CHRISTOPHER PAOLINI BRISINGR


O


LE SETTE PROMESSE DI ERAGON AMMAZZASPETTRI SAPHIRA SQUAMEDILUCE

L'EREDITÀ


LIBRO TERZO (Brisingr, 2008)

Come sempre, dedico questo libro alla mia famiglia. E anche a Jordan, Nina e Sylvie, fulgide stelle di una nuova generazione. Atra esterni ono thelduin.

SINOSSI


DI ERAGON ED ELDEST

Eragon, un ragazzo di quindici anni, si vede comparire davanti una lucida pietra blu durante una battuta di caccia sulla catena montuosa conosciuta come la Grande Dorsale. Porta la pietra con sé alla fattoria dove vive con suo zio Garrow e il cugino Roran, vicino al piccolo villaggio di Carvahall. Sono stati Garrow e la sua defunta moglie Marian ad allevare Eragon: non si è mai saputo nulla dell'identità di suo padre, mentre la madre, Selena, sorella di Garrow, ha fatto perdere le tracce subito dopo aver dato alla luce Eragon.

Dopo qualche tempo, la pietra blu si frantuma e ne emerge un cucciolo di drago. È una femmina, e non appena Eragon la tocca, sul palmo della mano gli compare un luccicante marchio d'argento: fra le loro menti si crea un inscindibile legame che fa di Eragon uno dei leggendari Cavalieri dei Draghi. Eragon battezza la dragonessa Saphira, dopo aver ascoltato il cantastorie del villaggio, Brom, narrare di un drago con quel nome.

L'ordine dei Cavalieri dei Draghi fu fondato al termine della terribile guerra fra elfi e draghi, migliaia di anni prima, allo scopo di impedire ulteriori ostilità fra le due razze. I Cavalieri diventarono garanti di pace, maestri, guaritori, filosofi e potenti stregoni: era proprio il vincolo con il drago a conferire al Cavaliere straordinarie capacità magiche. Sotto la loro guida, il paese di Alagaësia visse un'epoca d'oro.

Quando gli umani giunsero in Alagaësia, anche alcuni di loro furono accolti nell'ordine. Dopo molti anni di pace, i bellicosi Urgali uccisero il drago di un giovane Cavaliere umano di nome Galbatorix. Reso folle dallo strazio della perdita e dal rifiuto degli anziani di concedergli un altro drago, Galbatorix elaborò un piano per distruggere i Cavalieri.

Rapì un altro drago - che chiamò Shruikan, assoggettandolo al proprio volere con oscuri sortilegi - e radunò intorno a sé un gruppo di tredici traditori: i Rinnegati. Con l'aiuto dei suoi crudeli discepoli, Galbatorix uccise tutti i Cavalieri, compreso il loro capo, Vrael, e si autoproclamò re di Alagaësia. Le sue azioni scellerate costrinsero gli elfi a ritirarsi nei più profondi recessi della loro foresta, mentre i nani si eclissarono nelle gallerie e nelle caverne dei Monti Beor, e da allora nessuna delle due razze osò più avventurarsi fuori dai propri nascondigli. La tensione fra Galbatorix e le altre razze perdura da oltre un secolo, e i Rinnegati sono tutti morti per ragioni diverse. È in questa fragile condizione politica che Eragon si ritrova coinvolto suo malgrado.

Alcuni mesi dopo la nascita di Saphira, due stranieri dall'aria minacciosa e dal corpo deforme giungono nel villaggio di Carvahall. Sono i Ra'zac e vanno in cerca della pietra blu, l'uovo di Saphira. Eragon e Saphira riescono a fuggire, ma le ripugnanti creature radono al suolo la casa di Garrow e lo uccidono.

Il ragazzo giura solennemente di rintracciare i Ra'zac per ucciderli. Mentre sta per partire da Carvahall, viene avvicinato da Brom il cantastorie, che sa tutto di Saphira e gli offre la propria compagnia. Brom dona a Eragon una spada rossa, Zar'roc, appartenuta a uno dei Cavalieri dei Draghi, ma si rifiuta di dirgli dove l'ha trovata.

Durante le lunghe tappe del loro viaggio Eragon impara da Brom molte cose, fra cui l'arte della scherma e l'uso della magia. Quando perdono le tracce dei Ra'zac, Brom suggerisce di andare a Teirm, una città portuale dove vive un suo vecchio amico, Jeod, che forse potrebbe aiutarli a scoprire il covo dei Ra'zac. A Teirm i due vengono a sapere che i Ra'zac vivono vicino alla città di Dras-Leona, ed Eragon incontra un'erborista, Angela, che gli predice il futuro. Anche Solembum, il gatto mannaro che si accompagna all'erborista, pronuncia fatidiche parole di ammonimento.

Nel corso del viaggio verso Dras-Leona, Brom rivela di essere un agente dei Varden - un gruppo di ribelli che lottano per la destituzione di Galbatorix - e di essersi nascosto a Carvahall in attesa della comparsa di un nuovo Cavaliere dei Draghi. Vent'anni prima, Brom aveva rubato l'uovo di Saphira a Galbatorix e in quel frangente aveva ucciso Morzan, il primo e l'ultimo dei Rinnegati. Restano soltanto altre due uova di drago, ed entrambe sono ancora nelle mani di Galbatorix.

Vicino a Dras-Leona, Eragon e Brom s'imbattono nei Ra'zac, che feriscono mortalmente Brom, intervenuto per proteggere Eragon. I Ra'zac vengono messi in fuga da un giovane misterioso di nome Murtagh. Prima di esalare l'ultimo respiro, Brom confessa di essere stato a suo tempo un Cavaliere e che anche la sua dragonessa uccisa si chiamava Saphira.

Eragon e Saphira decidono di unirsi ai Varden, ma nella città di Gil'ead Eragon viene catturato e portato al cospetto di Durza, un potente e malvagio Spettro al servizio di Galbatorix. Con l'aiuto di Murtagh, Eragon evade dalla prigione, portando con sé l'elfa Arya, un'altra prigioniera di Durza nonché ambasciatrice dei Varden. Arya è stata avvelenata e ha immediato bisogno delle cure mediche dei Varden.

Inseguiti da un contingente di Urgali, Eragon, Saphira, Murtagh e Arya fuggono attraversando tutto il territorio di Alagaësia per raggiungere il quartier generale dei Varden, annidato fra i giganteschi Monti Beor, alti oltre dieci miglia. Le circostanze costringono Murtagh - che non vuole andare dai Varden - a confessare di essere figlio di Morzan. Murtagh deplora i misfatti del padre e racconta di essere fuggito dalla corte di Galbatorix per seguire il proprio destino. Inoltre rivela a Eragon che la spada Zar'roc un tempo era appartenuta proprio a suo padre.

Mentre stanno per essere sopraffatti dagli Urgali, Eragon e i suoi amici vengono salvati dai Varden, che vivono nel Farthen Dûr, la montagna cava che ospita la capitale dei nani, Tronjheim. Una volta all'interno, Eragon viene condotto al cospetto di Ajihad, il capo dei Varden, mentre Murtagh viene imprigionato a causa dei suoi natali.

Eragon conosce il re dei nani, Rothgar, e la figlia di Ajihad, Nasuada, e la sua mente viene scrutata dai Gemelli, due viscidi stregoni al servizio di Ajihad. Eragon e Saphira impartiscono anche una benedizione a una neonata orfana dei Varden.

All'improvviso giunge la notizia che un esercito di Urgali si sta avvicinando attraverso le gallerie scavate nei monti dai nani. Nella battaglia che segue, Eragon viene separato da Saphira e si trova a combattere Durza da solo. Molto più forte di qualsiasi essere umano, in pochi istanti lo Spettro ha la meglio su Eragon, infliggendogli una profonda ferita che gli solca la schiena dalla spalla fino al fianco. Ma in quel momento Arya e Saphira irrompono nella sala dall'alto - mandando in frantumi il grande Zaffiro Stellato che ne copriva la volta - ed Eragon approfitta dell'attimo di distrazione di Durza per colpirlo dritto al cuore. Liberati dai sortilegi di Durza, gli Urgali si disperdono e vengono ricacciati nelle gallerie.

Nello stato d'incoscienza in cui versa dopo la battaglia, Eragon entra in contatto telepatico con Togira Ikonoka, lo Storpio Che è Sano, che lo invita a raggiungerlo a Ellesméra, la capitale degli elfi, per trovare finalmente una risposta ai suoi molti interrogativi.

Quando Eragon riprende i sensi scopre di avere una terribile cicatrice che gli deturpa la schiena. Sgomento, si rende conto di aver sconfitto Durza per pura fortuna e di avere assoluto bisogno di riprendere il proprio addestramento. Alla fine del Libro Primo, Eragon decide di partire per andare in cerca di Togira Ikonoka per completare la sua istruzione.

Eldest ha inizio tre giorni dopo che Eragon ha ucciso Durza. I Varden si stanno riprendendo dalla battaglia del Farthen Dûr, mentre Ajihad, Murtagh e i Gemelli sono partiti all'inseguimento degli Urgali rintanatisi nelle gallerie del Farthen Dûr dopo la battaglia. Un manipolo di Urgali li coglie di sorpresa e Ajihad viene ucciso; Murtagh e i Gemelli scompaiono nella mischia. Il Consiglio degli Anziani nomina l'erede di Ajihad, Nasuada, nuovo capo dei Varden, ed Eragon le giura fedeltà come vassallo.

Eragon e Saphira decidono di andare a Ellesméra per iniziare l'addestramento con lo Storpio Che è Sano. Prima della partenza, il re dei nani, Rothgar, propone a Eragon di entrare a far parte del proprio clan, il Dûrgrimst Ingeitum. Eragon accetta: in questo modo acquisisce i pieni diritti legali dei nani e la facoltà di partecipare ai loro consigli.

Arya e Orik, figlio adottivo di Rothgar, accompagnano Eragon e Saphira nel loro viaggio verso la terra degli elfi. Fanno tappa a Tarnag, una città dei nani dove vengono accolti con benevolenza, anche se Eragon scopre che un clan in particolare non vede di buon occhio lui e Saphira: l'Az Sweldn rak Anhûin. Il loro odio per i Cavalieri e i draghi deriva dal fatto che molti membri del loro clan sono stati massacrati dai Rinnegati.

Il gruppo arriva finalmente nella Du Weldenvarden, la foresta degli elfi. A Ellesméra, Eragon e Saphira si presentano a Islanzadi, che non è solo la regina degli elfi, ma anche la madre di Arya. Conoscono anche lo Storpio Che è Sano, un vecchio elfo di nome Oromis. Anche lui è un Cavaliere: negli ultimi cento anni, Oromis e il suo drago, Glaedr, sono riusciti a tenere nascosta la propria esistenza a Galbatorix, cercando nel frattempo un modo per detronizzare il re.

Purtroppo Oromis e Glaedr sono afflitti da vecchie ferite che impediscono loro di combattere: a Glaedr manca una zampa, mentre Oromis, che a suo tempo era stato catturato e torturato dai Rinnegati, è incapace di controllare grandi dosi di magia e soggetto a improvvise crisi debilitanti.

Eragon e Saphira iniziano l'addestramento, fatto sia di lezioni collettive che individuali. Eragon apprende altri dettagli della storia delle razze di Alagaësia, si allena con la spada e impara l'antica lingua, strumento essenziale per l'uso della magia. Nel corso dei suoi studi scopre di aver commesso un terribile errore quando lui e Saphira hanno benedetto l'orfanella nel Farthen Dûr: invece di dire: "Che tu possa essere protetta dalla sventura" come intendeva, in realtà ha detto: "Che tu possa essere una protezione dalla sventura." Ha così condannato la bambina a proteggere gli altri da sofferenze e disgrazie.


Mentre Saphira compie rapidi progressi come allieva di Glaedr, l'addestramento di Eragon è rallentato dalla cicatrice che gli è rimasta dopo il duello con Durza. Non è solo un marchio che lo sfigura, ma a volte, senza alcun preavviso, gli provoca spasmi molto dolorosi, che lo lasciano esausto. Eragon teme che le convulsioni gli impediranno di migliorare sia come mago che come guerriero.

Nel frattempo Eragon comincia a rendersi conto di essere attratto da Arya. Le confessa i suoi sentimenti, ma lei lo respinge e poco dopo fa ritorno dai Varden.

Gli elfi festeggiano l'Agaetí Blödhren, la Celebrazione del Giuramento di Sangue, una cerimonia in cui Eragon subisce una sorta di magica metamorfosi che lo trasforma in un ibrido, per metà umano e per metà elfo. La cicatrice scompare, ed Eragon acquisisce la stessa forza sovrumana degli elfi. Anche il suo aspetto cambia: ora il ragazzo ha un aspetto vagamente elfico.

È a questo punto che viene a sapere che i Varden sono in procinto di dare battaglia all'Impero e hanno un disperato bisogno di lui e di Saphira. Mentre erano lontani, infatti, Nasuada ha spostato i Varden dal Farthen Dûr nel Surda, un paese confinante con le propaggini meridionali dell'Impero che fino a quel momento è riuscito a conservare l'autonomia da Galbatorix.

Eragon e Saphira partono da Ellesméra insieme a Orik, dopo aver promesso a Oromis e Glaedr di tornare appena possibile per completare l'addestramento.

Nel frattempo anche Roran, il cugino di Eragon, vive una serie di mirabolanti avventure. Galbatorix ha mandato a Carvahall i Ra'zac e una legione di soldati imperiali per catturarlo al fine di usarlo contro Eragon, ma Roran riesce a fuggire sulla Grande Dorsale. Insieme agli altri abitanti del villaggio cerca di mettere in fuga i soldati, ma parecchi uomini muoiono nel tentativo. Quando Sloan il macellaio - che odia Roran e si oppone al fidanzamento del giovane con sua figlia Katrina - lo tradisce rivelando ai Ra'zac il suo nascondiglio, di notte le ripugnanti creature attaccano il giovane nella sua camera da letto. Con una fuga rocambolesca Roran riesce a mettersi in salvo, ma i Ra'zac rapiscono Katrina.

Roran convince gli abitanti di Carvahall a lasciare il villaggio per cercare asilo dai Varden nel Surda. Si mettono in viaggio verso ovest per raggiungere la costa, dove sperano di poter trovare una nave che li porti nel Surda. Con grande tenacia e coraggio, Roran guida la popolazione oltre il valico della Grande Dorsale fino a Teirm, sulla costa. Nella città portuale incontrano Jeod, che rivela a Roran che Eragon è un Cavaliere e che l'obiettivo della prima missione dei Ra'zac a Carvahall era Saphira. Jeod si offre di aiutare Roran e i suoi compaesani a raggiungere il Surda, dove, una volta al sicuro fra i Varden, Roran potrà contare su Eragon per salvare Katrina. Jeod e gli abitanti di Carvahall si impadroniscono di una nave e fanno vela per il Surda.

Eragon e Saphira arrivano dai Varden, che si stanno preparando alla battaglia. Eragon viene a sapere che l'orfanella a cui ha inflitto il fardello della sua benedizione si chiama Elva e che, sebbene sia ancora molto piccola, ha l'aspetto di una bambina di quattro anni e la voce e il modo di fare di un'adulta. L'incantesimo di Eragon la condanna a sentire il dolore di tutte le persone che vede e la costringe a proteggerle; se si oppone all'impulso, lei stessa ne soffre.

Eragon, Saphira e i Varden si apprestano a combattere le truppe imperiali sulle Pianure Ardenti, una vasta distesa di terra da cui si levano fumi e bagliori dovuti a fuochi di torba sotterranei. La comparsa di un altro Cavaliere in groppa a un drago rosso lascia tutti sgomenti. Il nuovo Cavaliere uccide Rothgar, il re dei nani, e poi ingaggia un selvaggio duello con Eragon e Saphira. Quando Eragon riesce a strappargli via l'elmo, scopre sbigottito che si tratta di Murtagh.

Murtagh non era morto nell'agguato degli Urgali sotto il Farthen Dûr. Erano stati gli infidi Gemelli a ordire la trappola per uccidere Ajihad e catturare Murtagh per portarlo da Galbatorix. Il re ha costretto Murtagh a giurargli fedeltà nell'antica lingua, e ora Murtagh e il suo giovane drago, Castigo, sono schiavi di Galbatorix. Murtagh dichiara che il giuramento non gli permetterà mai di disobbedire al re, anche se Eragon lo implora di abbandonare Galbatorix e di unirsi ai Varden.

Murtagh riesce a sopraffare Eragon e Saphira con una prova di forza inspiegabile, ma alla fine decide di lasciarli liberi in nome della vecchia amicizia. Prima di andarsene, strappa Zar'roc dalle mani di Eragon, sostenendo che gli spetta di diritto in qualità di primogenito di Morzan. Non contento, rivela a Eragon di non essere l'unico figlio di Morzan: Eragon e Murtagh sono fratelli, entrambi figli di Selena, la sposa di Morzan. I Gemelli avevano scoperto la verità scrutando i ricordi di Eragon il giorno stesso che era arrivato nel Farthen Dûr.

Ancora sconvolto per la rivelazione di Murtagh sulle sue origini, Eragon si ritira con Saphira e si unisce a Roran e agli abitanti di Carvahall, giunti sulle Pianure Ardenti appena in tempo per aiutare i Varden a vincere la battaglia. Roran combatte da eroe e uccide i Gemelli.

Alla fine Eragon e Roran fanno pace - Roran riteneva il cugino responsabile indiretto della morte di Garrow - ed Eragon gli giura che lo aiuterà a salvare Katrina dai Ra'zac.

I CANCELLI DELLA MORTE

Eragon scrutava l'oscura torre di pietra, nascondiglio dei mostri che avevano ucciso suo zio Garrow. Era immobile, disteso sul ventre, dietro il crinale di una duna sabbiosa disseminata di fili d'erba, cespugli di rovi e piccoli cactus simili a boccioli di rosa. Gli steli secchi dell'anno prima gli punsero i palmi quando prese a strisciare lento sui gomiti per ottenere una visuale migliore dell'Helgrind, che svettava sulla pianura come un pugnale nero estratto dalle viscere della terra.

Il sole morente proiettava lunghe ombre sinuose sulle basse colline e - a ovest, in lontananza - illuminava la superficie del lago di Leona, trasformando l'orizzonte in una tremolante fascia d'oro.

Eragon sentiva il respiro regolare di suo cugino Roran, disteso al suo fianco, ma l'emissione d'aria, che di norma sarebbe stata impercettibile, risuonava straordinariamente amplificata al suo sviluppatissimo udito, uno dei molti cambiamenti che aveva subito durante l'Agaetí Blödhren, la Celebrazione del Giuramento di Sangue degli elfi.

D'un tratto la sua attenzione fu catturata da una colonna di gente che marciava lenta verso la base dell'Helgrind, con tutta probabilità proveniente da Dras-Leona, a diverse miglia di distanza. In testa alla colonna c'era un drappello di ventiquattro individui fra uomini e donne, coperti da pesanti indumenti di pelle. I componenti del gruppo si muovevano in modo strano, con differenti andature: chi zoppicava, chi si trascinava, chi camminava gobbo, chi si contorceva; alcuni saltellavano sulle grucce o usavano le braccia per spingersi avanti su gambe troppo corte. Eragon notò che a ciascuno dei ventiquattro individui mancava un braccio, o una gamba, o in certi casi tutt'e due le cose. Il capo sedeva impettito su una lettiga portata in spalla da sei schiavi unti d'olio. Un'impresa eccezionale, pensò Eragon, visto che l'uomo o la donna - impossibile distinguere - altro non era che un torso e una testa, su cui poggiava un'ornata cresta di cuoio alta tre piedi.

«I sacerdoti dell'Helgrind» mormorò rivolto a Roran.


«Sanno usare la magia?»

«Può darsi. Non voglio rischiare di esplorare l'Helgrind con la mente finché non se ne vanno, perché se ci sono degli stregoni sentiranno il mio tocco, per quanto leggero, e capiranno che siamo qui.»

Dietro i sacerdoti procedeva una doppia fila di giovani uomini ammantati di stoffe dorate. Ciascuno portava un'intelaiatura di metallo rettangolare suddivisa in dodici barre orizzontali da cui pendevano campane di ferro grosse quanto una rapa. Metà dei giovani scuotevano con vigore lo strumento quando avanzavano col piede destro, generando una straziante cacofonia di note, mentre gli altri lo scuotevano quando avanzavano col piede sinistro, in un clangore di lingue di ferro contro gole di ferro che riecheggiava lugubre per le colline. Gli accoliti accompagnavano i rintocchi delle campane con grida, lamenti e ululati in un'estasi di passione.

Nelle retrovie di quella grottesca processione arrancava una coda di abitanti di Dras-Leona: nobili, mercanti, commercianti, esponenti dei ranghi militari più elevati, e una variegata moltitudine di operai, mendicanti e soldati semplici.

Eragon si domandò se fra di loro ci fosse anche il governatore di DrasLeona, Marcus Tàbor.


I sacerdoti si fermarono sul margine del cumulo di pietrisco franato che orlava l'Helgrind e si disposero su entrambi i lati di un masso color ruggine dalla sommità levigata. Quando tutta la colonna si fu radunata davanti all'altare grezzo, la creatura sulla lettiga si mosse e cominciò a cantilenare con una voce disarmonica quanto i luttuosi rintocchi delle campane. Le declamazioni dello sciamano giungevano spezzate dalle raffiche di vento, ma Eragon colse qualche frase nell'antica lingua - pronunciata in maniera approssimativa o alterata - inframmezzata da parole nella lingua dei nani e in quella degli Urgali, il tutto tenuto insieme da un arcaico dialetto della lingua madre di Eragon. Quel poco che riuscì a capire lo fece rabbrividire, perché il sermone parlava di cose che sarebbe stato meglio lasciare sepolte, di un odio perverso covato per secoli negli oscuri recessi del cuore degli uomini per essere riesumato dopo la scomparsa dei Cavalieri, di sangue e di follia, e di orridi rituali compiuti sotto una luna nera.


Al termine della depravata orazione, due dei sacerdoti di rango inferiore corsero a sollevare dalla lettiga il loro signore - o signora, chi poteva saperlo - per depositarlo sull'altare. A quel punto il Sommo Sacerdote impartì un secco ordine. Due spade gemelle d'acciaio scintillarono come stelle quando si levarono per poi calare di colpo. Un fiotto di sangue sgorgò da ciascuna spalla del Sommo Sacerdote, colò sul torso fasciato di cuoio e inondò il masso prima di spargersi sulla ghiaia.


Altri due sacerdoti si affrettarono a raccogliere il sangue in diversi calici che, riempiti fino all'orlo, distribuirono fra i membri della congregazione, che bevvero avidi.


«Puah!» commentò Roran sottovoce. «Non mi avevi detto che questi stupidi idolatri esaltati e sanguinari erano cannibali.»


«Non è proprio così. Non mangiano la carne.»


Quando tutti si furono bagnati la gola, i servili novizi riportarono il Sommo Sacerdote sulla lettiga e fasciarono le spalle della creatura con bende di lino candido. Grandi corolle rosse sbocciarono sulla stoffa immacolata.


Il Sommo Sacerdote non pareva affatto indebolito dalle ferite, poiché si rivolse ai fedeli dalle labbra lorde di sangue ed esclamò: «Ora siete veramente i miei Fratelli e le mie Sorelle, poiché avete gustato la linfa delle mie vene, qui, all'ombra dell'onnipotente Helgrind. Sangue chiama sangue, e se mai la vostra Famiglia dovesse aver bisogno di aiuto, fate il possibile per la Chiesa e per tutti coloro che riconoscono il potere del nostro Temuto Signore... Per affermare e confermare la nostra devozione al Triumvirato, recitate con me i Nove Giuramenti... In nome di Gorm, Ilda e Angvara il Crudele, giuriamo di rendere omaggio almeno tre volte al mese, nell'ora che precede il crepuscolo, e di offrire parte di noi stessi per soddisfare la fame perenne del nostro Grande e Terribile Signore... Giuriamo di osservare i comandamenti del libro di Tosk... Giuriamo di portare sempre il Bregnir sul nostro corpo e di astenerci dal dodicesimo dei dodici e dal tocco di una corda annodata, affinché non corrompa...»


Il ruggito più forte del vento coprì le parole del Sommo Sacerdote. Poi Eragon vide gli astanti prendere un piccolo coltello ricurvo e incidersi a turno l'incavo del gomito per bagnare l'altare con il proprio sangue.


Qualche minuto dopo, il vento calò ed Eragon udì ancora il sacerdote. «... e le cose che desiderate e bramate vi saranno concesse come ricompensa per la vostra obbedienza... Il rito è concluso. Tuttavia, se fra di voi c'è qualcuno tanto audace da dimostrare la vera forza della sua fede, che si mostri!»


I devoti s'irrigidirono, protesi in avanti con espressioni rapite, come se fosse proprio quello che stavano aspettando.


Per lunghi istanti di silenzio parve che le loro aspettative sarebbero andate deluse, ma poi uno degli accoliti ruppe le righe e gridò: «Eccomi!» Con un ruggito di esultanza, i confratelli presero a scuotere i campanacci a un ritmo così selvaggio e incalzante che la folla cadde preda di una frenesia irresistibile, e tutti cominciarono a saltare e a gridare come forsennati. La musica ossessiva accese una scintilla di eccitazione nel cuore di Eragon


- malgrado la sua repulsione per la scena - risvegliando la sua parte più primitiva e brutale.


