalle donne che portano scialli neri. Urlano come muezzin: «Sun belli! Sun belli freschi! Vegnì a vedde donne!».

A un tratto delle voci: «Il Rex! Ecco il Rex!».

Il Rex era l'orgoglio della nostra marina mercantile. Cinquantaduemila tonnellate. Aveva vinto proprio in quei mesi il Nastro azzurro, il primato di velocità nella traversata atlantica. Ci aveva messo solo otto giorni.

«Eccolo! Eccolo!», e tutti a correre verso la linea del bagnasciuga con i piedi al limite dell'acqua fredda. Preceduto dal fortissimo suono delle sue trombe, ecco il Rex! Appare all'improvviso, è una montagna nera di almeno seicento metri, coi fumaioli tricolori illuminati da un ultimo raggio di sole.

È un attimo, solo un attimo. Gira intorno alla diga foranea e scompare all'orizzonte.


E poi quel sabato di giugno, quando mio padre aveva ricevuto la cartolina precetto e l'avevo accompagnato all'Unione militare, e si era comperato una magnifica sahariana nera, gli stivali con due lunette di ferro sui tacchi e un fez con l'aquila d'argento e un grande fiocco che, scendendogli sugli occhi, rendeva i suoi spostamenti estremamente pericolosi.

La vestizione del guerriero avvenne nel salotto di casa.

Lui si guardava allo specchio e si salutava col saluto romano. Si guardava e si risalutava. Si risalutava e si guardava. Si salutò un'ultima volta e disse: «Signori, io vado!». E, nel dirlo, fece un gran gesto leonino con la testa, buttandola all'indietro e prendendo una craniata pazzesca contro lo spigolo dell'armadio di mogano, senza un lamento.

Cominciò a scendere trionfalmente le scale.

Prima rampa: perfetta!

Seconda rampa: perfetta!

Terza rampa: un sibilìo sinistro di tacco ferrato.

Fece tutta la terza rampa a nuca, andandosi a schiantare contro la porta di certi signori Anglois, noti disfattisti che sentivano già allora, primo giorno di guerra, Radio Londra. Questi aprirono la porta e fecero soltanto: «Hi, hi, hi!», e richiusero.

Il regime, umiliato ai loro piedi, si stivalò lentamente e, stivali sotto ascelle, finì prudentemente le rampe in calze. A Rosetta, la portiera che dava la cera in fondo alle scale, disse una cosa che la poveretta non capì mai: «Stronza!».


Mio padre era stato richiamato come direttore di tiro in una batteria contraerea sulle colline della città, a Pietra Lavezzara. Arrivò a incursione aerea già cominciata da un'ora e mezza, e disse: «Scusatemi per il ritardo».

Fu guardato con grande diffidenza.

Lui era ingegnere, tirò fuori un regolo calcolatore e cominciò a orientare il cannone che gli era stato affidato: «Puntàt… caricàt… due gradi a destra… uno a sinistra… fuoco!».

Centrò in pieno la prefettura. Si scusò rispettosamente con tutti e disse: «Signori, non perdiamoci d'animo!».

Regolo ancora in mano: «Puntàt… caricàt… ci siamo… fuoco!».

Centrò in pieno l'unico nostro aereo che si era levato a difesa della città.

Cominciarono ad arrivare a Pietra Lavezzara molte minacciose telefonate di protesta.

Alle undici di sera fu mandato via. Lo pregarono di non tornare mai più.

Rientrò a casa che era notte fonda, viso scuro, stivali sotto le ascelle. Corse verso la porta aperta di camera sua senza salutare nessuno e si buttò sul letto… mancandolo clamorosamente! E a mia nonna, che era entrata attirata da quel rumore di ossaglia, disse: «State a sentire, a questo punto, a chi dice qualcosa, ci spacco la faccia!».


E poi quel lunedì pomeriggio quando la nonna Delia fece una lasagnata terrificante. Mio padre ne ingoiò mezza teglia e cadde in letargo. Si svegliò con un urlo agghiacciante in un bagno di sudore, erano le due e trenta, chiese un caffè caldo per svegliarsi, gli portarono una tazza di piombo fuso. Si sentì uno sfrigolio orrendo e un sinistro odore di carne umana bruciata. Disse a fatica: «Sono troppo in ritardo, devo prendere il tram al volo!».

E tutti: «Ma che dici? Non sei attrezzato! Ma che t'importa!».

«Perché?» rispose lui. «Lo fanno tutti!», e si avventò giù per le scale ululando come un guerriero unno.

La notizia si sparse per magia in tutto il palazzo: «Prende il tram al volo! Prende il tram al volo! L'ingegner Villaggio si rischia un tram al volo!».

E su, su per ignoti canali di comunicazione arrivò fino all'ultimo abbaino. Tutti alle finestre come in un teatro elisabettiano. Lui sbucò in strada alle 14,31 e si piazzò davanti al portone attendendo il 23. Ansimava, alzò gli occhi e vide le tribune al gran completo. Salutò tutti con un ampio e sereno gesto del braccio e dalle tribune partì un brevissimo applauso di incoraggiamento. Decise di accendersi una sigaretta, ne tirò fuori una dal pacchetto con mani tremanti, prese un fiammifero, lo accese e se lo infilò in bocca, gettando lontano la sigaretta. Non urlò per orgoglio, ma dalle tribune si capì che la situazione era disperata. Una voce isolata dall'alto: «Coraggio, ingegnere!».

Lui alzò la testa e cercò di dire solo con lo sguardo: «Non vi preoccupate! Non c'è problema!».

Dal fondo della curva, ecco il 23. Occhi fiammeggianti, avanzava ferragliando, minaccioso come un tirannosauro. Il manovratore, carogna, intuì le intenzioni dell'uomo e mise l'otto, cioè «avanti tutta!». Quando il 23 arrivò sotto casa, le tribune erano piombate in un silenzio di marmo. L'ingegner Villaggio, che era in posizione di salto, non tentò subito, ma ebbe una leggera, pericolosissima, esitazione. Fece duecento metri al galoppo, poi, ai duecentocinquanta tentò il tutto per tutto e spiccò il salto: mancò la maniglia clamorosamente e, battendo il mento sul predellino, rimbalzò a volo d'angelo sul carretto di un venditore ambulante di frutta e verdura.

Fu portato al pronto soccorso. Più tardi, mentre cercavano di portarlo in manicomio, riuscì a scappare.

* * *

Da quanto vi sto raccontando si direbbe che io abbia una grande nostalgia per la mia infanzia. Non è vero. Non voglio dire che ho avuto un'infanzia infelice, ma un'infanzia mancante di felicità.

La causa? Una grande e morbosa timidezza.

La timidezza è una forma di maleducazione, e quando i genitori si accorgono di questa anomalia dovrebbero scudisciare i figli nella piazza principale.

Mio fratello, che insegna matematica alla Scuola Normale (si fa per dire!) di Pisa, non era solo timido, era veramente anormale.

Da piccolo girava con uno spago al collo dove aveva attaccato una campanellina da cane e teneva in braccio una bottiglia vuota di ceramica bianca, di Vov Pezziol.

Quand'era adolescente rubava nelle case dei vicini. In casa del dottor Casèr, al primo piano, ha rubato una penna stilografica d'oro. Mia madre gliel'ha fatta restituire in pubblico, nel cortile di casa, davanti a tutti i vicini. Lui teneva la testa bassa, ma non faceva trapelare un briciolo di vergogna.

Ha continuato a rubare nei decenni successivi dedicandosi, soprattutto, alle magliette, il suo bottino preferito. Purtroppo non ne trova più della sua taglia, perché negli ultimi quarantanni è diventato anoressico. È forse l'unico caso nella storia della medicina degno d'essere discusso in un congresso mondiale sull'alimentazione. Ma lui preferisce non parlare di questo argomento, perché mi ha confessato che, generosamente, non vuole che la sua malattia si diffonda a macchia d'olio tra tutti i docenti universitari italiani.

Io e lui eravamo così malati di timidezza che non salutavamo mai nessuno ma, provocatoriamente, solo i gatti, i cani e i cavalli. In quegli anni, vicino al Mercato orientale dove abitavamo, c'era un andirivieni di carri a quattro ruote trainati da cavalli, e di cani randagi di tutte le taglie, e tutte le mattine noi a toglierci i berretti di velluto: «Buongiorno, signor cavallo! I nostri rispetti, signor cane!».

Mia madre era disperata, aveva anche minacciato di cacciarci di casa. Lei era di origine piccoloborghese e dava lezioni private di tedesco per arrotondare, ma nella speranza di un'arrampicata sociale non si faceva pagare da una certa signorina Boccardo, una biondina dell'upper-upper class genovese.

Un giorno, a tavola, ha detto minacciosa: «Guardate che oggi, alle cinque, viene la signorina Boccardo. Voi dovete farmi fare bella figura. State fermi dietro la porta, io vi chiamo, entrate, e fate il baciamano… Vabbe'! Proprio baciamano no, ma almeno salutate».

Alle cinque in punto noi eravamo pronti dietro la porta del salotto. Mia madre fa: «Signorina Boccardo, le presento i miei…», stava per dire gioielli, ma poi ha corretto, «i miei ragazzi».

«Bambini!» urlò, «venite a salutare!»

Siamo entrati in silenzio con la testa bassa, occhi chiusi, facce risentite da ramarri.

Mia madre sorrideva, la Boccardo anche.

«Eccoli!» disse mia madre. «Salutate la signorina Boccardo.»

Nulla di nulla.

Mia madre aveva, al pollice destro, un'unghia un po' più lunga, una specie di pugnale.

«Avanti! Salutate!» ci esortò dandomi con il pollice una specie di pugnalata nel costato.

Niente. I due ramarri tenevano le facce a pavimento.

Allora la Boccardo ha detto: «Signora, non si preoccupi, si vede che non ne hanno voglia».

Mia madre sibilò sottovoce: «Andate via, cialtroni! Con voi faremo i conti dopo!».


Abitavamo in un palazzo che è la casa della mia vita. Era in riva al mare.

Tutto quello che ho letto, la metamorfosi di Gregorio Samsa a Praga, o l'uccisione delle due vecchie di via Sennaja a Pietroburgo da parte di Raskolnikov, lo immagino ambientato lì.

Era una casa camoglina, coi fregi dipinti, alta, aveva nove piani. All'ultimo abitava un salutatore naturale, un certo Rainato. Salutava tutto quello che vedeva, tipo: «Saluto quell'imbianchino là in alto!».

Si dice che una volta, per lo stupore, un imbianchino sia caduto dall'impalcatura, e che Rainato sia scappato e che non l'abbia mai confessato a nessuno. Dal suo terrazzo sul mare la sera urlacchiava: «Saluto i pescatori di quelle barche là in fondo, che presumo vadano a pescare!».

Non rispondevano mai.


Si tornava a casa da scuola verso l'una e cinque. C'era un ascensore in noce scolpito in stile liberty, i vetri smerigliati con tanti fiorellini e un divanetto di raso rosso con sopra un merletto bianco. E poi una lucente bottoniera in ottone. Noi si scendeva dal tram, mio fratello aveva sulla schiena il mitico vocabolario di greco, il Rocci. Pochi lo ricordano, ma pesava almeno ventidue chili. Si cominciava a galoppare, sapevamo che il salutatore ci aspettava al varco per fare l'ascensorata insieme a noi. Lui stava nascosto tra i pitosfori e io e il «Rocci» si partiva a tutta forza verso l'ascensore. Via!

Lui perdeva terreno e a cento metri di distanza urlava: «Ascensore! Aspettate!».

Noi, muti come topi, chiudevamo le porte.

Lui arrivava, apriva il cancello: «Un momento, per favore!».

Entrava. Noi avevamo le facce basse da ramarri e lui: «Buuuongioornooo! Come va?».

Nulla. Come se fosse invisibile.

L'ascensorata durava quasi un minuto, un tempo ascensoristico clamoroso. Al quinto piano i due ramarri uscivano veloci e senza salutare.


Passano infruttuosamente tre anni e mezzo. Per tre anni e mezzo, tutti i giorni all'una e dieci, la stessa drammatica scena.

«Ascensore!»

«Buuuongioornooo. Come la va?»

Nulla!

Una mattina di primavera, in ascensore, eravamo in questa formazione: Rainato, mio fratello a contatto di ventre con lui, pupilla nella pupilla, il Rocci e poi, ben protetto, io.

L'ascensore si ferma al quinto piano. I due topi maledetti stanno per scappare. Rainato, che era un uomo enorme, ci blocca: «Fermi! Vi posso chiedere una cosa? Ma voi, Villaggio, perché non mi salutate?».

Ho sentito il fremito d'imbarazzo di mio fratello che, pupilla nella pupilla di Rainato, ha fatto una lunga pausa e poi ha detto: «Ci scusi. Non l'avevamo vista».

Rainato è rimasto marmorizzato da quella risposta paradossale, e noi siamo scappati senza salutare.


La nostra timidezza qui fa ridere, ma diventava motivo di autentica sofferenza nei rapporti con le ragazze.

Il compagno di banco di mio fratello era della stessa risma: timido come una suora svizzera. Si chiama Paolo Fresco e ha fatto una grande carriera alla Fiat. Sua sorella Giuliana organizzava, tutte le domeniche pomeriggio, delle feste. Cominciavano verso le due, i dischi erano ancora quelli grossi in bachelite e le canzoni erano: «I cadetti di Guascogna, Il re del Portogallo non sa ballar la samba, Misteriosi tamburi zulù, rullate rullate… Arriva il negro Zumbòn ballando allegro il baiòn… Che mele! Che mele! Son dolci come il miele, sono buone, sono rosse, son buone da mangiar!». Erano delle canzoni vomitevoli! Ma non c'era di meglio.


Eravamo tutti bruttini, e anche le ragazze erano in gran parte insignificanti. Ce n'erano di diverse misure e taglie: alcune molto piccole, di gamba corta, che pesavano ottanta chili. Molte con naso da rapace. Due erano alte quasi due metri, trentotto chili l'una. Non si truccavano, perché era vietato dalla morale corrente. Tutte con delle gonne scozzesi plissettate, un maglioncino d'angora e, la domenica, un filo di perle della madre.

Io e mio fratello eravamo i più disastrati. Entravamo terrorizzati e ci andavamo a mettere in posizione da battaglia, vale a dire faccia contro la tappezzeria di carta marrone chiaro del salotto.

Mani: due spugne. Salivazione: azzerata. Due trote marce sotto le ascelle.

In quello stato consumavamo pomeriggi interi, faccia al muro, nella speranza che arrivasse qualcuna a rivolgerci la parola.

«Ma che fai qui, con la faccia al muro? Vieni in mezzo a noi, devi essere abbastanza simpatico!»

Mai niente.

Pomeriggi interi a respirare l'odore di quella tappezzeria. Era gialla.

La stanza era sempre piena di imbecilli che ballavano e noi, a macerarci.

«Ma come è possibile? Non capiscono, queste sceme, che noi siamo animali diversi, superiori?»


I banchi di scuola erano di legno e stare cinque ore seduto mi provocava un fastidioso fenomeno di cartonatura natiche. Mi ero portato da casa, allora, un piccolo cuscino del salotto di mia madre, mi ci sono seduto sopra e in classe è scoppiata una grande allegria. Il professore di latino, uno squilibrato, si è alzato e mi ha detto: «Dammi quel cuscino! Questo è l'inizio di un caos totale! Un'autentica rivoluzione!».

Ha preso il cuscino e lo ha buttato dalla finestra. Eravamo al primo piano, a un metro e ottanta dalla strada. Mio fratello si è alzato e si è buttato di sotto.

Tutti in piedi ad applaudire! Quella sì, un'autentica rivoluzione.

Il professore squinternato corre a chiamare il preside. Il preside è entrato vestito da preside, con faccia da preside. Era un cretino e ha detto: «Questo è un gesto gravissimo! Un fatto estremamente pericoloso!».

Mentre lui parlava è rientrato mio fratello con il cuscino in mano. Un trionfo!


In una magnifica mattinata di ottobre, sono entrato in classe con un po' di ritardo. Il «Rocci» era già arrivato. Mi sono scusato, ho aperto la cartella e ho tirato fuori gli strumenti da lavoro: un portapenne in legno chiuso da un righello scorrevole che fungeva anche da doppio decimetro. Dentro avevo una penna con un mirabile pennino di vetro. Una rarità.

