Eragon rabbrividì. Perfino durante il suo duello con Durza, non aveva mai incontrato una simile determinazione e spietatezza. Non è umana, pensò, poi rise della propria ingenuità. Certo che non lo è. E farò meglio a ricordarlo. Per quanto possiamo sembrare simili... e nel mio caso, quasi identici... noi non siamo uguali. «Se conquistate Ceunon» disse, «come farete a controllarne gli abitanti? Sono convinto che odiano l'Impero più della morte stessa, ma dubito che si fideranno di voi, se non altro perché sono umani e voi elfi.»


Islanzadi agitò una mano. «È una questione insignificante. Una volta entrati nelle mura della città, abbiamo i nostri metodi per assicurarci che nessuno ci si opponga. Non è la prima volta che combattiamo la tua razza.» La regina si tolse l'elmo, e i capelli le ricaddero in lunghe ciocche nere che le incorniciarono il viso. «Non mi ha fatto piacere sapere della tua missione sull'Helgrind, ma posso dedurre che l'attacco si è già concluso, e con successo?»


«Sì, Maestà.»


«Allora le mie obiezioni sono superflue. Comunque sia, Eragon Shur'tugal, ti avverto: non mettere a repentaglio la tua vita in altre simili imprese inutilmente pericolose. È crudele quanto sto per dirti, ma è pur sempre vero: la tua vita è molto più importante della felicità di tuo cugino.»


«Avevo giurato a Roran di aiutarlo.»


«Vuol dire che i tuoi giuramenti sono avventati, e non consideri le conseguenze.»


«Avresti voluto che abbandonassi le persone a me care? Se lo avessi fatto, sarei diventato una persona spregevole e inaffidabile: un ben misero ricettacolo delle speranze di coloro che credono che in un modo o nell'altro sconfiggerò Galbatorix. E poi finché Katrina era ostaggio di Galbatorix, Roran era vulnerabile alle sue manipolazioni.»


La regina inarcò un sopracciglio sottile come un rasoio. «Una debolezza che avresti potuto impedire a Galbatorix di sfruttare se avessi insegnato a Roran certi giuramenti nella nostra lingua, la lingua della magia... Non ti sto consigliando di abbandonare i tuoi amici o la tua famiglia. Sarebbe pura follia. Ma cerca di tenere bene a mente la posta in gioco: l'integrità di Alagaësia. Se falliamo adesso, la tirannia di Galbatorix si estenderà a tutte le razze, e il suo regno continuerà. Tu sei la punta della lancia dei nostri sforzi, e se la punta si spezza e va perduta, allora la nostra lancia rimbalzerà sull'armatura del nostro nemico, e tutti noi saremo perduti.»


Frammenti di licheni crepitarono sotto le dita di Eragon quando strinse l'orlo della roccia concava per reprimere l'impulso di rispondere acido che ogni guerriero degno di quel nome deve possedere una spada o qualche altra arma, oltre a una lancia. Era frustrato dalla piega che aveva preso la conversazione e desideroso di cambiare argomento più in fretta possibile; non aveva cercato la regina per farsi rimproverare come un bambino. D'altro canto, consentire all'impazienza di guidare le sue azioni non avrebbe giovato alla sua causa. Quindi mantenne la calma e rispose: «Ti prego di credere, Maestà, che prendo molto, molto sul serio le tue preoccupazioni. Posso soltanto dire che se non avessi aiutato Roran mi sarei sentito infelice quanto lui, e molto di più se Roran fosse andato a liberare Katrina da solo e fosse morto nell'impresa. In entrambi i casi, sarei stato troppo sconvolto per essere di aiuto a chiunque. Non possiamo almeno convenire che siamo in disaccordo sull'argomento? Nessuno dei due riuscirà a convincere l'altro.»


«Molto bene» disse Islanzadi. «Lasceremo la questione in sospeso... per il momento. Ma non credere di poter evitare un'altra indagine sulla tua decisione, Eragon Cavaliere dei Draghi. A mio avviso dimostri un atteggiamento infantile verso le tue maggiori responsabilità, e questo è un problema serio. Ne parlerò con Oromis; sarà lui a decidere che fare con te. Ma adesso dimmi, perché hai voluto questa udienza?»


Eragon serrò la mascella più volte prima di riuscire a spiegare in tono civile gli eventi della giornata, le ragioni delle sue azioni in merito a Sloan e la punizione che aveva escogitato per il macellaio.


Quando ebbe finito, Islanzadi si volse di scatto e prese a misurare la tenda a lunghi passi, agili e flessuosi come quelli di una gatta, poi si fermò e disse: «Hai scelto di restare indietro, nel cuore dell'Impero, per salvare la vita di un assassino traditore. Sei solo con quest'uomo, a piedi, senza viveri né armi tranne la magia, e i tuoi nemici sono vicini. Vedo che i miei ammonimenti erano più che giustificati. Tu...»


«Maestà, se devi arrabbiarti con me, ti prego di farlo in un altro momento. Voglio risolvere la questione al più presto, così da poter riposare un po' prima dell'alba. Ho parecchie miglia da coprire domani.»


La regina annuì. «La tua sopravvivenza è ciò che più conta. D'accordo, mi arrabbierò dopo che avremo parlato... Quanto alla tua richiesta, una cosa del genere non ha precedenti nella nostra storia. Se fossi stata al tuo posto, avrei ucciso Sloan e mi sarei liberata del problema una volta per tutte.»


«So che lo avresti fatto. Una volta ho visto Arya uccidere un girfalco ferito, dicendo che la sua morte era inevitabile e preferiva risparmiargli ore di agonia. Forse avrei dovuto fare la stessa cosa con Sloan, ma non ho potuto. Credo che sarebbe stata una decisione di cui mi sarei pentito per il resto della mia vita, o peggio, che mi avrebbe reso più facile uccidere in futuro.»


Islanzadi sospirò, e all'improvviso parve molto stanca. Eragon ricordò che anche lei aveva combattuto quel giorno. «Oromis sarà anche stato il tuo maestro ufficiale, ma da come ti comporti dimostri di essere soprattutto un allievo di Brom. Anche lui si cacciava tutte le volte nelle situazioni più complicate, proprio come fai tu. Sempre smanioso di trovare le sabbie mobili più insidiose per tuffartici dentro.»


Eragon nascose un sorriso, lusingato dal paragone. «E Sloan?» chiese. «Il suo destino è nelle tue mani, adesso.»


Lentamente, Islanzadi sedette su uno sgabello accanto al tavolino da campo, posò le mani in grembo e guardò un lato dello specchio magico. I suoi gesti si fecero enigmatici: una splendida maschera imperturbabile che nascondeva pensieri e sentimenti impossibili da decifrare, per quanto Eragon si sforzasse. Alla fine la regina parlò. «Poiché ti è sembrato giusto risparmiare la vita di quest'uomo, correndo non pochi rischi e a costo di enorme fatica, non posso negarti ciò che mi hai chiesto per non vanificare il tuo sacrificio. Se Sloan sopravviverà al cimento che hai previsto per lui, allora Gilderien il Saggio gli permetterà di passare, ed egli avrà vitto e alloggio. Di più non posso prometterti, perché ciò che accadrà dopo dipenderà da Sloan stesso. Ma se le condizioni che hai stabilito saranno rispettate, allora sì, daremo luce alle sue tenebre.»


«Ti ringrazio, Maestà. Sei molto generosa.»


«No, non generosa. Questa guerra non mi consente di essere generosa; sono soltanto concreta. Vai e fa' quello che devi, ma sii prudente, Eragon Ammazzaspettri.»


«Maestà.» Eragon s'inchinò. «Se posso chiederti un ultimo favore... Vorresti tenere il segreto su di me con Arya, Nasuada e il resto dei Varden? Non voglio che si preoccupino per me più di quanto non sia necessario, e comunque avranno presto mie notizie da Saphira.»


«Prenderò in considerazione la tua richiesta.»


Eragon aspettò, ma quando la regina rimase in silenzio e fu chiaro che non intendeva annunciare la propria decisione, s'inchinò una seconda volta e disse ancora: «Ti ringrazio.»


L'immagine splendente sulla superficie dell'acqua tremolò e scomparve quando Eragon pose fine all'incantesimo usato per crearla. Si accoccolò sui talloni e alzò lo sguardo verso la miriade di stelle per riabituare gli occhi al loro fioco chiarore. Poi si allontanò dalla roccia e ripercorse il cammino fra erba e cespugli fino al bivacco, dove Sloan sedeva ancora impettito e rigido come una statua di marmo.


Eragon urtò un ciottolo con un piede e il rumore annunciò la sua presenza. Il macellaio volse la testa di scatto, come un uccello spaventato. «Hai preso la tua decisione?» chiese.


«Sì» rispose Eragon. Si fermò e si accovacciò davanti all'uomo, posando una mano per terra per sostenersi. «Ascoltami bene, perché non lo ripeterò. Hai fatto quello che hai fatto per amore di Katrina, o almeno così dici. Che tu lo ammetta o no, io sono convinto che c'erano altre ragioni per volerla tenere separata da Roran: rabbia, odio, vendetta, e il tuo profondo cordoglio.»


Le labbra di Sloan divennero due sottili linee esangui. «Ti sbagli.»


«No, non credo. Dato che la mia coscienza m'impedisce di ucciderti, la tua punizione sarà la più terribile che sono riuscito a concepire escludendo la morte. Sono convinto che quello che hai detto prima è vero, che Katrina per te è più importante di qualsiasi altra cosa. Perciò la tua punizione sarà non vedere o toccare tua figlia e non parlarle mai più fino alla fine dei tuoi giorni, e vivere sapendo che lei è con Roran e che sono felici insieme, senza di te.»


Sloan inspirò a denti stretti. «Questa è la punizione? Ha! Non puoi applicarla: non hai prigione dove rinchiudermi.»


«Non ho finito. L'applicherò facendoti giurare nella lingua degli elfi, la lingua della verità e della magia, di osservare i termini della tua condanna.»


«Non puoi costringermi a dare la mia parola» ringhiò Sloan. «Nemmeno se mi torturi.»


«Posso, invece, e senza torturarti. In più ti imporrò il desiderio irrefrenabile di viaggiare verso nord finché non raggiungerai la città elfica di Ellesméra, nel cuore della Du Weldenvarden. Potrai cercare di resistere all'impulso, se vuoi, ma per quanto tu ti opponga, l'incantesimo ti irriterà come un prurito irrefrenabile finché non gli obbedirai e arriverai nel regno degli elfi.»


«Non hai il coraggio di uccidermi con le tue mani?» esclamò Sloan. «Sei troppo vigliacco per tagliarmi la gola, così mi farai vagare cieco e smarrito in questa terra desolata finché le intemperie o le bestie non mi uccideranno?» Sputò alla sinistra di Eragon. «Non sei altro che la feccia degenere di un caprone ulceroso. Sei un bastardo, sei un cane rognoso; uno zotico incrostato di letame; una carogna vomitevole, un rospo velenoso; prole deforme e grufolante di una lurida scrofa. Non ti darei la mia ultima briciola di pane se stessi morendo di fame, una goccia d'acqua se stessi bruciando, né una sepoltura da mendicante se fossi morto. Hai una poltiglia putrefatta al posto del midollo e funghi guasti al posto del cervello. Sei soltanto un moccioso senza nerbo!»


Eragon pensò che c'era qualcosa di oscenamente affascinante in quella serie di insulti, ma la sua ammirazione non gli impedì di provare il desiderio di strangolare il macellaio, o almeno di rispondergli a tono. Lo frenò il sospetto che Sloan stesse cercando di farlo infuriare di proposito, affinché uno scatto d'ira lo spingesse a dargli una morte rapida e immeritata.


Invece disse: «Sarò anche un bastardo, ma non un assassino.» Sloan trasse un rapido respiro, ma prima che potesse riprendere il suo torrente di insulti, Eragon aggiunse: «Ovunque andrai, non sentirai la fame, e le bestie selvatiche non ti attaccheranno. Evocherò speciali incantesimi intorno a te, che impediranno a uomini e animali di molestarti e costringeranno gli animali a darti sostentamento quando ne avrai bisogno.»


«Non puoi farlo» mormorò Sloan. Perfino nello scarso chiarore delle stelle, Eragon vide che gli ultimi residui di colore svanivano dal suo viso, lasciandolo pallido come uno straccio. «Non hai i mezzi. Non hai il diritto.»


«Io sono un Cavaliere dei Draghi. Ho gli stessi diritti di un re o di una regina.»


Poi Eragon, che non aveva alcun interesse a prolungare la conversazione con Sloan, pronunciò il vero nome del macellaio a voce abbastanza alta perché l'altro potesse udirlo. Un'espressione di orrore e scoperta deformò il volto di Sloan, che gettò le braccia al cielo e ululò come se lo avessero pugnalato. Il suo grido risuonò indifeso, rauco e disperato: il grido di un uomo condannato per sua stessa natura a un destino a cui non poteva sfuggire. Ricadde in avanti sulle mani e rimase in quella posizione a singhiozzare, il volto coperto dai capelli scarmigliati.


Eragon lo osservò, sconvolto dalla sua reazione. Conoscere il proprio vero nome fa questo effetto a tutti? Anche a me succederà lo stesso?


Poi chiuse il cuore davanti alla disperazione di Sloan e si accinse a fare quanto aveva detto. Ripeté il vero nome di Sloan e parola per parola istruì il macellaio sui giuramenti nell'antica lingua, per assicurarsi che Sloan non avrebbe mai più incontrato o cercato di incontrare Katrina. Sloan si oppose con lacrime e gemiti, digrignando i denti, ma per quanto lottasse non poteva far altro che obbedire ogni volta che Eragon invocava il suo vero nome. E quando ebbero finito con i giuramenti, Eragon evocò i cinque incantesimi che avrebbero guidato Sloan verso Ellesméra, lo avrebbero protetto dalla violenza e avrebbero indotto gli uccelli e gli animali e i pesci che vivevano nei laghi e nei fiumi a nutrirlo. Eragon formulò gli incantesimi in maniera tale che traessero energia da Sloan e non da se stesso.


La mezzanotte era un ricordo sbiadito quando Eragon concluse l'ultimo sortilegio. Ebbro di stanchezza, si appoggiò al bastone di biancospino. Sloan giaceva raggomitolato ai suoi piedi.


«Finito» disse Eragon.


Un gorgoglio lamentoso si levò dalla figura accasciata. Sembrava che Sloan volesse dire qualcosa. Accigliato, Eragon s'inginocchiò al suo fianco. Le guance di Sloan erano macchiate di rosso dove si era scorticato a sangue con le unghie. Gli colava il naso e le lacrime gli scorrevano dall'angolo dell'orbita sinistra, la meno sfregiata delle due. Eragon fu preso da un profondo senso di colpa e di compassione: non gli dava alcun piacere vedere Sloan in quello stato. Era un uomo distrutto, privato di tutto quello che riteneva prezioso nella vita, comprese le sue illusioni, ed era stato Eragon a distruggerlo. Si sentiva sporco, come se avesse fatto qualcosa di vergognoso. È stato necessario, pensò, ma nessuno dovrebbe essere costretto a fare quello che ho fatto io.


Un altro gemito proruppe dalle labbra di Sloan, poi l'uomo disse: «... solo un pezzo di corda. Non volevo... Ismira... No, no, per favore, no...» I rantoli del macellaio si spensero, e nel silenzio Eragon posò la mano sul braccio di Sloan, che si irrigidì a quel contatto. «Eragon» mormorò. «Eragon... sono cieco, e tu mi mandi a vagare da solo in questa terra desolata. Sono un reietto e uno spergiuro. So chi sono e non posso sopportarlo. Aiutami... uccidimi! Liberami da questa agonia.»


D'impulso, Eragon pose il ramo di biancospino nella mano destra di Sloan e disse: «Prendi il mio bastone. Ti guiderà nel tuo viaggio.»


«Uccidimi!»


«No.»


Un grido spezzato sgorgò dalla gola di Sloan, mentre si agitava e tempestava di pugni il terreno. «Sei crudele, crudele!» Senza più energie, il macellaio si raggomitolò ancora di più, ansimando e piangendo.


Chino su Sloan, Eragon avvicinò la bocca all'orecchio del macellaio e mormorò: «Non sono crudele, perciò ti do una speranza. Se raggiungerai Ellesméra, troverai una casa che ti aspetta. Gli elfi si prenderanno cura di te e ti permetteranno di fare ciò che vorrai per il resto della tua vita, ma a un patto: una volta entrato nella Du Weldenvarden, non potrai più uscirne... Sloan, ascoltami. Quando ero tra gli elfi, ho imparato che il vero nome di una persona può cambiare col tempo. Capisci cosa significa? Ciò che sei non è fissato per l'eternità. Un uomo può rinnovarsi, se solo lo vuole.»


Sloan non rispose.


Eragon gli lasciò il bastone accanto. Andò dall'altra parte del bivacco e si distese. Con gli occhi già chiusi, mormorò un incantesimo che lo destasse all'alba e poi si concesse di scivolare nell'abbraccio consolante del suo riposo vigile.

La Landa Grigia era fredda, buia e inospitale quando un basso ronzio risuonò nella mente di Eragon. «Letta» disse, e il rumore cessò. Gemendo mentre si stiracchiava i muscoli indolenziti, si alzò e levò le braccia sopra la testa, scrollandole per far circolare il sangue. La schiena gli faceva così male che si augurò di non dover essere costretto a brandire un'arma troppo presto. Abbassò le braccia e guardò verso Sloan.

Il macellaio se n'era andato.


Eragon sorrise nel vedere una serie di orme, accompagnate dall'impronta rotonda della punta del bastone, che si allontanavano dal bivacco. Le tracce erano confuse e incerte, ma puntavano a nord, verso la grande foresta degli elfi.


Gli auguro di farcela, pensò Eragon, stupito di sé. Gli auguro di farcela, perché vorrà dire che tutti possiamo avere un'occasione per redimerci dai nostri errori. E se Sloan riuscirà a purificare il carattere dai suoi difetti e a riscattarsi dal male che ha fatto, scoprirà che la sua situazione non è disperata come crede. Perché Eragon non aveva detto a Sloan che se avesse dimostrato di pentirsi sinceramente dei suoi crimini, se avesse modificato il suo comportamento e fosse vissuto come una persona migliore, la regina Islanzadi avrebbe ordinato ai suoi stregoni di restituirgli la vista. Tuttavia era una ricompensa che Sloan doveva meritare senza sapere della sua esistenza, altrimenti avrebbe potuto indurre gli elfi a concedergliela anzitempo.


Eragon guardò ancora un po' le impronte, poi spostò lo sguardo sull'orizzonte e disse: «Buona fortuna.»


Stanco ma soddisfatto, volse le spalle alle orme di Sloan e cominciò a correre per la Landa Grigia. Sapeva che a sud-ovest si trovavano le antiche formazioni di arenaria dove Brom riposava in pace nel suo sepolcro di diamante. Avrebbe voluto fare una deviazione per andare a rendergli omaggio, ma non osò, perché se Galbatorix aveva scoperto quel luogo, di certo aveva mandato i suoi agenti anche lì in cerca di Eragon.


«Tornerò» disse. «Te lo prometto, Brom: un giorno tornerò.»


E continuò a correre.

♦ ♦ ♦


LA PROVA DEI LUNGHI COLTELLI


«Ma siamo la tua gente!»

Fadawar, un uomo alto, il naso affilato e la pelle scura, parlava con lo stesso accento forte e con le vocali alterate che Nasuada ricordava di aver sentito durante la sua infanzia nel Farthen Dûr, quando arrivavano gli emissari della tribù di suo padre e lei sedeva sonnecchiando sulle gambe di Ajihad mentre gli uomini parlavano e fumavano erba di cardo.

Nasuada alzò lo sguardo su Fadawar, rimpiangendo di non essere almeno sei pollici più alta per poter guardare negli occhi il condottiero e i suoi quattro attendenti. Era abituata a stare fra uomini che torreggiavano su di lei, ma la sconcertava il fatto di trovarsi in un gruppo di persone con la pelle del suo stesso colore. Era un'esperienza nuova, non essere oggetto degli sguardi curiosi e dei commenti sussurrati della gente.

Era in piedi davanti allo scranno intagliato dove teneva udienza - una delle pochissime vere sedie che i Varden avevano portato con sé nel corso della campagna militare - nel rosso padiglione di comando. Il sole stava per tramontare e i suoi raggi obliqui filtravano da un vetro istoriato, colorando ogni cosa di un'intensa sfumatura cremisi. Un tavolo lungo e basso, coperto di documenti e mappe, occupava metà del padiglione.

Appena fuori dall'ingresso, Nasuada sapeva che i sei elementi della sua guardia personale - due umani, due nani e due Urgali - aspettavano con le armi sguainate, pronti ad attaccare al minimo segnale di pericolo. Jörmundur, il suo ufficiale più anziano e fidato, le aveva assegnato delle guardie personali dal giorno stesso in cui Ajihad era morto, però mai così tante e per tanto tempo. Il giorno dopo la battaglia delle Pianure Ardenti, Jörmundur aveva espresso una profonda e assillante preoccupazione per la sua sicurezza, una preoccupazione, sosteneva, che spesso lo teneva sveglio di notte, con i bruciori di stomaco. Dato che un sicario aveva cercato di ucciderla ad Aberon, e Murtagh era riuscito nell'intento con re Rothgar meno di una settimana prima, era opinione di Jörmundur che Nasuada dovesse istituire un reparto speciale per proteggere se stessa. Lei aveva obiettato che una tale misura era esagerata, ma Jörmundur non aveva voluto sentire ragioni: aveva minacciato di lasciare il proprio incarico se lei si fosse rifiutata di adottare quelle che lui riteneva le dovute precauzioni. Alla fine Nasuada aveva capitolato, ma solo per passare tutta l'ora seguente a discutere sul numero di guardie del reparto. Jörmundur ne avrebbe volute dodici o anche di più, al suo servizio ventiquattr'ore su ventiquattro, mentre lei ne voleva quattro o anche meno. Si accordarono per sei, che a Nasuada sembravano comunque troppe. Temeva di apparire pavida, o peggio, di voler intimidire coloro che le si avvicinavano. Ma ancora una volta le sue proteste caddero nel vuoto. Quando accusò Jörmundur di essere un vecchio fifone cocciuto, lui si mise a ridere e ribatté: «Meglio un vecchio fifone cocciuto che un giovane temerario morto prima del tempo.»

Dato che i membri della guardia cambiavano ogni sei ore, in tutto i guerrieri impegnati a proteggere Nasuada erano trentaquattro, compresi i dieci supplementari a disposizione per sostituire i compagni in caso di malattia, ferite o morte.

Era Nasuada che aveva insistito per reclutare gli elementi da tutte e tre le razze mortali schierate contro Galbatorix. La sua speranza era di accrescere la solidarietà fra di loro, e di trasmettere l'idea che lei rappresentava gli interessi di tutte le razze sotto il suo comando, non solo degli umani. Avrebbe incluso anche gli elfi, ma al momento Arya era l'unica elfa che combatteva con i Varden e i loro alleati, e i dodici maghi che Islanzadi aveva inviato a proteggere Eragon dovevano ancora arrivare. Con grande disappunto aveva notato che gli umani e i nani mostravano ostilità nei riguardi dei colleghi Urgali, una reazione che aveva previsto ma non era stata capace di evitare o mitigare. Sapeva che ci voleva ben più di una battaglia condivisa per alleggerire le tensioni fra razze che si erano combattute e odiate per più generazioni di quante se ne potessero contare. Però trovava incoraggiante il fatto che i guerrieri del reparto avessero deciso di chiamarsi Falchineri, un gioco di parole che si riferiva sia al colore della sua pelle sia al fatto che gli Urgali la chiamavano Lady Furianera.

Davanti a Jörmundur non lo avrebbe mai ammesso, ma Nasuada aveva ben presto cominciato ad apprezzare il senso di sicurezza che le infondevano le guardie. Oltre a essere esperti nell'uso delle armi da loro scelte - spade per gli umani, asce per i nani, e un variegato assortimento di curiosi armamenti per gli Urgali - molti guerrieri erano anche maghi provetti. E le avevano tutti giurato lealtà imperitura nell'antica lingua. Dal giorno in cui i Falchineri avevano assunto l'incarico non avevano mai lasciato Nasuada da sola con un'altra persona, fatta eccezione per Farica, la sua cameriera.

Almeno fino a quel momento.


Nasuada li aveva fatti uscire dal padiglione perché sapeva che il suo incontro con Fadawar avrebbe potuto condurre a uno spargimento di sangue che il loro senso del dovere li avrebbe indotti a prevenire. Tuttavia non era del tutto disarmata. Aveva un pugnale nascosto fra le pieghe dell'abito e un coltello più piccolo infilato nel corpetto della sottoveste. E poi c'era Elva, la bambina veggente, celata da un pannello di stoffa dietro lo scranno di Nasuada, pronta a intervenire se necessario.


