Libro secondo.

Capitolo primo

Denubis camminava con passo lento lungo gli ampi ed ariosi corridoi del Tempio degli dei di Istar, pieno di luce. Il suo sguardo era fisso sugli intricati disegni del pavimento. Si sarebbe potuto supporre, nel vederlo camminare così senza una meta, e preoccupato, che il chierico fosse insensibile al fatto che stava camminando nel cuore dell’universo. Ma Denubis non era insensibile a questo fatto, né questo era un fatto che avrebbe dimenticato tanto facilmente. Per timore che accadesse, il Gran Sacerdote glielo ricordava nel quotidiano richiamo alla preghiera.

«Siamo nel cuore dell’universo,» diceva il Gran Sacerdote con una voce talmente musicale e bella che talvolta ci si dimenticava di ascoltare le parole. «Istar, città amata dagli dei, è il centro dell’universo e noi, trovandoci al centro della città, siamo perciò il centro dell’universo. Così come il sangue scorre dal cuore, portando nutrimento perfino al più piccolo dito del piede, così la nostra fede e i nostri insegnamenti scorrono da questo grande tempio al più piccolo, al più insignificante fra noi. Ricordatevi di questo mentre andate in giro ad assolvere i vostri doveri quotidiani, poiché voi che lavorate qui siete i favoriti degli dei. Così come quando si tocca il filo più sottile d’una serica ragnatela i tremiti si diffondono all’intera struttura, così la vostra più piccola azione potrebbe diffondere i suoi tremiti attraverso l’intero Krynn.»

Denubis rabbrividì. Avrebbe desiderato che il Gran Sacerdote non usasse quella particolare metafora. Denubis detestava i ragni. Odiava tutti gli insetti, in realtà; era una cosa che non avrebbe mai ammesso e che, in verità, lo faceva sentire colpevole. Non gli veniva forse comandato di amare tutte le creature, salvo, naturalmente, quelle create dalla Regina delle Tenebre? Ciò comprendeva gli orchi, i goblin, i troll, e le altre razze malefiche, ma Denubis non era sicuro dei ragni. Aveva sempre avuto l’intenzione di chiederlo, ma sapeva che ciò avrebbe comportato una lunga ora di discussioni filosofiche tra i Reverendi Figli, e, semplicemente, pensava che non ne valesse la pena.

Avrebbe continuato ad odiare i ragni, in segreto. Denubis si schiaffeggiò delicatamente la testa che stava diventando calva. Come aveva fatto la sua mente a divagare sui ragni? Sto diventando vecchio, pensò con un sospiro. Ben presto sarò come il povero Arabacus, starò tutto il giorno senza far niente, passerò il tempo a dormire in giardino fino a quando qualcuno non mi sveglierà per la cena. A questo pensiero Denubis sospirò di nuovo, ma era più un sospiro d’invidia che di pietà.

Povero Arabacus davvero! Per lo meno gli viene risparmiato... «Denubis...»

Denubis si fermò. Guardò a destra e a sinistra lungo l’ampio corridoio, ma non vide nessuno. Il chierico rabbrividì. Aveva sentito quella voce Suadente, oppure l’aveva soltanto immaginata?

«Denubis,» risuonò di nuovo la voce.

Questa volta il chierico scrutò con maggiore attenzione tra le ombre formate dalle gigantesche colonne di marmo che sorreggevano il soffitto dorato. Adesso, un’ombra più scura, una chiazza d’oscurità più intensa dentro la tenebra, era distinguibile. Denubis frenò un’esclamazione irritata.

Sforzandosi di dominare un nuovo tremito che spazzò il suo corpo, arrestò i propri passi, poi riprese ad avanzare lentamente verso la figura che si trovava in mezzo alle ombre, sapendo che non sarebbe mai uscita da quell’oscurità diffusa per venirgli incontro. Non che la luce fosse nociva a colui che stava aspettando Denubis, come era indubbiamente nociva ad alcune delle creature delle tenebre.

No, era semplicemente che lui preferiva le ombre. Tutto teatro, pensò Denubis, sarcastico.

«Mi hai chiamato, Oscuro?» chiese Denubis, con una voce che si sforzò in ogni modo di rendere piacevole.

Vide un sorriso sul volto nell’ombra, e Denubis seppe subito che tutti i suoi pensieri erano ben conosciuti da quell’uomo.

«Dannazione!» imprecò Denubis (un’abitudine, questa, deplorata dal Gran Sacerdote, ma un’abitudine che Denubis, un uomo semplice, non era mai stato capace di vincere). «Perché mai il Gran Sacerdote lo tiene a corte? Perché non spedirlo via, come sono stati banditi gli altri?»

Lo disse a se stesso, naturalmente, perché, nel suo più profondo intimo, Denubis conosceva la risposta. Questo era troppo pericoloso, troppo potente. Questo non era come gli altri. Il Gran Sacerdote lo teneva come si tiene un cane feroce per proteggere la propria casa, sapendo che il cane attaccherà quando gli verrà ordinato, ma controllando in continuazione la robustezza del guinzaglio del cane. Se il guinzaglio si fosse rotto, il cane sarebbe balzato alla gola del suo stesso padrone.

«Mi spiace di averti disturbato, Denubis,» disse l’uomo con la sua voce vellutata, «specialmente quando ti vedo assorto in pensieri così impegnativi. Ma un evento di grande importanza sta avvenendo, proprio mentre parliamo. Prendi uno squadrone di guardie del Tempio e vai sulla piazza del mercato. Là, all’incrocio, troverai una Reverenda Figlia di Paladine. È quasi prossima alla morte. E lì troverai anche l’uomo che l’ha aggredita.»

Denubis spalancò gli occhi, poi li strinse, colto da un improvviso sospetto.

«Come fai a saperlo?» s’informò.

La figura immersa nell’ombra si mosse, le linee scure formate dalle labbra sottili si allargarono: la sua miglior approssimazione d’una risata.

«Denubis,» lo rimbrottò la figura, «mi conosci da molti anni. Chiedi forse al vento come soffia? Interroghi forse le stelle per scoprire come risplendono? Io lo so, Denubis. Che ciò ti sia sufficiente.»

«Ma...» Denubis si portò le mani alla testa in preda alla confusione. Ciò avrebbe comportato spiegazioni, rapporti fatti alle autorità competenti. Non si poteva far spuntare dal nulla uno squadrone di guardie del Tempio! «Spicciati, Denubis,» lo sollecitò l’uomo, con cortesia. «Non vivrà a lungo...»

Denubis deglutì. Un’aggressione a una Reverenda Figlia di Paladine! Una Reverenda Figlia morente sulla piazza del mercato! Probabilmente circondata da una folla che la stava guardando a bocca spalancata. Lo scandalo! Il Gran Sacerdote sarebbe stato molto scontento...

Il chierico aprì la bocca, poi tornò a chiuderla di scatto. Fissò per un momento la figura in mezzo alle ombre poi, non ricavandone nessun aiuto, Denubis si girò di colpo e, in mezzo a uno svolazzare di vesti, rifece di corsa il corridoio nella direzione dalla quale era venuto, con i sandali che sbattevano sul pavimento di marmo.

Raggiunto il quartier generale centrale del Capitano della Guardia, Denubis riuscì a esporre la sua richiesta con voce affannosa al comandante di turno. Come aveva previsto, questo causò ogni sorta di agitazione. Aspettando che il comandante generale in persona arrivasse, Denubis si accascio su una sedia e cercò di riprender fiato.

L’identità del creatore dei ragni poteva anche essere messa in discussione, pensò Denubis con amarezza, ma non c’era assolutamente nessun dubbio nella sua mente sul creatore di quella creatura delle tenebre che, certamente, se ne stava là in mezzo alle ombre e lo derideva.

«Tasslehoff!»

Il kender aprì gli occhi. Per qualche istante non ebbe nessuna idea di dove si trovava o perfino chi fosse. Aveva sentito una voce pronunciare un nome che gli suonava vagamente familiare. Confuso, il kender si guardò intorno. Giaceva sopra un omone, il quale era disteso supino nel mezzo di una strada. L’omone lo stava guardando in preda a un vivo stupore, forse perché Tas era appollaiato sul suo ampio stomaco. ; «Tas?» ripetè l’omone, e questa volta il suo volto mostrò perplessità. «Dovresti essere qui?»

«N... non ne sono affatto sicuro,» rispose il kender, chiedendosi chi (fosse Tas. Poi tutto gli ritornò alla memoria: Par-Salian che salmodiava, egli che si strappava l’anello dal pollice, la luce accecante, le pietre che cantavano, lo stridulo urlo di orrore del mago...

«Certo che dovrei essere qui,» sbottò Tas, irritato, escludendo dalla propria mente il ricordo del grido di paura di Par-Salian. «Non credevi mica che ti avrei lasciato tornare indietro nel tempo da solo, vero?» Il kender era praticamente naso a naso con l’omone. L’espressione perplessa di Caramon si rabbuiò. Le sopracciglia si corrugarono. «Non ne sono sicuro,» borbottò, «ma non credo che tu...»

«Insomma, io sono qui.» Tas rotolò giù dal corpo tondeggiante di ;Caramon per atterrare sull’acciottolato sotto di loro. «Dovunque si trovi “qui”,» borbottò fra i denti. «Lascia che ti aiuti ad alzarti,» disse ancora »,a Caramon, porgendogli la piccola mano, sperando con quel gesto di distogliere l’attenzione di Caramon dalla sua persona. Tas non sapeva se potesse o no venir rispedito indietro, ma non aveva nessuna intenzione di scoprirlo.

Caramon lottò per rizzarsi a sedere, assomigliando in tutto e per tutto ad una tartaruga rovesciata, pensò Tas con una risatina. E fu allora che il -kender si accorse che Caramon era vestito in maniera assai diversa da com’era abbigliato quando aveva lasciato la Torre. Allora aveva indosso la sua armatura (o almeno quei pezzi che era riuscito a infilarsi), e una ampia tunica fatta di buon tessuto e cucita con amore da Tika.

Ma adesso era rivestito d’un tessuto ruvido, cucito insieme alla bell’e meglio. Un rozzo panciotto di cuoio gli pendeva dalle spalle. Un tempo quel panciotto poteva anche essere stato abbottonato, ma se era stato così, adesso i bottoni non c’erano più. Comunque, i bottoni non erano necessari, pensò Tas, poiché non ci sarebbe stato nessun modo di tirare sul davanti il panciotto così da fargli coprire il ventre cascante di Caramon. Un paio di brache, con le borse, e stivali di cuoio rattoppati ma con un grosso foro sopra l’alluce di un piede completavano quell’immagine assai poco attraente.

? «Pfiuuu!» bofonchiò Caramon annusando l’aria. «Cos’è questo orribile odore?»

«Tu,» disse Tas tappandosi il naso e agitando la mano come se ciò potesse dissipare il tanfo. Caramon puzzava di spirito dei nani! Il kender lo fissò con attenzione. Caramon era sobrio quand’erano partiti, e certo appariva sobrio adesso. I suoi occhi, seppure confusi, erano limpidi, e si teneva dritto in piedi senza ondeggiare.

L’omone abbassò lo sguardo e, per la prima volta, vide se stesso.

«Cosa? Come?» chiese, sconcertato.

«Si potrebbe pensare,» disse Tas con voce severa, fissando con disgusto gli indumenti di Caramon,

«che i maghi avrebbero potuto permettersi qualcosa di meglio! Voglio dire, so che questo incantesimo dev’essere difficile per il vestiario, ma certamente...»

Un pensiero improvviso gli balenò nella mente. Spaventato, Tas abbassò lo sguardo sui propri indumenti, poi tirò un sospiro di sollievo. Non gli era successo niente. Aveva ancora addosso, perfino, le sue borse, tutte perfettamente intatte. Nel suo intimo, una voce rimbrottante gli ricordò che forse ciò era dovuto al fatto che non era stato previsto che lui si trovasse là, ma il kender preferì opportunamente ignorarla.

«Be’, diamo un’occhiata intorno,» esclamò Tas con allegria, facendo seguire l’azione alle parole.

Era già riuscito a indovinare dove si trovavano dall’odore: erano in un vicolo. Il kender arricciò il naso. Aveva creduto all’inizio che tutto quel tanfo s’irradiasse da Caramon! Ma, pieno di spazzatura e di rifiuti di ogni genere, quel vicolo era scuro, all’ombra di un gigantesco edificio di pietra.

Tuttavia era giorno, Tas lo capì lanciando un’occhiata all’estremità del vicolo dove poteva intravedere quella che sembrava una strada animata, affollata di gente che andava e veniva.

«Credo sia un mercato,» disse Tas, interessato, avviandosi verso l’estremità aperta del vicolo per indagare. «In che città hai detto che ci hanno spedito?»

«Istar,» sentì Caramon mugugnare alle sue spalle. Poi: «Tas!»

Cogliendo una nota di spavento nella voce di Caramon, il kender si affrettò a girarsi, portando subito la mano al piccolo pugnale che teneva infilato alla cintura. Caramon era inginocchiato accanto a qualcosa disteso nel vicolo.

«Cosa c’è?» gridò Tas, tornando indietro di corsa.

«Dama Crysania,» disse Caramon, sollevando un mantello scuro.

«Caramon!» Tas cacciò un rantolo orribile. «Cosa le hanno fatto? La loro magia è forse andata storta?»

«Non lo so,» replicò Caramon con voce sommessa, «ma dobbiamo cercare aiuto.» Facendo attenzione coprì con il mantello il volto insanguinato e coperto di lividi della donna.

«Vado io,» si offrì Tas. «Tu rimani qui con lei, questa non mi sembra una parte della città molto raccomandabile, se capisci cosa voglio dire.»

«Già,» annuì Caramon con un greve sospiro.

«Tutto andrà bene,» aggiunse Tas, battendo una mano sulla spalla dell’omone per rassicurarlo.

Caramon annuì ma non disse niente. Con un ultimo colpetto sulla spalla dell’amico, Tas si girò e rifece di corsa il vicolo in direzione della strada. Raggiunta l’estremità aperta, sfrecciò fuori sul marciapiede.

«Aiut...» cominciò a gridare, ma nel medesimo istante una mano si Itrinse sul suo braccio con una morsa d’acciaio, sollevandolo di peso da terra. «Su, dimmi,» gl’intimò una voce severa. «Dove stai andando?»

Tas si contorse e vide un uomo barbuto, il volto parzialmente coperto dal visore luccicante dell’elmo, che lo fissava con gelidi occhi scuri.

Il kender si rese subito conto che era una guardia civica, avendo avuto una rilevante dose di esperienze con quel tipo di personaggi ufficiali.

«Diamine, stavo cercando proprio voi,» esclamò Tas, cercando di liberarsi, dimenandosi e assumendo allo stesso tempo un’aria innocente.

«Davvero probabile come storia, da parte di un kender!» sbuffò la guardia, stringendo Tas ancora più saldamente nella sua morsa. «Se fosse vero, sarebbe certamente un avvenimento storico a Krynn.»

«Ma è vero,» insistè Tas, fissando l’uomo, indignato. «C’è una nostra amica ferita, laggiù.»

Vide la guardia lanciare un’occhiata ad un uomo che non aveva notato prima, un chierico vestito di bianco. Tas s’illuminò. «Oh? Un chierico? come...»

La guardia schiacciò la mano sulla bocca del kender.

«Cosa pensi, Denubis? Quello laggiù è il Vicolo dei Mendicanti, probabilmente è un accoltellamento, niente più che un litigio fra ladri.»

Il chierico era un uomo di mezza età, i cui capelli cominciavano a diradarsi; la sua faccia era piuttosto seria e melanconica. Tas vide che stava osservando tutt’ intorno la piazza del mercato, scuotendo la testa. «l’oscuro ha parlato delle trasversali, e questa lo è... sì, lo è, e ciò basta come garanzia di verità. Quindi dovremmo indagare.»

«Molto bene.» La guardia scrollò le spalle. Chiamò due dei suoi uomini e indicò loro il vicolo, seguendoli con lo sguardo mentre vi s’inoltravano. Continuò a tenere la mano sulla bocca del kender e Tas, che stava lentamente soffocando, produsse un patetico squittio.

Il chierico, che stava seguendo con sguardo ansioso le due guardie, lanciò un’occhiata dietro di sé.

«Lascialo respirare, capitano,» disse.

«Dovremo ascoltare le sue chiacchiere,» bofonchiò il capitano, irritato, ma tolse la mano dalla bocca di Tas.

«Se ne starà tranquillo... non è vero?» chiese il chierico, guardando con occhi fin troppo gentili il kender . «Si rende conto di quanto sia seria questa faccenda, non è vero?»

Per niente sicuro se il chierico stesse parlando con lui o col capitano, o con entrambi, Tas pensò che la cosa migliore fosse quella di limitarsi ad annuire il proprio consenso. Soddisfatto, il chierico tornò a voltarsi verso le guardie. Tas si contorse nella stretta del capitano, quanto bastava perchè anche lui fosse in grado di vedere. Vide Caramon alzarsi in piedi, indicando con un gesto il fagotto scuro e informe che giaceva accanto a lui. Una delle guardie s’inginocchiò e tirò da parte il mantello.

«Capitano!» urlò, mentre l’altra guardia afferrava prontamente Caramon. Colto di sorpresa e infuriato per quel brusco trattamento, l’omone si liberò con uno strattone della guardia. La guardia lanciò un urlo, il suo compagno balzò in piedi. Vi fu un balenare d’acciaio.

«Maledizione!» imprecò il capitano. «Ecco, sorveglia questo piccolo bastardo, Denubis!».

Scaraventò Tasslehoff in direzione del chierico.

«Non dovrei andare io?» protestò Denubis, afferrando Tas al volo quando il kender gli piombò addosso, inciampando su di lui.

«No!» Il capitano stava già correndo lungo il vicolo, la spada corta sguainata. Tas lo sentì ringhiare qualcosa come, «grosso bruto... pericoloso.»

«Caramon non è pericoloso,» protestò Tas, levando lo sguardo preoccupato sul chierico chiamato Denubis. «Non gli faranno del male, vero? Cosa c’è che non va?»

«Temo che lo scopriremo molto presto,» disse Denubis con voce severa, ma stringendo Tas con tanta delicatezza che il kender avrebbe potuto facilmente liberarsi. Dapprima Tas valutò la possibilità di fuggire, non c’era posto migliore in cui nascondersi del grande mercato di una città.

Ma quel pensiero fu soltanto un riflesso, proprio come il brusco movimento di Caramon quando si era liberato della guardia. Tas non poteva abbandonare il suo amico.

«Non gli faranno del male se verrà in pace,» sospirò Denubis. «Però, se dovesse aver fatto...». Il chierico rabbrividì e ristette per un attimo. «Be’, se avesse fatto quello... qui potrebbe trovare una morte più facile.»

«Fatto cosa?» Tas si sentiva ancora più confuso. Anche Caramon appariva confuso, poiché Tas lo vide sollevare le mani per protestare la propria innocenza.

Ma mentre discuteva, una delle guardie si avvicinò alle spalle dell’omone e lo colpì dietro i ginocchi con l’asta della lancia. Le gambe di Caramon cedettero. Mentre barcollava, la guardia davanti a lui lo fece cadere al suolo con un colpo al petto vibrato quasi con noncuranza.

Caramon non aveva ancora toccato il selciato e già la lancia gli era stata puntata alla gola. Sollevò debolmente le mani in un gesto di resa. Rapidamente le guardie lo fecero rotolare sullo stomaco e, afferrandogli le mani, gliele legarono dietro la schiena in pochi istanti, con consumata esperienza.

«Falli smettere!» gridò Tas, sporgendosi in avanti con uno sforzo. «Non possono far questo...»

Il chierico lo afferrò. «No, piccolo amico, è meglio per te che tu rimanga con me. Per favore,» aggiunse Denubis, gentilmente, tenendo stretto Tas per le spalle. «Non puoi aiutarlo, e tentare non può far altro che peggiorare le cose, per lui.»

Le guardie trascinarono in piedi Caramon e cominciarono a perquisirlo minuziosamente, infilando perfino le mani dentro le sue brache di cuoio. Trovarono un pugnale alla sua cintura, che porsero al loro capitano, e una fiasca. Tolto il turacciolo, ne annusarono il contenuto per poi buttarla via disgustati.