Ho aperto e richiuso il portapenne varie volte, perché mi piaceva il suo odore, mi eccitava quasi come quello della colla. Poi, lentamente, mi sono voltato dalla parte del sole: volevo vedere se quel pomeriggio si poteva fare un bel bagno agli scogli di Santa Chiara. Dalla parte del sole c'erano le ragazze, un privilegio accordato per tradizione.

Quella mattina ce n'era una nuova. Aveva due occhi straordinari. Prendeva il sole di spalle, sui capelli castani, e sembrava che avesse l'aureola.

«Ammazza, che occhi ha questa!» ho pensato, quasi folgorato.

Lei mi ha sorriso con dei denti bellissimi. Ero quasi ipnotizzato. Lei ha continuato a sorridermi, quasi a dirmi: «Sì, sì. Sei proprio tu. Sto sorridendo proprio a te».

Io sono rinvenuto e, con molto imbarazzo, sono tornato a occuparmi fintamente del mio portapenne. L'ho aperto e l'ho richiuso, e poi mi sono voltato nuovamente a guardarla. Mi ha sorriso ancora e poi, in maniera provocatoria, si è alzata, andando lentamente verso la porta della classe. C'erano due metri di spazio davanti a me, ma lei mi è passata vicino, quasi sfiorandomi. Io tenevo la testa bassa e ho sentito che aveva un odore buono. Le ragazze a quei tempi non si profumavano, ma lei aveva un odore suo, buono da morire. A istinto, avrei avuto voglia di arpionarla, di stringerla, cercando di morsicarle le labbra e di morderle le guance. Invece sono tornato, penosamente, al portapenne di legno.

Quella mattinata passò senza altri episodi rilevanti, ma tornando a casa in tram ho capito che era cambiato tutto. Che da quel momento c'era lei.


L'indomani, stranamente, sono entrato in classe prima di tutti. Non c'era nessuno: solo lei, seduta al mio posto. Le sono andato vicino con un leggerissimo e impercettibile affanno e ho detto con tono ruvido: «Questo è il mio posto!».

Lei mi ha sorriso: «Sì, lo so. Che male c'è?».

Respiravo a fatica. Lei si è alzata e questa volta mi ha toccato. Ho sentito il calore del suo corpo e poi di nuovo quel suo odore buono da morire.

È andata al suo posto e poi, a salvarmi, sono arrivati il «Rocci», il futuro presidente della Fiat e poi tutti gli altri.

Ma la mia vita, ormai, era cambiata.

Se la guardavo negli occhi il cuore mi si spostava e mi batteva in gola. Non avevo nessuna esperienza e dopo una settimana sono entrato a casa, ho preso mio padre da parte e gli ho detto: «Papà, non sto bene».

Lui si è allarmato immediatamente: «Come „non stai bene“?!?».

«Non lo so…. respiro a fatica… credo che mi si stia spostando il cuore.»

Mio padre era un apprensivo, mi ha afferrato per un braccio e mi ha detto: «Vieni con me!».

Sul nostro pianerottolo c'era il dottor Perdetti, un veterinario veramente. Viveva da solo con una vecchia cameriera.

Stava mangiando delle lasagne al pesto e mio padre: «Perdetti, scusi se la disturbo mentre sta mangiando, ma mio figlio sta male!».

Perdetti non alza neppure il viso dalle lasagne.

«Ah, sì? E che cos'ha?»

«Respira male. Gli si sta come…», e poi rivolto a me, «e parla tu che sai!»

«Io temo che… mi si stia spostando il cuore.»

E Perdetti, senza alzare gli occhi dalle lasagne: «E da quando le succede questo?».

E mentre io cercavo di ricordare lui fa: «Di notte?».

«No» ho detto io, «di notte mai.»

«Al pomeriggio?» E poi, spazientito: «Ma si può sapere quando le succede, allora?».

«Veramente… al mattino. Tutte le volte che entro in classe.»

Perdetti, allora, ha alzato gli occhi dal piatto rivolgendosi a mio padre: «È in classe mista, questo qui?».

E mio padre, spaventato: «Sì».

E Perdetti con un magnifico sorriso: «Ma è innamorato!».

Mio padre mi ha afferrato per il colletto della giacca e, senza neppure salutare Perdetti, mi ha portato quasi di peso sul pianerottolo. Aveva gli occhi a palla, nitriva come un cavallo imbizzarrito: «Allora? Sei innamorato, eh? Il signorino è innamorato!».

Io non sapevo come uscire vivo da quella situazione, e ho detto:

«No! Non me lo permetterei mai!».


Ma la situazione era incontrollabile.

E poi quel malessere, quel batticuorismo tutte le volte che lei mi sorrideva mi piacevano da morire.

Era la prima volta nella mia vita in cui una sensazione di malessere mi rendeva felice.

Poi un bel momento, per orgoglio, ho pensato anche di uscirne fuori. I miei compagni mi domandavano: «Lei ti piace, no?». «Chi?»

«Dài! Non fare il tonto, hai capito benissimo!»

«Aaah! Volete scherzare? Ma niente di niente! Mi è completamente indifferente, anzi mi è un pochino antipatica.»

Tornavo a casa. La regola di ferro di mia madre era che alle ore 15 bisognava mettersi a studiare. Io aprivo la finestra della mia camera sul mare mentre il «Rocci», che era pazzo, studiava in corridoio attaccato con le dita allo stipite della porta perché voleva diventare un forte rocciatore.

Aprivo la finestra sul mare. A insaputa di tutti avevo deciso che la nostra canzone era Che mele! Che mele!. Credetemi, una canzone veramente agghiacciante. Prendevo un disco di bachelite e lo mettevo su un grammofono a manovella. E allora piombavo in uno stato di semitrance. Ecco il suo odore! E poi lei si materializzava. Spostava il tavolo e si sedeva sulle mie ginocchia, io l'abbracciavo e le mordevo le labbra e poi mi sollevavo con lei da terra, uscivamo dalla finestra e giù, a capofitto sopra il boschetto di pitosfori e poi a volo radente sul mare.

Quando c'era il libeccio andavamo a sfiorare la spuma delle onde assieme ai gabbiani.

«Che fai? Studi?»

Era la voce implacabile di mia madre.

«Sì, sì! Mamma, adesso lo faccio.»

«E togli quello stupido disco!»

A quei tempi non c'erano quegli antri infernali e semibui che sono le discoteche.

Una volta, ormai vecchio, m'hanno portato in uno di quei posti sulla Riviera romagnola. Io sono sordo e quasi cieco, e ho avuto la sensazione di essere stato buttato dentro un barile di aringhe. Un odore di sudore sinceramente eccitante, cubiste quasi nude, sfioramenti, luci ipnotizzanti, e ho capito che lì non si usa la parola come mezzo di comunicazione, ma altri segni: capelli colorati, orecchini, piercing, tatuaggi… E le inibizioni, con l'aiuto di alcol e pasticche, in quelle bolge infernali passano. Mi hanno detto che lì si può acchiappare qualcuna (o qualcuno, è indifferente) che non conosci, portarla in un antro buio e sodomizzarla, o sodomizzarlo, e non rivedersi mai più.

Negli anni Cinquanta non c'erano le pasticche, né alcol, né tatuaggi, né soprattutto quei gironi danteschi. Le tecniche di corteggiamento erano codificate. Solo i maschi potevano prendere l'iniziativa. A uno piaceva, per esempio, Teresa, e allora l'aspettava all'uscita da scuola seduto su un muretto. Quando arrivava Teresa lui si alzava e con voce d'attore: «Teresa, scusa. Ti posso accompagnare a casa?».

Le possibili risposte erano: «No, ti ringrazio… non sono ancora pronta. Dammi un po' di tempo».

«Quanto?» domandava allora il disgraziato con voce da lucertola. Una volta una Teresa ha risposto: «Fra nove anni!».

Un'altra possibilità era che Teresa dicesse: «Sì. Con molto piacere!».

Il dichiarante perdeva subito il controllo della situazione, non aspettava neppure di fare cento metri ma lì, di fronte a tutti, urlacchiava: «Non so se ti sei accorta che da alcuni mesi» in certi casi, purtroppo, alcuni anni «la mia vita è cambiata. E tutto questo lo devo…», e qui urlava come una belva, sudava, mani spugnate, un cartone al posto della lingua, «perché io ti devo confessare che… credo di essere…», qui abbassava il volume e diceva con voce da topo «… di essermi innamorato di te».

E Teresa doveva rispondere: «Anch'io credo di poter ricambiare». Oppure: «Non lo so, dammi un po' di tempo».

Il tutto avveniva con intorno un cerchio di spettatori curiosi come faine. Una volta ho visto un povero dichiarante, un certo Cassano, al quale una Teresa ha risposto: «Sì, ti ringrazio per quello che dici, e ti confesso che la cosa mi fa molto piacere, ma io sono già innamorata di Enrico», e ha fatto il gesto di allontanarsi. Cassano è andato giù con la faccia sulla ghiaia, come un coniglio selvatico colpito da una martellata in nuca.

Molti respinti rimanevano in piedi pietrificati. A primavera, che era la stagione degli amori e delle dichiarazioni, all'uscita dell'una ne potevi vedere ogni giorno tre o quattro, come statue di sale. Allora penosamente bisognava recuperarli, risvegliarli con degli schiaffetti: «Non è successo nulla! Tutto bene! Vedrai, vedrai, non c'è pericolo!», e li caricavamo sui tram verso casa.

I telefoni delle case erano tutti lucchettati, ma in assenza dei genitori, trovate le chiavicine, si poteva tentare anche una dichiarazione telefonica. Fresco, quello della Fiat, su mio consiglio ha tentato una dichiarazione telefonica a una certa Giorgia. Ha infilato la testa in una conca di rame e ha cominciato con voce a tromba: «Pronto? Sono…».

Ma Giorgia l'ha interrotto subito: «Ma che fai? Parli con la testa in una conca di rame?».

Per la vergogna abbiamo chiuso la comunicazione e lui è rimasto a pavimento. È stato terribile, perché per ignoti motivi gli si era gonfiata la testa ed era rimasto incastrato dentro la conca.

È entrato suo padre: «Ma che succede?».

«Nulla, nulla…» ho detto, «lui è occupato, poi… le spiego.»


Fresco non è mai stato fortunato nelle azioni supreme con le donne. Una decina di anni dopo ce n'era una che gli dimostrava un grande interesse. La cosa lo lusingava molto, ma lui fingeva di esserne infastidito. Finché la ragazza, esasperata, gli ha detto: «Basta! Chiuso! Ho trovato un tecnico dentista che mi sposa… guarda che lo faccio, eh?!?».

«Ma fai quel diavolo che vuoi! Purché tu ti tolga dai piedi!»

La sera stessa eravamo a cena io, mia moglie e lui alla pizzeria La Bella Napoli. Fuori pioveva, e lui era seduto di fronte a noi con l'impermeabile addosso; un po' cupo e non parlava.

Mia moglie: «Che c'hai? Mi sembri un po' giù!».

«Sì! Devo fare un sopralluogo. Mi accompagnate, per favore?»

Siamo usciti. Gli avevano rubato le quattro ruote della Millecento.

«Taxi!» ha urlato senza commentare.

Siamo arrivati alla casa della sua corteggiatrice.

«Venite, mi darete una mano a salire.»

Al secondo piano sulle scale c'era una finestrina ovale che dava sul salotto. È salito su una sedia di paglia prestata dal portiere, ha infilato la testa nella finestrella e noi lo abbiamo spinto dentro. Nel salotto c'erano il meccanico dentista e la ragazza. Erano seduti a quattro metri di distanza, muti come anatre tibetane. Sembravano molto depressi. Lui ha aperto la finestrella e ha urlato: «E finitela di dire coglionerie!».

Il meccanico dentista è scappato come una gallina faraona. Lui, infilato in quell'atroce cunicolo, ha cominciato a respirare a fatica: «Ma ti rendi conto di come cerchi di umiliarmi?».

«Ma smettila di prendermi in giro!» ha detto la ragazza con la testa bassa. «Mi hai fatto perdere l'occasione della mia vita!»

Lui soffriva di claustrofobia, è stato zitto un po' e poi ha cominciato a urlare: «Aiuto! Soffoco! Tiratemi fuori di qui!».

Sono corso giù dal portiere: «Chiami i pompieri, è urgente!».

Sono arrivati dopo quarantadue minuti, sinceramente terribili. Lui continuava a sibilare: «Non respiro! Non respiro! Fate presto!».

Prima era pallido, poi rosso, poi blu, poi blu notte. E alla fine, flebilmente, ha detto: «Dite ai miei genitori che gli ho voluto tanto bene!».

I pompieri gli hanno legato le caviglie con delle corde e hanno stappato il buco. Lui voleva dire qualcosa, ma quelli gli hanno messo impietosamente una maschera per respirare. Quando è tornato a casa si è accorto che aveva l'impermeabile completamente rovinato, e che aveva perso il portafogli e la scarpa sinistra. La ragazza non si è mai sposata e il meccanico, quattro anni dopo, è stato arrestato perché si spacciava per dentista.


Purtroppo, io non avevo il gigantesco coraggio di chiedere alla ragazza dagli occhi meravigliosi di poterla accompagnare. Allora usavo una tecnica demenziale di mia invenzione: uscivo pochi minuti prima della campana al trotto più disperato, giù per una scala di quattrocento gradini, poi al galoppo verso piazza Corvetto e poi, con fare casuale e indifferente, cominciavo a tornare indietro lentamente per andarle incontro sul Ponte Monumentale, dove sapevo che sarebbe passata.

Era una giornata di sole, sono sul ponte.

Eccola là in fondo! Teneva i libri sotto il braccio, legati con un elastico verde. Era con un'amica e sorridevano. Mi sono fermato. Una vecchia passandomi vicino mi ha detto: «Che c'è giovanotto? Sta male?».

Non ho risposto e ho cominciato ad avanzare lentissimo, a testa bassa, sul marciapiede opposto. «Ecco! Adesso mi vede! Ecco! Adesso mi vede e mi chiama! Ecco! Adesso mi ferma! Ecco adesso… proprio adesso… ora, forse… Niente! Non mi ha visto!»

Quando lei era lontana mi sono appoggiato a un muretto. La vecchia mi ha raggiunto: «Giovanotto, dica la verità, posso fare qualcosa?».

«Mi lasci in pace!» ho ringhiato. «O chiamo i Reali Carabinieri!»

Due giorni dopo il tempo era nuvoloso. All'una e dieci ero sul ponte. La vecchia fortunatamente non c'era.

Ed eccola! Aveva un impermeabile leggero color carta da zucchero, i libri sotto il braccio legati con quell'indimenticabile elastico verde. Io ho cominciato ad avanzare, sempre con la faccia a terra. Lei mi vede: «Ehi!» e attraversa la strada.

Quando è vicina io dico rabbioso: «Che vuoi?».

«Niente. Come mai da queste parti?»

«È perché sono in una situazione drammatica, sono caduto dal tram dopo aver accoltellato il controllore.»

Lei ha sorriso e mi ha messo le mani sulle spalle: «Ma tu, devi dirmi qualcosa?».

Io ero inferocito.

«Ma di chi stiamo parlando? Scusami, devo andare via perché ho dei problemi gravissimi! Non ho tempo da perdere!», e me ne sono andato.

E lei, perplessa: «Ciao! Ci vediamo domani!».

Sono arrivato al muretto e mi sono appoggiato. Avevo voglia di farmi garrotare da due cavalli dell'inquisizione spagnola. Di spalle è arrivata la vecchia con il marito e gli ha detto a bassa voce: «È lui! Poveretto. È quel giovane malato di mente di cui ti ho parlato».

Tra le ragazze bruttine di quegli anni c'era, al liceo, Leila. Era veramente un mostro. Gobba, alta un metro e cinque. Non potendo vivere in prima persona delle storie d'amore le viveva di riflesso: portava messaggi, riferiva e raccoglieva confidenze, ma, soprattutto, faceva la postina di lettere d'amore. La dichiarazione scritta, che era l'ultima spiaggia.