Fadawar batté impaziente il suo scettro sul terreno. L'asta cesellata, alta quattro piedi, era d'oro massiccio, come tutto il resto del suo straordinario assortimento di gioielli: fasce d'oro gli coprivano gli avambracci; un pettorale d'oro martellato gli proteggeva il torace; lunghe e pesanti catene d'oro gli pendevano al collo; dischi d'oro bianco lavorati a sbalzo gli allungavano i lobi delle orecchie; e sulla testa troneggiava una corona d'oro sfavillante di tali proporzioni che Nasuada non poté fare a meno di domandarsi come facesse il collo di Fadawar a sopportare quel peso senza ingobbirsi e in che modo quel monumentale pezzo di architettura restasse fermo al suo posto. Sembrava che avessero dovuto imbullonare l'enorme struttura, alta almeno due piedi e mezzo, al suo piedistallo d'osso per impedirle di crollare.


Gli uomini di Fadawar erano abbigliati allo stesso modo, anche se con meno opulenza. L'oro che ostentavano serviva a proclamare non soltanto la loro ricchezza ma anche la posizione sociale e le gesta compiute, come pure la maestria dei famosi artigiani della loro tribù. Che fossero nomadi o cittadini, i popoli dalla pelle nera di Alagaësia erano da tempo rinomati per la qualità della loro arte orafa, che al suo meglio rivaleggiava con quella dei nani.


Anche Nasuada possedeva alcuni pezzi pregiati, ma aveva scelto di non indossarli. Il suo misero vestiario non poteva competere con lo splendore di Fadawar. Per giunta, credeva non fosse prudente affiliarsi con un gruppo in particolare, per quanto fosse ricco o influente, quando doveva trattare e parlare con tutte le diverse fazioni dei Varden. Se avesse dimostrato parzialità verso l'uno o l'altro gruppo, avrebbe minato la propria capacità di controllarli tutti.


Ed era questo il principale argomento di discussione con Fadawar.


Fadawar batté ancora una volta lo scettro per terra. «Il sangue è la cosa più importante! Prima vengono le responsabilità verso la famiglia, poi verso la tribù, poi verso il capo militare, poi verso gli dei del cielo e della terra, e dopo, soltanto dopo, verso il tuo re e la tua nazione, se li hai. Così Unulukuna ha voluto che vivessero gli uomini, ed è così che dobbiamo vivere se vogliamo essere felici. Sei così sfrontata da voler sputare sulle scarpe del Vegliardo? Se un uomo non aiuta la sua famiglia, da chi potrà sperare di ricevere aiuto? Gli amici vanno e vengono, ma la famiglia è per sempre.»


«Tu mi chiedi» replicò Nasuada «di concedere incarichi di prestigio ai tuoi uomini perché sei cugino di mia madre e perché mio padre è nato fra di voi. Sarei ben felice di accontentarti se i tuoi uomini sapessero ricoprire quelle posizioni meglio di chiunque altro fra i Varden, ma niente di ciò che hai detto finora mi ha convinta. E prima che tu faccia ancora sfoggio della tua aurea eloquenza, sappi che i tuoi appelli al nostro legame di sangue non hanno senso per me. Prenderei in maggior considerazione la tua richiesta se avessi fatto qualcosa di concreto per sostenere mio padre, invece di limitarti a mandare nel Farthen Dûr ninnoli d'oro e vuote promesse. Soltanto ora che ho vinto e che la mia influenza è cresciuta ti sei fatto avanti. Be', i miei genitori sono morti, e io dico che non ho famiglia se non me stessa. Voi siete la mia gente, sì, ma niente di più.»


Gli occhi di Fadawar si ridussero a due fessure. Levò il mento e disse: «L'orgoglio di una donna è sempre insensato. Fallirai senza il nostro appoggio.»


Fadawar era passato alla propria lingua nativa, costringendo Nasuada a rispondere allo stesso modo. Lo odiò per questo. L'eloquio stentato e i toni incerti mettevano in risalto la sua scarsa dimestichezza con la lingua d'origine, segno che non era cresciuta nella loro tribù ed era un'estranea. Una manovra volta a screditare la sua autorità. «I nuovi alleati sono sempre bene accetti» disse Nasuada. «Tuttavia non posso indulgere in favoritismi, né tu dovresti averne bisogno. I tuoi uomini sono prodi e valorosi, perfettamente in grado di scalare i ranghi dei Varden senza dover dipendere dalla carità degli altri. Siete forse cani affamati che implorano gli avanzi della mia tavola, o siete uomini capaci di sfamarsi da soli? Se ne siete capaci, allora non vedo l'ora di lavorare con voi per migliorare la compagine dei Varden e sconfiggere Galbatorix.»


«Bah!» esclamò Fadawar. «La tua offerta è falsa come te. Noi non faremo il lavoro dei servi: noi siamo gli eletti. Tu ci insulti. Te ne stai lì a sorridere, ma il tuo cuore è pieno di veleno di scorpione.»


Nasuada represse un moto di rabbia e cercò di rabbonire il condottiero. «Non intendevo offenderti. Stavo solo cercando di spiegare la mia posizione. Non nutro alcuna animosità nei riguardi delle tribù nomadi, né alcun affetto particolare. È una cosa tanto disdicevole?»


«È peggio che disdicevole, è tradimento bello e buono! Tuo padre ci ha fatto certe richieste sulla base della nostra parentela, e adesso tu ignori i nostri servigi e ci tratti come poveri mendicanti!»


Nasuada si rassegnò. E così Elva aveva ragione... è inevitabile, pensò. Un brivido di paura e di eccitazione la percorse. Se così dev'essere, allora non ho più alcun motivo di continuare questa farsa. Alzando la voce perché risuonasse forte e chiara, dichiarò: «Richieste che non avete assolutamente onorato.»


«Invece sì!»


«Non è vero. Ma se anche lo fosse, la posizione dei Varden è troppo precaria perché io vi dia qualcosa in cambio di niente. Tu mi chiedi dei favori, ma allora dimmi, cos'hai da offrirmi in cambio? Finanzierai la causa dei Varden col vostro oro e i vostri gioielli?»


«Non direttamente, ma...»


«Mi concederai i tuoi artigiani senza che debba pagarti nessun compenso?»


«Non possiamo...»


«E allora come intendi guadagnarti questi favori? Non puoi pagarmi con i tuoi guerrieri: i tuoi uomini già combattono per me, che siano fra i Varden o nell'esercito di re Orrin. Accontentati di quello che hai, capitano, e non pretendere niente di più di quanto ti spetta.»


«Tu stravolgi la verità per i tuoi scopi egoistici. Io pretendo quello che mi spetta! Ecco perché sono qui. Continui a parlare, ma le tue parole sono vuote, mentre con le tue azioni ci tradisci!» I bracciali d'oro tintinnarono mentre gesticolava, come se si stesse rivolgendo a un pubblico di migliaia di persone. «Tu ammetti che siamo la tua gente. Dunque segui ancora le nostre tradizioni e veneri ancora i nostri dei?»


Ci siamo, pensò Nasuada. Avrebbe potuto mentire e dire che aveva abbandonato le vecchie usanze, ma se l'avesse fatto, i Varden avrebbero perduto le tribù di Fadawar, e anche le altre comunità nomadi, una volta che si fosse sparsa la voce. Abbiamo bisogno di loro. Ci serve ogni singolo uomo a disposizione se vogliamo avere una minima possibilità di sconfiggere Galbatorix.


«Sì» rispose.


«Allora io dichiaro che sei inadatta a guidare i Varden e, com'è mio diritto, ti sfido alla Prova dei Lunghi Coltelli. Se vinci, ci inchineremo davanti a te e non metteremo mai più in discussione la tua autorità. Ma se perdi dovrai farti da parte, e io prenderò il tuo posto come capo dei Varden.»


Nasuada notò lo scintillio di avidità negli occhi di Fadawar. È sempre stato questo il suo obiettivo, pensò. Avrebbe invocato la prova anche se avessi accettato le sue richieste. Ad alta voce disse: «Forse ricordo male, ma mi pare che la tradizione dica che il vincitore assumerà il comando delle tribù dell'avversario, oltre a mantenere la propria carica. O mi sbaglio?» Per poco non scoppiò a ridere quando vide l'espressione sgomenta sul volto di Fadawar. Non ti aspettavi che lo sapessi, vero?


«Non ti sbagli.»


«Allora accetto la tua sfida, a patto che, se vinco, la tua corona e il tuo scettro diventino miei. D'accordo?»


Fadawar aggrottò la fronte e annuì. «D'accordo.» Batté lo scettro per terra con una tale violenza che per un istante l'asta rimase in piedi da sola, poi afferrò il primo bracciale del polso sinistro e cominciò a sfilarlo.


«Aspetta» disse Nasuada. Si avvicinò al tavolo che occupava l'altra metà del padiglione, prese una campanella d'ottone e la suonò due volte. Fece una pausa, e poi la suonò altre quattro volte.


Dopo appena un paio di secondi, Farica entrò nella tenda. Squadrò gli ospiti di Nasuada da capo a piedi, poi fece un inchino e disse: «Sì, mia signora?»


Nasuada fece un cenno a Fadawar. «Adesso possiamo procedere.» Poi si rivolse alla cameriera: «Aiutami a togliere il vestito. Non voglio sciuparlo.»


L'anziana donna fu turbata dalla richiesta. «Qui, mia signora? Davanti a questi... uomini?»


«Sì, qui. E sbrigati! Non ho alcuna intenzione di mettermi a discutere con una serva.» Si rese conto di essere stata sgarbata, ma il cuore le batteva fortissimo ed era diventata incredibilmente, terribilmente sensibile: la sottoveste di morbido lino le sembrava ruvida come un sacco di iuta. Non era il momento per dare prova di pazienza e cortesia. La sua attenzione adesso era tutta concentrata sulla prova imminente.


Nasuada rimase immobile mentre Farica scioglieva le stringhe del suo abito, che partivano dalle scapole e arrivavano fino alle reni. Una volta allentate le stringhe, Farica aiutò Nasuada a sfilare le braccia dalle maniche, e il guscio di tessuto drappeggiato le ricadde ai piedi, lasciandola seminuda, coperta appena dalla candida sottoveste. Nasuada ricacciò indietro un brivido mentre i quattro guerrieri la osservavano, sentendosi vulnerabile sotto i loro sguardi cupidi. Li ignorò e fece un passo avanti, scavalcando il vestito che Farica si affrettò a raccogliere dalla polvere.


Di fronte a Nasuada, Fadawar era intento a sfilarsi tutti i pesanti bracciali d'oro, rivelando le maniche ricamate della camicia. Quando ebbe finito, si tolse la massiccia corona dalla testa e la porse a uno degli attendenti.


Voci da fuori interruppero i preparativi. Un giovane araldo - si chiamava Jarsha, ricordò Nasuada - entrò nel padiglione e si fermò a due passi dall'ingresso, annunciando: «Re Orrin del Surda, Jörmundur dei Varden, Trianna del Du Vrangr Gata, e Naako e Ramusewa della tribù Inapashunna.» Per tutto il tempo, Jarsha tenne lo sguardo debitamente rivolto al soffitto, poi girò sui tacchi e al suo posto entrò il gruppo che aveva annunciato, con re Orrin in testa. Il re vide Fadawar per primo e lo salutò dicendo: «Ah, capitano, questa sì che è una sorpresa... Confido che tu e...» S'interruppe sbalordito nel vedere Nasuada. «Ma... che significa tutto questo?»


«Vorrei saperlo anch'io» borbottò Jörmundur, stringendo l'elsa della spada e fissando accigliato chiunque osasse guardarla in maniera troppo sfacciata.


«Vi ho convocati qui» disse Nasuada «per assistere in qualità di testimoni alla Prova dei Lunghi Coltelli tra me e Fadawar, e per riferire in seguito, a chiunque voglia saperlo, l'esito del confronto.»


I due membri anziani della tribù Inapashunna, Naako e Ramusewa, parvero allarmati dalla rivelazione; con le teste vicine, cominciarono a confabulare tra di loro. Trianna incrociò le braccia - rivelando la spirale d'oro a forma di serpente che le cingeva il polso sottile - ma non tradì altra emozione. Jörmundur lanciò un'imprecazione e disse: «Hai smarrito il senno, mia signora? Questa è follia. Non puoi...»


«Posso, e lo farò.»


«Mia signora, se lo fai, allora io...»


«Prendo atto del tuo dissenso, ma la mia decisione è irrevocabile. E proibisco a chiunque di interferire.» Nasuada intuì che Jörmundur aveva una gran voglia di disobbedirle, ma per quanto desiderasse proteggerla, la lealtà era sempre stata la caratteristica più spiccata del suo ufficiale.


«Ma Nasuada» disse re Orrin, «questa prova non è quella in cui...»


«Sì, è quella.»


«Maledizione, allora! Ritirati da questa follia sconsiderata. Deve averti dato di volta il cervello per...»


«Ho già dato la mia parola a Fadawar.»


L'atmosfera nel padiglione si fece pesante come una coltre di velluto. Il fatto che Nasuada avesse dato la sua parola significava che non poteva rimangiarsi la promessa senza passare per una spergiura, una persona abietta che gli uomini d'onore avrebbero soltanto potuto maledire e mettere al bando. Orrin esitò un istante, poi insistette. «A quale scopo? Voglio dire, se perdi...»


«Se perdo, i Varden non risponderanno più a me, ma a Fadawar.»


Nasuada si era aspettata un coro di proteste. Invece seguì un silenzio in cui la collera ardente che animava i lineamenti di re Orrin si raffreddò, si stemperò e acquistò una qualità tagliente. «Non gradisco affatto la tua scelta di mettere a repentaglio la nostra causa.» A Fadawar disse: «Non vorresti ripensarci e liberare Nasuada dal suo impegno? Ti ricompenserò profumatamente se accetti di abbandonare questa tua malsana ambizione.»


«Sono già ricco quanto mi basta» replicò Fadawar. «Non ho bisogno del tuo oro di bassa lega. No, non c'è nulla, tranne la Prova dei Lunghi Coltelli, che mi possa ricompensare per le calunnie che Nasuada ha indirizzato al mio popolo e a me.»


«Adesso fammi da testimone» disse Nasuada a Orrin.


Orrin serrò con rabbia le pieghe del mantello, ma s'inchinò e disse: «D'accordo, farò da testimone.»


Dalle ampie maniche dei loro abiti, i quattro guerrieri di Fadawar estrassero dei piccoli tamburi di pelle di capra. Si accovacciarono, misero i tamburi fra le ginocchia e cominciarono a suonare un ritmo così forsennato che le mani divennero nere macchie indistinte. La musica primitiva cancellò tutti gli altri suoni, come anche il vortice di pensieri che tormentava Nasuada. Il suo cuore pareva tenere il tempo con il ritmo frenetico che l'assordava.


Senza smettere di suonare, il più anziano degli uomini di Fadawar si frugò nella veste e trasse due lunghi coltelli ricurvi, che lanciò verso il punto più alto della tenda. Nasuada guardò i coltelli roteare in aria, affascinata dalla bellezza del movimento.


Quando le arrivò vicino, Nasuada alzò un braccio e afferrò al volo un coltello. L'impugnatura tempestata di opali le graffiò il palmo.


Fadawar fu altrettanto lesto a intercettare la propria lama.


Nasuada lo vide arrotolarsi la manica sinistra fino al gomito e ne studiò l'avambraccio, sodo e muscoloso. Ma non era questo che le importava: le doti atletiche non servivano a vincere quel tipo di sfida. Quello che Nasuada cercava erano le cicatrici che, se c'erano, dovevano solcare la parte morbida dell'avambraccio.


Ne contò cinque.


Cinque! pensò. Così tante. La sua sicurezza vacillò mentre contemplava la prova della resistenza di Fadawar. L'unica cosa che le impedì di perdere il controllo fu la profezia di Elva: la ragazza aveva detto che Nasuada avrebbe vinto. Nasuada si aggrappò al ricordo delle sue parole come fosse una zattera in un mare in burrasca. Ha detto che posso farcela, perciò devo riuscire a battere Fadawar... Devo!


Dato che era stato lui a lanciare la sfida, fu lui a cominciare. Tese il braccio sinistro con il palmo rivolto verso l'alto, posò il coltello sull'avambraccio, appena sotto l'incavo del gomito, e passò la lama lucida e affilata sulla carne. La pelle si aprì come una fragola matura e il sangue sgorgò dall'incisione cremisi.


Il suo sguardo incontrò quello di Nasuada.


Lei sorrise e si posò il coltello sul braccio. Il metallo era freddo come il ghiaccio. La loro era una prova di resistenza per scoprire chi avrebbe sopportato più tagli. La convinzione era che chiunque aspirasse a diventare capotribù, o persino capo militare, doveva essere disposto a sopportare più dolore di chiunque altro per il bene del suo popolo. Altrimenti come potevano le tribù essere certe che il loro capo avrebbe anteposto gli interessi della comunità ai propri desideri personali? Nasuada era convinta che quella pratica incoraggiasse l'estremismo; d'altro canto, capiva come attraverso quel gesto si potesse guadagnare la fiducia della gente. Anche se la Prova dei Lunghi Coltelli era una tradizione esclusiva delle tribù dalla pelle scura, battere Fadawar avrebbe rafforzato la sua posizione anche fra i Varden e, sperava, fra i sudditi di re Orrin.


In silenzio offrì una breve preghiera a Gokukara, la dea mantide religiosa, poi premette il coltello. L'acciaio affilato le penetrò la carne così facilmente che Nasuada si sforzò di non andare troppo a fondo. Rabbrividì. Avrebbe voluto gettare il coltello, stringersi la ferita e urlare.


Non fece nessuna di queste cose. Tenne il muscolo rilassato; se lo avesse contratto, il dolore sarebbe stato molto più intenso. E continuò a sorridere, mentre la lama le lacerava il corpo. Il taglio durò appena tre secondi, ma in quegli istanti la sua carne offesa lanciò migliaia di grida di protesta, e ciascun grido rischiò di farla smettere. Mentre abbassava il coltello, notò che gli uomini della tribù continuavano a battere sui tamburi, ma lei non sentiva altro che il battito del proprio cuore.


Fadawar si ferì una seconda volta. I nervi tesi del collo spiccarono in rilievo, mentre la vena giugulare si gonfiava fin quasi a scoppiare.


Nasuada capì che toccava di nuovo a lei. Sapere quello che l'aspettava non fece che aumentare il suo timore. L'istinto di conservazione - un istinto che l'aveva preservata in molte altre occasioni - lottò contro l'ordine che il suo cervello inviava al braccio e alla mano. Disperata, cercò di concentrarsi sul desiderio di salvare i Varden e sconfiggere Galbatorix: le due cause a cui aveva dedicato la sua intera esistenza. Con gli occhi della mente, vide suo padre e Jörmundur ed Eragon e i Varden, e pensò: Per loro! Lo faccio per loro. Sono nata per servire, e questo è il mio servigio.


Procedette con l'incisione.


Un istante dopo, Fadawar si aprì un altro squarcio nell'avambraccio, e altrettanto fece Nasuada.


Il quarto taglio seguì subito dopo.


E il quinto...


Nasuada si sentì pervadere da uno strano torpore. Era molto stanca, e aveva freddo. Si rese conto che la sopportazione del dolore poteva non essere decisiva quanto chi sarebbe svenuto per primo a causa dell'emorragia. Rivoletti di sangue le scorrevano sul polso e fra le dita, raccogliendosi in una pozza ai suoi piedi. Una pozza simile, se non più grande, si allargava intorno agli stivali di Fadawar.


I rossi tagli paralleli sul braccio del capitano ricordarono a Nasuada le branchie di un pesce, un pensiero che le parve stranamente buffo: si morse la lingua per non ridere.


Con un ringhio, Fadawar si procurò il sesto taglio. «Fai di meglio, strega incapace!» gridò al di sopra del rullo di tamburi, e cadde su un ginocchio.


Nasuada fece di meglio.


Fadawar tremò spostando il coltello dalla mano destra alla sinistra: la tradizione imponeva un massimo di sei ferite per braccio, altrimenti si rischiava di recidere le vene e i tendini più vicini al polso. Quando Nasuada imitò la sua mossa, re Orrin scattò fra i due, gridando: «Basta! Non vi permetterò di continuare. Vi state uccidendo.»


Tese una mano verso Nasuada, ma indietreggiò quando lei lo minacciò col coltello. «Non t'immischiare» ringhiò la regina a denti stretti.


Fadawar si tagliò l'avambraccio destro. Uno schizzo di sangue fiottò dai muscoli rigidi. Li sta contraendo, pensò Nasuada. Sperò che l'errore bastasse a fiaccare la sua resistenza.


Nasuada non riuscì a fare a meno di gemere quando il coltello le lacerò la carne. La lama affilata la bruciò come un ferro incandescente. A metà dell'incisione, il braccio sinistro ebbe uno spasmo. Il coltello le sfuggì e le procurò una lunga ferita slabbrata, due volte più profonda delle precedenti. Trattenne il fiato cercando di combattere il dolore atroce. Non ce la faccio, pensò. Non posso... non posso! Non resisto più. Preferisco morire... Oh, ti prego, fa' che finisca! Le diede un certo sollievo indulgere in quelli e altri disperati appelli silenziosi, ma in cuor suo sapeva che non si sarebbe mai arresa.


Per l'ottava volta, Fadawar posò il coltello sopra l'avambraccio, tenendolo sospeso a un quarto di pollice dalla pelle livida. Rimase immobile mentre il sudore gli gocciolava sugli occhi e le ferite stillavano lacrime rosse. Sembrava che il coraggio stesse per abbandonarlo, poi, d'improvviso, ringhiò e con un colpo deciso si sfregiò il braccio.


La sua esitazione infuse nuovo vigore in Nasuada. Fu pervasa da una strana euforia che trasformò il dolore in una sensazione quasi piacevole. Pareggiò il conto con Fadawar, poi, spinta da un improvviso sprezzo del pericolo, si tagliò ancora una volta il braccio.


«Fai meglio di così» mormorò.


La prospettiva di infliggersi due tagli di fila - uno per pareggiare il numero di Nasuada e uno per superarla - parve intimidire Fadawar. Batté le palpebre, si inumidì le labbra e aggiustò la presa sul coltello per tre volte prima di abbassare l'arma sul braccio.


La sua lingua guizzò ancora una volta a bagnare le labbra.


Uno spasmo gli attraversò la mano sinistra, e il coltello gli cadde dalle dita contratte, conficcandosi nel terreno. Fadawar lo raccolse. Sotto la tunica, il suo torace si alzava e si abbassava a ritmo frenetico. Alzò la lama e la premette sul braccio: un rivoletto di sangue sgorgò subito dalla ferita. Fadawar serrò la mascella, poi fu scosso da un potente brivido e si piegò in due, premendosi le braccia ferite contro la pancia. «Mi arrendo» disse.


I tamburi cessarono di colpo.


Il silenzio durò solo un istante prima che re Orrin, Jörmundur e tutti gli altri riempissero il padiglione di grida di esultanza.


Nasuada non badò ai loro commenti. Cercando a tentoni dietro la schiena, trovò lo scranno e cadde a sedere di schianto, lieta di alleviare il peso dalle gambe prima che le cedessero. Si sforzò di restare cosciente mentre la vista le si offuscava; l'ultima cosa che voleva era svenire davanti agli uomini della tribù. Una delicata pressione sulla spalla l'avvertì che Farica era al suo fianco, con una pila di bende.


«Mia signora, posso fasciarti?» chiese Farica, ansiosa ed esitante insieme, come se non potesse prevedere la reazione di Nasuada.


Nasuada si limitò ad annuire.


Mentre Farica cominciava a fasciarle le braccia con lunghe bende di lino, Naako e Ramusewa si avvicinarono. S'inchinarono al suo cospetto, e Ramusewa disse: «Mai nessuno prima d'ora aveva resistito a tante ferite durante la Prova dei Lunghi Coltelli. Sia tu che Fadawar avete dimostrato il vostro coraggio, ma senz'ombra di dubbio tu sei la vincitrice. Racconteremo alla nostra gente della tua impresa, e loro ti giureranno fedeltà.»


«Grazie» mormorò Nasuada. Chiuse gli occhi; il dolore pulsante alle braccia la stordiva.


«Mia signora.»


Intorno a sé Nasuada sentiva un confuso mormorio di voci, che non aveva alcuna voglia di decifrare; meglio ritrarsi nel profondo del suo essere, dove il dolore non era più così insistente e minaccioso. Fluttuò nel grembo di uno spazio nero sconfinato, illuminato da macchie informi di colori cangianti.


L'intima tregua fu interrotta dalla voce di Trianna che diceva: «Fermati, donna, e togli quelle bende alla tua signora, affinché io possa guarirla.»


Nasuada aprì gli occhi e vide Jörmundur, re Orrin e Trianna in piedi davanti a lei. Fadawar e i suoi uomini avevano lasciato il padiglione. «No» disse Nasuada.


I tre la guardarono sorpresi, poi Jörmundur disse: «Nasuada, la tua mente è offuscata. La prova è finita. Non devi più sopportare queste ferite dolorose. Dobbiamo comunque arrestare l'emorragia.»


«Se ne sta già occupando Fatica. Mi farò ricucire da un guaritore, spalmare di impiastri per ridurre il gonfiore, e basta.»


«Ma perché?»


«La Prova dei Lunghi Coltelli prevede che gli sfidanti lascino guarire le ferite seguendo il corso della natura. Altrimenti non potremmo sperimentare la piena misura del dolore che la prova comporta. Se violassi la regola, Fadawar sarebbe di diritto il vincitore.»