Spogliatosi delle vesti dorate fino a restare soltanto con un paio di braghe di pelle, il giovane dai capelli neri balzò in piedi sull'altare, sollevando un ventaglio di gocce cremisi. Con il viso rivolto verso l'Helgrind, cominciò a tremare, come colto da un attacco epilettico, gli spasmi a tempo con i rintocchi crudeli delle campane di ferro. La testa gli ciondolava dal collo, gli angoli della bocca schiumavano, le braccia si agitavano come serpenti irritati. I muscoli gli si ricoprirono di sudore finché non scintillò come una statua di bronzo negli ultimi bagliori del tramonto.


Le campane raggiunsero un ritmo parossistico; ogni nota strideva con l'altra. A quel punto il giovane tese una mano dietro di sé. Un sacerdote gli depose nel palmo l'elsa di uno strumento bizzarro: un'arma a un solo filo, lunga due piedi e mezzo, con il codolo pieno inserito in due guance saldate, una rudimentale guardia crociata e una larga lama piatta che terminava con una svasatura dentellata, vagamente somigliante a un'ala di drago. Era un'arma disegnata per un unico scopo: trapassare armatura, ossa e tendini con la stessa facilità che avrebbe incontrato davanti a un otre pieno d'acqua.


Il giovane la sollevò puntandola verso il picco più alto dell'Helgrind. Poi si lasciò cadere su un ginocchio e, con un grido incoerente, si amputò la mano destra.


Il sangue sprizzò sulle rocce dietro l'altare.


Eragon fece una smorfia e distolse lo sguardo, ma non poté fare a meno di udire le grida strazianti del giovane. In battaglia aveva assistito a molte amputazioni, ma gli sembrava una follia mutilarsi di proposito quando era così facile restare menomati nella vita di tutti i giorni.


I fili d'erba della duna frusciarono quando Roran spostò il peso del corpo, borbottando qualche imprecazione che si smarrì nel folto della sua barba. Poi fu di nuovo silenzio.


Mentre un sacerdote si prendeva cura della ferita del giovane - arrestando l'emorragia con un incantesimo - un novizio liberò due degli schiavi che portavano la lettiga del Sommo Sacerdote, ma solo per incatenarli di nuovo per le caviglie a un anello di ferro infisso nell'altare. Poi gli accoliti estrassero alcuni fagotti da sotto i mantelli e li accatastarono sul terreno, lontano dalla portata degli schiavi.


Conclusa la cerimonia, i sacerdoti e il resto del corteo imboccarono la strada del ritorno a Dras-Leona, continuando a gemere, a cantilenare e a suonare per tutto il tragitto. Il giovane fanatico, adesso monco, arrancava alle spalle del Sommo Sacerdote.


Un sorriso beato gli illuminava il volto.

«Incredibile» disse Eragon, e liberò un sospiro represso non appena la colonna scomparve oltre una collina distante.


«Incredibile cosa?»


«Ho viaggiato fra i nani e gli elfi, ma nulla di quello che ho visto fare loro è lontanamente paragonabile alle stranezze di queste persone, questi umani.»


«Sono dei mostri, tali e quali ai Ra'zac.» Roran indicò l'Helgrind con un cenno del capo. «Adesso puoi scoprire se Katrina è lì dentro?»


«Ci provo. Ma tienti pronto a scappare.»


Eragon chiuse gli occhi e lentamente dilatò la coscienza verso l'esterno, spostandosi dalla mente di un essere vivente all'altro, come rivoli d'acqua che scorrono nella sabbia. Toccò animate comunità di insetti operosi, lucertole e serpenti che si nascondevano fra le rocce calde, diverse specie di uccelli e svariati piccoli mammiferi. Insetti e animali erano affaccendati in previsione della notte imminente: chi si ritirava al sicuro della propria tana, chi, come i predatori notturni, sbadigliava e si stiracchiava per prepararsi alla caccia.


Come tutti gli altri sensi, anche la capacità di Eragon di toccare i pensieri degli altri esseri diminuiva con la distanza. Quando la sua sonda psichica arrivò ai piedi dell'Helgrind, ormai riusciva a percepire soltanto gli animali più grandi, e comunque in maniera assai debole.


Procedeva con cautela, pronto a battere in ritirata se gli fosse capitato di sfiorare le menti dei loro obiettivi: i Ra'zac e i genitori-cavalcature dei Ra'zac, i giganteschi Lethrblaka. Eragon si esponeva così solo perché i Ra'zac non erano capaci di usare la magia, e non credeva che fossero dei frangisenno, nonmaghi addestrati a combattere con la telepatia. I Ra'zac e i Lethrblaka non avevano bisogno di ricorrere a questi mezzi quando il loro alito bastava a tramortire il più robusto degli uomini.


E sebbene la sua indagine incorporea rischiasse di farli scoprire, Eragon, Roran e Saphira dovevano sapere se i Ra'zac avevano imprigionato Katrina


- la fidanzata di Roran - nell'Helgrind, per decidere se la loro sarebbe stata una missione di salvataggio oppure di cattura e interrogatorio.


Eragon frugò a lungo, solerte, in ogni anfratto. Quando tornò in sé, si accorse che Roran lo fissava con l'espressione di un lupo famelico. I suoi occhi grigi ardevano di un misto di rabbia, speranza e angoscia così violento da far pensare che le sue emozioni sarebbero potute esplodere da un momento all'altro per incenerire qualunque cosa nel suo campo visivo, in una vampa di inimmaginabile intensità, capace di sciogliere persino le rocce.


Eragon lo capiva.


Il padre di Katrina, Sloan il macellaio, aveva tradito Roran rivelando ai Ra'zac dove si nascondeva. Quando non erano riusciti a catturarlo, i Ra'zac avevano rapito Katrina dalla Valle Palancar, lasciando gli abitanti di Carvahall al loro destino di morte o schiavitù per mano dei soldati del re Galbatorix. Non potendo inseguire Katrina, Roran era riuscito - appena in tempo - a convincere i suoi compaesani ad abbandonare le loro case e a seguirlo sulla Grande Dorsale, proseguendo via mare lungo la costa finché non si erano uniti alle forze ribelli dei Varden. Le vicissitudini che avevano patito erano state tante, e terribili, ma per quanto complicato, il viaggio aveva fatto sì che Roran ed Eragon si ritrovassero. Eragon sapeva dove si trovava il covo dei Ra'zac e aveva promesso a Roran di aiutarlo a salvare Katrina.


Roran gli aveva spiegato di essere riuscito nell'impresa perché la forza della sua passione lo aveva spinto ad adottare misure estreme temute ed evitate dagli altri, e questo gli aveva permesso di confondere i nemici.


Lo stesso fervore s'impadronì di Eragon.


Si sarebbe gettato nel fuoco senza alcun riguardo per la propria incolumità se qualcuno a lui caro fosse stato in pericolo. Amava Roran come un fratello e, visto che Roran avrebbe sposato Katrina, aveva esteso il suo concetto di famiglia anche a lei. D'altro canto, Eragon e Roran erano gli ultimi eredi della discendenza, poiché Eragon aveva ripudiato ogni legame con il fratello di sangue, Murtagh, e di conseguenza Roran era il suo unico parente; e adesso c'era anche Katrina.


I nobili sentimenti di fratellanza non erano l'unica forza che spronava i due. Un altro obiettivo li ossessionava: la vendetta! Anche se lo scopo principale era strappare Katrina alle grinfie dei Ra'zac, i due guerrieri - uomo mortale e Cavaliere dei Draghi - avevano intenzione di uccidere i mostruosi servitori del re Galbatorix che avevano torturato a morte Garrow, padre di Roran, come un padre per Eragon.


Ecco perché l'informazione ora in possesso del giovane Cavaliere aveva per lui la stessa importanza che aveva per Roran.


«Credo di averla percepita» disse. «Non ne sono del tutto sicuro, perché siamo molto lontani dall'Helgrind e non ho mai toccato la sua mente prima, ma credo che si trovi in quel picco remoto, segregata da qualche parte proprio vicino alla cima.»


«Sta male? È ferita? Maledizione, Eragon, non mi nascondere niente. Le hanno fatto del male?»


«Al momento non soffre. Più di questo non posso dire, perché ci è voluta tutta la mia forza per individuare appena il bagliore della sua coscienza; non sono riuscito a comunicare con lei.» Eragon evitò di dire che aveva percepito anche una seconda persona, sulla cui identità nutriva qualche sospetto e la cui presenza, se confermata, lo preoccupava moltissimo. «Quello che non ho trovato sono i Ra'zac e i Lethrblaka. Può darsi che i Ra'zac mi siano sfuggiti, ma i genitori sono così enormi che la loro energia vitale dovrebbe risplendere con la forza di mille lanterne, come accade con Saphira. A parte Katrina e qualche altro puntino di luce, l'Helgrind è invece nero come un pozzo senza fondo.»


Roran aggrottò la fronte, strinse i pugni e fissò torvo la montagna rocciosa, che cominciava a confondersi con le ombre violacee del crepuscolo. Con voce bassa e atona, come se stesse parlando da solo, disse: «Tanto non ha importanza se hai ragione o se ti sbagli.»


«Come mai?»


«Stanotte non attaccheremo comunque: la notte è il momento in cui i Ra'zac sono più forti, e se per caso si trovano da queste parti, sarebbe da stupidi affrontarli mentre siamo in svantaggio. Giusto?»


«Giusto.»


«Perciò aspettiamo l'alba.» Roran indicò gli schiavi incatenati all'altare insanguinato. «Se allora quei poveri disgraziati saranno scomparsi, sapremo che i Ra'zac sono qui e proseguiremo col nostro piano. Altrimenti malediremo la sfortuna di non averli incontrati, libereremo gli schiavi, salveremo Katrina e torneremo dai Varden con lei prima che Murtagh ci rintracci. In un modo o nell'altro, dubito che i Ra'zac lasceranno a lungo Katrina senza sorveglianza, non se Galbatorix vuole lasciarla in vita per poterla usare contro di me.»


Eragon annuì. Avrebbe voluto liberare subito gli schiavi, ma quel gesto avrebbe messo in allarme i loro nemici. E se i Ra'zac fossero venuti a prendersi la cena, lui e Saphira non sarebbero potuti intervenire comunque. Una battaglia in campo aperto fra un drago e i Lethrblaka avrebbe attirato l'attenzione di ogni uomo, donna e bambino nel raggio di molte leghe. Ed Eragon non credeva che lui, Saphira o Roran sarebbero sopravvissuti se Galbatorix avesse saputo che si trovavano da soli entro i confini del suo impero.


Distolse lo sguardo dai due derelitti. Per il loro bene, spero che i Ra'zac si trovino all'altro capo di Alagaësia o che almeno stanotte non abbiano fame.


Dopo essersi scambiati un tacito cenno, Eragon e Roran cominciarono a strisciare all'indietro dal crinale della duna dove si erano nascosti. Una volta in fondo, si alzarono, si volsero e si misero a correre tenendosi il più chini possibile, tra due file di colline. La leggera depressione si fece sempre più profonda, fino a diventare una stretta gola scavata dalle inondazioni, fiancheggiata da lastre di ardesia.


Mentre procedevano a zigzag fra gli alberi di ginepro che costellavano la gola, Eragon alzò lo sguardo e, tra il folto degli aghi, intravide le prime costellazioni brillare nel cielo notturno, fredde e affilate come schegge di ghiaccio su un drappo di velluto. Poi tornò a guardare il terreno per non inciampare e continuò a correre con Roran verso il loro bivacco più a sud.

INTORNO AL FALÒ

Il piccolo cumulo di braci pulsava come il cuore di una bestia gigantesca. Di tanto in tanto, una venatura di scintille dorate serpeggiava lungo la superficie del legno per poi svanire in una fessura incandescente.

I resti morenti del falò che Eragon e Roran avevano acceso proiettavano una fievole luce rossastra che illuminava un tratto di suolo roccioso, qualche cespuglio grigio piombo, l'indistinta massa di un ginepro poco distante e nient'altro.

Eragon sedeva con i piedi nudi rivolti alle braci per godersi il piacevole calore, la schiena contro le ruvide squame della muscolosa zampa di Saphira. Di fronte, Roran era seduto a cavalcioni su di un vecchio tronco cavo, indurito e sbiancato dal sole e dalle intemperie. Ogni volta che si muoveva, il tronco emetteva un acuto scricchiolio che feriva le orecchie di Eragon.

Nella conca regnava il silenzio. Perfino la brace ardeva senza rumore. Roran aveva raccolto soltanto rami secchi senza nemmeno una bolla di umidità per evitare qualsiasi filo di fumo che occhi indiscreti potessero individuare.

Eragon aveva appena finito di raccontare a Saphira com'era andata la giornata. In genere non aveva bisogno di dirle ciò che aveva fatto, giacché i pensieri, i sentimenti e le altre emozioni fluivano tra di loro come acqua fra le sponde di un lago. Ma in quella circostanza si era reso necessario, dato che Eragon aveva accuratamente schermato la propria mente durante la missione di ricognizione, tranne quando l'aveva usata per esplorare il covo dei Ra'zac.

Dopo parecchio tempo Saphira sbadigliò, mostrando la sua spaventosa chiostra di denti. Saranno anche crudeli e malvagi, ma sono colpita da come i Ra'zac riescono a stregare le proprie prede tanto da indurle a voler essere mangiate. Devono essere grandi cacciatori per riuscire a farlo... Magari un giorno potrei provarci anch'io.

Già, disse Eragon, e poi si sentì in dovere di aggiungere: Ma non con le persone. Fallo con le pecore.


Persone, pecore... che differenza fa per un drago? Poi la dragonessa scoppiò in una delle sue possenti risate di gola, un rombo cupo che ricordava quello del tuono.


Eragon scostò la schiena indolenzita dalle dure squame di Saphira e prese il bastone di legno di biancospino che giaceva al suo fianco. Se lo rigirò fra le mani, ammirando il gioco di luci sul levigato intrico di radici in cima e l'aguzzo puntale di metallo graffiato in fondo.


Roran gli aveva spinto il bastone fra le mani prima di lasciare i Varden sulle Pianure Ardenti, dicendo: "Tieni. Me lo ha fatto Fisk dopo che il Ra'zac mi aveva morso la spalla. So che hai perduto la tua spada, e potrebbe esserti utile... Se vuoi un'altra spada non c'è problema, ma ho scoperto che non c'è duello che non si possa vincere con qualche colpo di bastone ben assestato." Nel ricordare il bastone che Brom portava sempre con sé, Eragon aveva deciso di non procurarsi una nuova spada a favore di quel bastone nodoso di biancospino. Dopo aver perso Zar'roc, non aveva alcun desiderio di possederne un'altra, che sarebbe stata di sicuro inferiore. Quella notte aveva irrobustito sia il bastone che il martello di Roran con alcuni incantesimi per impedire alle due armi di spezzarsi se non in condizioni di estrema sollecitazione.


All'improvviso una serie di ricordi inconsapevoli gli affiorò alla mente: Un cielo dal malsano colore arancio e cremisi gli turbinava intorno, mentre Saphira si tuffava in picchiata per inseguire il drago rosso e il suo Cavaliere. Il vento gli ruggiva nelle orecchie... Le dita gli si intorpidirono per l'impatto quando la sua spada cozzò contro quella dell'altro cavaliere mentre duellavano sul terreno... Riuscire a strappare via l'elmo del suo nemico in pieno combattimento solo per scoprire il volto del suo amico e compagno di viaggi di un tempo, Murtagh, che credeva morto... Il ghigno di Murtagh quando gli aveva preso Zar'roc, affermando che la spada rossa gli spettava per diritto ereditario, quale suo fratello maggiore...


Eragon batté le palpebre, disorientato, mentre il fragore e il furore della battaglia svanivano e il gradevole aroma del ginepro prendeva il posto dell'odore del sangue. Si passò la lingua sui denti per lavar via l'amaro sapore di bile che gli riempiva la bocca.


Murtagh.


Il solo nome gli suscitava un tumulto di emozioni contrastanti. Da una parte, Murtagh gli piaceva. Aveva salvato lui e Saphira dai Ra'zac dopo la loro prima, sventurata visita a Dras-Leona; aveva rischiato la vita per aiutare Eragon a fuggire da Gil'ead; aveva combattuto con onore nella battaglia del Farthen Dûr; e, malgrado i tormenti che avrebbe senza dubbio patito come conseguenza del suo atto, aveva scelto d'interpretare gli ordini di Galbatorix in un modo che gli consentisse di lasciare liberi Eragon e Saphira dopo la battaglia delle Pianure Ardenti invece di farli suoi prigionieri. Non era colpa di Murtagh se i Gemelli lo avevano rapito; o se l'uovo del drago rosso, Castigo, si era schiuso davanti a lui; o se Galbatorix aveva scoperto i loro veri nomi, con cui aveva estorto a entrambi il giuramento di fedeltà nell'antica lingua.


Nulla di tutto questo era imputabile a Murtagh. Lui era una vittima del fato, dal giorno stesso in cui era nato.


Eppure... Murtagh poteva anche servire Galbatorix contro la propria volontà, e aborrire le atrocità che il re lo costringeva a commettere, ma una parte di lui sembrava compiacersi del potere appena acquisito. Durante la recente battaglia fra i Varden e l'esercito imperiale sulle Pianure Ardenti, Murtagh aveva individuato il re dei nani, Rothgar, e lo aveva ucciso, anche se Galbatorix non gli aveva ordinato espressamente di farlo. Murtagh aveva lasciato andare Eragon e Saphira, certo, ma solo dopo averli sconfitti in un feroce duello senza esclusione di colpi e aver ascoltato impassibile Eragon che lo implorava di liberarli.


E soprattutto, Murtagh aveva tratto un innegabile piacere dall'angoscia inflitta a Eragon nel rivelargli che erano entrambi figli di Morzan, primo e ultimo dei Rinnegati, i tredici Cavalieri dei Draghi che avevano tradito i propri compagni consegnandoli a Galbatorix.


Ora, a quattro giorni dalla battaglia, Eragon pensò a un'altra possibile spiegazione: Forse quello che voleva Murtagh era vedere un'altra persona oppressa dallo stesso terribile fardello che lui porta da una vita.


Quale che fosse la verità, Eragon sospettava che Murtagh avesse accettato il suo nuovo ruolo per la stessa ragione per cui un cane, continuamente bastonato senza motivo, un giorno si ribella e morde la mano al padrone. Murtagh era stato sempre bastonato dalla vita, e quella era la sua occasione per ribellarsi a un mondo che non si era mai dimostrato benevolo nei suoi riguardi.


Ma anche se il cuore di Murtagh poteva ancora celare un fievole barlume di bontà, lui ed Eragon erano condannati a essere mortali nemici, perché le promesse fatte da Murtagh nell'antica lingua lo vincolavano a Galbatorix in maniera indissolubile, e per sempre.


Se solo non fosse andato con Ajihad a inseguire gli Urgali nelle gallerie del Farthen Dûr. O se io fossi stato più rapido, i Gemelli...


Eragon, disse Saphira.


Il giovane si riscosse e annuì, grato alla dragonessa per il suo intervento. Si sforzava di non rimuginare su Murtagh e sui loro genitori, ma certi pensieri lo assalivano quando meno se lo aspettava.


Inspirò ed espirò a lungo per schiarirsi la mente, nel tentativo di tornare al qui e ora, ma non ci riuscì.


La mattina dopo la grande battaglia sulle Pianure Ardenti - mentre i Varden erano impegnati a riunirsi e organizzarsi per inseguire l'esercito imperiale, ritiratosi di parecchie miglia a monte del fiume Jiet - Eragon era andato da Nasuada e Arya per spiegare la situazione di Roran e chiedere il permesso di aiutare il cugino. Invano: le due donne si erano opposte con veemenza a quello che Nasuada aveva definito "un piano sconsiderato che avrà conseguenze catastrofiche per tutta Alagaësia se per caso qualcosa va storto!"


L'accalorata discussione era proseguita così a lungo che alla fine Saphira era intervenuta con un ruggito da scuotere le pareti della tenda del comandante. Poi aveva detto: Sono stanca e indolenzita, ed Eragon non riesce a spiegarsi come dovrebbe. Abbiamo cose ben più importanti da fare che non stare qui a gracchiare come cornacchie, giusto?... Bene, ora statemi a sentire.


Era difficile, rifletté Eragon, discutere con un drago.


I dettagli del discorso di Saphira erano complessi, ma la struttura del suo intervento fu sincera e diretta. Saphira sosteneva Eragon perché comprendeva quanto significasse per lui quella missione, e dal canto suo Eragon sosteneva Roran per affetto e senso del dovere, e perché sapeva che il cugino avrebbe tentato di liberare Katrina con o senza di lui, e che Roran non sarebbe mai stato capace di sconfiggere i Ra'zac da solo. Per giunta, finché l'Impero avesse tenuto Katrina prigioniera, Roran e di conseguenza Eragon sarebbero stati vulnerabili alle manipolazioni di Galbatorix. Se l'usurpatore avesse minacciato di uccidere Katrina, Roran non avrebbe avuto altra scelta se non cedere ai suoi ricatti.


Sarebbe stato preferibile, quindi, ricucire questa breccia nelle loro difese prima che i nemici avessero modo di sfruttarla.


Quanto al momento, era perfetto. Né Galbatorix né i Ra'zac si sarebbero aspettati un'incursione nel cuore dell'Impero quando i Varden erano impegnati a combattere le truppe imperiali ai confini del Surda. Murtagh e Castigo erano stati visti volare verso Urû'baen - senza dubbio per ricevere una punizione - e Nasuada e Arya erano d'accordo con Eragon nel ritenere che i due avrebbero proseguito verso nord per affrontare la regina Islanzadi e il suo esercito, una volta che gli elfi avessero fatto la prima mossa rivelando la loro presenza. Tra l'altro, sarebbe stato meglio eliminare i Ra'zac prima che cominciassero a terrorizzare e demoralizzare i guerrieri Varden.


Saphira aveva quindi sottolineato, nella maniera più diplomatica possibile, che se Nasuada avesse esercitato la sua signoria su Eragon e gli avesse proibito di partecipare alla missione, il loro legame sarebbe stato avvelenato da un rancore e da un dissidio tali che avrebbero potuto mettere a rischio la causa dei Varden. Però, aveva detto Saphira, la scelta è tua. Tieni Eragon qui con te, se vuoi. I suoi obblighi non sono i miei, e io ho deciso di accompagnare Roran. Mi sembra una gran bella avventura.


Un debole sorriso affiorò sulle labbra di Eragon al ricordo della scena.


La gravità della dichiarazione di Saphira, unita alla sua inoppugnabile logica, aveva convinto Nasuada e Arya a concedere la loro approvazione, per quanto a malincuore.


Più tardi Nasuada aveva detto: "Eragon, Saphira, noi confidiamo nel vostro discernimento. Per il vostro bene, e per il nostro, spero che questa spedizione vada a buon fine." Eragon non era sicuro di aver interpretato in modo corretto le sue parole, che potevano essere tanto di sincero augurio quanto di velata minaccia.


Eragon aveva passato il resto della giornata a preparare le bisacce, a studiare le mappe dell'Impero con Saphira e a evocare tutti gli incantesimi necessari, come quello per contrastare i tentativi di Galbatorix o dei suoi servi di divinare Roran.


Il mattino dopo, Eragon e Roran erano saliti in groppa a Saphira, che si era subito alzata in volo. Dopo aver bucato la coltre di nubi arancioni che incombeva sulle Pianure Ardenti, la dragonessa aveva virato verso nordest, continuando a volare senza fermarsi finché il sole, attraversato tutto l'arco del cielo, non si era tuffato dietro l'orizzonte in un glorioso tripudio di raggi rossi e gialli.


La prima tappa del viaggio li aveva portati ai confini dell'Impero, in una zona scarsamente abitata. Poi avevano cambiato direzione, volando a ovest verso Dras-Leona e l'Helgrind, continuando a viaggiare di notte per evitare di essere notati da uno dei tanti piccoli villaggi sparsi per la grande pianura che li separava dalla loro meta.


Eragon e Roran erano stati costretti ad avvolgersi in mantelli e pellicce, e a indossare guanti di lana e cappelli di feltro, perché Saphira aveva deciso di volare a un'altezza superiore a quella della maggior parte dei ghiacciai del paese - dove l'aria gelida e rarefatta trafiggeva i polmoni come una pugnalata - di modo che se un contadino intento a curare un agnello malato nel campo o una sentinella dalla vista acuta avessero guardato in alto mentre passava, l'avrebbero scambiata per un'aquila.


Ovunque andassero, Eragon vedeva i segni della guerra imminente: accampamenti di soldati, carri carichi di viveri raggruppati in cerchio per la notte, e file di uomini con collari di ferro, strappati alle loro case per combattere per Galbatorix. La quantità di risorse messe in campo contro di loro era davvero impressionante.


Verso la fine della seconda notte, l'Helgrind era comparso in lontananza: una massa di pinnacoli frastagliati, foschi e sinistri nella livida luce prima dell'alba. Saphira era atterrata nella conca dove si erano accampati, e avevano trascorso dormendo gran parte del giorno precedente alla ricognizione.


Una colonna di scintille ambrate si sprigionò dai carboni che languivano quando Roran vi gettò sopra un ramo secco. Notò lo sguardo di Eragon e si strinse nelle spalle. «Freddo» disse.


Prima che Eragon avesse modo di rispondere, si udì un fruscio prolungato e stridente, simile a quello di una spada sguainata.