Era quasi la fine di giugno, ero fuori tempo massimo. Sono seduto sul muretto della scuola, la gobba si avvicina e mi dice decisa: «Nella nostra situazione, non ci rimane che la lettera!».

«Quale lettera? Di cosa stiamo parlando?»

«Hai capito benissimo! Prendi un foglio e scrivi semplicemente: cara tal dei tali, io credo di essere innamorato di te. Non posso più vivere… eccetera, eccetera, aspetto una risposta. Mi dai la lettera, io gliela porto e domani pomeriggio sapremo il nostro destino.» Si è alzata: «Mi raccomando!». E a cento metri si è voltata e ha urlacchiato: «Sta' a sentire: stringato, eh!?! Non voglio quelle cose stiracchiate da logorroico. Le lettere troppo lunghe» ha aggiunto con tono professionale, «non le leggono! Stringato, mi raccomando!», e si è allontanata. A quasi ottocento metri si è voltata e mi è arrivata la sua voce flebile per la distanza: «Stringatooo!».

Sono tornato a casa, mi chiudo nella mia stanza, apro la finestra sul mare e penso: «Stringato. Sarò proprio telegrafico». E per trovare un briciolo di ispirazione, purtroppo, ho messo la nostra canzone.

Una catastrofe: trentadue pagine!

C'era dentro un po' di tutto… quel raggio di sole del primo giorno che filtrandole attraverso i capelli dorati le batteva sul labbro… e poi quella volta e poi quell'altra… e di come volavo con lei sopra le onde… insomma, una lunghezza devastante. E poi, finalmente, con tono più sobrio concludo: «Perché credo, e dico credo, perché è la prima volta che mi succede, di essere veramente innamorato di te.

Io ti amo».

Ho spolverato la lettera con del borotalco profumato Roberts, e in serata ho portato il malloppo alla gobba.

Lei ha preso il pacco, mi ha guardato disperata e poi ha detto: «Vabbe'! Speriamo bene».

L'indomani mattina era il terzultimo giorno di scuola, sapevano tutti della lettera, i miei compagni erano tutti in trepida attesa. Alcuni erano in piedi addirittura sui banchi. Tutti sorridenti, tutti carini da morire. Tutti in attesa di un magico evento, sentirmi dire pubblicamente: «Ti amo».

E lei avrebbe risposto: «Anch'io».

Nella notte avevo dormito solo nove minuti.

Ero in corridoio, erano già entrati tutti. Era una mattinata piena di luce, rallegrata da quel clima di magica attesa. Ero fuori dalla porta, respiravo molto male, e pensavo: «Quasi quasi, oggi non entro. Anzi, sto via un mese. No, meglio, vado via per sempre, vado a vivere nell'Angola portoghese».

La gobba era una professionista autentica, è passata e mi ha spinto dentro. Sono entrato barcollando e tutti hanno applaudito. Io ero stordito come se avessi preso una manciata di quelle pillole da discoteca.

Ed eccola! Lei era di fronte a me. Mi ha fatto il sorriso più bello di tutta la mia vita. Si è toccata il grembiule nero all'altezza del cuore e ha detto semplicemente: «Ho la lettera».

«Quale lettera?» ho ringhiato io.


Due giorni dopo sono finite le scuole. Ho ritardato l'uscita dell'una, sono uscito sul piazzale e, seduta sul muretto, c'era solo lei. Le sono passato vicino tenendo la testa bassa, e lei: «Scusa! Ti posso accompagnare a casa?».

«Non capisco di cosa mi vuoi parlare…» ho annaspato vergognosamente.

«Ci sono rimasta molto male… così, in pubblico, di fronte a tutti. La tua lettera era molto bella. Ma tu sei un cretino!»

Non l'ho mai più vista in vita mia.


L'anno dopo, era l'ultimo del liceo, il primo giorno di scuola pioveva e il professore di latino, quello squilibrato, prima di fare l'appello ha detto: «Ci siamo tutti, ma purtroppo manca…», e ha fatto il nome di lei, «perché si è trasferita a Milano con la famiglia».

Io ho provato una strana sensazione, come se qualcuno, infilandomi la mano e tutto il braccio in gola, mi avesse asportato le interiora come a un pollo ruspante.

Tre anni dopo mi hanno detto che si era sposata con un dentista di Milano.


Quell'ultimo anno di liceo era cominciato male.

Erano le undici di un qualunque mattino d'autunno, stavamo azzannando un pezzo di focaccia. Com'era buona la focaccia di allora! Come mi piacerebbe poterne riaddentare solo un pezzetto, mi farei tagliare la mano sinistra.

Siamo nel cortile per l'intervallo. La voce della gobba: «Zitti tutti, per favore! Zitti! Quest'anno c'è una grande novità: noi tutte ragazze del liceo Andrea Doria abbiamo eletto con voto segreto il più bello…», e qui fece una pausa respirando profondamente, era emozionata, poi con voce languida, «di tutta la scuola».

Tirò fuori dalla tasca del grembiule la pagina piegata di un quaderno quadrettato.

«Il più bello di tutta la scuola è… Tonino Sciaccaluga!»

Le ragazze hanno urlato tutte e applaudito, gli si sono fatte intorno veramente felici, non certo come quelle concorrenti che circondano la nuova miss Italia fingendo ignominiosamente felicità, mentre in realtà vorrebbero farla a pezzi.

Sciaccaluga era veramente un bel ragazzo e tutte a toccarlo, molte erano sinceramente commosse, quasi tutte innamorate di lui.

Dopo due mesi, prima di Natale, sempre nel cortile all'ora della focaccia, la gobba: «Zitti tutti! Abbiamo rifatto l'elezione del più bello del liceo». Tirò fuori il solito foglietto e questa volta con voce sicura disse: «Anche questa volta il più bello è… Tonino Sciaccaluga!».

Squittii, urletti da parte di tutte.

Verso febbraio, solita scena. La gobba, foglietto in mano: «Il più bello è…», e qui molte voci dei maschi un po' annoiate: «Tonino Sciaccaluga!».

E la gobba: «Siete solo degli invidiosi. Fermi, però! Non andate via, questa volta c'è una grande novità. Noi, ragazze del liceo Andrea Doria, per la prima volta abbiamo eletto», e qui fece un pausa feroce, «il più brutto di tutta la scuola!».

Ci bloccammo tutti. Questa volta c'era un silenzio di marmo. La gobba ghignava sadicamente. Non tirò fuori neppure il foglietto e urlacchiò: «Il più brutto di tutti», e su quel brutto sembrava che stesse per vomitare, «è… è…», e fece il mio nome!

Io sono rimasto lì, in mezzo a tutti, un po' stordito, come se la cosa non mi riguardasse. Sapete come quando vi danno una brutta notizia, e non ci credete, e pensate: «No! Non è possibile! Non può essere successo proprio a me!».

Cominciarono tutti, uomini e donne, a gracchiare come iene maledette: «Ha, ha, ha! Hi, hi, hi!».

Io mi sono ricomposto e fingendo, come ho sempre fatto nella vita, di essere di spirito, ho fatto: «Ho, ho, ho!», e quel tentativo di risata mi si è spento in gola, come il tragico gracidio di un rospo.

All'ultima ora ho chiesto al professore squilibrato di essere rimandato a casa.

«Mi scusi, ma non mi sento molto bene.»


Alla fine dell'anno, era quasi estate, c'era nel cortile della scuola una festa serale a lume di candela. Era la festa d'addio. Poi ognuno per la sua strada. Chissà se ci saremmo rivisti. Le ragazze erano quasi tutte intorno a Tonino Sciaccaluga. Erano disperate, correva voce che si era fidanzato con una bella ragazza di Priaruggia e che si sarebbe sposato dopo la laurea.

La gobba montò su una sedia: «Zitti tutti! Prima dell'addio vi voglio dire chi è stato eletto il più bello di questi ultimi cinque anni: Tonino Sciaccaluga!».

I maschi non sembravano molto rallegrati da quella notizia. E lui, stronzo, faceva una faccia rassegnata come per dire: «Credetemi… è una cosa che conta poco. Non me ne importa quasi niente!».

E la gobba, implacabile: «Non è finita qua, però! Adesso vi leggo il nome del più brutto di tutti questi ultimi anni», e con l'artiglio fece un gesto circolare, quasi volesse dire il più brutto non solo della scuola, ma di tutta la galassia.

Io mi sono allontanato in silenzio prevedendo il peggio e quand'ero già al cancello ho sentito il mio nome, e tutti a gracidare e ad applaudire divertiti.


Dopo quasi cinquantanni, ricco, famoso e arrogante, caracollavo nel salottino della Freccia Alata di Linate con un gruppo di ladri, lupi mannari, farabutti e tangentisti con i denti insanguinati. Ero fierissimo di appartenere a quel gruppo feroce in quella specie di galoppatoio.

Per molti anni non mi hanno fatto entrare, poi sono riuscito a farmi accettare, ma non mi salutava nessuno. C'era Eugenio Scalfari, il fondatore della «Repubblica». Io sono entrato, lui mi ha sorriso, e allora io un po' emozionato gli sono andato incontro con la mano tesa. Lui mi ha schivato ed è andato a stringere la mano a uno alle mie spalle. Io, sempre con la mano tesa, sotto gli occhi di una hostess di terra ho mormorato: «Sto appunto qui cercando… un giornale…».

Quella non ha neppure sorriso, ma le ho fatto pena.


Passano quasi due anni. Alla Freccia Alata di Fiumicino, vestito da ricco, con la faccia da ricco, pronti a partire per la costa Smeralda. Ed ecco Scalfari, vestito da Scalfari, con una magnifica giacca di lino irlandese. Mi sorride, io mi alzo, gli vado incontro con la mano tesa e dico: «Finalmente adesso lei mi ricono…». Lui mi schiva come se fossi un rettile e va a stringere la mano sempre allo stesso vip di Linate, che era alle mie spalle. M'è venuto anche il sospetto che lui se lo portasse dietro per umiliare alcuni sventurati come me. Lo metteva in asse e il gioco era fatto.

Ero comunque in un momento di grande euforia, essere immerso in quel branco di ladri mi inorgogliva. Sono entrato in una specie di balordone di felicità e stringevo le mani a tutti, anche se spugnate.

Sono passato troppo vicino alla cellula che apre le porte automatiche smerigliate e le porte si sono spalancate e poi richiuse. Solo un attimo, che mi è bastato per intravedere un signore anziano che mi salutava sorridendo. Io con la mano sotto alla fotocellula ho riaperto le porte incuriosito. Un vecchio, dimesso, curvo in avanti, mi fa con tono rispettoso: «Ciao, ti ricordi, no?».

«No… no, così… sinceramente ora non…»

«Ma Paolo, sono Tonino, Tonino Sciaccaluga, ricordi?»

Certo che me lo ricordavo. Era un po' cambiato: pelato come un ginocchio, quattro denti su trentadue. Ero disorientato.

«Ti ricordi adesso di me?» fa lui. «Mi trovi un po' cambiato?»

«Ma no!» ho detto io ferocemente. «Sei uguale! Vieni dentro!», e gli ho fatto il gesto di entrare. Lui ha fatto solo un passo.

I lupi mannari l'hanno subito guardato come uno scarafaggio e le hostess della Freccia Alata, spintonandolo fuori: «No, no! Ci scusi, ma il signore non può entrare».

Le porte si sono richiuse e lui è scomparso dalla mia vita. Non sono neppure uscito a salutarlo.

* * *

La notizia di quelle elezioni al liceo Doria s'era sparsa in città, e io ho vissuto i primi due anni di università rassegnato e un po' infelice. Prima di quelle due drammatiche elezioni il mio modello era Gary Cooper nei Lancieri del Bengala, poi ho cambiato: Humphrey Bogart in Casablanca. Un pauroso impermeabile bianco di mio padre con bavero alzato, cintura stretta in vita, Borsalino nero in testa, sigaretta all'angolo della bocca (io non fumavo e mi bastava una boccata per perdere quasi i sensi), comunque quella era la maschera. Andavo così conciato a dragare delle povere popolane nei bar di periferia, dove la mia fama di brutto non era ancora arrivata.

Un pomeriggio sono entrato vestito da Bogart al bar Stella, nell'osceno quartiere operaio di Bolzaneto. Era luglio, c'era un caldo della madonna un po' per il bavero alzato, un po' per quell'impermeabile di piombo ma, soprattutto, per quel maledetto Borsalino in testa.

Sudavo come una capra marcia.

La cassiera, un'insignificante rapace sui trent'anni, mi fa: «Desidera?».

«Uscire con lei.»

Sembravo Bogart quando saluta la Bergman vicino al DC3 all'aeroporto di Casablanca. Ma mi veniva da vomitare. Il rapace mi ha guardato un po' divertita: «Se ha la forza di aspettarmi fino alle sette di sera quando finisco, si può mettere lì», e m'indicò una sedia di paglia vicino all'ingresso.

Sono stato quattro ore travestito da Bogart su una sedia che dovevano aver usato i parà di Massu durante la battaglia di Algeri per torturare i prigionieri. I clienti che entravano e uscivano mi guardavano come se fossi appena scappato dal vicino manicomio di Cogoleto.

Alle sette in punto il rapace si alza, viene verso di me, che mi ero assopito, e mi scuote: «Ma che fa? Dorme?».

Sono balzato in piedi urlando: «Chi è!?».

«Andiamo, va'!»

Mi camminava al fianco e dopo dieci metri mi sono accorto che era zoppa. Mi sono guardato intorno per controllare se lì in giro non ci fosse, per caso, qualche mio conoscente.

«Venghi, venghi» le ho detto, «acceleriamo il passo.» E l'ho subito distanziata di una decina di metri.

E lei: «Non corra! Non ce la faccio a starle dietro, non lo vede?».

Ho adocchiato una panchina dall'altra parte della strada e mi ci sono andato a sedere.

«Venghi, venghi, si sedia qui», e le ho fatto il gesto con la mano. È arrivata, si è seduta e io mi sono alzato in piedi. Stavo facendo una sauna orrenda.

«Mi dichi!» le ho detto.

«Ma dire cosa?» disse lei.

E io minaccioso: «Quello che vuole! Ma mi dii un giudizio su di me!».

La poverina mi guardava spaventata: «Ma che devo dire? Non so che dire!».

Ho cominciato a passeggiare in su e in giù: «Avanti! Dichi quello che vuole! Un giudizio qualunque! Accetto tutto!».

Mentre ero di spalle l'ho sentita ridere, e mi sono voltato inferocito: «Che c'è da ridere?».

«Mio dio, così mi fa paura!»

Passa un tranviere, si ferma e dice: «Serve aiuto, signora?».

«No, no. Grazie. Me la cavo da sola.»

Mi guardava e rideva: «Che c'è da ridere? Porca puttana! La prego, abbia pietà, mi dichi sinceramente che cosa pensa di me. E perché ride?».

«Non lo so… ma è che… come parla… come urla… vestito così… la trovo molto buffo. Mi fa ridere.»

Io ho pensato: «Maledetta! Io, Bogart in Casablanca, faccio ridere! Ma va' al diavolo, scema!», e l'ho lasciata seduta sulla panchina.

Due giorni dopo, Bogart. Stessa ora, un altro bar di periferia nella zona operaia di Sanpierdarena. Bar del Metallurgico. Entra Bogart, va deciso verso la cassa. La cassiera aveva una faccia carina e simpatica: «Dica. Che posso fare per lei?».

L'ho presa per mano, dovevo avere anche un po' di febbre: «Venghi via con me!».

La poverina non ha opposto resistenza. E scesa dal suo trespolo ed è stato come fosse caduta per terra. Era una nana!

Dopo una ventina di metri mi ha detto: «Le voglio dire che io sono un po' bassa di statura».

Non ho risposto, ho adocchiato un muretto e l'ho sollevata. Era di piombo. Con un piccolo urletto da sollevatore di pesi bulgaro l'ho fatta sedere: «Allora! Dichi!».

Lei mi guardava divertita.

«Mi dichi, qualunque cosa, ma mi dichi. Che effetto le faccio?»

Non era per nulla spaventata.

«Le posso solo dire che mi fa molto ridere.»

«Chi fa ridere?» ha ululato Bogart disperato.

«Non lo sa» ha detto la nana, «forse non se ne è mai accorto, ma lei è molto comico.»