Una delle guardie indicò con un gesto il fagotto scuro sul lastricato. Il Capitano si chinò e sollevò il mantello. Tas lo vide scuotere la testa. Poi il Capitano, con l’aiuto dell’altra guardia, sollevò con cautela il fagotto e si girò per uscire dal vicolo. Disse qualcosa a Caramon mentre gli passava accanto. Tas sentì quella parolaccia e rimase inchiodato per lo shock, cosa che, a quanto parve, capitò anche a Caramon, poiché il volto dell’omone divenne d’un bianco mortale.

Sollevando lo sguardo su Denubis, Tas vide restringersi le labbra del chierico, le dita sulla spalla di Tas tremarono.

Poi Tas comprese.

«No,» bisbigliò sommessamente, in preda all’angoscia. «Oh, no! Non possono pensare questo! Caramon non farebbe male nemmeno a un topo! Lui non ha fatto del male a Dama Crysania! Cercava soltanto di aiutarla! È per questo che siamo venuti qui... Be’, per lo meno è una delle ragioni. Per favore!» Tas si girò di scatto verso Denubis, congiungendo le mani. «Per favore, mi devi credere! Caramon è un soldato. Ha ucciso creature viventi, certo. Ma soltanto creature cattive come i draconici e i goblin. Per favore, per favore, credimi!»

Ma Denubis si limitò soltanto a guardarlo con severità.

«No! Come puoi pensare una cosa del genere? Odio questo posto! Voglio tornarmene a casa!» grido Tas miseramente, vedendo l’espressione sofferente e confusa di Caramon. Scoppiando in lacrime, il kender affondò il viso tra le proprie mani e singhiozzò amaramente.

Poi Tas sentì una mano che lo toccava esitando, per poi accarezzarlo con delicatezza.

«Su, su, adesso,» disse Denubis. «Avrai la possibilità di raccontare la tua storia. Anche il tuo amico l’avrà. E se siete innocenti, non vi accadrà nulla di male.» Ma Tas sentì che il chierico sospirava. «Il tuo amico ha bevuto, vero?»

«No!» Tas tirò su con il naso, sollevando lo sguardo su Denubis, con occhi imploranti. «Non una sola goccia, lo giuro.»

Ma la voce del kender si spense alla vista di Caramon, mentre le guardie lo conducevano fuori del vicolo, nella strada principale dove lui si trovava insieme al chierico. Il volto di Caramon era coperto dal fango e dalla sporcizia del vicolo, il sangue gli colava da un taglio alle labbra. Aveva gli occhi spiritati e iniettati di sangue, l’espressione del suo viso era vacua e piena di paura. L’eredità delle passate sbronze era impressa con fin troppa chiarezza sulle sue guance gonfie e rosse e sulle gambe e le braccia tremanti. Una piccola folla che aveva cominciato a formarsi alla vista delle guardie prese a deriderlo.

Tas piegò la testa. Che cosa stava combinando Par-Salian? si chiese in preda alla confusione.

Qualcosa era andato storto? Si trovavano davvero, poi, a Istar? O non si erano smarriti, invece, in qualche altro luogo? O forse quello era un terribile incubo...

«Chi... Cos’è successo?» chiese Denubis al capitano. «L’Oscuro aveva ragione?»

«Ragione? Certo che aveva ragione. Hai mai visto che si sbagliasse?» esclamò il capitano. «In quanto a chi... non so chi sia, ma è un membro del tuo ordine. Porta il medaglione di Paladine appeso al collo. Ed è anche ferita molto gravemente. In realtà, ho creduto che fosse morta, ma c’è un lieve pulsare nel collo.»

«Pensi che sia stata... che sia stata...» Denubis esitò.

«Non lo so,» disse il capitano con espressione torva. «Ma è stata picchiata. Dev’essere stata colta da una specie di attacco, immagino. Ha gli occhi spalancati, ma non sembra vedere o sentire nulla.»

«Dobbiamo portarla subito al tempio,» disse Denubis con vivacità, anche se Tas percepì un tremito nella sua voce. Le guardie stavano disperdendo la folla, puntando le lance davanti a sé e spingendo indietro i curiosi.

«Tutto è sotto controllo. Muoversi, muoversi. Per oggi il mercato sta per chiudere. Farete meglio a finire le vostre spese finché siete ancora in tempo.»

«Non sono stato io a farle del male!» disse Caramon, desolato. Tremava dal terrore. «Non le ho fatto del male,» ripeteva, il volto rigato di lacrime.

«Già!» esclamò il capitano con amarezza. «Portate questi due in prigione,» ordinò alle sue guardie.

Tas piagnucolò. Una delle guardie lo afferrò brutalmente ma il kender, confuso e stordito, ghermì le vesti di Denubis e si rifiutò di lasciarle andare. Il chierico, con le mani appoggiate sulla forma immota di Dama Crysania, si girò quando sentì le mani del kender che non lo mollavano.

«Per favore,» implorò Tas. «Sta dicendo la verità.»

Il volto severo di Denubis si ammorbidì. «Sei un amico fedele,» disse con voce gentile. «Una caratteristica piuttosto insolita in un kender. Spero che la tua fede in quest’uomo sia giustificata.»

Con fare distratto il chierico accarezzò il ciuffo di capelli di Tas, la sua espressione era triste. «Ma devi anche renderti conto che talvolta, quando un uomo ha bevuto, il liquore lo spinge a fare cose...»

«Vieni, tu!» ringhiò la guardia, tirando Tas all’indietro con uno strattone. «Piantala con la tua piccola recita. Non funziona.» poi aggiunse, «Non permettere che costui ti scombussoli, Reverendo Figlio,» disse il capitano. «Tu conosci i kender!»

«Sì,» rispose Denubis, con lo sguardo su Tas, mentre le guardie conducevano via il kender e Caramon attraverso la folla della piazza del mercato che si andava assottigliando sempre più rapidamente. «Conosco i kender, e questo è straordinario.» Poi, scuotendo la testa, il chierico riportò la sua attenzione su Dama Crysania. «Capitano, reggila forte,» disse ; Con voce sommessa.

«Chiederò a Paladine di trasportarci al Tempio con : la massima velocità.»

Tas, contorcendosi nella morsa della guardia, vide il chierico e il comandante delle guardie là, ormai soli, nella piazza del mercato: vi fu un tremolare di luce bianca, ed entrambi scomparvero.

Tas sbatté più volte le palpebre e, dimenticandosi di guardare dove stava andando, inciampò sui propri piedi. Ruzzolò a terra, sbucciandosi dolorosamente le ginocchia e le mani. Una salda stretta sul colletto lo rimise brutalmente in piedi, e una mano ferma gli diede una spinta sulla schiena.

«Muoviti, non tentare nessuno dei tuoi trucchi.» Tas avanzò, troppo infelice e sconvolto anche soltanto per guardarsi intorno. Il suo sguardo andò a Caramon, e il kender sentì male al cuore.

Sopraffatto dalla vergogna e dalla paura, Caramon strascicava i piedi, incerto, dondolando la testa.

«Non sono stato io a farle del male!» lo sentì farfugliare Tas, mentre in qualche modo procedeva.

«Dev’esserci un errore...»

Capitolo secondo.

Le bellissime voci degli elfi si levarono sempre più alte, le dolci note spiraleggiavano su per le ottave come se potessero portare le loro preghiere al cielo semplicemente risalendo la scala musicale. I volti delle donne elfo, toccati dai raggi del sole calante che entravano obliqui attraverso le alte finestre di cristallo, erano tinti di un delicato color rosa, e nei loro occhi brillava una fervida ispirazione.

I pellegrini presenti ascoltavano piangendo davanti a tanta bellezza, facendo sì che il coro delle Vesti Bianche e Azzurre (le Vesti Bianche delle Reverende Figlie di Paladine, le Vesti Azzurre delle Figlie di Mishakal) a causa delle lacrime divenisse indistinto alla loro vista. Più tardi molti avrebbero giurato di aver visto le donne elfo trasportate verso il cielo avvolte in nuvole vaporose.

Quando la dolcezza del loro canto raggiunse nuovi vertici, un coro di voci maschili si unì ad esse, tenendo legate al suolo le preghiere che si erano levate in alto come liberi uccelli, tarpando loro le ali, in un certo senso: così pensava Denubis, amareggiato. E pensava anche di essere saturo di tanta dolcezza. Da giovanetto anche lui aveva purificato la sua anima con le lacrime quando aveva sentito per la prima volta l’Inno del Vespro. Poi, molti anni più tardi, questa era diventata una routine.

Ricordava assai bene lo choc che aveva provato quando, durante il canto, si era reso conto per la prima volta che i suoi pensieri erano andati a qualche urgente faccenda della chiesa... Adesso, era ancora peggio d’una routine. Era diventata una faccenda irritante, nauseante e fastidiosa. In effetti, Denubis era giunto a temere quell’ora del giorno, e approfittava di ogni occasione per fuggirla.

Perché? Dava la maggior parte della colpa alle donne elfo. Pregiudizio razziale, si disse imbronciato. Eppure, lui non poteva farci niente. Ogni anno un gruppo di donne elfo, Reverende Figlie e aspiranti tali, viaggiava fin lì dalla gloriosa terra di Silvanesti per trascorrere un anno ad Istar, recandosi alla chiesa. Ciò significava che, ogni sera, si riunivano a cantare l’Inno del Vespro, e passavano la giornata a ricordare a chiunque jngeva loro a tiro che gli elfi erano i favoriti degli dei, creati per primi di tutte le razze, e ai quali era accordato un arco di vita di centinaia d’anni. Eppure, pareva che Denubis fosse il solo a offendersi per questo.

Quella sera, in particolare, il canto riusciva irritante a Denubis perchè era preoccupato per la giovane donna che aveva portato al tempio quella mattina. In effetti, era quasi riuscito a evitare di venire, ma era stato catturato all’ultimo momento da Gerald, un anziano chierico umano i cui giorni su Krynn erano contati e che provava il più grande conforto nel presenziare alle Preghiere Vespertine. Probabilmente, rifletté Denubis, perché il vecchio era quasi del tutto sordo. E proprio perché le cose stavano effettivamente così, era stato del tutto impossibile spiegare a Gerald , che lui, Denubis, doveva andare in qualche altro posto. Alla fine Denubis , aveva rinunciato, offrendo al vecchio chierico il proprio braccio a mo’ di sostegno. Adesso Gerald era immobile accanto a lui, il volto rapito, senza alcun dubbio immerso nella propria mente, nel bellissimo piano al quale lui, un giorno, sarebbe asceso.

Denubis stava pensando a tutto questo e alla giovane donna, che non aveva più visto né sentito da quando l’aveva portata al Tempio quella mattina, quando sentì un leggero tocco sul braccio. Il chierico sussultò, e si guardò intorno con aria colpevole, chiedendosi se la sua disattenzione non fosse stata notata e denunciata. Sulle prime non riuscì a capire chi l’avesse toccato, in apparenza entrambi i suoi vicini erano immersi nelle loro preghiere. Poi sentì di nuovo il tocco e si rese conto che veniva da dietro. Guardandosi alle spalle, vide che una mano si era inserita senza dare nell’occhio attraverso la tenda che separava la balconata sulla quale si trovavano i Reverendi Figli dalle anticamere intorno ad essa.

La mano gli fece segno di seguirlo e Denubis, perplesso, lasciò il suo posto nella fila e armeggiò impacciato con la tenda, cercando di andarsene senza richiamare su di sé attenzioni indebite. La mano si era ritirata e Denubis non riusciva più a trovare il punto in cui le pieghe dei pesanti tendaggi di velluto si aprivano. Alla fine, quando ormai era più che convinto che ogni pellegrino presente doveva avergli puntato addosso gli occhi pieni di disgusto, trovò l’apertura e l’attraversò incespicando.

Un giovane accolito, il volto liscio e placido, rivolse un inchino al chierico rosso in faccia e sudato.

«Le mie scuse per aver interrotto le tue preghiere della sera, Reverendo Figlio, ma il Gran Sacerdote chiede che tu lo onori di qualche momento del tuo tempo, se la cosa è conveniente.»

L’accolito aveva pronunciato le parole prescritte con tale distaccata cortesia che non sarebbe apparso insolito a qualunque osservatore se Denubis avesse risposto: «No, non adesso. Ci sono altre faccende a cui devo badare. Forse più tardi.»

Ma Denubis non replicò niente del genere. Impallidendo visibilmente, borbottò qualcosa sul fatto che era «molto onorato», con la voce che gli si smorzò in un soffio verso la fine. Comunque, l’accolito era abituato a questo e, annuendo, si voltò e gli fece strada attraverso i vasti e ariosi corridoi del Tempio, fino agli alloggi del Gran Sacerdote di Istar.

Affrettandosi a seguire il giovane, Denubis non ebbe il tempo di chiedersi di cosa mai potesse trattarsi. La giovane donna, naturalmente. Da due anni abbondanti Denubis non si era più trovato in presenza del Gran Sacerdote, e non poteva essere soltanto una coincidenza che questa convocazione arrivasse proprio lo stesso giorno in cui aveva trovato una Reverenda Figlia distesa in un vicolo, in punto di morte.

Forse era morta, pensò Denubis con tristezza. Il Gran Sacerdote me lo dirà personalmente. Sarebbe certo stato gentile da parte sua. Non in carattere, forse, per qualcuno che doveva occuparsi di questioni gravi come il destino d’intere nazioni, ma senz’altro gentile.

Sperò che non fosse morta. Non soltanto per lei, ma per l’umano e il kender. Denubis aveva pensato molto anche a loro. In particolare al kender. Come molti altri a Krynn, Denubis non sapeva che farsene dei kender, i quali non avevano proprio nessun rispetto per le leggi o la proprietà personale, la loro o quella degli altri. Ma questo kender pareva diverso. La maggior parte dei kender che Denubis conosceva (o che credeva di conoscere) sarebbe scappata al primo segno di guai. Questo invece era rimasto accanto al suo grosso amico con una fedeltà commovente, e aveva perfino parlato in sua difesa.

Denubis scosse la testa con tristezza. Se la ragazza fosse morta, avrebbero affrontato... No, non poteva pensarci. Mormorando una sincera preghiera a Paladine perché proteggesse tutti coloro che erano coinvolti (se ne erano degni), Denubis strappò la sua mente da quei pensieri deprimenti e la costrinse ad ammirare gli splendori della residenza privata del Grande Sacerdote nel tempio. Aveva dimenticato quella bellezza, le pareti bianche come il latte, che ardevano di una luce propria la quale proveniva, così diceva la leggenda, dalle pietre medesime. Erano plasmate e scolpite in maniera così delicata da farle luccicare come grandi petali di rose bianche che spuntavano dal bianco pavimento levigato. Erano percorse da lievi venature di luce azzurra, che ammorbidivano l’asprezza del bianco puro.

Le meraviglie dei corridoi lasciarono il posto alle bellezze dell’anticamera dove le pareti correvano verso l’alto per sorreggere la cupola sovrastante, come la preghiera d’un mortale che ascendesse agli dei. Gli affreschi che rappresentavano gli dei erano dipinti in delicati colori.

Anch’essi parevano ardere di luce propria: Paladine, il Drago di Platino, il Dio del Bene; Gilean del Libro, Dio della Neutralità. Qui era rappresentata perfino la Regina delle Tenebre, poiché il Gran Sacerdote non avrebbe offeso apertamente nessun dio. Era raffigurata come un drago a cinque teste, ma un drago così docile e inoffensivo che Denubis si chiedeva se non fosse sul punto di rotolare su se stesso per andare a leccare il piede di Paladine.

Però, pensò questo soltanto più tardi, dopo aver riflettuto. In quel momento era troppo nervoso anche soltanto per guardare quei meravigliosi dipinti. Il suo sguardo era fisso sulla porta di platino accuratamente lavorata che si apriva sul cuore del Tempio stesso.

La porta si aprì, irradiando una luce gloriosa. Era giunta l’ora della sua udienza.

La Sala delle Udienze dava subito a coloro che vi accedevano la sensazione della propria umiltà e mansuetudine. Questo era il cuore della bontà. Qui venivano rappresentati la gloria e il potere della chiesa. La porta si apriva su un’immensa sala circolare dal pavimento di bianco, levigato granito. Il pavimento proseguiva verso l’alto per formare le pareti modellate come i petali d’una gigantesca rosa che s’innalzava verso il cielo per sorreggere una grande cupola. La cupola stessa era di cristallo smerigliato, che assorbiva il bagliore del sole e delle lune. La loro radiosità riempiva ogni punto della sala.

Una grande onda arcuata di schiuma marina svettava al centro del pavimento arrivando fin dentro a un’alcova che si trovava sul lato opposto a quello della porta. Qui si ergeva un singolo trono. La luce e il calore che s’irradiavano da quel trono erano ancora più brillanti della luminosità che scendeva a fiotti dalla cupola.

Denubis entrò nella stanza a testa china e con le mani congiunte davanti a sé, come si conveniva.

Era sera, e il sole adesso era tramontato. La sala nella quale Denubis entrò era illuminata soltanto da candele. Eppure, come sempre, Denubis provò la chiara impressione d’essere entrato in un cortile all’aria aperta inondato dalla luce del sole.

E in verità, per un momento, i suoi occhi furono abbagliati da quel chiarore. Tenendo, come si conveniva, lo sguardo abbassato fino a quando non gli fosse stato dato il permesso di sollevarlo, intravide il pavimento, gli oggetti e le persone presenti nella Sala. Vide la scalinata mentre la saliva.

Ma la radiosità che proveniva dal davanti della stanza era talmente splendida che non notò, letteralmente, nient’altro.

«Solleva la testa, Reverendo Figlio di Paladine,» intonò una voce così melodiosa che fece venire le lacrime agli occhi di Denubis proprio qualche istante dopo che l’adorabile canto delle donne elfo si era rivelato del tutto incapace a commuoverlo.

Denubis sollevò lo sguardo, e la sua anima tremò per lo sgomento.

Erano passati due anni da quando si era trovato, l’ultima volta, così vicino al Gran Sacerdote, e il tempo aveva appannato la sua memoria. Com’era diverso osservarlo ogni mattina da lontano, vederlo come si contempla il sole che compare all’orizzonte, crogiolandosi nel suo calore, rallegrandosi fin nel profondo della sua luce e, invece, essere convocati alla presenza del sole, trovarsi davanti ad esso e sentire la propria anima ardere nella chiarezza e nella purezza del suo splendore.

D’ora in avanti lo ricorderò, pensò Denubis con severità. Ma nessuno, quand’era ritornato da un’udienza con il Gran Sacerdote, riusciva a ricordare esattamente quale aspetto aveva. In effetti, appariva sacrilego tentare di farlo, quasi che pensare a lui in termini di pura carne fosse una dissacrazione. Si riusciva soltanto a ricordare di essersi trovati alla presenza di qualcosa d’incredibilmente bello. Un’aura luminosa circondava Denubis, ma questa venne immediatamente lacerata dal più terribile senso di colpa, a causa dei dubbi, dei timori e degli interrogativi. In contrasto con il Gran Sacerdote, Denubis vedeva se stesso come la più sventurata creatura su Krynn. Cadde sulle ginocchia implorando perdono, quasi del tutto inconsapevole di ciò che stava facendo, sapendo soltanto che era la cosa giusta da fare.

E il perdono gli venne concesso. La voce musicale parlò, e Denubis si sentì immediatamente colmare da una sensazione di pace e di calma soave. Si rialzò, e guardò il Gran Sacerdote con reverente umiltà, e lo pregò di dirgli in qual modo avrebbe potuto servirlo.

«Hai condotto al Tempio, questa mattina, una giovane donna, una Reverenda Figlia di Paladine,» disse la voce, «e a quanto ci è dato di sapere ti sei preoccupato per lei, come è soltanto naturale e più che corretto. Abbiamo pensato che ti avrebbe confortato sapere che sta bene e che si è completamente ripresa dalla sua terribile ordalla . Potrà anche gratificare la tua mente, Denubis, amato Figlio di Paladine, sapere che non è stata fisicamente ferita.»