Eragon non pensò; si gettò nella direzione opposta, rotolando su se stesso, poi si rialzò, accovacciato, con il bastone di biancospino pronto a parare un colpo in arrivo. Roran fu altrettanto fulmineo. Afferrò lo scudo da terra, balzò dal tronco dov'era seduto ed estrasse il martello dalla cintura, tutto nel giro di pochi secondi.


Rimasero immobili, in attesa di un agguato.


Il cuore martellava nel petto di Eragon e i muscoli gli tremavano per la tensione mentre aguzzava la vista nel buio, in cerca del più piccolo movimento.


Non fiuto niente, disse Saphira.


Quando furono trascorsi alcuni minuti senza che accadesse nulla, Eragon dilatò la mente per controllare l'ambiente circostante. «Nessuno» disse. Poi, attingendo al luogo più profondo del suo essere, da dove scaturiva la magia, mormorò: «Brisingr raudhr!» Un pallido globo di luce rossastra si materializzò a pochi passi da lui e lì rimase a fluttuare, all'altezza degli occhi, riversando nella conca un chiarore liquido. Eragon si spostò appena e il fuoco fatuo imitò il suo movimento, come se fossero collegati da un filo invisibile.


Insieme, Eragon e Roran andarono verso il punto da dove era venuto il rumore, scendendo nella gola stretta e rocciosa che tagliava verso est. Impugnavano le armi lunghe e si fermavano a ogni passo, pronti a difendersi in qualsiasi momento. A circa dieci iarde dal bivacco, Roran fece cenno a Eragon di fermarsi e gli indicò una lastra di ardesia sull'erba che non c'era quando erano passati poco prima. Roran s'inginocchiò e strofinò una scheggia di ardesia più piccola sulla lastra, producendo lo stesso stridore che avevano già udito.


«Dev'essere caduta dall'alto» disse Eragon, esaminando le pareti della gola, e concesse al fuoco fatuo di spegnersi.


Roran annuì e si alzò, spazzolandosi il terriccio dai pantaloni.


Mentre tornava da Saphira, Eragon rifletté sulla rapidità con cui avevano reagito. Sentiva ancora il cuore contratto in un groppo che faceva male a ogni battito, le mani tremanti, il corpo indolenzito come se avesse corso ininterrottamente per miglia e miglia. Non saremmo scattati così, prima, pensò. La ragione della loro prontezza era più che evidente: ogni battaglia aveva eroso parte della loro sicurezza, lasciandosi dietro nient'altro che nervi scoperti, pronti a reagire alla minima sollecitazione.


Roran doveva aver pensato la stessa cosa, perché disse: «Li vedi mai?»


«Chi?»


«Gli uomini che hai ucciso. Li vedi mai nei tuoi sogni?»


«A volte.»


Il bagliore pulsante della brace illuminava il viso di Roran dal basso, disegnandogli dense ombre sulla bocca e sulla fronte, e dando un'aria truce ai suoi occhi infossati sotto le palpebre socchiuse. Parlò lentamente, come se avesse difficoltà a esprimersi. «Non ho mai voluto essere un guerriero. Da ragazzo sognavo combattimenti e gloria, come fanno tutti i maschi a quell'età, ma la terra era la cosa più importante per me. Quella, e la nostra famiglia... E adesso invece ho ucciso... ho ucciso... ho ucciso... e tu più di me.» Il suo sguardo era smarrito in qualcosa di distante che soltanto lui poteva vedere. «Quei due uomini a Narda... Te l'ho mai raccontato?»


Lo aveva già fatto, ma Eragon fece no con la testa e rimase in silenzio.


«C'erano delle guardie al cancello principale... Erano due, e quella a destra aveva i capelli bianchissimi. Me lo ricordo perché non poteva avere più di ventiquattro, venticinque anni. Portavano i colori di Galbatorix, ma parlavano come gente di Narda. Non erano soldati di professione. Probabilmente erano soltanto uomini che avevano deciso di proteggere le proprie case dagli Urgali, dai pirati, dai briganti... Non avremmo alzato un dito contro di loro. Te lo giuro, Eragon, non faceva parte del nostro piano. Ma non ho avuto scelta. Mi hanno riconosciuto. Ho tagliato la gola a quello coi capelli bianchi... È stato come quando papà sgozzava un maiale. E poi l'altro, gli ho spaccato il cranio. Sento ancora le ossa cedere... Ricordo ogni colpo che ho inferto, contro i soldati a Carvahall, contro quelli sulle Pianure Ardenti... Sai, quando chiudo gli occhi a volte non riesco a dormire perché la mia mente è accecata dal bagliore degli incendi che abbiamo appiccato ai magazzini del molo di Teirm. E in quei momenti sono convinto che impazzirò.»


Eragon si accorse di stringere il bastone così forte che le nocche gli si erano sbiancate e i tendini sporgevano dai polsi. «Già» disse. «All'inizio erano solo Urgali, poi uomini e Urgali, e adesso quest'ultima battaglia... So che quello che facciamo è giusto, ma giusto non significa facile. Siccome siamo quello che siamo, i Varden si aspettano che Saphira e io guidiamo l'avanguardia del loro esercito per sterminare interi battaglioni di soldati. Lo facciamo. Dobbiamo.» La sua voce s'incrinò, e il giovane tacque.


Il caos accompagna ogni grande cambiamento, disse Saphira a entrambi. E noi lo abbiamo sperimentato più degli altri, perché siamo agenti del cambiamento stesso. Io sono una dragonessa, e non provo rimorso per la morte di coloro che ci minacciavano. Aver ucciso le guardie a Narda può non essere un'azione di cui andare fieri, ma nemmeno qualcosa per cui sentirsi in colpa. Hai dovuto farlo. Quando sei costretto a combattere, Roran, la gioia feroce della battaglia non ti mette le ali ai piedi? Non senti il piacere di misurarti con un valoroso avversario e la soddisfazione di vedere i corpi dei nemici accatastati ai tuoi piedi? Eragon, tu l'hai provato. Aiutami a spiegarlo a tuo cugino.


Eragon fissava le braci. La dragonessa aveva detto una verità che lui esitava a riconoscere, perché se avesse ammesso che si può provare piacere nella violenza, sarebbe diventato una persona disprezzabile. Così restò muto. Di fronte a lui, Roran sembrava altrettanto turbato.


Con voce più morbida, Saphira disse: Non fate così. Non era mia intenzione farvi arrabbiare... A volte dimentico che non siete ancora abituati a queste emozioni, mentre io ho combattuto con le unghie e con i denti per la sopravvivenza fin dal giorno in cui sono uscita dall'uovo.


Eragon si alzò e si avvicinò alle bisacce, da cui prese il piccolo orcio di terracotta che Orik gli aveva donato prima che partissero. Bevve due lunghi sorsi di idromele di lamponi e si sentì riscaldare lo stomaco. Con un sogghigno, passò l'orcio a Roran, che mandò giù un bel sorso.


Parecchie bevute dopo, quando l'idromele era riuscito nell'impresa di risollevargli l'umore, Eragon disse: «Domani potremmo avere un problema.»


«Che intendi?»


Eragon si rivolse anche a Saphira. «Ricordi quando ho detto che noi... io e Saphira... potevamo affrontare i Ra'zac facilmente?»


«Sì.»


Infatti possiamo, disse Saphira.


«Be', ci stavo pensando mentre tenevamo d'occhio l'Helgrind, e non ne sono più tanto sicuro. Esiste praticamente un numero infinito di modi di fare qualcosa con la magia. Per esempio, se voglio accendere un fuoco, posso farlo col calore ricavato dall'aria o dal terreno; posso creare una fiamma di pura energia; posso attirare un fulmine; posso concentrare un raggio di sole su un punto preciso; posso usare l'attrito, e così via.»


«Quindi?»


«Quindi il problema è: anche se posso ricorrere a differenti incantesimi per svolgere un'azione, per bloccare questi incantesimi basta un solo controincantesimo. Se impedisci all'azione stessa di verificarsi, non sei costretto a formulare il tuo controincantesimo per contrastare le qualità peculiari di ogni singolo incantesimo.»


«Ancora non capisco cosa c'entra questo con domani.»


Io sì, disse Saphira a entrambi. Aveva afferrato al volo le implicazioni. Vuol dire che nel corso degli ultimi cento anni Galbatorix...


«... potrebbe aver messo delle difese intorno ai Ra'zac...»

...

che li proteggono da...

«... una vasta gamma di incantesimi. Probabilmente non mi sarà possibile...»


... ucciderli con nessuna...


«... delle parole di morte che mi sono state insegnate, né...»


... con attacchi magici improvvisati sul momento. Potremmo...


«... dover fare affidamento...»


«Basta!» esclamò Roran, con un sorriso sofferente. «Basta, vi prego. Mi viene il mal di testa quando fate così.»


Eragon rimase a bocca aperta: fino a quel momento non si era reso conto che lui e Saphira stavano parlando a turno. Da una parte, quella novità gli fece piacere perché indicava un livello superiore di intesa: agivano come un'entità unica che li rendeva molto più potenti di quanto non fossero ciascuno per sé. Dall'altra però lo turbava, perché una simile affinità, per sua stessa natura, riduceva l'individualità di ciascuno.


Richiuse la bocca e ridacchiò. «Scusa. Ciò che mi preoccupa è questo: se Galbatorix è stato abbastanza previdente da prendere certe precauzioni, allora la forza delle armi potrebbe essere l'unico mezzo con cui uccidere i Ra'zac. Se le cose stanno così...»


«Allora domani vi sarei d'intralcio.»


«Sciocchezze. Magari sarai più lento dei Ra'zac, ma sono sicuro che darai loro motivo di temere la tua arma, Roran Fortemartello.» Il complimento fece piacere a Roran. «Il pericolo maggiore per te è se i Ra'zac o i Lethrblaka riescono a separarti da me e Saphira. Dobbiamo restare uniti per essere tutti più sicuri. Io e Saphira cercheremo di tenere occupati i Ra'zac e i Lethrblaka, ma qualcuno potrebbe sfuggirci. Quattro contro due è una proporzione che va bene solo quando fai parte dei quattro.»


A Saphira Eragon disse: Se avessi una spada, sono sicuro che riuscirei a uccidere i Ra'zac da solo, ma non so se posso battere due creature più veloci degli elfi armato solo di questo bastone.


Sei stato tu a insistere per portare solo quel ramo secco invece di un'arma come si deve, ribatté lei. Ricorda, ti avevo avvertito che non sarebbe bastato contro nemici pericolosi come i Ra'zac.


Eragon a malincuore le diede ragione. Se i miei incantesimi dovessero fallire, saremo molto più vulnerabili di quanto mi aspettassi... Domani potrebbe mettersi davvero male.


Continuando la conversazione a cui era stato ammesso, Roran disse: «La magia è una cosa complicata.» Il tronco su cui era seduto gemette quando raddrizzò la schiena per posare i gomiti sulle ginocchia.


«Già» convenne Eragon. «La parte più difficile è cercare di anticipare ogni possibile incantesimo. Io passo un sacco di tempo a chiedermi come fare a difendermi se verrò attaccato così e se un altro mago si aspetta che faccia cosà.»


«Saresti capace di rendermi forte e veloce come te?»


Eragon rifletté sulla proposta per qualche minuto prima di rispondere. «Non vedo come. L'energia necessaria dovrebbe venire da qualche fonte. Potremmo donartela io e Saphira, ma a quel punto perderemmo tanta forza e velocità quante ne otterresti tu.» Quello che non disse fu che avrebbe potuto assimilare energia anche dalle piante e dagli animali vicini, ma a un prezzo terribile: la morte degli esseri più piccoli da cui si estraeva la forza vitale. La tecnica era un segreto che Eragon non si sentiva di rivelare a cuor leggero. Non sarebbe stata comunque utile a Roran, perché intorno all'Helgrind non c'erano abbastanza piante o animali da poter nutrire il corpo di un uomo.


«Allora potresti insegnarmi a usare la magia?» Quando Eragon esitò, Roran aggiunse: «Non adesso, è chiaro. Non c'è tempo, e io non mi aspetto che uno possa diventare un mago da un giorno all'altro. Ma insomma, perché no? Siamo cugini. Abbiamo lo stesso sangue. E sarebbe un vantaggio preziosissimo.»


«Non so come una persona che non è un Cavaliere possa imparare a usare la magia» confessò Eragon. «Non è una cosa che ho studiato.» Si guardò intorno, raccolse da terra un sasso rotondo e piatto e lo lanciò a Roran, che lo prese al volo. «Tieni, prova con questo. Concentrati e cerca di sollevare il sasso in aria, dicendo "Stenr rïsa".»


«Stenr rïsa?»


«Esatto.»


Roran guardò il sasso che teneva nel palmo con un'espressione concentrata che rammentò a Eragon i giorni del proprio addestramento con Brom. Provò una fitta di nostalgia ricordando quando il vecchio cantastorie lo allenava senza dargli tregua. Roran aggrottò le sopracciglia, serrò le labbra e ringhiò «Stenr rïsa!» con una tale potenza che Eragon pensò che il sasso sarebbe schizzato via dalla paura.


Non accadde nulla.


Con la fronte sempre più aggrottata, Roran ripeté il comando: «Stenr risa!»


Il sasso diede prova di una profonda mancanza di collaborazione.


«Be'» disse Eragon, «continua a provarci. È l'unico consiglio che posso darti. Ma...» e alzò un dito in segno di ammonimento «... se per caso ci riuscissi, vieni subito da me, o se io non sono nei dintorni, rivolgiti a un altro mago. Potresti uccidere te stesso o qualcun altro se prendi a fare esperimenti con la magia senza conoscerne le regole. E ricorda: se pronunci un incantesimo che richiede troppa energia, muori. Non fare niente che vada oltre le tue possibilità, non cercare di riportare in vita i morti, e non cercare di disfare niente.»


Roran annuì, lo sguardo ancora fisso sulla pietra.


«Magia a parte, mi sono appena ricordato che c'è qualcosa di molto più importante che devi imparare.»


«Ah, sì?»


«Sì. Devi essere capace di nascondere i tuoi pensieri alla Mano Nera, al Du Vrangr Gata, e agli altri come loro. Adesso possiedi molte informazioni che potrebbero nuocere ai Varden. È essenziale, quindi, che impari bene a celarle non appena saremo tornati. Finché non saprai difenderti dalle spie, né Nasuada né io né nessun altro potrà affidarti informazioni che potrebbero aiutare i nostri nemici.»


«Capisco. Ma perché hai incluso il Du Vrangr Gata in questa lista? È al servizio tuo e di Nasuada.»


«È vero, ma anche fra i nostri alleati ci sono molti che darebbero il braccio destro...» sorrise per la sottigliezza della frase «... pur di scoprire i nostri piani e i nostri segreti. E anche i tuoi, sappilo. Sei diventato qualcuno, Roran. In parte per le tue gesta, in parte perché siamo parenti.»


«Lo so. È strano essere riconosciuti da qualcuno che non hai mai visto prima.»


«Appunto.» Gli venne la tentazione di fare molte altre osservazioni pertinenti, ma si trattenne; l'argomento meritava di essere approfondito un'altra volta. «Ora che sai cosa significa sentirsi toccati da una mente estranea, dovresti imparare a espandere la tua e a toccare le altre.»


«Non sono sicuro di volerlo imparare.»


«Non importa: potresti anche non essere capace di farlo. Ma prima di scoprirlo, devi imparare a difenderti.»


Il cugino inarcò un sopracciglio. «Come?»


«Scegli qualcosa... un suono, un'immagine, un'emozione, qualsiasi cosa... e lascia che cresca nella tua mente fino a bloccare ogni altro pensiero.»


«Tutto qui?»


«Non è facile come credi. Avanti. Provaci. Quando ti senti pronto, fammelo sapere e io vedrò se ci riesci davvero.»


Passarono alcuni minuti. Poi, a un cenno delle dita di Roran, Eragon dilatò la propria coscienza verso il cugino, desideroso di scoprire fino a che punto era arrivato.


Il raggio mentale lanciato a piena potenza da Eragon andò a urtare contro il muro composto dai ricordi che Roran aveva di Katrina e si fermò. Non riusciva a trovare una breccia, nessun varco o cedimento, nessun modo per infiltrarsi nell'impenetrabile barriera che si trovava davanti. In quel momento l'intera identità di Roran era fondata sui suoi sentimenti per Katrina: le sue difese erano più forti di tutte quelle che Eragon aveva incontrato prima, perché la mente di Roran era priva di qualsiasi altra cosa che Eragon potesse afferrare o usare per ottenere il controllo sul cugino.


Poi Roran spostò la gamba sinistra e dal legno del tronco si levò un sonoro scricchiolio.


A quel punto, il muro contro cui Eragon aveva urtato si disintegrò in decine di frammenti, mentre un'orda di pensieri estranei distraeva Roran: Che cosa è stato... maledizione! Non farci caso... entrerà. Katrina, ricordati di Katrina. Ignora Eragon. La notte in cui ha accettato di sposarmi, il profumo dell'erba e dei suoi capelli... È lui? No! Concentrati! Non...


Approfittando della confusione di Roran, Eragon entrò di slancio nella sua mente e con la forza di volontà immobilizzò Roran prima che potesse schermarsi.


Hai compreso il concetto principale, disse Eragon, poi si ritrasse dalla mente del cugino, e ad alta voce continuò: «... ma devi imparare a mantenere la concentrazione anche se ti trovi nel cuore di una battaglia. Devi imparare a pensare senza pensarci... a svuotare la mente da ogni speranza o angoscia, tranne l'idea che è la tua armatura. Una cosa che mi hanno insegnato gli elfi, e che ho trovato utile, è recitare un indovinello, una poesia o una canzone. Avere qualcosa che puoi ripetere all'infinito ti aiuta a impedire alla mente di divagare.»


«Ci proverò» promise Roran.


In tono più dolce, Eragon disse: «La ami molto, vero?» La sua era più una constatazione che una domanda - la risposta era ovvia - che non era nemmeno sicuro di voler fare. L'amore era un argomento che Eragon non aveva mai affrontato col cugino prima, nonostante le molte ore trascorse insieme negli anni passati, a chiacchierare dei pregi delle giovani donne di Carvahall e dintorni. «Com'è successo?»


«Lei mi piaceva. Io piacevo a lei. A che cosa servono i dettagli?»


«Coraggio» lo esortò Eragon. «Ero troppo arrabbiato per chiedertelo prima che partissi per Therinsford, e non ci siamo più visti fino a quattro giorni fa. Sono curioso.»


La pelle intorno agli occhi di Roran si stirò e si raggrinzì mentre lui si massaggiava le tempie. «Non c'è molto da dire. Ho sempre avuto un debole per lei. Non ci pensavo prima di diventare uomo, ma dopo i riti di passaggio ho cominciato a chiedermi chi avrei sposato, chi avrei voluto come madre dei miei figli. Durante una delle nostre visite a Carvahall, vidi Katrina fermarsi davanti alla casa di Loring per cogliere una rosa muscosa che cresceva all'ombra delle grondaie. Sorrise mentre guardava il fiore... Era un sorriso così dolce, così felice, che in quell'istante ho deciso che volevo farla sorridere ancora, e ancora, e che avrei voluto vedere quel sorriso fino alla fine dei miei giorni.» Lacrime gli brillarono negli occhi, ma non caddero, e un istante dopo Roran batté le palpebre e le lacrime svanirono. «Ho paura di aver fallito.»


Dopo un'opportuna pausa, Eragon disse: «L'hai corteggiata? A parte avermi usato come messaggero con Katrina, cos'altro hai fatto?»


«Mi fai delle domande come se cercassi istruzioni.»


«Non è vero. Stai fantasticando...»


«Abbi coraggio tu, ora» disse Roran. «Lo capisco quando menti. Ti viene quel sorrisetto da stupido e ti diventano rosse le orecchie. Gli elfi possono averti dato un volto nuovo, ma non sei del tutto cambiato. Cosa c'è fra te e Arya?»


La potenza dell'intuito di Roran turbò Eragon. «Niente! La luna ti ha annebbiato il cervello.»


«Sii sincero. Pendi dalle sue labbra come se ogni sua parola fosse un diamante, e la guardi come un morto di fame guarderebbe una tavola imbandita.»


Un filo di fumo grigio esalò dalle narici di Saphira, accompagnato da un rombo soffocato.


Eragon ignorò la risata repressa del drago e disse: «Arya è un'elfa.»


«E molto bella. Orecchie a punta e occhi a mandorla sono difetti perdonabili se paragonati al suo fascino. Anche tu somigli a un gatto, adesso.»


«Arya ha più di cento anni.»


Questa nuova informazione colse Roran di sorpresa. Sgranò gli occhi ed esclamò: «Incredibile! Sembra poco più di un'adolescente.»


«Infatti.»


«Be', sono ragioni, quelle che mi stai dando, Eragon, ma il cuore di rado segue la ragione. Insomma, ti piace o no?»


Se gli piacesse ancora un altro po', disse Saphira a entrambi, mi ritroverei a tentare di baciare Arya io stessa.


Saphira! Mortificato, Eragon sferrò una pacca sulla zampa della dragonessa.


Roran capì che non era il caso di stuzzicare oltre il cugino. «Allora rispondi alla mia prima domanda e dimmi come stanno le cose fra te e Arya. Hai parlato con lei o con la sua famiglia di questa cosa? Ho scoperto che non è saggio lasciar incancrenire questi argomenti.»


«Sì» rispose Eragon, fissando il bastone di biancospino levigato. «Ho parlato con lei.»


«E il risultato?» Quando Eragon non rispose subito, Roran si lasciò sfuggire un'esclamazione delusa. «Estorcerti le risposte è più difficile che tirar fuori Birka dal fango.» Eragon sorrise al nome di Birka, uno dei loro cavalli da tiro. «Saphira, ci pensi tu a risolvere questo enigma? Altrimenti temo che non riuscirò mai a ottenere una spiegazione soddisfacente.»


«Nessun risultato. Nulla di nulla. Lei non mi vuole.» Eragon parlò con distacco, come se stesse commentando la sventura di un altro, ma dentro gli ribolliva un torrente di dolore così forte e impetuoso che Saphira si ritrasse da lui.


«Mi dispiace» disse Roran.


Eragon si sforzò di deglutire per sciogliere il groppo che gli serrava la gola, il macigno che gli gravava sul cuore, il viluppo che gli annodava lo stomaco. «Succede.»


«Forse adesso ti sembra impossibile» disse Roran, «ma sono sicuro che incontrerai un'altra donna che ti farà dimenticare questa Arya. Ci sono moltissime ragazze... e anche qualche donna sposata, scommetto... che darebbero qualunque cosa per catturare l'attenzione di un Cavaliere. Non avrai nessuna difficoltà a trovare una moglie fra le tante bellezze di Alagaësia.»


«E tu che cosa avresti fatto, se Katrina avesse rifiutato la tua corte?»


La domanda zittì Roran: era chiaro che non riusciva a immaginare come avrebbe reagito in quel caso.


Eragon continuò. «Al contrario di quello che tu, Arya e chiunque altro sembrate pensare, io so che esistono altre donne desiderabili in Alagaësia e che le persone possono innamorarsi più di una volta nella vita. Senza dubbio, se passassi i miei giorni in compagnia delle dame della corte di re Orrin, alla fine potrei invaghirmi di una di loro. Ma il mio cammino non è così facile. Anche se riuscissi a deviare il mio affetto su di un'altra... e il cuore, come hai osservato, è una bestia notoriamente volubile... la domanda è sempre la stessa: sarebbe giusto?»


«La tua lingua è diventata contorta come le radici di un fico» disse Roran. «Parla chiaro.»


«D'accordo. Quale donna umana potrebbe anche solo cominciare a capire chi e cosa sono, o l'entità dei miei poteri? Chi potrebbe condividere la mia vita? Direi pochissime, forse soltanto una delle maghe. E in questo gruppo ristretto, o fra le donne in generale, quante sono immortali?»


Roran scoppiò in una risata fragorosa che riecheggiò nella conca. «Sarebbe come chiedere la luna, o...» S'interruppe di colpo. I suoi muscoli si tesero come se dovesse spiccare un balzo, poi rimase impietrito. «Non sarai...?»


«Sì.»


Roran si sforzò di trovare le parole. «È una conseguenza del tuo mutamento a Ellesméra o del fatto di essere un Cavaliere?»


«È una conseguenza del fatto di essere Cavaliere.»


«Questo spiega perché Galbatorix non è morto.»


«Già.»


Il ramo che Roran aveva aggiunto al fuoco si spezzò con un leggerissimo schiocco. La brace doveva aver riscaldato il legno nodoso in un punto dove una piccola sacca d'acqua o di linfa, sfuggita chissà come ai raggi del sole per molti decenni, era esplosa in vapore.


«L'idea è così... enorme da essere quasi inconcepibile» disse Roran. «La morte fa parte di quello che siamo. Ci guida. Ci forgia. Ci fa impazzire. Puoi ancora essere umano se non sei più mortale?»


«Non sono invincibile» precisò Eragon. «Posso ancora morire per un colpo di spada o di freccia. E posso ancora ammalarmi di un morbo incurabile.»


«Ma se eviti questi pericoli, vivrai per sempre.»


«Se li evito, sì. Io e Saphira continueremo a esistere.»


«Suona come una benedizione e una condanna al tempo stesso.»


«Già. Ecco perché in tutta onestà non posso sposare una donna che invecchierà e morirà mentre io resto inalterato nel tempo; una simile esperienza sarebbe crudele per entrambi. D'altro canto, trovo alquanto deprimente il pensiero di prendere una moglie dopo l'altra nel corso dei secoli.»