Ho buttato il Borsalino per terra e mi sono allontanato senza voltarmi, lasciandola sul muretto. Poi, quand'ero lontano, con la coda dell'occhio ho visto che stava cercando aiuto dai passanti per scendere.

Avete capito cosa mi è successo?

Nasco come Gary Cooper nei Lancieri del Bengala, poi ho fatto Bogart in Casablanca, poi ho cominciato a fare il divertente e, purtroppo, nella vita, ho avuto fortuna facendo il clown.

Mi vanto di non avere mai raccontato una barzelletta in vita mia.

* * *

Nella mia vita ho avuto due fratelli:

il primo è il mio gemello, che voleva fare il clown. Era ladro, esibizionista, molto tenace e molto intelligente. Era il più bravo di tutta la scuola. Alla maturità classica ha fatto piangere due giovani professori, perché ha tradotto la versione dal latino non in italiano secondo la prassi, ma in greco. Si dice che uno dei due sia andato a fare il missionario in Burundi dove è stato poi bollito dai guerriglieri Tutsi. L'altro si è fatto suora Elisabettiana Bigia, e nello stesso inverno è stato fatto «alla cacciatora» da guerriglieri Hutu.

Mio fratello da grande voleva fare il rocciatore e doveva quindi allenarsi, ma non poteva rinunciare allo studio. Perciò passava pomeriggi interi attaccato con la mano sinistra allo stipite delle porte e ripeteva le lezioni ad alta voce. C'era un andirivieni di vicini e di compagni di scuola, che venivano a vedere quello strano spettacolo. Lui non li salutava, ma era molto lusingato di essere guardato come un fenomeno da baraccone.

Ci piaceva molto giocare a calcio, e ogni venerdì c'era una partita. Lui giocava come centravanti ed era anche molto bravo, ma veniva a una sola condizione: di non parlare con nessuno e di poter ripetere ad alta voce cento versi dell'Iliade, tradotta malamente da Vincenzo Monti. Erano cento versi al giorno, e sembrava una stupida punizione. Ma quella generazione ha esercitato la memoria in maniera implacabile e a distanza di molti anni abbiamo tutti la memoria di un computer.


Lui si presentava in campo, non salutava nessuno e cominciava a ripetere ad alta voce, per esempio, la morte di Ettore nel duello con Achille:

«Cadde, cadde, cadde…» e ripeteva cadde per cento volte, «cadde il, cadde il, cadde il…» per altre cento volte, «cadde il ferito, cadde il ferito, cadde il ferito…», il tutto per i novanta minuti della partita.

Alla fine i ventidue giocatori, l'arbitro, i guardalinee e i pochi spettatori sapevano a memoria la morte di Ettore. Io la ricordo perfettamente tutta dopo cinquantadue anni!

Dato che era sempre preparato non aveva mai marinato la scuola come facevano i comuni mortali. Si vergognava di questa anomalia, e certe mattine veniva davanti ai cancelli vestito da scoiattolo di Cortina. Scarpe da roccia, pantaloni di fustagno e un maglione rosso. Salutava tutti e diceva: «Oggi io devo marinare». Aveva la faccia triste.

Cominciava ad arrampicarsi su un muro di pietra di quaranta metri, sul quale davano quasi tutte le classi del liceo. Ci metteva quasi due ore, due ore nelle quali tutta la scuola era alle finestre: risate, applausi, una vera baraonda. Alla terza marinatura il preside in persona è andato ad aspettarlo in cima alla muraglia. Era uno scemo e con molto imbarazzo gli ha detto: «Senta, Villaggio. Sono qui a chiederle gentilmente, se proprio „deve“ marinare la scuola, di non farsi vedere da queste parti; le consiglio di andare al mare o, in caso di pioggia, al cinema Smeraldo dove fanno dei programmi culturali anche al mattino».

«Mi scusi, ma non le posso rispondere, perché sto marinando e sono in incognito.»

* * *

L'altro fratello è un fratello d'acquisto, e ci sono vissuto insieme dai venticinque ai cinquantanni. È Fabrizio De André, anche lui molto intelligente, esibizionista e vanitoso come una ballerina turca.

Si specchiava maniacalmente dovunque: occhiali da sole dei passanti, vetrine, vassoi d'argento nei bar. Di fronte agli specchi degli ascensori, poi, rimaneva quasi ipnotizzato e bisognava sradicarlo con una certa violenza, mentre lui si passava la mano fra i capelli.

Non si lavava mai e quando gli dicevo: «Ma lavati ogni tanto! Così puzzi come un cane marcio dopo una giornata di pioggia!».

E lui, onestissimo, rispondeva: «Sì, lo riconosco, ma sono molto pigro».

Una notte di novembre, un tempo da lupi, pioggia, vento e un freddo fottuto. Si andava sempre in casa di un nostro amico paralitico, che passava la vita su una sedia a rotelle in un piccolo appartamento affacciato su un miserabile giardino. Notti intere aspettando la rivoluzione maoista. Fabrizio aveva sempre una fame della madonna, e non aveva mai una lira. Quella notte di tregenda eravamo in attesa di eventi. Sentiamo un sommesso bussare sul vetro della portafinestra. Guardiamo, non si vede nessuno. Bussano ancora, Fabrizio si alza e apre la finestra: «Si può sapere chi è? Porca puttana!».

Entra un gatto bagnato, barcolla, poi si passa una zampa sullo stomaco e con un gorgoglìo sinistro vomita sul pavimento un topo masticato e mal digerito. C'eravamo io, il famoso playboy Gigi Rizzi, quello della Bardot, per intenderci, e il paralitico.

I presenti si alzano tutti in piedi (tranne ovviamente il paralitico) con un urlo di orrore.

Fabrizio dice: «Esagerati! Io ho una tale fame che quel topo me lo mangio!».

Il playboy: «È impossibile! Non ce la farai mai!».

«Per denaro, sì!»

«Quanto?»

«Ventimila! Mettile però sul tavolo!»

Fabrizio afferra il malloppo, si china sul pavimento e dà una linguata al cadavere del topo.

E tutti i presenti: «No, no… lo devi mangiare!».

Allora lui, sempre da terra, stacca una gamba e la coda e le mastica tre volte. Poi sputa e dice:

«Un po' d'acqua, per favore!».

«Come va?» gli domando io prendendolo da parte.

«Ho delle visioni, manie di persecuzione, miraggi. Acqua! Perché sto per vomitare».

* * *

Eravamo così poveri che d'estate, senza vergogna, andavamo a mezzogiorno a elemosinare avanzi di frittata, resti di spaghetti freddi nelle cabine di legno dei Bagni Lido. Quelle cabine avevano un odore stantio, di muffa e sale. Per noi, «i poveri», non c'era altro posto dove andare a fare all'amore. D'inverno, invece, facevamo un largo uso di sacchi a pelo sulle colline.

L'odore di quelle cabine mi fa tutt'ora un effetto molto stimolante sessualmente. Ho pensato anche, ora che sono vecchio e impotente, di farmene costruire una da un artigiano turco, recuperando, però, gli stessi legni marcescenti di allora. Ho parlato con un sessuologo, un autentico imbecille, che mi ha detto: «Non le garantisco nulla, ma può tentare».


Io e Fabrizio eravamo due biechi intellettuali di sinistra. Io, poi, ero a sinistra del Partito comunista cinese. Caratteristica drammatica degli intellettuali di sinistra era che non scopavano mai!

Alle due del pomeriggio di ogni domenica c'era il raduno delle ragazze sul muretto dei Bagni Lido, vicino all'orologio. Erano tutte giovani e carine, con delle gonne larghe di panno e lunghe fino alla caviglia. Erano di vari colori: rosse, nere, verdi, bianche. Avevano tutte scarpe con il tacco a spillo, magliette aderenti e cinture in cuoio alte, molto strette. Alcune portavano anche le calze con le giarrettiere. Accavallavano continuamente le gambe con fare provocatorio, e la fugace visione delle mutande ci faceva imbizzarrire come cavalli andalusi. Io e Fabrizio eravamo molto interessati a quell'accavallio di gambe. Arrivavamo all'orologio prima degli altri e già inferociti.

«Fasciste! Borghesi! Ancora pochi mesi! Non c'è speranza per voi, la lieta novella viene da Oriente, da Mao. Verrà Mao e spazzerà via tutto questo marciume. Poveracce! Ci fate molta pena!»

Le ragazze erano molto impressionate, smettevano di ridere e pensavano: «Ma che domenica ci aspetta con questi due energumeni?».

E mentre noi eravamo lì a urlacchiare come due squilibrati, alle nostre spalle arrivava uno che, senza parlare, ne indicava una e con un gesto della testa la portava via. Poi ne arrivava un altro, sempre in silenzio, e ne portava via un'altra. Poi arrivava un certo Sandro, che ne indicava due e le portava via entrambe.

Ricordo che quelle che venivano chiamate si rimettevano a posto la gonna, si alzavano e salutavano. Dopo un'ora si rimaneva soli come cani, e Fabrizio: «Siamo rimasti soli, hai visto?».

«Poveracce, però! Eh!? Sono andate via con quei cretini. Ma dove possono essere andate?», e qui la voce mi si spegneva quasi in gola.

«A scopare!»

«Poveracce!»

Ho detto poveracce perché noi avevamo, invece, il conforto del mitico appuntamento in cineteca.

Ogni domenica, alle ore 15, un gruppo di sventurati si dava appuntamento in una fetida saletta parrocchiale. Gli intellettuali entravano disperati alle 15 in punto. Alla porta c'era un altro disperato: era il capo della cineteca, il coordinatore, l'organizzatore, il programmatore. Non aveva rapporti sessuali da dodici anni, ne aveva cinquantatré, e praticava, largamente, la masturbazione a due mani.

Gli intellettuali gli domandavano: «Che danno oggi?».

Speravano tutti nel Segno di Zorro o L'infermiera al servizio militare. E lui, carogna: «Dies irae di Cari Theodor Dreyer», uno spaventevole film muto di due ore e quaranta.

Per quattro anni io e Fabrizio, tutte le domeniche, abbiamo avuto il coraggio disperato di subire L'uomo di Aran di Flaherty (cinque ore!) e una rassegna di film muti cecoslovacchi con didascalie in tedesco!

I più scaltri del gruppo appena entrati si attrezzavano: imbracatura da paracadutisti, un grosso gancio a soffitto e prendevano sonno. Ogni tanto durante una di quelle feroci proiezioni qualche intellettuale si sganciava e andava a pavimento: «Già le sette? Mamma portami „l'Unità“ e un caffè d'orzo!». Poi si riprendeva completamente: «Oh! Scusate! Mi ero… mi ero…», si rialzava senza finire la frase.

Finiva la proiezione, luci in sala. Francesco Baratelli, il capo della cineteca, si svegliava con un urlo agghiacciante! Quell'urlo svegliava tutti gli altri e, con tonfi sordi, andavano a pavimento anche tutti gli intellettuali agganciati al soffitto. Un clima di grande attesa. Poi, in un silenzio di vetro, si alzava Baratelli, faceva una lunga pausa e poi, all'improvviso: «Questo che è uno dei più grandi film di tutti i tempi del grande maestro…». Alle parole «tutti i tempi» e «del grande maestro» gli intellettuali urlavano come indemoniati! Questa era la parte più succulenta: il dibattito! Nessuno voleva comunicare qualcosa o dare giudizi, ma solo ben figurare, apparire, terrorizzare gli altri.

S'impossessavano delle ultime parole che arrivavano da fuori: «L'uso del montaggio analogico è geniale!» ululavano, «soprattutto nella misura in cui il grande maestro manda un segnale forte con quella dissolvenza subliminale!». Usavano il cosiddetto sinistrese; se fosse entrato lì un essere umano avrebbe pensato di essere in Cappadocia.

Una sera davano Ciapaiev. Un terrificante capolavoro del cinema sovietico muto. S'erano tutti già agganciati al soffitto quando è entrato Baratelli, faccia da funerale, e con voce rotta ha detto: «Purtroppo vi devo dare una tragica notizia. Non sono arrivate le pizze» alla parola pizze molti hanno mugolato per la fame «del film. Ma non andate via, in sostituzione vi faremo vedere un povero film che c'è qui in magazzino: Quel gran pezzo dell'Ubalda, tutta nuda e tutta calda». L'abbiamo visto tre volte di seguito.

Una tragica domenica di ottobre era programmato La madre di Pudovkin, uno dei film più soporiferi di tutti i tempi.

Il vecchio proiezionista, completamente rincoglionito, aveva messo in macchina prima il secondo tempo non ancora riavvolto e poi, sempre non riavvolto, il primo.

Era un magnifico pomeriggio di sole, c'era nell'aria ancora l'odore dell'estate. Gli intellettuali erano disperati, pensavano alle giarrettiere e alle mutande delle ragazze che scopavano sulle colline. Loro, invece, come topi di fogna, erano condannati a subire l'insopportabile. Nella saletta c'era anche un atroce odore di malga alpina. Solo il due per cento degli intellettuali di sinistra si lavava.

Parte implacabile La madre di Pudovkin.

Prima inquadratura: entra il protagonista, Alioscia; aveva già ottant'anni, era ammanettato; i cosacchi cattivi, quelli con le giacche bianche, lo sbattono contro un muro e lo fucilano. Stecchito!

Gli intellettuali sono disorientati. Si consultano tra loro al buio: «Ma che succede! Hanno fucilato Alioscia…. l'eroe della storia! Sembrava che avesse novant'anni… ma siamo sicuri?».

Seconda sequenza: Alioscia, sui settant'anni, vestito da contadino russo, insegue una popolana che avrà avuto settantadue anni, vestita da contadina russa. La porta dietro una siepe, le alza la gonna e cerca di sodomizzarla. Taglio. Siamo ora sulle rive del Caspio, all'orizzonte biancheggiano le vette del Caucaso. Ed ecco spuntare Alioscia! Avrà avuto al massimo quarant'anni, vestito da contadino russo, sta inseguendo una contadina russa di circa settant'anni (non quella di prima, ovviamente), la porta dietro uno scoglio, le alza la gonna e cerca di sodomizzarla. Finisce il primo tempo in un silenzio tombale.

Secondo tempo.

Alioscia a cavallo sempre sulle rive del Caspio. Avrà avuto ventisei anni, insegue sorridendo un cavallo bianco senza sella. Il cavallo bianco, che non è più giovanissimo, si ferma. Alioscia lo prende per le briglie, lo porta in una stalla vicino al mare, gli alza il gonnellino in cuoio e lo sodomizza.

È sera. Alioscia bambino sta giocando con un fucile a canne mozze, è vestito da bambino russo, spara a un gruppo di cosacchi bianchi, i maledetti controrivoluzionari, e ogni volta che ne abbatte uno fa un segno col gessetto su una piccola lavagna.

Ed eccola, finalmente! La madre! Un primo piano straordinario; sapete quelle facce delle madri socialiste del cinema muto sovietico? Ha una faccia bellissima, ispirata, poi il suo volto si apre in un magnifico sorriso, abbassa gli occhi e la macchina da presa panoramica sul suo ventre. La mamma è incinta, di Alioscia, ovviamente. E poi c'è una splendida dissolvenza sulle montagne innevate del Caucaso.

Fine.

Luce in sala. Gli intellettuali hanno gli occhi pallati, tutti a guardare Baratelli. Baratelli respira a fatica, lo guardano tutti.

«Un momento per favore! Devo riordinare le idee…» Poi minaccia col pugno un intellettuale che lo guarda ansioso: «Mi dii il tempo di pensare, cialtrone!».

Poi, finalmente, un balzo da pantera!

«Questo! Che è uno dei più grandi film di tutti i tempi» si scioglie finalmente la tensione che c'era nella topaia, «dove il grande maestro usa un escamotage geniale, e voi» sottinteso «voi poveracci» «non lo avete capito: fa morire subito il suo protagonista. È questa l'intuizione straordinaria! Lui, Alioscia! Lo fa morire Su-bi-to!»

Era partito ispirato, aveva perso il controllo e ha cominciato a urlare: «Avete capito, imbecilli!? Lo fa morire su-bi-». Non finisce la frase perché dal fondo della sala il vecchio proiezionista gli fa dei gesti disperati. E lui: «Che c'è? Che succede?».