Denubis offrì i suoi ringraziamenti a Paladine per la guarigione della giovane donna e si stava giusto preparando a farsi da parte e a crogiolarsi per qualche altro istante in quella luce gloriosa, quando fu colto dall’intera portata delle parole del Gran Sacerdote.

«Non... non era stata aggredita?» riuscì appena a balbettare.

«No, figlio mio,» rispose la voce, suonando così come un inno alla gioia. «Paladine, nella sua infinita saggezza, ha raccolto la sua anima a sé, ed io sono stato in grado, dopo molte, lunghe ore di preghiera, di prevalere su di lui perché ci restituisse questo tesoro, dal momento che era stata strappata prematuramente dal suo corpo. Adesso, la giovane donna riposa in un sonno ristoratore di vita.»

«Ma i segni sul suo viso?» protestò Denubis, confuso. «Il sangue...»

«Non c’erano segni,» disse con voce pacata il Gran Sacerdote, ma con un accenno di rimprovero che fece sentire Denubis inesplicabilmente infelice. «Ti ho detto che non è stata fisicamente ferita.»

«So... sono contento di essermi sbagliato,» rispose Denubis, in tutta sincerità. «E ancor di più perché ciò significa che quel giovane che è stato arrestato è innocente come si è proclamato, e adesso può essere rimesso in libertà.»

«Sono davvero riconoscente, proprio come lo sei tu, Reverendo Figlio, di sapere che un mio simile, a questo mondo, non ha commesso un crimine orrendo, come si era a tutta prima temuto. Eppure, chi fra noi ; è davvero innocente?»

Quella voce musicale fece una pausa e parve aspettare una risposta. E le risposte arrivarono, e numerose. Il chierico sentì un borbottio di voci tutt’intorno a sé dare la corretta risposta, e Denubis divenne consapevole per la prima volta che altri erano vicino al trono. Tale era il carisma del Gran Sacerdote che aveva quasi finito per credere di essere solo con lui.

Denubis borbottò la sua risposta a quella domanda insieme al resto dei presenti, e all’improvviso seppe, senza che gli venisse detto, di essere stato congedato da quell’augusta presenza. La luce non risplendeva più direttamente su di lui, da lui era passata a qualcun altro. Provando l’impressione di essere passato dal vivido bagliore del sole all’ombra più profonda, riattraversò mezzo accecato e barcollante la sala. Ridisceso infine al livello inferiore, riacquistò in qualche modo il respiro, si rilassò e si guardò intorno.

Il Gran Sacerdote sedeva a un’estremità, circondato dalla luce. Ma a Denubis parve che i suoi occhi si stessero abituando a quella luce, perché finalmente, in qualche modo, riuscì a riconoscere gli altri che erano con lui. Qui, c’erano i capi dei vari Ordini: i Reverendi Figli e le Reverende Figlie.

Conosciuti, quasi per scherzo, come «le mani e i piedi del sole», toccava a loro occuparsi degli affari quotidiani della chiesa. In pratica, erano i veri governanti di Krynn. Ma, qui, altri erano ancora presenti, oltre agli alti funzionari della chiesa. Denubis sentì che il suo sguardo veniva attratto da un angolo della sala, l’unico angolo, a quanto pareva, che era immerso nell’ombra.

Là sedeva una figura abbigliata di nero, la sua oscurità superata soltanto dallo splendore del Gran Sacerdote. Ma Denubis, rabbrividendo, ebbe la precisa impressione che l’oscurità stesse aspettando soltanto il momento opportuno, sapendo che, alla fine, il sole sarebbe tramontato.

La consapevolezza che all’Oscuro, come Fistandantilus era conosciuto a corte, era consentito di esser presente all’interno della Sala delle Udienze del Gran Sacerdote, piombò come uno choc su Denubis. Forse, quando il mondo fosse stato totalmente libero dal Male, quando l’ultima delle razze degli orchi fosse stata eliminata, soltanto allora lo stesso Fistandantilus sarebbe caduto.

Ma proprio mentre questo pensiero lo faceva sorridere, Denubis vide il gelido luccichio degli occhi del mago appuntarsi su lui. Denubis rabbrividì e si affrettò a guardare altrove. Che contrasto c’era fra quell’uomo e il Gran Sacerdote! Quando si crogiolava nella luce del Gran Sacerdote, Denubis si sentiva avvolgere dalla tranquillità e dalla pace. Tutte le volte che gli capitava di appuntare il suo sguardo dentro gli occhi di Fistandantilus, invece, si trovava costretto a ricordare il buio che era in lui.

E, sotto il luccichio di quegli occhi, si trovò d’un tratto a chiedersi cosa avesse voluto dire il Gran Sacerdote con quella strana affermazione: «Chi di noi è davvero innocente?»

In preda a un profondo disagio, Denubis entrò in un’anticamera dove si trovava un enorme tavolo per banchetti.

L’odore di quei deliziosi e rari cibi, portati fin lì da ogni parte di Ansalon da pellegrini adoranti, o acquistati nei grandi mercati all’aria aperta di città lontane tanto quanto Xak Tsaroth, fece ricordare a Denubis che non aveva più mangiato niente dal primo mattino. Preso un piatto, passò in rassegna quelle prelibate pietanze, scegliendo questo e quello fino a quando non l’ebbe completamente riempito, e giunto appena a metà tavolo già letteralmente si piegava sotto quell’aromatico fardello.

Un servo portò grandi tazze rotonde di fragrante vino elfo. Presa una di queste, e destreggiandosi per reggere con l’altra mano, come un equilibrista, il piatto e le posate, Denubis si lasciò cadere su una sedia e cominciò a mangiare di buona lena. Si stava giusto godendo la celestiale combinazione di un boccone di fagiano arrosto con un sorso di vino elfo, il cui sapore gli si attardava in bocca, quando un’ombra si proiettò sul suo piatto.

Denubis sollevò lo sguardo, soffocò, e in qualche modo riuscì a trangugiare il resto del boccone mentre si puliva imbarazzato il vino che gli colava lungo il mento.

«Reverendo Figlio,» balbettò, facendo un debole tentativo di alzarsi nel segno di rispetto che il Capo dei Confratelli meritava.

Quarath lo squadrò con divertito sarcasmo e agitò languidamente una mano. «Prego, Reverendo Figlio, non permettere che io ti disturbi. Non ho nessuna intenzione d’interrompere la tua cena. Volevo soltanto scambiare una parola con te. Forse, quando avrai finito...»

«Ho... ho finito,» si affrettò a rispondere Denubis, porgendo il suo piatto mezzo pieno e il bicchiere a un servo che passava di là. «Sembra che io non abbia tutta quella fame che credevo.» Questo per lo meno era vero. Aveva perso completamente l’appetito.

Quarath ebbe un soave sorriso. Il suo sottile volto da elfo, con i lineamenti delicatamente scolpiti, pareva fatto di fragile porcellana; sorrideva sempre con cautela, come se temesse che la sua faccia potesse rompersi.

«Molto bene... i dessert non ti tentano?»

«N... no, neanche un po’. I dolci... fa... fanno male alla di... digestione, così tardi alla se... sera.»

«Allora vieni con me, Reverendo Figlio. È passato molto tempo da quando abbiamo parlato l’ultima volta.» Quarath prese Denubis per il braccio con distratta familiarità, anche se erano passati mesi dall’ultima volta che il chierico aveva visto il suo superiore.

Prima il Gran Sacerdote, poi Quarath. Denubis sentì un grumo freddo alla bocca dello stomaco.

Mentre Quarath lo conduceva lontano dalla Sala delle Udienze, la voce musicale del Gran Sacerdote si alzò. Denubis lanciò un’occhiata dietro di sé, crogiolandosi per un istante in quella luce meravigliosa. Poi, mentre con un sospiro distoglieva lo sguardo, i suoi occhi andarono a posarsi sul mago vestito di nero. Fistandantilus sorrise e annuì. Rabbrividendo, Denubis si affrettò a seguire Quarath fuori della porta.

I due chierici percorsero corridoi sontuosamente decorati fino a quando non arrivarono in una piccola camera, quella di Quarath. Anche questa era splendidamente decorata all’interno, ma Denubis era troppo nervoso per notare un qualsiasi dettaglio.

«Per favore, siediti, Denubis. Posso chiamarti così, dal momento che siamo soli e a nostro agio?»

Denubis non sapeva se era a proprio agio, ma certamente erano soli. Si accomodò sull’orlo del sedile che Quarath gli offrì, accettò un bicchierino di cordiale, che però non bevve, e aspettò.

Quarath parlò per qualche istante di cose irrilevanti, informandosi sul lavoro di Denubis (il chierico traduceva passi dei Dischi di Mishakal nella sua lingua nativa, il solamnico) e su altre faccende di cui, appariva ovvio, non gl’importava minimamente.

Poi, dopo una pausa, Quarath disse casualmente: «Non ho potuto fare a meno di sentire che hai interrogato il Gran Sacerdote.»

Denubis appoggiò sul tavolo il bicchierino col cordiale, la mano gli tremava talmente che a malapena riuscì ad evitare di versarlo. «Io... io ero semplicemente preoccupato per... per quel giovane... che hanno arrestato per sbaglio,» balbettò debolmente.

Quarath annuì con espressione grave. «Ed è anche molto giusto. Molto corretto. Sta scritto che dovremmo preoccuparci dei nostri simili su questo mondo. Ed è degno di te, Denubis, e ne prenderò certo nota nel mio rapporto annuale.»

«Grazie, Reverendo Figlio,» mormorò Denubis, per niente certo di cosa avrebbe dovuto rispondere.

Quarath non disse altro, ma rimase là immobile a fissare il chierico seduto davanti a lui con i suoi occhi obliqui da elfo.

Denubis si asciugò il viso con la manica della veste. Faceva incredibilmente caldo in quella stanza. Gli elfi avevano un sangue così sottile...

«C’era qualcos’altro?» gli chiese Quarath con voce pacata.

Denubis tirò un profondo sospiro. «Mio signore,» disse con slancio, «si tratta di quel giovanotto. Verrà rilasciato? E il kender?». D’un tratto gli venne un’ispirazione. «Ho pensato che forse avrei potuto essere di qualche aiuto, per ricondurli sui sentieri del Bene. Dal momento che il giovanotto è innocente...»

«Chi di noi è davvero innocente?» gli chiese Quarath, guardando il soffitto come se gli dei potessero averci scritto sopra la risposta.

«Sono certo che si tratta di un’ottima domanda,» disse Denubis con umiltà, «e senza alcun dubbio degna di studio e di discussione, ma questo giovanotto, a quanto pare, è innocente, per lo meno tanto innocente quant’è possibile esserlo di qualunque cosa...» Denubis si fermò, lievemente confuso.

Quarath sorrise con tristezza. «Ah, ecco, hai visto?» disse, allargando le braccia e volgendo lo sguardo sul chierico. «La pelliccia del coniglio copre il dente del leone, così è il detto.»

Abbandonandosi sullo schienale della sedia, Quarath fissò ancora una volta il soffitto. «I due verranno venduti domani al mercato degli schiavi.»

Denubis si alzò per metà dalla sua sedia. «Che cosa? Mio signore...»

Lo sguardo di Quarath si appuntò all’istante sul chierico, raggelandolo là dove si trovava.

«Domande? Di nuovo?»

«Ma... è innocente!» fu tutto ciò che Denubis riuscì in qualche modo a balbettare.

Quarath sorrise di nuovo, questa volta con stanchezza e indulgenza.

«Sei un brav’uomo, Denubis. Un brav’uomo e un buon chierico. Un uomo semplice, forse, ma un brav’uomo. Non abbiamo preso con leggerezza questa decisione. Abbiamo interrogato l’uomo. I suoi resoconti da dove è venuto e su ciò che stava facendo a Istar sono confusi, a dir poco. Se era innocente circa la ferita della ragazza, ci sono senza dubbio crimini che gli lacerano l’anima. Questo almeno è visibile sulla sua faccia. Non ha nessun mezzo di sostentamento, non aveva denaro addosso. È un vagabondo ed è probabile che si darebbe ai furti, se venisse lasciato in balìa di se stesso. Gli stiamo facendo un favore fornendogli un padrone che si occuperà di lui. Col tempo potrà guadagnarsi la sua libertà e, speriamolo, la sua anima sarà stata liberata dal fardello di colpe. In quanto al kender...» Quarath agitò con negligenza la mano.

«Il Gran Sacerdote lo sa?» Denubis aveva fatto appello a tutto il suo coraggio per fare quella domanda.

Quarath sospirò, e questa volta Denubis vide una ruga d’irritazione comparire sulla fronte liscia dell’elfo. «Il Gran Sacerdote ha questioni molto più urgenti in mente, Reverendo Figlio Denubis,» replicò con freddezza.

«La sua bontà è tale che il dolore di quell’uomo che soffre lo turberebbe per molti giorni. Non ha detto in maniera specifica che l’uomo doveva essere liberato, perciò abbiamo semplicemente rimosso il fardello di questa decisione dai suoi pensieri.»

Vedendo il volto scarno di Denubis caricarsi di dubbi, Quarath si sporse in avanti, dalla sedia, fissando il suo chierico e aggrottando le sopracciglia. «Molto bene, Denubis, se vuoi proprio saperlo c’erano delle circostanze molto strane circa il ritrovamento di quel giovanotto. E quella di certo più significativa è che, a quanto ci è stato dato di capire, essa in realtà è avvenuta per opera diretta dell’Oscuro.»

Denubis deglutì e riaffondò sulla sua sedia. La stanza non gli pareva più calda. Rabbrividì. «Questo è vero,» disse con voce infelice, passandosi la mano sul viso. «Ha incontrato me...»

«Lo so,» esclamò Quarath. «Me l’ha detto. La giovane donna rimarrà qui con noi. E una Reverenda Figlia. Porta il medaglione di Paladine. Inoltre è un po’ confusa, ma questo c’era da aspettarselo. Possiamo tenerla d’occhio. Ma sono certo che ti renderai conto di come sia impossibile che permettiamo a quel giovanotto di andarsene. Ai vecchi tempi, l’avrebbero buttato in una segreta senza pensarci più. Noi siamo più illuminati, gli forniremo una casa decente e allo stesso tempo saremo in grado di sorvegliarlo.»

Quarath fa sembrare la vendita di un uomo come schiavo un atto caritatevole, pensò Denubis, confuso. Forse lo è. Forse sono io che mi sbaglio. Come Quarath ha detto, io sono un uomo semplice. Stordito, si alzò dalla sedia. Il ricco cibo che aveva mangiato gli gravava nello stomaco come un macigno. Borbottando una scusa al suo superiore, si diresse verso la porta. Anche Quarath si alzò, con un sorriso conciliante sulla faccia.

«Vieni a trovarmi di nuovo, Reverendo Figlio,» disse, quando sostarono accanto alla porta. «E non aver paura d’interrogarci. È così che impariamo.»

Denubis annuì stordito, poi ristette. «Ho... ho ancora una domanda, allora,» disse esitante. «Hai parlato dell’Oscuro. Cosa sai di lui? Voglio dire, perché si trova qui? Mi... mi fa paura.»

La faccia di Quarath era diventata grave, ma non parve dispiaciuto di quella domanda. Forse provava sollievo nel vedere che la mente di Denubis era passata a un altro argomento. «Chi sa nulla dei modi di agire dei fruitori di magia,» rispose, «se non che i loro modi non sono i nostri, né sono ancora i modi degli dei? È stato per questa ragione che il Gran Sacerdote si è sentito in obbligo di liberare Ansalon della loro presenza, nei limiti del possibile. Adesso sono rintanati nella sola Torre della Grande Stregoneria che ancora è loro rimasta, in quella remota Foresta di Wayreth. Ben presto anche quella scomparirà a mano a mano che il loro numero diminuirà, poiché abbiamo chiuso le scuole. Hai sentito della maledizione lanciata sulla Torre di Palanthas?»

Denubis annuì in silenzio.

«Quel terribile incidente!» Quarath proseguì. «Ti dimostra come gli dei abbiano maledetto questi stregoni... spingere quell’anima sventurata ad una tale follia da impalare se stesso là fuori, attirando la collera degli dei e sigillando la Torre per sempre... almeno lo supponiamo. Ma di cosa stavamo discutendo?»

«Fistandantilus,» mormorò Denubis, dispiaciuto di aver sollevato l’argomento. Adesso bramava soltanto tornare nella sua stanza e prendere la sua polverina per lo stomaco.

Quarath sollevò le sopracciglia piumate. «Tutto quello che so di lui è che si trovava già qui quando sono arrivato, circa cento anni fa. È vecchio, più vecchio perfino di molti miei simili, poiché sono pochi perfino tra i più vecchi della mia razza che riescano a ricordare un’epoca in cui il suo nome non veniva bisbigliato. Ma è umano, e perciò deve usare le sue arti magiche per sostenere la sua vita. Non oso immaginare come lo faccia.» Quarath gratificò Denubis d’una intensa occhiata.

«Naturalmente, capisci adesso perché il Gran Sacerdote lo tiene a corte?»

«Lo teme?» chiese Denubis, con innocenza.

Il sorriso di porcellana di Quarath divenne fisso per un momento, poi si trasformò nel sorriso di un genitore che stesse spiegando una semplice faccenda a un figlio ottuso. «No, Reverendo Figlio,» disse con pazienza. «Fistandantilus ci è molto utile. Chi conosce il mondo meglio di lui? Ha viaggiato in lungo e in largo. Conosce le lingue, i costumi, le tradizioni di ogni razza di Krynn. Le sue conoscenze sono vaste. È utile al Gran Sacerdote, e così gli permettiamo di rimanere qui, piuttosto che esiliarlo a Wayreth, come abbiamo esiliato i suoi compagni.»

Denubis annuì. «Capisco,» disse, con un pallido sorriso. «E... adesso devo proprio andare. Grazie per la tua ospitalità, Reverendo Figlio, e per aver chiarito i miei dubbi.»

«Sono lieto di essere stato in grado di aiutarti,» replicò Quarath, con gentilezza. «Possano gli dei concederti un tranquillo riposo, figlio mio.»

«E anche a te,» mormorò Denubis in risposta, poi si allontanò, sentendo, con sollievo, la porta che si chiudeva alle sue spalle.

Il chierico si affrettò a passare davanti alla sala delle udienze del Gran Sacerdote. La luce sgorgava dalla porta, il suono di quella dolce voce musicale gli strappò il cuore mentre passava, ma temette di sentirsi male e così resistette alla tentazione di tornare dentro.

Desiderando la pace della sua camera silenziosa, Denubis attraversò in fretta il Tempio. A un certo punto si smarrì, imboccando l’angolo sbagliato a un incrocio di corridoi. Ma un gentile servitore lo ricondusse nella direzione che doveva prendere per raggiungere la parte del Tempio in cui viveva.

Era una parte assai austera, se confrontata con quella in cui risiedevano il Gran Sacerdote e la sua corte, ma anch’essa era piena d’ogni lusso concepibile per gli standard di Krynn. E, mentre Denubis percorreva quei corridoi, pensò a quanto apparisse accogliente e confortevole quella tenue luce di candela. Altri chierici gli passarono accanto sorridendo e bisbigliandogli i saluti della sera. Era questo il suo ambiente. Semplice, com’era lui.

Con un altro sospiro di sollievo, Denubis raggiunse la sua piccola stanza e aprì la porta (niente era mai chiuso a chiave nel Tempio: avrebbe indicato sfiducia nei propri simili) e fece per entrare. Poi si fermò. Con la coda dell’occhio aveva intravisto un movimento, un’ombra scura in mezzo alle ombre più scure. Guardò con attenzione laggiù, in fondo al corridoio. No, non c’era niente. Era vuoto.

Sto diventando vecchio. Gli occhi mi fanno degli scherzi, si disse Denubis, scuotendo stancamente la testa.

Entrò nella stanza, con le vesti bianche che gli sussurravano intorno alle caviglie, chiuse con decisione la porta, poi cercò la polverina per lo stomaco.

Capitolo terzo.

La chiave sferragliò nella serratura della porta della cella.