«E non puoi rendere qualcuno immortale con la magia?» chiese Roran. «Si possono annerire i capelli bianchi, spianare le rughe e togliere le cataratte, e se proprio vuoi esagerare, puoi regalare a un sessantenne il corpo che aveva a vent'anni. Ma gli elfi non hanno mai scoperto il modo di ringiovanire la mente di una persona senza distruggere i suoi ricordi. E chi vorrebbe mai cancellare la propria identità di tanto in tanto, in cambio dell'immortalità? Quello che continuerebbe a vivere sarebbe un estraneo. E nemmeno un cervello vecchio in un corpo giovane è la soluzione, perché anche una salute di ferro... ciò di cui siamo fatti noi umani può durare soltanto un secolo o poco più. Né si può arrestare l'invecchiamento. Questo implica tutta una serie di altri problemi... Oh, gli elfi e gli umani hanno tentato in mille modi diversi di sconfiggere la morte, ma nessuno ha avuto successo.»


«In altre parole» disse Roran, «per te è più sicuro amare Arya che lasciare il cuore libero perché lo conquisti una donna umana.»


«Chi altri potrei sposare se non un'elfa? Soprattutto considerato il mio aspetto.» Eragon frenò l'istinto di sfiorare le estremità puntute delle sue orecchie, un gesto diventato ormai un'abitudine. «Quando vivevo a Ellesméra, mi era facile accettare il cambiamento che i draghi mi avevano imposto. In fondo mi avevano elargito molti altri doni. E poi gli elfi si sono dimostrati più amichevoli nei miei confronti dopo l'Agaetí Blödhren. È stato solo quando sono tornato dai Varden che mi sono reso conto di quanto ero cambiato... E questo mi turba: non sono più soltanto un umano, ma non sono ancora nemmeno un elfo. Sono a metà strada: un misto, un mezzosangue.»


«Su col morale!» esclamò Roran. «Non preoccuparti di vivere per sempre. Galbatorix, Murtagh, i Ra'zac o perfino uno dei soldati imperiali potrebbe trafiggerci da un momento all'altro. Un uomo saggio dovrebbe ignorare il futuro e bere e festeggiare mentre ha ancora l'opportunità di godere di questo mondo.»


«So che cosa avrebbe ribattuto papà.»


«Già, e poi ci avrebbe dato una sonora legnata.»


Scoppiarono a ridere insieme, poi il silenzio che tanto spesso dilagava nelle loro discussioni prese di nuovo il sopravvento: un vuoto fatto in parti uguali di stanchezza, familiarità e delle molte differenze scavate dal destino fra coloro che un tempo avevano vissuto vite che erano soltanto variazioni di una stessa melodia.


Dovreste dormire, disse Saphira a Eragon e Roran. È tardi, e domattina dobbiamo svegliarci presto.

Eragon scrutò la nera volta del firmamento, giudicando l'ora dalla posizione delle stelle: la notte era più vecchia di quanto pensasse. «Saggio consiglio» disse. «Avrei preferito avere ancora un paio di giorni per riposare prima di attaccare l'Helgrind. La battaglia delle Pianure Ardenti ha prosciugato l'energia di Saphira e la mia, e non ci siamo ancora del tutto ripresi, dato che abbiamo volato fin qui e trasferito energia nella cintura di Beloth il Savio le ultime due sere. Sono ancora tutto indolenzito e ho più lividi di quanti ne riesca a contare. Guarda...» Slacciò i cordoncini del polsino della manica sinistra e arrotolò il morbido làmarae - un tessuto che gli elfi fabbricavano con lana intrecciata e fili di ortica - rivelando un solco giallastro nel punto in cui lo scudo gli aveva premuto sull'avambraccio.

«Ah!» disse Roran. «E quel segnetto sarebbe un livido? Mi sono fatto più male io stamattina quando ho battuto l'alluce. Adesso ti faccio vedere io un livido di cui andare fieri.» Si slacciò lo stivale sinistro, se lo tolse e arrotolò la gamba del pantalone per esporre una striatura nera larga un pollice che gli attraversava il quadricipite. «Mi sono beccato l'asta della lancia di un soldato che si girava.»

«Notevole, ma io ho di meglio.» Eragon si sfilò la casacca dalla testa, liberò la camicia dalla cintura dei pantaloni e si voltò di fianco per mostrare a Roran un'ampia lividura sulle costole e un'altra simile sul ventre. «Frecce» spiegò. Poi scoprì l'avambraccio destro, rivelando un'escoriazione gemella dell'altra, che si era procurato deviando un colpo di spada col bracciale.

Allora Roran gli mostrò una collezione di chiazze bluastre irregolari, ciascuna grande quanto una moneta d'oro, che andavano dall'ascella sinistra fino alla base della colonna vertebrale, il risultato di una caduta su un cumulo di pietre e un'armatura a sbalzo.

Eragon studiò le lesioni, poi ridacchiò e disse: «Puah, sembrano punture di spine! Ti sei perso e sei andato a finire in un cespuglio di rose? Ti faccio vedere io qualcosa che le farà vergognare.» Si tolse tutti e due gli stivali, si alzò e si calò i pantaloni, restando in camicia e braghe di lana. «Batti questa, se ci riesci» disse, e mostrò l'interno delle cosce. Una violenta combinazione di colori gli maculava la pelle, come un frutto esotico che maturava in maniera irregolare, dal verde acido al viola purulento.

«Ahia» disse Roran. «Come te lo sei fatto?»


«Sono saltato giù da Saphira durante il duello aereo con Murtagh e Castigo. Ecco come sono riuscito a ferire Castigo. Saphira si è gettata in picchiata sotto di me per prendermi al volo prima che mi schiantassi al suolo, ma sono atterrato sul suo dorso un po' più forte di quanto avrei voluto.»


Roran fece una smorfia e rabbrividì. «E continua fino a...» Lasciò la frase in sospeso e fece un vago gesto con la mano verso l'alto.


«Purtroppo sì.»


«Devo ammetterlo, è un gran bel livido. Dovresti esserne orgoglioso: non è da tutti procurarselo in quel modo, e proprio lì.»


«Sono contento che lo apprezzi.»


«Bene» proseguì Roran. «Tu puoi anche avere il livido più grosso, ma i Ra'zac mi hanno lasciato una ferita con cui non puoi competere, dato che i draghi, come mi pare di capire, ti hanno cancellato la cicatrice dalla schiena.» Mentre parlava si era liberato della camicia ed era entrato nel cono di luce pulsante creato dalla brace.


Eragon spalancò gli occhi per un istante prima di riprendersi e nascondere lo sconcerto dietro un'espressione più neutra. Si rimproverò di aver esagerato pensando Non può essere tanto grave, ma più studiava la ferita di Roran più era preoccupato.


Una lunga cicatrice raggrinzita, rossa e lucida, avvolgeva la spalla destra di suo cugino, partendo dalla clavicola per arrivare a metà del braccio. Era chiaro che il Ra'zac gli aveva reciso parte del muscolo e le due metà non si erano ricongiunte. Un malsano gonfiore deformava la pelle sotto la cicatrice, dove le fibre muscolari si erano ritratte su se stesse. Più in alto, la pelle era affondata, formando una depressione profonda mezzo pollice.


«Roran! Avresti dovuto mostrarmela giorni fa. Non avevo idea che i Ra'zac ti avessero ferito in questo modo... Riesci a muovere il braccio?»


«Non di lato o all'indietro» disse Roran, dandogli una dimostrazione. «Davanti riesco ad alzare la mano solo così... fino all'altezza del torace.» Con una smorfia riabbassò il braccio. «E comunque mi costa fatica. Devo tenere il pollice fermo, altrimenti il braccio s'intorpidisce. Ho scoperto che il modo migliore è farlo ruotare da dietro e calarlo sulla cosa che cerco di afferrare. Mi sono sbucciato le nocche non sai quante volte prima di imparare il trucco.»


Eragon si rigirò il bastone fra le mani. Devo? chiese a Saphira.


Penso di sì.


Domani potremmo pentircene.


Avrai più motivo di pentirti se domani Roran muore perché non è riuscito a brandire il martello nel momento del bisogno. Se prendi l'energia dalle fonti che ci circondano, eviterai di stancarti di più.


Lo sai che detesto farlo. Anche solo parlarne mi fa star male. Le nostre vite sono più importanti di quella di una formica, ribatté Saphira.


Non per una formica.


E tu sei una formica? Non cercare scuse, Eragon. Non è da te.


Con un sospiro, Eragon posò il bastone per terra e fece un cenno a Roran. «Vieni, ti guarisco io.»


«Puoi farlo?»


«Certo.»


Per un istante il viso di Roran s'illuminò di eccitazione, poi il giovane esitò e corrugò la fronte. «Adesso? È prudente?»


«Come ha detto Saphira, meglio curarti ora che ne ho l'occasione, perché la tua ferita potrebbe costarti la vita o mettere in pericolo gli altri.» Roran si avvicinò ed Eragon posò la mano destra sulla rossa cicatrice; intanto espandeva la coscienza per abbracciare gli alberi e le piante e gli animali che popolavano la conca, tranne quelli che ritenne troppo deboli per sopravvivere al suo incantesimo.


Poi cominciò a intonare un canto nell'antica lingua. L'incantesimo evocato era lungo e complesso. Guarire una ferita del genere andava ben oltre la semplice ricrescita di nuova pelle, ed era un'operazione molto difficile. Eragon si affidò alle formule curative che aveva studiato a Ellesméra e che aveva impiegato lunghe settimane a mandare a memoria.


Il marchio argentato sul suo palmo, il gedwëy ignasia, risplendette incandescente quando Eragon sprigionò la magia. Un istante dopo, emise un gemito involontario quando si sentì morire tre volte: due piccoli uccelli appollaiati su un ginepro poco distante e un serpente annidato fra le rocce. Davanti a lui, Roran gettò indietro la testa e arricciò le labbra in un muto ululato mentre il muscolo della spalla si allungava e si contorceva sotto la pelle palpitante.


E poi finì.


Eragon trasse un lungo respiro tremante e si prese la testa fra le mani, approfittando del fatto che il suo viso era celato per asciugarsi le lacrime prima di esaminare il risultato della sua opera. Vide Roran contrarre e rilassare le spalle più volte, poi stiracchiare le braccia e muoverle in cerchio. Roran aveva le spalle ampie e rotonde, il risultato di anni trascorsi a scavare buche per le palizzate, a sollevare massi, a raccogliere il fieno col forcone. Suo malgrado, Eragon provò una punta d'invidia. Poteva anche essere più forte di suo cugino, ma non sarebbe mai stato muscoloso come lui.


Roran sogghignò. «È tornata come prima! Anzi, meglio. Ti ringrazio.» «Figurati.»


«È stata una sensazione stranissima. Come se fossi sul punto di sgusciare fuori dalla pelle. E prudeva da morire; quasi mi mettevo a...»


«Mi prendi un po' di pane dalla bisaccia, per favore? Ho fame.»


«Abbiamo appena cenato.»


«Devo mangiare qualcosa dopo aver usato la magia in questo modo.» Eragon tirò su col naso, trasse un fazzoletto dalla tasca e si pulì. Poi tirò su col naso di nuovo. Quello che aveva detto non era del tutto vero. Era il tributo di vita che aveva estorto alla natura a turbarlo, non la magia in sé, e temeva di vomitare se non avesse mangiato qualcosa per placare lo stomaco.


«Non sarai malato?» chiese Roran.


«No.» Con il ricordo delle morti appena provocate che gli opprimeva il cuore, Eragon tese una mano verso l'orcio di idromele al suo fianco, sperando di arginare la marea di foschi pensieri.


Qualcosa di grosso, pesante e aguzzo gli inchiodò la mano al suolo. Eragon trasalì, alzò lo sguardo e vide la punta di una delle unghie d'avorio di Saphira pungergli la carne. La grande palpebra della dragonessa schioccò calando sull'iride scintillante che lo fissava. Dopo un lungo istante, Saphira levò la zampa ed Eragon ritrasse la mano. Deglutì e afferrò il bastone ancora una volta, cercando di ignorare l'idromele e di concentrarsi su ciò che era immediato e concreto invece che indugiare in cupe riflessioni.


Roran andò a prendere mezza pagnotta di pane lievitato dalla sua bisaccia, poi si fermò e con un sorriso appena accennato chiese: «Non preferiresti un po' di carne? La mia non l'ho mangiata tutta.» Tese lo spiedo che aveva ricavato da un ramo di ginepro, dov'erano infilzati tre bei pezzi di carne arrostita dalla crosticina dorata. Al naso sensibile di Eragon il profumo arrivò saporoso e pungente, carico di ricordi delle notti passate sulla Grande Dorsale e delle cene invernali quando lui, Roran e Garrow si stringevano intorno alla stufa, lieti della reciproca compagnia, mentre fuori imperversava la bufera. Gli venne l'acquolina in bocca. «È ancora calda» disse Roran, e agitò lo spiedo davanti agli occhi di Eragon.


Con un grande sforzo di volontà, Eragon scosse la testa. «No, mi basta il pane.»


«Sicuro? È perfetta: né troppo cotta, né troppo al sangue, e con la giusta dose di condimento. È così saporita che quando dai un morso ti sembra di mangiare il miglior arrosto di Elain.»


«No, non posso.»


«Guarda che ti piacerà.»


«Roran, smettila di provocarmi e dammi quel pezzo di pane!»


«Ah, lo vedi, stai già meglio. Magari quello che ti serve non è il pane, ma qualcuno che ti stuzzichi un po'.»


Eragon lo fulminò con un'occhiata, poi, più veloce di qualsiasi umano, strappò il pane dalla mano di Roran.


Il gesto parve divertire ancora di più il cugino. Mentre Eragon addentava il cibo, Roran disse: «Non capisco come fai a sopravvivere mangiando solo frutta, pane e verdura. Un uomo deve mangiare carne se vuole mantenersi in forze. Non ti manca?»


«Più di quanto immagini.»


«E allora perché insisti a torturarti così? Ogni creatura a questo mondo se vuole sopravvivere deve mangiare altri esseri viventi... anche se sono solo piante. È così che siamo fatti. Perché vuoi sovvertire l'ordine naturale delle cose?»


Gli ho detto la stessa cosa a Ellesméra, osservò Saphira, ma non ha voluto ascoltarmi.


Eragon si strinse nelle spalle. «Ne abbiamo già discusso. Voi fate come vi pare. Io non dico a voi né a nessun altro come dovete vivere. Ma non posso, in tutta coscienza, mangiare una creatura di cui ho condiviso pensieri e sensazioni.»


La punta della coda di Saphira fremette e le squame crocchiarono contro un masso rotondo che sporgeva dal terreno. Oh, è un caso disperato. Saphira levò e tese il collo, strappando la carne con tutto lo spiedo dalla mano di Roran. Il legno crepitò fra le sue zanne serrate mentre mordeva, poi lo spiedo e la carne svanirono nei famelici abissi del suo ventre. Mmm. Non esageravi, disse a Roran. Che bocconcino prelibato: così morbido, succulento, gustoso che mi dà brividi di piacere. Dovresti cucinare per me più spesso, Roran Fortemartello. Solo, la prossima volta sarà il caso di arrostire qualche cervo in più, altrimenti non avrò un pasto come si deve.


Roran esitò, come se non sapesse se la richiesta della dragonessa era seria e, in tal caso, in che modo sottrarsi con garbo a un tale obbligo non desiderato e decisamente oneroso. Scoccò un'occhiata implorante a Eragon, che scoppiò a ridere, sia per l'espressione di Roran che per la situazione.


La risata sonora di Saphira si unì a quella di Eragon e riverberò in tutta la conca. Le sue zanne scintillarono rosse alla luce della brace.

Un'ora dopo che i tre si erano sistemati per la notte, Eragon giaceva al fianco di Saphira, avvolto in diversi strati di coperte per ripararsi dal freddo della notte. Tutto era silenzioso e immobile. Sembrava quasi che uno stregone avesse evocato un incantesimo sulla terra e che ogni cosa fosse immersa in un sonno eterno, destinata a rimanere cristallizzata e immutata per sempre sotto lo sguardo vigile delle stelle tremanti.

Senza muoversi, Eragon sussurrò con la mente: Saphira?


Sì, piccolo mio?


Che cosa succede se ho ragione e lui si trova nell'Helgrind? Non so cosa fare... Dimmelo tu.

Non posso, piccolo mio. Questa è una decisione che devi prendere da solo. I modi degli uomini non sono i modi dei draghi. Toccasse a me, gli strapperei la testa e banchetterei col suo corpo, ma questo per te sarebbe sbagliato, immagino.

Resterai al mio fianco, qualunque cosa io decida?


Come sempre, piccolo mio. Ora riposa. Andrà tutto bene.


Confortato, Eragon fissò il vuoto fra le stelle e rallentò la respirazione,

scivolando nello stato di trance che ormai sostituiva in lui il sonno profondo. Pur restando consapevole di ciò che lo circondava, sullo sfondo delle brillanti costellazioni vide i protagonisti dei suoi sogni a occhi aperti farsi avanti per compiere azioni oscure e confuse, com'era loro abitudine.

ATTACCO ALL'HELGRIND

Mancavano quindici minuti all'alba quando Eragon si svegliò. Schioccò le dita due volte per svegliare Roran, poi raccolse le coperte e le arrotolò in uno stretto fagotto.

Alzatosi a fatica, Roran fece lo stesso con il suo giaciglio.


Si scambiarono un'occhiata, percorsi da un fremito d'eccitazione. «Se muoio» disse Roran, «ti prenderai cura di Katrina?»


«Lo farò.»


«Dille che sono andato in battaglia con la gioia nel cuore e il suo nome

sulle labbra.»


«Lo farò.»


Eragon mormorò una breve frase nell'antica lingua. Il calo di energia fu

quasi impercettibile. «Ecco fatto. Servirà a filtrare l'aria davanti a noi e ci proteggerà dagli effetti paralizzanti del fiato dei Ra'zac.»

Dalla bisaccia trasse l'involto di tela grezza dove aveva conservato la sua cotta di maglia e lo aprì. Il corsaletto un tempo scintillante era ancora incrostato di sangue dalla battaglia sulle Pianure Ardenti, e il misto di sangue rappreso, sudore e incuria aveva permesso alla ruggine d'infiltrarsi fra gli anelli. La maglia però era integra, dato che Eragon l'aveva riparata prima di partire per l'Impero.

Eragon indossò il corsaletto di maglia con il dorso di cuoio, arricciando il naso per il lezzo di morte e disperazione che lo impregnava, poi si legò i bracciali agli avambracci e i gambali agli stinchi. Sulla testa infilò una calotta imbottita, un cappuccio di maglia e un semplice elmo d'acciaio. Aveva perduto il proprio - quello che aveva indossato nel Farthen Dûr e che i nani avevano inciso con l'emblema del Dûrgrimst Ingeitum - insieme allo scudo durante il duello aereo fra Saphira e Castigo. Le mani erano protette da guanti di maglia.

Roran si vestì allo stesso modo, con uno scudo di legno in più. Lo scudo era contornato da una fascia di ferro morbido che serviva a parare meglio i colpi e a trattenere la spada del nemico. Non c'era scudo a proteggere il braccio sinistro di Eragon: servivano tutte e due le mani per manovrare il bastone di biancospino.

A tracolla, Eragon portava la faretra che gli aveva donato la regina Islanzadi. Oltre alle venti frecce di legno di quercia dall'impennaggio di piume di cigno, conteneva l'arco di filigrana d'argento che la regina aveva cantato per lui da un albero di tasso. L'arco era già incordato e pronto all'uso.

Saphira grattò il terriccio sotto i piedi con impazienza. Vogliamo partire o no?


Dopo aver appeso bisacce e vettovaglie ai rami di un albero di ginepro, Eragon e Roran si arrampicarono sul dorso di Saphira. Non furono costretti a perdere tempo per sellarla; la dragonessa aveva tenuto addosso la bardatura per tutta la notte. Eragon sentì sotto di sé il calore del cuoio sagomato. Afferrò saldamente la punta cervicale che aveva davanti - per sorreggersi in caso di brusche virate - mentre Roran gli cingeva la vita con un braccio muscoloso, l'altra mano impegnata a brandire il martello.


Una lastra di ardesia s'incrinò sotto il peso di Saphira quando la dragonessa si accovacciò per prendere lo slancio e spiccare un unico balzo verso il ciglio del dirupo che affacciava sulla gola, dove rimase in equilibrio per un istante prima di spiegare le ali possenti. Le sottili membrane emisero un cupo ronzio quando Saphira le dispose perpendicolari al cielo. In quella posizione, sembravano due azzurre vele traslucide.


«Non mi stringere così» borbottò Eragon.


«Scusa» disse Roran, allentando l'abbraccio.


Non poterono più parlarsi, perché Saphira balzò di nuovo. Una volta raggiunto il culmine dello slancio, la dragonessa abbassò le ali con un sonoro fruscio prolungato e si spinse verso l'alto. A ogni battito d'ali si avvicinavano sempre di più ai sottili strati di nubi.


Mentre Saphira virava verso l'Helgrind, Eragon scoccò un'occhiata a sinistra e scoprì che, grazie all'altezza, riusciva a scorgere un buon tratto del Lago di Leona, a qualche miglio di distanza. Un denso strato di nebbia, grigia e spettrale nel tenue chiarore dell'aurora, aleggiava sull'acqua, come se sulla superficie liquida ardesse un enorme fuoco fatuo. Eragon aguzzò la vista, ma nonostante i suoi occhi da falco non riuscì a distinguere la sponda opposta né le propaggini meridionali della Grande Dorsale. Provò una fitta di nostalgia: non vedeva le montagne della sua infanzia da quando aveva lasciato la Valle Palancar.


A nord sorgeva Dras-Leona, una massa enorme e indistinta che si stagliava tozza contro il muro di nebbia che ne orlava i confini occidentali. L'unico edificio che Eragon riuscì a identificare fu la cattedrale dove i Ra'zac lo avevano attaccato; la sua guglia torreggiava sul resto della città come una punta di lancia munita di barbigli.


Eragon sapeva che da qualche parte, nella piana che scorreva sotto di loro, c'erano ancora i resti dell'accampamento dove i Ra'zac avevano ferito a morte Brom. Si lasciò invadere ancora una volta dal furore e dalla pena che aveva provato quel giorno lontano - come anche all'epoca della morte di Garrow e della distruzione della fattoria - affinché quei violenti sentimenti gli infondessero il coraggio, anzi, la brama di affrontare i Ra'zac in battaglia.


Eragon, disse Saphira. Oggi non dobbiamo schermare le nostre menti e tenere segreti i nostri pensieri, vero?


No, a meno che non compaia qualche stregone.


Un ventaglio di luce dorata si levò all'orizzonte quando spuntò la cupola fiammeggiante del disco solare. Il mondo, che fino a un istante prima era stato avvolto da un'uniforme coltre grigiastra, s'illuminò di tutti i colori dell'arcobaleno: la nebbia risplendette azzurrina, l'acqua scintillò di un blu intenso, le mura che cingevano il centro di Dras-Leona rivelarono il loro sudicio intonaco di fango giallo, gli alberi si rivestirono di ogni possibile sfumatura di verde e il terreno avvampò di rosso e arancio. L'Helgrind, tuttavia, rimase com'era sempre: nero.


Mentre si avvicinavano, la montagna di pietra s'ingrandiva a vista d'occhio. Perfino dall'alto appariva inquietante.


Nel tuffarsi verso la base dell'Helgrind, Saphira fece una virata a sinistra così stretta che Eragon e Roran sarebbero precipitati se non avessero avuto le gambe legate alla sella. La dragonessa sfrecciò intorno alla massicciata di ghiaia e sopra l'altare dove i sacerdoti dell'Helgrind celebravano i loro riti. Il vento s'insinuò sotto la visiera dell'elmo di Eragon, che fu assordato dal potente sibilo.


«Allora?» gridò Roran, che non riusciva a vedere davanti.


«Gli schiavi sono spariti!»


Eragon si sentì come schiacciato da un peso enorme quando Saphira interruppe bruscamente la picchiata per risalire a spirale intorno all'Helgrind, in cerca dell'ingresso del covo dei Ra'zac.


Nemmeno un buco sufficiente a far passare un ratto, dichiarò la dragonessa. Rallentò e restò sospesa davanti a un crinale che congiungeva il terzo dei quattro picchi, il più basso, alla cima dominante. Lo sperone irregolare amplificava il rombo prodotto da ogni battito d'ali tanto da renderlo simile al fragore di un tuono. Eragon aveva gli occhi colmi di lacrime mentre l'aria gli frustava la pelle.


Una ragnatela di venature bianche adornava le pareti in ombra dei dirupi e dei pilastri, dove la brina si era raccolta nelle fessure della roccia. Non c'era altro a disturbare la cupezza dei neri bastioni battuti dai venti dell'Helgrind. Non crescevano alberi sui pendii rocciosi, non c'erano arbusti o ciuffi d'erba o muschi o licheni; le aquile non osavano fare il nido sulle cornici frastagliate della torre. Fedele al suo nome, l'Helgrind era un luogo di morte, e si ergeva ammantato nelle pieghe rigide e affilate delle sue scarpate e dei suoi crepacci come uno spettro scheletrico sorto a perseguitare la terra.