E il vecchio rincoglionito: «Mi scusi» fa con voce da ramarro, «ho fatto una stronzata».

Baratelli con voce da calamaro: «Chi?».

E il vecchio: «Mi scusi. Ho messo prima il secondo tempo e poi il primo».

Baratelli era immobile. Poi, con voce da passero abruzzese: «Prima… il secondo? E poi…».

E il vecchio: «Mi scusi, abbiate pietà di me! Sono vecchio. Se volete m'impicco».

In un silenzio irreale Baratelli tornò al suo posto lentamente. Puzzava come una iena e a mio avviso si era anche cagato addosso. Si lasciò cadere sulla sedia e con la testa bassa disse: «Va bene. Non c'è problema, ce lo vediamo tutto un'altra volta!». Sembrava suor Teresa D'Avila prima di essere portata in manicomio.

* * *

Il periodo più creativo della mia vita con Fabrizio è stato l'inverno in cui le nostre mogli erano incinte.

Ogni notte poteva essere la volta buona.

Siamo stati due settimane in attesa a casa mia, in via Bovio, vicino all'orologio del Lido.

Lui conviveva con la sua chitarra e tutte le notti a strimpellare, a inventare. Erano spettacolini senza pubblico, e ne ho un ricordo fantastico! Che bello sarebbe averli registrati e poterli risentire.

La notte del primo novembre 1962 lui mi fa: «Senti che bello», e me lo fa sentire sulla sua chitarra, «è un canto trovadorico. Mi ci scrivi delle parole?».

In sette notti abbiamo scritto Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers. Era bellissima, completamente diversa da tutto. E quando, molti anni dopo, l'hanno suonata in chiesa al suo funerale, tutti hanno applaudito. E io ho pianto di nascosto.

Era un bambino nervoso, Fabrizio, un bambino bizzarro; gli stava molto stretta la normalità e faceva di tutto per essere anormale, come se lo programmasse scientificamente, quasi con rabbia.

Noi due, in quel gruppo di giovani di una certa classe media benestante genovese, eravamo considerati come pecore nere, devianti. Eravamo anche fieri di quel ruolo che ci eravamo scelti.

Fabrizio aveva paura di essere una persona normale. Ha sempre avuto il terrore di diventare un avvocato di successo, un borghese di successo, una persona normale di successo. Se non fosse diventato un grande com'è diventato sarebbe stato un ribelle, un terrorista, o uno scassinatore di banche. Insomma, una persona assolutamente anormale. Aveva l'animo teppistico dell'uomo contro, contro tutto ma, soprattutto, contro la normalità.

Era un dormitore implacabile, poteva dormire anche fino alle sette di sera. Per svegliarlo, io e un altro amico avevamo messo in atto un sistema terrificante: caduta da tre metri di dieci pentole di alluminio; poi, aprendo la finestra della stanza nella quale si era barricato, due spari di fucile da caccia in aria. Lui non si alzava ma urlava: «Andate via farabutti! Lasciatemi dormire o mi butto in strada!».

Amava il paradosso, il vivere in maniera esagerata, il vivere da artista. L'immagine che ne ha il pubblico è quella di un poeta triste, e invece era di un'allegria e di una simpatia unica. C'era una cosa che ci legava, la grande spinta, la grande voglia di riuscire a emergere. Fin da giovani abbiamo sempre sperato che ci succedesse qualcosa, ma sempre in sordina, sempre parlandone solo tra noi e non rivelando mai a nessuno i nostri grandi progetti per il futuro.

Quando il successo è arrivato eravamo entrambi molto increduli, l'abbiamo vissuto senza quel minimo di competizione e di invidia che in genere hai con le persone alle quali vuoi meno bene.

Un po' di anni fa siamo andati a fare il periplo della Corsica in barca.

Le nostre mogli dormono, siamo in rada a Paragnano, uno dei posti più belli del mondo, è notte fonda e gli domando:

«Faber» come lo chiamavo io, «ma a questo punto mi puoi dire se hai la sensazione di avercela fatta?»

«Guarda, te lo dico perché qui non ci ascolta nessuno. Io credo di essere non un cantante, non un uomo della musica leggera, non un menestrello, non un cantautore, come si dice in maniera riduttiva: io credo di essere un grande poeta.»

Ecco, io vorrei che questo rimanesse di lui, perché lo penso fermamente. Nelle biografie c'è una specie di conformismo nel piazzare tutti in determinate categorie. Fabrizio non è il padre dei cantautori italiani, Fabrizio è uno dei poeti più importanti di questo secolo.

Certo che avere un amico come lui era una fatica e un tormento, ma anche una delizia. Le sue preoccupazioni erano finte, erano teatralizzate, erano autoindotte. Io lo voglio ricordare come uno dei miei amici più fraterni, il mio amico più amico, il mio amico più di vecchia data, il mio amico più simpatico, il mio amico più intelligente, il più genovese dei miei amici, il più caro ma, soprattutto, quello più dotato di grande talento. Ecco, vorrei che tutti lo ricordassero non come Fabrizio De André, il cantante triste, ma come Faber il grande, veramente grande poeta.


Quando abbiamo finito di scrivere Carlo Martello abbiamo deciso di andarlo a vendere a Milano alla casa discografica Ricordi. Lui si era svegliato come sempre verso le nove di sera, non c'erano più treni ne altri mezzi per partire. Allora mi ha proposto: «Chiedo a mio fratello se mi presta la macchina. Glielo chiedo per pietà, gli dico che è un fatto di vita o di morte. Lui capirà. Poi guidi tu, perché io non ho la patente».

Suo fratello aveva una spider gialla, che amava moltissimo, e gli ha detto: «Va bene, però mi raccomando, eh! Se solo la rigate vi ammazzo!».

Siamo partiti alle undici di sera. Al casello di Sampierdarena c'è un frate cappuccino che ci chiede un passaggio. Io vado via dritto cercando anche di metterlo sotto, e Fabrizio: «Ma sei pazzo! Era un cappuccino, forse un sant'uomo. Torna indietro per favore!».

«Ma siamo sicuri? Dove lo mettiamo? Dietro c'è solo spazio per un topo.»

«Ci vado io dietro!»

Inversione a U. Fabrizio nella zona topo e il cappuccino spaparanzato davanti. Dopo seicento metri Fabrizio dice: «Ma che succede? Hai pestato una merda, o ti sei cagato addosso?».

«No!» dico io, e mi controllo con qualche difficoltà le suole dei mocassini. Cominciamo a guardare il frate con una certa ostilità. Poi Fabrizio: «Scusi, padre, ma lei o è malato, o in convento segue una dieta sbagliata».

«Perché mi domanda questo?»

«Ma allora lei ha una malattia al naso!? Mi vien da vomitare! Frena!» dice rivolto a me. «Frena perché mi sembra di essere in un letamaio della Bassa Engadina… sto male!»

Fermo la macchina ai bordi della strada, Fabrizio apre la portiera e dice al frate: «Fuori, per favore. Scenda!».

Il cappuccino con tono da giovane collegiale del Poggio Imperiale di Firenze: «Non la capisco, sa?».

E Fabrizio urlando: «Scendi, porca puttana! Sto male, ho delle visioni, manie di persecuzione e miraggi!».

Lo scaraventiamo fuori.

Alle due di notte siamo arrivati a Milano. Un deserto terrificante. Seguendo le tracce di alcune prostitute in via Larga siamo andati a dormire in una fetida topaia con l'insegna luminosa Grand Hotel Siviglia. Una stella! Il portiere, un certo Fabio, dormiva della grossa. Aveva un alito come se avesse bevuto una tazza di merda.

«Desiderano?», e a Fabrizio, che era più vicino, gli ha fatto una mèche biondo chiaro sul ciuffo.

Era stato, ai tempi di Faruk, portiere al Semiramis del Cairo e ne aveva conservato i rituali. Ha detto: «Chiamo il facchino!», e si è infilato una giacca da facchino.

«Non abbiamo bagaglio» ho detto io, «ci dii una stanza, per pietà.»

«Un momento! Allora dovete parlare con il capo ricevimento», e si è tolto la giacca da facchino. Poi, con voce da tenore turco: «Dite a me! Sono il vostro uomo».

«Una stanza» ha ripetuto Fabrizio disperato, «ci dii una stanza.»

Lui si è infilato una giacca da cameriere a righe.

«Eccomi! Sono il cameriere, vi porto su io.»

Siamo entrati in una stanza di quattro metri quadrati. C'era un odore pestilenziale.

«Qui ci ha dormito quel cappuccino di merda di questa notte!» ha detto Faber preoccupato.

Al Grand Hotel Siviglia c'era un andirivieni di puttane come alla Ginza di Tokyo nell'ora di punta. Arrivavano con clienti di varie taglie ed età ma, soprattutto, delle etnie più disparate. C'era solo una sottile paratia di cartone che ci separava dalla topaia accanto. Era la stanza di una prostituta di origine tedesca.

«Preco, preco! Fieni qvi e si siedi. Non facci quella fiso da pampino.»

Il cliente era un messicano: «Yo soy muy embarazado, yo soy de Vera Cruz. Primera vez…».

«No proplema. Io adesso faccio federe sorci verde. Perché facci pompino.» Dopo venti secondi abbiamo sentito un rantolo. Era come se fossero nella nostra stanza.

«Pviaciuto?»

«Mucho, mucho.»

«Pene, pene. Ora fai fia.»

È uscita quasi subito. Dopo tre minuti è risalita in stanza con un toscano di Pienza, certo Landò.

«Te pviace pompino?»

E il toscano: «Hai voglia!».

«Poi metto anche carota ti tietro.»

Dieci secondi: «Ecco carota!» ha detto lei, e Landò ha fatto una specie di gorgoglìo terrificante.

Sei minuti. Lei risale con un libanese, certo Hassan: «Tu piace pompino?». Passano infruttuosamente nove minuti. Allora Fabrizio si alza, bussa alla parete di cartone e consiglia: «Signor Hassan! Provi con la carota!».

«Ciusto!» ha detto la tedesca. Dodici secondi. Un urlo tipo sirena di traghetto che entra a Ostenda in una notte di nebbia. Lui va via e la tedesca bussa alla parete e dice: «Crazie per consulenza!».

Quella è stata una notte allucinante nella quale siamo stati eletti consiglieri ufficiali di quella signora. Senza mai vederla siamo diventati anche amici. Si chiamava Trudi, era di Amburgo e viveva nella zona di Blankenesen, sull'Elba. Era stata violentata nove volte: dal padre, dallo zio, da sei passanti e, alla fine, anche da un cavallo ungherese. Sconcertata per quell'ultimo episodio aveva deciso di venire a vivere in Italia.


Fabrizio ha dormito fino alle nove di sera. Quando siamo arrivati alla Ricordi i cancelli erano già chiusi. Siamo ritornati verso Genova. Al casello di Melegnano c'erano alcuni camionisti che cercavano di accoltellare il cappuccino. Fabrizio mi ha detto subito: «Scusa se parlo poco ma ho un sonno della madonna!».

Io respiravo a fatica. A Serravalle ho creduto di vedere la Madonna nera di Chestokowa che faceva l'autostop. Ho cominciato a dormire al volante. La macchina, che era intelligente, scendeva lentamente da sola verso il mare. Ma alla curva maledetta di Ronco Scrivia anche la macchina ha perso il controllo: testa-coda lunghissimo, prima la parete in pietra della camionabile di destra, poi la parete in mattoni a sinistra, poi ancora la parete in pietra: due volte, poi abbiamo sfiorato un'autobotte che, per schivarci, è caduta dopo un volo di trenta metri sul fiume Scrivia, poi una cannonata finale sulla parete di mattoni. Ci siamo risvegliati. Eravamo seduti all'aria aperta, c'erano solo i sedili. Avevamo disseminato con pezzi di carrozzeria gialla gli ultimi tre chilometri. Lasciato il cadavere della macchina sul posto abbiamo fermato un camioncino: «Ci porta a Genova, per pietà? Siamo malati!».

«Prego, salite!» ha detto il conducente, un anziano, «così siamo in quattro!» Aveva una maschera antigas della Seconda guerra mondiale. Dietro c'era seduto il cappuccino.

L'indomani era sabato. Abbiamo dovuto svegliare Fabrizio con il sistema delle pentole e del fucile da caccia.

Il fratello gli ha detto: «Dov'è la macchina? Ché voglio andare in Riviera».

Fabrizio ha abbracciato suo fratello e gli ha detto: «Sei veramente un uomo fortunato, sai?! C'hai un culo! Non ci siamo fatti quasi niente. Illesi! Neppure un graffio!».

Il fratello non ha risposto e gli ha sputato in faccia.

* * *

Io ho vissuto due periodi diversi a bordo delle navi della Costa Crociere: il primo, il più felice, da povero; il secondo, da ricco.

De André suonava la chitarra in prima classe, terrificava i passeggeri cantando di morte, di prostitute e di suicidi. Io arrancavo facendo l'intrattenitore. Ero negato. Ho fatto dei disastri memorabili. Il punto più basso: la pesca del cucchiaio nella piscina di prima classe.

«Ed ora» dicevo con il megafono in mano, «butterò sul fondo di questa piscina cento cucchiai d'argento. Il passeggero che riuscirà, tuffandosi senza maschera, a recuperarne il maggior numero, sarà il vincitore e vincerà una bambolina!»

Butto i cucchiai. E la prima volta. Cade in acqua involontariamente Franco Guidi, ottantasette anni di Faenza. Comincio la radiocronaca: «Si è buttato spontaneamente il signor Guidi! Ha già raggiunto velocemente il fondo! Cerca di raccogliere il maggior numero… lo vediamo immobile sul fondo… è sempre immobile… ora non capiamo bene… sono passati sei minuti…». E poi ho urlato: «Stappare la piscina!».

Franco Guidi è stato sbarcato di nascosto a Malaga durante la notte.

Al pomeriggio, tiro al piattello. Megafono in mano: «E ora il signor Farinelli di Alessandria! Lei si è iscritto spontaneamente alla gara di tiro al piattello?».

E lui candidamente: «No! Mi ha iscritto mia moglie a mia insaputa».

E io, un po' preoccupato: «È pratico lei, no?».

«No. Sarebbe la prima volta nella mia vita.»

«Vabbe'! Prenda il fucile e quando io urlo „piatto“ lei lo vedrà volare in alto sul mare e cercherà di colpirlo!»

«Ci provo.»

«Eccole il fucile, guardi che è carico!»

Ho urlato «piatto!». Lui ha sparato con un po' di ritardo e su, in alto, sul ponte di prima classe, ho visto cadere in mare, lentamente, un francese di Nizza. Monsieur Pierre La Tour. Non se n'è accorto nessuno.

«Mancato!» ho urlato io biecamente.

Alla sera a cena, al ristorante di prima classe la moglie, madame La Tour, in lutto stretto rideva sgangheratamente. Si era ubriacata e festeggiava in piedi la scomparsa del marito con tutti i passeggeri.

Siamo nel salone di prima classe, Fabrizio e la sua chitarra suonano La ballata del Michè, la storia di un suicidio. Con una comitiva di francesi c'era un còrso con faccia da pugile, certo Subrini, un nano che a metà canzone ha detto in una poltiglia di còrso e francese: «E basta! Petit con!», che significa coglioncino.

Fabrizio ha smesso di suonare, ha buttato la chitarra sul parquet in legno della pista da ballo, si è piazzato davanti a lui e in un silenzio di marmo gli ha chiesto: «Dove scende?».

«A Cannes.»

«Va bene, io qui ci lavoro e non la posso toccare neppure con un dito, ma lei mi ripete questo a Cannes e allora saranno guai!»

Dieci giorni dopo avevamo dato fondo di fronte alla Croisette e allo scalandrone reale aspettavamo il nano. Fabrizio era nervoso, aveva una pantofola al posto della lingua, c'erano con noi i fratelli Rossi, due orchestrali, i quali hanno detto: «Non vi preoccupate! Siamo qui pronti a massacrarlo!».

È arrivato il nano, ci è passato davanti senza salutarci. Io l'ho fermato prendendolo per un braccio, cioè, non era un braccio, era un fascio di muscoli d'acciaio. Si è voltato e mi ha detto: «Oui, monsieur?».