Tasslehoff si rizzò a sedere di scatto. Una pallida luce filtrò nella cella attraverso una minuscola finestra sbarrata situata in alto nello spesso muro di pietra. L’alba, pensò sonnecchiando. La chiave sferragliò di nuovo, come se il carceriere avesse problemi ad aprire la porta. Tas lanciò un’occhiata inquieta a Caramon che si trovava al lato opposto della cella. L’omone giaceva su una lastra di pietra che era il suo letto, senza muoversi o dare alcun segno di aver sentito il fracasso.

Un cattivo segno, pensò Tas con ansia, sapendo che quel guerriero bene addestrato (quando non era ubriaco) un tempo si sarebbe prontamente svegliato a un rumore di passi fuori della stanza. Ma Caramon non aveva parlato né si era mosso sin da quando le guardie l’avevano condotto là dentro il giorno prima. Aveva rifiutato il cibo e l’acqua (anche se Tas gli aveva assicurato che il trattamento era di un buon gradino al di sopra della maggior parte dei cibi delle prigioni). Era rimasto disteso sulla lastra di pietra e aveva fissato il soffitto fino al calar della notte, poi si era mosso, almeno un po’, e aveva chiuso gli occhi.

La chiave sferragliava più forte che mai, e in aggiunta a quel rumore c’era quello del carceriere che imprecava. Tas si affrettò ad alzarsi ed a percorrere il pavimento di pietra, togliendosi la paglia dai capelli e lisciandosi i vestiti mentre camminava. Vedendo uno sgabello in un angolo, il kender lo trascinò fino alla porta, vi salì sopra e attraverso la finestrella sbarrata della porta abbassò lo sguardo sul carceriere che si trovava dall’altra parte.

«Buongiorno,» gli disse Tas con allegria. «Problemi?»

Il carceriere dette in un balzo di almeno tre piedi a quella voce inaspettata e quasi lasciò cadere le chiavi. Era un uomo piccolo, vizzo e grigio come le pareti. Alzando uno sguardo furente sul volto del kender attraverso le sbarre ringhiò e, inserendo la chiave ancora una volta frugò nella serratura, scuotendola vigorosamente. L’uomo accanto al carceriere aggrottò le sopracciglia. Era un uomo grande e grosso, abbigliato in modo raffinato e avvolto in un mantello di pelle d’orso per proteggersi dal gelo del mattino. Teneva in mano una lavagnetta, un pezzo di gesso penzolava da questa appeso a una cinghia di cuoio.

«Spicciati,» ringhiò l’uomo rivolto al carceriere. «Il mercato apre a mezzogiorno e devo ancora pulire questo lotto e farlo apparire decente per quell’ora.»

«Dev’essere rotta,» borbottò il carceriere.

«Oh, no, non è rotta,» disse Tas, servizievole. «In effetti, penso che la tua chiave entrerebbe benissimo se non ci fosse di mezzo il mio grimaldello.»

Il carceriere abbassò lentamente le chiavi e sollevò uno sguardo minaccioso sul kender.

«È stato l’incidente più strano che mi sia mai capitato,» continuò Tas. «Vedi, ero piuttosto annoiato, stanotte, Caramon si è addormentato presto, e tu mi avevi portato via tutte le mie cose, così, quando mi è capitato di scoprire che vi eravate dimenticati di un grimaldello che tenevo nella calza, ho deciso di provarlo su questa porta, giusto per tenere in esercizio la mano, per così dire, e vedere che razza di prigioni costruivate in quest’epoca. Avete costruito proprio una bella prigione, a proposito,» dichiarò Tas con voce solenne. «Una delle più belle in cui mi sia capitato di trovarmi. A proposito, mi chiamo Tasslehoff Burrfoot.»

Il kender infilò la mano attraverso le sbarre, nel caso in cui qualcuno avesse voluto stringergliela.

Nessuno dei due la strinse. «E vengo da Solace. E anche il mio amico. Siamo qui per una specie di missione, si potrebbe dire e, oh, sì, la serratura. Be’, non c’è bisogno che mi guardi così di brutto, non è stata colpa mia. In realtà è stata la vostra stupida serratura a rompere il mio grimaldello! Uno dei migliori che avessi, per giunta. Di mio padre,» disse il kender con tristezza. «Me l’ha dato il giorno in cui sono diventato adulto. Penso proprio,» aggiunse Tas con voce severa, «che potresti per lo meno scusarti.»

A queste parole il carceriere produsse uno strano suono, una specie di sbuffata e un’esplosione.

Scuotendo il suo anello di chiavi in faccia al kender ringhiò qualcosa d’incoerente su «marcire in quella cella per sempre» e fece per allontanarsi, ma l’uomo con il mantello di pelle d’orso lo afferrò per le spalle.

«Non così in fretta, mi serve quello là dentro.»

«Lo so, lo so,» gemette il carceriere con voce esile. «Ma dovrai aspettare il fabbro...»

«Impossibile, ho l’ordine di metterlo sul blocco oggi.»

«Bene, allora trova tu il modo di tirarli fuori da là,» lo schernì il carceriere. «Procura al kender un altro grimaldello. Ora, vuoi il resto del lotto oppure no?»

Cominciò ad allontanarsi con passo ballonzolante, lasciando l’uomo con il mantello di pelle d’orso a rimirare cupamente la porta.

«Tu sai da dove vengono i miei ordini,» disse questi con una nota sinistra nella voce.

«I miei ordini vengono dallo stesso posto,» disse il carceriere da sopra le spalle ossute. «E se a loro non va, possono venire qui a pregare la porta di aprirsi. E se il sistema non dovesse funzionare, dovranno aspettare il fabbro, proprio come chiunque altro.»

«Intendete farci uscire?» chiese Tas con voce ansiosa. «Se è così potremmo essere in grado di aiutarvi...». Poi un pensiero improvviso gli attraversò la mente. «Non avete intenzione di giustiziarci, vero? Poiché, in questo caso, credo che preferiremmo aspettare il fabbro...»

«Giustiziarvi!» ringhiò l’uomo con la pelle d’orso. «Non c’è più stata un’esecuzione a Istar da dieci anni, ormai. La chiesa l’ha proibito.»

«Già, una morte rapida e pulita era troppo bella per un uomo,» ridacchiò il carceriere, che si era voltato di nuovo. «Ora, com’è che vorresti aiutarci, piccola bestia?»

«Be’» disse Tas, con qualche esitazione, «se non avete intenzione di giustiziarci, cosa farete di noi, allora? Immagino che non ci lascerete andare. Dopotutto, siamo innocenti. Voglio dire, non...»

«Non ho intenzione di fare niente con te,» l’interruppe sarcastico l’uomo con la pelle d’orso. «E il tuo amico che voglio. E, no, non lo lasciamo andare.»

«Una morte rapida e pulita,» borbottò il vecchio carceriere, con un sogghigno sdentato. «E c’è sempre una bella folla che si riunisce a guardare, per giunta. Faceva sentire ad un uomo che la sua uscita significava qualcosa, ed è proprio quello che Harry Snaggle mi disse mentre lo conducevano fuori per impiccarlo. Sperava che ci fosse una bella folla... e c’era. Gli fece venire i lucciconi agli occhi. “Tutta questa gente,” mi disse, “che rinuncia alle sue vacanze per venire a salutarmi”. Un gentiluomo fino in fondo.»

«È destinato al blocco!» dichiarò ad alta voce l’uomo con la pelle d’orso, ignorando il carceriere.

«Rapida, pulita.» Il carceriere scosse la testa.

«Be’,» disse Tas, dubbioso, «non sono sicuro di cosa voglia dire, ma se davvero ci farete uscire, forse Caramon potrà aiutarci.»

Il kender scomparve dalla finestrella, e lo sentirono gridare: «Caramon, svegliati! Vogliono farci uscire e non riescono ad aprire la porta e temo sia colpa mia, in parte almeno...»

«Ti rendi conto che devi prenderli tutti e due?» disse il carceriere, furbescamente.

«Cosa?» L’uomo dalla pelle d’orso si girò di scatto per fissare il carceriere. «Questo non è mai stato detto...»

«Devono venir venduti insieme. Questi sono i miei ordini e dal momento che i tuoi ordini e i miei arrivano dallo stesso posto...»

«È messo per iscritto?» si accigliò l’uomo.

«Certo.» Il carceriere era compiaciuto.

«Perderò quattrini. Chi mai vorrà comperare un kender?»

Il carceriere scrollò le spalle. Non erano affari suoi.

L’uomo con la pelle d’orso aprì di nuovo la bocca, poi tornò a chiuderla quando un’altra faccia comparve incorniciata nella finestrella della porta. Questa volta non era il kender. Era il volto di un uomo, di un giovane sui ventott’anni. Un tempo quel volto avrebbe anche potuto essere notevole, ma adesso la forte linea della mascella era confusa nel grasso, gli occhi castani erano spenti, i capelli riccioluti incrostati e arruffati.

«Come sta Dama Crysania?» chiese Caramon.

L’uomo con la pelle d’orso sbatté le palpebre, confuso.

«Dama Crysania. L’hanno portata al Tempio,» ripetè Caramon.

Il carceriere diede un colpo di gomito nelle costole dell’uomo con la pelle d’orso. «Sai, la donna che lui ha picchiato.»

«Non l’ho mai toccata,» dichiarò Caramon con voce tranquilla. «Come sta adesso?»

«Non ti riguarda proprio,» sbottò l’uomo con la pelle d’orso, ricordando d’un tratto che si stava facendo tardi. «Sei un fabbro? Il kender ci ha detto qualcosa sul fatto che saresti capace di aprire questa porta.»

«Non sono un fabbro,» replicò Caramon, «ma forse posso aprirla.» Il suo sguardo andò al carceriere. «A te non spiace che la rompa?»

«La serratura è già rotta!» esclamò il carceriere con voce stridula. «Non vedo cosa potresti fare di peggio, a meno di non sfondare la porta!»

«È proprio quello che ho intenzione di fare,» disse Caramon con freddezza.

«Sfondare la porta?» strillò il carceriere. «Ma tu sei scemo! Diamine...»

«Aspetta.» L’uomo con la pelle d’orso aveva intravisto le spalle e il collo taurino di Caramon attraverso le sbarre della porta. «Vediamo. Se lo fa, pagherò i danni.»

«Ci puoi scommettere!» borbottò il carceriere. L’uomo con la pelle d’orso gli lanciò un’occhiata con la coda dell’occhio, e il carceriere si azzittì.

Caramon chiuse gli occhi e tirò parecchi profondi sospiri, espirando lentamente ognuno di essi.

L’uomo con la pelle d’orso e il carceriere arretrarono dalla porta. Caramon scomparve alla loro vista.

Udirono un grugnito e poi un tonfo terrificante contro la massiccia porta di legno. La porta sobbalzò follemente sui cardini, perfino le pareti di pietra parvero vibrare sotto la violenza del colpo. Ma la porta tenne. Però il carceriere fece un altro salto indietro, la bocca spalancata.

Un grugnito arrivò dall’interno della cella, poi un altro colpo tremendo. La porta esplose con tale forza che gli unici pezzi rimasti, ancora riconoscibili, furono i cardini e la serratura, ancora saldamente attaccati al telaio. L’impeto aveva fatto volare Caramon fuori nel corridoio. Evviva soffocati si levarono dalle celle vicine, dove altri prigionieri avevano schiacciato i volti alle sbarre.

«Pagherai per questo!» squittì il carceriere, rivolto all’uomo con la pelle d’orso.

«Vale ogni singolo centesimo,» dichiarò l’uomo, aiutando Caramon a rialzarsi, spolverandolo e squadrandolo criticamente allo stesso tempo. «Hai mangiato un po’ troppo bene, ultimamente, eh? E ti sei goduto anche parecchie bevute, scommetto! Probabilmente è quello che ti ha fatto finire qua dentro. Be’, non ha importanza. Faremo presto a rimediare. Nome... Caramon?»

L’omone annuì imbronciato.

«Io sono Tasslehoff Burrfoot,» esclamò il kender, sbucando fuori dalla porta fracassata e porgendo di nuovo la mano. «Vado dappertutto con lui. Sì, proprio dappertutto. Ho promesso a Tika che l’avrei fatto e...»

L’uomo con la pelle d’orso stava scrivendo qualcosa sulla sua lavagnetta, e si limitò a guardare il kender con aria assente. «Mm, capisco.»

«Bene, adesso,» continuò il kender” mettendosi la mano in tasca con un sospiro, «se toglierai queste catene dai nostri piedi, sarebbe certo più facile camminare.»

«Proprio così,» mormorò l’uomo con la pelle d’orso, buttando giù alcune cifre sulla lavagnetta.

Sommandole sorrise. «Vai avanti,» ordinò al carceriere. «Tira fuori tutti gli altri che hai per me quest’oggi.»

Il vecchio si allontanò con passo strascicato, ma prima lanciò un’occhiata inviperita a Tas e a Caramon.

«Voi due, sedetevi accanto al muro fino a quando non saremo pronti a partire,» ordinò l’uomo con la pelle d’orso.

Caramon si rannicchiò sul pavimento, sfregandosi la spalla. Tas si sedette accanto a lui con un sospiro felice. Il mondo all’esterno della cella gli appariva già più luminoso. Proprio come aveva detto a Caramon: «Una volta fuori, avremo una possibilità di cavarcela! Stipati qua dentro, non ne abbiamo proprio nessuna.»

«Oh, a proposito,» gridò Tas alla figura del carceriere che si allontanava. «Per favore, vedi che mi venga restituito il grimaldello! Ha un valore sentimentale, sai.»

«Una possibilità, uh!?» ringhiò Caramon a Tas, mentre il fabbro si preparava a imbullonargli il collare di ferro. Aveva perso un po’ di tempo prima di trovarne uno abbastanza largo, e Caramon fu l’ultimo degli schiavi ad avere stretto intorno al collo quel segno di servitù. L’omone sussultò per il dolore quando il fabbro saldò il bullone con il ferro rovente. Si levò un odore di carne bruciata.

Tas tirò con aria infelice il proprio collare, e sussultò per simpatia con le sofferenze di Caramon.

«Mi spiace,» disse, tirando su col naso. «Non avevo capito che intendesse dire proprio questo, quando ha detto che eravamo destinati al blocco. Credevo che intendesse portarci da qualche altra parte... Parlano un po’ strano quaggiù, davvero, Caramon...»

«E va bene,» sospirò Caramon. «Non è colpa tua.»

«Ma, comunque, è colpa di qualcuno,» dichiarò Tas, riflettendo, guardando con interesse il fabbro che spalmava del grasso sulla bruciatura di Caramon, per poi ispezionare la propria opera con occhio critico. Più di un fabbro a Istar aveva perso il proprio lavoro quando un proprietario di schiavi si faceva vivo per chiedere un risarcimento, a causa di qualche schiavo che era riuscito a scappare sfilandosi il collare.

«Cosa vuoi dire?» borbottò Caramon scoraggiato, con la sua solita espressione rassegnata e vacua.

«Insomma,» bisbigliò Tas, con un’occhiata al fabbro, «pensaci un momento. Guarda com’eri vestito quando siamo arrivati qui. Parevi proprio un furfante. Poi sono saltati fuori quel chierico e quelle guardie, come se ci stessero aspettando. E com’era ridotta Dama Crysania.»

«Hai ragione,» disse Caramon, una favilla di luce tremolò nei suoi occhi opachi. La favilla divenne un lampo, accendendo un fuoco che covava da tempo. «Raistlin,» mormorò. «Sa che cercherò di fermarlo. E stato lui a farlo!»

«Non ne sono così sicuro,» disse Tas dopo averci riflettuto un po’. «Voglio dire, non sarebbe più probabile che ti facesse ardere, riducendoti a un croccantino, oppure trasformandoti in un arazzo o in qualcosa del genere?»

«No!» esclamò Caramon, e Tas vide l’eccitazione nei suoi occhi. «Non capisci? Mi vuole qui, indietro... perché faccia qualcosa. Non ci assassinerà. Quel... quell’elfo scuro che lavora per lui ce l’ha detto, non ricordi?»

Tas apparve dubbioso e fece per dire qualcosa, ma proprio allora il fabbro spinse il guerriero per farlo alzare in piedi. L’uomo con la pelle d’orso che li aveva sbirciati con impazienza dalla soglia del negozio del fabbro fece un cenno a due dei suoi schiavi personali. Affrettandosi a entrare, afferrarono brutalmente Caramon e Tas, spingendoli nella fila insieme agli altri schiavi. Altri due schiavi si avvicinarono e cominciarono a collegare tutte le catene che imprigionavano gli schiavi alle gambe fino a quando non furono tutti disposti in una singola fila. Poi, a un gesto dell’uomo con la pelle d’orso, quella sventurata catena vivente di esseri umani, di mezzelfi più due goblin, cominciò ad avanzare con passo strascicato.

Avevano fatto appena tre passi quando si ritrovarono tutti aggrovigliati a causa di Tasslehoff, il quale aveva preso la direzione sbagliata.

Dopo molte imprecazioni e qualche sferzata con bacchette di salice (prima guardandosi intorno per essere certi che non ci fossero chierici in giro) l’uomo con la pelle d’orso riuscì a far muovere la fila.

Tas saltellava cercando di tenersi al passo. Fu soltanto dopo che il kender era stato trascinato due volte sui ginocchi, mettendo di nuovo in pericolo l’intera fila, che Caramon si decise ad avvolgere il suo grande braccio intorno alla vita di Tas, sollevandolo da terra con la catena e tutto, e a trasportarlo di peso.

«È stato proprio divertente,» disse Tas col fiato mozzo. «Specialmente là dove sono caduto in avanti. Hai visto la faccia di quell’uomo? Io...»

«Cosa volevi dire, prima?» lo interruppe Caramon. «Cosa ti fa pensare che Raistlin non sia dietro a tutto questo?»

Il volto di Tas divenne insolitamente serio e pensieroso. «Caramon,» disse qualche istante dopo, cingendo il collo dell’omone e parlandogli all’orecchio per riuscire a farsi sentire sopra lo sferragliare delle catene e i rumori delle strade della città. «Raistlin dev’essere stato terribilmente indaffarato, con il viaggio a ritroso fin qui e tutto il resto. Diamine, Par-Salian ha impiegato giorni e giorni a lanciare quell’incantesimo per viaggiare nel tempo e lui è un mago davvero potente. Perciò deve aver richiesto un sacco di energia da parte di Raistlin. Come potrebbe aver fatto quello, e aver fatto questo a noi allo stesso tempo?»

«Be’,» disse Caramon, corrugando la fronte. «Se non è stato lui, chi è stato?»

«Che ne dici di... Fistandantilus?» bisbigliò Tas, dopo una pausa drammatica.

Caramon risucchiò il proprio respiro, il suo volto s’incupì.

«È... è uno stregone davvero potente,» gli ricordò Tas, «e... insomma... non hai certo mantenuto il segreto sul fatto che sei tornato qui per, uh, liquidarlo, si fa per dire. Voglio dire, l’hai detto perfino nella Torre della Grande Stregoneria. E sappiamo che Fistandantilus può vagare nella Torre. È là che ha incontrato Raistlin, non è vero? E se si fosse trovato sul posto e ti avesse sentito? Credo che si sarebbe inferocito parecchio.»

«Bah! Se è così potente, mi avrebbe ucciso sul posto e basta!» esclamò Caramon, corrugando le sopracciglia.

«No, non può,» disse Tas con fermezza. «Ascolta, ho calcolato tutto. Non può assassinare il fratello del suo pupillo. Specialmente se Raistlin ha un buon motivo per averti ricondotto qui. Ebbene, per tutto quello che Fistandantilus ne sa, Raistlin potrebbe anche amarti, nel suo intimo più profondo.»

Caramon impallidì, e a Tas venne subito voglia di troncarsi la lingua con un morso. «Comunque,» si affrettò a proseguire, «non può sbarazzarsi subito di te. Dev’essere una cosa fatta come si deve...»

«E allora?»

«Allora...» Tas tirò un profondo respiro, «be’, non giustiziano la gente in questo posto, ma a quanto pare hanno altri sistemi di trattare quelli che non vogliono avere intorno. Quel chierico e il carceriere hanno entrambi parlato delle esecuzioni come di “morti facili”, a paragone di ciò che accade adesso.»