«Vuoi almeno permettermi di alleviarti la sofferenza?» chiese Trianna. «Conosco parecchi incantesimi che possono eliminare qualsiasi dolore. Se mi avessi consultata prima, avrei potuto sistemare le cose in maniera tale che se anche ti fossi mozzata il braccio non avresti sentito niente.»


Nasuada rise e la testa le ciondolò di lato, come se fosse ubriaca. «La mia risposta allora sarebbe stata la stessa di adesso: i trucchi sono disonorevoli. Dovevo vincere la prova senza stratagemmi perché la mia autorità non venisse messa in discussione in futuro.»


In un tono di garbata freddezza, re Orrin disse: «E se avessi perso?»


«Non potevo perdere. Mi fosse anche costata la vita, non avrei mai permesso a Fadawar di ottenere il controllo dei Varden.»


Orrin la studiò con espressione severa. «Ti credo. Solo... la lealtà delle tribù meritava un tale sacrificio? Tu non sei sostituibile.»


«La lealtà delle tribù? No. Ma l'effetto di questa vicenda andrà oltre le tribù, come dovresti ben sapere. Servirà a unificare le nostre forze. E per me è una ricompensa abbastanza preziosa da affrontare un'orda di orribili morti.»


«Ti prego di dirmi allora che cosa avrebbero guadagnato i Varden se tu oggi fossi morta. Niente. Avresti lasciato in eredità sconforto, caos e probabilmente rovina.»


Ogni volta che Nasuada beveva vino, idromele, e soprattutto liquori forti, diventava estremamente prudente nel parlare e nel muoversi, perché anche se non ne sentiva subito gli effetti, sapeva che l'alcol le annebbiava il giudizio e la coordinazione, e non voleva comportarsi in modo sconveniente o dare agli altri un vantaggio su di lei.


Ubriaca di dolore com'era, soltanto in seguito si rese conto che avrebbe dovuto essere prudente nella sua discussione con Orrin: era come se avesse tracannato tre boccali di idromele di more dei nani. Se l'avesse fatto, il suo acuto senso di cortesia le avrebbe impedito di ribattere: «Ti preoccupi come un vecchio, Orrin. Ho dovuto, e ormai quello che è fatto è fatto. È inutile adesso agitarsi tanto... Ho corso un rischio, sì. Ma non possiamo sconfiggere Galbatorix se non osiamo avvicinarci all'orlo del baratro. Tu sei un re. Dovresti capire che il pericolo è il mantello di cui una persona si riveste quando ha l'arroganza di decidere il destino degli altri.»


«Capisco perfettamente» ringhiò Orrin. «La mia famiglia e io abbiamo difeso il Surda dalle invasioni dell'Impero ogni giorno della nostra vita per generazioni, mentre i Varden si nascondevano nel Farthen Dûr e approfittavano della generosità di re Rothgar.» Il mantello gli danzò sulle spalle quando all'improvviso re Orrin si voltò e uscì dal padiglione.


«Pessima mossa, mia signora» osservò Jörmundur.


Nasuada fece una smorfia quando Farica strinse le bende. «Lo so» disse senza fiato. «Mi occuperò di guarire il suo orgoglio ferito domani.»

NOTIZIE ALATE

C'era un vuoto nei ricordi di Nasuada: un'assenza di percezioni così assoluta che si rese conto che era passato del tempo solo quando sentì Jörmundur che le scrollava le spalle, urlando qualcosa. Le ci volle qualche istante per decifrare i suoni che gli uscivano dalla bocca, e poi udì: «... continua a guardarmi, maledizione! Tieni gli occhi aperti. Non ti riaddormentare, altrimenti non ti sveglierai mai più.»

«Puoi lasciarmi andare, Jörmundur» disse lei, e abbozzò un fievole sorriso. «Sto bene, adesso.»


«Già, e mio zio Undset era un elfo.»


«Perché, non lo era?»


«Bah! Sei tale e quale a tuo padre: ignori la prudenza quando si tratta della tua vita. Le tribù possono anche marcire nelle loro dannate usanze, per quello che m'importa. Farò venire un guaritore. Non sei in grado di prendere decisioni.»


«Ecco perché ho aspettato la sera. Vedi, il sole è quasi tramontato. Ho tutta la notte per riposare, e domani sarò in grado di occuparmi degli affari che richiedono la mia attenzione.»


Farica comparve al suo fianco. «Oh, signora, ci avete fatto prendere un tale spavento.»


«Un colpo, per meglio dire» borbottò Jörmundur.


«Be', ora sto meglio.» Nasuada raddrizzò la schiena - era ancora seduta sullo scranno - ignorando il bruciore lancinante agli avambracci. «Voi due potete andare. Jörmundur, manda a dire a Fadawar che può restare a capo della sua tribù, a patto che mi giuri lealtà come capitano. È un condottiero troppo abile per perderlo. Farica, mentre torni alla tua tenda, per favore fai sapere ad Angela l'erborista che ho bisogno dei suoi servigi. Aveva detto che mi avrebbe preparato delle miscele di tonici e pozioni.»


«Non ti lascio da sola in queste condizioni» protestò Jörmundur.


Farica annuì. «Ti chiedo scusa, mia signora, ma sono d'accordo con lui. Non è sicuro.»


Nasuada scoccò un'occhiata all'ingresso del padiglione, per assicurarsi che nessuno dei Falchineri fosse a portata d'orecchio, poi ridusse la voce a un sussurro: «Non sarò sola.» Jörmundur inarcò le sopracciglia, e un'espressione allarmata balenò sul volto di Farica. «Io non sono mai sola. Capite?»


«Hai preso delle... precauzioni, mia signora?» chiese Jörmundur.


«Sì.»


I due angeli custodi parvero sconcertati dalla sua affermazione, e Jörmundur disse: «Nasuada, la tua sicurezza è una mia responsabilità. Devo sapere quale tipo di precauzione supplementare hai preso e chi di preciso ha il permesso di avvicinarti.»


«No» rispose lei in tono gentile. Notando il dolore e l'indignazione negli occhi dell'ufficiale, continuò: «Non che io dubiti della tua lealtà... non sia mai. Ma questa è una cosa che devo tenere per me. Per il bene della mia pace interiore, ho bisogno di avere un'arma che nessun altro può vedere, un coltello infilato nella manica, se vuoi. Considerala una mia debolezza, ma non tormentarti pensando che la mia scelta sia una critica al modo in cui compi i tuoi doveri.»


«Mia signora.» Jörmundur s'inchinò, una formalità che non usava quasi mai con lei.


Nasuada alzò una mano, dando loro il permesso di congedarsi, e i due si affrettarono a uscire dal padiglione.


Per un lungo minuto, forse due, l'unico suono che udì furono le rauche strida dei corvi che volavano in circolo sull'accampamento dei Varden. Poi da dietro le sue spalle provenne un lieve fruscio, come di un topolino in cerca di cibo. Si voltò e vide Elva sgusciare dal suo nascondiglio dietro due pannelli di tessuto nella sala principale del padiglione.


Nasuada la osservò.


La crescita innaturale della bambina continuava. Quando Nasuada l'aveva incontrata la prima volta, non molto tempo prima, Elva aveva l'aspetto di una bambina di tre o quattro anni. Adesso sembrava che ne avesse sei. Il suo semplice abito era tutto nero, tranne che per il colletto e i polsini viola. I lunghi capelli lisci erano ancora più neri, un vuoto liquido che le arrivava fino alle reni. Il suo viso dai lineamenti sottili era pallido come la luna, dato che di rado si avventurava all'aperto. Il marchio del drago sulla fronte riluceva argenteo. E i suoi occhi violetti avevano un'aria cinica e stanca: il risultato della benedizione di Eragon, che si era rivelata una maledizione, perché la condannava a sopportare il dolore degli altri e a cercare di evitarlo. La recente battaglia l'aveva quasi uccisa, con migliaia di agonie a tormentarle la mente, anche se uno stregone del Du Vrangr Gata l'aveva indotta in uno stato di sonno artificiale per tutta la durata degli scontri, nel tentativo di proteggerla. Solo da poco la ragazzina aveva ricominciato a parlare e a interessarsi a quanto la circondava.


Si asciugò la piccola bocca col dorso della mano, e Nasuada le chiese: «Sei stata male?»


Elva si strinse nelle spalle. «Al dolore sono abituata, ma non è mai facile resistere all'incantesimo di Eragon... Sai, non mi impressiono facilmente, Nasuada, ma mi ha colpito la tua forza nel resistere a così tante ferite.»


Sebbene Nasuada l'avesse sentita parlare molte volte, la voce di Elva le ispirava ancora un profondo turbamento, perché era l'amara, aspra voce di un'adulta rotta dalle esperienze del mondo, e non quella di una bambina. Si sforzò di ignorarla e rispose: «Tu sei più forte. Io non ho dovuto sopportare anche il dolore di Fadawar. Ti ringrazio di essere rimasta con me. So quanto dev'esserti costato, e ti sono riconoscente.»


«Riconoscente? Ha! Per me è una parola vuota, Lady Furianera.» Le labbra sottili di Elva si arricciarono in una parvenza di sorriso. «Hai qualcosa da mangiare? Sto morendo di fame.»


«Farica ha lasciato del pane e del vino dietro quelle pergamene» disse Nasuada, indicando il fondo del padiglione. Osservò la bambina avventarsi sul cibo e divorare il pane, riempiendosi la bocca. «Almeno non dovrai vivere così ancora a lungo. Non appena Eragon tornerà, ti libererà dall'incantesimo.»


«Può darsi.» Dopo aver fatto sparire mezza pagnotta, Elva fece una pausa. «Ho mentito a proposito della Prova dei Lunghi Coltelli, sai.»


«Che vuoi dire?»


«Avevo previsto che avresti perso, non vinto.»


«Cosa?»


«Se avessi permesso agli eventi di seguire il loro corso, i nervi ti avrebbero ceduto al settimo taglio, e adesso ci sarebbe Fadawar seduto al tuo posto. Perciò ti ho detto quello che avevi bisogno di sentirti dire per vincere.»


Nasuada si sentì percorrere da un brivido gelido. Se quello che Elva diceva era vero, allora era in debito più che mai con la bambina strega. Eppure non le piaceva essere manipolata, anche se per il proprio bene. «Capisco. A quanto pare devo ringraziarti ancora.»


Elva scoppiò a ridere, un suono secco e stridulo. «E non ti piace per niente di doverlo fare, eh? Non importa. Non devi temere di offendermi, Nasuada. Noi ci siamo utili a vicenda, tutto qui.»


Nasuada si sentì sollevata quando uno dei nani a difesa del padiglione, il capitano di quel turno di guardia, batté il martello sullo scudo e annunciò: «Angela l'erborista chiede udienza, Lady Furianera.»


«Concessa» rispose Nasuada, alzando la voce.


Angela entrò nel padiglione carica di borse e ceste infilate sotto le braccia. Come sempre, la massa di riccioli scuri le formava una nuvola tempestosa intorno al viso, cupo per la preoccupazione. Ai suoi piedi, avanzava con passo felpato il gatto mannaro Solembum nella sua forma animale. Subito puntò verso Elva e prese a strofinarsi contro le sue gambe, inarcando il dorso.


Angela posò le sue cose per terra e si sgranchì le spalle, dicendo: «Cielo! Fra te ed Eragon, mi sembra di passare la maggior parte del mio tempo in mezzo ai Varden a guarire persone troppo stupide per capire quando è necessario evitare di farsi tagliare a pezzetti.» Continuando a parlare, la minuscola erborista si avvicinò a Nasuada e cominciò a toglierle le bende del braccio destro. Ridacchiò con aria di disapprovazione. «In genere questo è il momento in cui il guaritore chiede al paziente come sta, e il paziente mente a denti stretti e dice: "Oh, non tanto male" e il guaritore dice: "Bene, bene. Su col morale, e ti rimetterai presto." Comunque mi pare ovvio che non sei affatto pronta a guidare una carica contro l'Impero. No, proprio no.»


«Ma guarirò, vero?» chiese Nasuada.


«Se potessi usare la magia per chiudere queste ferite, ti direi subito di sì. Ma dato che non posso, è un po' difficile da prevedere. Dovrai cercare di cavartela come la maggior parte della gente e sperare che nessuna delle lesioni si infetti.» Fece una pausa e guardò Nasuada dritta negli occhi. «Lo sai, vero, che ti resteranno delle cicatrici?»


«Sia quel che sia.»


«Giusto.»


Nasuada represse un gemito e distolse lo sguardo mentre Angela le suturava le ferite e poi le ricopriva con un denso, umido impiastro di erbe. Con la coda dell'occhio vide Solembum balzare sul tavolo e sedersi accanto a Elva. Allungando una grossa zampa ispida, il gatto mannaro artigliò un pezzo di pane dal piatto di Elva e lo mordicchiò in uno scintillio di denti candidi. I ciuffi neri in cima alle grandi orecchie vibrarono quando le piegò per ascoltare il clangore metallico dei guerrieri che segnavano il passo davanti al padiglione rosso.


«Barzûl» borbottò Angela. «Soltanto gli uomini sono capaci di tagliarsi da soli per decidere chi sarà il capobranco. Idioti!»


Le faceva male ridere, ma Nasuada non poté trattenersi. «Hai ragione» disse, una volta passato l'accesso di risa.


Angela aveva appena finito di riavvolgere l'ultima benda di lino intorno alle braccia di Nasuada quando il capitano del popolo dei nani fuori del padiglione esclamò: «Altolà!» Seguì una serie di tintinnii argentini, simili a tanti campanelli, mentre le guardie umane incrociavano le spade per sbarrare il passo a chiunque stesse cercando di entrare.


Senza riflettere, Nasuada estrasse il coltello dal fodero cucito nel corsetto della sottoveste. Faticò a impugnare il manico, poiché aveva le dita gonfie e intorpidite, e i muscoli erano lenti a reagire. Era come se il braccio si fosse addormentato, tranne che per i solchi profondi che le bruciavano la carne.


Anche Angela trasse un pugnale da chissà dove e si parò davanti a Nasuada, mormorando qualche parola nell'antica lingua. Con un balzo felino, Solembum scese dal tavolo per accovacciarsi ai piedi di Angela. Il pelo ritto lo faceva sembrare ancora più grosso, e dalla gola gli usciva un cupo ringhio.


Elva continuò a mangiare, indifferente alla scena. Osservò il pezzo di pane che teneva fra il pollice e l'indice come se stesse studiando una strana specie di insetto, poi lo intinse in un calice di vino e se lo infilò in bocca.


«Mia signora!» gridò un uomo. «Eragon e Saphira in rapido avvicinamento da nord-est!»


Nasuada rinfoderò il coltello. Si issò dallo scranno a fatica e disse ad Angela: «Aiutami a vestirmi.»


Angela aprì il vestito davanti a Nasuada, che vi s'infilò prima con un piede, poi con l'altro. Angela sollevò l'abito e con cautela guidò le braccia di Nasuada nelle maniche; poi cominciò a legare le stringhe sulla schiena. Elva andò ad aiutarla, e insieme finirono di prepararla.


Nasuada si guardò le braccia e non vide le bende. «Devo nascondere o mostrare le mie ferite?» chiese.


«Dipende» rispose Angela. «Credi che mostrarle aumenterà il tuo prestigio o incoraggerà i tuoi nemici perché penseranno che sei debole e vulnerabile? La questione è filosofica, fondata su questo concetto: se guardi un uomo che ha perso l'alluce, dici "Oh, povero storpio" oppure "Oh, è stato bravo o forte o fortunato abbastanza da evitare ferite più gravi"?»


«I tuoi paragoni sono alquanto bizzarri.»


«Grazie.»


«La Prova dei Lunghi Coltelli è una gara di forza» disse Elva. «Ed è conosciuta anche fra i Varden e i surdani. Sei orgogliosa della tua forza, Nasuada?»


«Tagliatemi le maniche» ordinò Nasuada. Quando le due esitarono, esclamò: «Avanti! Ai gomiti. Non m'importa del vestito, lo farò riparare più tardi.»


Con pochi abili movimenti, Angela tagliò le parti indicate da Nasuada lasciando cadere il tessuto sul tavolo.


Nasuada alzò il mento. «Elva, se senti che sto per svenire, dillo ad Angela e fa' che mi sostenga. Allora, andiamo?» Le tre si disposero in formazione, con Nasuada in testa. Solembum avanzava per conto suo.


Quando uscirono dal padiglione rosso, il capitano dei nani latrò: «Ai posti!» e i sei Falchineri si strinsero intorno al gruppo di Nasuada: gli umani e i nani in avanguardia e retroguardia, e i colossali Kull - Urgali alti otto piedi e anche di più - ai fianchi.


Il crepuscolo spiegava le sue ali dorate e viola sull'accampamento dei Varden, regalando un'aura di mistero alle file di tende che si estendevano a perdita d'occhio. Le ombre sempre più scure lasciavano presagire l'arrivo della notte, e le fiamme di innumerevoli torce e falò già splendevano più intense degli ultimi bagliori del tramonto. A est il cielo era limpido. A sud una lunga e bassa nuvola di fumo nero copriva l'orizzonte e le Pianure Ardenti, a una lega e mezza di distanza. A ovest una linea di faggi e pioppi tremuli indicava il percorso del fiume Jiet, dove galleggiava l'Ala di Drago, la nave di cui Jeod, Roran e gli altri di Carvahall si erano impossessati con un autentico atto di pirateria. Ma Nasuada non aveva occhi che per il nord, per la scintillante sagoma di Saphira che planava in avvicinamento. La luce del sole morente l'illuminava ancora, ammantandola di un alone azzurro. Appariva come una massa di stelle cadute dal cielo.


La visione era così maestosa che Nasuada rimase impietrita a fissarla per lunghi momenti, felice di essere tanto fortunata da assistervi. Sono salvi! pensò, e trasse un sospiro di sollievo.


Il guerriero che aveva portato la notizia dell'arrivo di Saphira - un uomo snello dalla barba folta - s'inchinò e poi indicò la dragonessa ancora lontana. «Mia signora, come puoi vedere, dicevo il vero.»


«Sì. Sei stato bravo. Devi avere occhi particolarmente acuti per aver individuato Saphira già da prima. Come ti chiami?»


«Fletcher, figlio di Harden, mia signora.»


«Ti ringrazio, Fletcher. Ora puoi tornare al tuo posto.»


Con un altro inchino, l'uomo si allontanò di corsa verso il limitare dell'accampamento.


Con gli occhi fissi su Saphira, Nasuada riprese a camminare tra le file di tende verso l'ampia radura scelta per gli atterraggi e i decolli di Saphira. Le sue guardie e le accompagnatrici le tenevano dietro mentre avanzava spedita, desiderosa d'incontrare Eragon e Saphira. Aveva passato gran parte degli ultimi giorni in ansia per loro, sia come capo dei Varden che, con una certa sorpresa, come amica.


Saphira volava rapida come un falco, ma era ancora a parecchie miglia dall'accampamento; quindi impiegò almeno altri dieci minuti per coprire la distanza. Nel frattempo una grande folla di guerrieri si radunò intorno alla radura: umani, nani e perfino un contingente di Urgali dalla pelle grigia, capitanati da Nar Garzhvog, che sputò verso gli uomini più vicini a loro. C'erano anche re Orrin e la sua corte, che presero posto di fronte a Nasuada; Narheim, l'ambasciatore dei nani che aveva assunto la carica di Orik da quando Orik era partito per il Farthen Dûr; Jörmundur; gli altri membri del Consiglio degli Anziani; e Arya.


L'elfa, alta e snella, si fece largo tra la folla per raggiungere Nasuada. Perfino con Saphira che volava verso di loro, uomini e donne si sentirono indotti a distogliere lo sguardo dal cielo per osservare Arya che incedeva, una figura affascinante e misteriosa. Tutta vestita di nero, portava pantaloni di pelle come un uomo, una spada alla cintura, un arco e una faretra a tracolla. La sua pelle aveva il colore del miele ambrato. Il suo viso era spigoloso come il muso di una gatta. E si muoveva con una grazia felina e scattante che tradiva la sua maestria con le armi, come anche la sua forza soprannaturale.


Nasuada aveva sempre considerato il suo abbigliamento eccentrico, quasi ai limiti della decenza: rivelava troppo le forme. Ma la regina doveva ammettere che se anche avesse indossato un abito di stracci, Arya avrebbe comunque avuto un aspetto più nobile e regale di qualsiasi aristocratica mortale.


Fermandosi davanti a Nasuada, Arya puntò un dito affusolato verso le sue ferite. «Come ha detto il poeta Earnë, gettarsi fra le braccia del pericolo per il bene del popolo e della terra che ami è la cosa più bella che si possa fare. Ho conosciuto ogni capo dei Varden, e sono stati tutti uomini e donne valorosi, ma nessuno come Ajihad. Eppure credo che tu abbia superato persino lui.»


«Tu mi onori, Arya, ma temo che se la mia stella brilla troppo forte saranno pochi coloro che ricorderanno mio padre come merita.»


«Le azioni dei figli sono la testimonianza dell'educazione ricevuta dai genitori. Brilla come il sole, Nasuada, perché più forte splenderai, più profondo sarà il rispetto verso Ajihad per come ti ha insegnato a reggere le responsabilità del comando a una così tenera età.»


Nasuada chinò il capo, prendendo alla lettera il consiglio di Arya. Poi sorrise e disse: «Tenera età? Sono una donna adulta, secondo il nostro computo.»


Negli occhi verdi di Arya brillò una scintilla divertita. «Vero. Ma se giudichiamo dagli anni, e non dalla saggezza, nessun umano potrebbe essere considerato adulto dalla mia specie. Tranne Galbatorix, s'intende.»


«E me» intervenne Angela.


«Andiamo» disse Nasuada, «non puoi essere tanto più vecchia di me.»


«Ha! Tu confondi l'apparenza con l'età. Dovresti avere più discernimento, dopo aver frequentato Arya per così tanto tempo.»


Prima di avere il tempo di chiedere ad Angela quanti anni avesse, Nasuada si sentì tirare un lembo del vestito. Si guardò intorno e vide che era stata Elva a prendersi una tale libertà; la bambina le stava facendo un cenno. Nasuada si chinò e avvicinò l'orecchio alla bocca di Elva, che mormorò: «Eragon non è con Saphira.»


Nasuada si sentì stringere il petto da una morsa di terrore che le mozzò il fiato. Alzò lo sguardo: Saphira volava in circolo sull'accampamento, a migliaia di piedi di altezza. Le sue enormi ali da pipistrello si stagliavano nere contro il cielo. Nasuada vedeva il ventre di Saphira e i suoi artigli spiccare bianchi contro le squame sovrapposte, ma non riusciva a scorgere nessun dettaglio del cavaliere.


«Come lo sai?» chiese con un filo di voce.


«Non sento il suo disagio, né le sue paure. C'è Roran in sella, e una donna, che immagino sia Katrina. Ma nessun altro.»


Nasuada si raddrizzò, batté le mani e chiamò: «Jörmundur!» con voce squillante.


Jörmundur, che era a una decina di iarde di distanza, arrivò trafelato, facendosi largo a spintoni fra coloro che lo intralciavano: aveva militato tra i Varden abbastanza a lungo da capire quando si trattava di un'emergenza. «Mia signora?»


«Fa' sgombrare il campo! Via tutti dalla radura prima che atterri Saphira.»


«Compresi Orrin e Narheim e Garzhvog?»


Nasuada fece una smorfia. «No, loro no, ma non deve restare nessun altro. Sbrigati!»


Mentre Jörmundur cominciava ad abbaiare ordini, Arya e Angela si strinsero a Nasuada. Sembravano allarmate quanto lei. Arya disse: «Saphira non sarebbe così tranquilla se Eragon fosse ferito, o morto.»


«Ma allora dov'è?» chiese Nasuada. «In quali guai si è cacciato stavolta?»


Una cacofonia di grida riecheggiò nella radura mentre Jörmundur e i suoi uomini sospingevano gli spettatori verso le tende, usando i bastoni da ufficiali ogni volta che i guerrieri riluttanti si attardavano o protestavano. Qua e là scoppiò qualche scaramuccia, subito sedata dai capitani agli ordini di Jörmundur per impedire che la violenza attecchisse e si propagasse. Per fortuna gli Urgali, a una sola parola del loro capo Garzhvog, si allontanarono senza incidenti, ma lui rimase indietro e marciò dritto verso Nasuada, come pure re Orrin e il nano Narheim.


Nasuada sentì la terra tremarle sotto i piedi mentre il gigantesco Urgali si avvicinava. Garzhvog alzò il mento, esponendo la gola com'era usanza della sua razza, e disse: «Che cosa significa tutto questo, Lady Furianera?» La forma della sua mascella e dei denti, unita al forte accento, rendeva quasi incomprensibili le sue parole.


«Già, vorrei saperlo anch'io, se non ti dispiace» disse Orrin, rosso in viso.


«E anch'io» aggiunse Narheim.


Guardandoli, Nasuada pensò che forse quella era la prima volta in migliaia di anni che i membri di così tante razze di Alagaësia si riunivano in pace. Gli unici a mancare erano i Ra'zac e le loro cavalcature, e Nasuada sapeva che nessuna persona sana di mente avrebbe mai invitato quelle ripugnanti e malvagie creature ai consigli segreti. Indicò Saphira e disse: «Sarà lei a rispondere alle vostre domande.»