E Fabrizio a fatica a causa della pantofola: «Lei è molto, molto…». Non ha potuto finire la frase, il nano gli ha dato una testata terribile sul naso. Io sono scappato ignominiosamente. Sono intervenuti i fratelli Rossi: «Guardi che…». Il nano non li ha lasciati finire e ha mollato due cannonate sui denti. Un sinistro e un gancio destro. I fratelli Rossi hanno sputato molti denti sul ponte e il nano li ha raccolti e li ha buttati con tono provocatorio in mare.

Abbiamo saputo dopo che era stato campione di Francia dei pesi topo! I fratelli Rossi hanno passato quasi quattro anni da un dentista di Milano, certo Forini. Un ladro!

* * *

Quando navigavo da ricco, ho fatto una crociera straordinaria con Gassman e sua moglie, Tognazzi e sua moglie, io e mia moglie e Adolfo Celi, che era solo.

Genova, Cannes, Barcellona, Maiorca, Malaga, Tangeri, Cadice, Lisbona, Edimburgo, Reykjavik in Islanda, Capo Nord e poi a scendere tutti i Fiordi della Norvegia. Londra, Amburgo, Rotterdam e in aereo ritorno a Roma. Quarantacinque giorni fantastici. Appartamenti di primissima classe, in ogni appartamento una cameriera e un cameriere a disposizione. All'imbarco a Genova Tognazzi si è subito perso nei meandri della nave. L'hanno cercato con gli altoparlanti e i cani, ma nulla. Dopo tre giorni è risalito a riveder le stelle. Ha detto che l'aveva fatto apposta per farci ridere. Quando l'ho rincontrato era bianchissimo, mi ha abbracciato e ha singhiozzato per venti secondi. Solo due anni dopo in un viaggio in macchina mi ha detto improvvisamente: «Ti voglio dire una cosa. Quella volta, ti ricordi? Quando mi sono perso nelle stive della nave durante la crociera a Capo Nord? Non volevo far ridere, ma ho avuto veramente paura. Le navi sono un autentico labirinto. Ho incontrato passeggeri di altre crociere che erano rimasti intrappolati e le famiglie li avevano biecamente abbandonati. Ho conosciuto due tedeschi anziani che parlavano una neo-lingua: un po' di napoletano, un po' di tedesco e qualche parola spagnola. Erano ormai lì da quindici anni e si erano adattati. Erano diventati quasi ciechi, pupille biancastre da pipistrelli, avevano sviluppato anche loro una specie di sesto senso per evitare gli ostacoli».

Durante la sua assenza c'è stato il party del benvenuto del comandante, un famoso lupo di mare: il capitano Gino Fonelli. Fonelli aspettava i passeggeri in smoking bianco e spadino.

Gassman ha detto: «Io vado a stringergli la mano e mi scuso per l'assenza di Tognazzi. Ti confesso» ha aggiunto con qualche timore, «che ho paura di soffrire il mal di mare». Era tutto vestito di bianco e sembrava, ovviamente, un principe danese.

Fonelli ci aspettava al centro della pista e il primo commissario, con una lista in mano, leggeva i nomi dei passeggeri che gli presentava. Quando è arrivato a Gassman il primo commissario ha detto: «Di questo signore non è necessario che le legga il nome».

Fonelli, stranamente, non riusciva a parlare, era verdognolo, ha fatto un lungo respiro e ha bofonchiato: «Sono feli…». Ha cercato di tapparsi la bocca e poi ha fatto una vomitata di quasi sei metri. Gassman, agilissimo, ha schivato il getto e io, al primo commissario: «Ma che succede?».

E quello: «Speriamo che non se ne accorga nessuno, ma le devo confessare che il comandante soffre il mare come una capra sarda».


Abbiamo cenato senza Tognazzi, e Adolfo Celi, che era ipocondriaco come una vergine armena, mi ha sussurrato: «Sono un po' preoccupato. Andando in bagno ho perso qualche goccia di sangue».

L'ho subito rassicurato: «Non ti preoccupare, è certamente un tumore al retto! Domani a Barcellona, mentre gli altri vanno a visitare la città, ti porto alla famosa clinica del professor Barraquena».

La nave ha attraccato a Barcellona alle cinque del mattino. Alle sette ero con Celi in un taxi nero con una striscia rossa che correva a gran velocità verso il centro tumori. Avevo fatto telefonare dalla nave; sulla porta dell'ospedale era già pronto il famoso chirurgo oncologo spagnolo, Clementino Fraga, già vestito da operazione. Ha abbracciato Celi e gli ha detto solo: «Coraggio!».

Celi è rimasto a Barcellona in cura da Clementino Fraga quasi tre settimane. Erano semplici emorroidi. È ritornato a Roma in autobus, seduto su un salvagente sgonfio, era inferocito, perché aveva paura dell'aereo.

Il capo commissario, durante l'avvicinamento all'Islanda, mi ha detto con un giro di parole molto elegante: «Senta, Villaggio, voi siete ospiti assoluti, ma se non fate qualcosa vi sbarco a Capo Nord».

Ho fatto un summit e ho detto: «Ragazzi, siamo stati pregati di sdebitarci con una piccola e semplice esibizione. Celi non c'era, gli stavano facendo un'umiliante rettoscopia pubblica nell'aula magna dell'università di Barraquena di fronte a milleseicento studenti».

Tognazzi ha detto: «Io preparo i fusilli alla carbonara per tutti»; e Gassman: «Io potrei fare il salto mortale sopra sei passeggeri sdraiati per terra, ricadere in piedi e succhiare da un tavolo sei budini di crème caramel!».

Si è cominciato con Tognazzi. L'animatore di bordo ha detto: «Signori, domani avremo il piacere e l'onore di mangiare i famosi fusilli alla carbonara di Ugo Tognazzi!». Lungo applauso.

L'indomani alle 19,40, tutti seduti a tavola per una serata che si annunciava entusiasmante da un punto di vista culinario. Tognazzi faceva, malamente, dei fusilli al massimo per sei persone: sei uova, tre etti di parmigiano, un po' di pepe, due etti di pancetta. Buttava i fusilli in quella specie di impasto e serviva caldo a tavola. Poi un pizzico di pepe.

«Quanti sono i passeggeri?» ha domandato Tognazzi al capo cuoco giù nelle cucine. E quello: «Ottocento!». E lo ha guardato con disprezzo, perché sapeva a quale disastro andava incontro.

È stata, dopo quella del Titanic, la più spaventosa tragedia di una nave passeggeri. Alle sei di sera hanno portato: ottocento uova, dodici forme di parmigiano, quattrocento chili di fusilli, quaranta chili di pancetta e due sacchi di pepe nero.

Tognazzi, ormai, era fisicamente irriconoscibile. È caduto due volte sul pavimento viscido della cucina mentre cercava di mescolare, con un mestolone di legno di sei metri, i quattrocento chili di fusilli. E il capocuoco, carogna: «Il sale non lo mette?».

«Ah! Già!» ha ridacchiato lui. «Sale!»

Ha sollevato con molta fatica un sacco di sale marino da trenta chili. È caduto nell'acqua, fortunatamente ancora tiepida, con il sacco e tutto. Era vestito da cuoco. Questo alle otto di sera. Alle undici i passeggeri urlavano come iene del Serengeti: «Assassini! Basta! Abbiamo fame!».

È stata la più grande sconfitta di un cuoco dilettante. Tognazzi è entrato alle undici preceduto dai sei camerieri con le pentole, aveva il cappello da cuoco, ma era in canottiera e mutande. Era un relitto umano. Si è inchinato ed è stato subissato da un mare di fischi: «Criminale!» urlavano tutti. «Vigliacco! Ci hai rovinato la crociera!»

I fusilli alla Tognazzi erano un enorme magma di pasta giallognola fredda. Poi al centro sala si è ricordato: «Ah! Ci vuole un pizzico di pepe!». Gli è caduto un intero cartone di pepe nero nella pentola del comandante.

Allora ha capito ed è scappato verso le lontane cabine di terza classe.


Il debutto di Gassman, la sera stessa in seconda classe. Io ho fatto sdraiare per terra sei passeggeri, su un tavolo avevo fatto piazzare come richiesto sei budini di crème caramel.

Gassman è partito con molto coraggio lanciando un urlo speciale. Purtroppo aveva sottovalutato il fatto che non eravamo sulla terraferma, ma che la nave aveva un leggero rollio. Doveva ricadere in piedi, ma è andato giù di nuca. Si è rialzato stordito ed è andato verso i budini. Ne ha succhiato uno e a metà del secondo ha vomitato.

I passeggeri hanno applaudito mentre lo portavano via a braccia.


Gli anni più felici della mia vita sono stati gli anni Settanta. Quelli del successo. Mio compagno di viaggio: Vittorio Gassman. Con lui ho fatto il mio primo film, Brancaleone alle Crociate, e poi altri sei, dei quali tre in Spagna. Questi erano meno belli, ma noi siamo stati felici lo stesso.

Alle sette del mattino si usciva con una Cadillac scoperta per andare al lavoro e si attraversava una Madrid deserta, con le autobotti che innaffiavano le strade. Ci si fermava alla Puerta del Sol al Museo del prosciutto, e con un pezzo di pane si mangiavano tre fette tagliate a mano del mitico Jamón de Cabugo, il più buono del mondo. Poi, Alcalà de Henares, con le cicogne sui campanili delle chiese, le ragazze spagnole con i capelli neri e alcune erano bellissime. E le angulas sui tegamini di terracotta e il solomillo di Casa Paco dove andavamo tutte le sere. E ci sono ancora le nostre foto da giovani alle pareti.

Una sera tornavamo dal lavoro anche con Mario Gori, il produttore del film. Si tornava da Toledo verso Madrid e ci siamo fermati varie volte a mangiare le fragole lungo la strada polverosa di Aranjuez. C'era un magnifico tramonto quando siamo arrivati a plaza de la Republica Argentina, dove c'era una fontana con molta acqua e dei delfini in bronzo che si tuffavano dentro. Il vecchio Gori, che era un atroce raccontatore di barzellette, ha detto: «Ve ne racconto una…».

«Fermo!»

Gassman è balzato in piedi, è saltato fuori dalla macchina senza aprire la portiera e si è buttato nella vasca. Ha nuotato un po' sott'acqua poi è riemerso e ha detto: «Scusatemi, non sopporto le barzellette».

Non c'è mai stato un anno così, perché lui è uno degli amici più divertenti che ho conosciuto nella mia vita.

Eravamo stati invitati a cena dall'ambasciatore italiano a Villa Italia, a Madrid. Il vino spagnolo, straordinario. Nel salone c'era un tavolo di cristallo enorme, sul cristallo c'erano almeno quaranta fotografie in cornici d'argento. Il re di Spagna, Saragat, il papa e poi centinaia di ninnoli d'argento, elefantini, candelabri e una stupenda lampada liberty di grande valore. Entriamo tutti. Gassman aveva tracannato quasi due caraffe di Riocha, un vino rosso quasi allucinogeno. Vicino al tavolo c'era una magnifica poltrona basculante di cuoio bianco. Si è seduto con violenza ed è andato all'indietro a forbice! Allora si è ancorato al cristallo e, cadendo con trenta chili di argento e cento milioni di lampada liberty, ha urlato: «Non vi preoccupate! Rispondo di tuttooo!».


Un Natale lo abbiamo passato tutti nella sua villa di Velletri. C'erano Marco Ferreri, Ugo Tognazzi, Luciano Salce, Sergio Leone, Volonté, le mogli bardate come alberi di Natale, tutti i figli e, soprattutto, Diavolo, il terrificante cane lupo di Tognazzi. Dopo cena si è alzato un po' di vento che fischiava attraverso il fogliame. Le nubi cominciano a oscurare la luna, i figli più piccoli a dormire. Un'atmosfera degna di Passo Borgo in Transilvania.

Gassman è seduto in poltrona vicino al caminetto acceso, un bicchiere di cognac in mano. Fuori si sente un ululato terrificante. Silenzio di tutti i presenti. Altro ululato, questa volta lunghissimo. Gassman abbassa gli occhi, accucciato a fianco alla sua poltrona c'è Diavolo, il cane lupo, che dormicchia. Lui si alza, butta il bicchiere di cognac nel fuoco e urla al cane: «Ma, allora, se non sei tu è… mio figliooo!».


Poi ci sono due capodanni a Cortina d'Ampezzo molto divertenti, molto allegri, entrambi in casa di nostri amici napoletani. Nel primo io compivo sessantuno anni, e nel secondo sessantatré. E lui mi ha scritto e mi ha letto queste due lettere.

La nostra è un'amicizia di frontiera:

qualche volta ci incontriamo al confine,

entrambi ricchi di solitudine vera che l'uno all'altro rende caro e affine.


Tu ti presenti al dazio in carovana con sessantuno bauli colorati; io ho un nécessaire pieno di fogli appuntati:

e nessuno dei due paga dogana.

Un giorno, Paolo, rifaremo un viaggio con un bagaglio alfine unificato: tu userai il mio rigore un po' malato,

io la fragilità del tuo coraggio. Auguri!

Vittorio

A Paolo per il suo 63° anno Ricordi? Ti scrissi anni fa pochi versi per il tuo compleanno.

Valgono ancora; e tuttavia si sa le cose della vita come vanno.


Oggi la mia mano è più fievole, ma l'affetto no: vale ancora quel couplet non svenevole che ti scrivevo allora.

Riprendi quell'augurio come viene e non volermene se la mia musa si è fatta un po' ripetitiva e confusa:

ti voglio ancora lo stesso tipo di bene.

Perché qualcosa di più nuovo si aggiunga avrei bisogno di una pausa più lunga.

Ecco, magari compi un anno ogni tre:

conviene a tutti, e soprattutto a te.

Vittorio

* * *

«So' preoccupato. So' molto preoccupato.»

Era la voce di Marco Ferreri. Parlava una poltiglia di romanesco e di dialetto del lago di Lecco, dove era nato.

«Preoccupato di che?» ho domandato io.

«Non me fa' domande. Te dico solo che so' molto preoccupato.»

Era febbraio.

Ad aprile una notte in casa sua in piazza Mattei a Roma, senza preavviso, di colpo ha riattaccato: «So' veramente preoccupato».

Eravamo in cucina con la televisione accesa.

«Ma preoccupato perché?»

«Te vedo pallido. Me pari un po' stanco.»

«No, sto benissimo, Marco.»

«Sta' a sentì. Tu non te ne accorgi ma io el mal sottile lo conosco» lui era veterinario «non lo devi sottovalutà.»

Un mese dopo a Parigi stavamo girando Non toccate la donna bianca. Al ristorante cinese Le Mandarin: «Sta' a sentì. Finito qua, namo in Corsica sul Cochecito» era la sua barca «così te riprendi».

Venti giorni dopo salendo in barca mi fa: «So' costretto a darte la stanza padronale, così dormi meglio».

«Ma no… non è il caso, davvero.»

«Per favore! Fa' come te dico.»

Sono le dieci del mattino dopo, siamo ancorati di fronte all'isola più bella del mondo: Lavezzi, in Corsica.

Bussano alla porta della stanza padronale. Dormivo. «Chi è?»

«So' io!»

Entra con il vassoio di una colazione trionfale: «Ce so' tre soli! Magna, magna, che te fa bene!». E, dopo una pausa: «So' preoccupato… ho paura che ti amministri male».

«No… non ti preoccupare, è un mio momento straordinario, guadagno molto…»

«Sei sicuro? Quanto c'hai in banca?»

«Molto» dico io.

«Allora damme subito tre milioni, che so' strozzato e devo pagà i marinai, che se no me buttano a mare!»

Gli ho fatto un assegno.

Il direttore della sua banca m'ha telefonato la settimana dopo: «Mi scusi, lo conosce bene lei Marco Ferreri?».

«Certo! È un mio amico. È un genio.»

«Sì, vabbe'» fa il direttore, «ma sa cosa mi ha scritto dietro il suo assegno? „E per me girate finché volete, che tanto non c'ho una lira!“.»