Una scudisciata sulla schiena di Caramon mise fine a ogni ulteriore conversazione. Fissando furibondo il servo che l’aveva colpito, un tipo untuoso e insinuante al quale, era ovvio, piaceva il proprio lavoro, Caramon affondò in un silenzio imbronciato, ripensando a ciò che Tas gli aveva detto. Certamente era sensato. Aveva visto quanta energia e concentrazione Par-Salian aveva impiegato per lanciare quel difficile incantesimo. Raistlin poteva anche essere potente, ma non a tal punto! Inoltre, era ancora fisicamente debole.

D’un tratto Caramon vide tutto con estrema chiarezza. Tasslehoff ha ragione! Siamo stati incastrati.

In qualche modo Fistandantilus si sbarazzerà di me e poi spiegherà la mia morte a Raistlin facendola passare per un incidente.

In qualche punto nei recessi della sua mente, Caramon sentì la voce burbera di un vecchio nano che diceva: «Non so chi sia lo stupido più grosso, tu, o quel pomolo di porta d’un kender! Se uno di voi due dovesse farcela a uscirne vivo, sarei davvero sorpreso!». Caramon sorrise con tristezza al pensiero del suo vecchio amico. Ma Flint non era là e non c’era neppure Tanis o chiunque altro che potesse consigliarlo. Lui e Tas erano soli, e se non fosse stato per l’impetuoso balzo del kender dentro l’incantesimo, lui avrebbe potuto benissimo trovarsi lì, indietro nel tempo, tutto solo, senza nessuno! Questo pensiero lo sgomentò. Fu colto da un brivido.

«Tutto ciò significa che devo far fuori questo Fistandantilus prima che lui faccia fuori me,» disse con voce sommessa.

Le grandi guglie del Tempio guardavano sulle strade della città tenute scrupolosamente pulite, tutte, salvo i vicoli retrostanti. Le strade erano affollate di gente. Le guardie del Tempio andavano in giro mantenendo l’ordine, risaltando in mezzo alla folla con i loro mantelli variopinti e i caschi piumati. Donne bellissime lanciavano con la coda dell’occhio sguardi ammirati alle guardie mentre si aggiravano tra i bazar e i negozi, spazzando il lastricato con i loro abiti raffinati mentre si muovevano con gesti misurati. C’era però un posto, l’unico in tutta la città, al quale le donne non si avvicinavano, anche se molte lanciavano sguardi incuriositi verso di esso: quel settore della piazza dove si trovava il mercato degli schiavi.

Come al solito, il mercato degli schiavi era affollato. Le aste avevano luogo una volta la settimana e questo era uno dei motivi per cui l’uomo dalla pelle d’orso, che era il direttore, era stato così ansioso di ottenere il quoziente settimanale di schiavi dalle prigioni. Malgrado il denaro ricavato dalla vendita degli schiavi andasse nei pubblici forzieri, il direttore riceveva la sua parte, naturalmente. Quella settimana si prospettava assai promettente.

Come aveva detto a Tas, non avvenivano più esecuzioni a Istar o in quella parte di Krynn da essa controllata. O comunque... poche. I Cavalieri di Solamnia insistevano ancora nel punire quei loro membri che avevano tradito il loro Ordine nell’antica, barbarica maniera: tagliando la gola del reprobo con la sua stessa spada. Ma il Gran Sacerdote si stava consultando con i cavalieri e c’era speranza che ben presto quella pratica efferata sarebbe cessata.

Naturalmente, la cessazione delle esecuzioni a Istar aveva creato un altro problema: cosa fare dei prigionieri che stavano aumentando di numero e cominciavano a costituire un grosso salasso per i pubblici forzieri? La chiesa, perciò, aveva condotto uno studio. Era stato scoperto che la maggior parte dei prigionieri erano indigenti, senza casa e senza un soldo. I crimini che avevano commesso, furti, rapine, prostituzione e altre infrazioni del genere, nascevano proprio da questo.

«Perciò, non è forse logico,» aveva detto il Gran Sacerdote ai suoi ministri, il giorno in cui aveva dato l’annuncio ufficiale, «che la schiavitù non soltanto sia la risposta al sovraffollamento delle nostre prigioni, ma una maniera assai indulgente e benefica di trattare questa povera gente, il cui solo crimine è quello di essere stati intrappolati in una ragnatela di povertà dalla quale non possono fuggire?

«Certo che lo è. E perciò nostro dovere aiutarli. Come schiavi, verranno nutriti, vestiti e alloggiati. Verrà loro dato tutto ciò di cui erano privi e che li ha costretti a darsi a una vita di crimini. Naturalmente, ci assicureremo che vengano trattati bene e faremo in modo che, dopo un certo periodo di schiavitù, se si saranno comportati bene, possano riacquistare la propria libertà. Allora torneranno a noi come membri produttivi della società.»

L’idea era stata subito attuata e veniva praticata ormai da circa dieci anni. C’erano stati problemi, ma questi non erano stati abbastanza gravi da richiedere l’intervento del Gran Sacerdote. I sottoministri li avevano risolti con efficienza, e adesso il sistema funzionava benissimo. La chiesa traeva un reddito costante dalle somme pagate per gli schiavi prelevati dalle prigioni (tenendoli distinti da quelli venduti dalle imprese private) e la schiavitù pareva fungere perfino da forte elemento di dissuasione nei confronti del crimine.

I problemi che erano sorti riguardavano due gruppi di criminali: i kender e quei delinquenti i cui delitti erano particolarmente sgradevoli. Era stato scoperto che era impossibile vendere un kender a qualcuno, ed era anche difficile vendere un assassino, uno stupratore, un pazzo, e così via. La soluzione era semplice: i kender venivano chiusi in prigione per la notte e poi condotti alle porte della città (il che dava luogo a una piccola processione ogni mattina). E degli istituti erano stati creati per trattare i tipi di criminali più impenitenti.

Quel mattino l’uomo dalla pelle d’orso stava parlando proprio con il nano che era a capo di uno di questi istituti, indicando Caramon che se ne stava insieme agli altri prigionieri nel recinto sporco e puzzolente dietro al blocco, mimando il drammatico movimento di abbattere una porta con la spalla.

Il capo dell’istituto non parve per nulla entusiasta. Comunque, la cosa non era insolita. Aveva imparato già da molto tempo che mostrare entusiasmo per un prigioniero era come chiedere l’immediato raddoppio del suo prezzo. Perciò il nano fissò Caramon corrugando la fronte, sputò per terra, incrociò le braccia e, piantando con fermezza i piedi al suolo, sollevò lo sguardo inferocito sull’uomo dalla pelle d’orso.

«È fuori forma, troppo grasso. Inoltre è un ubriacone, basta guardargli il naso.» Il nano scosse la testa. «E non sembra affatto cattivo. Cos’hai detto che ha fatto? Ha aggredito un chierico? Umpf !».

Il nano sbuffò. «A guardarlo si direbbe che l’unica cosa che sappia aggredire è una caraffa di vino!»

Naturalmente, l’uomo dalla pelle d’orso era abituato a questo.

«Ti perderesti l’occasione di una vita, Rockbreaker,» disse con voce insinuante. «Avresti dovuto vederlo mentre abbatteva quella porta. Non ho mai visto una simile forza in nessun uomo. Forse pesa un po’ troppo, ma questo si può curare facilmente. Rimettilo in sesto e diventerà un rubacuori. Le signore lo adoreranno. Guarda quegli occhi castani così vellutati e quei capelli ondulati...».

L’uomo dalla pelle d’orso abbassò la voce. «Sarebbe davvero un peccato farlo finire nelle miniere... Ho cercato di fare in modo che non si spargesse la voce su ciò che ha fatto, ma temo che Haarold ne abbia avuto sentore.»

Sia l’uomo dalla pelle d’orso sia il nano lanciarono un’occhiata ad un umano che si trovava a una certa distanza da loro, intento a parlare e a ridere con parecchie delle sue guardie corpulente. Il nano sì accarezzò la barba, mantenendo un’espressione impassibile.

L’uomo con la pelle d’orso continuò: «Haarold ha giurato di averlo a tutti i costi. Dice che farà il lavoro di due umani normali. Ora, poiché tu sei un cliente preferenziale, cercherò di fare in modo che la bilancia penda a tuo favore...»

«Lascia pure che se lo prenda Haarold,» ringhiò il nano. «Sudicio grassone.»

Ma l’uomo dalla pelle d’orso vide il nano squadrare Caramon con occhio calcolatore. Sapendo per lunga esperienza quando parlare e quando stare zitto, l’uomo dalla pelle d’orso rivolse un inchino al nano e si allontanò fregandosi le mani.

Avendo ascoltato quella conversazione, e vedendo che il nano lo stava guardando come si guarda un maiale che ha vinto il primo premio, Caramon provò l’immediato, selvaggio desiderio di spezzare le sue catene, abbattere il recinto in cui era rinchiuso, e strangolare sia l’uomo dalla pelle d’orso sia il nano. Il sangue gli martellava nel cervello: fece forza contro le catene che lo imprigionavano, i muscoli delle sue braccia si contrassero. Lo spettacolo indusse il nano a spalancare gli occhi e le guardie disposte intorno al recinto a sfoderare le spade. Ma d’un tratto Tasslehoff gli diede una gomitata nelle costole.

«Caramon, guarda!» esclamò il kender in preda all’eccitazione.

Per un attimo Caramon non riuscì a sentire a causa del tumultuoso pulsare del sangue nelle orecchie. Tas gli diede un’altra gomitata.

«Guarda, Caramon. Laggiù, ai margini della folla, tutto solo. Hai visto?»

Caramon emise un sospiro tremante e si costrinse a calmarsi. Guardò nella direzione indicatagli dal kender, e d’un tratto il sangue bollente delle sue vene si raggelò. Ai margini della folla c’era una figura impaludata di nero. Era solo. In effetti, c’era perfino un ampio cerchio vuoto intorno a lui.

Nessuno della folla gli si avvicinava. Molti deviavano, facendosi in quattro per evitare di andargli vicino. Nessuno gli parlava, ma tutti erano consapevoli della sua presenza. Quelli accanto a lui, che fino a un attimo prima stavano parlando animatamente, erano piombati in un silenzio inquieto e gli lanciavano occhiate nervose.

Le vesti dell’uomo erano d’un nero cupo, senza ornamenti. Nessun filo d’argento luccicava sulle sue maniche, nessun bordo cingeva il cappuccio nero che indossava, calato sul volto. Non stringeva in mano nessun bastone, nessun famiglio camminava al suo fianco. Che gli altri maghi portassero pure rune di difesa e protezione, che gli altri maghi impugnassero pure bastoni del potere o avessero animali pronti a obbedire ai loro ordini. Quell’uomo non aveva bisogno di niente. Il suo potere veniva da dentro, così grande da estendersi nell’arco di secoli, da estendersi perfino su diversi piani di esistenza. Era avvertibile, irradiandosi intorno a lui come il calore che emanava dalla fornace di un fabbro.

Era alto, di bella prestanza fisica. Le vesti nere gli ricadevano dalle spalle che erano snelle ma muscolose. Le sue mani bianche, le uniche parti visibili del suo corpo, erano forti, delicate e agili.

Anche se era così vecchio che pochi su Krynn potevano anche soltanto azzardarsi d’indovinare la sua età, aveva un corpo giovanile e robusto. Voci tenebrose andavano raccontando come avesse utilizzato le sue arti magiche per vincere le debilitazioni dell’età.

E così, se ne stava solo, come se un sole nero fosse precipitato giù, nella piazza del mercato.

Neppure il luccichio dei suoi occhi era visibile dentro le oscure profondità del suo cappuccio.

«Quello chi è?» chiese Tas, in tono discorsivo, a un altro prigioniero indicando con un cenno del capo la figura impaludata d. nero.

«non lo sai?» rispose nervosamente il prigioniero, come se fosse riluttante a rispondere.

«Vengo da fuori città,» si scusò Tas. .

«Diamine, è l’Oscuro, Fistandantilus. Avrai sentito parlare di lui, senza dubbio!» «si» “annuì Tas, lanciando nel contempo un’occhiata a Caramon, come per sottolineare un te l’avevo detto! «Abbiamo sentito parlare di lui.»

Capitolo quarto

Quando Crysania si risvegliò la prima volta dall’incantesimo che Paladine aveva lanciato su di lei, si trovò in un tale stato di sconcerto e confusione che i chierici ne furono enormemente preoccupati, temendo che il suo calvario le avesse squilibrato la mente.

Parlava di Palanthas, perciò supposero che venisse da quella città. Ma faceva continuamente appello al Capo del suo Ordine, qualcuno chiamato Elistan. I chierici conoscevano i capi di tutti gli Ordini su Krynn e questo Elistan era a tutti sconosciuto. Ma Crysania era così insistente che ci fu, a tutta prima, il timore che qualcosa potesse essere successo all’attuale Capo di Palanthas. Vennero mandati subito dei messaggeri.

Inoltre Crysania parlava di un Tempio di Palanthas ma in quel luogo non esisteva alcun Tempio.

Alla fine si era messa a parlare in maniera alquanto inconsulta di draghi e del «ritorno degli dei», il che aveva indotto i presenti nella stanza, Quarath ed Elsa, Capo delle Reverende Figlie, a guardarsi l’un l’altra in preda all’orrore e a tracciare il segno della protezione contro le bestemmie. A Crysania venne data una pozione d’erbe, che l’aveva calmata, e alla fine si era addormentata. I due erano rimasti con lei per lunghi momenti, dopo che si era addormentata, discutendo del suo caso a bassa voce. Poi il Gran Sacerdote era entrato nella stanza. Era venuto a placare i loro timori.

«Ho lanciato un augurio,» disse con la sua voce musicale, «e mi è stato detto che Paladine l’ha chiamata a sé per proteggerla da un incantesimo di magia malvagia che è stato usato su di lei. Non credo che nessuno di noi abbia difficoltà a crederlo.»

Quarath ed Elsa scossero la testa, scambiandosi occhiate d’intesa. L’odio del Gran Sacerdote per i fruitori di magia era ben noto.

«E stata con Paladine, perciò è stata in quel meraviglioso regno che stiamo cercando di ricreare su questa terra. Senza alcun dubbio, mentre si trovava là, le sono state date conoscenze del futuro. Parla di un meraviglioso Tempio che viene costruito a Palanthas. Noi non abbiamo forse in progetto di costruire un simile Tempio? E parla di questo Elistan, che è probabilmente un chierico destinato a governare colà.»

«Ma... i draghi? E il ritorno degli dei?» mormorò Elsa.

«In quanto ai draghi,» disse il Gran Sacerdote con una voce che irradiava calore e divertimento, «si tratta probabilmente di qualche storia della sua giovinezza che l’ha ossessionata durante la sua malattia, o forse ha qualcosa a che fare con l’incantesimo che è stato lanciato su di lei dal fruitore di magia.» La sua voce divenne severa. «Si dice, sapete, che gli stregoni abbiamo il potere di far vedere alla gente ciò che non esiste. In quanto ai suoi discorsi sul “ritorno degli dei”...»

Una luce riempì la stanza. Elsa bisbigliò una preghiera, e perfino Quarath abbassò gli occhi.

«Lasciatela dormire,» disse il Gran Sacerdote. «Domattina starà già meglio. La nominerò nelle mie preghiere a Paladine.»

Lasciò la stanza, che divenne più buia alla sua partenza. Elsa lo seguì con lo sguardo, in silenzio.

Poi, quando la porta della camera di Crysania si fu chiusa, la donna elfo si voltò verso Quarath.

«Ha il potere?» chiese Elsa al suo omologo maschile, mentre Quarath fissava pensoso Crysania.

«Davvero intende fare... quello che ha detto di voler fare?»

«Cosa?» I pensieri di Quarath tornarono da lontano. Lanciò un’occhiata verso la porta da cui era appena uscito il Gran Sacerdote. «Oh, quello? Certo che ne ha il potere. Hai visto come ha guarito questa giovane donna. E gli dei parlano attraverso l’augurio, o per lo meno è ciò che lui sostiene. Quando è stata l’ultima volta che hai guarito qualcuno, Reverenda Figlia?»

«Allora tu credi a tutta quella storia di Paladine che avrebbe preso la sua anima permettendole di vedere il futuro?». Elsa appariva stupefatta. «Credi che l’abbia davvero guarita?»

«Credo ci sia qualcosa di molto strano in questa giovane donna e in coloro che sono arrivati con lei,» dichiarò Quarath con voce grave. «Mi occuperò di loro. Tu tieni d’occhio lei. In quanto al Gran Sacerdote,» Quarath scrollò le spalle, «lascia che faccia appello al potere degli dei. Se scenderanno e combatteranno per lui, bene. In caso contrario, per noi non avrà importanza. Sappiamo chi fa il lavoro degli dei su Krynn.»

«Mi chiedo,» osservò Elsa, lisciando i capelli scuri di Crysania e scostandoli dal suo volto addormentato, «... c’era una giovane nel nostro Ordine che aveva davvero il potere di guarire. Quella giovane fu sedotta da un cavaliere di Solamnia... qual era il suo nome?»

«Soth,» rispose Quarath. «Lord Soth, della Rocca di Dargaard. Oh, non ne dubito. Di tanto in tanto trovi qualcuno, in particolare fra i molto giovani o i molto vecchi, che ha il potere. O pensa di averlo. Ad esser franco sono convinto che nella maggior parte dei casi ciò è dovuto soltanto alla gente che vuole talmente credere in qualcosa da finire per convincersi che è vero. Il che non danneggia nessuno di noi. Sorveglia con molta attenzione questa giovane donna, Elsa. Se dovesse continuare a parlare di simili cose, domattina, una volta che si sarà ripresa, potremmo trovarci costretti a prendere misure drastiche. Ma, per ora...»

Tacque. Elsa annuì. Sapendo che la giovane donna avrebbe dormito profondamente sotto l’influenza della pozione, i due lasciarono sola Crysania, addormentata in una stanza del grande Tempio di Istar.

Crysania si svegliò il mattino seguente con la sensazione che la sua testa fosse imbottita di cotone.

Aveva un sapore amaro in bocca e una sete terribile. Stordita, si rizzò a sedere cercando di rimettere insieme in qualche modo i cocci dei suoi pensieri. Niente aveva senso. Lei aveva un vago, orrendo ricordo d’una spettrale creatura dell’oltretomba che le si avvicinava. Poi si era trovata con Raistlin nella Torre della Grande Stregoneria, quindi un vago ricordo di essere circondata da maghi vestiti di bianco, rosso e nero, un’impressione di pietre che cantavano, e la sensazione di aver intrapreso un lungo viaggio.

Aveva anche il ricordo di essersi svegliata e di essersi trovata alla presenza di un uomo dalla bellezza sopraffacente, la cui voce aveva riempito la sua mente e la sua anima di pace. Lui le aveva detto di essere il Gran Sacerdote: lei si trovava nel Tempio degli Dei di Istar. Questo non aveva alcun senso. Ricordava di aver invocato Elistan, ma pareva che nessuno l’avesse mai sentito nominare. Aveva parlato loro di lui, di come fosse stata guarita da Goldmoon, chierico di Mishakal, della lotta contro i draghi del Male, e di come venisse diffuso tra la gente l’annuncio del ritorno degli dei. Ma le sue parole erano servite soltanto a indurre i chierici a guardarla con pietà e allarme.

Alla fine le avevano dato da bere una pozione dallo strano sapore, e lei si era addormentata.

Adesso era ancora confusa ma decisa a scoprire dov’era e cosa stava succedendo. Uscita dal letto, si costrinse a lavarsi come faceva ogni mattina, poi si sedette davanti allo strano tavolino da toeletta e si spazzolò e intrecciò con calma i lunghi capelli scuri. Quella familiare routine la fece sentire più rilassata.

Si prese perfino un po’ di tempo per dare un’occhiata alla camera da letto, e non potè fare a meno di ammirarne la bellezza e lo splendore. Ma giudicò che apparisse fuori luogo in un Tempio dedicato agli dei, se davvero era là che si trovava. La sua camera da letto nella casa dei suoi genitori a Palanthas non aveva raggiunto neppure la metà di quello splendore.

La sua mente andò subito a ciò che Raistlin le aveva fatto vedere, la povertà e l’indigenza così vicine al Tempio, e arrossì in preda al disagio.