Non appena l'ultimo dei ritardatari ebbe lasciato la radura, una forte corrente d'aria investì Nasuada mentre Saphira scendeva in picchiata sul campo, rallentando con una torsione delle ali prima di atterrare. Si abbassò su tutte e quattro le zampe, e un cupo rimbombo risuonò per l'intero accampamento. Roran e Katrina si liberarono dalle cinghie della sella e smontarono in fretta.


Nasuada fece qualche passo avanti e studiò Katrina. Era curiosa di vedere che genere di donna potesse indurre un uomo a compiere un'impresa tanto straordinaria per salvarla. La giovane donna davanti a lei era di ossatura robusta, con il colorito pallido di una malata, una criniera di capelli ramati e un abito così logoro e sporco che era impossibile determinarne la foggia originaria. Malgrado le privazioni della prigionia, Nasuada pensò che Katrina era piuttosto attraente, ma non certo una donna che i bardi avrebbero definito bella. Tuttavia possedeva una certa forza nello sguardo e nel portamento che fece pensare a Nasuada che se fosse stato Roran quello tra i due a essere preso prigioniero, Katrina sarebbe stata altrettanto capace di sollevare l'intero villaggio di Carvahall, condurlo a sud nel Surda, combattere nella battaglia delle Pianure Ardenti e poi proseguire per l'Helgrind, tutto per amore del suo promesso. Anche quando notò Garzhvog, Katrina non batté ciglio, ma rimase impassibile dov'era, al fianco di Roran.


Roran s'inchinò davanti a Nasuada e, voltatosi, anche a re Orrin. «Mia signora» disse, con espressione solenne. «Sire. Se permettete, vi presento la mia fidanzata, Katrina.» La donna fece una riverenza a entrambi.


«Benvenuta fra i Varden, Katrina» disse Nasuada. «Abbiamo tutti sentito parlare di te, grazie alla rara devozione di Roran nei tuoi confronti. Canzoni d'amore per te si sono già diffuse in tutto il paese.»


«Benvenuta» intervenne Orrin. «Siamo molto lieti di conoscerti.»


Nasuada notò che il re non aveva occhi che per Katrina, come tutti gli altri uomini presenti, compresi i nani, e Nasuada era certa che avrebbero raccontato chissà quali storie sul fascino di Katrina ai loro compagni d'armi prima del finir della notte. Quello che Roran aveva fatto per lei l'aveva elevata al di sopra delle donne comuni: l'aveva resa oggetto di mistero, incanto e attrazione per i guerrieri. Che qualcuno fosse disposto a sacrificare tanto per un'altra persona significava, in ragione del prezzo pagato, che quella persona doveva essere straordinariamente preziosa.


Katrina arrossì e sorrise. «Grazie» disse. Insieme all'imbarazzo per quelle attenzioni, una punta di fierezza le tinse il viso, come se sapesse quanto era eccezionale Roran e fosse orgogliosa di aver catturato il suo cuore, lei fra tutte le donne di Alagaësia. Lui era suo, e questo era l'unico privilegio che desiderava.


Nasuada fu trafitta da una stilettata di solitudine. Quanto vorrei avere quello che hanno loro, pensò. Le sue responsabilità le impedivano di indulgere nel sogno tipicamente femminile dell'amore romantico e del matrimonio - o dei figli - a meno che non avesse dovuto piegarsi a un matrimonio di convenienza organizzato per il bene dei Varden. Spesso aveva pensato di proporlo a Orrin, ma poi non ne aveva mai avuto il coraggio. Ciò nonostante era soddisfatta della sua vita e non invidiava Roran e Katrina per la loro felicità. La sua causa era tutto quello che le stava a cuore: sconfiggere Galbatorix era molto più importante di un'inezia come il matrimonio. Quasi tutti si sposano, ma quanti hanno l'opportunità di guidare un popolo verso la nascita di una nuova era?


Questa sera non sono in me, si disse Nasuada. Le ferite mi fanno ronzare il cervello come un nido di vespe. Si riscosse e guardò oltre le spalle di Roran e Katrina, verso Saphira. Nasuada aprì le barriere che abitualmente teneva erette intorno alla propria mente per ascoltare quanto Saphira aveva da dire, e chiese: «Lui dov'è?»


Con un secco crepitio di squame contro squame, Saphira fece qualche passo avanti e abbassò il collo fino a portare la testa direttamente davanti a Nasuada, Arya e Angela. L'occhio sinistro della dragonessa scintillava di fuoco azzurro. Inspirò due volte, e la lingua rossa guizzò fuori dalla bocca. Una zaffata di alito caldo e umido arruffò il colletto di pizzo dell'abito di Nasuada.


Nasuada deglutì mentre la coscienza di Saphira sfiorava la sua. Saphira era diversa da qualsiasi altro essere che Nasuada avesse mai incontrato: antica, remota, feroce e gentile al tempo stesso. Questo, insieme all'imponente presenza fisica, le ricordava sempre che se Saphira avesse voluto divorarsela, avrebbe potuto. Era impossibile, pensava Nasuada, darsi troppe arie al cospetto di un drago.


Fiuto sangue, disse Saphira. Chi ti ha ferito, Nasuada? Dimmi il suo nome e lo sventrerò da capo a piedi e ti porterò la sua testa come trofeo.


«Non c'è bisogno che tu sventri nessuno. Non ancora, almeno. Ho impugnato io stessa il coltello. Ma è il momento meno adatto per parlare di questa vicenda. Ora m'importa solo di sapere che fine ha fatto Eragon.»

Eragon, disse Saphira, ha deciso di restare nel territorio dell'Impero. Per un paio di secondi, Nasuada fu incapace di muoversi o di pensare. Poi un crescente senso di ineluttabilità sostituì l'impulso di respingere la rivelazione di Saphira. Anche gli altri reagirono in vari modi; Nasuada ne dedusse che Saphira aveva parlato a tutti insieme.


«Come... come hai potuto permetterglielo?» chiese.


Saphira sbuffò e piccole lingue di fuoco le risalirono dalle narici. Eragon ha fatto la sua scelta. Non ho potuto impedirglielo. Insiste per fare quello che ritiene giusto, quali che siano le conseguenze per lui o per il resto di Alagaësia... Avrei voluto scrollarlo come un cucciolo, ma sono orgogliosa di lui. Non temete; sa badare a se stesso. Finora non gli è successo niente di brutto. Lo avrei saputo, altrimenti.


Parlò Arya: «E perché ha preso questa decisione, Saphira?»


Sarebbe più facile per me mostrarvelo che spiegarlo a parole. Posso?


Tutti manifestarono il loro consenso.


Un fiume di ricordi di Saphira si riversò nella coscienza di Nasuada. Vide il nero Helgrind da sopra una coltre di nubi; sentì Eragon, Roran e Saphira discutere sulla migliore strategia di attacco; li osservò scoprire il covo dei Ra'zac; e visse l'epica battaglia di Saphira con i Lethrblaka. La successione di immagini affascinò Nasuada. Era nata nel territorio dell'Impero, ma ne conservava solo un vago ricordo. Quella era la prima volta che da adulta guardava qualcosa che non si trovasse ai margini selvaggi del dominio di Galbatorix.


Infine ecco Eragon e lo scontro con Saphira. La dragonessa cercò di nasconderlo, ma l'angoscia provata nel lasciare Eragon era ancora così bruciante e dolorosa che Nasuada dovette asciugarsi le guance con le bende delle braccia. Tuttavia le ragioni che Eragon aveva addotto per restare - uccidere l'ultimo Ra'zac ed esplorare l'Helgrind - non la lasciarono soddisfatta.


Nasuada s'incupì. Eragon può anche essere un giovane impulsivo, ma non è tanto stupido da mettere a repentaglio il nostro obiettivo solo per visitare qualche grotta e bere l'ultimo amaro sorso della vendetta. Devono esserci altre spiegazioni. Si domandò se fosse il caso di insistere con Saphira per ottenere la verità, ma sapeva che la dragonessa non le avrebbe fornito quelle informazioni alla leggera. Forse vuole discuterne in privato, pensò.


«Dannazione!» imprecò re Orrin. «Eragon non avrebbe potuto scegliere un momento peggiore per andarsene in giro da solo. Che importa un singolo Ra'zac, quando l'intero esercito di Galbatorix è stanziato a poche miglia da qui?... Dobbiamo riportarlo indietro.»


Angela scoppiò a ridere. Stava lavorando a maglia una calza con cinque aghi d'osso, che ticchettavano e tintinnavano e crepitavano a ritmo costante. «E come? Lui viaggerà di giorno, e Saphira non può volare a cercarlo quando il sole è alto rischiando di farsi scorgere da qualcuno e mettere in allarme Galbatorix.»


«Sì, ma lui è il nostro Cavaliere! Non possiamo starcene qui con le mani in mano mentre lui si trova nel cuore del territorio nemico.»


«Sono d'accordo» disse Narheim. «In un modo o nell'altro, dobbiamo assicurarci che torni sano e salvo. Grimstnzborith Rothgar ha adottato Eragon nella sua famiglia e nel suo clan... che è anche il mio, come sapete... e noi gli dobbiamo la lealtà della nostra legge e del nostro sangue.»


Arya s'inginocchiò e, con grande sorpresa di Nasuada, cominciò ad allentare i lacci degli stivali per poi serrarli meglio. Con un laccio stretto fra i denti, Arya disse: «Saphira, dove si trovava di preciso Eragon l'ultima volta che gli hai toccato la mente?»


All'ingresso dell'Helgrind.


«E hai qualche idea sul percorso che intendeva seguire?»


Non lo sapeva nemmeno lui.


Rialzandosi, Arya disse: «Allora dovrò cercarlo ovunque.»


Come una gazzella, balzò in avanti e cominciò a correre per la radura; scomparve nella foresta di tende, diretta a nord, veloce e leggera come il vento.


«Arya, no!» gridò Nasuada; ma l'elfa era già sparita. La disperazione minacciò di travolgerla. Il centro sta crollando, pensò.


Afferrando i bordi dei pezzi scompagnati d'armatura che lo ricoprivano, come se volesse strapparseli di dosso, Garzhvog disse a Nasuada: «Vuoi che la segua, Lady Furianera? Non posso correre veloce come i piccoli elfi, ma a lungo quanto loro sì.»


«No... no, resta. Arya può passare per un'umana da una certa distanza, ma i soldati ti darebbero la caccia dal momento stesso in cui un contadino ti vedesse.»


«Sono abituato a essere cacciato.»


«Ma non nel cuore dell'Impero, con centinaia di uomini di Galbatorix che battono la campagna. No, Arya dovrà badare a se stessa. Prego solo che trovi Eragon e lo protegga, perché senza di lui siamo spacciati.»

♦ ♦ ♦


IN FUGA DA TUTTO

I piedi di Eragon risuonavano sul terreno.


Il ritmo martellante della sua falcata nasceva nei calcagni, correva su per le gambe, girava intorno ai fianchi, risaliva per la spina dorsale e terminava alla base del cranio, dove i ripetuti impatti gli facevano stridere i denti e acuivano il mal di testa che sembrava peggiorare a ogni miglio. All'inizio la musica monotona della corsa lo aveva infastidito, ma poi lo aveva cullato in una sorta di trance dentro la quale non pensava, si muoveva soltanto.


Ogni volta che uno stivale toccava il suolo, Eragon sentiva i fragili steli d'erba spezzarsi come ramoscelli, e nuvolette di polvere si levavano dal terreno arido. Pensò che doveva essere passato almeno un mese dall'ultima volta che era piovuto in quella zona di Alagaësia. L'aria secca gli asciugava l'umidità del respiro, lasciandogli la gola riarsa. Per quanto bevesse, non riusciva a compensare la quantità d'acqua che il sole e il vento gli sottraevano.


Di qui il suo mal di testa.


L'Helgrind era ormai molto lontano. Però i suoi progressi erano stati più lenti del previsto. Centinaia di pattuglie di Galbatorix, composte da soldati e da stregoni, battevano il territorio in lungo e in largo, costringendolo spesso a nascondersi per evitarle. Stavano cercando lui, senza alcuna ombra di dubbio. La sera prima aveva persino scorto Castigo che volava basso sull'orizzonte a ovest. Aveva subito schermato la mente, si era gettato in un canale di scolo e aveva aspettato lì per mezz'ora, finché Castigo non era tornato indietro, scomparendo oltre i confini del mondo.


Eragon aveva deciso di viaggiare percorrendo strade e sentieri ogni volta che era possibile. Gli eventi della settimana prima lo avevano spinto ai limiti della resistenza fisica e interiore. Preferiva consentire al corpo di riposare e riprendersi piuttosto che stancarsi ancora di più correndo fra boschi di rovi, risalendo colline e guadando torrenti fangosi. Il tempo degli sforzi violenti e disperati sarebbe di certo tornato, ma non adesso.


Finché restava sulle strade battute, non osava correre veloce quanto avrebbe potuto; anzi, sarebbe stato meglio non correre affatto. Il territorio era disseminato di villaggi e fattorie: se qualcuno degli abitanti avesse visto un uomo correre da solo nella campagna, come inseguito da un branco di lupi, la scena avrebbe inevitabilmente suscitato curiosità e sospetti, e magari un contadino spaventato avrebbe riferito l'episodio all'Impero. Sarebbe stato un errore fatale per Eragon, la cui più grande protezione era il mantello dell'anonimato.


Adesso invece correva perché da almeno una lega non incontrava creature viventi, tranne un lungo serpente che si crogiolava al sole.


Tornare dai Varden era il suo principale obiettivo, e lo irritava dover procedere a rilento, camminando come un vagabondo qualsiasi. Eppure apprezzava la solitudine. Non era mai stato solo, veramente solo da quando aveva trovato l'uovo di Saphira sulla Grande Dorsale. I pensieri della dragonessa avevano continuamente sfiorato i suoi, e al suo fianco c'era sempre stato qualcuno, Brom o Murtagh o un'altra persona. Oltre al fardello della presenza costante di qualcuno, Eragon aveva passato tutti i mesi dalla partenza dalla Valle Palancar impegnato in duri allenamenti, interrotti solo per viaggiare o prendere parte a sanguinose battaglie. Non gli era mai capitato di concentrarsi così intensamente e così a lungo su se stesso o di riflettere sulle sue paure e i suoi pensieri.


Accolse con piacere la solitudine, e la pace che ne derivava. L'assenza di voci, compresa la propria, era una dolce ninnananna che, seppure per breve tempo, gli fece dimenticare i timori per il futuro. Non aveva voglia di divinare Saphira - anche se erano troppo distanti per toccarsi con la mente, il loro legame gli avrebbe comunque rivelato se lei stava male - o di cercare Arya o Nasuada solo per sentirsi aggredire dalle loro parole infuriate. Molto meglio, pensava, ascoltare il canto degli uccelli e il sospiro della brezza fra l'erba e le foglie degli alberi.

Un tintinnio di briglie, uno scalpiccio di zoccoli e il suono di voci umane ridestarono Eragon dalle sue fantasticherie. Allarmato, si fermò e si guardò intorno, cercando di capire da dove provenissero gli uomini. Una coppia di taccole gracchianti si levò in volo da una gola poco distante.

L'unico nascondiglio praticabile era un boschetto di ginepri. Eragon si tuffò fra i rami bassi proprio mentre sei soldati emergevano dalla gola, spronando i cavalli al piccolo galoppo per salire sulla strada sterrata, a meno di dieci passi da lui. In circostanze normali Eragon avrebbe percepito la loro presenza molto prima che gli arrivassero così vicini, ma da quando aveva scorto Castigo in lontananza aveva tenuto la mente schermata.

I soldati tirarono le redini e si fermarono al centro della strada, discutendo fra di loro. «Ti dico che ho visto qualcosa!» gridò uno. Era di corporatura media, con le guance rubizze e la barba gialla.

Col cuore in tumulto, Eragon si sforzò di respirare piano e in silenzio. Si toccò la fronte per assicurarsi che la striscia di tessuto che si era legato intorno alla testa coprisse ancora le sopracciglia oblique e le orecchie a punta. Se solo avessi ancora la mia armatura, pensò. Per evitare di attirare l'attenzione si era costruito uno zaino di fortuna - usando rami secchi e una pezza quadrata di tela che aveva barattato da un ambulante - e ce l'aveva infilata dentro. Ora non osava aprire lo zaino per indossarla, nel timore che i soldati lo sentissero.

Il soldato dalla barba gialla smontò dal suo baio da battaglia e s'incamminò lungo il ciglio della strada, studiando il terreno e il boschetto di ginepri. Come tutti i membri dell'esercito di Galbatorix, indossava una casacca rossa con una fiamma ricamata a fili d'oro. Il ricamo sprizzava scintille di luce a ogni movimento. La sua armatura era semplice: un elmo, uno scudo ammaccato e una brigantina di pelle, segno che era poco più che un fante a cavallo. Portava una lancia nella mano destra e uno spadone al fianco sinistro.

Mentre il soldato si avvicinava al suo nascondiglio, accompagnato dal clangore metallico degli speroni, Eragon cominciò a sussurrare un complicato incantesimo nell'antica lingua. Le parole gli uscirono dalle labbra in un flusso ininterrotto finché, con sgomento, non si accorse di aver pronunciato male una serie particolarmente difficile di vocali, e fu costretto a ricominciare daccapo.

Il soldato fece un altro passo verso di lui.


E un altro.


Proprio mentre il soldato si fermava di fronte a lui, Eragon completò

l'incantesimo e sentì che la sua forza scemava per effetto della magia. Purtroppo aveva impiegato un istante di troppo, perché il soldato esclamò: «Aha!» e scostò i rami di ginepro, esponendolo alla vista.

Eragon non si mosse.


Il soldato lo guardò dritto in faccia e aggrottò la fronte. «Ma che...» borbottò. Affondò la lancia fra i rami, mancando di un soffio il viso di Eragon, che si conficcò le unghie nei palmi, mentre i muscoli contratti tremavano. «Ah, ma che diamine» disse il soldato un attimo dopo, e lasciò andare i rami, che tornarono di scatto al loro posto, nascondendo di nuovo Eragon.


«Che c'è?» gridò un altro degli uomini.


«Niente» rispose il soldato a piedi, tornando dai compagni. Si tolse l'elmo e si asciugò la fronte. «Gli occhi mi giocano brutti scherzi.»


«Ma che si aspetta da noi quel bastardo di Braethan? Negli ultimi due giorni non abbiamo praticamente chiuso occhio.»


«Già. Il re dev'essere disperato per spremerci in questo modo... A essere sincero, preferirei non trovare questa persona che stiamo cercando, chiunque sia. Non che io abbia paura, ma se una persona riesce a preoccupare Galbatorix, allora vuol dire che è meglio evitarla. Che siano Murtagh e quel suo drago maledetto a catturare il nostro misterioso fuggitivo, eh?»


«A meno che non stiamo cercando proprio Murtagh» suggerì un terzo. «Hai sentito anche tu cosa ha detto il figlio di Morzan.»


Un silenzio inquieto scese sui soldati. Poi quello a piedi saltò in groppa al suo cavallo con un agile volteggio, si avvolse le redini intorno alla mano sinistra e disse: «Tieni chiusa quella tua boccaccia, Derwood. Parli troppo.»


Detto questo, i sei spronarono i cavalli e ripresero a galoppare verso nord, lungo la strada sterrata.


Mentre il rumore degli zoccoli si affievoliva, Eragon estinse l'incantesimo, si strofinò gli occhi con le nocche e posò le mani sulle ginocchia. Gli sfuggì una lunga risata e scrollò la testa, divertito dalla singolarità della sua situazione paragonata alla sua tranquilla fanciullezza nella Valle Palancar. Allora non avrei mai immaginato che potesse accadermi tutto questo, si disse.


L'incantesimo a cui aveva fatto ricorso era in due parti: la prima aveva deviato i raggi luminosi intorno al suo corpo per renderlo invisibile, e la seconda aveva impedito ad altri stregoni di rilevare il suo uso della magia, o almeno così sperava. La principale controindicazione dell'incantesimo era che non poteva nascondere le impronte - perciò bisognava restare immobili come una statua mentre lo si evocava - e spesso non riusciva a eliminare del tutto l'ombra della persona.


Sgusciando dal boschetto, Eragon stiracchiò le braccia sopra la testa e si volse a guardare la gola da cui erano emersi i soldati. Una sola domanda gli occupava la mente, mentre riprendeva il cammino: che cosa aveva detto Murtagh?

«Ahh!»

Il velo illusorio dei sogni si squarciò quando Eragon artigliò l'aria con le mani. Si raggomitolò con le ginocchia strette al petto e rotolò su se stesso. Poi indietreggiò puntando mani e talloni nel terreno, e infine si alzò di scatto, incrociando le braccia davanti al viso per parare eventuali colpi. Le tenebre della notte lo circondavano. In alto, le stelle indifferenti continuavano a spostarsi nella loro incessante danza celeste. In basso, non una creatura si muoveva, né si udiva un suono, tranne la brezza gentile che accarezzava l'erba.

Eragon tese un tentacolo di coscienza, convinto che qualcuno stesse per aggredirlo. Spaziò in un raggio di cento piedi, ma non trovò nessuno nelle vicinanze.

Alla fine abbassò le braccia. Ansimava forte, e la pelle gli bruciava, intrisa di sudore. Nella sua mente ruggiva una tempesta fatta di lampi di spade e pioggia di sangue. Per un istante credette di essere nel Farthen Dûr, a combattere gli Urgali, e poi sulle Pianure Ardenti, a incrociare la lama con uomini come lui. Ogni luogo era così reale che avrebbe giurato di essere stato trasportato indietro nel tempo e nello spazio con un sortilegio sconosciuto. Vide davanti a sé gli uomini e gli Urgali che aveva ucciso: sembravano così veri che si chiese se potessero parlare. E pur non avendo più le cicatrici delle ferite, il suo corpo ricordava ogni colpo subito, e il giovane rabbrividì nel sentire ancora le spade e le frecce che gli trapassavano la carne.

Con un ululato animalesco, cadde in ginocchio e si piegò in avanti, le braccia strette intorno allo stomaco, dondolando avanti e indietro. Va tutto bene... va tutto bene. Premette la fronte sul terreno, raggomitolato, sentendo il calore del proprio respiro sulla pancia.

Cosa c'è che non va in me?


Nessuno dei racconti epici che Brom narrava a Carvahall accennava al fatto che gli eroi del passato fossero stati perseguitati da visioni simili. Nessuno dei guerrieri che Eragon aveva conosciuto fra i Varden sembrava tormentato dal sangue versato. Roran aveva ammesso che non gli piaceva uccidere, però non si svegliava nel cuore della notte urlando.


Sono un debole, pensò Eragon. Un vero uomo non dovrebbe provare queste sensazioni. Garrow o Brom sarebbero stati in pace con la propria coscienza, lo so. Facevano quello che andava fatto, punto e basta. Non versavano lacrime, non si tormentavano, non digrignavano i denti... Sono un debole.


Si rimise in piedi e cominciò a camminare in circolo, intorno al suo giaciglio sull'erba, per calmarsi. Dopo mezz'ora, quando l'angoscia ancora gli attanagliava il petto in una morsa di ferro, facendolo trasalire al minimo fruscio, e la pelle gli prudeva come se un migliaio di formiche gli camminassero addosso, afferrò lo zaino e cominciò a correre alla cieca. Non gli importava che cosa potesse nascondersi nelle tenebre ignote o che qualcuno notasse la sua folle corsa.


Voleva soltanto sfuggire ai propri incubi. La mente gli si era rivoltata contro, e non poteva confidare nel pensiero razionale per disperdere il panico. La sua unica risorsa, quindi, era affidarsi all'antica saggezza animale della carne, che gli diceva di muoversi. Se avesse corso veloce e abbastanza a lungo, forse sarebbe riuscito ad aggrapparsi al momento presente. Forse l'oscillazione delle braccia, l'impatto dei piedi sul terreno, il sudore freddo che gli colava dalle ascelle e una miriade di altre sensazioni fisiche lo avrebbero costretto a dimenticare.


Forse.

Una nuvola di storni sfrecciò nel cielo del pomeriggio, come un branco di pesci che guizza sull'oceano.


Eragon socchiuse gli occhi per ammirarli. Nella Valle Palancar, quando gli storni facevano ritorno dopo l'inverno, spesso formavano gruppi così grandi da trasformare il giorno in notte. Questo stormo non era molto grande, ma gli ricordava lo stesso le serate trascorse a bere infuso di menta con Garrow e Roran sotto il portico della fattoria, guardando la nuvola nera che cambiava forma di continuo.


Smarrito nei ricordi, si fermò e sedette su un masso per stringersi i lacci degli stivali.


Il tempo era cambiato: faceva freddo e una nuvolaglia grigia a ovest annunciava un temporale. La vegetazione era più ricca, con muschio e canne e ampie zolle d'erba verde. A diverse miglia di distanza, cinque colline interrompevano il panorama uniforme e piatto. Un boschetto di querce coronava la sommità della collina centrale. Dal denso fogliame si ergevano le rovine di una costruzione abbandonata, eretta da chissà quale razza nei secoli addietro.


Incuriosito, Eragon decise di rompere il digiuno fra le rovine. Era certo di trovare selvaggina in abbondanza, e la sosta gli avrebbe dato una scusa per esplorare un po' i dintorni prima di proseguire.


Arrivò ai piedi della prima collina un'ora dopo, e trovò i resti di un'antica strada lastricata di pietre squadrate. La seguì fino alle rovine, sconcertato dalla loro architettura, che non somigliava a nessuna opera di umani, elfi o nani a lui nota.