Quando Bernardo Bertolucci ha vinto nove Oscar con L'ultimo imperatore eravamo a casa di Marco in Corsica, a Ciappili. Accendo la televisione, RaiUno, e compaiono i nove vincitori che alzano gli Oscar al cielo. Avevo il telecomando in mano e passo subito alla seconda rete. Lui non protesta. La prima immagine: i nove che si abbracciano con gli Oscar in mano. Terza rete. Lui non dice nulla. Compare Bertolucci con i nove Oscar sul tavolo di casa sua a Los Angeles. Faccio sette cambi: Canale 5, Rete 4, Italia 1, Antenne un e Antenne deux, e la Cinq francesi. Sempre Bertolucci in una foresta di statuette. Alla Cinco spagnola Bertolucci intervistato da quaranta giornalisti americani. Chiudo.

Lui è di marmo.

Passano sei giorni infruttuosamente. E non abbiamo mai parlato di cinema, che era il nostro argomento preferito.

Ora sono le sette di sera, siamo vicini alla grotta Lo Sdragonato a pescare sul mio gozzo. Il mare è uno specchio, il sole è tramontato, i gabbiani ci svolazzano intorno con degli stridolii. Aspettano che noi si peschi almeno un'occhiata. Un lungo silenzio, era un momento veramente magico.

E lui, di colpo: «A me de quel là, non me ne pò fregà de meno!».

Non gli ho mai domandato di chi stava parlando.

Abbiamo tirato su le lenze e siamo andati a cena alla Caravelle.

* * *

Ugo Tognazzi aveva fama di grande cuoco, fare la cucina era la sua salvazione, un parafulmine senza il quale sarebbe finito alla fossa dei serpenti di Colorno, il rinomato manicomio femminile che aveva ospitato la Cianciulli, la Saponificatrice, e Rina Fort, la belva di via Rivale. Era pieno di buona volontà, ma non aveva il minimo senso delle misure. Insomma, non aveva assolutamente la vocazione del cuoco. Solo una tragica voglia di farlo. Tragica perché seviziava i suoi ospiti. Gli ho visto fare fette di mortadella panata con prosciutto e scamorza e maial tonné. Gli ospiti nuovi si abbuffavano, poi scomparivano dalla circolazione per alcuni giorni; altri, per sempre.

Un giorno mi ha telefonato: «Ho ucciso il maiale, faccio una cena».

«Ma quale maiale? Non hai mai voluto un maiale a Velletri.»

«No. Difatti l'ho ucciso vicino a Faenza, con l'automobile.»

Era stato circondato da un gruppo di contadini inferociti con roncole e forconi. Aveva una spider, ed era tornato con il maiale morto cinturato al suo fianco. Lo aveva dovuto comperare. Conservava tutto quello che gli regalavano in un gigantesco refrigeratore a casa sua a Torvajanica. Una volta a Ferragosto nel menù ha scritto: colomba pasquale con fette di panettone natalizio alla panna acida, brodetto di fagioli con le cotiche all'osso di Gigetto. Gigetto era il maiale investito a Faenza quasi tre anni prima.

La sua malattia proseguiva a passi da gigante. Aveva deciso di fare ogni venerdì la cena dei dodici apostoli. Aveva invitato dodici amici, fra i quali Benvenuti e De Bernardi, Mario Monicelli e altri. La cena si doveva chiudere con una votazione segreta. Queste le possibilità per ogni piatto: straordinario, ottimo, buono, sufficiente, cagata, grandissima cagata.

Lui era rimasto durante tutta la cena sulla porta della cucina a spiare ansimando le reazioni dei commensali. Viveva un momento di tensione terribile. Alla fine è passato con un bacile d'argento. Era vestito da cuoco e leggeva il menù, e per ogni piatto diceva: «Signori, si vota!» e passava a raccogliere i biglietti.

Alla fine prega Leo Benvenuti, che aveva la voce da attore, di leggere i risultati.

Primo piatto: tre insufficienze, cinque cagate e quattro grandissime cagate.

Secondo piatto: dodici cagate.

Terzo piatto: due cagate e dieci grandissime cagate.

Lui ha interrotto la votazione in silenzio, ha raccolto i biglietti e li ha chiusi in un busta.

E io: «Ma che te ne fai?».

«Lasciami perdere! Li porto da un grafologo.»

Sulla porta, quando stavamo andando via, si è accorto che Mario Monicelli aveva raccolto dei reperti della cena e gli ha domandato: «Dove li porti?».

E Monicelli, feroce: «All'istituto italiano di criminologia. Voglio sapere se si può fare qualcosa!».

* * *

Un anno, a Bologna, stavamo girando con Pupi Avati La mazurca del barone, della santa e del fico fiorone. Alla fine della lavorazione avevamo deciso di andare al cinema Arena del Sole. Eravamo con una strafiga sulla quale Tognazzi voleva fare colpo. Si era vestito da ragazzo: pancera sotto il maglioncino, scarpe con tacco mascherato e un po' di rimmel agli occhi.

Arriviamo alla cassa e lui: «Tre, per favore» trattenendo il respiro.

E la cassiera, carogna: «Due adulti e un anziano?».

Lui si è inalberato e ha urlacchiato di fronte a tutti: «Ma che te frega! Scema!».

«Volevo farla risparmiare!»

«Ma risparmiare che cosa!» ha urlato. «Ma va' a da' via i ciap!»

Si è voltato, mi ha preso per un braccio e m'ha detto: «Vieni, andiamo via. Mi è passata la voglia di andare al cinema».


Nel film di Avati c'era una giovane attrice che gli piaceva molto e che gli ha domandato: «Domani posso venire a Roma con te e Villaggio in macchina?».

Lui aveva una spider rosa a tre posti anteriori che si chiamava Matra. Era piena di gadget e di trucchi infernali che lui non riusciva a controllare. Partiamo la sera di sabato. Lui guidava, era felice e ciarliero come un quindicenne innamorato. La ragazza era al centro. Dopo Bologna lui dice: «Vi dispiace se fumo?», e si mette in bocca una sigaretta. E alla ragazza: «C'hai d'accendere?».

E quella, che era povera, tira fuori dalla borsetta un Cartier d'oro. Glielo passa, lui accende, spegne con una soffiata e butta l'accendino dal finestrino.

La ragazza è rimasta pietrificata e poi, quasi piangendo: «Il mio Cartier…».

Abbiamo fatto una paurosa inversione a U. Era notte fonda, e dopo un'ora abbiamo abbandonato le ricerche.

A duecentoventi chilometri da Roma la ragazza singhiozzava ancora debolmente. Lui si mette una sigaretta in bocca e dice: «Nessuna paura! Accendo con l'accendino dell'auto», e schiaccia un bottone a caso. Si chiudono entrambi gli sportellini dei fari e nel buio più completo lui perde, urlando, il controllo dell'auto e cominciamo il più lungo testacoda della storia dell'automobile. Trovato l'interruttore dei fari ripartiamo.

Si ferma a un distributore: «Il pieno, per favore! Posso pagare con la carta di credito?».

Il benzinaio, che dormiva, aveva una faccia da killer e io gli sussurro: «Ti conviene, però, dargli un po' di mancia».

Quando quello restituisce la carta di credito lui tira fuori dal portafogli un biglietto da centomila lire: «Non c'ho il resto».

«Tenga tutto!»

«Grazie, signor Tognazzi, veramente grazie! Lei è proprio straordinario!»

Ripartiamo, e lui: «Avete visto che esagerazione? Ma vi rendete conto? Per diecimila lire?».

E io con molta prudenza: «Ugo, guarda che gliene hai date cento!».

Lui fa una frenata di quaranta metri. Controlla nel portafogli.

«Torniamo indietro!»

La ragazza ricomincia a singhiozzare. Il distributore era chiuso. Siamo andati per campi a suonare nei casolari. Una contadina, addormentata, da una finestra ha detto: «No! Il benzinaio non abita in zona. Torna lunedì!».

Ancora verso Roma. Albeggia. Vedo che lui comincia a stringere il volante in maniera innaturale, ansima leggermente.

«Che succede?» gli domando.

E lui, con voce da suora: «E stato quel maledetto yogurt gelato che m'ha fatto bere questa scema al grill di Sasso Marconi», e ha indicato con la testa la ragazza al suo fianco.

«Ce la fai?»

E lui, rantolando: «Non lo so. Ho dei dolori tipo parto. Ancora tre minuti e sono spacciato!».

Fortunatamente, in fondo al rettilineo, quasi un miraggio. Un distributore aperto. Lui si ferma, scende a fatica, e camminando alla Frankenstein va verso il bar illuminato. Ansima penosamente e dice al barista semiaddormentato: «Abbiate pietà, la toilette?».

Quello gli fa un gesto villano con la testa. Si trascina quasi ululando verso una porticina, entra e accende la luce. C'era solo un piccolo lavabo.

Dopo un'ora entro al bar con la ragazza a cercarlo. Eravamo preoccupati. «Ha visto dove è finito quel signore?» E il barista, sempre incazzato, indica la porticina. Busso sommessamente. «Tutto bene?» La sua voce sembrava quella di un dromedario. «No. Una tragedia. Mi sono cagato completamente addosso!» «E allora?»

«Andate avanti voi… lasciatemi morire qua. Ci vediamo a Roma… fra cinque anni.»

* * *

C'è stato un periodo che Gian Maria Volonté stava sempre nella mia barca a Bonifacio. Era inverno, il tempo magnifico. Una mattina siamo arrivati con il mare completamente piatto a Sainte Florence.

Volonté ha detto: «Che meraviglia! Questo posto è il più simpatico della Corsica!».

Sulla banchina c'era un tizio. Gli abbiamo tirato le cime di poppa: «Siete italiani? Sono Franco Bartoni di Aosta!».

Abbiamo ormeggiato e siamo scesi; e lui, con accento piemontese: «Eccolo qua! Monsù Volonté!». Sembrava un atroce imitatore di Macario. «Son passati i tempi belli! Eh! Ormai siamo alla frutta! Un tempo sì che faceva dei film importanti. Purtroppo ora… lei mi fa molta pena, sa? Lei mi fa molta pena, sa?»

Volonté mi si è avvicinato e mi ha sussurrato all'orecchio: «Ti prego, andiamo via. Non vorrei fare una sciocchezza!».

Ci siamo staccati e quasi a tutta manetta siamo scappati senza salutarlo. Lui correva sulla diga e urlava: «Volonté, lei mi fa molta pena, sa?! Lei fa veramente pena, sa?!».

Quando eravamo fuori dal porto, abbiamo visto che quello si avvicinava a un'altra barca con bandiera italiana. Sono venuti fuori i passeggeri, uno scambio di parole e, tolti gli ormeggi, sono scappati anche loro.

In serata, era la vigilia di Natale, siamo arrivati a Cala Gavetta alla Maddalena dove Volonté abitava anche d'inverno.

«Ho un'idea splendida» mi ha detto. «Facciamo Natale qua. Un Natale pagano» ha aggiunto poi sorridendo. A casa c'era la sua compagna di allora, con il fratello.

«È un filoamericano di merda…» m'ha detto, «ma a Natale me lo devo sorbire tutto fino in fondo!»

Il mattino dopo era la Vigilia. Alle sette Volonté ha detto: «Vi voglio preparare il tacchino!».

E siamo usciti.

«Ma dove lo trovi un tacchino natalizio qui sull'isola?»

«Purtroppo alla base americana. Quegli stronzi ne hanno centinaia in questo momento. Sono tacchini del Kentucky da quaranta chili.»

All'ingresso della base lui si muoveva con la prudenza di un commando israeliano per le vie di Bagdad: non voleva farsi vedere dai locali. Si è avvicinato alla sentinella e a testa bassa: «Scusmi, italian turist, possibol tacchin americano? Pago con dollar».

E la sentinella: «Ehi Paisà! Paesano mio! Io ti conoscio. Entrate!».

Per avere il tacchino americano lui ha cercato ignominiosamente di fare il simpatico. Un colonnello dei marine che sembrava John Wayne ha detto: «Questo è famoso fantasista napulitano! State a vedere!». Ha schioccato le dita e ha detto: «Napulitano, fai ballo dell'orso!».

Lui mi ha dato un'occhiata come per dirmi: «Ti scongiuro, non lo dire mai a nessuno! Ma ho bisogno di quel tacchino!». Ha ballato una tarantella tragica, senza musica, per quasi tre minuti. Poi John Wayne: «E ora canta Ai zole mio!».

Lui, in un silenzio orrendo, ha cantato O' sole mio e I' te vurria vasà. È stato un trionfo!

E il colonnello:

«Che avevo detto? Taliano fa sempre paliaccio! Dice cosa e fa altra, mai dice ferità, ma sempre canta: baffi neri, chitarra e mantolino!»

Volonté ha ringhiato sommessamente: «Ma quale mandolino?! Merdaccia!». Vibrava tutto come se fosse in una rampa di lancio, stava per partire con una serie di epiteti e io l'ho stoppato con un'occhiata. Sono arrivati due marine con un tacchino bianco da quarantasette chili, legato al guinzaglio come un cane.

«Vi ringrazio tutti» ha detto Volonté, «siete tutti delle persone straordinarie!» Sorrideva, ma aveva un po' di fiele agli angoli della bocca. Mentre si allontanava il colonnello gli ha urlato dietro: «Ciao, paliaccio! Torna quando vuoi!».

L'attraversamento della Maddalena con il tacchino è stata una delle umiliazioni più grandi della sua vita. I maddalenini ridacchiavano sguaiatamente e lui con il tacchino al guinzaglio: «Poi vi spiego! Poi vi spiego!», e sommessamente aggiungeva: «Stronzi maledetti!».

Non abbiamo avuto il coraggio di ucciderlo, era un tacchino longevo. E vissuto altri dodici anni, e quando lui non c'era, dormiva sul suo letto. L'avevamo chiamato: Paliaccio Taliano.


La primavera dopo abbiamo passato quasi un mese nella cucina della casa di Mario Ceroli, la casa era una reggia e Ceroli il più grande scultore italiano vivente.

Eravamo in molti, tutti seduti a un lungo tavolo di legno, ma c'era, soprattutto, Paul Chaland, uno scrittore parigino che aveva tradotto i miei libri in francese. C'eravamo inventati che quella non era una cucina, ma un vagone della Transiberiana in viaggio verso Omsk. Arrivavano amici e ne andavano via altri. Ci eravamo dati tutti dei nomi russi e turkmeni, ma Volonté chiamava tutti tovarisch. Si commentavano i panorami indimenticabili che si vedevano dai finestrini. Eravamo tutti entusiasti e felici. Al sesto giorno di viaggio, Paul Chaland ha detto improvvisamente a Volonté: «Lei, tovarisch, ha degli occhi da cervo!». E poi, timidamente: «Sei mai stato con un uomo?».

Il compagno Volonté non ha risposto e intanto arrivavano amici che venivano accolti con abbracci e gridolini di felicità. Quando siamo arrivati allo splendido lago Bajkal, che è il più profondo e il più azzurro del mondo, Volonté ha detto: «E il posto più bello che abbia mai visto!

Io scendo qua». Si è alzato, Paul Chaland l'ha abbracciato a lungo e gli ha detto: «Addio, Cervo!». E ha singhiozzato spudoratamente.

* * *

Io e mio fratello non ce lo siamo mai detto, ma nella vita abbiamo avuto una grande fortuna: crescere con un padre intelligente.

Lui, invece, ha avuto una grande sfortuna: vivere gli anni più belli durante una tragedia stupida e inutile come la guerra.

Lo diceva spesso: «Vedete, la guerra è la logica più stupida inventata dall'umanità. Non risolve mai i problemi, perché la violenza genera solo altra violenza. Io mi auguro che le cose cambieranno, e che la guerra diventerà una soluzione impensabile, un tabù, come l'incesto».

Insomma, negli anni più belli per un uomo, quelli dai trenta ai quaranta, lui non ha potuto leggere i libri che desiderava, né ascoltare la musica che gli piaceva, né viaggiare, né dire quello che pensava. Ma ha subito l'oscuramento, il coprifuoco, la censura, la stupidità di un regime volgare e, soprattutto, la guerra: la più grande tragedia che possa capitare a una generazione.

Quando io e mio fratello eravamo piccoli, un'ora a colazione e un'ora a cena le passavamo con lui. Era un grande affabulatore, coltissimo, astronomo dilettante.