«Forse questa è una camera per gli ospiti,» si disse Crysania, parlando ad alta voce ricavando conforto da quel suono familiare. «Dopotutto, le camere per gli ospiti nel nostro nuovo Tempio sono state certamente attrezzate per far sentire a proprio agio i nostri visitatori. Tuttavia,» corrugò la fronte, il suo sguardo andò alla costosa statua d’oro d’una driade che reggeva una candela nelle mani dorate, «quella è una stravaganza. Il suo prezzo basterebbe a nutrire un’intera famiglia per molti mesi.»

Com’era contenta che lui non potesse vederla! Avrebbe parlato al Capo di quest’Ordine, chiunque fosse. (Di certo doveva essersi sbagliata pensando che avesse detto di essere il Gran Sacerdote).

Avendo deciso di agire e sentendo che la sua mente si era schiarita, Crysania si tolse di dosso gli indumenti notturni e s’infilò le vesti bianche che trovò disposte ordinatamente ai piedi del letto.

Che vesti bizzarre, d’altri tempi, osservò, facendosele scivolare addosso da sopra la testa. Niente affatto simili alle vesti bianche, semplici e austere, indossate da quelli del suo Ordine a Palanthas.

Queste erano pesantemente decorate. Fili d’oro luccicavano sulle maniche e sugli orli, nastri rossi e purpurei ornavano il davanti, e una pesante cintura d’oro raccoglieva le pieghe intorno alla sua vita sottile. Ancora una stravaganza. Crysania si morse il labbro, disapprovando, ma si diede ancora una sbirciata nello specchio incorniciato d’oro. Senza dubbio le si confaceva, doveva ammetterlo, lisciando le pieghe del vestito. Fu allora che sentì il foglio che aveva in tasca. V’infilò subito la mano e tirò fuori un pezzo di carta di riso che era stato piegato in quattro. Lo fissò incuriosita, chiedendosi oziosamente se il proprietario della veste l’avesse lasciato lì per caso... Ma con viva sorpresa si accorse che era indirizzato a lei. Perplessa, lo lesse:

Dama Crysania, sapevo che avresti cercato il mio aiuto per tornare al passato nel tentativo d’impedire che il giovane mago, Raistlin, attuasse il male che sta complottando. Però, mentre eri in viaggio per raggiungerci, sei stata attaccata da un cavaliere della morte. Per salvarti Paladine ha portato la tua anima nella sua celeste dimora. Non c’è nessuno fra noi adesso, neppure lo stesso Elistan, che possa portarti indietro. Soltanto quei chierici che vivono all’epoca del Gran Sacerdote hanno questo potere. Perciò ti abbiamo mandato indietro nel tempo fino a Istar, subito prima del Cataclisma, in compagnia del fratello di Raistlin, Caramon. l’i abbiamo mandato perché tu adempia a un duplice scopo. Primo, guarirti della tua grave ferita e, secondo, permetterti di avere successo nei tuoi sforzi di salvare il giovane mago da se stesso.

Se in ciò vedi l’opera degli dei, forse allora potresti considerare benedetti i tuoi sforzi. Vorrei farti una sola raccomandazione: gli dei operano in modi che possono apparire strani ai mortali, poiché noi possiamo vedere solamente quella parte dell’immagine che viene dipinta intorno a noi. Avevo sperato di poter discutere di questo con te, di persona, prima della tua partenza, ma questo è risultato impossibile.

Posso soltanto metterti in guardia su un punto: guardati da Raistlin.

Sei virtuosa, risoluta nella tua fede, e orgogliosa sia della tua virtù sia della tua fede. Questa è una micidiale combinazione, mia cara. Lui ne approfitterà in pieno.

Ricordati anche di questo. Tu e Caramon siete tornati indietro a un’epoca pericolosa. I giorni del Gran Sacerdote sono contati. Caramon ha intrapreso una missione che potrebbe dimostrarsi pericolosa per la sua vita. Ma tu, Crysania, rischi sia la tua vita sia la tua anima. Prevedo che sarai costretta a scegliere: per salvare l’una dovrai rinunciare all’altra. Hai molti modi per lasciare questo periodo di tempo, uno dei quali è tramite Caramon. Che Paladine sia con te.

Par-Salian

Ordine delle Vesti Bianche

Torre della Grande Stregoneria

Wayreth

Crysania affondò nel letto, i ginocchi le erano venuti meno. La mano che reggeva la lettera tremava. La fissava stordita, leggendola e rileggendola senza comprendere le parole. Dopo qualche momento, però, si calmò e si costrinse a riesaminare ogni singola parola, leggendola e rileggendola fino a quando non fu certa di averne afferrato il significato.

Per farlo le ci volle circa mezz’ora di lettura e di riflessione. Alla fine credette di aver capito. O per lo meno di aver capito la maggior parte di quanto vi era scritto. Le ritornò alla mente il ricordo del perché aveva viaggiato fino alla Foresta di Wayreth. Così, Par-Salian aveva saputo. Aveva atteso il suo arrivo. Ancora meglio. E aveva ragione: quanto era accaduto dopo l’attacco del cavaliere della morte era un ovvio esempio dell’intervento di Paladine per esser certi che lei ritornasse qui, nel passato. In quanto a quell’osservazione sulla sua fede e sulla sua virtù...!

Crysania si alzò in piedi. Sul suo pallido volto si leggeva ora una precisa determinazione. Su ognuna delle sue guance c’era una macchia di colore appena accennata, e gli occhi le luccicavano per la collera. Le dispiaceva soltanto di non averlo potuto affrontare di persona! Come si permetteva?

Con le labbra tirate in una stretta linea, Crysania ripiegò il messaggio, passandoci sopra rapidamente le dita, come se avesse una gran voglia di lacerarlo. Una piccola scatola d’oro, del tipo usato dalle dame di corte per tenervi i gioielli, si trovava sul tavolo della toeletta accanto allo specchio dalla cornice dorata e alla spazzola. Prendendo la scatola,

Crysania l’aprì, v’infilò dentro il messaggio, chiuse il coperchio e girò la piccola chiave nella serratura, fino a quando sentì il lieve scatto. Poi lasciò cadere la chiave nella tasca dove aveva trovato la lettera, e si guardò ancora una volta nello specchio.

Si lisciò i capelli neri scostandoseli dal viso, tirò su il cappuccio della veste e se lo drappeggiò intorno alla testa. Notando l’arrossamento delle sue guance, Crysania si costrinse a rilassarsi, consentendo alla sua collera di sfumare. Ricordò a se stessa che, dopotutto, le intenzioni del vecchio mago erano state buone. E com’era possibile che qualcuno dedito alla magia comprendesse qualcuno dedito alla fede? Poteva ben elevarsi al di sopra di una collera meschina. Dopotutto, lei si librava sul sommo del suo momento di grandezza. Paladine era con lei. Poteva quasi sentire la sua presenza. E l’uomo che aveva incontrato era davvero il Gran Sacerdote!

Sorrise, ricordando la sensazione di profonda bontà che le aveva ispirato. Com’era possibile che fosse stato responsabile del Cataclisma? No, la sua anima si rifiutava di crederlo. La storia doveva averlo calunniato. Era vero che era rimasta con lui soltanto per pochi secondi, ma un uomo così bello, così buono e santo... responsabile di tante morti e distruzioni? Era impossibile! Forse sarebbe stata in grado di provare la sua innocenza. Forse quella era un’ altra ragione per cui Paladine l’aveva mandata indietro nel tempo: per scoprire la verità.

Crysania sentì la sua anima riempirsi di gioia. E, all’ultimo momento, sentì che la sua gioia riceveva risposta, per lo meno così le parve, nello scampanio delle Preghiere del Mattino. La bellezza della musica le fece venire le lacrime agli occhi. Con il cuore che le scoppiava per l’eccitazione e la felicità, Crysania lasciò la stanza e corse fuori negli splendidi corridoi, andando quasi a sbattere addosso a Elsa.

«In nome degli dei,» esclamò Elsa, in preda allo stupore, «è possibile? Come ti senti?»

«Mi sento molto meglio, Reverenda Figlia,» disse Crysania, colta da una certa confusione, ricordando che quanto le avevano sentito dire prima dovevano esser parse farneticazioni dissennate e incoerenti. «Co... come se mi fossi svegliata da uno strano e vivido sogno.»

«Paladine sia lodato,» mormorò Elsa, socchiudendo gli occhi e grati ficando Crysania di uno sguardo acuto e penetrante.

«Non ho certo mancato di lodarlo, puoi esserne certa,» replicò Crysania con sincerità. Piena di gioia com’era, non si accorse della strana espressione della donna elfo. «Stavi andando alle Preghiere dal Mattino? Se è così, posso accompagnarti?». Guardò con reverenza lo splendido edifìcio intorno a sé. «Temo che mi ci vorrà un po’ di tempo prima che impari ad aggirarmi qua dentro.»

«Certo,» rispose Elsa, riprendendosi. «Da questa parte.» Ripreselo a camminare lungo il corridoio.

«Ero anche preoccupata per... per il giovane che è stato... che è stato ritrovato insieme a me,» balbettò Crysania, ricordando d’un tratto di sapere assai poco delle circostanze riguardanti la sua comparsa in quel tempo.

Il volto di Elsa diventò freddo e severo. «Si trova dove verrà ben accudito, mia cara, È un tuo amico?»

«No, certo che no,» si affrettò a rispondere Crysania, ricordando il suo ultimo incontro con Caramon ubriaco. «Era... era la mia scorta. La scorta assoldata per me,» balbettò, rendendosi conto all’improvviso di essere assai poco brava a mentire.

«Si trova nella Scuola dei Giachi,» rispose Elsa. «Se sei preoccupata, è possibile inviargli un messaggio.»

Crysania non aveva nessuna idea di cosa fosse quella scuola, e aveva paura di fare troppe domande perciò, ringraziando Elsa, lasciò perdere, sentendosi più tranquilla. Per lo meno adesso sapeva dove si trovava Caramon, e che era al sicuro. Sentendosi rassicurata sapendo di avere un modo per far ritorno al suo tempo, consentì a se stessa di rilassarsi completamente.

«Ah, guarda, mia cara,» disse Elsa. «Ecco che arriva qualcun altro a informarsi della tua salute.»

«Reverendo Figlio.» Crysania s’inchinò reverente quando Quarath si avvicinò alle due donne. Così facendo, non si accorse della rapida occhiata interrogativa rivolta dall’uomo ad Elsa, e del lieve annuire della donna elfo.

«Sono felicissimo di vederti in piedi e già in movimento,» disse Quarath, prendendo la mano di Crysania e parlando con tanto sentimento e calore che la giovane donna arrossì per il piacere.

«Il Gran Sacerdote ha passato la notte a pregare per la tua guarigione. Questa prova della sua fede e del suo potere saranno estremamente gratificanti. Questa sera ti presenteremo ufficialmente a lui. Ma, adesso,» continuò interrompendo Crysania che stava per replicare, «ti sto distogliendo dalle Preghiere. Per favore, non permettere che ti trattenga oltre.»

Rivolgendo un inchino a entrambe con grazia squisita, Quarath passò oltre, proseguendo lungo il corridoio.

«Non assiste al rito?» chiese Crysania, seguendo il chierico con lo sguardo.

«No, mia cara,» replicò Elsa, sorridendo per l’ingenuità di Crysania. «Assiste il Gran Sacerdote ogni mattina durante le sue cerimonie private. Dopotutto, Quarath è secondo soltanto al Gran Sacerdote e ogni giorno deve occuparsi di questioni di grande importanza. Si potrebbe dire che se il Gran Sacerdote è il cuore e l’anima della chiesa, Quarath ne è la mente.»

«Cielo, com’è strano,» mormorò Crysania pensando a Elistan.

«Strano, mia cara?» disse Elsa, con una lieve sfumatura di rimprovero. «I pensieri del Gran Sacerdote si accompagnano agli dei. Non ci si può aspettare che debba occuparsi di faccende mondane, come quelle quotidiane della chiesa, non ti pare?»

«Oh, certo che no.» Crysania arrossì per l’imbarazzo.

Quanto doveva apparire provinciale, lei, a quella gente: semplice ed arretrata. Mentre seguiva Elsa lungo i corridoi luminosi e arieggiati, la bellissima musica delle campane e il suono glorioso del coro dei fanciulli colmarono la sua anima di gioia estatica. Crysania ricordò il semplice rito che Elistan celebrava ogni mattina. E per di più, badava anche, personalmente, alla maggior parte delle attività quotidiane della chiesa.

Adesso quel semplice rito le appariva scialbo, e il lavoro cui si sottoponeva ogni giorno Elistan degradante. Certamente la sua salute ne aveva pagato lo scotto. Forse, pensò Crysania con uno spasimo di rincrescimento, non avrebbe accorciato così la sua vita, se fosse stato circondato ed aiutato da gente come quella...

Bene, questo cambierà, decise tutt’a un tratto Crysania, rendendosi conto che quella doveva essere stata un’altra ragione per la quale era stata rispedita indietro nel tempo: era stata scelta per ripristinare la gloria della chiesa! Tremando per l’eccitazione, la mente già indaffarata a tracciare piani per il cambiamento, Crysania chiese a Elsa di descriverle il funzionamento interno della gerarchia della chiesa. Elsa fu fin troppo lieta d’illustrargliela, mentre proseguivano lungo il corridoio.

Smarrita nel suo interesse per la conversazione, attenta ad ogni singola parola di Elsa, Crysania non pensò più a Quarath che stava, in quel momento, aprendo in silenzio la porta della camera da letto di lei, sgusciandovi dentro furtivamente.

Capitolo quinto.

Bastarono pochi istanti, a Quarath, per trovare la lettera di Par-Salian. Aveva notato quasi subito, nell’entrare, che la scatola dorata sopra il tavolino della toilette era stata spostata. Una rapida perquisizione dei cassetti glielo confermò e, dal momento che aveva un passepartout che gli consentiva di aprire ogni scatola, cassetto e porta in tutto il Tempio, l’aprì con facilità.

Ma il chierico non capì con altrettanta facilità la lettera. Gli ci vollero soltanto pochi secondi per memorizzarne il contenuto. Questo sarebbe rimasto impresso nella sua mente: la fenomenale abilità di Quarath di mandare a memoria all’istante qualunque cosa gli capitasse sotto gli occhi era uno dei suoi doni più grandi. Fu così che in pochi istanti ebbe rinserrato nella propria mente il testo completo del messaggio.

Ma, si rese conto, ci sarebbero volute ore di riflessione per trarne un senso.

Con fare assente, Quarath ripiegò il foglio e lo rimise nella scatola, poi riportò la scatola nell’esatta posizione all’interno del cassetto. Lo chiuse con il passepartout, diede un’occhiata dentro agli altri cassetti senza troppo interesse e, non avendo trovato niente, lasciò la stanza della giovane donna immerso nei suoi pensieri.

Il contenuto della lettera era così sconcertante e inquietante da indurlo a cancellare i suoi appuntamenti di quella mattina o a trasferirli sulle spalle dei suoi subordinati. Poi andò nel suo studio. Qui si sedette e richiamò alla memoria ogni singola parola, ogni singola frase.

Alla fine trovò una spiegazione, anche se non del tutto soddisfacente, almeno sufficiente a stabilire una linea d’azione. Tre cose erano evidenti. Primo, la giovane donna poteva anche essere un chierico, ma aveva a che fare con fruitori di magia ed era perciò sospetta. Secondo, il Gran Sacerdote era in pericolo. Questo non era sorprendente, i fruitori di magia avevano buone ragioni per odiare e temere quell’uomo. Terzo, il giovane trovato insieme a Crysania era senza alcun dubbio un assassino. Crysania stessa poteva essere una complice.

Quarath ebbe un sorriso sinistro, congratulandosi con se stesso per aver già preso le misure più appropriate ad affrontare la minaccia. Aveva fatto in modo che il giovane, a quanto pareva il suo nome era Caramon, prestasse servizio in un luogo dove di tanto in tanto, accadevano sfortunati incidenti.

In quanto a Crysania, si trovava al sicuro all’interno delle mura del Tempio, dove poteva venir sorvegliata e interrogata in maniera da non destare sospetti.

Respirando con più calma, la mente più limpida, il chierico suonò per farsi portare il pranzo dal servo, contento di sapere che, almeno per il momento, il Gran Sacerdote era al sicuro.

Quarath era un uomo insolito sotto molti aspetti, uno dei quali, tra i più importanti, era che, malgrado fosse molto ambizioso, conosceva i limiti delle proprie capacità. Aveva bisogno del Gran Sacerdote, e non aveva nessun desiderio di prendere il suo posto. Quarath si accontentava di crogiolarsi alla luce del suo padrone, estendendo allo stesso tempo il proprio controllo, autorità e potere sul mondo, il tutto in nome della chiesa.

Quarath sentiva che era una sfortuna che gli dei avessero considerato giusto creare altre razze più deboli... Razze come gli umani i quali, con la loro vita breve e frenetica, erano facili bersagli per le tentazioni del Male. Ma gli elfi stavano imparando ad affrontare questo. Anche se non erano in grado di spazzar via completamente il Male dal mondo (ma si stavano impegnando), potevano per lo meno metterlo sotto controllo. Era la libertà che causava il male. La libertà di scelta.

Specialmente per gli umani, che abusavano continuamente di questo dono. Bisognava dar loro delle rigide regole da seguire, chiarire quello che era giusto e quello che era sbagliato senza lasciare adito a incertezze, limitare quella irrefrenabile libertà della quale facevano tanto cattivo uso. Così, era convinto Quarath, gli umani sarebbero rientrati nelle righe, con piena soddisfazione.

In quanto alle altre razze su Krynn: gnomi, nani e (sospirò) kender, Quarath - e la chiesa - li stavano rapidamente costringendo a vivere in piccoli territori isolati, dove potevano causare pochi guai e, col tempo, si sarebbero probabilmente estinti. (Questo piano stava funzionando bene con gli gnomi e i nani, i quali comunque non servivano molto al resto di Krynn. Per sfortuna, però, i kender non si adattavano per niente e se ne gironzolavano ancora felici per il mondo, causando guai a non finire godendosi in pieno la vita.)

Tutto questo passava per la mente di Quarath mentre pranzava e cominciava a tracciare i suoi piani. Non avrebbe fatto niente di precipitoso a proposito di Dama Crysania, non era quello il suo modo di agire, né il modo degli elfi, se era per questo. Per ogni cosa ci voleva pazienza. Osservare. Aspettare. Adesso gli serviva soltanto una cosa: maggiori informazioni. A questo fine fece squillare un minuscolo campanello d’oro. Il giovane accolito che aveva accompagnato Denubis dal Grande Sacerdote rispose con tanta rapidità e silenzio alla convocazione che avrebbe potuto benissimo essere entrato sgusciando da sotto la porta invece che aprirla.

«Che cosa ordini, Reverendo Figlio?»

«Due piccoli incarichi,» disse Quarath, senza sollevare lo sguardo, essendo impegnato a scrivere un appunto. «Porta questo a Fistandantilus. È passato un po’ di tempo da quando è stato mio ospite a cena, e desidero parlare con lui.»

«Fistandantilus non si trova qui, mio signore,» rispose l’accolito. «In effetti, stavo giusto venendo a riferirtelo.»

Quarath sollevò la testa, stupito.

«Non è qui?»

«No, Reverendo Figlio. Se n’è andato stanotte, o per lo meno lo supponiamo. Stanotte è stata l’ultima volta che qualcuno l’ha visto. La sua stanza è vuota, le sue cose sono scomparse. Si ritiene, da certi indizi, che sia andato alla Torre della Grande Stregoneria di Wayreth. Corre voce che gli stregoni vi stiano tenendo un conclave, anche se nessuno lo sa per certo.»

«Un conclave,» ripetè Quarath, corrugando la fronte. Rimase silenzioso per un momento, battendo la punta della penna d’oca sulla carta. Wayreth era molto lontana... però, forse non era abbastanza lontana... Cataclisma... Quella strana parola che era stata usata nella lettera. Possibile che i fruitori di magia stessero complottando qualche devastante catastrofe? Quarath si sentì raggelare.

Accartocciò lentamente l’invito che stava stilando.