L'ombra sotto le querce rinfrescò Eragon mentre s'inerpicava sulla collina centrale. Verso la sommità, il terreno divenne pianeggiante e il boschetto si diradò per aprirsi su una vasta radura. Al centro svettava una torre diroccata. La parte bassa della torre era larga e solcata da nervature, come il tronco di un albero. Poi la struttura si andava assottigliando e risaliva verso il cielo per oltre trenta piedi, terminando con un profilo aguzzo e frastagliato. La parte superiore della torre giaceva sul terreno, ridotta in tanti frammenti.


Eragon era eccitato. Aveva il sospetto di aver trovato un avamposto elfico eretto molto prima della caduta dei Cavalieri. Nessun'altra razza possedeva l'abilità o l'inclinazione a costruire una struttura simile.


Poi notò un orticello dall'altra parte della radura.


Tra le piante era accovacciato un uomo, intento a estirpare erbacce in mezzo ai piccoli filari di piselli. Il volto era immerso nell'ombra. La barba grigia era così lunga che gli posava in grembo come un cumulo di lana grezza.


Senza alzare lo sguardo, l'uomo disse: «Be', ti decidi ad aiutarmi o no? Se lo fai, ci sarà da mangiare anche per te.»


Eragon esitò, poi si disse: Perché dovrei aver paura di un vecchio eremita? e si avvicinò all'orto. «Sono Bergan... Bergan, figlio di Garrow.»


«Tenga, figlio di Ingvar» borbottò l'uomo.


Eragon posò lo zaino per terra e l'armatura all'interno sferragliò. Per tutta l'ora seguente lavorò in silenzio insieme a Tenga. Sapeva che non avrebbe dovuto restare, ma gli piaceva il lavoro fisico: gli impediva di pensare. Mentre sradicava le erbacce, lasciò espandere la mente per toccare la moltitudine di esseri che vivevano nella radura. Accolse con gratitudine il senso di unità che condivideva con loro.


Quando ebbero strappato fino all'ultimo stelo d'erba, portulaca e tarassaco, Eragon seguì Tenga attraverso una porticina incassata ai piedi della torre, oltre la quale si apriva una cucina spaziosa. Al centro della stanza, una scala a chiocciola conduceva al piano di sopra. Libri, pergamene e fasci di cartapecora non rilegata coprivano ogni superficie libera, compresa buona parte del pavimento.


Tenga puntò un dito verso la piccola catasta di rami nel caminetto. Con uno scoppio e un crepitio, il legno prese fuoco. Eragon s'irrigidì, pronto a lottare sia fisicamente che mentalmente con Tenga.


L'altro parve non notare la sua reazione, ma continuò ad affaccendarsi in cucina, prendendo tazze, piatti, coltelli e avanzi di vario genere per il pranzo, senza mai smettere di borbottare fra sé.


Con tutti i sensi vigili, Eragon sedette su uno sgabello in un angolo. Non ha parlato nell'antica lingua, pensò. Anche se ha pronunciato l'incantesimo nella sua testa, ha comunque rischiato di morire, o peggio, e solo per accendere il caminetto! Oromis gli aveva insegnato che le parole sono il mezzo attraverso il quale si controlla la magia. Evocare un incantesimo senza che la struttura del linguaggio ne imbrigliasse la forza motrice voleva dire rischiare che un pensiero ramingo o un'emozione distorcessero il risultato.


Eragon si guardò intorno, cercando nella stanza qualche indizio che potesse rivelargli qualcosa sul suo anfitrione. Vide una pergamena aperta che mostrava colonne di parole nell'antica lingua e la riconobbe come un compendio dei veri nomi simile a quello che aveva studiato a Ellesméra. I maghi avevano a cuore quel genere di documenti e di libri, ed erano disposti a sacrificare qualsiasi cosa per ottenerli, perché su di essi si potevano imparare nuove formule per un incantesimo o anche annotare le parole che via via si scoprivano. D'altro canto, erano pochi quelli che riuscivano a mettere le mani su un compendio, perché erano oggetti estremamente rari e quelli che già ne possedevano uno non se ne separavano mai volentieri.


Se già era strano che Tenga ne avesse uno, Eragon rimase di stucco nel vederne altri sei sparsi per la stanza, oltre a un certo numero di documenti su svariati temi, dalla storia alla matematica, dall'astronomia alla botanica.


Un boccale di birra e un vassoio con pane, formaggio e una fetta di pasticcio di carne freddo comparvero davanti a Eragon, offerti con malagrazia da Tenga.


«Grazie» disse Eragon, riconoscente.


Tenga lo ignorò e si sedette a gambe incrociate accanto al caminetto. Continuò a borbottare e mugugnare dentro la barba mentre consumava il suo pasto.


Dopo che ebbe ripulito il piatto e bevuto l'ultimo sorso di birra, Eragon non poté trattenersi dal chiedere a Tenga, che a sua volta stava per finire il pasto: «Sono stati gli elfi a costruire questa torre?»


Tenga lo fissò con uno strano sguardo, come se la domanda gli facesse dubitare dell'intelligenza di Eragon. «Già. Sono stati gli infidi elfi a costruire Edur Ithindra.»


«E tu cosa ci fai qui? Vivi da solo, oppure...»


«Cerco la risposta!» esclamò Tenga. «La chiave per una porta chiusa, il segreto degli alberi e delle piante. Fuoco, calore, lampo, luce... Quasi tutti non conoscono la domanda e brancolano nell'ignoranza. Altri conoscono la domanda ma temono la risposta. Bah! Per migliaia di anni abbiamo vissuto come bestie selvagge. Selvagge! Io metterò fine a tutto questo. Io aprirò un'era di luce e tutti glorificheranno la mia impresa.»


«Ti prego, dimmi, che cosa cerchi esattamente?»


Tenga si accigliò. «Non conosci la domanda? Credevo di sì. Ma si vede che mi sbagliavo. Eppure ho idea che tu comprenda la mia ricerca. Tu cerchi una risposta differente, ma comunque stai cercando. Lo stesso fuoco brucia nel tuo cuore come nel mio. Chi altri se non un compagno pellegrino può apprezzare il sacrificio che siamo costretti a compiere per trovare la risposta?»


«La risposta a cosa?»


«Alla domanda che scegliamo.»


È pazzo, pensò Eragon. Guardandosi intorno in cerca di qualcosa che potesse aiutarlo a distrarre Tenga, vide una serie di animaletti di legno allineati sul davanzale di una finestra a forma di goccia. «Che belle» disse, indicando le statuine. «Chi le ha fatte?»


«Lei... prima di andarsene. Faceva sempre delle cose.» Tenga si alzò di scatto e posò la punta dell'indice sulla prima statuina. «Ecco lo scoiattolo dalla coda fremente, veloce, scattante e ridente.» Il dito passò sulla seconda statuina. «Ecco il cinghiale selvatico, con le sue zanne aguzze... Ecco il corvo...»


Tenga non si accorse di quando Eragon indietreggiò e sollevò il paletto della porta per sgusciare via da Edur Ithindra. Il giovane si rimise lo zaino in spalla e riattraversò il boschetto di querce, allontanandosi dalle cinque colline e dallo stregone folle che vi dimorava.

Per il resto del giorno, e tutto quello dopo, il numero di persone incontrate lungo la strada continuò ad aumentare fino a diventare un flusso pressoché ininterrotto di gente che andava e veniva. Per la maggior parte erano profughi, ma c'erano anche soldati e mercanti. Eragon li evitava quando poteva, altrimenti camminava con il mento affondato nel petto.

Fu così costretto a passare la notte nel villaggio di Agrod'est, venti miglia a nord di Melian. Aveva avuto intenzione di abbandonare la strada molto prima di arrivare al villaggio e trovare riparo in una valletta o in una grotta dove poter riposare fino al mattino, ma a causa della sua scarsa conoscenza di quel territorio calcolò male la distanza e arrivò dalle parti del piccolo centro in compagnia di tre soldati. Andarsene così, a meno di un'ora dalla sicurezza delle mura e dei cancelli di Agrod'est e dal conforto di un letto caldo, avrebbe indotto anche il più ottuso degli ottusi a chiedersi perché stesse cercando di evitare il villaggio. Così strinse i denti e in silenzio ripassò la storia che aveva inventato per giustificare il suo viaggio.

Il sole gonfio fiammeggiava a due dita dall'orizzonte quando Eragon avvistò Agrod'est, un villaggio di medie dimensioni circondato da un'alta e robusta palizzata. Ed era quasi buio quando finalmente lo raggiunse e ne varcò il cancello. Alle sue spalle sentì una guardia chiedere agli uomini d'armi se avessero visto qualcuno dietro di loro sulla strada.

«Non mi pare.»


«Meglio così» replicò la sentinella. «Se c'è qualche ritardatario, dovrà aspettare domattina per entrare.» Poi si rivolse alla guardia sul lato opposto dell'ingresso e gridò: «Chiudi!» Insieme spinsero i due battenti del cancello, alto quindici piedi e rinforzato col ferro, e lo sbarrarono con quattro pali di quercia grossi quanto il torace di Eragon.


Forse temono un assedio, pensò Eragon, e poi sorrise davanti alla propria ingenuità. Be', chi non si aspetta dei guai, di questi tempi? Fino a qualche mese prima avrebbe avuto paura di restare intrappolato ad Agrod'est, ma adesso era sicuro di poter scalare le fortificazioni a mani nude e, rendendosi invisibile con la magia, di poter fuggire senza essere notato. Tuttavia scelse di restare perché era stanco ed evocare un incantesimo avrebbe potuto attirare l'attenzione di altri maghi, se ce n'erano.


Aveva mosso soltanto qualche passo sul viale fangoso che portava nella piazza del villaggio, quando un sorvegliante notturno gli si avvicinò e gli spinse una lanterna proprio sotto il viso. «Altolà! Non sei mai stato ad Agrod'est prima d'ora, vero?»


«Questa è la mia prima visita» rispose Eragon.


Il tarchiato sorvegliante aggrottò la fronte. «Hai una famiglia o degli amici che ti aspettano?»


«No.»


«E allora cosa ti porta qui ad Agrod'est?»


«Niente. Sto viaggiando verso sud per andare a prendere la famiglia di mia sorella e riportarli tutti a Dras-Leona.» La storia parve non avere effetto sul sorvegliante. Forse non mi crede, pensò Eragon, o forse ne ha sentite così tante, di storie come la mia, che non ci fa più caso.


«Allora cerca la Casa del Viandante, vicino al pozzo centrale. Lì troverai vitto e alloggio. E mentre resti qui ad Agrod'est, ti avverto: non tolleriamo assassini, ladri o pervertiti da queste parti. Abbiamo catene e forche robuste che hanno già avuto molti ospiti. Sono stato chiaro?»


«Chiarissimo, signore.»


«E allora vai, e buona fortuna. Ma aspetta! Come ti chiami, straniero?» «Bergan.»


A questa risposta, il sorvegliante si voltò e riprese la sua ronda notturna. Eragon aspettò che la lanterna dell'uomo svanisse dietro un gruppo di case per avvicinarsi al tabellone degli avvisi montato a sinistra dei cancelli.


Lì, inchiodate su una mezza dozzina di manifesti che ritraevano vari criminali, c'erano due pergamene lunghe quasi tre piedi. Una raffigurava Eragon, l'altra Roran, ed entrambe li etichettavano come traditori della Corona. Eragon esaminò le pergamene con attenzione e si stupì per la ricompensa promessa: un'intera contea a chiunque li avesse catturati. Il ritratto di Roran era abbastanza fedele e mostrava persino la barba che si era lasciato crescere da quando era fuggito da Carvahall, ma quello di Eragon lo dipingeva com'era stato prima della Celebrazione del Giuramento di Sangue, quando il suo aspetto era ancora del tutto umano.


Come sono cambiate le cose, pensò.


Riprese a camminare per il villaggio finché non individuò la Casa del Viandante. La sala comune aveva un basso soffitto dalle travi annerite. Gialle candele di sego spandevano una morbida luce tremolante e riempivano l'aria di strati di fumo. Il pavimento era coperto di sabbia e giunchi che scricchiolarono sotto gli stivali di Eragon. Alla sua sinistra c'erano dei tavoli con delle sedie, e un grande camino dove un ragazzetto rigirava un maiale sullo spiedo. Dall'altro lato correva un lungo bancone, una fortezza dai bordi rialzati che proteggeva i barili di birra chiara, scura e quant'altro dalle orde di uomini assetati che cercavano di assalirla da tutte le parti.


C'erano una sessantina di avventori nella sala, gremita fino ai limiti del tollerabile. Il frastuono delle conversazioni sarebbe stato comunque assordante per Eragon dopo tanto tempo passato da solo in viaggio, ma con il suo nuovo sensibilissimo udito gli parve di trovarsi nel bel mezzo di una fragorosa cascata. Non riusciva a concentrarsi sulle singole voci. Ogni volta che captava una parola o una frase, subito la smarriva in una marea ribollente di altre parole. In un angolo, un trio di menestrelli cantava e suonava una parodia di Dolce Aethrid di Dauth, aggiungendo fracasso al fracasso.


Con una smorfia, Eragon si fece strada a fatica tra la folla fino a raggiungere il bancone. Voleva parlare con la cameriera, ma lei era così indaffarata che passarono ben cinque minuti prima che si accorgesse di lui e gli chiedesse: «Cosa prendi?» Aveva ciocche di capelli incollate al viso madido di sudore.


«Avete una stanza, o un angolo appartato dove poter passare la notte?» «Non saprei. Per queste cose devi parlare con la padrona. Adesso scende» disse la donna, indicando una scala immersa nella penombra.


Mentre aspettava, Eragon si appoggiò con la schiena e i gomiti al bancone e prese a studiare la folla. Era un miscuglio di individui: una metà dovevano essere abitanti di Agrod'est venuti a godersi una serata in allegria, gli altri erano uomini e donne - spesso famiglie intere - che stavano migrando verso zone più tranquille del paese. Eragon li identificò facilmente dalle camicie logore e dai pantaloni sporchi e da come se ne stavano rannicchiati sulle sedie, guardando di sottecchi chiunque si avvicinasse. Stavano ben attenti, però, a non fissare direttamente l'ultimo e più piccolo gruppo di avventori del locale: i soldati di Galbatorix. Gli uomini dalle casacche rosse erano i più chiassosi di tutti. Ridevano e gridavano e battevano i pugni guantati di ferro sui tavoli, mentre tracannavano birra a fiumi e tentavano di abbrancare ogni cameriera tanto incosciente da passar loro accanto.


Si comportano così perché sanno che nessuno oserebbe ribellarsi e si divertono a ostentare il loro potere? si chiese Eragon. O lo fanno perché sono stati costretti a unirsi all'esercito di Galbatorix e cercano di affogare il senso di colpa e la paura nell'alcol?


I menestrelli intanto cantavano:

La dolce Aethrid di Dauth dalla chioma fluente Corse da Lord Edel gridando: "Libera il mio amante, O una strega ti trasformerà in un caprone!"


Lord Edel disse ridendo: "Non c'è strega che mi trasformi In un caprone!"

La folla si scostò consentendo a Eragon di scorgere un tavolo addossato a una parete, dove sedeva una donna con il volto nascosto dal cappuccio di un mantello da viaggio nero. Era circondata da quattro uomini, contadini tarchiati con la nuca cotta dal sole e le guance arrossate dall'alcol. Due erano appoggiati alla parete, da un lato e dall'altro della donna, che dominavano con la loro invadente presenza, mentre il terzo se ne stava a cavalcioni su una sedia girata al contrario e il quarto in piedi, con un tallone appoggiato sul bordo del tavolo e il busto proteso in avanti. Gli uomini parlavano e gesticolavano senza freni. Anche se Eragon non poteva sentire quello che diceva la donna, era ovvio che le sue risposte dovevano aver fatto infuriare i contadini, perché i quattro si accigliarono e gonfiarono il petto come galletti arroganti. Uno di loro le puntò addosso un dito minaccioso.

Eragon pensò che alla fine erano brave persone, lavoratori onesti che avevano smarrito le buone maniere in fondo al boccale, un errore che aveva spesso visto fare nei giorni di festa a Carvahall. Garrow non aveva rispetto per gli uomini che sapevano di non reggere l'alcol e che malgrado ciò insistevano a bere, esponendosi al ridicolo in pubblico. "È sconveniente" diceva. "Per giunta, se bevi per dimenticare i guai e non per gusto, dovresti farlo dove non disturbi gli altri."

L'uomo a sinistra della donna tese una mano all'improvviso e le infilò un dito sotto il cappuccio, con l'intenzione di abbassarlo. Con uno scatto fulmineo che Eragon colse a stento, la donna alzò la mano destra e afferrò il polso dell'uomo, poi lo liberò subito e tornò nella posizione precedente. Eragon dubitava che chiunque altro nel locale, compreso l'uomo che la donna aveva toccato, si fosse accorto di quel gesto.

Tuttavia il cappuccio le ricadde sulle spalle, ed Eragon trasalì, sbigottito. La donna era umana, ma somigliava in modo impressionante ad Arya. Le uniche differenze erano gli occhi - rotondi, non a mandorla come quelli di un gatto - e le orecchie, che non terminavano a punta come quelle degli elfi. La donna era bella quanto l'Arya che lui conosceva, solo in maniera meno esotica, più familiare.

Senza esitare, Eragon espanse la mente verso la donna. Doveva sapere chi era.


Non appena ebbe sfiorato la sua coscienza, fu respinto da un colpo mentale che gli annientò la concentrazione, mentre nei confini del cranio sentiva una voce assordante esclamare: Eragon!


Arya?


I loro sguardi s'incrociarono per un istante, poi la folla tornò ad assieparsi davanti a lui bloccandogli la visuale.


Eragon si lanciò dall'altra parte della sala, sgomitando tra i corpi ammassati per liberarsi la strada. I contadini lo squadrarono con diffidenza quando emerse dalla calca, e uno disse: «Sei proprio un gran bifolco a piombare qui fra di noi senza essere stato invitato. Meglio se sparisci, eh?»


Nel tono più diplomatico che riuscì a trovare, Eragon disse: «Miei signori, mi pare di capire che la signora desideri essere lasciata in pace. Vorreste dunque ignorare il desiderio di una donna onesta?»


«Una donna onesta?» rise l'uomo più vicino. «Nessuna donna onesta viaggia da sola.»


«Lasciatemi dunque dissipare i vostri dubbi, perché io sono suo fratello e stiamo andando a vivere da nostro zio a Dras-Leona.»


I quattro si scambiarono occhiate perplesse. Tre di loro cominciarono ad allontanarsi da Arya, ma il più massiccio si piantò a pochi centimetri dal suo viso e, alitandogli in faccia, disse: «Non sono sicuro di crederti, amico. Stai solo cercando di mandarci via per poterla avere tutta per te.»


Non è molto lontano dalla verità, pensò Eragon.


Parlando a bassa voce perché soltanto quell'uomo potesse sentirlo, disse: «Ti assicuro che lei è mia sorella. Per favore, non voglio mettermi a discutere con te. Saresti così gentile da andartene?»


«No, perché penso che tu sia un moccioso bugiardo.»


«Suvvia, sii ragionevole. Non c'è bisogno di litigare, la notte è ancora giovane, godiamoci la musica e la birra. Non lasciamo che un piccolo equivoco ci rovini la serata.»


Con suo grande sollievo, l'uomo si calmò ed emise un grugnito sprezzante. «Non mi metterei comunque a litigare con un ragazzetto come te» disse. Si voltò e raggiunse gli amici al bancone.


Con gli occhi fissi sulla folla, Eragon scivolò a sedere dietro il tavolo, accanto ad Arya. «Che ci fai qui?» le chiese, muovendo appena le labbra.


«Ti cercavo.»


Sorpreso, la guardò, e lei inarcò un sopracciglio. Lui tornò a fissare la calca rumorosa e fingendo di sorridere le domandò: «Sei da sola?»


«Non più... Hai preso un letto per la notte?»


Lui scosse il capo.


«Bene. Io ho già preso una stanza. Possiamo parlare lì.»


Si alzarono insieme, ed Eragon seguì Arya verso le scale in fondo al locale. I gradini traballanti scricchiolarono sotto i loro piedi mentre salivano al primo piano. Una sola candela illuminava lo squallido corridoio tappezzato con pannelli di legno. Arya lo guidò fino all'ultima porta a destra, e dall'ampia manica del mantello trasse una chiave di ferro. Aprì la porta, entrò nella stanza, aspettò che Eragon la seguisse e poi richiuse di nuovo la porta a chiave.


Un debole chiarore arancione filtrava dalla finestra piombata in fondo alla stanza. La luce proveniva da una lanterna appesa dall'altro lato della piazza centrale di Agrod'est. Eragon riuscì a scorgere la sagoma di una lampada a olio su un basso tavolino alla sua destra.


«Brisingr» mormorò, e accese lo stoppino con uno schiocco delle dita. Malgrado la luce della lampada, la stanza era ancora immersa nella penombra. Era tappezzata di pannelli come il corridoio, e il legno color castagna assorbiva la gran parte della luce, dando l'impressione che l'ambiente piccolo e angusto fosse schiacciato da un peso verso l'interno. A parte il tavolino, l'unico altro mobile era un letto singolo con una coperta ripiegata sulla spalliera. Sul materasso c'era una piccola borsa di provviste.


Eragon e Arya rimasero immobili qualche istante, l'uno di fronte all'altra. Poi Eragon cominciò a svolgere la striscia di tessuto che gli cingeva la testa, mentre Arya apriva la spilla che le fermava il mantello intorno alle spalle e lo posava sul letto. Portava un lungo abito color verde foresta, il primo vestito femminile che Eragon le avesse mai visto indossare.


Era una strana esperienza per lui vedere i loro aspetti ribaltati, lui simile a un elfo, e Arya a un'umana. Il cambiamento non tolse nulla al rispetto che provava per lei, ma in qualche modo lo mise più a suo agio, perché Arya gli sembrava meno estranea.


Fu lei a rompere il silenzio. «Saphira ha detto che sei rimasto indietro per uccidere l'ultimo Ra'zac ed esplorare l'Helgrind. È la verità?»


«È parte della verità.»


«E il resto quale sarebbe?»


Eragon sapeva che non si sarebbe accontentata di niente di meno. «Promettimi che non rivelerai a nessuno quello che sto per dirti, a meno che non sia io a darti il permesso.»


«Te lo prometto» disse lei nell'antica lingua.


Eragon allora le raccontò di come aveva trovato Sloan, della ragione per cui aveva deciso di non portarlo dai Varden, della condanna che aveva inflitto al macellaio e della possibilità che gli aveva dato di redimersi - almeno in parte - e recuperare la vista. Eragon concluse dicendo: «Qualunque cosa accada, Roran e Katrina non dovranno mai sapere che Sloan è ancora vivo. O saranno guai.»


Arya sedette sul bordo del letto e fissò la fiamma ondeggiante della lampada per un po'. Poi mormorò: «Avresti dovuto ucciderlo.»


«Forse hai ragione; ma non ho potuto.»


«Trovare sgradevole un compito non è una buona ragione per evitarlo. Sei stato un codardo.»


Eragon s'irrigidì davanti a quell'accusa. «Dici? Chiunque armato di coltello avrebbe potuto uccidere Sloan. Quello che ho fatto io è stato molto più difficile.»


«Fisicamente, ma non moralmente.»


«Non l'ho ucciso perché pensavo che fosse sbagliato.» Eragon aggrottò la fronte, concentrandosi per trovare le parole più adatte a spiegarsi. «Non avevo paura... non era quello. Non dopo aver combattuto in battaglia... È stato qualcos'altro. In guerra continuerò a uccidere, ma non voglio assumermi la responsabilità di decidere chi deve vivere e chi deve morire. Non ho l'esperienza né la saggezza... Ogni uomo ha un limite che non si sente di oltrepassare, Arya, e io ho scoperto il mio quando ho guardato Sloan. Dovessi anche prendere prigioniero Galbatorix in persona, non lo ucciderei. Lo porterei da Nasuada e da re Orrin, e se loro lo condannassero a morte, allora sarei ben lieto di tagliargli la testa, ma non prima. Chiamala debolezza, se vuoi, ma io sono fatto così, e non chiederò certo scusa per questo.»


«Allora sarai un semplice strumento nelle mani di qualcun altro?»


«Servirò il popolo come meglio posso. Non ho mai aspirato al comando. Alagaësia non ha bisogno di un altro tiranno.»


Arya si massaggiò le tempie. «Perché dev'essere sempre tutto così complicato con te, Eragon? Ovunque tu vada, trovi sempre il modo di ficcarti nelle situazioni più difficili. È come se cercassi apposta d'infilarti in ogni rovo che trovi sul cammino.»


«Tua madre ha detto più o meno la stessa cosa.»


«Non mi sorprende... D'accordo, ormai è fatta. Nessuno di noi due cambierà opinione, e abbiamo problemi più urgenti di cui occuparci invece di stare a discutere di giustizia e moralità. In futuro, però, faresti meglio a ricordare chi sei e che cosa rappresenti per i popoli di Alagaësia.»


«Non lo dimentico mai.» Eragon aspettò una risposta, ma Arya lasciò correre. Sedendosi sul bordo del tavolo, Eragon allora disse: «Non dovevi venire a cercarmi, sai. Sto bene.»