Espandendo la mente, Eragon trovò conferma della presenza delle due persone che aveva scoperto imprigionate all'interno dell'Helgrind il giorno prima, ma lo turbò il fatto di non riuscire a localizzare i Ra'zac o i Lethrblaka. Se non qui, allora dove sono? si domandò. Cercando ancora, notò qualcosa che prima gli era sfuggito: un fiore solitario, una genziana, a meno di cinquanta piedi da loro, dove, secondo logica, non avrebbe dovuto esserci altro che solida roccia. Dove trova la luce per sopravvivere?


Saphira rispose alla sua domanda appollaiandosi su una sporgenza di roccia franosa distante qualche passo. Nel farlo, per un attimo perse l'equilibrio, e batté le ali per recuperarlo. Invece di urtare contro la massa compatta dell'Helgrind, la punta dell'ala destra affondò nella roccia e ne riemerse.


Saphira, hai visto?!


Sì.


Protesa in avanti, Saphira allungò la punta del muso verso la roccia, fermandosi a uno o due pollici di distanza, come in attesa che scattasse qualche trappola; poi continuò ad avanzare. Squama dopo squama, la testa di Saphira scivolò nell'Helgrind, finché di lei non rimasero visibili che il collo, il torso e le ali.


È un'illusione! esclamò la dragonessa.


Con un guizzo dei muscoli possenti, Saphira abbandonò la sporgenza di roccia e fece seguire alla testa il resto del corpo. Eragon fece appello a tutto il suo autocontrollo per non coprirsi il volto nel tentativo disperato di proteggersi mentre la parete rocciosa gli correva incontro.


Un istante dopo, si ritrovò a fissare una vasta caverna con la volta soffusa dal tiepido chiarore del mattino. Le squame di Saphira rifrangevano la luce, proiettando migliaia di tremuli puntini azzurri sulle pareti di roccia. Voltando la testa, Eragon non vide roccia alle loro spalle: soltanto l'ingresso della grotta e uno squarcio del panorama sottostante.


Sorrise amaro. Non gli era venuto in mente che Galbatorix avesse potuto nascondere la tana dei Ra'zac con la magia. Idiota! Devo fare di meglio, si disse. Sottovalutare il re era un modo sicuro per farsi uccidere tutti.


Roran imprecò fra i denti e disse: «La prossima volta prima di fare una cosa del genere, avvertimi.»


Chino in avanti, Eragon cominciò a slacciare le cinghie che gli tenevano le gambe legate alla sella, studiando nel frattempo l'ambiente in cerca di pericoli.


L'ingresso della caverna era un ovale irregolare, alto cinquanta piedi e largo una sessantina, che si apriva su di una camera grande il doppio. In fondo, a un buon tiro di freccia di distanza, la grotta terminava in un cumulo di lastre rocciose addossate l'una all'altra alla rinfusa. Una ragnatela di scalfitture solcava il pavimento, prova delle innumerevoli volte che i Lethrblaka avevano spiccato il volo, erano atterrati e avevano camminato su quella superficie. Come misteriosi buchi di serratura, sui lati della caverna si aprivano cinque basse gallerie e un arco ogivale abbastanza alto da far passare Saphira. Eragon studiò con attenzione le gallerie, ma erano nere come la pece e apparentemente vuote, un fatto a cui trovò conferma con una rapida esplorazione della mente. Strani mormorii confusi riecheggiavano dalle profondità dell'Helgrind, evocando immagini di cose sconosciute che sgattaiolavano nel buio, insieme a un incessante gocciolio d'acqua. Al coro di sussurri si univa il respiro regolare di Saphira, amplificato dalle ridotte dimensioni della caverna.


La caratteristica più notevole della grotta, tuttavia, era il misto di odori che la pervadeva. Sotto l'odore predominante della pietra fredda, Eragon fiutò il tanfo dell'umidità e della muffa, e anche qualcosa di peggio: il fetore dolciastro e nauseabondo della carne in putrefazione.


Dopo essersi slacciato le ultime cinghie, Eragon scavalcò il dorso di Saphira e restò seduto in sella di lato, pronto a saltare giù. Altrettanto fece Roran dall'altra parte.


Un attimo prima di lanciarsi, Eragon udì, confusi fra i diversi fruscii che gli solleticavano le orecchie, una serie di picchiettii simultanei, come se qualcuno colpisse la roccia con delle piccozze. Il rumore si ripeté mezzo secondo dopo.


Volse la testa in direzione del rumore, e Saphira lo imitò.


Un'enorme figura deforme si avventò dall'arco ogivale. Occhi neri, sporgenti, senza palpebre. Becco lungo diversi piedi. Ali da pipistrello. Torso nudo, glabro, vibrante di muscoli. Artigli come punte di lancia.


Saphira guizzò di lato nel tentativo di schivare il Lethrblaka, ma fu inutile. La creatura cozzò contro il fianco destro della dragonessa con quella che a Eragon parve la potenza e la furia di una valanga.


Quanto accadde subito dopo, Eragon non lo capì, perché lo scontro lo spedì in aria senza che riuscisse a formulare un solo pensiero coerente. Il volo terminò bruscamente così com'era iniziato quando il giovane finì di schiena contro qualcosa di duro e piatto, per poi cadere a terra picchiando la testa un'altra volta. Il secondo, violento impatto gli sottrasse quel poco di aria che gli restava nei polmoni. Stordito, rimase raggomitolato su un fianco, ansante, e tentò di riprendere una parvenza di controllo sulle membra inerti.


Eragon! gridò Saphira.


Il tono angosciato della dragonessa fu come una sferzata di energia per Eragon. Mentre la vita gli tornava nella braccia e nelle gambe, protese la mano per afferrare il bastone caduto lì accanto. Piantò il puntale di ferro in una fessura nella roccia e si issò facendo forza sul ramo di biancospino. Barcollò. Uno sciame di puntini rossi gli danzò davanti agli occhi.


La situazione era così confusa che non sapeva dove guardare prima.


Saphira e il Lethrblaka rotolavano avvinghiati nella grotta, distribuendo calci, unghiate e morsi con tanta ferocia da scheggiare la roccia. Il clamore della lotta doveva essere assordante, ma per Eragon si azzuffavano in silenzio: le orecchie non gli funzionavano. Tuttavia avvertiva le vibrazioni sotto i piedi, mentre le colossali creature si schiantavano di qua e di là, minacciando di schiacciare chiunque capitasse loro vicino.


Un torrente di fuoco azzurro eruttò dalle fauci di Saphira e avvolse il lato sinistro della testa del Lethrblaka in una vampa infernale così ardente da riuscire a fondere l'acciaio. Le fiamme curvarono intorno al Lethrblaka senza procurare alcun danno alla creatura. Imperturbato, il mostro si avventò col becco contro il collo di Saphira, costringendola a interrompere la fiammata per difendersi.


Fulmineo come una freccia scoccata da un arco, il secondo Lethrblaka uscì dall'arco per avventarsi sul fianco di Saphira e spalancando il becco aguzzo emise un orribile stridio, così forte che Eragon si sentì accapponare la pelle e avvertì un gelido nodo di terrore formarsi nello stomaco. Digrignò i denti: quello lo aveva sentito.


L'odore adesso, con entrambi i Lethrblaka presenti, era paragonabile al fetore nauseabondo di una decina di libbre di carne rancida lasciate a fermentare in un barile di letame per una settimana in piena estate.


Eragon si tappò la bocca con la mano, lo stomaco sottosopra, e rivolse altrove la sua attenzione per non vomitare.


A qualche passo di distanza, Roran giaceva rannicchiato contro la parete della grotta addosso alla quale era stato scagliato. Sotto lo sguardo preoccupato di Eragon, il cugino riuscì a mettersi carponi e poi in piedi. Aveva gli occhi vitrei e barcollava come un ubriaco.


Alle spalle di Roran, da una delle gallerie emersero i due Ra'zac. Con le mani deformi impugnavano lunghe spade livide di antica fattura. A differenza dei loro genitori, i Ra'zac avevano dimensioni e forma vagamente umane. Erano rivestiti da capo a piedi da un esoscheletro nero come l'ebano, che si intravvedeva a stento, dato che perfino nell'Helgrind indossavano mantelli e cappucci scuri.


Si spostavano con una rapidità impressionante, con improvvisi movimenti a scatti simili a quelli degli insetti.


Eppure Eragon non riusciva ancora a percepirli, e nemmeno i Lethrblaka. Anche loro sono illusioni? si chiese. Ma no, era una sciocchezza: la carne che Saphira lacerava coi suoi artigli era decisamente vera. Allora gli venne in mente un'altra spiegazione: forse era impossibile rilevare la loro presenza. Forse i Ra'zac potevano nascondersi alla mente degli umani - le loro prede - come i ragni si nascondono alle mosche. Se le cose stavano così, allora si capiva come mai i Ra'zac fossero riusciti a dare la caccia a maghi e Cavalieri per conto di Galbatorix, pur non essendo capaci di usare la magia.


Dannazione! Eragon avrebbe potuto trovare imprecazioni molto più colorite, ma quello era il momento di agire, non di maledire la sfortuna. Brom gli aveva detto che i Ra'zac non erano alla sua altezza in piena luce del giorno, e poteva anche essere vero - Brom aveva avuto decine di anni per inventare incantesimi da usare contro i Ra'zac - ma Eragon sapeva che senza il vantaggio della sorpresa lui, Saphira e Roran sarebbero stati fortunati a portare in salvo la pelle, figurarsi Katrina.


Levando in alto la mano destra, Eragon gridò: «Brisingr!» e scagliò una ruggente sfera di fuoco contro i Ra'zac. I mostri la schivarono e la sfera andò a infrangersi contro il pavimento di roccia, sfarfallò per un istante, poi si dissolse. Era stato un incantesimo stupido e infantile, che non avrebbe potuto arrecare alcun danno ai Ra'zac se Galbatorix li aveva protetti come i Lethrblaka. Ma almeno gli diede soddisfazione e distrasse i Ra'zac abbastanza a lungo da permettergli di correre da Roran e mettersi spalle a spalle col cugino.


«Tienili a bada per un minuto» gridò, sperando che Roran lo sentisse. Roran afferrò il senso, perché si riparò con lo scudo e levò il martello preparandosi a combattere.


L'enorme potenza in ogni singolo, terribile colpo dei Lethrblaka aveva già esaurito le difese magiche contro il pericolo fisico che Eragon aveva eretto intorno a Saphira. Senza più barriere a ostacolarli, i Lethrblaka avevano inflitto una serie di graffi - lunghi ma poco profondi - alle cosce della dragonessa e l'avevano infilzata tre volte col becco: ferite piccole, ma profonde e molto dolorose.


Dal canto suo, Saphira aveva aperto uno squarcio nel torace di un Lethrblaka e staccato con un morso buona parte della coda dell'altro. Il sangue dei Lethrblaka, notò Eragon sbigottito, era di un verdazzurro metallico, simile alla patina verdastra che si forma sul rame ossidato.


Le due creature cambiarono tattica e si allontanarono da Saphira, ma continuarono ad accerchiarla, avventandosi su di lei di tanto in tanto per tenerla a bada in attesa che si stancasse o del momento propizio per ucciderla con un colpo di becco.


Saphira era meglio equipaggiata dei Lethrblaka per il combattimento corpo a corpo, grazie alle squame - più dure e resistenti della loro pellaccia grigia - e ai denti - di gran lunga più letali del loro becco in uno scontro ravvicinato - ma in quella situazione, con il basso soffitto della caverna che le dava scarsa libertà di manovra per saltare o volare, aveva non poche difficoltà a tenere testa a due creature che l'attaccavano contemporaneamente. Eragon temeva che se anche avesse avuto la meglio, i Lethrblaka l'avrebbero mutilata prima che lei li uccidesse.


Il giovane Cavaliere trasse un profondo respiro e lanciò un singolo incantesimo che conteneva ciascuna delle dodici tecniche per uccidere che Oromis gli aveva insegnato. Lo formulò con estrema cautela, pronunciando una frase dopo l'altra di modo che, se le difese di Galbatorix lo avessero respinto, avrebbe potuto arrestare il flusso di magia. Altrimenti l'incantesimo avrebbe potuto consumargli le forze fino a ucciderlo.


La precauzione si rivelò quanto mai opportuna. Nel lanciarlo, Eragon si accorse subito che la magia non aveva effetto sui Lethrblaka, e rinunciò all'assalto. Non che si fosse aspettato di avere successo con le tradizionali parole di morte, ma aveva dovuto almeno provarci, nella remota possibilità che Galbatorix avesse commesso qualche errore o negligenza nel creare le difese per i Lethrblaka e la loro progenie.


Alle sue spalle, Roran gridò: «Yah!» Un istante dopo, una spada cozzò sul suo scudo; poi si udirono il tintinnio della maglia metallica che si lacerava e il clangore di una seconda spada che rimbalzava sull'elmo.


Fu così che Eragon si accorse che il suo udito stava migliorando.


I Ra'zac continuavano ad attaccare, ma ogni volta le loro armi scivolavano sull'armatura di Roran, o mancavano il suo volto e il suo corpo di un soffio, anche se mulinavano le lame con una stupefacente rapidità. Roran era troppo lento per contrattaccare, ma i Ra'zac non riuscivano a ferirlo. Sibilavano di frustrazione e sputavano una serie ininterrotta di invettive, che suonavano ancora più immonde per come i becchi duri e chioccianti alteravano le parole.


Eragon sorrise fra sé. Il bozzolo di incantesimi che aveva tessuto intorno a Roran stava funzionando. Sperava che l'invisibile rete di energia reggesse finché lui non avesse trovato il modo di fermare i Lethrblaka.


All'improvviso, i due Lethrblaka strillarono all'unisono, e tutto tremò e si fece grigio intorno a Eragon. Per un istante perse ogni determinazione e non riuscì a muoversi, poi si riebbe, scrollandosi come fanno i cani, per liberarsi dalla loro nefanda influenza. Il suono stridulo gli ricordò due bambini che urlano di dolore.


Allora cominciò a cantare nell'antica lingua, più in fretta che poteva senza rischiare di sbagliare pronuncia. Ogni frase, ed erano una schiera, conteneva il potenziale per provocare una morte istantanea, e ogni morte era diversa dall'altra. Mentre Eragon recitava il suo improvvisato soliloquio, Saphira subì un'altra ferita sul fianco sinistro. Per contro spezzò un'ala del suo aggressore, riducendo con gli artigli la sottile membrana in tante striscioline. Ancora spalle a spalle col cugino, Eragon avvertì i contraccolpi trasmessi dalla schiena di Roran alla sua, mentre i Ra'zac sferravano attacchi in rapida successione. Il più grosso cominciò ad aggirare Roran, nel tentativo di attaccare direttamente Eragon.


Poi, nel frastuono di acciaio contro acciaio e acciaio contro legno, e di artigli contro pietra, si udì lo stridore di una spada che lacerava una maglia, seguito da un rumore liquido. Roran gridò, ed Eragon sentì un fiotto di sangue inzuppargli il polpaccio destro.


Con la coda dell'occhio si accorse che la creatura gibbosa spiccava un salto verso di lui, la spada a lamina puntata come a volerlo impalare. Il mondo parve contrarsi intorno alla lama aguzza e sottile, la punta scintillò come una scheggia di cristallo, ogni graffio un filo d'argento pulsante nella chiara luce dell'alba.


Eragon ebbe il tempo di formulare un solo altro incantesimo prima di dedicarsi al Ra'zac per impedirgli d'infilzarlo con la spada, trafiggendolo tra il fegato e i reni. Cessò l'attacco diretto contro i Lethrblaka e gridò: «Garjzla, letta!»


Era un incantesimo rozzo, evocato in fretta, con poche parole, eppure funzionò. Gli occhi bulbosi del Lethrblaka con l'ala spezzata divennero due ammassi di specchi, ciascuno un emisfero perfetto: la magia di Eragon rifletté la luce che altrimenti sarebbe entrata nelle pupille del Lethrblaka e, accecata, la creatura inciampò, frustando l'aria nel vano tentativo di colpire Saphira.


Eragon fece roteare il bastone di biancospino fra le mani e deviò la spada del Ra'zac quando era a meno di un pollice dalle sue costole. Il Ra'zac atterrò davanti a lui e fece scattare il collo in avanti. Eragon balzò all'indietro quando vide un becco corto e tozzo comparire da sotto il cappuccio. L'appendice chitinosa schioccò a un soffio dal suo occhio destro. Con un singolare distacco, Eragon ebbe modo di notare che la lingua del Ra'zac era violacea, ricoperta di barbigli, e si contorceva come un serpente senza testa.


Unendo le mani al centro del bastone, Eragon spinse avanti le braccia e colpì il Ra'zac sul torace incavato. Il mostro fu scaraventato a diverse iarde di distanza, rimbalzò sulla parete di roccia e atterrò su mani e ginocchia. Eragon aggirò Roran, che aveva il fianco sinistro intriso di sangue, e parò la spada dell'altro Ra'zac. Fece una finta, diede un colpetto alla lama del Ra'zac per provocarlo, e quando il Ra'zac tentò un affondo contro la sua gola, fece mulinare l'altra estremità del bastone e deviò il colpo. Senza un attimo di tregua, Eragon si slanciò in avanti e piantò l'estremità di legno del bastone nell'addome del Ra'zac.


Se Eragon avesse impugnato Zar'roc, la creatura sarebbe morta all'istante. Ma qualcosa si spezzò dentro il Ra'zac, che rotolò sul pavimento della grotta per diversi passi. Subito però si rimise in piedi di scatto, lasciando una scia di sangue bluastro sulla roccia scabra.


Mi serve una spada, pensò Eragon.


Assunse una posizione di attesa mentre i due Ra'zac convergevano su di lui: non aveva scelta se non resistere all'attacco simultaneo, perché era l'unica cosa che si frapponeva fra quei mangiacarogne artigliati e Roran. Cominciò a formulare lo stesso incantesimo che aveva funzionato contro il Lethrblaka, ma i Ra'zac sferrarono una rapida successione di fendenti dal basso e dall'alto prima che lui riuscisse a pronunciare una sola sillaba.


Le spade si abbatterono sul legno di biancospino con un tonfo sordo, ma non riuscirono a intaccare né a graffiare il legno stregato.


Sinistra, destra, in alto, in basso. Eragon non pensava: agiva e reagiva sotto gli affondi incessanti dei Ra'zac. Il bastone era l'ideale per combattere più avversari, perché si poteva colpire e parare con entrambe le estremità, spesso simultaneamente, ed Eragon lo trovò utilissimo in quel frangente. Ansimava; il sudore gli gocciolava dalla fronte e si raccoglieva agli angoli degli occhi; aveva la schiena e le ascelle madide. La foschia rossastra della battaglia gli annebbiava la vista e pulsava al ritmo delle contrazioni del suo cuore.


Non si sentiva mai così vivo, e così spaventato, come quando combatteva.


Le sue difese magiche erano deboli, dato che aveva dedicato la maggior parte della sua attenzione a Saphira e Roran. Quando alla fine si esaurirono, il Ra'zac più piccolo lo ferì al lato esterno del ginocchio sinistro. Non una ferita mortale, ma pur sempre grave, perché la gamba sinistra non riusciva più a sostenere il peso del corpo.


Afferrando il bastone dal puntale, Eragon lo roteò come una mazza e colpì con violenza la testa di un Ra'zac. La creatura crollò a terra, ma era impossibile dire se fosse morta o soltanto svenuta. Avanzando contro il Ra'zac rimasto, Eragon lo colpì alle braccia e alle spalle e, con un'improvvisa torsione del polso, gli fece volare via la spada dalla mano.


Prima che Eragon potesse finirlo, il Lethrblaka accecato e con l'ala rotta attraversò in volo la grotta e si schiantò contro la parete opposta, provocando una pioggia di detriti rocciosi staccatosi dal soffitto. La scena e il fragore furono così impressionanti che Eragon, Roran e il Ra'zac si rannicchiarono d'istinto.


Balzando sul Lethrblaka ferito, che aveva appena colpito con un calcio, Saphira affondò le zanne nella nuca muscolosa della creatura. Il Lethrblaka si dimenò in un estremo tentativo di liberarsi, poi Saphira scrollò la testa da un lato e dall'altro e gli spezzò la spina dorsale. Levandosi al di sopra del cadavere insanguinato, la dragonessa squassò la grotta con un selvaggio ruggito di trionfo.


L'altro Lethrblaka non esitò. Si avventò su Saphira e le affondò gli artigli sotto il bordo delle squame, trascinandola in un vortice incontrollato. Le due creature rotolarono avvinghiate fino all'imboccatura della grotta, rimasero in bilico sul ciglio per un istante e poi piombarono di sotto, continuando a lottare. Allontanarsi dal raggio di azione di Eragon era una tattica astuta da parte del Lethrblaka, perché al giovane era difficile scagliare un incantesimo su ciò che non poteva percepire con almeno uno dei cinque sensi.


Saphira! gridò Eragon.


Pensa a te stesso. Questo non mi sfugge.


Eragon si volse di scatto, appena in tempo per vedere i due Ra'zac svanire nelle viscere della galleria più vicina, il più grande abbandonato contro il più piccolo. Chiuse gli occhi e identificò le menti dei prigionieri dell'Helgrind, mormorò qualche frase nell'antica lingua e poi si rivolse a Roran. «Ho sigillato l'ingresso della cella di Katrina, così i Ra'zac non potranno usarla come ostaggio. Soltanto tu e io possiamo aprire quella porta, adesso.»


«Bene» disse Roran a denti stretti. «Non puoi fare qualcosa per questa?» Col mento indicò il punto che premeva con la mano destra. Il sangue gli scorreva fra le dita. Eragon tastò la ferita. Non appena la toccò, Roran trasalì e fece un salto indietro.


«Sei fortunato» disse Eragon. «La spada ha colpito una costola.» Con una mano sulla ferita e l'altra sui dodici diamanti nascosti nella cintura di Beloth il Savio, Eragon attinse al potere che aveva conservato nelle gemme. «Waíse heill!» Una serie di piccole onde increspò il fianco di Roran mentre la magia ricuciva la pelle e il muscolo.


Poi Eragon guarì la propria ferita, lo squarcio sul ginocchio sinistro. Una volta finito, si alzò e guardò verso il punto dov'era scomparsa Saphira. Il loro legame mentale si andava assottigliando via via che la dragonessa si allontanava verso il Lago di Leona all'inseguimento del Lethrblaka. Avrebbe tanto voluto aiutarla, ma sapeva che al momento Saphira avrebbe dovuto cavarsela da sola.


«Sbrigati» disse Roran. «Ci stanno sfuggendo!»


«Giusto.»


Soppesando il bastone, Eragon s'incamminò nella galleria semibuia, con lo sguardo che guizzava da una sporgenza rocciosa all'altra, ben sapendo che i Ra'zac avrebbero potuto tendergli un agguato in ogni momento. Si muoveva adagio, affinché i passi non echeggiassero nel tunnel tortuoso. Quando si appoggiò alla roccia per reggersi, scoprì che era coperta da una sostanza viscida.


Dopo una ventina di iarde avevano fatto così tante curve che la grotta principale non si vedeva più e piombarono in una tenebra così assoluta che nemmeno Eragon riusciva a scorgere niente.


«Forse per te è diverso, ma io non posso combattere al buio» sussurrò Roran.


«Se creo una luce, i Ra'zac non si avvicineranno, non adesso che ho trovato un incantesimo che su di loro funziona. Resteranno nascosti finché non ce ne andremo. Dovremo ucciderli mentre ne abbiamo l'opportunità.»


«E io che faccio? È più facile urtare contro una roccia e rompermi il naso che trovare quei due scarafaggi... Potrebbero strisciarci alle spalle e assalirci di sorpresa.»


«Ssst... Tieniti stretto alla mia cintura e stai pronto a chinarti.»


Eragon non riusciva a vedere, ma poteva ancora sentire, fiutare, toccare e gustare, e questo gli permetteva di avere un'idea abbastanza precisa di quanto c'era nei dintorni. Il pericolo maggiore era rappresentato da un eventuale attacco a distanza dei Ra'zac, magari armati di arco, ma era sicuro di avere i riflessi abbastanza pronti da poter salvare se stesso e Roran da una freccia.


Una corrente d'aria gli solleticò la pelle, poi si interruppe e prese a soffiare nella direzione opposta mentre la pressione dall'esterno aumentava e diminuiva. Il ciclo si ripeteva a intervalli irregolari, creando ondate invisibili che lo sfioravano come il getto spumeggiante di una fontana.


Il suo respiro e quello di Roran risuonavano forti e rauchi in confronto allo strano assortimento di rumori che si propagava nella galleria. Eragon sentì il tic, clic, clac di un sasso che cadeva da qualche parte nel labirinto di tunnel e il costante plic... plic... plic delle gocce di condensa che si tuffavano in una pozza sotterranea. Sentiva anche lo scricchiolio dei ciottoli sotto le suole degli stivali. Un lungo gemito sinistro riecheggiò in lontananza, da qualche parte davanti a loro.


Fra gli odori, nessuno gli era sconosciuto: sudore, sangue, umidità e muffa.


Passo dopo passo, Eragon e Roran si addentravano sempre di più nelle viscere dell'Helgrind, seguendo la galleria in discesa che spesso si diramava in più direzioni: se Eragon non avesse usato la mente di Katrina come punto di riferimento, si sarebbero di certo persi. In alcuni punti il percorso si restringeva e il soffitto si abbassava, tanto che una volta Eragon batté la testa e fu colto da uno snervante attacco di claustrofobia.