«I suoi movimenti sono stati ricostruiti?»

«Certamente, Reverendo Figlio, per quanto è possibile con lui. A quanto pare, era da molti mesi che non lasciava il Tempio. E poi ieri è stato visto al mercato degli schiavi.»

«Il mercato degli schiavi?». Quarath sentì un brivido gelido diffondersi per il suo corpo. «Quali faccende l’hanno condotto laggiù?»

«Ha comperato due schiavi, Reverendo Figlio.»

Quarath non disse niente, limitandosi a interrogare il chierico con un’occhiata.

«Non ha comperato lui stesso gli schiavi, mio signore. L’acquisto è stato fatto attraverso uno dei suoi agenti.»

«Quali schiavi?». Ma Quarath conosceva già la risposta.

«Quelli che sono stati accusati di aver aggredito il chierico femmina, Reverendo Figlio.»

«Avevo dato ordine che quei due dovevano essere venduti o al nano o alle miniere.»

«Barak ha fatto del suo meglio e, in verità, il nano ha fatto delle offerte per loro, ma gli agenti dell’Oscuro le hanno superate. Non c’era niente che Barak potesse fare. Pensa allo scandalo! Inoltre, i suoi agenti li hanno mandati lo stesso alla scuola...»

«Sì,» borbottò Quarath. Così, ogni cosa andava al suo posto. Fistandantilus aveva avuto perfino la temerarietà di comperare il giovanotto, l’assassino! Poi era scomparso. Andato a riferire, senza alcun dubbio. Ma perché mai i maghi si preoccupavano per degli assassini? Fistandantilus avrebbe potuto assassinare personalmente il Gran Sacerdote in innumerevoli occasioni. Quarath ebbe la spiacevole impressione di aver inavvertitamente lasciato un sentiero sgombro per inoltrarsi in una buia e infida foresta.

Rimase seduto, turbato e silenzioso, per tanto di quel tempo che il giovane accolito si schiarì la gola per tre volte, come riguardoso memento della sua presenza, prima che il chierico si accorgesse di lui.

«Avevi un altro compito per me, Reverendo Figlio?»

Quarath annuì in silenzio. «Sì. E questa notizia rende il compito ancora più importante. Desidero che l’intraprenda tu stesso. Io devo parlare al nano.»

L’accolito s’inchinò e se ne andò. Non c’era bisogno di chiedere a chi si riferiva Quarath: c’era un solo nano a Istar.

Nessuno sapeva chi fosse Arack Rockbreaker o da dove venisse. Non faceva mai riferimento al suo passato e di solito si accigliava così rabbiosamente se l’argomento saltava fuori, che i suoi interlocutori si affrettavano ad abbandonarlo. C’erano parecchie interessanti congetture in proposito, la più diffusa era che fosse stato cacciato da Thorbardin, l’antica dimora dei nani delle montagne, dove aveva commesso qualche crimine che gli era costato l’esilio. Nessuno riusciva a immaginarsi che razza di crimine avrebbe potuto essere. E non c’era nessuno che prendesse in considerazione il fatto che i nani non punivano mai nessun crimine con l’esilio. La condanna a morte veniva considerata più umana.

Altre voci insistevano a dire che in realtà si trattava di un dewar, una razza di nani malvagi quasi sterminati dai loro cugini, spinti adesso a vivere un’esistenza amara e miseranda nelle viscere stesse del mondo. Malgrado Arack non avesse l’aspetto né si comportasse nella maniera specifica di un dewar, questa voce era popolare per il fatto che il suo compagno favorito (e il solo) era un orco.

Secondo altre voci Arack non proveniva affatto da Ansalon, ma da qualche altro luogo al di là del mare.

Certamente era l’esemplare più brutto della sua razza che chiunque ricordasse di aver mai visto. Le cicatrici frastagliate che gli attraversavano verticalmente il volto gli davano una perpetua espressione torva. Non c’era grasso, non c’era una sola oncia sprecata sul suo corpo. Si muoveva con la grazia di un felino e, quando stava dritto, piantava i piedi al suolo con tanta fermezza che parevano far parte del terreno medesimo. Qualunque fosse il suo luogo d’origine, Arack aveva fatto di Istar la sua casa ormai da così tanti anni che l’argomento della sua terra di provenienza saltava fuori molto di rado. Lui e l’orco, che si chiamava Raag, provenivano dai Giochi dei vecchi tempi, quand’erano ben più duri e crudeli. Erano diventati subito i grandi favoriti della folla. C’era gente a Istar che raccontava ancora come Raag e Arack avessero sconfitto il poderoso minotauro, Darmoork, in tre riprese. Tutto era cominciato quando Darmoork aveva scagliato il nano fuori dell’arena. Raag, in preda a una rabbia e a un furore ciechi, aveva sollevato da terra il minotauro e, ignorando la gragnola di pugnalate che costui continuava a infliggergli, l’aveva impalato sulla gigantesca Guglia della Libertà al centro del ring.

Anche se né il nano (che era sopravvissuto soltanto perché un chierico si era trovato sulla sua traiettoria quand’era volato sopra l’arena) né l’orco si erano conquistati la libertà quel giorno, non c’era stato nessun dubbio sul vincitore dei Giochi. (In verità c’erano voluti molti giorni prima che qualcuno riuscisse a raggiungere la Chiave d’Oro sulla Guglia, poiché c’era voluto tutto quel tempo per rimuovere i resti del minotauro). Arack riferì i macabri particolari di quel combattimento ai suoi due nuovi schiavi.

«È così che mi sono procurato questa faccia crepata,» disse il nano a Caramon, mentre conduceva l’omone e il kender lungo le strade di Istar. «Ed è così che Raag ed io ci siamo fatti un nome nei Giochi.»

«Quali giochi?» chiese Tas, inciampando sulla sua catena e finendo lungo disteso, con grande divertimento della folla nella piazza del mercato.

Arack si accigliò irritato. «Togligli di dosso quei dannati affari,» ordinò al gigantesco orco dalla pelle gialla che gli faceva da guardia del corpo. «Immagino che tu non scapperai lasciando solo il tuo amico, vero?». Il nano fissò intensamente Tas. «No, non credo proprio. Dicono che già una volta hai avuto la possibilità di scappare e non l’hai fatto. Stai bene attento a non scappare da me!».

Le rughe naturali che solcavano la fronte di Arack si approfondirono. «Non avrei mai comperato un kender, ma non ho avuto molta scelta. Hanno detto che voi due dovevate venir venduti insieme. Ricordati soltanto una cosa: per quanto mi riguarda tu sei inutile. Adesso, che razza di stupida domanda mi stavi facendo?»

«Come farai a togliermi queste catene? Non ti serve una chiave? Oh...» Tas contemplò con deliziato stupore l’orco che afferrava le catene con entrambe le mani e, con un fulmineo strattone, le spezzava.

«Hai visto, Caramon?» chiese Tas mentre l’orco lo agguantava e lo rimetteva in piedi, dandogli una spinta che quasi lo fece cadere un’altra volta per terra. «È davvero forte! Non avevo mai incontrato un orco prima d’oggi. Cosa stavo dicendo? Ah, i giochi... Quali giochi?» «Diamine, i Giochi!» sbottò Arack, esasperato. Tas levò lo sguardo su Caramon, ma l’omone scrollò le spalle e scosse la testa, corrugando la fronte. Era ovvio che si trattava di qualcosa che lì conoscevano tutti. Fare troppe domande sarebbe parso sospetto. Tas frugò nella propria mente, disseppellendo ogni ricordo e ogni storia da lui sentita sugli antichi giorni prima del Cataclisma. D’un tratto trattenne il respiro.

«I Giochi!» esclamò, rivolto a Caramon, dimenticandosi che il nano stava ascoltando. «I Grandi Giochi di Istar! Non te ne ricordi?» Il volto di Caramon divenne cupo.

«Vuoi dire che è là che stiamo andando?». Tas si girò verso il nano con gli occhi spalancati per l’eccitazione. «Faremo i gladiatori? E combatteremo nell’arena, con la folla che guarda e tutto il resto! Oh, Caramon, pensa! I Grandi Giochi di Istar! Diamine, ho sentito raccontare delle storie...»

«Anch’io,» disse l’omone, parlando lentamente, «e te ne puoi dimenticare, nano. Ho già ucciso in passato, lo ammetto, ma soltanto quando si trattava della mia vita o della loro. Non mi è mai piaciuto uccidere. Talvolta vedo ancora le loro facce, durante la notte. Non assassinerò nessuno per sport!»

Lo disse con tanta severità che Raag guardò perplesso il nano e sollevò leggermente il bastone, con un’espressione avida sul suo volto giallo e pustoloso. Ma Arack lo fissò furente, limitandosi a scuotere la testa.

Tas stava guardando Caramon con nuovo rispetto. «Non ci avevo mai pensato,» disse il kender con voce sommessa. «Immagino che tu abbia ragione, Caramon.» Tornò a voltarsi verso il nano. «Mi spiace davvero, Arack, ma non saremo in grado di combattere per te.»

Arack ridacchiò. «Voi combatterete. Perché? Perché è il solo modo per togliervi quel collare dal collo, ecco perché.»

Caramon scosse la testa cocciuto. «Non ucciderò...» Il nano sbuffò. «Dove siete vissuti, voi due? In fondo al Sirrion? Oppure sono tutti tonti come voi, a Solace? Nessuno combatte più nell’Arena per uccidere.» Gli occhi di Arack si annebbiarono. Il nano proseguì con un sospiro. «Quei giorni sono passati per sempre, purtroppo. È tutta una finta.»

«Una finta?» ripetè Tas, stupefatto. Caramon fissò il nano con occhi furenti ma non disse nulla. Era ovvio che non credeva ad una sola parola,

«Non c’è più stato un vero, onesto combattimento nella vecchia Arena da dieci anni a questa parte,» ammise Arack. «Tutto è cominciato con gli elfi.» Il nano sputò per terra. «Dieci anni fa, i chierici elfi, che siano maledetti e finiscano nell’Abisso dove sono di casa, convinsero il Gran Sacerdote a metter fine ai Giochi. Li definivano “barbari”! Barbari, ah!». Il cipiglio del nano si contorse in un ringhio poi, ancora una volta, sospirò e scosse la testa.

«Tutti i grandi gladiatori se ne sono andati,» proseguì Arack, in tono nostalgico, riandando con lo sguardo a quei tempi gloriosi. «Danark l’hobgoblin, uno dei combattenti più feroci che si possano immaginare, e il vecchio Joseph il Guercio. Ti ricordi di lui, Raag?». L’orco annuì con tristezza.

«Sosteneva di essere un Cavaliere di Solamnia, il vecchio Joseph. Combatteva sempre con tutta l’armatura addosso. Se ne sono andati tutti, eccetto me e Raag.» Un luccichio comparve nelle profondità degli occhi gelidi del nano. «Non avevamo nessun posto dove andare, capisci, e inoltre io avevo la sensazione che i Giochi non fossero finiti. Non ancora.»

Arack e Raag erano rimasti a Istar, mantenendo i loro alloggi all’interno dell’arena deserta, così ne erano diventati i curatori non ufficiali. I passanti li vedevano là dentro tutti i giorni: Raag che si aggirava con passo pesante in mezzo alle tribune, spazzando le gradinate con una rozza scopa o rimanendo semplicemente seduto, fissando con occhi smorti l’arena dove Arack stava lavorando. Il nano provvedeva con amorevole cura alla manutenzione delle macchine nei Pozzi della Morte, mantenendole oliate e funzionanti. Quelli che guardavano con più attenzione il nano notavano talvolta uno strano sorriso sul suo volto barbuto dal naso rotto. Arack aveva avuto ragione. I Giochi erano stati banditi soltanto da pochi mesi quando i chierici avevano cominciato a notare che la loro pacifica città non era più così pacifica. Le risse scoppiavano nelle osterie e nelle taverne con allarmante frequenza, c’erano tafferugli per le strade e, un giorno, perfino una sommossa su grande scala. C’erano rapporti secondo i quali i Giochi continuavano, e stavano conoscendo, “alla lettera”, una fiorente attività sommersa, e adesso avevano luogo in caverne fuori della città.

La scoperta di parecchi corpi massacrati e mutilati pareva sostenere questa tesi. Alla fine, in preda alla disperazione, un gruppo di notabili, umani ed elfi, avevano inviato una delegazione al Gran Sacerdote per chiedere che i Giochi venissero ripristinati.

«Proprio come un vulcano deve erompere per permettere al vapore e alle esalazioni velenose di sfuggire dal terreno,» aveva detto uno dei signori degli elfi, «così sembra che gli umani, in particolare, usino i Giochi come uno sfogo per le loro più vili emozioni.»

Anche se questo discorso non aveva contribuito in nessun modo a ingraziargli le sue controparti umane, queste si erano trovate costrette ad ammettere che era in parte giustificato. Dapprima il Gran Sacerdote non ne aveva neanche voluto sentir parlare. Aveva sempre aborrito le contese brutali. La vita era un dono sacro degli dei, non qualcosa da strappar via soltanto per fornire piacere a una folla assetata di sangue.

«E poi fui io a dar loro la risposta che cercavano,» disse Arack, compiaciuto. «Non avevano nessuna intenzione di farmi entrare in quel loro Tempio bello e stravagante.» Il nano sogghignò.

«Ma nessuno può tener fuori Raag da qualunque posto dove abbia intenzione di andare. Così, non ebbero molta scelta.

«“Ricominciate i Giochi” dissi loro, e abbassarono gli sguardi su di me seguendo i loro lunghi nasi.

“Ma non c’è bisogno che muoia nessuno” aggiunsi, “nessuna vera uccisione, s’intende”. Adesso, ascoltatemi. Avete visto gli attori ambulanti far la parte di Huma, non è vero? Avete visto il cavaliere cadere al suolo, dibattendosi sanguinante e gemente. Eppure, cinque minuti dopo è in piedi che beve birra nella taverna in fondo all’isolato. Ai miei tempi ho fatto anch’io l’attore ambulante per un po’, e... be’, guardate questo. Vieni qua, Raag.

«Raag mi si avvicinò con un largo sogghigno sulla sua brutta faccia gialla.

«“Dammi la tua spada, Raag,” gli ordino. Poi, prima che potessero dire una parola, affondo la spada nella pancia di Raag. Avreste dovuto vederlo. Sangue dappertutto! Che mi correva giù lungo le mani, che gli schizzava dalla bocca. Cacciò un grande urlo e cadde al suolo contorcendosi e gemendo.

«Avreste dovuto sentirli gridare,» disse il nano, in tono gioioso, scrollando la testa a quel ricordo.

«Pensai che avremmo dovuto raccogliere i signori degli elfi dal pavimento. Così, prima che potessero chiamare le guardie perché mi trascinassero via, tirai un calcio al vecchio Raag,

«“Adesso puoi alzarti, Raag,” gli dico.

«E lui si alzò, rivolgendo loro un grande sogghigno. Be’, tutti si mise ro a parlare insieme.» Il nano mimò le voci acute degli elfi:

«“Straordinario! Come ci sei riuscito? Questa potrebbe essere la risposta...”»

«Ma come lo facesti?» chiese Tas, smanioso.

Arack scrollò le spalle. «Imparerai. Un mucchio di sangue di pollo, una spada con la lama che rientra nell’elsa. E semplice. È quello che dissi loro. Inoltre è facile insegnare ai gladiatori a recitare fingendo d’essere feriti, perfino a uno tonto come il nostro vecchio Raag.»

Tas lanciò un’occhiata piena di apprensione all’orco, ma Raag si limitò a rivolgere un sogghigno affettuoso al nano.

«Comunque, la maggior parte di loro sa rimpolpare molto bene i duci li per farli apparire buoni ai gonzi... al pubblico, dovrei dire. Bene, il gran Sacerdote accettò e,» il nano si drizzò inorgoglito in tutta la sua altezza, «mi nominò perfino Maestro. Questo adesso è il mio titolo: Maestro dei Giochi.»

«Non capisco,» disse Caramon, lentamente. «Vuoi dire che la gente paga per essere ingannata? Certamente, ormai, devono aver capito che...»

«Oh, senz’altro,» ridacchiò Arack. «Non ne abbiamo mai fatto un segreto. E adesso è lo spettacolo più popolare su Krynn. La gente viaggia per centinaia di miglia, per vedere i Giochi. Vi assistono anche i signori degli elfi, e perfino il Gran Sacerdote in persona, qualche volta. Oh, eccoci arrivati,» annunciò Arack, fermandosi appena fuori di un gigantesco stadio e alzando lo sguardo su di esso con orgoglio.

Era fatto di pietra ed era vecchio di secoli, ma nessuno ricordava più lo scopo per il quale era stato costruito in origine.

Il giorno dei Giochi bandiere dai vivaci colori sventolavano in cima alle torri di pietra, e la folla gremiva ogni ordine di posti. Ma oggi non c’erano Giochi, e neppure ce ne sarebbero stati fino alla fine dell’estate. Era grigio e incolore, salvo per i dipinti sgargianti sulle pareti che raffiguravano grandi eventi nella storia delle competizioni. Alcuni bambini formavano capannelli all’esterno dello stadio, sperando di riuscire a intravedere qualcuno dei loro eroi. Rivolgendo loro un ringhio, Arack fece segno a Raag di aprire la massiccia porta di legno.

«Tu dici che nessuno rimane ucciso?» insistè Caramon, fissando cupo l’arena con i suoi dipinti sanguinari.

Tas vide che il nano guardava stranamente Caramon. D’un tratto l’espressione di Arack era diventata crudele e calcolatrice, le sue ispide sopracciglia scure si erano increspate sopra i suoi piccoli occhi. Caramon non se ne accorse, stava ancora esaminando i dipinti alle pareti. Tas produsse un suono, e Caramon si voltò all’improvviso per lanciare un’occhiata al nano. Ma ormai, l’espressione di Arack era cambiata.

«Nessuno,» disse il nano con un sogghigno, battendo la mano sul grosso braccio di Caramon.

«Nessuno...»

Capitolo sesto.

L’orco condusse Caramon e Tas in una grande stanza. Caramon provò la febbrile impressione che fosse piena di gente.

«Lui nuovo uomo,» grugnì Raag puntando di scatto un pollice giallo e sudicio in direzione di Caramon, che si trovava accanto a lui. Era la presentazione di Caramon alla «scuola». Arrossendo, acutamente conscio del collare di ferro intorno al suo collo che lo marchiava come proprietà di qualcuno, Caramon teneva gli occhi fissi sul pavimento di legno coperto di paglia. Sentendo soltanto un borbottio in risposta alla presentazione di Raag, Caramon sollevò lo sguardo. Vide che adesso si trovava nella sala della mensa. Venti o trenta uomini di diverse razze e nazionalità sedevano in piccoli gruppi, intenti a cenare.

Alcuni degli uomini guardavano Caramon con interesse, la maggior parte non lo guardava affatto.

Qualcuno annuì, la maggior parte continuò a mangiare. Caramon non sapeva bene quale avrebbe dovuto essere la sua prossima mossa, ma Raag risolse il problema. Appoggiando una mano sulla spalla di Caramon, l’orco lo spinse di malagrazia verso un tavolo. Caramon incespicò e quasi cadde, riuscendo a recuperare l’equilibrio prima di finire lungo disteso sul tavolo. Girandosi di scatto, fissò rabbiosamente l’orco. Raag lo guardò a sua volta sogghignando, con le mani che gli si contraevano ritmicamente.

Caramon si rese conto che l’altro stava cercando di provocarlo, aveva visto troppe volte quell’espressione nelle taverne, quando qualcuno cercava di stuzzicarlo per farlo combattere. E quello era un combattimento che, lo sapeva, non sarebbe mai riuscito a vincere. Malgrado Caramon fosse alto quasi due metri, non arrivava neppure alla spalla dell’orco, mentre l’enorme mano di Raag poteva avvolgersi due volte intorno al suo collo. Caramon deglutì, si sfregò il livido alla gamba, e si sedette sulla lunga panca di legno.

Lanciando un’occhiata beffarda al grosso umano, lo sguardo strabico di Raag abbracciò tutti i presenti nella sala della mensa. Con qualche scrollata di spalle e sordi mormorii di disappunto gli uomini tornarono alla loro cena. Delle risate arrivarono da un tavolo d’angolo dove sedeva un gruppo di minotauri. Raag lasciò la sala rivolgendo loro un sogghigno in risposta.