«Sì che dovevo.»


«Come hai fatto a trovarmi?»


«Ho intuito quale direzione avresti preso dall'Helgrind. Per fortuna l'istinto mi ha portata a quaranta miglia da qui, una distanza che mi è bastata a individuarti ascoltando i sussurri della terra.»


«Non capisco.»


«Un Cavaliere non passa inosservato in questo mondo, Eragon. Coloro che hanno orecchie per ascoltare e occhi per vedere possono facilmente interpretare i segni. Gli uccelli cantano del tuo passaggio, le bestie della terra riconoscono il tuo odore, e gli alberi e l'erba ricordano il tuo contatto. Il legame fra Cavaliere e drago è così potente che le creature sensibili alle forze della natura possono percepirlo.»


«Devi insegnarmi questo trucchetto una volta o l'altra.»


«Nessun trucchetto, Eragon: è solo l'arte di prestare attenzione a ciò che già ti circonda.»


«Ma perché sei venuta qui ad Agrod'est? Non sarebbe stato più prudente incontrarci fuori?»


«Le circostanze mi hanno costretta a entrare nel villaggio, come immagino sia capitato anche a te. Non era questa la tua meta, giusto?»


«No...» Eragon si sciolse le spalle per liberarle dalle fatiche del viaggio. Lottando contro il sonno, indicò l'abito che lei indossava. «Hai finalmente deciso di abbandonare camicia e pantaloni?»


Un fievole sorriso increspò le labbra di Arya. «Soltanto per la durata di questo viaggio. Ho vissuto fra i Varden per più anni di quanti non tenga a ricordare, eppure ancora mi stupisco di come gli umani insistano nel considerare diversi gli uomini e le donne. Non sono mai riuscita ad adottare le vostre usanze, anche se non mi sono mai nemmeno comportata come una vera elfa. E poi chi c'era a dirmi questo si fa e questo non si fa? Mia madre? Lei era all'altro capo di Alagaësia.» Arya s'interruppe all'improvviso, come se avesse detto più di quanto volesse. Poi riprese. «Comunque ho avuto un malaugurato incontro con un paio di bovari poco dopo aver lasciato i Varden, così ho rubato questo vestito.»


«Ti sta molto bene.»


«Uno dei vantaggi di essere una maga è che non devi mai dipendere da una sarta.»


Eragon scoppiò a ridere. Poi si fece serio e domandò: «E adesso?»


«Adesso ci riposiamo. Domattina, prima dell'alba, sgattaioleremo via da Agrod'est e nessuno saprà che fine abbiamo fatto.»

Quella notte, Eragon si distese sul pavimento davanti alla porta, mentre Arya riposava sul letto. La sistemazione non era dovuta a deferenza o cortesia da parte di Eragon - che avrebbe insistito comunque per cedere il letto ad Arya - quanto a prudenza. Se fosse entrato qualcuno nella stanza, avrebbe trovato quantomeno strano che una donna dormisse sul pavimento.

Mentre le ore si susseguivano lente, Eragon fissava le travi del soffitto e seguiva le fessure nel legno, incapace di calmare i pensieri in subbuglio. Aveva provato ad acquietarsi in tutti i modi, ma la sua mente continuava a tornare verso Arya, la sorpresa di vederla, i suoi commenti a proposito di Sloan, e soprattutto i sentimenti che provava per lei. Quali fossero non lo sapeva bene nemmeno lui. Desiderava con tutto se stesso stare con Arya, ma lei l'aveva respinto, e questo aveva macchiato il suo affetto di dolore e di rabbia, oltre che di frustrazione, perché Eragon non voleva accettare che il suo corteggiamento fosse senza speranza, ma non sapeva come altrimenti comportarsi.

Si sentiva il petto oppresso dallo struggimento mentre ascoltava il lieve respiro regolare di Arya. Lo tormentava il fatto di esserle accanto senza potersi avvicinare. Si torceva l'orlo della tunica fra le dita, col desiderio di poter fare qualcosa invece di rassegnarsi a un triste destino.

Combatté contro quelle emozioni violente fino a notte fonda, quando la stanchezza prese il sopravvento, trascinandolo nell'accogliente abbraccio di un riposo vigile. Fluttuò in quello stato di dormiveglia per un paio d'ore, fino a quando lo splendore delle stelle non cominciò ad affievolirsi e fu il momento di partire da Agrod'est.

Eragon e Arya aprirono la finestra e scavalcarono il davanzale, atterrando venti piedi più in basso, un dislivello di poco conto per le capacità di un elfo. Mentre saltava, Arya strinse a sé l'orlo della veste per non farla svolazzare. Toccarono terra a pochi centimetri l'uno dall'altra, e subito presero a correre fra le case, verso la palizzata.

«Si chiederanno dove siamo andati» disse Eragon mentre correvano. «Forse sarebbe stato meglio aspettare e ripartire come viaggiatori normali.»

«Era troppo rischioso aspettare. Ho già pagato la stanza. Per la proprietaria della locanda è questo che conta, non se due ospiti se ne vanno prima dell'alba.» I due si separarono per qualche secondo, il tempo di aggirare un carro abbandonato, poi Arya aggiunse: «La cosa più importante è non fermarsi. Se indugiamo, il re ci troverà di sicuro.»

Quando arrivarono alla palizzata, Arya la perlustrò fino a trovare un palo sporgente. Lo afferrò e lo trasse a sé per saggiare la resistenza del legno. Il palo ondeggiò e sbatacchiò contro i due vicini, ma comunque resse.

«Prima tu» disse Arya.


«Prego, prima tu.»


Con un sospiro d'impazienza, Arya agitò un lembo dell'abito. «Un vestito è un po' più indecente di un paio di pantaloni, Eragon.»

Eragon si sentì avvampare le guance quando colse il senso della frase. Protese le mani, trovò un appiglio e cominciò a scalare la palizzata, issandosi con le ginocchia e con i piedi. Una volta in cima, si fermò e rimase in equilibrio sulla punta del palo.


«Avanti» mormorò Arya.


«Non finché non vieni anche tu.»


«Non essere così...»


«Sentinella!» disse Eragon, e indicò un punto poco lontano. Una lanterna oscillava nel buio fra due case vicine. Mentre la luce si avvicinava, la sagoma di un uomo emerse dal buio. Impugnava una spada sguainata.

Silenziosa come un fantasma, Arya afferrò il palo e con la sola forza delle braccia cominciò a salire verso Eragon. Sembrava scivolare verso l'alto senza fatica, come per incanto. Quando fu abbastanza vicina, Eragon la prese per l'avambraccio e l'aiutò a issarsi sopra la palizzata, accanto a sé. Come due strani uccelli appollaiati, rimasero immobili e in silenzio mentre il sorvegliante passava sotto di loro. L'uomo faceva dondolare la lanterna di qua e di là, in cerca di intrusi.

Non guardare a terra,

pregò Eragon.

E non guardare in alto.

Un istante dopo, il sorvegliante notturno rinfoderò la spada e continuò la ronda, canticchiando sottovoce.


Senza scambiarsi una parola, Eragon e Arya balzarono dall'altra parte della palizzata. L'armatura nello zaino di Eragon sferragliò quando lui atterrò sul terrapieno erboso rotolando su se stesso per attutire l'impatto. Balzato in piedi, si chinò e cominciò a correre nella landa grigia, con Arya al seguito. Si servirono di conche e letti asciutti di torrenti per evitare le fattorie che circondavano il villaggio. Cinque o sei volte, cani infuriati li rincorsero per protestare contro l'invasione del loro territorio. Eragon cercò di rabbonirli con la mente, ma scoprì che l'unico modo per impedire ai cani di continuare ad abbaiare era far credere loro che avevano zanne e unghie così spaventose da mettere in fuga chiunque. Soddisfatti del successo, i cani tornavano scodinzolando ai capanni, alle baracche e ai portici dov'erano di guardia. La loro tronfia baldanza divertì Eragon.


A cinque miglia da Agrod'est, quando furono certi di essere davvero soli e di non essere stati seguiti, Eragon e Arya fecero una sosta accanto a un ceppo carbonizzato. Arya scavò una piccola fossa nel terreno. «Adurna rïsa» disse. Con un fievole gorgoglio, l'acqua affiorò dal suolo e si raccolse nella buca. Arya aspettò che la cavità fosse piena, poi disse «Letta» e il flusso s'interruppe.


Evocò un incantesimo di divinazione, e il volto di Nasuada comparve sulla superficie dell'acqua immobile. Arya la salutò. «Mia signora» disse Eragon con un inchino.


«Eragon» rispose Nasuada. Aveva l'aria stanca e le guance scavate, come se fosse molto malata. Una ciocca le sfuggì dalla crocchia, arricciandosi verso l'attaccatura dei capelli. Eragon scorse una pesante fasciatura sul braccio che Nasuada levò per appiattire il ricciolo ribelle. «Sei sano e salvo, grazie a Gokukara. Eravamo preoccupati.»


«Mi dispiace di averti dato pensieri, ma avevo le mie ragioni.»


«Me le spiegherai al tuo ritorno.»


«Come desideri» disse lui. «Cosa ti sei fatta? Qualcuno ti ha aggredita? Perché nessuno del Du Vrangr Gata ha guarito le tue ferite?»


«Sono stata io a ordinare di non farlo. Anch'io ti darò le mie spiegazioni quando arriverai.» Sebbene perplesso, Eragon annuì e trattenne le domande che gli bruciavano sulle labbra. Ad Arya, Nasuada disse: «Sono colpita. Lo hai trovato. Non ero sicura che ce l'avresti fatta.»


«La fortuna mi ha assistito.»


«Può darsi, ma sono indotta a credere che le tue doti siano state importanti quanto la generosità della fortuna. Fra quanto pensate di essere qui?»


«Due, tre giorni, se non ci sono imprevisti.»


«Bene. Allora vi aspetterò. Da adesso in poi voglio che mi cerchiate almeno una volta prima di mezzogiorno e una volta prima di notte. Se non avrò vostre notizie, riterrò che siate stati catturati e manderò Saphira con una squadra di soccorso.»


«Potremmo non avere sempre la libertà di usare la magia.»


«Trovate il modo. Ho bisogno di sapere dove siete e se siete al sicuro.»


Arya ci rifletté qualche istante, poi disse: «Se posso, farò come chiedi, ma non se questo dovesse comportare un pericolo per Eragon.»


«Concesso.»


Approfittando della pausa nella conversazione, Eragon disse: «Nasuada, Saphira è vicina a te? Vorrei parlarle... Non ci sentiamo da quando ci siamo separati sull'Helgrind.»


«È andata un'ora fa in perlustrazione. Riuscite a non far spezzare questo incantesimo finché non scopro se è tornata?»


«Vai pure» rispose Arya.


Bastò un passo per far uscire Nasuada dal loro campo visivo, lasciando dietro di sé l'immagine fissa del tavolo e delle sedie del suo padiglione rosso. Per un po' Eragon studiò l'arredamento della tenda, ma poi l'irrequietezza lo portò a distogliere lo sguardo dall'acqua per lasciarlo indugiare sulla nuca di Arya. I lunghi capelli neri le ricadevano oltre una spalla, lasciando scoperta un'ampia porzione della pelle appena sopra la scollatura dell'abito. Eragon rimase a fissarla per quasi un minuto, poi si riscosse e si appoggiò con la schiena al ceppo bruciato.


Dopo un po' ecco un rumore di legno spezzato, e poi uno sfavillio di squame azzurre riempì la pozza d'acqua mentre Saphira si contorceva per entrare nel padiglione. Era difficile stabilire di quale parte di drago si trattasse. Le squame si spostarono; Eragon scorse la parte bassa di una coscia, una delle punte acuminate della coda, la membrana floscia di un'ala ripiegata, e infine lo scintillio di una zanna, mentre la dragonessa si rigirava per trovare una posizione comoda e riuscire a guardare lo specchio che Nasuada usava per le sue arcane comunicazioni. Dai rumori sospetti provenienti dietro la dragonessa, Eragon intuì che stava facendo a pezzi gran parte della mobilia. Alla fine Saphira trovò pace, avvicinò la testa allo specchio - uno dei suoi enormi occhi color zaffiro bastava a riempire l'intera pozza - e scrutò Eragon.


Si fissarono a vicenda per un lungo minuto, senza muoversi. Eragon rimase sorpreso dal sollievo che provò nel vederla. Non si era mai sentito davvero al sicuro da quando si erano separati.


«Mi sei mancata» mormorò.


Lei batté la palpebra una volta.


«Nasuada, sei ancora lì?»


La risposta smorzata provenne da un punto alla destra di Saphira. «Sì, più o meno.»


«Saresti così gentile da riferirmi i commenti di Saphira?»


«Sarei più che lieta di farlo, ma al momento sono incastrata fra un'ala e un palo di sostegno, e non ho modo di liberarmi, a quanto pare. Potresti avere difficoltà a sentirmi. Ma se hai un po' di pazienza ci provo.»


«Sì, te ne prego.»


Nasuada rimase in silenzio per qualche battito di cuore, poi, in un tono tanto simile a quello di Saphira da farlo quasi scoppiare a ridere, disse: «Stai bene?»


«Sono sano come un bue. E tu?»


«Paragonare me stessa a un bovino sarebbe ridicolo e offensivo, ma sto bene, se è questo che mi chiedi. Sono contenta che ci sia Arya con te. È un bene che tu abbia qualcuno con un po' di discernimento a guardarti le spalle.»


«Concordo. L'aiuto è sempre bene accetto quando sei in pericolo.» Pur contento di poter parlare con Saphira, anche se in quel modo bizzarro, Eragon trovava che le parole affidate alla voce fossero un ben misero sostituto del libero scambio di pensieri ed emozioni che condividevano quando erano insieme. Per giunta, in presenza di Arya e Nasuada, Eragon era riluttante ad affrontare temi di natura più personale, come chiederle se lo aveva perdonato per averla costretta a lasciarlo nell'Helgrind. Saphira doveva condividere la sua riluttanza, perché anche lei evitò l'argomento. Chiacchierarono di altre cose meno importanti e infine si salutarono. Prima di allontanarsi dalla pozza, Eragon si sfiorò le labbra con le dita e in silenzio mormorò: Mi dispiace.


Fra le piccole squame che orlavano l'occhio di Saphira si aprirono tanti spazi che lasciavano intravvedere la carne sottostante. La dragonessa batté la palpebra con un movimento rallentato, ed Eragon capì che aveva compreso il suo messaggio e non gli serbava rancore.


Dopo che Eragon e Arya si furono congedati da Nasuada, Arya sciolse l'incantesimo e si alzò. Col dorso della mano si spazzolò il terriccio dal vestito.


Nel frattempo Eragon smaniava, impaziente come non mai: in quel momento non desiderava altro che correre dritto da Saphira e accoccolarsi con lei davanti a un falò.


«Andiamo» disse, e già correva.

♦ ♦ ♦


UNA QUESTIONE DELICATA

I muscoli della schiena di Roran si gonfiarono l'uno dopo l'altro come onde mentre sollevava il macigno da terra. Posò la grossa pietra sulle cosce per un istante, poi, grugnendo per lo sforzo, la issò sopra la testa, a braccia tese. Mantenne la posizione per un intero minuto. Quando le spalle cominciarono a tremargli e a cedere, lasciò cadere il macigno, che atterrò con un tonfo sordo lasciando un'impronta profonda parecchi pollici.

A fianco di Roran, venti guerrieri Varden cercarono di sollevare massi delle stesse dimensioni. Soltanto due ci riuscirono; gli altri decisero che era meglio allenarsi con le pietre più leggere cui erano abituati. Roran era contento che i mesi passati a lavorare nella fucina di Horst sommati agli anni trascorsi alla fattoria gli avessero dato una forza tale da competere con uomini che si esercitavano alle armi fin da quando avevano dodici anni.

Scrollò le braccia che gli bruciavano e trasse qualche respiro profondo, sentendo l'aria fredda sul torace nudo. Si massaggiò la spalla destra, tastando il muscolo rotondo con le dita per avere un'altra conferma che non restava alcuna traccia della ferita che gli aveva inflitto il Ra'zac con un morso. Sogghignò, felice di essere di nuovo sano e tutto intero, un evento che prima non avrebbe ritenuto possibile più dell'esistenza di una mucca ballerina.

Un lamento sofferente lo fece voltare a guardare Albriech e Baldor, che si stavano esercitando alla scherma con Lang, un veterano dalla pelle scura coperta di cicatrici che insegnava l'arte della guerra. Erano due contro uno, ma Lang aveva gioco facile con gli avversari e usando la spada di legno per gli allenamenti disarmò Baldor con un affondo alle costole e menò alla gamba di Albriech un colpo così potente che il giovane cadde gemendo, il tutto nell'arco di un paio di secondi. Roran li capiva: aveva appena concluso anche lui una seduta di allenamento con Lang, e il risultato era una serie di lividi freschi ad accompagnare quelli ormai sbiaditi che si era procurato sull'Helgrind. In genere preferiva il martello alla spada, ma pensava di dover comunque imparare a maneggiare una lama, per ogni evenienza. Usare la spada richiedeva molto più acume e agilità di quanto, secondo lui, fosse necessario in battaglia: una martellata sul polso di uno spadaccino e l'avversario, con o senza armatura, sarebbe stato troppo occupato a cullarsi le ossa rotte per difendersi.

Dopo la battaglia delle Pianure Ardenti, Nasuada aveva invitato gli abitanti di Carvahall a unirsi ai Varden. Avevano tutti accettato la sua offerta. Quelli che l'avrebbero rifiutata non si trovavano lì, perché avevano già scelto di restare nel Surda quando si erano fermati a Dauth, lungo la strada per le Pianure Ardenti. Tutti gli uomini abili di Carvahall avevano preso vere armi - abbandonando le lance e gli scudi che si erano costruiti - e si erano dati da fare per diventare guerrieri degni di Alagaësia. La gente della Valle Palancar era abituata alla vita dura. Maneggiare una spada non era peggio che spaccare legna, ed era molto più facile che dissodare la terra o zappare acri di barbabietole nella canicola dell'estate. Quelli che conoscevano un mestiere continuarono a fare gli artigiani per i Varden, ma nel tempo libero imparavano a maneggiare le armi che erano state loro affidate, perché ogni uomo avrebbe dovuto combattere quando fossero risuonate le trombe di guerra.

Roran si era dedicato agli allenamenti con zelo incrollabile fin da quando era tornato dall'Helgrind. Aiutare i Varden a sconfiggere l'Impero, e quindi Galbatorix, era l'unica cosa che poteva fare per proteggere i suoi compaesani e Katrina. Non era così arrogante da pensare di poter modificare da solo l'esito della guerra, ma aveva fiducia nella propria capacità di poter forgiare il mondo e sapeva che se si fosse impegnato avrebbe potuto accrescere le probabilità di vittoria dei Varden. Doveva restare vivo, però, e questo significava modellare il corpo e conoscere a fondo gli strumenti e le tecniche di combattimento per evitare di soccombere davanti a un guerriero più esperto.

Mentre attraversava il campo di allenamento, di ritorno alla tenda che condivideva con Baldor, Roran passò davanti a una striscia di erba rasata lunga sessanta piedi, dov'era adagiato un tronco di venti piedi, scorticato e levigato dalle migliaia di mani che lo toccavano ogni giorno. Senza rallentare, Roran si voltò, infilò le mani sotto la parte più grossa del tronco e con un sonoro gemito di fatica lo sollevò fino a metterlo in verticale. Poi gli diede una spinta e lo fece capitombolare dall'altro lato. Afferrando la parte più sottile, ripeté l'operazione altre due volte.

Senza più energia per capovolgere ancora il tronco, Roran abbandonò il campo e si avviò a passo spedito verso il labirinto di tende grigie, facendo un cenno a Loring e a Fisk e agli altri che conosceva, come pure a una mezza dozzina di estranei che lo salutarono con trasporto: «Ehilà, Fortemartello!»

«Ehilà!» rispose. Che strano, pensò, essere riconosciuto da persone che non ho mai visto prima. Un minuto dopo, arrivò alla tenda che ormai era la sua casa ed entrò chinandosi. Ripose subito l'arco, la faretra e la spada corta che i Varden gli avevano dato.

Afferrò l'otre d'acqua che teneva accanto alla branda, poi corse fuori alla luce del sole e, stappato l'otre, se ne versò il contenuto sulla schiena e sulle spalle. Il bagno era un evento raro e insolito per Roran, ma quel giorno era un giorno importante, e voleva essere fresco e pulito per ciò che lo aspettava. Con la punta di un bastoncino levigato si grattò via il sudiciume dalle braccia e dalle gambe e da sotto le unghie, poi si pettinò i capelli e si rifilò la barba.

Quando ritenne di essere presentabile, indossò la tunica fresca di bucato e s'infilò il martello nella cintura; stava per riattraversare l'accampamento quando si accorse che Brigit lo fissava da dietro la tenda. La donna stringeva con tutte e due le mani un fodero col pugnale.

Roran s'impietrì, pronto a brandire il martello alla minima provocazione. Sapeva di essere in mortale pericolo e malgrado il proprio ardimento, non era sicuro di poter battere Brigit se lei lo avesse aggredito perché, come lui, anche la donna inseguiva i propri nemici con feroce determinazione. «Una volta mi hai chiesto di aiutarti» disse Brigit «e io ho accettato perché volevo trovare i Ra'zac e ucciderli per aver divorato mio marito. Non ho forse tenuto fede al patto?»

«Sì.»

«E ricordi che ho promesso che una volta morti i Ra'zac avrei preteso da te il mio risarcimento per il ruolo che hai avuto nella morte di Quimby?»


«Ricordo.»


Brigit strinse il fodero ancora più forte, tanto che i tendini le affiorarono in rilievo sul dorso delle mani. Il pugnale uscì dal fodero di un pollice intero, mostrando il lucido acciaio, poi lentamente tornò al buio. «Bene» disse lei. «Non voglio che la memoria ti tradisca. Perché io avrò il mio risarcimento, Garrowsson. Stanne certo.» E con passo rapido e fermo si allontanò, il pugnale nascosto fra le pieghe dell'abito.


Con un gran sospiro, Roran sedette su uno sgabello e si massaggiò la gola, convinto di essere sfuggito per un pelo alla lama di Brigit. La sua visita lo aveva allarmato ma non sorpreso: conosceva le sue intenzioni da parecchi mesi, fin da prima che fuggissero tutti da Carvahall, e sapeva che un giorno avrebbe dovuto saldare il suo debito con lei.


Un corvo passò alto sopra di lui; seguendone il volo, Roran si sentì risollevare il morale e sorrise. «Bene» si disse. Di rado a un uomo capita di sapere il giorno e l'ora in cui morirà. Potrei essere ucciso in qualsiasi momento, e non posso farci niente. Quello che accadrà accadrà, e non perderò il tempo che mi resta a rimuginarci sopra. Le disgrazie capitano sempre a quelli che le aspettano. Il trucco è trovare la felicità nei brevi intervalli fra un disastro e l'altro. Brigit farà quello che la coscienza le suggerisce, e io ci penserò quando verrà il momento.


Accanto al piede sinistro scorse un ciottolo giallastro che raccolse e si rigirò fra le dita. Concentrandosi al massimo, disse: «Stenr rïsa.» La pietra ignorò il suo comando e rimase immobile fra il pollice e l'indice. Roran sbuffò e la scagliò lontano.


Si alzò e si avviò di nuovo tra le file di tende. Mentre camminava, con un dito cercava di allentare un nodo che gli stringeva troppo il colletto, ma quello resisteva ai suoi sforzi, e alla fine si arrese quando arrivò alla tenda di Horst, grande il doppio delle altre. «Salve a tutti» disse, e batté sul palo fra i due lembi dell'ingresso.


Katrina uscì di corsa dalla tenda, con i capelli ramati al vento, e si gettò fra le sue braccia. Ridendo, Roran la prese per la vita e la fece girare in tondo. Il resto del mondo divenne una macchia nebulosa intorno allo splendore del suo viso. La depose a terra con delicatezza, e Katrina lo baciò sulle labbra, una, due, tre volte. Paralizzato dalla gioia, Roran la guardò dritto negli occhi, sentendosi più felice di quanto non fosse mai stato.


«Sai di buono» disse lei.


«Come va?» L'unica ombra nella gioia di Roran era vedere quanto la prigionia avesse lasciato Katrina pallida e smunta. Avrebbe voluto resuscitare i Ra'zac per far patire loro le stesse sofferenze che avevano inflitto a lei e a Garrow.


«Me lo chiedi ogni giorno, e ogni giorno ti rispondo: "Meglio." Abbi un po' di pazienza; mi riprenderò, ma ci vuole tempo... Il miglior rimedio per la mia condizione è stare con te sotto il sole. Mi fa più bene di quanto tu possa immaginare.»


«Non era questo che intendevo.»


Le guance di Katrina si colorarono di rosso, e lei gettò indietro la testa, le labbra arricciate in un sorrisetto malizioso. «Mio signore, sei audace. Un vero sfacciato, direi. Non sono sicura di voler restare da sola con te, per paura che tu ti prenda certe libertà.»