D'estate, poi, si cenava sul terrazzo in riva al mare, sotto una tenda verde che ci proteggeva dall'umidità. Non era ancora successo quello che è successo: l'inquinamento, le automobili, e quella tragedia che è stata la dittatura della televisione.

Non era mai noioso. Una volta ci ha raccontato una fiaba che mi ha molto colpito: «C'era una volta un viaggio in treno. All'inizio si canta tutti, si è amici di tutti e sai i nomi di tutti i passeggeri del tuo vagone e anche dei vagoni vicini; a ogni stazione ne salgono di nuovi e fuori il paesaggio è stupendo. Sembra sempre estate e ci sono montagne, e alberi, e prati. Il treno avanza lentamente e avresti voglia di scendere a ogni stazione dove vedi delle belle ragazze. Poi il treno comincia ad andare un po' più veloce e si ferma più raramente. E poi così veloce che vedi a stento il paesaggio che stai attraversando e non riesci più a ricordare i nomi delle stazioni. Molti passeggeri scendono e a salire, ormai, sono in pochi.

Il treno ad un tratto si ferma in aperta campagna. È il tramonto, ti volti in giro e vedi che sei solo in tutto il vagone. Alle tue spalle compare il conducente. E tutto vestito di nero e non gli si vede la faccia: „Signore! Deve scendere, il viaggio è finito!“. Tu guardi fuori dal finestrino e vedi che non c'è nulla. Solo buio».


E lui, in quelle serate, a parlare, e raccontare… soprattutto di stelle, di galassie, di Betelgeuse e di Antares, che era la stella più grande.

Aveva una tale voglia di essere felice che, nonostante le condizioni proibitive, ce l'ha fatta. E riuscito ad aggirare l'ostacolo. E ha quasi pianificato di innamorarsi della segretaria, una certa Flora. Occhi neri, capelli corvini, molto giovane, molto allegra ma, soprattutto, molto formosa.

Ricordo che una volta mi sono appiattato nel suo studio per vedere come passasse le giornate. È entrata la ragazza e lui si è acceso: «Flora, guardi fuori come è sempre affascinante questo mare invernale. Mi piacerebbe molto fare una lunga passeggiata con lei a piedi nudi sul bagnasciuga. Perché le confesso che la sua presenza, nonostante la guerra, mi rende…», e lì è entrata mia madre e lui ha fatto una scivolata d'ala e con voce triste ha continuato, «… profondamente infelice». Mia madre è uscita con la faccia un po' incredula e lui è ripartito: «Mi piacerebbe anche passeggiare con lei sotto gli ulivi delle colline di Sant'Ilario e leggerle pagine da Memorie del sottosuolo di Fedor Dostoevskij; perché, vede, io mi identifico in quel paradossale protagonista…». Si è accorto della mia presenza dietro la tenda: «Che fai lì! Nascosto come un sorcio! Vattene via, non vedi che sto lavorando?».

Aveva sviluppato nonostante tutto una gran voglia di vivere. Un sabato sera, all'inizio della primavera, ha detto: «Domani viene a prenderci Sarteschi con la sua macchina. Andiamo ad Arenzano a mangiare le fave e il formaggio bianco della Colletta».

E mia madre: «No… no, non me la sento, sono momenti molto brutti. Vai con i bambini, se vuoi».

L'indomani mattina alle otto è arrivato Sarteschi strombazzando. Era un avvocato che viveva da solo.

Siamo corsi giù in strada, lui era al volante di una Millecinquecento bianca decappottabile, sembrava un'astronave. Siamo partiti, Sarteschi al volante, mio padre al suo fianco e noi bambini dietro. Non c'erano le autostrade, e viaggiavamo sull'Aurelia piena di curve, ma anche piena di fiori: glicine, mimose e bouganville di vari colori.

Mio padre era felice e cantava: «Ma l'amore nooo! L'amore mio non puòoo…».

E Sarteschi: «E allegro oggi, eh, ingegnere?».

«Sì, lo confesso, ma non so per quale motivo.»

Io lo sapevo benissimo.

Ed ecco un rettilineo con una ventina di ciclisti dilettanti che si allenava. Sarteschi ha suonato timidamente il clacson e quelli nulla, non lasciavano passare. Ha suonato ancora. Niente.

Allora mio padre che era un tipo fumantino, strombazza varie volte e a Sarteschi: «Superi!». E mentre sorpassiamo il gruppo urla: «E levatevi di mezzo! Stronzi!», e ha sputato. Poi, con voce da topo e con una certa ansia, dice a Sarteschi: «Veloce, veloce! Vada più veloce!».

In fondo al rettilineo una curva e subito dopo un passaggio a livello chiuso. Arrivano i ciclisti, e in un silenzio orrendo lo estraggono ancora vivo dalla macchina. Uno gli ha sparato subito una cannonata sul naso, lui è caduto giù come un cencio, lo hanno tirato su. Hanno cominciato a fargli la vite al naso e alle orecchie, e poi ginocchiate rimbombanti sul costato. Lui diceva flebilmente: «Moderate le parole, cerchiamo di spiegarci civilmente».

E mentre ricadeva giù sull'asfalto gli urlavano: «Vigliacco! Tu sei un povero vigliacco! Una merdaccia!».

Io e mio fratello eravamo esterrefatti. Gli hanno strappata, quasi strozzandolo, la cravatta. Si è alzato il passaggio a livello e i ciclisti si sono involati. Lui era con la faccia a terra, gli avevano anche strappato entrambe le maniche della giacca. Sarteschi è sceso per tirarlo su.

«Tutto bene, ingegnere?»

Lui è risalito in macchina in silenzio, perdeva sangue dal naso e aveva perso anche una scarpa.

Sarteschi: «Come va, ingegnere?».

E lui, con una voce che non era la sua: «Benino».

Abbiamo fatto un'altra decina di chilometri, lui si passava la mano sul viso, si è voltato per rassicurarci ma era una maschera di sangue. Poi ha detto a Sarteschi: «Si fermi un attimo, devo vomitare». Ha vomitato solo una bava verde ai bordi della strada ed è tornato in macchina: «Sarteschi, mi scuso moltissimo, ma mi sovviene che avevo un impegno di lavoro molto urgente. Abbia pietà, mi riporti a casa».


Lui sentiva tutte le notti il colonnello Stevens da Radio Londra. Le notizie dal fronte erano molto incoraggianti. Stavamo perdendo la guerra e mio padre commentava: «Speriamo bene. Sinceramente non ne possiamo più.»

La mattina del 25 aprile 1945 la guerra è finita. Di colpo, quasi in maniera inaspettata. Fuori una strana atmosfera: tutto fermo, immobile, le strade deserte. Lui stava a spiare da una fessura della tapparella scorrevole quello che succedeva. Io e mio fratello, in piedi su due sedie, eravamo al suo fianco. Abbiamo visto arrivare una motocarrozzetta mimetizzata con due soldati tedeschi.. si fa per dire soldati… con due bambini tedeschi; avevano al massimo diciassette anni. Ricordo le loro facce. Quello che guidava aveva l'elmetto, al suo fianco ce n'era uno biondo che aveva una ferita sulla guancia e perdeva molto sangue. Avevano gli occhi di due animali braccati. Si sono fermati un attimo sotto la nostra finestra e poi sono scappati via. Erano rimasti tagliati fuori. Chissà che fine hanno fatto.

Mio padre ha detto: «Poveracci! Sono i tedeschi cattivi. Ma vi rendete conto di che razza di cosa stupida è la guerra?».

Passarono quaranta minuti in un silenzio innaturale. Poi giù in strada delle voci sommesse.

«Ehi! Notizie? Che succede?»

Mio padre ha detto: «Scendiamo giù a vedere!».

C'erano quasi tutti i nostri vicini, si guardavano in giro imbambolati, non avevano ancora capito che vivevano il momento più straordinario del secolo.

C'era una panchina, mio padre ci è saltato sopra e ha urlato: «Ragazzi! Ragazzi! E finita la guerra!».

E tutti allora hanno cominciato a urlare buttando i berretti per aria, si abbracciavano e chiamavano tutti gli altri dalle case: «Tutti giù! Tutti giù! È finita la guerra!», e tutti quelli che scendevano si abbracciavano, anche quelli che non si conoscevano. Ho visto mio padre abbracciare con grande affetto degli sconosciuti. Altro che il carnevale di Rio, era come se fossero tutti impazziti. Poi, a mannaia, un silenzio totale. In fondo alla strada era comparso un gigantesco carro armato americano Sherman, che ha fatto due metri e si è fermato. Sembrava un dinosauro. Tutti abbiamo fatto intimoriti alcuni metri indietro, il dinosauro ha voltato lentamente la torretta e si è spalancato il portello. E come un pupazzo a molla di una scatola a sorpresa, ne è balzato fuori… un negro, vestito da soldato americano. Era nero, quasi viola, e ha salutato tutti con le mani. Io e mio fratello ci siamo guardati, eravamo quasi storditi: aveva i palmi delle mani rosa! Quella è la cosa che ci aveva più colpiti della fine della guerra: il colore di quelle mani!

Era il primo negro che vedevamo nella nostra vita.

Il negro ha sorriso a cento denti, si è chinato, è tornato su con una ventina di pacchetti di sigarette, e ha cominciato a buttarli verso di noi. Hanno perso tutti la testa e tutti chinati a raccogliere e a spintonarsi. L'ingegner Pisano, che era vecchio, non ne ha acchiappato neppure uno. E allora è andato fin sotto la torretta e ha detto: «Scusi… signor negro ma… io non ne ho beccato neppure uno!».

Il negro ha sorriso e ha detto una parola magica e del tutto sconosciuta: «Ok!».

Era la prima volta che sentivamo dire Ok.

Ha ributtato sigarette con la mano destra e nella sinistra aveva una strana boccetta panciuta, marrone. Mi ha visto e, indicandomi, mi ha detto: «Come on, boy!». E mi faceva segno di avvicinarmi offrendomi la bottiglietta. Mio padre ha detto: «No! Può essere pericoloso, magari

è un cannibale!».

Mi sono avvicinato lo stesso, ho preso la bottiglietta in mano e l'ho tracannata. Faceva schifo! Sapeva di petrolio: E stata la prima Coca-cola della mia vita!

Poi il carro armato lentamente è andato via, e allora è passata l'America!

Era la Quinta armata americana, e per cinque giorni e per cinque notti sono passati: carri armati, cannoni, cingolati, camion, cingolati, cannoni, e camion pieni di soldati che buttavano sigarette, tavolette di cioccolata, scatolette di carne ma, soprattutto, due cose che non avevamo mai visto: gomme da masticare e degli strumenti magici: le penne biro! Che scrivevano senza inchiostro, erano dorate e lampeggiavano al sole.

Cinque giorni e cinque notti… e cingolati, e carri armati e cannoni… e le donne soldato che buttavano delle buste con delle calze di nylon… e molti soldati, e ancora soldati… molti negri, altri con la faccia da cinesi e alcuni con i capelli neri che sembravano dei siciliani, altri biondi come svedesi… e carri armati… cannoni… cingolati. Notte e giorno.

Noi avevamo avuto il permesso, anche di notte, di assistere a quello spettacolo straordinario.

E tutti con le bandierine italiane con lo stemma Savoia: «Viva gli alleati! Viva l'America! Sigarette per favore!».

Una notte, verso le due, eravamo in strada con mio padre, che se ne stava un po' in disparte senza applaudire, con fare dignitoso.

Gli si è avvicinato Pisano e gli ha detto: «Scusi, ingegnere, ma… secondo lei, a quello lì di piazza Venezia, ma come cazzo gli è venuto in mente di dichiarare guerra a questi!».

E mio padre ha detto: «Ha ragione. Vede, secondo me c'è un'unica spiegazione: non aveva il De Agostini a casa! Perché bastava che avesse aperto a caso alla voce Usa, Stati Uniti d'America: Automobili prodotte in un anno a Detroit: 25 milioni. Uguale possibili carri armati».

E Pisano: «Sì. E stato un errore imperdonabile».


Una mattina, alle undici, di nuovo un silenzio imbarazzante; erano passati tutti.

Non sapevamo che fare. Era finita la guerra, era finito l'oscuramento, erano finiti i bombardamenti ma, soprattutto, avevamo a disposizione un bene supremo che non conoscevamo: la libertà.

E allora tutti, lentamente, hanno capito che da quel momento potevano accendere le luci sul lungomare, sentire musica di notte, andare dove volevano e dire, liberamente e ad alta voce, tutto quello che si pensava.

È stato difficile, per una settimana, amministrare la libertà. Poi è esplosa una gioia incontenibile. Tutti a costruire delle pedane di legno illuminate, come nelle feste delle chiese, da lampadine colorate, gialle, rosse, verdi… una balera ogni cinquecento metri, bastavano un violino e una fisarmonica; avevano portato in strada le sedie impagliate delle chiese e tutti a ballare dal pomeriggio fino a notte fonda. Le canzoni erano Vento, vento portami via con te! La più richiesta era Maramao perché sei morto. E ballavano… ballavano… ballavano tutti notte e giorno fino alla fine di agosto.

Mio padre e mia madre uscivano prima del tramonto, e mia nonna: «Ma dove andate? Non cenate?».

«No! No!» era incredibilmente mia madre, «Semmai dopo. Ora dobbiamo andare a ballare! Ceniamo poi.»

Una sera, verso le nove, mia nonna si era addormentata ascoltando la radio di legno. Io e mio fratello, come topi, siamo scappati di casa! Siamo andati a vedere la balera dove c'erano i miei genitori.

Gli altri erano tutti seduti. Loro due erano soli in mezzo alla pista. Il violino suonava dolcemente: Vieni, c'è una strada nel bosco… Loro erano abbracciati, guancia a guancia. Lui la teneva stretta con tutte e due le braccia. Erano vestiti di bianco, avevano anche le scarpe da ginnastica bianche. Avevano circa una trentina d'anni.

Ecco! Io me li voglio ricordare così! Fissare quell'immagine. Loro due abbracciati, vestiti di bianco, il mare sullo sfondo e il violino.

Mio padre ha detto a un tratto: «Basta con questa lagna! Voglio ballare Maramao!».

Lei si è andata a sedere e lui ha detto: «Allora lo ballo da solo!», e facendo il pagliaccio ha cominciato a saltellare. Poi si è andato a sedere anche lui e tutti hanno applaudito. Era su una sedia e sotto ero nascosto io. Lui non se n'è accorto. Nascosto un po' più in là, mio fratello.

Alle nostre spalle è sbucato Pisano: «Contento, eh, ingegnere? È finita la guerra!».

E lui, con molto distacco e poco convinto: «Sì, sì… Sono contento». Sembrava volesse tagliar corto.

«Ma scusi, ma… non mi sembra molto convinto…»

«Vede, Pisano» e qui abbassando la voce gli ha quasi sussurrato, «le devo confessare che io sono stato molto felice anche durante la guerra.»

Poi ha visto mio fratello e si è interrotto.

«Ehi! Che ci fate qui voi due?» E mi ha tirato su da sotto la sua sedia.

«Venite, venite qui», e ci ha portati un po' lontano dalla balera.

«Non vorrei che aveste equivocato. Io volevo dire… che io sono stato felice, nonostante tutto, anche durante la guerra.» Ci teneva per le spalle, era vestito di bianco, era un bell'uomo e sorrideva. «Vedete, bambini, vi voglio dire una cosa: nella vita la cosa più importante è cercare disperatamente di essere il più felici possibile. Anche nei momenti brutti. Anzi, è lì che bisogna sforzarsi il più possibile, e trovare in ogni momento della vostra vita un qualunque motivo di felicità. E poi, vi do un consiglio. Cercate di accettare, quando sarete grandi, tutto quello che la vita vi ha regalato. Vedete, solo una persona ogni duecentomila riesce a centrare gli obiettivi che magari ora voi state sognando.» E qui ci ha abbracciati molto intensamente, ha sorriso e ha detto: «C'è un segreto in tutta questa storia: sapere che la vita è comunque una cosa meravigliosa!». Ora qui alle Bocche di Bonifacio è spuntata anche una magnifica luna, che illumina il viso di mia moglie che dorme.

Addio per sempre. Ti vorrò sempre un bene immenso.

E poi mi viene da dire: buona fortuna, amore mio.

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