Sono tornata, annunciò Saphira proprio mentre Eragon posava il piede su un gradino corroso scavato nella roccia davanti a sé. Si fermò. La dragonessa non aveva subito altri danni, e la notizia contribuì a risollevare il morale di Eragon.


E il Lethrblaka?


Galleggia a pancia all'aria nel Lago di Leona. Temo però che qualche pescatore ci abbia visto lottare. Stavano remando verso Dras-Leona l'ultima volta che li ho visti.


Be', non si poteva fare altrimenti. Cerca di scoprire che cosa succede nella galleria da cui sono sbucati i Lethrblaka. E attenzione ai Ra'zac. Potrebbero cercare di sfuggirci e andarsene dall'Helgrind passando da dove siamo entrati noi.


Probabilmente hanno un'uscita di emergenza a livello del terreno.


Può darsi, ma non credo che la useranno.


Dopo quella che parve un'eternità di tenebra - anche se Eragon sapeva che non potevano essere passati più di dieci, quindici minuti - e dopo aver disceso un centinaio di gradini nel cuore dell'Helgrind, Eragon si fermò quando sentì che il pavimento tornava pianeggiante. Trasmettendo i propri pensieri a Roran, disse: La cella di Katrina è a una cinquantina di passi da noi, sulla destra.


Non possiamo rischiare di liberarla finché i Ra'zac non sono morti o non se ne sono andati.


E se non si mostrano finché non l'abbiamo fatta uscire? Per qualche ragione non riesco a percepirli. Potrebbero restare nascosti fino alla fine dei tempi. Allora, aspettiamo chissà quanto o liberiamo Katrina adesso che ne abbiamo l'occasione? Posso innalzarle intorno qualche difesa magica per proteggerla da un attacco.


Roran rimase in silenzio per qualche istante. D'accordo, liberiamola.


Ripresero ad avanzare, trovando la strada a tentoni nel corridoio basso e squadrato con il pavimento di roccia sconnessa. Eragon dovette dedicare la maggior parte della sua attenzione a dove metteva i piedi per non inciampare.


Per questo motivo, poco mancò che non si accorgesse del fruscio di stoffa e del debole toin che risuonarono davanti a loro.


Si appiattì contro il muro, trascinando Roran con sé. Nello stesso momento, qualcosa gli sfiorò la faccia, scavandogli un solco nella guancia destra. La carne gli bruciava come se l'avessero cauterizzata.


«Kveykva!» gridò Eragon.


Una luce rossa fiammeggiò splendente come il sole di mezzogiorno. Non avendo origine, illuminava ogni superficie in maniera uniforme, senza proiettare ombre, e conferiva alle cose un curioso aspetto piatto. L'improvviso fulgore abbagliò Eragon, ma per il Ra'zac di fronte a lui fu anche peggio: la creatura fece cadere l'arco, si coprì la faccia col cappuccio e lanciò uno stridio acuto e lacerante. Un secondo grido, uguale al primo, rivelò a Eragon che l'altro Ra'zac era alle loro spalle.


Roran!


Eragon si voltò in tempo per vedere Roran caricare il secondo Ra'zac con il martello alzato. Il mostro, disorientato, barcollò all'indietro, ma fu troppo lento. Il martello calò. «Per mio padre!» gridò Roran. E colpì ancora. «Per la nostra casa!» Il Ra'zac era già morto, ma Roran brandì il martello ancora una volta. «Per Carvahall!» Il colpo finale frantumò il carapace del Ra'zac come la scorza di una zucca secca. Nell'impietosa luce rossa, la pozza di sangue che si andava allargando sembrava viola.


Mulinando il bastone per deviare la freccia o la spada che era sicuro stesse per colpirlo, Eragon si volse per affrontare il Ra'zac superstite. La galleria davanti a lui era vuota. Imprecò.


Allora si avvicinò a grandi passi alla figura deforme riversa sul pavimento. Alzò il bastone e lo calò con tutta la forza sul torace del Ra'zac morto, con uno schianto secco.


«Era tanto che volevo farlo» disse Eragon.


«Anch'io.»


Lui e Roran si scambiarono un'occhiata.


«Ahh!» esclamò Eragon, e si premette il palmo sulla guancia mentre il dolore aumentava.


«Bolle!» disse Roran. «Fa' qualcosa!»


Il Ra'zac deve aver intinto la punta della freccia nell'olio di Seithr, pensò Eragon. Ricordando il suo addestramento, ripulì la ferita e il tessuto intorno con un incantesimo e poi fece rimarginare la guancia. Aprì e chiuse la bocca un paio di volte per assicurarsi che i muscoli funzionassero a dovere, poi, con un amaro sogghigno, disse: «Pensa in che stato saremmo senza la magia.»


«Senza la magia non dovremmo preoccuparci di Galbatorix.»


Parlerete dopo, intervenne Saphira. Non appena quei pescatori arriveranno a Dras-Leona, il re potrebbe venire a sapere della nostra impresa da uno dei suoi stregoni da quattro soldi, e non è il caso di farci divinare da Galbatorix mentre siamo ancora qui nell'Helgrind.


Sì, sì, disse Eragon. Spegnendo l'onnipresente bagliore rosso, disse: «Brisingr raudhr» e creò un fuoco fatuo rosso come quello della notte prima, solo che questo rimase fisso a sei pollici dal soffitto invece di accompagnarlo nei suoi spostamenti.


Ora che aveva l'opportunità di esaminare il corridoio nei dettagli, Eragon notò che le pareti di pietra erano intervallate da una ventina di porte di ferro. Puntò il dito e disse: «La nona a destra. Vai a prenderla. Io controllo le altre celle. I Ra'zac potrebbero averci lasciato qualche cosa d'interessante.»


Roran annuì. Si accovacciò e frugò il cadavere ai suoi piedi, ma non trovò alcuna chiave. Si strinse nelle spalle. «Dovrò usare le maniere forti.» Corse alla porta indicata, lasciò cadere lo scudo e cominciò a lavorare ai cardini col martello. Ogni colpo produceva un fragore assordante.


Eragon non si offrì di aiutarlo. Il cugino non avrebbe gradito la sua assistenza in quel momento, e per giunta c'era qualcos'altro da fare. Andò alla prima cella, mormorò tre parole, poi, quando il chiavistello scattò, aprì la porta. La piccola stanza conteneva soltanto una catena nera e un cumulo di ossa putrefatte. Non che si fosse aspettato altro che quei miseri resti; già sapeva dove si trovava l'oggetto della sua ricerca, ma per non destare i sospetti di Roran continuò a far finta di indagare.


Altre due porte si aprirono e si chiusero al tocco delle dita di Eragon. Poi, quando si spalancò la porta della quarta cella, il tremulo bagliore del fuoco fatuo illuminò proprio l'uomo che Eragon aveva sperato di non trovare: Sloan.

SEPARAZIONE

Il macellaio sedeva accasciato contro la parete della cella, con tutte e due le braccia incatenate a un anello di ferro sopra la testa.


I vestiti laceri coprivano a stento il corpo pallido ed emaciato: le ossa sporgevano da sotto la pelle esangue, percorsa da vene bluastre. Sui polsi le manette avevano provocato ulcere che stillavano sangue e siero. I pochi capelli rimasti, diventati grigi o bianchi, gli pendevano in sudice ciocche sulla faccia butterata.


Destato dal clangore del martello di Roran, Sloan alzò il mento verso la luce e, con voce tremante, chiese: «Chi è là? Chi c'è?» Col movimento, la rada cortina di capelli davanti alla sua faccia si aprì, mostrando le orbite incassate nel cranio. Dove avrebbero dovuto esserci le palpebre, lembi di pelle frastagliata orlavano le vuote cavità nere. L'area intorno era livida e squamosa.


Con raccapriccio, Eragon capì che i Ra'zac gli avevano cavato gli occhi a colpi di becco.


Esitò, indeciso sul da farsi. Il macellaio aveva rivelato ai Ra'zac che Eragon aveva trovato l'uovo di Saphira. In più, aveva ucciso la sentinella di Carvahall, Byrd, e tradito l'intero villaggio consegnandolo all'Impero. Se lo avesse portato davanti ai suoi compaesani, senza ombra di dubbio lo avrebbero dichiarato colpevole e condannato a morte per impiccagione.


A Eragon sembrava giustissimo che il macellaio morisse per i suoi crimini, quindi non era questa la fonte della sua incertezza, quanto piuttosto il fatto che Roran amava Katrina, e che Katrina, malgrado quello che aveva fatto Sloan, probabilmente nutriva ancora dell'affetto per suo padre. Assistere a un processo pubblico che avrebbe condannato a morte Sloan sarebbe stato penoso per lei e, di riflesso, anche per Roran. Una prova simile avrebbe potuto creare del malanimo fra i due, tanto da mettere in pericolo il fidanzamento. Ed Eragon era convinto che riportare Sloan con loro avrebbe seminato discordia fra lui, Roran, Katrina e gli altri abitanti di Carvahall, incendiando gli animi al punto da distrarli dalla loro battaglia contro l'Impero.


La soluzione più semplice, pensò Eragon, sarebbe ucciderlo e dire di averlo trovato morto in questa cella... Le labbra gli tremarono, mentre una delle parole di morte gli affiorava sulla punta della lingua.


«Che volete?» chiese Sloan. Voltò la testa da una parte e dall'altra, nel tentativo di sentire meglio. «Vi ho già detto tutto quello che sapevo!»


Eragon si maledisse per la propria esitazione. La colpevolezza di Sloan non era in discussione: era un traditore e un assassino. Qualunque giudice lo avrebbe condannato a morte.


Malgrado la fondatezza dei suoi ragionamenti, era pur sempre Sloan quello rannicchiato davanti a lui, un uomo che Eragon conosceva da una vita. Il macellaio poteva essere una persona spregevole, ma il bagaglio di ricordi ed esperienze che Eragon condivideva con lui generava un senso di intimità che turbava la sua coscienza. Uccidere Sloan sarebbe stato come uccidere Horst o Loring o uno qualsiasi degli altri abitanti di Carvahall.


Ancora una volta, Eragon si preparò a pronunciare la parola fatale.


Un'immagine gli comparve davanti agli occhi: Torkenbrand, il mercante di schiavi che lui e Murtagh avevano incontrato durante il viaggio verso i Varden, inginocchiato sul terreno sabbioso, e Murtagh che incombeva su di lui e lo decapitava. Eragon rammentò quanto aveva deplorato il gesto di Murtagh e come ne era rimasto sconvolto per giorni e giorni.


Sono cambiato così tanto, si chiese, da poter fare la stessa cosa? Come ha detto Roran, ho già ucciso, ma soltanto in battaglia... mai in questo modo.


Guardò indietro: Roran spezzò l'ultimo cardine della porta della cella di Katrina, lasciò cadere il martello e si preparò a caricare la porta per abbatterla con una spallata; poi ci ripensò e provò a sollevarla dall'intelaiatura. La porta si alzò di pochi millimetri, poi si bloccò, inclinandosi da un lato. «Ehi, vieni a darmi una mano!» gridò. «Non voglio correre il rischio che le cada addosso.»


Eragon guardò il macellaio. Non aveva più tempo per pensieri raminghi. Doveva scegliere. In un modo o nell'altro, doveva decidere...


«Eragon!»


Non so cosa è giusto, pensò Eragon. La sua stessa incertezza gli suggeriva che sarebbe stato sbagliato sia uccidere Sloan che riportarlo dai Varden. Non aveva però idea di che cosa fare, a meno di non trovare una terza alternativa, meno ovvia e meno cruenta.


Alzando una mano, come fosse una benedizione, Eragon mormorò: «Slytha.» Le manette di Sloan sferragliarono mentre l'uomo si accasciava inerte, cadendo in un sonno profondo. Non appena fu sicuro che l'incantesimo aveva avuto effetto, Eragon chiuse a chiave la porta della cella e innalzò di nuovo una barriera di difese magiche.


Che cosa hai in mente, Eragon? chiese Saphira.


Aspetta che torniamo insieme, poi ti spiegherò.


Spiegare cosa? Non hai nessun piano.


Dammi un minuto e ce l'avrò.


«Cosa c'era lì dentro?» chiese Roran, quando Eragon lo raggiunse, posizionandosi dall'altro lato della porta.


«Sloan.» Eragon afferrò meglio la porta. «È morto.»


Roran sgranò gli occhi. «Come?»


«A quanto pare gli hanno spezzato il collo.»


Per un istante, Eragon temette che Roran non gli avrebbe creduto. Poi il cugino sbuffò e disse: «Meglio così, immagino. Pronto? Uno, due, tre...»


Insieme sollevarono la massiccia porta dalla sua intelaiatura e la scagliarono dall'altra parte del corridoio. La galleria di pietra restituì un boato echeggiante. Senza un attimo di esitazione, Roran si precipitò all'interno della cella, illuminata da una singola candela. Eragon lo seguì, mantenendosi a debita distanza.


Katrina si rannicchiò nell'angolo più lontano di una brandina di ferro. «Lasciatemi in pace, schifosi bastardi! Io...» S'interruppe, folgorata, quando Roran si fece avanti. Il suo viso era pallido per la mancanza di sole e striato di sudiciume, ma in quel momento s'illuminò di un tale stupore e di un amore così tenero che Eragon pensò di non aver mai visto tanta radiosa bellezza.


Senza distogliere lo sguardo da Roran, Katrina si alzò e con una mano tremante gli accarezzò una guancia.


«Sei venuto.»


«Sì, sono venuto.»


Roran proruppe in un singhiozzo di gioia mentre la cingeva con le braccia, attirandola a sé. Rimasero persi nel loro abbraccio per un lungo momento.


Poi Roran si ritrasse e la baciò tre volte sulle labbra. Katrina arricciò il naso ed esclamò: «Ti sei fatto crescere la barba!» Di tutte le cose che avrebbe potuto dire, questa fu così inaspettata - e la ragazza aveva un'espressione tanto turbata e sorpresa - che Eragon ridacchiò sottovoce.


Per la prima volta, Katrina si accorse della sua presenza. Il suo sguardo vagò alle sue spalle, poi si fermò sul suo viso, che studiò con evidente stupore. «Eragon? Sei tu?»


«Sì.»


«È un Cavaliere dei Draghi, adesso» disse Roran.


«Un Cavaliere? Vuoi dire...» Le parole le vennero a mancare; la rivelazione parve turbarla profondamente. Scoccando un'occhiata a Roran, quasi in cerca di protezione, si strinse ancora di più a lui e si spostò dall'altro lato: sembrava che volesse allontanarsi da Eragon. A Roran disse: «Come... come avete fatto a trovarci? Chi altri c'è con voi?»


«Dopo, dopo. Dobbiamo andarcene dall'Helgrind prima che il resto dell'Impero venga a stanarci.»


«Aspettate! E mio padre? L'avete trovato?»


Roran guardò Eragon, poi tornò a guardare Katrina e in tono sommesso le disse: «Siamo arrivati troppo tardi.»


Katrina fu percorsa da un brivido. Chiuse gli occhi, e una lacrima solitaria le scese sulla guancia sudicia, lasciando una scia più chiara. «Così sia.»


Mentre parlavano, Eragon cercava disperato un modo per occuparsi di Sloan, tenendo nascosti i propri pensieri a Saphira; sapeva che la dragonessa avrebbe disapprovato il luogo dove lo stavano portando le sue elucubrazioni. Nella sua mente prendeva forma un piano. Bizzarro, irto di pericoli e incertezze, l'unico realizzabile date le circostanze.


Senza altri indugi, Eragon entrò in azione. Aveva tante cose da fare e pochissimo tempo a disposizione. «Jierda!» esclamò, puntando il dito. Con una pioggia di scintille azzurrognole e frammenti di metallo, gli anelli che cingevano le caviglie di Katrina si spezzarono. La ragazza trasalì, stupefatta.


«Magia...» sussurrò.


«Un incantesimo facile.» Katrina si ritrasse dal suo tocco quando Eragon tese una mano verso di lei. «Katrina, devo assicurarmi che Galbatorix o uno dei suoi maghi non ti abbia stregata con qualche trappola o costretta a giurare delle cose nell'antica lingua.»


«L'antica...»


Roran la interruppe. «Eragon! Fallo quando saremo all'accampamento. Non possiamo più restare qui.»


«No.» Eragon fece un brusco gesto con la mano. «Devo farlo adesso.» Con la fronte aggrottata, Roran si fece da parte e permise a Eragon di mettere le mani sulle spalle di Katrina. «Guardami negli occhi» le disse Eragon. La fanciulla annuì e obbedì.


Era la prima volta che Eragon aveva l'occasione di usare le formule che Oromis gli aveva insegnato per riconoscere l'opera di un altro mago, ed ebbe difficoltà a ricordare ogni singola parola letta sulle pergamene di Ellesméra. I suoi vuoti di memoria erano così gravi che in tre diverse occasioni dovette ricorrere a sinonimi per completare la formula.


A lungo Eragon fissò gli occhi splendenti di Katrina e mormorò frasi nell'antica lingua, esaminando di tanto in tanto - col permesso della ragazza - uno dei suoi ricordi per scoprire se qualcuno li aveva alterati. Fu più delicato che poté, al contrario dei Gemelli, che gli avevano frugato nella mente senza tante cerimonie il giorno stesso che era arrivato nel Farthen Dûr.


Roran vigilava, camminando avanti e indietro davanti alla porta aperta. A ogni istante la sua agitazione cresceva: si rigirava il martello fra le mani, battendo la testa dell'arnese contro la coscia, come se tenesse il tempo di un brano musicale.


Alla fine Eragon liberò Katrina. «Fatto.»


«Cos'hai trovato?» chiese lei con un filo di voce. Si strinse le braccia intorno al corpo, la fronte solcata da rughe di apprensione, mentre attendeva il verdetto. Il silenzio riempì la cella mentre Roran si fermava davanti alla soglia.


«Niente, se non i tuoi pensieri. Sei libera da qualsiasi incantesimo.»


«Ma certo che è libera» grugnì Roran, e la prese di nuovo fra le braccia.


Insieme, i tre uscirono dalla cella. «Brisingr, iet tauthr» disse Eragon, facendo un cenno al fuoco fatuo che ancora fluttuava sotto la volta del corridoio. Al suo comando, il globo lucente gli sfrecciò sopra la testa, dove rimase a galleggiare come un turacciolo fra le onde.


Eragon li guidò sulla via del ritorno, attraverso il labirinto di gallerie, verso la grotta dov'erano atterrati. Arrancando sulla roccia viscida, vigilava nel timore di un attacco del Ra'zac superstite e nel contempo erigeva difese per proteggere Katrina. Alle sue spalle, sentiva lei e Roran scambiarsi una serie di frasi interrotte. «Ti amo... Horst e gli altri sono salvi... Sempre... Per te... Sì... Sì... Sì... Sì.» La fiducia e l'affetto che li univano erano così profondi che Eragon si sentì pervadere da una dolorosa fitta di struggimento.


Quando furono a una decina di iarde dalla caverna principale, ed era ormai possibile vedere grazie alla fievole luce che ne scaturiva, Eragon spense il fuoco fatuo. Dopo appena qualche passo, Katrina rallentò, si appiattì contro la parete della galleria e si coprì il viso. «Non posso. C'è troppa luce. Mi fa male agli occhi.»


Roran si affrettò a pararsi davanti a lei, proteggendola con la sua ombra. «Quand'è stata l'ultima volta che sei stata all'aperto?»


«Non lo so...» Una traccia di panico s'insinuò nella sua voce. «Non lo so! Mai, da quando mi hanno portata qui. Roran, diventerò cieca?» La fanciulla tirò su col naso e cominciò a piangere.


Le sue lacrime sorpresero Eragon. La ricordava come una donna di grande forza e coraggio. D'altro canto aveva passato molte settimane rinchiusa al buio, senza sapere che cosa la aspettava. Fossi stato in lei, anch'io sarei crollato.


«No, stai bene. Hai solo bisogno di riabituarti alla luce del sole.» Roran le accarezzò i capelli. «Andiamo, non abbatterti. Andrà tutto bene... Sei al sicuro, adesso. Al sicuro, Katrina. Mi senti?»


«Sì.»


Pur detestando l'idea di sciupare una delle tuniche che gli avevano donato gli elfi, Eragon strappò una striscia di tessuto dall'orlo del proprio indumento. La porse a Katrina e disse: «Legatela sugli occhi. Attraverso la stoffa riuscirai a vedere abbastanza da non rischiare di cadere o urtare qualcosa.»


Lei lo ringraziò e si legò la benda sugli occhi.


Ripresero a camminare, e pochi istanti dopo il trio emerse nella caverna inondata di sole e di sangue - più odorosa di prima per i vapori tossici che emanavano dal cadavere del Lethrblaka - proprio mentre Saphira sbucava dall'arco ogivale sulla parete opposta. Nel vederla, Katrina trasalì e si strinse a Roran, affondandogli le dita nella carne del braccio.


Eragon disse: «Katrina, permetti che ti presenti Saphira. Io sono il suo Cavaliere. Ti capisce se le parli.»


«È un onore, o drago» riuscì a dire Katrina, poi piegò le ginocchia in un debole tentativo di riverenza.


Saphira ricambiò con un cenno della testa. Poi si rivolse a Eragon. Ho frugato nel nido dei Lethrblaka, ma non ho trovato altro che ossa, ossa e ancora ossa, comprese alcune che sapevano ancora di carne fresca. I Ra'zac devono aver mangiato gli schiavi la notte scorsa.


Avrei voluto salvarli.


Lo so, ma non possiamo proteggere tutti in questa guerra.


Indicando la dragonessa, Eragon disse agli altri: «Coraggio, salitele in groppa. Io vi raggiungo fra un istante.»


Katrina esitò, poi guardò Roran, che annuì e mormorò: «Va tutto bene. È stata Saphira a portarci qui.» La coppia aggirò il cadavere del Lethrblaka per salire in groppa a Saphira, che si era appiattita sul ventre per facilitare loro il compito. Intrecciando le dita a formare un appoggio, Roran sollevò Katrina, che s'inerpicò sulla zampa di Saphira. Da lì, usò i cappi delle cinghie della sella come i pioli di una scaletta e arrivò sulle spalle della dragonessa, dove sedette a cavalcioni. Come una capra di montagna che balza da una roccia all'altra, Roran fece lo stesso percorso.


Eragon si avvicinò per esaminare Saphira, valutando la gravità delle ferite: unghiate, colpi di becco, tagli, lacerazioni e lividi. Oltre a quello che vedeva, si affidò a ciò che la dragonessa sentiva.


Per amor del cielo, disse Saphira, risparmia le tue attenzioni per quando saremo fuori pericolo. Non sto sanguinando a morte.


Non è del tutto vero, e lo sai. Hai un'emorragia interna. Se non la fermo adesso, rischi di avere complicazioni che non posso guarire, e allora non torneremmo mai dai Varden. Non discutere; io non cambio idea, e non mi ci vorrà nemmeno un minuto.


Alla prova dei fatti, Eragon impiegò parecchi minuti per restituire a Saphira la piena salute. Le ferite erano così gravi che per formulare tutti gli incantesimi necessari fu costretto a svuotare di energia la cintura di Beloth il Savio e perfino a ricorrere alle immense riserve di forza di Saphira. Ogni volta che si spostava da una ferita più grande a una più piccola, la dragonessa protestava, gli diceva che era uno sciocco e lo pregava di lasciarla in pace, ma lui ignorò le sue lamentele.


Alla fine, Eragon si accasciò a terra, esausto per il grande dispendio di energie necessario agli incantesimi curativi e la fatica del combattimento. Indicando i punti dove il Lethrblaka l'aveva trafitta col becco, disse: Dovresti farti controllare da Arya o da qualche altro mago per quelli. Ho fatto del mio meglio, ma potrei aver tralasciato qualcosa.


Apprezzo la tua premura per la mia salute, replicò lei, ma questo non è il luogo per stucchevoli dimostrazioni d'affetto. Una volta per tutte, andiamo!


D'accordo. È ora di partire. Indietreggiando un passo dopo l'altro, Eragon si allontanò da Saphira verso la galleria alle sue spalle.


«Andiamo!» lo chiamò Roran. «Sbrigati!»


Eragon! esclamò Saphira.


Eragon scosse la testa. «No. Io resto qui.»


«Tu...» cominciò a dire Roran, ma fu interrotto dal feroce ringhio di Saphira. La dragonessa frustò con la coda la parete della grotta e artigliò il terreno con le zampe, tanto che ossa e pietra parvero gridare, percorsi da un dolore straziante.


«Ascoltate!» gridò Eragon. «Uno dei Ra'zac è ancora vivo. E pensate a ciò che potrebbe esserci d'altro nell'Helgrind: pergamene, pozioni, informazioni sulle attività dell'Impero... cose che possono rivelarsi molto utili. I Ra'zac potrebbero persino avere delle uova nascoste qui da qualche parte. Se così fosse, devo distruggerle prima che Galbatorix se ne impossessi.»


Poi, rivolto soltanto a Saphira, aggiunse: Non posso uccidere Sloan, né posso permettere che Roran o Katrina lo vedano; non posso lasciarlo morire di fame nella sua cella o permettere che gli uomini di Galbatorix lo catturino di nuovo. Mi dispiace, ma devo occuparmi di lui da solo.


«Come farai a uscire dai confini dell'Impero?» chiese Roran.


«Correrò. Sono veloce come un elfo ormai, lo sai.»