La risposta scherzosa placò le preoccupazioni di Roran. «Libertà, dici? Be', dato che mi consideri già una canaglia, mia signora, forse potrei prendermi un paio di quelle libertà.» E la baciò a lungo, finché non fu lei a sottrarsi, pur restando avvinta a lui. «Oh» disse Katrina, senza fiato. «Sei un uomo difficile da respingere, Roran Fortemartello.»


«Già.» Facendo un cenno col capo verso la tenda alle spalle di Katrina, Roran abbassò la voce e chiese: «Elain lo sa?»


«L'avrebbe già capito se non fosse così presa dalla sua gravidanza. Credo che la tensione accumulata nel viaggio da Carvahall possa farle rischiare di perdere il bambino. Ha le nausee quasi tutto il giorno e dei dolori che... be', non sono normali. C'è Gertrude a prendersi cura di lei, ma non può fare molto per alleviare la sua pena. Prima Eragon ritorna, meglio sarà per tutti. Non so per quanto tempo ancora potrò mantenere il segreto.»


«Ce la farai, ne sono certo.» Roran si sciolse dall'abbraccio e tirò l'orlo della tunica per lisciare le grinze. «Come sto?»


Katrina lo studiò con occhio critico, poi si inumidì la punta delle dita e gliele passò fra i capelli, scoprendogli la fronte. Notando il nodo ingarbugliato del colletto, prese ad allentarlo, dicendo: «Dovresti fare più attenzione a come ti vesti.»


«I vestiti non hanno mai cercato di uccidermi.»


«Be', le cose stanno in modo diverso, adesso. Sei il cugino di un Cavaliere dei Draghi, e dovresti fare la tua parte. La gente se lo aspetta.»


Roran le permise di lisciarlo e sistemarlo finché non fu soddisfatta del suo aspetto. Le diede un bacio di commiato, poi s'incamminò per mezzo miglio verso il centro dell'enorme accampamento dei Varden, dove si ergeva il padiglione rosso di Nasuada. Lo stendardo montato in cima, con lo scudo nero e due spade incrociate sotto, sventolava schioccando nel tiepido vento dell'est.


Le sei guardie fuori dal padiglione - due umani, due nani e due Urgali - incrociarono le armi quando Roran si avvicinò, e uno degli Urgali, un colosso dall'aria ferina e dalle zanne gialle, lo bloccò dicendo: «Chi va là?» Il suo accento era quasi incomprensibile.


«Roran Fortemartello, figlio di Garrow. Nasuada mi ha mandato a chiamare.»


Battendosi il pugno sul pettorale, che emise un forte clangore metallico, l'Urgali annunciò: «Roran Fortemartello chiede udienza, Lady Furianera.»


«Fallo entrare» rispose lei da dentro.


I guerrieri alzarono le armi e Roran passò in mezzo, circospetto. Loro lo fissarono e lui ricambiò l'occhiata con l'aria di chi è pronto a combattere.


Dentro il padiglione, Roran si allarmò nel vedere gran parte dei mobili rovesciati o distrutti. Gli unici che sembravano intatti erano uno specchio montato su un'asta e il grande scranno su cui era seduta Nasuada. Senza fare commenti, Roran posò un ginocchio a terra e chinò il capo.


L'aspetto e il portamento di Nasuada erano così diversi da quelli delle donne con cui Roran era cresciuto che il giovane uomo non sapeva come comportarsi. Aveva un che di singolare e maestoso, con il lungo abito ricamato e le catenelle d'oro intrecciate nei capelli, e la pelle scura che in quel momento aveva una sfumatura rossastra dovuta al colore del tessuto delle pareti. In netto contrasto con il resto, aveva gli avambracci fasciati di candide bende, testimonianza dello straordinario coraggio che aveva dimostrato alla Prova dei Lunghi Coltelli. La sua impresa era stata l'argomento principale delle conversazioni dei Varden fin da quando Roran era tornato con Katrina. Era uno dei pochi aspetti di lei che Roran sentiva di capire, perché anche lui sarebbe stato disposto a qualunque sacrificio pur di proteggere coloro che amava. Era solo un caso che lei avesse a cuore migliaia di persone, mentre lui voleva proteggere la sua famiglia e il suo villaggio.


«Prego, alzati» disse Nasuada. Lui fece come richiesto e posò la mano sulla testa del martello, mentre aspettava che lei lo osservasse. «La mia posizione mi consente di rado il lusso di parlare in modo diretto, Roran, ma oggi con te sarò franca. Mi sembri un uomo che apprezza la sincerità, e abbiamo tante cose di cui parlare e poco tempo a disposizione.»


«Ti ringrazio, mia signora. Non mi sono mai piaciuti i giri di parole.»


«Perfetto. E allora, per essere franca, ti dirò che mi hai messa di fronte a due problemi che non so come risolvere.»


Roran si accigliò. «Che genere di problemi?»


«Uno riguarda il carattere, l'altro è di natura politica. Le tue gesta nella Valle Palancar e poi durante la fuga con i tuoi compaesani sono a dir poco incredibili. Mi inducono a pensare che tu sia dotato di una mente brillante, e sia abile a combattere, a elaborare strategie, capace di indurre la gente a seguirti con indiscutibile lealtà.»


«Mi hanno seguito, certo, ma non hanno mai smesso di discutere.»


Un lieve sorriso le increspò le labbra. «Può darsi. Ma sono ancora tutti qui, non è vero? Roran, tu possiedi doti molto preziose per i Varden. Posso supporre che tu desideri metterle al nostro servizio?»


«Certo.»


«Come sai, Galbatorix ha diviso il suo esercito e ha inviato delle truppe a sud per dare man forte alla città di Arughia, a ovest verso Feinster, e a nord verso Belatona. Spera di prolungare la guerra nel tentativo di prosciugare le nostre forze attraverso piccole scaramucce. Io e Jörmundur non possiamo essere in una decina di posti diversi nello stesso momento. Abbiamo bisogno di capitani che possano occuparsi della miriade di scontri che scoppiano ovunque intorno a noi. È in questo frangente che potresti dimostrarci quanto vali. Ma...» La sua voce si spense.


«Ma non sai ancora se puoi fidarti di me.»


«Giusto. Proteggere gli amici e la famiglia è una cosa, ma come ti comporteresti senza di loro? Ti reggeranno i nervi? E pur sapendo comandare, saprai anche obbedire agli ordini? Non voglio sminuire il tuo valore, Roran, ma qui è in gioco il futuro di Alagaësia, e non posso rischiare di porre un incompetente a capo dei miei uomini. Questa guerra non perdona certi errori. Né sarebbe giusto, nei confronti degli uomini che sono fra i Varden da molto più tempo, darti il comando su di loro senza una giusta ragione. Devi meritare il tuo incarico.»


«Capisco. Che cosa vuoi che faccia, allora?»


«Ah, purtroppo non è così semplice, perché tu ed Eragon siete come fratelli, e questo complica le cose. Sono sicura che capisci benissimo che Eragon è la chiave di volta delle nostre speranze. È importante quindi proteggerlo da qualsiasi distrazione affinché si concentri sul compito che lo aspetta. Se ti mando in battaglia e tu muori, il dolore e la rabbia potrebbero sconvolgerlo. L'ho già visto succedere. Per giunta, devo stare molto attenta a chi ti pongo accanto, perché ci sono persone che cercheranno di influenzarti proprio per la tua parentela con Eragon. Perciò adesso hai un'idea abbastanza precisa della portata delle mie preoccupazioni. Hai qualcosa da dire in merito?»


«Se il mondo stesso è in gioco e la guerra imperversa in ogni angolo del paese come tu sostieni, allora dico che non puoi permetterti di lasciarmi da parte. E usarmi come soldato semplice sarebbe uno spreco di risorse. Ma questo già lo sai. Quanto alla politica...» Roran si strinse nelle spalle. «Non m'importa un accidente di chi mi metti accanto. Nessuno potrà arrivare a Eragon usandomi. Il mio unico obiettivo è sconfiggere l'Impero affinché la mia gente e la mia famiglia possano tornare a casa e vivere in pace.»


«Sei molto deciso.»


«Già. Non potresti farmi restare a capo degli uomini di Carvahall? Ci consideriamo tutti una grande famiglia, e lavoriamo bene insieme. Mettimi alla prova in questo modo, così i Varden non ne subiranno le conseguenze, se dovessi fallire.»


Nasuada scosse la testa. «No. In futuro, forse, ma non ancora. Hanno bisogno di un addestramento adeguato e non posso giudicare il tuo rendimento se sei circondato da uomini così fedeli da aver abbandonato le loro case e attraversato tutta Alagaësia su tua richiesta.»


Mi considera una minaccia, pensò Roran. La mia capacità di influenzare i miei compaesani la rende diffidente. Nel tentativo di tranquillizzarla, disse: «I miei compagni hanno avuto solo il buonsenso a guidarli. Sapevano che era una follia restare nella valle.»


«Non puoi spiegare così facilmente il loro comportamento, Roran.»


«Cosa vuoi da me, signora? Vuoi che ti serva oppure no? E se sì, come?»


«Questa è la mia offerta. Stamattina i miei stregoni hanno individuato una pattuglia di ventitré soldati di Galbatorix diretta a est. Sto per mandare un contingente agli ordini di Martland Barbarossa, conte di Thun, per distruggerli e nel contempo esplorare il territorio. Se sei d'accordo, servirai sotto Martland. Lo ascolterai, gli obbedirai e, si spera, imparerai da lui. Lui, a sua volta, ti osserverà e mi farà rapporto giudicando se sei adatto o meno a una promozione. Martland è un guerriero molto esperto, e mi fido della sua opinione. Ti pare un'offerta ragionevole, Roran Fortemartello?»


«Sì. Solo... quando dovrei partire, e per quanto tempo starò via?» «Dovresti partire oggi stesso e tornare nel giro di due settimane.»


«Allora sono costretto a chiederti se puoi aspettare e mandarmi con un'altra spedizione fra qualche giorno. Mi piacerebbe essere qui quando Eragon ritorna.»


«L'affetto che nutri per tuo cugino è ammirevole, ma gli eventi si susseguono in fretta e non possiamo permetterci indugi. Non appena saprò che fine ha fatto Eragon, chiederò a un membro del Du Vrangr Gata di cercarti per riferirti le notizie, buone o cattive che siano.»


Roran strofinava il pollice sullo spigolo aguzzo del martello mentre cercava di trovare una risposta che convincesse Nasuada a cambiare idea e nel contempo non lo costringesse a rivelare il proprio segreto. Alla fine capì che era impossibile e si rassegnò a dirle la verità. «Hai ragione. Sono preoccupato per Eragon, ma lui più di chiunque altro sa badare a se stesso. Vederlo sano e salvo non è l'unico motivo per cui voglio restare.»


«Perché allora?»


«Perché Katrina e io vogliamo sposarci, e ci piacerebbe che fosse Eragon a celebrare la cerimonia.»


Risuonò una rapida serie di ticchettii quando Nasuada cominciò a tamburellare con le unghie sui braccioli dello scranno. «Se credi che ti permetterò di ciondolare da queste parti mentre potresti essere di grande aiuto per i Varden solo perché tu e Katrina possiate godervi la vostra prima notte di nozze con qualche giorno di anticipo, allora ti sbagli di grosso.»


«È una questione piuttosto urgente, Lady Furianera.»


Le dita di Nasuada si fermarono a mezz'aria, e i suoi occhi si ridussero a due fessure. «Urgente quanto?»


«Prima ci sposiamo, meglio sarà per l'onore di Katrina. Se un po' mi conosci, sai che non ti chiederei mai un favore per me stesso.»


Nasuada inclinò la testa da un lato. «Capisco... Ma perché Eragon? Perché vuoi che sia lui a celebrare la cerimonia? Perché non qualcun altro, magari un membro anziano del tuo villaggio?»


«Perché è mio cugino e gli voglio bene, e perché è un Cavaliere. Katrina ha perso tutto per colpa mia... la casa, suo padre e la sua dote. Non posso rimpiazzare queste cose, ma voglio almeno regalarle una cerimonia di nozze degna di essere ricordata. Senza oro o bestiame, non posso pagare per un matrimonio sfarzoso, perciò devo trovare altri mezzi per rendere memorabili le nostre nozze, e mi pare che non ci sia niente di più grandioso che avere un Cavaliere dei Draghi che ci sposa.»


Nasuada rimase in silenzio così a lungo che Roran cominciò a chiedersi se era un segno di congedo. Poi: «Sarebbe certo un grande onore farsi celebrare il matrimonio da un Cavaliere dei Draghi, ma sarebbe una giornata triste per Katrina se dovesse accettare la tua mano senza una dote adeguata. I nani mi hanno ricoperta di oro e gioielli quando vivevo a Tronjheim. Alcuni li ho usati per finanziare i Varden, ma quello che mi resta basta ancora ad abbigliare una donna di raso e visone per molti anni a venire. Saranno di Katrina, se sei d'accordo.»


Stupefatto, Roran s'inchinò di nuovo. «Ti ringrazio. La tua generosità è commovente. Non so come potrò mai ripagarti.»


«Ripagami combattendo per i Varden come hai combattuto per Carvahall.»


«Lo farò, te lo giuro. Galbatorix maledirà il giorno che ha mandato i Ra'zac a cercarmi.»


«Sono sicura che lo sta già facendo. Ora vai. Potrai restare all'accampamento fino a quando Eragon non tornerà e celebrerà le tue nozze con Katrina. Ma mi aspetto di vederti già in sella il mattino dopo.»

♦ ♦ ♦


LUPO DI SANGUE

Che uomo fiero, pensò Nasuada guardando Roran uscire dal padiglione. Interessante: lui ed Eragon sono simili sotto molti aspetti, eppure sono diversi nel profondo. Eragon sarà anche uno dei più micidiali guerrieri di Alagaësia, ma non e una persona dura o crudele. Roran invece è tenace e inflessibile. Spero che non si metta mai sulla mia strada: sarei costretta a distruggerlo per fermarlo.

Controllò le bende e, soddisfatta che fossero ancora fresche e pulite, suonò la campanella per ordinare a Farica di servirle il pranzo. Dopo che la cameriera le ebbe portato il vassoio col cibo e si fu ritirata nella propria tenda, Nasuada fece un cenno a Elva, che emerse dal suo nascondiglio dietro il pannello in fondo al padiglione. Insieme condivisero il pasto di mezzogiorno.

Nasuada passò le due ore seguenti controllando gli ultimi rapporti sull'inventario dei Varden, calcolando il numero di convogli di carri necessari a spostare i Varden più a nord, sommando e sottraendo cifre che rappresentavano le finanze del suo esercito. Inviò messaggi ai nani e agli Urgali, ordinò ai fabbri di aumentare la produzione di punte di lancia, minacciò il Consiglio degli Anziani di scioglimento - come faceva quasi ogni settimana - e si occupò degli altri affari dei Varden. Poi, con Elva al fianco, balzò in sella al suo stallone Tempesta e andò a trovare Trianna, che aveva catturato un membro della rete di spionaggio di Galbatorix, la Mano Nera, e lo stava interrogando.

Mentre lasciava la tenda di Trianna insieme a Elva, Nasuada sentì un trambusto provenire da nord. Acclamazioni e grida di esultanza; poi un uomo emerse dalla foresta di tende, correndo verso di lei. Senza dire una parola, le guardie le formarono intorno un muro compatto, tranne un Urgali che si piazzò sul percorso dell'uomo, con la clava alzata. L'uomo rallentò fino a fermarsi e, ansante, gridò: «Lady Nasuada! Gli elfi sono qui! Gli elfi sono arrivati!»

Per un folle, improbabile momento, Nasuada pensò che intendesse la regina Islanzadi e il suo esercito, poi ricordò che Islanzadi era dalle parti di Ceunon: nemmeno gli elfi potevano spostare un intero esercito attraverso tutto il territorio di Alagaësia in meno di una settimana. Devono essere i dodici maghi che Islanzadi ha mandato per proteggere Eragon.

«Presto, il mio cavallo» disse, facendo schioccare le dita. Le braccia le bruciarono quando montò Tempesta. Aspettò che l'Urgali più vicino sollevasse Elva per farla montare in sella con lei, poi diede di sprone al destriero. I muscoli dell'animale scattarono come molle quando lei lo spinse al galoppo. China sul collo dell'animale, Nasuada lo guidò lungo un viale sterrato tra due file di tende, schivando uomini e bestie, saltando sopra un barile che le sbarrava la strada. Gli uomini non parvero prendersela, anzi, risero, e la inseguirono per vedere anche loro gli elfi con i propri occhi.

Quando arrivarono all'ingresso settentrionale dell'accampamento, Nasuada ed Elva scesero da cavallo e scrutarono l'orizzonte.


«Eccoli» disse Elva, puntando il dito.


A quasi due miglia di distanza, dodici figure alte e snelle emersero da un boschetto di ginepri, le sagome tremolanti nella calura del pomeriggio. Gli elfi correvano tutti insieme, così leggeri e veloci che i loro piedi non alzavano polvere, dando l'impressione che fluttuassero a mezz'aria. Nasuada si sentì formicolare la nuca; la loro velocità era affascinante, ma anche innaturale. Le ricordarono un branco di predatori che insegue una preda. Provò lo stesso senso di pericolo di quando aveva avvistato uno Shrrg, un lupo gigante, sui Monti Beor.


«Spettacolo intrigante, eh?»


Nasuada trasalì nel vedere Angela accanto a sé. La seccava e la turbava come l'erborista riuscisse sempre a comparire al suo fianco senza farsi notare. Elva avrebbe dovuto avvertirla del suo arrivo. «Come fai a essere sempre presente quando capita qualcosa di interessante?»


«Oh, be', mi piace sapere cosa succede, e trovarmi sul posto è molto più rapido che aspettare che qualcuno mi racconti dopo cosa è accaduto. La gente tende a tralasciare dettagli importanti, tipo se una persona ha l'anulare più lungo dell'indice, o se ha uno scudo magico a proteggerla, o se il mulo che cavalca ha sulla fronte una macchia a forma di testa di gallo. Non sei d'accordo anche tu?»


Nasuada aggrottò le sopracciglia. «Non riveli mai i tuoi segreti, non è vero?»


«A che scopo? Tutti si ecciterebbero per un incantesimo da quattro soldi e poi dovrei passare ore e ore a spiegarlo, e alla fine re Orrin vorrebbe la mia testa e dovrei sconfiggere metà dei vostri stregoni per fuggire. Non ne vale la pena, credo.»


«La tua risposta non ispira fiducia. Ma...»


«Questo perché sei troppo seria, Lady Furianera.»


«Ma dimmi» insistette Nasuada, «perché vorresti sapere se qualcuno cavalca un mulo con una macchia a forma di testa di gallo?»


«Ah, quello. Be', l'uomo che possiede quel mulo ha barato a una partita di astragali, vincendomi tre bottoni e una scheggia piuttosto interessante di cristallo fatato.»


«Ha imbrogliato te?»


Angela arricciò le labbra, con evidente fastidio. «Gli astragali erano truccati. Al momento opportuno li ho scambiati, ma lui deve averli scambiati di nuovo con i suoi mentre ero distratta... Non so ancora bene come ci sia riuscito.»


«Perciò avete barato entrambi.»


«Era un cristallo preziosissimo! E poi come si fa a imbrogliare un imbroglione?»


Prima che Nasuada potesse rispondere, i sei Falchineri arrivarono trafelati dall'accampamento e presero posizione intorno a lei. Nasuada nascose il suo disgusto quando il calore e l'odore che emanavano la investirono. Il fetore dei due Urgali era particolarmente acre. Poi, con sua sorpresa, il capitano di quel turno di guardia, un uomo tarchiato dal naso adunco che si chiamava Garven, le si accostò. «Mia signora, posso scambiare due parole con te in privato?» Parlò a denti stretti, come se si stesse sforzando di contenere una violenta emozione.


Angela ed Elva guardarono Nasuada, in attesa di un suo cenno che indicasse loro di allontanarsi. Lei annuì, e le due si avviarono verso il fiume Jiet. Quando fu certa che non erano più a portata d'orecchio, Nasuada cominciò a parlare, ma Garven la interruppe esclamando: «Dannazione, Lady Nasuada, non avresti dovuto lasciarci indietro!»


«Calmati, capitano» rispose lei. «Non c'era alcun rischio e volevo arrivare qui in tempo per accogliere gli elfi.»


La maglia di ferro risuonò forte quando Garven si colpì la coscia con un pugno. «Alcun rischio? Nemmeno un'ora fa hai avuto la prova che Galbatorix ha ancora agenti fra di noi. Continua a infiltrare spie, e tu ritieni opportuno abbandonare la tua scorta e cavalcare in un'orda di potenziali assassini come se niente fosse! Hai dimenticato l'agguato ad Aberon, o come i Gemelli hanno ucciso tuo padre?»


«Capitano Garven! Stai andando troppo oltre.»


«E andrei ancora più oltre, se servisse a proteggerti.»


Gli elfi, osservò Nasuada, avevano dimezzato la distanza dall'accampamento. Infuriata e desiderosa di concludere la conversazione, disse: «Non sono priva di protezione.»


Scoccando un'occhiata verso Elva, Garven disse: «Ne avevamo il sospetto, Lady Nasuada.» Seguì una pausa, come se il capitano sperasse in qualche altra informazione, ma quando Nasuada rimase in silenzio, Garven riprese: «Se eri davvero al sicuro, allora mi sono sbagliato ad accusarti d'imprudenza, e ti chiedo scusa. Tuttavia la sicurezza e la sua parvenza sono due cose differenti. Perché i Falchineri siano efficaci, dobbiamo essere i guerrieri più scaltri, più forti e più spietati di tutto il paese; la gente deve credere che siamo i più scaltri, i più forti e i più spietati. Devono credere che se cercano di pugnalarti o di colpirti con una freccia o di usare la magia contro di te, noi li fermeremo. Se sono convinti di avere le stesse probabilità di ucciderti che ha un topo contro un drago, allora è facile che rinuncino all'idea, e noi avremo evitato un attacco senza nemmeno alzare un dito.


«Non possiamo combattere tutti i tuoi nemici, Lady Nasuada. Ci vorrebbe un esercito solo per questo. Nemmeno Eragon riuscirebbe a salvarti se tutti coloro che ti vogliono morta entrassero in azione spinti dall'odio. Potresti sopravvivere a cento attentati, a mille, ma alla fine uno riuscirebbe. L'unica prevenzione consiste nel convincere la maggior parte dei tuoi nemici che non riusciranno mai a oltrepassare i Falchineri. La nostra reputazione può salvarti tanto quanto le nostre spade e le nostre armature. Quindi non è bene che la gente ti veda cavalcare senza di noi. Mi immagino che branco di imbecilli dovevamo sembrare prima, a inseguirti come disperati. Insomma, Lady Nasuada, se tu non ci rispetti, perché dovrebbero farlo gli altri?»


Garven si avvicinò, abbassando la voce. «Daremmo molto volentieri la vita per te, se fosse necessario. Tutto quello che ti chiediamo in cambio è di permetterci di fare il nostro dovere. È un piccolo favore, tutto sommato. E potrebbe venire il giorno in cui ci sarai grata per la nostra presenza. L'altra tua protezione è umana, e quindi fallace, quali che siano i suoi arcani poteri. Non ha prestato gli stessi giuramenti nell'antica lingua di noi Falchineri. Le sue simpatie potrebbero cambiare, e tu arriveresti a chiederti se il destino ti si è rivoltato contro. I Falchineri invece non ti tradiranno mai. Noi ti apparteniamo, Lady Nasuada, con tutto il corpo e con tutta l'anima. Perciò, ti prego, lascia che i Falchineri facciano quello che devono... Lasciati proteggere da noi.»


In un primo momento Nasuada era rimasta indifferente alle argomentazioni di Garven, ma la sua eloquenza e la chiarezza dei suoi ragionamenti la impressionarono. Garven, si disse, era un uomo che avrebbe potuto sfruttare per qualche altro incarico. «Vedo che Jörmundur mi ha circondata di guerrieri dalla lingua affilata come le loro spade» disse con un sorriso.


«Mia signora.»


«Hai ragione. Non avrei dovuto lasciare indietro te e i tuoi uomini, e mi rincresce. È stato un gesto imprudente e sconsiderato. Non mi sono ancora abituata a essere circondata di guardie a ogni ora del giorno e della notte, e a volte dimentico che non posso muovermi con la libertà di un tempo. Hai la mia parola d'onore, capitano Garven, che non accadrà mai più. Non desidero screditare i Falchineri più di quanto non lo desideri tu.»


«Ti ringrazio, mia signora.»


Nasuada si volse a guardare gli elfi, ma erano celati dall'argine di un torrente asciutto a un quarto di miglio di distanza. «Sai, Garven, mi viene in mente che potresti aver inventato un motto per i Falchineri giusto un minuto fa.»


«Un motto, mia signora? Non ricordo.»


«Invece sì. "I più scaltri, i più forti e i più spietati" hai detto. Sarebbe un bel motto, magari senza la e. Se gli altri Falchineri lo approvano, dirò a Trianna di tradurre la frase nell'antica lingua, e la farò incidere sui vostri scudi e ricamare sui vostri stendardi.»


«Sei molto generosa, mia signora. Quando torneremo ai nostri quartieri, discuterò la questione con Jörmundur e gli altri capitani. Solo che...»


Garven esitò e, indovinando che cosa lo turbava, Nasuada disse: «Solo che ti preoccupa che un motto del genere sia troppo banale per uomini nella vostra posizione, e preferiresti qualcosa di più nobile e altisonante, dico bene?»