La punta della coda di Saphira ebbe un fremito, ma fu l'unico avvertimento che Eragon ricevette prima che la dragonessa si avventasse su di lui, con una zampa tesa. Eragon s'infilò nel tunnel una frazione di secondo prima che la zampa di Saphira si abbattesse sul punto dov'era fermo.


Saphira si arrestò con uno scivolone davanti all'imbocco della galleria e ruggì, delusa di non poterlo seguire nell'angusto passaggio. La sua mole sbarrava quasi tutta la luce. La roccia tremò intorno a Eragon quando la dragonessa cominciò a sgretolare l'ingresso con le unghie e con i denti, staccando grossi blocchi di pietra. I suoi ringhi ferali e la vista del suo muso, irto di zanne lunghe quanto un avambraccio umano, provocarono a Eragon un brivido di paura. Capì come si deve sentire un coniglio acquattato nel suo rifugio con un lupo che cerca di stanarlo.


«Ganga!» gridò.


No! Saphira posò il muso a terra ed emise un lugubre lamento, gli occhi sgranati e colmi di disperazione.


«Ganga! Ti voglio bene, Saphira, ma dovete andare.»


La dragonessa si ritrasse di qualche iarda dalla galleria e tirò su col naso, miagolando come una gatta. Piccolo mio...


Eragon odiava renderla infelice, e odiava doverla mandare via: era come separarsi da una parte di sé. Il dolore di Saphira che fluiva attraverso il loro legame mentale, unito alla sua stessa angoscia, quasi lo paralizzò. In qualche modo trovò la fermezza per dire: «Ganga! Non tornare indietro a prendermi e non mandare nessuno a cercarmi. Starò bene. Ganga! Ganga!»


Saphira ululò di frustrazione e poi, a malincuore, si avvicinò all'imboccatura della grotta. In sella, Roran disse: «Eragon, andiamo! Non fare lo stupido. Sei troppo importante per rischiare...»


Un vortice di movimento e rumore inghiottì il resto della frase mentre Saphira si lanciava fuori della caverna. Nel cielo limpido le sue squame brillarono come una miriade di diamanti azzurri. Eragon pensò che era magnifica: fiera, nobile, più bella di qualsiasi altra creatura vivente. Nessun cervo o leone poteva competere con la maestà di un drago in volo. Lei disse: Una settimana. È il massimo che ti concedo, Eragon. Poi tornerò a cercarti, dovessi combattere contro Castigo, Shruikan e mille stregoni insieme.


Eragon rimase a guardarla finché non scomparve dalla sua visuale e lui non poté più restarle accanto con la mente. Poi, col cuore pesante come piombo, raddrizzò le spalle, volse la schiena al sole e a tutte le cose vive e luminose, e ricominciò a scendere nei tunnel delle tenebre.

CAVALIERE E RA'ZAC

Eragon sedeva immerso nel bagliore freddo del suo fuoco fatuo cremisi, nel corridoio fiancheggiato di celle vicino al cuore dell'Helgrind. Teneva il bastone di traverso sulle gambe.

La sua voce riverberava sulla roccia mentre ripeteva incessantemente una frase nell'antica lingua. Non era magia, ma un messaggio per il Ra'zac superstite. La sostanza era questa: «Vieni, o mangiatore di carne umana, affinché possiamo concludere questa nostra battaglia. Tu sei ferito, e io sono stanco. I tuoi compagni sono morti, e io sono solo. Siamo pari. Ti prometto che non userò la magia contro di te, né ti ferirò o ti intrappolerò con incantesimi già evocati. Vieni, o mangiatore di carne umana, affinché possiamo concludere questa nostra battaglia...»

Il tempo trascorso a parlare gli parve infinito: un vuoto temporale in un'atmosfera spettrale, inalterato per un'eternità di parole ripetute che per lui non avevano più significato né ordine. D'un tratto i suoi pensieri tacquero, ed Eragon si sentì pervadere da una strana calma.

Rimase con la bocca aperta, poi la chiuse e rimase in vigile attesa.

A trenta piedi da lui c'era il Ra'zac. Sangue gli gocciolava dall'orlo del mantello logoro. «Il mio padrone non desssidera che ti uccida» sibilò.


«Ma questo non ha più importanza per te, adesso.»


«No. Ssse cado sssotto i tuoi colpi, che sssia Galbatorix a occuparsssi di te. Lui ha più cuori di te.»


Eragon si mise a ridere. «Cuori? Io sono il campione del popolo, non lui.»


«Ssstupido ragazzo.» Il Ra'zac inclinò la testa di lato, guardando oltre, verso il cadavere dell'altro Ra'zac riverso sul pavimento del tunnel. «Lei era la mia compagna di covata. Sssei diventato più forte dalla prima volta che ci sssiamo incontrati, Ammazzassspettri.»


«Se così non fosse, sarei morto.»


«Sssei disssposto a fare un patto con me, Ammazzassspettri?» «Che genere di patto?»


«Io sssono l'ultimo della mia razza, Ammazzassspettri. Sssiamo antichi e non voglio esssere dimenticato. Nelle tue ssstorie e nelle tue canzoni, ricorderai ai tuoi compagni umani il terrore che issspiravamo nella tua razza?... Ricordaci come patirai»


«Perché dovrei fare questo per te?»


Abbassando il becco sull'esile torace, il Ra'zac ridacchiò e cinguettò qualche istante. «Perché» disse «ti rivelerò un sssegreto, sssì, lo farò.»


«Allora parla.»


«Dammi prima la tua parola, potresssti imbrogliarmi.»


«No. Prima parla tu, poi deciderò se stringere il patto oppure no.»


Passò più di un minuto senza che nessuno dei due si muovesse, anche se Eragon teneva i muscoli tesi, pronto a un attacco a sorpresa. Dopo un'altra serie di ticchettii col becco, il Ra'zac disse: «Ha quasssi ssscoperto il nome.»


«Chi?»


«Galbatorix.»


«Il nome di cosa?»


Il Ra'zac sibilò di frustrazione. «Non possso dirtelo! Il nome! Il vero nome!»


«Mi devi dire di più.»


«Non possso.»


«Allora niente patto.»


«Che tu sssia maledetto, Cavaliere! Che tu non posssa mai trovare tana o rifugio o pace della mente in quesssta tua terra. Che tu posssa lasciare Alagaësssia e non tornare mai più!»


Eragon si sentì rizzare i peli sulla nuca al freddo tocco della paura. Nella sua mente echeggiarono le parole di Angela l'erborista, quando aveva lanciato gli ossi di drago davanti a lui e gli aveva letto il futuro e predetto lo stesso destino.


Una lunga scia di sangue separava Eragon dal suo nemico, che scostò il lembo del mantello fradicio per rivelare un arco con la freccia già incoccata. Con un gesto fulmineo sollevò l'arma e lasciò partire il dardo, mirando al petto di Eragon.


Eragon deviò la freccia con il bastone.


Come se il tentativo non fosse stato altro che un preliminare imposto dall'etichetta prima di passare al vero confronto, il Ra'zac si chinò a posare l'arco per terra, poi raddrizzò la gobba, e con deliberata lentezza sguainò la spada a lamina da sotto il mantello. Nel frattempo Eragon si era alzato per assumere una posizione frontale, con i pugni stretti intorno al bastone.


Si lanciarono l'uno contro l'altro. Il Ra'zac cercò di menare un fendente dalla clavicola all'anca di Eragon, ma il giovane scartò di lato e schivò il colpo. Con un affondo, infilò il puntale metallico del bastone sotto il becco del Ra'zac, insinuandolo fra le placche che proteggevano la gola della creatura.


Il Ra'zac fu scosso da un brivido e stramazzò a terra.


Eragon fissò il suo più odiato nemico, guardò gli occhi neri senza palpebre, e improvvisamente gli cedettero le ginocchia e vomitò, accasciato contro la parete del corridoio. Si asciugò la bocca e liberò il bastone, mormorando: «Per nostro padre. Per la nostra casa. Per Carvahall. Per Brom... Ho avuto la mia vendetta. Che tu possa marcire qui per sempre, Ra'zac.»


Si avviò alla cella di Sloan, si gettò in spalla il macellaio, ancora sprofondato nel sonno stregato, e ripercorse i propri passi per tornare alla grotta principale dell'Helgrind. Lungo la strada, si fermò spesso per adagiare Sloan a terra ed esaminare una stanza o una nicchia che non aveva visitato prima. Scoprì diversi strumenti di tortura e quattro fiaschette di metallo contenenti olio di Seithr, che subito distrusse perché nessun altro potesse usare quell'acido corrosivo per scopi malvagi.


La calda luce del sole gli bruciò le guance quando emerse dal labirinto di gallerie. Trattenendo il fiato, oltrepassò in fretta il cadavere del Lethrblaka e si fermò sul ciglio della vasta caverna. Fece scorrere lo sguardo lungo lo strapiombo dell'Helgrind fino alle colline ai suoi piedi. A ovest vide una nuvola arancione gonfiarsi e muoversi lungo la strada che collegava l'Helgrind a Dras-Leona: cavalli in avvicinamento.


Il lato destro gli faceva male per lo sforzo di sostenere il peso di Sloan, così passò il macellaio sull'altra spalla. Batté le palpebre per liberarsi dalle goccioline di sudore che gli imperlavano le ciglia e si spremette le meningi in cerca di una soluzione al problema di come scendere, con Sloan in spalla, per gli oltre cinquemila piedi che lo separavano dal suolo.


«Quasi un miglio» mormorò. «Se ci fosse un sentiero, potrei scendere facilmente, anche portando Sloan. Dovrò ricorrere alla magia... già, ma in questo caso mi toccherebbe concentrare troppa energia in un periodo di tempo limitato e rischierei di uccidermi. Come mi ha insegnato Oromis, il corpo non è in grado di convertire le proprie riserve in energia tanto in fretta da evocare la maggior parte degli incantesimi per più di qualche secondo. Ho a disposizione soltanto una determinata quantità di energia in una determinata frazione di tempo, e una volta esaurita quella, devo aspettare finché non mi riprendo... E parlare da solo non mi porta da nessuna parte.»


Stringendo la presa su Sloan, Eragon puntò lo sguardo su una stretta cengia a circa cento piedi più in basso. Farà male, pensò, preparandosi al tentativo. Poi latrò: «Audr!»


Si librò di un paio di pollici dal pavimento della grotta. «Fram» disse, e l'incantesimo lo spinse fuori dall'Helgrind nel vuoto, dove rimase sospeso come una nuvoletta solitaria. Pur essendo abituato a volare con Saphira, non vedere altro che aria sotto di sé gli procurava ancora un certo disagio.


Manipolando il flusso di magia, Eragon discese rapidamente dalla tana dei Ra'zac - che la parete illusoria di roccia nascose di nuovo - fino alla cengia. Quanto atterrò, lo stivale gli scivolò su una pietra viscida. Per una manciata di terrificanti secondi, agitò il braccio libero per recuperare l'equilibrio, ma non guardò di sotto per paura di sbilanciarsi. La gamba sinistra gli scivolò oltre il bordo della cengia, facendolo sbandare di lato. Gridò. Ma prima che potesse ricorrere alla magia per salvarsi, la caduta si arrestò bruscamente perché il piede sinistro si era infilato in una fessura della roccia. I bordi della spaccatura gli affondarono nel polpaccio dietro il gambale, ma lui non ci badò, perché in quel modo almeno il volo si era interrotto.


Eragon appoggiò la schiena all'Helgrind, usando la parete di roccia per sostenere il corpo inerte di Sloan. «Non è andata troppo male» si disse. Lo sforzo gli era costato, ma non tanto da non poter continuare. «Ce la faccio.» Inspirò aria fresca, aspettando che i battiti del cuore rallentassero; gli sembrava di aver corso venti iarde di scatto, con Sloan in spalla. «Ce la faccio...»


Gli uomini a cavallo catturarono di nuovo la sua attenzione. Erano parecchio più vicini rispetto a poco prima e galoppavano sull'arido terreno a un ritmo preoccupante. È una gara fra loro e me, pensò. Devo riuscire a fuggire prima che raggiungano l'Helgrind. Di sicuro ci sono dei maghi fra di loro, e io non sono in condizione di combattere gli stregoni di Galbatorix. Scoccando un'occhiata alla faccia inespressiva di Sloan, disse: «Magari tu puoi darmi una mano, eh? È il minimo che puoi fare, considerando che rischio la vita e, peggio ancora, la sto rischiando per te.» La testa del macellaio addormentato ciondolò; l'uomo era smarrito nel suo mondo di sogni.


Con un grugnito, Eragon si staccò dalla parete dell'Helgrind. Disse di nuovo «Audr» e di nuovo si levò in aria. Questa volta ricorse alla forza di Sloan - per quanto esigua - oltre che alla propria. Insieme planarono come due strani uccelli lungo il fianco accidentato dell'Helgrind, verso un'altra cengia abbastanza larga da offrire un appoggio sicuro.


Fu in questo modo che Eragon orchestrò la discesa. Non procedeva in linea retta, ma tenendo un'angolatura che lo fece curvare a destra intorno all'Helgrind, affinché la sua mole li nascondesse ai cavalieri.


Più si avvicinavano al suolo, più rallentavano. La stanchezza prese il sopravvento, riducendo la distanza che Eragon poteva percorrere in un unico tratto, e gli era sempre più difficile recuperare nelle pause tra uno sforzo e l'altro. Perfino alzare un dito ormai gli costava una fatica enorme, e fu avvolto nelle calde pieghe di una strana nebbia che gli ottenebrava i sensi e i pensieri, tanto che persino la roccia più dura gli parve soffice come un cuscino per riposare i muscoli indolenziti.


Quando alla fine toccò il terreno riarso dal sole - troppo stanco per non franare nella polvere con Sloan in spalla - Eragon rimase con le braccia ripiegate sotto il torace e fissò con gli occhi ridotti a fessure le gialle inclusioni di citrino nel piccolo sasso a un paio di pollici dal suo naso. Sloan gli pesava sulla schiena come una pila di lingotti di ferro. L'aria gli uscì sibilando dai polmoni, ma parve non voler rientrare. La vista gli si oscurò come se una nuvola avesse coperto il sole. Un intervallo letale separava ogni battito del suo cuore, e quando arrivava, la pulsazione non era più forte di un fievole sfarfallio.


Eragon non era più capace di pensieri coerenti, ma in un angolo remoto del cervello era consapevole che stava morendo. Non aveva paura: al contrario, la prospettiva lo confortava, perché era stanco oltre ogni dire, e la morte lo avrebbe liberato dal suo logoro involucro di carne donandogli finalmente il riposo eterno.


D'un tratto sopra la sua testa arrivò un bombo grosso quanto il suo pollice. L'insetto gli volò intorno all'orecchio, poi si fermò sul sasso saggiando i cristalli di citrino, che erano dello stesso giallo brillante dei fiori di campo sulle colline. La peluria del bombo riluceva nel fulgore del mattino - ogni setola si stagliava nitida davanti agli occhi di Eragon - e le ali frementi producevano un delicato ronzio. Le zampette erano impolverate di polline.


Il bombo era così vibrante di vita e così bello che la sua presenza infuse in Eragon una nuova voglia di vivere. Un mondo che conteneva una creatura così stupefacente come quel bombo era un mondo in cui valeva la pena di vivere.


Con la sola forza di volontà, liberò la mano sinistra da sotto il torace e afferrò lo stelo legnoso di un arbusto vicino. Come una sanguisuga o una zecca o un altro parassita, estrasse la vita dalla pianta, lasciandola vizza e floscia. Il flusso di energia che lo percorse gli fece tornare il senno: adesso aveva paura. Oltre al desiderio di vivere appena riconquistato, non provava altro che terrore.


Trascinandosi sui gomiti, afferrò un altro arbusto e ne trasferì la vitalità nel proprio corpo, poi un terzo e un quarto, e così via, fino a riguadagnare completamente le forze. Si alzò e si guardò indietro: sentì un sapore amaro in bocca quando vide la scia di piante morte che aveva lasciato alle sue spalle.


Eragon sapeva di aver abusato della magia e che il suo comportamento avrebbe condannato i Varden a una sicura sconfitta se lui fosse morto. Col senno di poi, si vergognò della propria stupidità. Brom mi avrebbe strappato le orecchie per come mi sono cacciato in questo pasticcio, pensò.


Tornò da Sloan e riprese in spalla il macellaio ancora inerte. Poi si avviò a grandi balzi verso est, allontanandosi dall'Helgrind verso il riparo del letto di un torrente asciutto. Dieci minuti dopo, quando si fermò per controllare gli inseguitori, vide una nube di polvere turbinare alla base dell'Helgrind, segno che i cavalieri erano arrivati alla nera torre di roccia.


Eragon sorrise. Gli emissari di Galbatorix erano troppo lontani perché eventuali stregoni tra le loro fila potessero individuare la mente sua o di Sloan. Prima che abbiano il tempo di scoprire i cadaveri dei Ra'zac, pensò, avrò già percorso almeno una lega o due. Per giunta quelli cercano un drago e il suo Cavaliere, non un uomo che viaggia a piedi.


Lieto di non doversi preoccupare di un attacco imminente, Eragon riprese il suo ritmo di corsa, una falcata fluida e costante che avrebbe potuto mantenere per l'intera giornata.


Sopra di lui il sole splendeva caldo e abbagliante. Davanti a lui una natura arida e selvaggia si estendeva per miglia e miglia prima di lambire i margini di qualche villaggio sperduto. E nel suo cuore ardevano una nuova gioia e una nuova speranza.


Almeno i Ra'zac erano morti!


Alla fine la sua sete di vendetta era stata placata. Alla fine aveva estinto il suo debito con Garrow e Brom. E alla fine si era liberato del sudario di paura e di rabbia che lo aveva avvolto da quando i Ra'zac erano comparsi per la prima volta a Carvahall. Per ucciderli si era spinto più lontano di quanto avesse previsto, ma l'avventura era conclusa, ed era stata una grande avventura. Si crogiolò nella soddisfazione di aver portato a termine quella difficile impresa, pur con l'aiuto di Roran e Saphira.


Malgrado ciò, si rese conto con sorpresa che il suo trionfo aveva un sapore dolceamaro, contaminato da un inspiegabile senso di perdita. La caccia ai Ra'zac era stata uno degli ultimi legami con la sua vita nella Valle Palancar, ed era riluttante ad abbandonarlo, nonostante fosse zuppo di sangue. La vendetta gli aveva dato uno scopo nella vita quando non ne aveva nessuno: era la ragione che lo aveva spinto ad abbandonare casa. Ma ora dentro di lui si era creato un vuoto dove prima aveva covato l'odio per i Ra'zac.


Il fatto di poter rimpiangere la fine di una missione così terribile lo atterrì, ed Eragon giurò a se stesso che non avrebbe più commesso lo stesso errore. Non mi farò ossessionare dalla lotta contro l'Impero e Murtagh e Galbatorix al punto da non volermi dedicare a nient'altro, quando e se il momento arriverà... o peggio, al punto da cercare di prolungare il conflitto piuttosto che adattarmi a quello che mi aspetta dopo. Decise quindi di ignorare quel suo malsano rimpianto e di concentrarsi sul sollievo: sollievo per essere finalmente libero dai biechi obblighi della vendetta che si era imposto e per dover assolvere soltanto quelli legati alla sua attuale situazione.


L'euforia gli alleggerì il passo. Con la fine dei Ra'zac, Eragon sentiva di poter finalmente vivere la sua vita fondandola non su chi era stato, ma su chi era diventato: un Cavaliere dei Draghi.


Sorrise all'orizzonte frastagliato, e mentre correva si mise a ridere, incurante del rischio di essere sentito. La sua voce riverberò fra le sponde del torrente in secca, e tutto ciò che aveva intorno gli parve nuovo, bellissimo e pieno di promesse.

GIUDIZIO E CONDANNA

Lo stomaco di Eragon brontolò.


Giaceva sulla schiena, le gambe ripiegate sotto le ginocchia - un esercizio per allungare i muscoli delle cosce dopo aver corso più a lungo e recando un peso maggiore di quanto gli fosse mai capitato prima - quando il sonoro borbottio eruppe dalle sue viscere.


Il rumore fu così inaspettato che Eragon si alzò a sedere di scatto, cercando il bastone a tentoni.


Il vento fischiava sulla landa deserta. Il sole era tramontato e senza la sua luce tutto aveva assunto una sfumatura blu e viola. Nulla si muoveva, tranne i fili d'erba nella brezza e Sloan, che apriva e chiudeva le dita in risposta a chissà quale visione nel suo sonno stregato. Un freddo pungente annunciava l'arrivo della vera notte.


Eragon si rilassò e si concesse un lieve sorriso.


La sua allegria si spense non appena si rese conto del motivo del suo disagio. Combattere i Ra'zac, evocare incantesimi e portare il peso morto di Sloan in spalla per la maggior parte della giornata gli aveva fatto venire una tale fame che se avesse potuto viaggiare indietro nel tempo avrebbe divorato l'intero banchetto che i nani avevano preparato in suo onore durante la visita a Tarnag. Il ricordo dell'aroma del Nagra arrostito - il cinghiale gigante - caldo, fragrante, condito di miele e spezie, grondante di lardo, gli fece venire l'acquolina in bocca.


Il problema era la mancanza di viveri. Procurarsi l'acqua era facile: gli bastava estrarre l'umidità dal terreno ogni volta che ne sentiva il bisogno. Ma trovare del cibo in quella terra desolata era molto più difficile, e per giunta lo poneva di fronte a un dilemma morale che aveva sperato di evitare.


Oromis aveva dedicato molte lezioni ai diversi climi e alle varie regioni geografiche di Alagaësia. Perciò quando Eragon si allontanò dal bivacco per studiare l'area attorno riuscì a riconoscere la maggior parte delle piante che incontrò sul suo cammino. Soltanto un paio erano commestibili e di queste nessuna era abbastanza grande o abbondante da offrire a due uomini adulti un pasto decente in un ragionevole lasso di tempo. Gli animali del posto avevano nascosto scorte di bacche e frutti nelle loro tane, ma Eragon non aveva idea di dove cercare. Né pensava che un topo del deserto avesse potuto ammassare più di qualche boccone di cibo.


Non gli restavano che due possibilità, nessuna delle quali lo allettava. Poteva - come aveva fatto in precedenza - estrarre energia dalle piante e dagli insetti intorno al bivacco. Il prezzo sarebbe stato lasciare una zona morta, una piaga della terra dove niente, nemmeno il più piccolo organismo, sarebbe sopravvissuto. Per giunta, anche se utili a lui e Sloan, le trasfusioni di energia erano ben poco gratificanti, perché non riempivano lo stomaco.


Oppure poteva andare a caccia.


Eragon aggrottò la fronte e infilò il puntale del bastone nel terreno, scavando una piccola buca. Dopo aver condiviso pensieri e desideri di tanti animali, l'idea di mangiarne uno gli ripugnava. Malgrado ciò non poteva correre il rischio d'indebolirsi e di farsi catturare dall'Impero solo per risparmiare la vita di un coniglio. Come avevano sottolineato sia Saphira che Roran, ogni essere vivente sopravvive cibandosi di altri esseri viventi. Il nostro è un mondo crudele, pensò, e non sarò io a cambiare le cose... Gli elfi possono anche avere le loro ragioni per astenersi dalla carne, ma al momento io ne ho un gran bisogno. Non voglio sentirmi in colpa se le circostanze mi impongono questa scelta. Non è un crimine assaporare un po' di pancetta o una trota o quello che si ha davanti.


Nonostante gli argomenti che trovava per giustificarla, l'idea continuava a disgustarlo. Per quasi mezz'ora rimase impalato dov'era, incapace di fare quello che la logica gli diceva essere necessario. Poi si accorse di quanto era tardi e si rimproverò di aver perso tempo: aveva bisogno di ogni minuto di riposo ancora a disposizione.


Facendosi forza, Eragon diffuse tentacoli di coscienza nel territorio circostante finché non riconobbe due grosse lucertole e una colonia di roditori raggomitolati in una tana di sabbia: uno strano incrocio fra un ratto, un coniglio e uno scoiattolo. «Deyja» disse Eragon, e uccise le lucertole e uno dei roditori. Le creature morirono all'istante, senza soffrire, ma il giovane digrignò i denti nell'estinguere le luminose fiammelle delle loro menti.


Recuperò le lucertole con le sue mani, rovesciando i sassi sotto cui stavano nascoste, ma estrasse il roditore dalla sua tana con la magia. Fu attento a non svegliare gli altri animali mentre attirava il cadavere in superficie; gli sembrava crudele terrorizzarli con la consapevolezza che un predatore invisibile poteva ucciderli anche nella tana più remota.


Sventrò, scuoiò e pulì le lucertole e il roditore, seppellendo i resti in una buca profonda per nasconderli ai mangiacarogne. Raccolse qualche sasso piatto e rotondo da disporre in circolo e accese un fuoco su cui cominciò ad arrostire la carne. Senza sale non poteva condire il cibo a dovere, ma alcune delle piante locali sprigionarono un gradevole aroma quando le sbriciolò fra le dita, le strofinò sulle carcasse e le infilò qua e là a ciuffetti.


Il roditore fu il primo a cuocere, essendo più piccolo delle lucertole. Eragon lo tolse dal fuoco e lo portò alla bocca. Fece una smorfia, e sarebbe rimasto paralizzato in una morsa di repulsione se non avesse dovuto occuparsi del fuoco e delle lucertole. Le due attività lo distrassero al punto che, senza pensarci, obbedì all'imperativo della fame e mangiò.


Il primo morso fu il peggiore: il pezzo di carne gli rimase bloccato in gola, e il sapore del grasso caldo minacciò di farlo vomitare. Rabbrividì, deglutì a vuoto due volte, e la nausea passò. Dopo fu più facile. In un certo senso era contento che la carne fosse insipida, perché la mancanza di gusto lo aiutava a dimenticare che cosa stava masticando.


Consumò tutto il roditore e parte di una lucertola. Strappando coi denti l'ultimo morso da una coscia sottile, sospirò di soddisfazione, poi esitò, turbato nel rendersi conto che, suo malgrado, si era goduto il pasto. Aveva avuto tanta fame che la misera cena gli era sembrata deliziosa, una volta superate le remore. Magari, pensò, quando tornerò... se sarò invitato alla tavola di Nasuada, o a quella di re Orrin, e verrà servita della carne... magari, se ne ho voglia, e se rifiutare fosse una scortesia, potrei assaggiarne qualche boccone... Non mangerò carne come facevo un tempo, ma sull'argomento non sarò rigido come gli elfi. La moderazione è una politica più saggia dell'intransigenza, credo.


Alla luce della brace del falò, Eragon studiò le mani di Sloan: il macellaio era sdraiato a un paio di iarde di distanza, dove Eragon l'aveva adagiato. Un reticolo di sottili cicatrici bianche gli solcava le lunghe dita ossute, con le nocche sporgenti e le unghie lunghe, che ai tempi di Carvahall erano sempre meticolosamente curate, ora spezzate, frastagliate e intrise di sudiciume. Le cicatrici erano la testimonianza degli errori, pochi, per la verità, commessi da Sloan negli anni in cui aveva maneggiato i coltelli. La pelle era rugosa e segnata dal tempo, con le vene che sporgevano come vermi bluastri, eppure i muscoli al di sotto erano duri e tonici.


Eragon si sedette a gambe incrociate e posò le braccia sulle ginocchia. «Non posso lasciarlo andare» mormorò. Se lo avesse fatto, Sloan avrebbe potuto rintracciare Roran e Katrina, una prospettiva che Eragon riteneva inaccettabile. Per giunta, anche se non aveva intenzione di uccidere Sloan, credeva che il macellaio meritasse comunque una punizione per i suoi crimini.


Eragon non era stato particolarmente amico di Byrd, ma sapeva che era un brav'uomo, un lavoratore onesto, e ricordava con affetto la moglie di Byrd, Felda, e i loro figli, dato che lui, Garrow e Roran avevano mangiato e dormito a casa loro in diverse occasioni. L'assassinio di Byrd perciò rappresentava un atto particolarmente crudele ai suoi occhi; era convinto che la famiglia della sentinella meritasse giustizia, una giustizia di cui non avrebbe mai saputo.


Ma quale poteva essere la giusta punizione? Non ho alcuna intenzione di fare il boia, pensò Eragon, ma solo l'arbitro. Non so nulla di leggi.


Si alzò, si avvicinò a Sloan e si chinò per mormorargli all'orecchio: «Vakna.»


Con un sussulto, Sloan si svegliò, artigliando il terreno con le mani scheletriche. Quel poco di pelle che restava delle palpebre tremolò per istinto, come se il macellaio volesse aprirle per guardarsi intorno. Invece rimase intrappolato nella sua tenebra.


Eragon disse: «Tieni, mangia questo.» E spinse l'altra metà della sua lucertola verso Sloan, che non poteva vedere il cibo ma di sicuro ne aveva sentito il profumo.


«Dove sono?» chiese Sloan. Con le mani tremanti cominciò a tastare le rocce e le piante davanti a sé. Si toccò i polsi e le caviglie, e quando scoprì che non aveva più i ceppi gli si dipinse in volto un'espressione confusa.


«Gli elfi... e anche i Cavalieri dei tempi che furono... chiamavano questo posto Mírnathor. I nani lo definiscono Werghadn, e gli umani Landa Grigia. Ma se questo non risponde alla tua domanda, ti dirò che ci troviamo parecchie leghe a sud-est dell'Helgrind, dov'eri prigioniero.»


Sloan mormorò la parola Helgrind solo con le labbra. «Sei stato tu a liberarmi?»


«Sì.»


«E mia...»


«Basta con le domande. Prima mangia.»


Il suo tono aspro ebbe sul macellaio l'effetto di una frustata: Sloan trasalì e afferrò con le dita incerte la lucertola. Eragon lasciò la presa e tornò al suo posto accanto al falò, dove raccolse manciate di terriccio da gettare sulla brace per impedire al bagliore arancione di tradire la loro presenza, nell'improbabile caso che qualcuno passasse nelle vicinanze.


Dopo un timido boccone iniziale per capire che cosa aveva in mano, Sloan affondò i denti nella lucertola e strappò un grosso pezzo dalla carcassa. A ogni morso s'infilava in bocca quanta più carne poteva, e masticava solo una o due volte prima di mandare giù e ricominciare. Ripulì ogni osso con la maestria di un uomo che conosceva profondamente com'erano fatti gli animali e qual era il modo più rapido per sezionarli, e li accumulò in una pila ordinata alla sua sinistra. Quando l'ultimo boccone - la coda della lucertola - svanì nella pancia di Sloan, Eragon gli porse l'altro rettile ancora intero. Sloan grugnì un ringraziamento e continuò a ingozzarsi, senza nemmeno asciugare il grasso che gli colava sul mento.


La seconda lucertola era troppo grossa perché il macellaio riuscisse a finirla. Si fermò a metà della cassa toracica, e posò il resto della carcassa sul cumulo di ossa. Poi raddrizzò la schiena, si passò il dorso della mano sulla bocca, si scostò i capelli dietro le orecchie e disse: «Ti ringrazio, straniero, per la tua ospitalità. Era tanto tempo che non mangiavo come si deve e quasi apprezzo più il tuo cibo che la libertà... Se posso chiedertelo, conosci mia figlia Katrina e sai cosa le è successo? Era prigioniera con me nell'Helgrind.» Dalla sua voce trapelava un misto di emozioni: rispetto, timore e sottomissione in presenza di un'autorità sconosciuta; speranza e trepidazione per il destino di sua figlia; e una determinazione incrollabile, come le montagne della Grande Dorsale. L'unico elemento che Eragon si aspettava di sentire, e invece mancava, era lo sprezzo beffardo con cui Sloan era solito rivolgersi a lui quando si incontravano a Carvahall.


«È con Roran.»


Sloan rimase a bocca aperta. «Roran! Come ha fatto ad arrivare fin qui? I Ra'zac hanno preso anche lui? Oppure...»


«I Ra'zac e le loro cavalcature sono morti.»


«Li hai uccisi? Come?... Chi...» Per un istante, Sloan rimase pietrificato, come se stesse balbettando con tutto il corpo, poi le guance e la bocca si afflosciarono, le spalle s'incurvarono e dovette aggrapparsi a un arbusto per sostenersi. Scosse la testa. «No, no, no... No... Non può essere. I Ra'zac ne parlavano; pretendevano risposte che io non avevo, ma pensavo... Voglio dire, chi mai avrebbe creduto...» Sloan ansimava con una tale violenza che Eragon temette che si sarebbe sentito male. Con un filo di voce, come costretto a parlare dopo aver ricevuto un pugno allo stomaco, Sloan mormorò: «Tu non puoi essere Eragon.»


Eragon fu pervaso da una sensazione di destino ineluttabile, come fosse diventato lo strumento di quel signore spietato, e rispose di conseguenza, parlando con deliberata lentezza, affinché ogni parola colpisse con la forza di un maglio e trasmettesse tutta la potenza della sua dignità, della sua posizione e della sua collera. «Io sono Eragon e molto di più. Sono Argetlam e Ammazzaspettri e Spadarossa. Il mio drago è Saphira, conosciuta anche come Bjartskular e Lingua di Fuoco. Siamo stati allievi di Brom, che fu Cavaliere prima di noi, e dei nani e degli elfi. Abbiamo combattuto gli Urgali e uno Spettro e Murtagh, che è il figlio di Morzan. Serviamo i Varden e i popoli di Alagaësia. E ti ho portato qui, Sloan Aldensson, per emettere la condanna che ti meriti, assassino di Byrd e traditore di Carvahall.»


«Tu menti! Non puoi...»


«Mentire?» ruggì Eragon. «Io non mento!» Espandendo di colpo la mente, avvolse la coscienza di Sloan nella propria e costrinse il macellaio ad accettare ricordi che confermavano la verità delle sue affermazioni. Voleva anche che Sloan percepisse il suo potere e capisse che non era più interamente umano. E pur riluttante ad ammetterlo, Eragon godette nell'esercitare il controllo su un uomo che gli aveva spesso creato problemi e lo aveva tormentato con il suo scherno e con gli insulti rivolti sia a lui che alla sua famiglia. Mezzo minuto dopo si ritrasse.


Sloan continuò a tremare, ma non crollò a terra implorante come Eragon aveva pensato. Al contrario, l'atteggiamento del macellaio si fece duro e glaciale. «Maledizione» disse. «Non ti devo nessuna spiegazione, Eragon Figlio di Nessuno. Ma sappi questo: ho fatto quello che ho fatto per amore di Katrina, e nient'altro.»


«Lo so. Ed è l'unica ragione per cui sei ancora in vita.»


«Allora fa' di me quello che vuoi. Non m'importa, basta che lei sia sana e salva... Be', avanti! Cosa mi aspetta? Frustate? Una marchiatura a fuoco? Mi hanno già strappato gli occhi, che ne diresti di prendermi una mano? Oppure mi lascerai qui a morire di fame, o alla mercé degli uomini dell'Impero?»


«Non ho ancora deciso.»


Sloan annuì con un brusco cenno del capo e si strinse negli abiti logori per ripararsi dal freddo della notte. Se ne stava seduto impettito, con un cipiglio militaresco, fissando con le nere orbite vuote le ombre che lambivano il bivacco. Non supplicò. Non chiese pietà. Non negò i propri crimini né cercò di blandire Eragon. Si limitò a restare seduto in attesa, armato di un perfetto stoicismo.


Il suo coraggio impressionò Eragon.


La buia landa desolata che li circondava sembrava sconfinata, e al tempo stesso dava a Eragon la sensazione che convergesse su di lui, una sensazione che accrebbe la sua ansia per la decisione che doveva prendere. Il mio verdetto influirà sul resto della sua vita, pensò.


Abbandonando per un momento il problema della punizione, Eragon si soffermò a pensare alle cose che conosceva di Sloan: l'immenso amore del macellaio per Katrina - per quanto ossessivo, egoista e malsano, un tempo era stato puro e misurato; il suo odio e il suo timore per la Grande Dorsale, fonte del suo cordoglio per la moglie defunta, Ismira, che era caduta sfracellandosi fra quei picchi ammantati di nubi; il suo allontanamento dai restanti rami della famiglia; il suo orgoglio nel lavoro; le storie che Eragon aveva sentito sull'infanzia di Sloan; e l'esperienza stessa di Eragon su ciò che significava vivere a Carvahall.


Eragon raccolse quell'insieme di nozioni sparse e frammentarie e cominciò a studiarle, come se fossero le tessere di un mosaico da ricomporre. Non sempre ci riuscì, ma insistette, e alla fine tracciò una miriade di collegamenti fra gli eventi e le emozioni della vita di Sloan, e da qui costruì un'intricata ragnatela, il cui disegno rappresentava la vera essenza di Sloan. Una volta tessuto l'ultimo filo della ragnatela, Eragon ebbe la sensazione di aver finalmente compreso le ragioni del comportamento di Sloan. E per questo provò compassione.


Anzi, più che compassione: sentiva di capire Sloan, di aver isolato gli elementi fondamentali della sua personalità, quegli aspetti che non si possono eliminare senza cambiare irrevocabilmente la persona. A quel punto gli vennero in mente tre parole nell'antica lingua che sembravano incarnare Sloan e, senza pensarci, le mormorò sottovoce.


Era impossibile che Sloan le avesse sentite, eppure il macellaio si mosse, le sue mani abbandonate sulle cosce si contrassero e sul suo viso comparve una smorfia di disagio.


Eragon sentì un gelido formicolio al fianco sinistro, e gli venne la pelle d'oca sulle braccia e sulle gambe mentre osservava il macellaio. Prese in considerazione diverse spiegazioni per la reazione di Sloan, ciascuna più complicata della precedente, ma soltanto una sembrava plausibile, e al tempo stesso assai improbabile. Sussurrò le tre parole ancora una volta. E ancora una volta Sloan si agitò, ed Eragon lo sentì borbottare: «... mi è passata vicino la morte.»


Eragon si lasciò sfuggire un sospiro tremante. Non riusciva ancora a crederci, ma il suo esperimento non lasciava spazio ad altri dubbi: per puro caso, si era imbattuto nel vero nome di Sloan. La scoperta lo turbò profondamente. Conoscere il vero nome di qualcuno era una pesante responsabilità, poiché conferiva potere assoluto su quella persona. A causa dei rischi connessi, gli elfi rivelavano di rado il proprio vero nome, e quando lo facevano, era solo davanti a coloro di cui si fidavano senza riserve.


Eragon non aveva mai conosciuto il vero nome di nessuno prima di allora. Si era sempre aspettato che, se un giorno fosse capitato, sarebbe stato un dono da parte di qualcuno che amava. Carpire il vero nome di Sloan senza il suo permesso era una svolta negli eventi a cui Eragon era impreparato, un evento che non sapeva come controllare. Poi pensò che per aver indovinato il vero nome di Sloan doveva aver compreso il macellaio molto meglio di quanto capisse se stesso, perché non aveva la più pallida idea di quale fosse il proprio.


Quella rivelazione fu come una doccia fredda. Sospettava che - data la natura dei suoi nemici - non sapere tutto di sé avrebbe potuto rivelarsi fatale. Giurò allora di dedicare più tempo all'introspezione e alla scoperta del proprio vero nome. Forse Oromis e Glaedr sapranno dirmelo, pensò.


Quali che fossero i dubbi e le incertezze suscitati dal vero nome di Sloan, la rivelazione gli fece nascere un abbozzo di idea su che cosa fare del macellaio. Una volta elaborato il concetto di base, impiegò un'altra decina di minuti per rifinire il piano e assicurarsi che funzionasse nella maniera voluta.


Sloan inclinò la testa dalla sua parte quando Eragon si alzò dal bivacco e si allontanò nella notte rischiarata dalle stelle. «Dove vai?» chiese Sloan.


Eragon non rispose.


Camminò nella landa desolata fino a trovare un macigno basso e piatto, coperto di licheni, con un incavo al centro. «Adurna rïsa» disse. Intorno al masso, una miriade di minuscole gocce d'acqua filtrarono dal terreno e si condensarono in tanti rivoletti d'argento che risalirono il macigno e si raccolsero nello spazio concavo. Quando l'acqua cominciò a traboccare e a tornare nel terreno, solo per essere riportata in superficie dal suo incantesimo, Eragon recise il flusso di magia.


Aspettò che la superficie dell'acqua diventasse perfettamente immobile - tanto da sembrare uno specchio in cui si riflettevano le stelle del firmamento - e poi disse «Draumr kópa» e molte altre parole, recitando un incantesimo che gli avrebbe permesso non solo di vedere una persona a distanza, ma anche di parlare con lei. Oromis gli aveva insegnato le variazioni della divinazione due giorni prima che lui e Saphira partissero da Ellesméra per il Surda.


L'acqua si fece tutta nera, quasi che qualcuno avesse spento le stelle come candele. Uno o due secondi dopo, una forma ovale scintillò al centro dell'acqua ed Eragon vide l'interno di una grande tenda bianca, illuminata dalla luce senza fiamma di una Erisdar rossa, una delle lanterne magiche degli elfi.


Di norma, Eragon non sarebbe stato capace di divinare una persona o un luogo che non aveva mai visto prima, ma lo specchio degli elfi era stato stregato per trasmettere un'immagine di quanto lo circondava a chiunque lo avesse evocato. Allo stesso modo, l'incantesimo di Eragon avrebbe proiettato un'immagine di se stesso e dell'ambiente dove si trovava sulla superficie dello specchio. Questo consentiva a estranei di entrare in relazione reciproca da qualsiasi punto della terra, una facoltà molto preziosa in tempi di guerra.


Un elfo longilineo, dai capelli d'argento e dall'armatura ammaccata, entrò nel campo visivo di Eragon, che riconobbe in lui Lord Däthedr, uno dei consiglieri della regina Islanzadi, un amico di Arya. Se Däthedr rimase sorpreso nel vedere Eragon, non lo mostrò; chinò il capo, si toccò le labbra con l'indice e il medio della mano destra, e disse con la sua voce flautata: «Atra esterní ono thelduin, Eragon Shur'tugal.»


Passando mentalmente all'antica lingua, Eragon ripeté il gesto con le dita e disse: «Atra du evarínya ono varda, Däthedrvodhr.»


Däthedr disse, ancora nella sua lingua madre: «Sono lieto di vedere che stai bene, Ammazzaspettri. Arya Dröttningu ci ha informati della tua missione qualche giorno fa, e siamo stati molto in pensiero per la tua sorte e per quella di Saphira. Confido che sia andato tutto bene.»


«Sì, ma ho incontrato un problema imprevisto e, se posso, vorrei consultarmi con la regina Islanzadi per chiederle il suo saggio parere.»


Gli occhi da gatto di Däthedr si ridussero a due fessure ancora più sottili e oblique, che gli diedero un'espressione feroce e indecifrabile. «So che non lo chiederesti se non fosse della massima importanza, Eragon-vodhr, ma attento: la corda troppo tesa di un arco può facilmente spezzarsi e ferire l'arciere, non solo scoccare la freccia... Se così ti aggrada, allora aspetta, e andrò a chiamare la regina.»


«Aspetterò. Ti sono riconoscente per l'aiuto, Däthedrvodhr.» Quando l'elfo volse le spalle allo specchio, Eragon fece una smorfia. Detestava il formalismo degli elfi, e detestava ancora di più la fatica d'interpretare le loro frasi enigmatiche. Voleva avvertirmi che fare piani e progetti alle spalle della regina è un passatempo pericoloso o che Islanzadi è una corda tesa pronta a spezzarsi? O voleva dire tutt'altra cosa?


Almeno sono riuscito a trovare gli elfi, pensò Eragon. Gli incantesimi di protezione degli elfi impedivano a chiunque di entrare nella Du Weldenvarden con espedienti magici, compresa l'arte della divinazione. Finché gli elfi restavano confinati nelle proprie città, si poteva comunicare con loro solo inviando messaggeri nella foresta. Ma ora che gli elfi erano sul piede di guerra e avevano lasciato l'ombra dei pini dagli aghi neri, i loro incantesimi non li proteggevano più ed era possibile usare strumenti come lo specchio magico.


La sua ansia cresceva col passare dei minuti. «Andiamo» mormorò. Guardò da una parte e dall'altra per assicurarsi che nessuna persona o animale potesse coglierlo di sorpresa mentre era intento a fissare la pozza d'acqua.


Con un rumore di stoffa strappata, il lembo che chiudeva l'ingresso della tenda si levò di colpo e la regina Islanzadi entrò come un turbine, fermandosi davanti allo specchio. Indossava un lucido corsaletto dorato a placche, arricchito da una cotta di maglia, un paio di schinieri e un elmo tempestato di opali e altre pietre preziose che le tratteneva la fluente chioma corvina. Un mantello rosso orlato di bianco le scendeva in ampie pieghe dalle spalle. Nella mano sinistra, Islanzadi impugnava una spada sguainata. Alla destra sembrava indossare un guanto cremisi, ma dopo un istante Eragon si accorse che quello che le ricopriva le dita e il polso era sangue.


La regina inarcò le sopracciglia oblique quando vide Eragon. Con quella espressione, la somiglianza con Arya era sorprendente, anche se la sua statura e il suo portamento erano molto più notevoli di quelli della figlia. Era bellissima e terribile, come una spaventosa dea guerriera.


Eragon si toccò le labbra con le dita, poi voltò la mano destra portandola al petto, secondo il gesto degli elfi che indica lealtà e rispetto, e recitò la frase di esordio del saluto tradizionale, parlando per primo, com'era consuetudine nel rivolgersi a una persona di rango superiore. Islanzadi gli diede la risposta di rito, ed Eragon, nel tentativo di compiacerla e di dimostrarle che conosceva le loro usanze, concluse con la terza frase facoltativa del saluto: «E che la pace regni nel tuo cuore.»


La ferocia dell'atteggiamento di Islanzadi si mitigò un poco, e un debole sorriso le affiorò sulle labbra, come se avesse intuito la manovra di Eragon per blandirla. «E nel tuo, Ammazzaspettri.» La sua voce bassa e corposa conteneva tracce del fruscio degli aghi di pino e del mormorio dei ruscelli e della musica suonata con flauti di canna. Rinfoderò la spada e si avvicinò a un tavolinetto da campo, dove si lavò il sangue dalla mano con l'acqua di una brocca. «La pace è cosa assai rara di questi tempi, temo.»


«La battaglia è stata dura, maestà?»


«Lo sarà presto. Il mio popolo si sta ammassando lungo il margine occidentale della Du Weldenvarden, dove ci prepariamo a uccidere o a essere uccisi restando vicini agli alberi che tanto amiamo. Siamo una razza dispersa e non marciamo in ranghi serrati e file ordinate come fanno gli altri... per non arrecare danno alla terra... perciò ci occorre del tempo per radunarci dagli angoli più remoti della foresta.»


«Capisco. Solo che...» Eragon cercò un modo per porre la domanda senza suonare scortese. «Se la battaglia non è ancora cominciata, non posso fare a meno di chiedermi come mai la tua mano è sporca di sangue.»


Islanzadi si scrollò le goccioline d'acqua dalla mano, mostrandogli il perfetto avambraccio color ambra, e in quel momento Eragon si rese conto che era stata lei la modella per la scultura delle due braccia intrecciate all'ingresso della sua casa sull'albero a Ellesméra. «Non è più sporca. L'unica macchia che lascia il sangue su una persona si trova sulla sua anima, non sul suo corpo. Ho detto che la battaglia si farà più dura in un prossimo futuro, non che dobbiamo ancora cominciare.» Abbassò la manica della tunica fino al polso. Dalla cintura ingioiellata che le cingeva la vita sottile trasse un guanto intessuto di fili d'argento e se lo infilò. «Tenevamo sotto osservazione la città di Ceunon, perché era nostra intenzione attaccare lì per prima cosa. Due giorni fa, i nostri ricognitori hanno individuato squadre di uomini e muli che da Ceunon puntavano verso la Du Weldenvarden. Abbiamo pensato che volessero raccogliere del legname ai margini della foresta, come spesso accade. È una pratica che tolleriamo, perché sappiamo che gli umani hanno bisogno del legno, e gli alberi ai margini della foresta sono giovani e quasi al di là della nostra sfera d'influenza, e perché prima non avevamo mai voluto esporci. Le squadre però non si sono fermate ai margini, ma si sono addentrate nella Du Weldenvarden, seguendo le piste lasciate dagli animali che evidentemente conoscevano bene. Cercavano gli alberi più alti e grossi... alberi antichi come Alagaësia stessa, alberi che erano già vecchi e sviluppati quando i nani scoprirono il Farthen Dûr. Quando li hanno trovati, hanno cominciato ad abbatterli.» La sua voce vibrava di collera. «Dai loro commenti, abbiamo compreso il motivo per cui erano lì. Galbatorix voleva impossessarsi degli alberi più grandi per ricostruire le macchine d'assedio e gli arieti perduti durante la battaglia delle Pianure Ardenti. Se le loro motivazioni fossero state pure e oneste, avremmo potuto perdonare la perdita di uno dei sovrani della nostra foresta. Magari anche due. Ma non ventotto.»


Eragon fu percorso da un brivido. «Che cosa avete fatto?» chiese, anche se sospettava di conoscere già la risposta.


Islanzadi alzò il mento con aria altera. «Io ero presente con due dei nostri ricognitori. Insieme abbiamo corretto l'errore degli umani. In passato gli abitanti di Ceunon si guardavano bene dall'infiltrarsi nel nostro territorio. Oggi abbiamo ricordato loro il perché.» Con noncuranza si massaggiò la mano destra, come se le facesse male, mentre il suo sguardo vagava oltre lo specchio magico, perso in una propria visione. «Tu hai imparato, Eragon-finiarel, cosa significa toccare la forza vitale delle piante e degli animali intorno a te. Immagina quanto ti sarebbero cari se possedessi questa capacità da secoli. Noi diamo noi stessi per sostenere la Du Weldenvarden, e la foresta è un'estensione dei nostri corpi e delle nostre menti. Qualunque offesa arrecata a lei è un'offesa arrecata a noi... Siamo un popolo lento all'ira, ma una volta provocati siamo come i draghi: la nostra collera non conosce limiti. Sono passati più di cento anni da quando io e la maggior parte degli elfi abbiamo versato sangue in battaglia. Il mondo ha dimenticato di cosa siamo capaci. La nostra forza può anche essersi attenuata dalla caduta dei Cavalieri, ma siamo di nuovo pronti a dare dimostrazione del nostro valore. Ai nostri nemici parrà che anche gli elementi si siano rivoltati contro di loro. Siamo una Razza Antica, e le nostre conoscenze e capacità travalicano quelle dei mortali. Che Galbatorix e i suoi alleati stiano in guardia, poiché noi elfi stiamo per abbandonare la nostra foresta, per tornare da vincitori, o mai più.»

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