«Sì, mia signora» rispose lui, con un'espressione di evidente sollievo.


«È una preoccupazione valida, immagino. I Falchineri rappresentano i Varden, e dovete intessere relazioni con i notabili di ogni razza e grado nell'esercizio delle vostre funzioni. Sarebbe inopportuno trasmettere l'impressione sbagliata... D'accordo, allora lascerò che siate tu e i tuoi camerati a inventare un motto adeguato. Sono sicura che farete un ottimo lavoro.»


In quel momento, i dodici elfi risalirono il letto del torrente asciutto e Garven, dopo aver mormorato altri ringraziamenti, si spostò a rispettosa distanza da Nasuada. Assumendo un contegno adeguato a una visita di stato, Nasuada fece cenno ad Angela e a Elva di tornare.


Ancora a parecchie iarde di distanza, l'elfo in testa al gruppo le parve nero come la pece dalla testa ai piedi. Lì per lì Nasuada pensò che avesse la pelle scura come la sua, e che fosse vestito di nero, ma via via che l'elfo si avvicinava la fanciulla si accorse che indossava soltanto un perizoma e una grossa cintura di tessuto intrecciato con una piccola borsa appesa. Il resto del corpo era coperto da una pelliccia blu notte che scintillava lustra sotto i raggi del sole. Ovunque la pelliccia era lunga meno di un quarto di pollice


- una liscia, flessuosa armatura che rifletteva la forma e i movimenti dei muscoli - ma sulle caviglie e sotto gli avambracci raggiungeva almeno i due pollici; dal centro delle scapole gli partiva una folta criniera che sporgeva di almeno un palmo e si assottigliava lungo la schiena fino alla base della spina dorsale. La fronte era ombreggiata da una tettoia di sopracciglia cespugliose e ciuffi di peli simili a quelli dei gatti gli sporgevano dalla sommità delle orecchie a punta; su tutto il resto del viso il pelo era corto e piatto, e soltanto il colore ne tradiva la presenza. Gli occhi erano di un giallo brillante, e invece delle unghie, ciascun dito medio recava un artiglio ricurvo. Quando rallentò per fermarsi davanti a Nasuada, lei notò che emanava un odore particolare: un misto muscoso e salmastro di legno di ginepro essiccato, cuoio ingrassato e fumo. Era un odore così forte e così indiscutibilmente maschio che Nasuada sentì la pelle farsi calda, poi fredda, formicolante di eccitazione. Arrossì, e fu contenta che il colore del suo incarnato celasse l'imbarazzo che provava.


Gli altri elfi erano più o meno come se li aspettava, con la medesima struttura fisica e il colorito di Arya, e indossavano corte tuniche arancio pallido e verde pino. Erano sei uomini e sei donne. Avevano tutti i capelli corvini, tranne due donne che li avevano chiari come raggi di stelle. Impossibile determinarne l'età, perché avevano tutti il viso liscio e senza una ruga. Erano i primi elfi, a parte Arya, che Nasuada incontrava di persona, ed era desiderosa di scoprire se Arya era rappresentativa della sua razza.


Toccandosi le labbra con due dita, il capo degli elfi s'inchinò, imitato dai compagni, poi voltò la mano destra portandola al petto e disse: «Saluti e felicitazioni a te, Nasuada, figlia di Ajihad. Atra esterní onto thelduin.» Il suo accento era più spiccato di quello di Arya: una cadenza cantilenante che trasformava le sue parole in musica.


«Atra du evarínya ono varda» rispose Nasuada, come le aveva insegnato Arya.


L'elfo sorrise, mostrando denti più aguzzi del normale. «Io sono Blödhgarm, figlio di Ildrid il Bello.» A turno presentò gli altri elfi, poi continuò. «Ti portiamo buone nuove dalla regina Islanzadi: la scorsa notte i nostri stregoni sono riusciti a distruggere i cancelli di Ceunon. In questo stesso momento le nostre forze avanzano verso la torre dove si è barricato Lord Tarrant. Alcuni ancora resistono, ma la città è caduta, e ben presto avremo il controllo totale su Ceunon.»


Le guardie di Nasuada e i Varden radunati alle sue spalle scoppiarono in un boato di esultanza. Anche lei si rallegrò della vittoria, ma uno strano senso d'inquietudine temperò la sua contentezza mentre si figurava gli elfi


- soprattutto quelli forti come Blödhgarm - intenti a invadere le case umane. Quali forze ultraterrene ho scatenato? si chiese. «Sono davvero buone nuove» disse «e sono lieta di sentirle. Con la caduta di Ceunon, siamo molto più vicini a Urû'baen, e quindi a Galbatorix e al raggiungimento dei nostri obiettivi.» Poi, con voce meno solenne, aggiunse: «Confido che la regina Islanzadi sarà clemente con gli abitanti di Ceunon, con coloro che non amano Galbatorix ma non hanno i mezzi o il coraggio per opporsi all'Impero.»


«La regina Islanzadi è gentile e misericordiosa con i propri sudditi, anche se sono sudditi riluttanti, ma se oseranno opporsi a noi, li spazzeremo via come foglie morte davanti a una tempesta d'autunno.»


«Non mi aspettavo niente di meno da una razza antica e potente come la vostra» replicò Nasuada. Dopo aver soddisfatto le esigenze di etichetta con altri convenevoli di una sconcertante banalità, Nasuada pensò che fosse arrivato il momento di affrontare la vera ragione della visita degli elfi. Ordinò alla folla radunata di disperdersi, poi disse: «Scopo della vostra venuta qui, mi pare di capire, è proteggere Eragon e Saphira. Dico bene?»


«Dici bene, Nasuada Svit-kona. E siamo al corrente del fatto che Eragon si trova ancora nell'Impero ma che tornerà presto.»


«E sapete anche che Arya è partita per andare a cercarlo e che ora viaggiano insieme?»


Le orecchie di Blödhgarm fremettero. «Sì, siamo stati informati anche di questo. È un vero peccato che si trovino entrambi in pericolo, ma sono convinto che non accadrà loro nulla di male.»


«Che cosa intendete fare, dunque? Andrete a cercarli e li scorterete di nuovo qui dai Varden? Oppure resterete in attesa, confidando nel fatto che Eragon e Arya sono capaci di difendersi da soli dai sicari di Galbatorix?»


«Resteremo qui come tuoi ospiti, Nasuada figlia di Ajihad. Eragon e Arya non correranno alcun pericolo finché non si faranno notare. Se li raggiungessimo nel cuore dell'Impero potremmo attirare attenzioni indesiderate. Date le circostanze, mi sembra preferibile impiegare il nostro tempo dove possiamo renderci utili. È molto probabile che Galbatorix attacchi qui, fra i Varden; in tal caso, e se Castigo e Murtagh dovessero ricomparire, Saphira avrà bisogno di tutto il nostro aiuto per combatterli.»


Nasuada rimase di stucco. «Eragon ha detto che eravate i migliori maghi della vostra razza, ma possedete davvero le capacità di annientare quella coppia maledetta? Come Galbatorix, i due hanno poteri che superano di gran lunga quelli di un normale Cavaliere.»


«Con Saphira al nostro fianco sì, siamo convinti di poter combattere e persino sconfiggere Castigo e Murtagh. Sappiamo di che cosa erano capaci i Rinnegati, e sebbene con ogni probabilità Galbatorix abbia reso Castigo e Murtagh più forti di qualsiasi Rinnegato, dubito che li abbia elevati al suo livello. Se non altro, la sua paura del tradimento gioca a nostro favore. Persino tre Rinnegati non potrebbero sconfiggere dodici di noi più un drago. Perciò siamo convinti di poter resistere a chiunque, tranne che a Galbatorix, s'intende.»


«Le tue parole mi rincuorano. Da quando Eragon è stato battuto da Murtagh, mi sono spesso domandata se non fosse il caso di ritirarci e nasconderci finché il suo potere non aumenterà. Ma le tue rassicurazioni mi convincono che c'è ancora speranza. Possiamo non avere idea di come uccidere Galbatorix, ma finché non abbatteremo i cancelli della sua fortezza a Urû'baen, o finché lui non deciderà di volare con Shruikan per affrontarci sul campo di battaglia, niente ci fermerà.» Fece una pausa. «Non mi hai dato alcuna ragione per non fidarmi di voi, Blödhgarm, ma prima che entriate nell'accampamento devo chiederti di permettere a uno dei miei uomini di toccarvi la mente per scoprire se siete veri elfi e non umani mandati da Galbatorix sotto mentite spoglie. Mi addolora doverti fare questa richiesta, ma siamo perseguitati da spie e traditori, e non possiamo credere a nessuno sulla parola. Non è mia intenzione arrecarvi offesa, ma la guerra ci ha insegnato che questo genere di precauzioni sono necessarie. Sono sicura che voi elfi, che avete circondato l'intera distesa di foglie della Du Weldenvarden con incantesimi di protezione, potete comprendere le mie ragioni. Per cui ti chiedo: acconsenti?»


Gli occhi e i denti di Blödhgarm scintillarono minacciosi mentre rispondeva: «Gli alberi della Du Weldenvarden in genere hanno aghi, non foglie. Mettici alla prova, se vuoi, ma ti avverto: a chiunque tu assegni il compito dovrai raccomandare di non indugiare troppo nella nostra mente, o potrebbe perdere il senno. È pericoloso per i mortali vagare nei nostri pensieri: possono smarrirsi facilmente e non essere più in grado di tornare nei loro corpi. E i nostri segreti non sono fatti per essere esplorati.»


Nasuada capiva. Gli elfi avrebbero annientato chiunque si fosse avventurato nel loro territorio proibito. «Capitano Garven» chiamò.


Facendo un passo avanti con l'espressione di un condannato, Garven si parò di fronte a Blödhgarm, chiuse gli occhi e si concentrò per frugare nella coscienza dell'elfo. Nasuada osservava nervosa la scena, mordicchiandosi il labbro. Quando era bambina, un uomo con una gamba sola di nome Hargrove le aveva insegnato a nascondere i suoi pensieri dai telepati e a bloccare e deviare gli affondi di un attacco mentale. In tutte e due le cose era abile, e sebbene non fosse mai riuscita a dare inizio al contatto con un'altra mente, conosceva i principi fondamentali del processo. Era quindi ben consapevole della difficoltà e della delicatezza di quanto Garven stava facendo, un compito reso ancora più arduo dalla strana natura degli elfi.


Sporgendosi verso di lei, Angela bisbigliò: «Avresti dovuto far controllare gli elfi a me. Sarebbe stato più sicuro.»


«Può darsi» disse Nasuada. Nonostante tutto l'aiuto che l'erborista aveva dato a lei e ai Varden, ancora non se la sentiva di affidarsi ad Angela per le questioni ufficiali.


Per qualche altro istante Garven continuò nei suoi sforzi, poi spalancò gli occhi di colpo e liberò il fiato con uno sbuffo. Aveva il collo e la faccia chiazzati di rosso per la fatica, e le pupille dilatate, come se fosse notte. Al contrario, Blödhgarm era imperturbabile: la pelliccia era liscia, il respiro regolare, e un fievole sorriso beffardo gli increspava gli angoli della bocca.


«Ebbene?» chiese Nasuada.


Garven parve impiegare qualche secondo di troppo nel rispondere, poi disse: «Non è umano, mia signora. Su questo non nutro alcun dubbio. Alcun dubbio di sorta.»


Soddisfatta ma turbata, perché c'era qualcosa di strano in quella risposta, Nasuada disse: «Molto bene. Procedi.» Da quel momento, Garven impiegò sempre meno tempo a esaminare ogni elfo e dedicò non più di una decina di secondi all'ultimo del gruppo. Nasuada lo tenne d'occhio per tutto il processo, e vide che le sue dita diventavano bianche ed esangui, e la pelle delle tempie gli si ritirava nel cranio come i timpani di una rana, e l'uomo acquistava il languido aspetto di una persona che nuota sott'acqua.


Dopo aver portato a termine l'incarico, Garven tornò al suo posto accanto a Nasuada. Ma era, si disse lei, un uomo cambiato. La determinazione e la fierezza di spirito di poco prima avevano lasciato il posto all'aria trasognata di un sonnambulo. La guardò quando lei gli domandò se stava bene, e rispose con voce abbastanza normale, ma Nasuada ebbe l'impressione che il suo spirito fosse lontano, smarrito fra le radure erbose e inondate di sole della misteriosa foresta degli elfi. Sperava che si riprendesse in fretta. In caso contrario, avrebbe chiesto a Eragon o ad Angela, o magari a entrambi, di prendersi cura di lui. Fino a quando le sue condizioni non fossero migliorate, non avrebbe più dovuto servirla come membro attivo dei Falchineri; Jörmundur gli avrebbe dato qualcosa di semplice da fare, così lei non si sarebbe sentita in colpa per avergli causato ulteriori sofferenze, e lui avrebbe potuto almeno godersi il piacere delle visioni che il contatto con gli elfi gli aveva lasciato dentro.


Amareggiata per la perdita, e infuriata con se stessa, con gli elfi, con Galbatorix e l'Impero per aver reso necessario un simile sacrificio, Nasuada faticò a mantenere a freno la lingua e a conservare le buone maniere. «Quando hai parlato di pericolo, Blödhgarm, avresti dovuto dire che anche coloro che riescono a tornare a sé non restano del tutto illesi.»


«Mia signora, io sto bene» disse Garven. Ma la sua protesta fu così debole e inconsistente che servì solo a rafforzare il senso di oltraggio di Nasuada.


Il pelo sul collo di Blödhgarm si rizzò. «Se non sono riuscito a spiegarmi con sufficiente chiarezza poco fa, allora domando scusa. Tuttavia non incolpare me per quello che è successo: non possiamo opporci alla nostra natura. E non incolpare nemmeno te stessa, perché viviamo in un'epoca di sospetti. Permetterci di passare senza controllarci sarebbe stata una negligenza imperdonabile da parte tua. È un peccato che un increscioso incidente debba segnare questo storico incontro fra di noi, ma almeno adesso puoi stare tranquilla, sicura di aver stabilito la nostra origine e quello che siamo: elfi della Du Weldenvarden.»


Una nuova zaffata di muschio avvolse Nasuada che, sebbene fremente di collera, si sentì sciogliere le membra e assalire da immagini di suonatori d'arpa vestiti di seta, allegri calici di vino e nostalgici canti di nani che aveva spesso sentito echeggiare nelle vuote sale di Tronjheim. Distratta, mormorò: «Avrei voluto che ci fossero stati Eragon e Arya qui, così avrebbero potuto controllare loro le vostre menti senza correre il rischio di perdere il senno.»


Ancora una volta si abbandonò alla sensuale attrazione dell'odore di Blödhgarm, immaginando come sarebbe stato far scorrere le dita nella sua criniera. Tornò in sé soltanto quando Elva le strattonò la manica sinistra, costringendola ad abbassarsi e ad avvicinare l'orecchio alla propria bocca. In tono aspro, Elva mormorò: «Marrubio. Concentrati sul sapore del marrubio.»


Seguendo il suo consiglio, Nasuada evocò un ricordo dell'anno prima, quando aveva assaggiato un confetto di marrubio durante uno dei banchetti di re Rothgar. Le bastò pensare al saporaccio di quel confetto per contrastare le qualità seducenti dell'odore di Blödhgarm. Cercò di nascondere il momentaneo smarrimento dicendo: «La mia giovane amica si domanda come mai sei così diverso dagli altri. Devo confessare che anch'io sono curiosa. Il tuo aspetto è molto lontano da come siamo abituati a immaginare gli elfi. Vorresti essere così gentile da illustrarci le ragioni delle tue caratteristiche più animalesche?»


Un'onda increspò la pelliccia lucente di Blödhgarm quando si strinse nelle spalle. «Mi piaceva questa forma» rispose. «Alcuni scrivono poesie sul sole e sulla luna, altri coltivano fiori o costruiscono grandiose strutture o compongono musica. Per quanto apprezzi le varie forme d'arte, credo che la vera bellezza risieda soltanto nelle zanne di un lupo, nella pelliccia di un gatto delle foreste, negli occhi di un'aquila. Così ho adottato questi attributi per me. Fra un altro centinaio d'anni, potrei perdere interesse per le creature della terra e decidere che invece sono le creature del mare a incarnare tutto ciò che c'è di buono, e allora mi ricoprirò di squame, trasformerò le mie mani in pinne e i piedi in coda, sparirò sotto la superficie delle onde e nessuno più mi rivedrà in Alagaësia.»


Se stava scherzando, cosa di cui Nasuada era convinta, non lo dava a vedere. Anzi, era così serio che Nasuada si domandò se non la stesse prendendo in giro. «Molto interessante» commentò lei. «Ma spero che l'impulso di trasformarti in pesce non ti colga troppo presto, perché ci servi qui, sul terreno asciutto. S'intende che se Galbatorix decidesse di arruolare anche squali e scorpene, be', allora un mago capace di respirare sott'acqua ci sarebbe molto utile.»


Senza alcun preavviso, i dodici elfi riempirono l'aria con le loro limpide risate argentine, e gli uccelli nel raggio di oltre un miglio si misero a cantare. Il suono della loro ilarità somigliava allo scorrere dell'acqua su un cristallo. Nasuada sorrise senza volerlo, e intorno a lei vide simili espressioni sui volti delle guardie. Perfino i due Urgali sembravano ebbri di gioia. E quando gli elfi tacquero e il mondo tornò alla sua normalità, Nasuada provò la stessa tristezza di quando svanisce un bel sogno. Un velo di lacrime le annebbiò la vista per qualche istante, e poi anche quello si dissolse.


Sorridendo per la prima volta, e mostrando così un volto al tempo stesso bello e terribile, Blödhgarm disse: «Sarà un onore servire una donna intelligente, capace e arguta come te, Lady Nasuada. Uno di questi giorni, quando i tuoi impegni te lo permetteranno, mi piacerebbe insegnarti a giocare a Rune. Saresti un'avversaria formidabile, ne sono certo.»


L'improvviso mutamento nel tono degli elfi le ricordò una parola che aveva sentito usare di tanto in tanto dai nani per descriverli: capricciosi. Quando era una bambina le era sembrata una descrizione innocua: rafforzava la sua idea che gli elfi fossero creature saltellanti da una delizia all'altra, come fate in un giardino fiorito. Ma adesso capiva che i nani intendevano dire Attenzione! Perché gli elfi sono imprevedibili. Sospirò, avvilita dalla prospettiva di dover trattare con un altro gruppo di esseri decisi a manipolarla per i propri interessi. La vita è sempre così complicata? si chiese. O sono io che attiro le complicazioni?


Dall'accampamento, Nasuada vide arrivare re Orrin a cavallo, alla testa di un affollato corteo di nobili, cortigiani, burocrati di vario livello, consiglieri, assistenti, servitori, soldati, e una pletora di altri funzionari che non si prese il disturbo d'identificare, mentre da ovest, in discesa libera con le ali spiegate, vide arrivare Saphira. Consapevole degli imminenti, noiosi scambi di formalità, disse: «Passeranno parecchi mesi prima che io abbia l'opportunità di accettare la tua offerta, Blödhgarm, ma l'apprezzo comunque. Mi piacerebbe distrarmi con una partita dopo una lunga giornata di lavoro, ma deve restare un piacere differito. La società umana sta per abbattersi su di voi con tutto il suo peso. Vi suggerisco di prepararvi a una valanga di nomi, domande e richieste. Noi umani siamo una razza curiosa, e nessuno ha mai visto tanti elfi tutti insieme prima d'ora.»


«Siamo preparati a questo, Lady Nasuada» la rassicurò Blödhgarm.


Mentre il corteo rumoreggiante di re Orrin si avvicinava e Saphira si accingeva ad atterrare, schiacciando l'erba con lo spostamento d'aria provocato dalle sue ali, l'ultimo pensiero di Nasuada fu: Oh, cielo. Dovrò mettere un intero battaglione a guardia di Blödhgarm per impedire che le donne dell'accampamento se lo contendano facendolo a pezzi. E anche questo potrebbe non risolvere il problema!

♦ ♦ ♦


PIETÀ, CAVALIERE DEI DRAGHI

Era il pomeriggio del giorno dopo la partenza da Agrod'est quando Eragon percepì una pattuglia di quindici soldati davanti a loro.


Lo disse ad Arya, e lei annuì. «Li avevo sentiti anch'io.» Nessuno dei due espresse preoccupazione ad alta voce, ma Eragon si sentì torcere le viscere dall'ansia, e notò che Arya arricciava le sopracciglia in un feroce cipiglio.


Il panorama intorno a loro era aperto e pianeggiante, senza un posto dove nascondersi. Avevano già incontrato gruppi di soldati prima, ma sempre quando erano in compagnia di altri viaggiatori. Ora invece erano soli su una strada a malapena visibile.


«Potremmo scavare una buca con la magia, coprirla di frasche e nasconderci lì finché non passano» suggerì Eragon.


Arya scosse la testa senza interrompere la corsa. «E cosa faremmo della terra smossa? Penserebbero di aver trovato la più grossa tana di tasso del mondo. E poi preferisco risparmiare energie per correre.»


Eragon sbuffò. Non so quante miglia ancora mi sono rimaste nelle gambe. Non gli mancava il fiato, ma il continuo urto col terreno lo stava affaticando. Gli facevano male le ginocchia, aveva le caviglie gonfie, gli alluci irritati e rossi, e continuavano a scoppiargli le vesciche sui talloni, per quanto se li fosse fasciati stretti. La notte prima aveva guarito diversi acciacchi, e sebbene avesse provato un certo sollievo, gli incantesimi avevano acuito il suo sfinimento.


La pattuglia fu visibile solo come un pennacchio di polvere per circa una mezz'ora prima che Eragon riuscisse a distinguere le sagome degli uomini e dei cavalli alla base della nuvola giallastra. Dato che lui e Arya avevano una vista molto più acuta degli umani, era improbabile che i cavalieri li scorgessero da quella distanza, così continuarono a correre per un'altra decina di minuti. Poi si fermarono. Arya prese il vestito dallo zaino e lo indossò sopra i pantaloni che si era messa per correre, ed Eragon nascose l'anello di Brom nello zaino e si sporcò la mano destra di terra per celare il gedwëy ignasia. Ripresero a camminare a testa bassa e spalle curve, trascinando i piedi. Se tutto fosse andato per il verso giusto, i soldati avrebbero pensato che erano solo altri due profughi stanchi.


Eragon riusciva già a sentire il rombo degli zoccoli in avvicinamento e le grida degli uomini che spronavano i cavalli, ma ci volle ancora quasi un'ora prima che i due gruppi s'incrociassero sulla vasta pianura. Eragon e Arya si spostarono dalla strada e abbassarono il capo. Sbirciando da sotto le sopracciglia, Eragon scorse le zampe dei cavalli in testa, poi la polvere sollevata oscurò il resto della pattuglia e costrinse Eragon a chiudere gli occhi. Con le orecchie tese, contò finché non fu sicuro che almeno metà della pattuglia si fosse allontanata. Non hanno intenzione di fermarsi a farci domande! pensò.


Il suo sollievo fu di breve durata. Un istante dopo, qualcuno nel vortice di polvere gridò: «Compagnia, alt!» Risuonò un coro di Whoa, Fermo e Buono qui, mentre i quindici uomini incitavano i cavalli a formare un circolo intorno a Eragon e Arya. Prima che i soldati completassero la manovra di accerchiamento e l'aria si facesse più tersa, Eragon si chinò a raccogliere un grosso ciottolo e si raddrizzò.


«Fermo!» sibilò Arya.


Mentre aspettava che i soldati manifestassero le proprie intenzioni, Eragon si sforzò di calmare il cuore che gli batteva all'impazzata ripassando la storia che lui e Arya avevano inventato per giustificare la loro presenza in una zona così vicina al Surda. I suoi tentativi fallirono, perché malgrado la forza, l'addestramento, la consapevolezza di aver vinto tante battaglie e la mezza dozzina di incantesimi di difesa che lo proteggevano, la sua carne restava convinta che ferite o morte fossero imminenti. Sentiva le viscere in subbuglio, la gola contratta, le gambe molli e vacillanti. Oh, facciamola finita! pensò. Avrebbe voluto qualcosa da fare a pezzi con le mani, come se un atto distruttivo potesse alleviare la tensione che si andava accumulando dentro di lui, ma quella smania servì soltanto ad aumentare la sua frustrazione, perché non osava muoversi. L'unica cosa che gli dava coraggio era la presenza di Arya. Si sarebbe volentieri tagliato una mano prima di farsi considerare un vigliacco da lei. E sebbene Arya fosse una valorosa guerriera, Eragon provava ancora il desiderio di difenderla.


La voce che aveva ordinato alla pattuglia di fermarsi tornò a farsi sentire. «Mostratevi in volto.» Eragon alzò il capo e vide un uomo in groppa a un roano da battaglia, le mani guantate strette intorno al pomolo della sella. Sopra il labbro gli crescevano baffi enormi e riccioluti che, dopo aver contornato gli angoli della bocca, si allungavano in orizzontale su ciascun lato del volto per nove pollici buoni, in netto contrasto con i capelli lisci che gli ricadevano sulle spalle. Eragon si domandò come facessero quelle due spirali scolpite a restare sospese, soprattutto perché erano opache e ispide, chiaramente non impregnate di cera d'api.

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