Sentendosi arrossire per l’impaccio, Caramon, una volta seduto sulla panca, cercò di scomparire.

Qualcuno sedeva davanti a lui, ma un grosso guerriero non riuscì a sopportare l’idea d’incrociare lo sguardo con quel-l’uomo. Però Tasslehoff non soffriva di simili inibizioni. Arrampicandosi sulla panca accanto a Caramon, il kender fissò con interesse i loro vicini.

«Sono Tasslehoff Burrfoot,» disse, porgendo la sua piccola mano a un grosso umano dalla pelle nera, il quale portava anche lui un collare di ferro, ed era seduto di fronte a loro. «Sono nuovo anch’io,» aggiunse il kender, sentendosi ferito per non essere stato presentato. L’omone dalla pelle nera levò lo sguardo dal suo piatto, lanciò un’occhiata a Tas, ignorò la mano del kender, poi riportò lo sguardo su Caramon.

«Voi due siete soci?»

«Già,» rispose Caramon, grato che l’uomo non avesse fatto nessun riferimento a Raag. D’un tratto divenne consapevole dell’odore del cibo e lo annusò famelico con l’acquolina in bocca. Sospirò, lanciando un’occhiata di apprezzamento al piatto dell’uomo, che era stracolmo di arrosto di cervo, patate e fette di pane. «Pare che ci nutrano bene, comunque.»

Caramon si avvide che l’uomo dalla pelle nera fissava la sua pancia rotonda per poi scambiare un’occhiata divertita con la donna alta, straordinariamente bella, che aveva preso posto accanto a lui, con il piatto ugualmente stracarico di cibo. Guardandola, Caramon spalancò gli occhi. Cercò, con movimenti goffi, di alzarsi in piedi e di rivolgerle un inchino.

«Tuo servitore, signora...» cominciò a dire.

«Siediti, grosso tanghero!» gli intimò la donna con voce rabbiosa, la sua pelle abbronzata s’incupì.

«Li farai ridere tutti!»

Infatti, parecchi degli uomini si erano messi a ridacchiare. La donna si voltò e li fissò furibonda, portando fulmineamente la mano al pugnale che aveva alla cintura. Alla vista dei suoi lampeggianti occhi verdi, gli uomini inghiottirono le loro risate e ripresero a mangiare. La donna aspettò fino a quando non fu certa che tutti fossero stati opportunamente intimo-riti, poi anche lei riportò l’attenzione sul suo pasto, vibrando forchettate rapide e irritate al suo arrosto.

«M... mi spiace,» balbettò Caramon, il faccione tutto rosso. «Non volevo...»

«Dimenticatene,» disse la donna con voce gutturale. Il suo accento era strano, Caramon non riuscì a identificarlo. Pareva umana, salvo per quello strano modo di parlare, più strano ancora degli altri che sedevano lì intorno, e il fatto che i suoi capelli fossero d’un colore assai insolito, una sorta di verde plumbeo, opaco. Erano folti e lisci, e li portava raccolti in una lunga treccia che le scendeva lungo la schiena. «Sei nuovo qui, a quanto vedo. Capirai presto... che non devi trattarmi diversamente dagli altri. Sia dentro sia fuori dell’arena. Capito?»

«L’arena?» fece Caramon, stupefatto. «Sei un gladiatore?»

«E anche uno dei migliori,» dichiarò con un sogghigno l’uomo dalla pelle nera che sedeva davanti a loro, «lo sono Pheragas dell’Ergoth Settentrionale e questa è Kiiri la Sirine...»

«Una sirine? Da sotto il mare?» chiese Tas tutto eccitato. «Una di quelle donne che può cambiare forma e...»

La donna scoccò al kender un’occhiata così furibonda che Tas sbatté le palpebre e rimase silenzioso.

Poi lo sguardo della donna passò rapidamente a Caramon. «Lo trovi divertente, schiavo?» chiese Kiiri, con gli occhi sul nuovo collare dell’omone.

Caramon vi mise sopra la mano, arrossendo di nuovo. Kiiri ebbe una risata breve e amara, ma Pheragas lo guardò impietosito.

«Col tempo ti ci abituerai,» commentò, con una scrollata di spalle.

«Non mi ci abituerò mai!» disse Caramon, stringendo il grosso pugno.

Kiiri gli lanciò un’occhiata. «Lo farai, oppure ti si spezzerà il cuore e morirai,» disse con freddezza.

Era talmente bella, e il suo portamento era così orgoglioso, che il suo collare di ferro avrebbe potuto essere una collana del miglior oro, pensò Caramon. Fece per rispondere, ma venne interrotto da un uomo grasso, vestito di bianco, con un grembiule unto, che sbatté un piatto di cibo assortito davanti a Tasslehoff.

«Grazie,» disse il kender con cortesia.

«Non abituarti al servizio,» ringhiò il cuoco. «D’ora in avanti andrai a prendere il tuo piatto da solo, come tutti gli altri. Ecco,» buttò un disco di legno davanti al kender. «Ecco il tuo pasto, marmocchio. Mostra questo, altrimenti non mangi. Ed ecco il tuo,» aggiunse, mettendone uno davanti a Caramon.

«Dov’è il mio pasto?» chiese Caramon, intascando il disco di legno.

Calando una scodella davanti all’omone, il cuoco si girò sui tacchi per andarsene.

«Cos’è questo?» ringhiò Caramon, fissando la scodella.

Tas si sporse in avanti per guardare. «Brodo di pollo,» disse sollecito.

«So cos’è,» disse Caramon con voce cupa. «Voglio dire, cos’è questo, una specie di scherzo? Perché non è affatto divertente,» aggiunse, fissando accigliato Pheragas e Kiiri, che sogghignavano entrambi. Girandosi sulla panca, Caramon allungò una mano e afferrò il cuoco, tirandolo indietro con uno strattone. «Butta via questo piatto d’acqua e portami qualcosa da mangiare.»

Con sorprendente velocità e destrezza, il cuoco si sbarazzò della stretta di Caramon, gli torse il braccio dietro la schiena e gli spinse giù la testa, cacciandogli il viso dentro la scodella di brodo.

«Mangialo e fai in modo che ti piaccia,» ringhiò il cuoco, tirando fuori per i capelli dalla zuppa la testa gocciolante di Caramon. «Perché, per quanto riguarda il cibo, è tutto quello che vedrai per un mese.»

Tasslehoff smise di mangiare. La sua faccia s’illuminò. Il kender osservò che anche tutti gli altri nella stanza avevano smesso di mangiare, sicuri che ci sarebbe stato un combattimento.

Il volto gocciolante di Caramon era di un pallore mortale. Aveva le guance coperte di chiazze rosse e gli occhi gli luccicavano pericolosamente.

Il cuoco lo fissava compiaciuto con i pugni serrati.

Tas attese con impazienza di vedere il cuoco spiaccicato per tutta la stanza. I grossi pugni di Caramon si serrarono, le nocche si sbiancarono. Una delle grandi mani si sollevò e, con lentezza, Caramon cominciò a ripulirsi il viso dalla zuppa.

Con una sbuffata di derisione, il cuoco si girò e si allontanò.

Tas sospirò. Quello non era certo il vecchio Caramon, pensò con tristezza, ricordando l’uomo che aveva ucciso due draconici picchiando insieme le loro teste a mani nude e fracassandole, il Caramon che una volta aveva lasciato quindici furfanti che avevano commesso l’errore di cercare di derubarlo feriti e storpiati in varie maniere. Lanciando un’occhiata in tralice a Caramon, Tas inghiottì le parole sferzanti che gli erano salite sulla punta della lingua e tornò a mangiare con il cuore che gli face-va male.

Caramon consumò lentamente la zuppa a cucchiaiate, inghiottendola senza dare l’impressione di gustarla. Tas vide la donna e l’uomo dalla pelle nera che si scambiavano di nuovo delle occhiate e, per un momen-to, il kender temette che avrebbero riso di Caramon. In effetti, Kiiri fu sul punto di dire qualcosa ma, sollevando lo sguardo verso la parte anteriore della stanza, chiuse di colpo la bocca e ricominciò a mangiare. Tas vide Raag entrare di nuovo nella mensa, seguito da due umani corpulenti.

Si avvicinarono e si fermarono alle spalle di Caramon. Raag dette una gomitata al grosso guerriero.

Caramon si girò lentamente. «Cosa c’è?» chiese con una voce smorta che Tas non riconobbe.

«Vieni, adesso,» disse Raag.

«Sto mangiando,» cominciò a dire Caramon, ma i due umani afferrarono l’omone per le braccia e lo trascinarono via dalla panca prima anco-ra che potesse finire la frase. Allora Tas vide brillare per un attimo il vec-chio spirito di Caramon. La sua faccia aveva assunto un brutto color rosso scuro.

Sferrò goffamente un colpo a uno dei due. Ma l’uomo, con un sorriso di derisione, lo schivò facilmente. Il suo compagno tirò un calcio alla pancia di Caramon con selvaggia ferocia. Caramon crollò al suolo con un gemito, cadendo sul pavimento a quattro zampe. I due umani lo tirarono in piedi. Con la testa penzoloni, Caramon si lasciò trascinare via.

«Aspettate! Dove...» Tas si alzò in piedi, ma sentì una mano robusta serrarsi sulla sua spalla.

Kiiri scosse la testa a mo’ di ammonimento, e Tas tornò a sedersi. «Cos’hanno intenzione di fargli?» chiese.

La donna scrollò le spalle. «Finisci il tuo pasto,» gl’intimo con voce severa.

Tas mise giù la forchetta. «Non ho molta fame,» borbottò scoraggiato, riandando col pensiero all’occhiata strana e crudele che il nano aveva lanciato a Caramon fuori dell’arena.

L’uomo dalla pelle nera sorrise al kender, che sedeva davanti a lui. «Vieni,» disse, alzandosi in piedi e porgendo la mano a Tas, con gesto amichevole. «Ti farò vedere la tua stanza. Il primo giorno capita a tutti. Il tuo amico sarà a posto... col tempo.»

«Col tempo.» Kiiri sbuffò, spingendo da parte il suo piatto. Tas giaceva tutto solo nella stanza che, gli era stato detto, avrebbe diviso con Caramon. Non era un granché. Situata sotto l’arena, assomigliava più alla cella di una prigione che ad una stanza. Ma Kiiri gli aveva detto che tutti i gladiatori vivevano in stanze come quella.

«Sono calde e pulite,» aveva commentato. «Non sono molti al mondo quelli che possono dire questo del luogo in cui dormono. Inoltre, se vivessimo nel lusso finiremmo per rammollirci».

Be’, certamente non c’era pericolo che questo accadesse, da quanto il kender poteva vedere girando lo sguardo sulle nude pareti di pietra, sul pavimento coperto di paglia, sull’arredamento costituito da un tavolo con una brocca per l’acqua e una scodella e due piccole cassapanche che avrebbero dovuto contenere le loro proprietà. Una singola finestra, in alto sul soffitto, proprio al livello del suolo esterno, lasciava entrare un fascio di luce solare. Giacendo sul duro letto, Tas osservò la luce del sole spostarsi attraverso la stanza. Il kender avrebbe anche potuto andare a esplo-rare, ma aveva la sensazione che non si sarebbe divertito molto fino a quando non avesse scoperto ciò che avevano fatto a Caramon.

La traccia del sole sul pavimento si stava facendo sempre più lunga. La porta si aprì, e Tas balzò precipitosamente in piedi, ma era soltanto un altro schiavo che buttò un sacco sul pavimento e chiuse di nuovo la porta. Tas ispezionò il sacco e provò un tuffo al cuore. Erano le proprietà di Caramon! Tutto quello che aveva addosso, compresi i suoi indumenti! Tas li esaminò con ansia, cercando delle macchie di sangue. Niente. Tutto pareva a posto... La sua mano si chiuse su qualcosa di duro in una tasca interna, segreta. Tas si affrettò a tirarlo fuori. Il kender trattenne il respiro. Il magico congegno di Par-Salian! Come mai non l’avevano visto? si chiese, fissando con meraviglia quel meraviglioso ciondolo ingioiellato mentre lo rigirava nella mano. Certo, ricordò a se stesso, era magico. Adesso pare-va soltanto un gingillo, ma lui stesso aveva visto Par-Salian trasformarlo da così com’era adesso in uno scettro. Senza alcun dubbio, aveva il pote-re d’impedire d’essere scoperto nel momento e da mani sbagliate.

Reggendolo in mano, toccandolo da ogni parte, osservando la luce del sole che traeva riflessi dai suoi gioielli radiosi, Tas sospirò di desiderio. Quella era la cosa più squisita, meravigliosa, fantastica che avesse mai visto in vita sua. La bramava disperatamente. Senza riflettere, il suo piccolo corpo si alzò in piedi e si stava avviando verso le sue borse, quando si arrestò.

Tasslehoff Burrfoot, disse una voce che assomigliava in maniera inquietante a quella di Flint, è una Faccenda Seria questa in cui ti stai immischiando. Questa è la strada di casa. Par-Salian in persona, il Grande Par-Salian l’ha data a Caramon con una solenne cerimonia. Appartiene a Caramon. È sua, non hai nessun diritto su di essa!

Tas rabbrividì. Certo, nessun pensiero simile a questo aveva mai preso forma nella sua testa, in tutta la sua vita. Fissò l’oggetto scintillante con aria dubbiosa. Forse era lui a insinuargli quegli inquietanti pensieri in testa! Decise che non voleva aver nulla a che fare con esso. Si affrettò a prendere l’oggetto e a metterlo nella cassapanca di Caramon. Poi, come precauzione supplementare, chiuse a chiave la cassapanca e infilò la chiave tra gli indumenti di Caramon. Sentendosi ancora più infelice, tornò sul suo letto.

La luce del sole era pressoché scomparsa ed il kender stava diventando sempre più ansioso, quando sentì un rumore all’esterno. La porta venne aperta con un violento calcio.

«Caramon!» gridò Tas in preda all’orrore, balzando in piedi.

I due umani corpulenti trascinarono l’omone dentro, sopra il gradino della porta, e lo scaraventarono sul letto. Poi, sogghignando, se ne andarono, sbattendo la porta dietro di sé. Dal letto si levò un gemito sommesso.

«Caramon!» bisbigliò Tas, affrettandosi a prendere la brocca dell’acqua: ne versò un po’ nella scodella e la portò al capezzale del grosso guer-riero. «Cosa ti hanno fatto?» chiese con voce sommessa, inumidendo le labbra del guerriero.

Caramon gemette di nuovo e scosse debolmente la testa. Tas lanciò una rapida occhiata al corpo dell’omone. Non c’era nessuna ferita visibile, nessun gonfiore, nessun livido o segni di frustate.

Eppure era stato tor-turato. Questo era ovvio. L’omone era in preda alla sofferenza. Il suo corpo era coperto di sudore, gli occhi erano girati all’insù. Di tanto in tanto questo o quel muscolo del suo corpo si contraeva spasmodicamente e un gemito di dolore gli sfuggiva dalle labbra.

«Era... era il cavalletto?» chiese Tas, deglutendo nervosamente. «La ruota, forse? Lo schiacciapollici?». Nessuno dei congegni nominati lasciava segni sul corpo, questo almeno aveva sentito dire.

Caramon mugugnò una parola.

«Cosa?» Tas si chinò sopra di lui, bagnandogli il volto con l’acqua. «Cos’hai detto? Calli-calli... cosa? Non ho capito.» La fronte del kender si corrugò. «Non ho mai sentito parlare di una tortura che si chiamasse calli-qualcosa,» borbottò. «Mi chiedo cosa possa essere.»

Caramon lo ripetè, gemendo un’altra volta.

«Calli... calli... callistenici!» esclamò Tas, trionfante. Poi lasciò cade-re la brocca d’acqua sul pavimento. «Callistenici? Non è una tortura!»

Caramon gemette di nuovo.

«Sono esercizi di ginnastica, bambinone!» urlò Tas. «Vuoi dire che ti ho aspettato qui, preoccupato da matti, immaginando ogni genere di cose orribili, e tu eri là fuori a fare gli esercizi?»

Caramon aveva ancora abbastanza forza da sollevarsi dal letto. Allungando una mano enorme agguantò Tas per il colletto della camicia e lo trascinò accanto a sé, fissandolo negli occhi.

«Una volta venni catturato dai goblin,» disse l’omone con un rauco bisbiglio, «i quali mi legarono a un albero e passarono la notte a tormentarmi. Sono stato ferito dai draconici a Xak Tsaroth. I cuccioli di drago mi hanno masticato una gamba nelle segrete della Regina delle Tenebre. E ti giuro che sento più dolore adesso di quanto ne abbia mai sentito in vita mia! Lasciami solo e fammi morire in pace.»

Con un altro gemito, Caramon lasciò cadere la mano, floscia, al suo fianco. Con gli occhi socchiusi, soffocando un sogghigno, Tas tornò strisciando al suo letto.

«Se pensa di sentir male adesso,» rifletté il kender, «che aspetti fino a domani e poi vedrà!»

L’estate a Istar terminò. Arrivò l’autunno, uno dei più belli a memoria d’uomo. L’addestramento di Caramon cominciò, e il guerriero non morì, anche se c’erano momenti in cui pensava che la morte sarebbe stata la soluzione più facile. Anche Tas più di una volta fu tentato di alleviare l’infelicità di quel grosso bambino viziato. Una volta ci aveva provato, durante una notte in cui era stato svegliato da un singhiozzo disperato.

«Caramon?» disse Tas con voce assonnata, rizzandosi a sedere sul letto.

Nessuna risposta. Soltanto un altro singhiozzo.

«Cosa c’è?» aveva chiesto Tas, d’un tratto preoccupato. Era scivolato fuori dal letto e aveva attraversato trotterellando il freddo pavimento di pietra. «Hai fatto un sogno?»

Aveva potuto intravedere Caramon che annuiva alla fioca luce della luna.

«Si trattava di Tika?» aveva chiesto il kender dal cuore tenero, sentendo le lacrime colargli dagli occhi alla vista del dolore dell’omone. «No? Raistlin, allora? No? Te stesso? Tu hai paura...»

«Una focaccina,» aveva farfugliato Caramon. «Oh, Tas! Ho tanta fame! Tantissima... E ho sognato questa focaccina, come quelle che cucinava Tika, tutta coperta di miele appiccicoso e di quelle noccioline croccanti...»

Prendendo una scarpa, Tas gliela aveva scagliata addosso ed era tornato a letto disgustato.

Ma alla fine del secondo mese di quel rigoroso addestramento, Tas ispezionò con lo sguardo Caramon, e dovette ammettere che ciò era esattamente quello di cui l’omone aveva avuto bisogno. I rotoli di grasso intorno alla cintura dell’omone non c’erano più, le cosce flaccide erano di nuovo dure e muscolose, e anche le braccia, il petto e la schiena erano tutto un guizzar di muscoli. I suoi occhi erano luminosi e svegli, l’espressione vacua e opaca era scomparsa. Lo spirito dei nani era stato spremuto fuori col sudore ed espulso dal corpo, il naso di Caramon non era più rosso, e l’espressione rigonfia era scomparsa dalla sua faccia. Il suo corpo aveva assunto un cupo color bronzo per la lunga esposizione al sole. Il nano aveva decretato che i capelli castani di Caramon dovevano essere lasciati crescere belli e lunghi, poiché al momento quel taglio era popolare a Istar, e adesso gli scendevano riccioluti ai lati del viso e lungo la schiena.

Adesso era anche un guerriero dalla superba abilità. Malgrado Caramon fosse stato bene addestrato già in precedenza, allora si era comunque trattato di un addestramento informale, la sua tecnica nell’uso delle armi l’aveva appresa per la maggior parte dalla sua sorellastra più anziana, Kitiara. Ma Arack importava addestratori da ogni parte del mondo, e adesso Caramon stava imparando le tecniche dai migliori.

Non soltanto questo, ma veniva costretto a cavarsela da solo in quotidiani combattimenti fra gli stessi gladiatori. Un tempo orgoglioso delle proprie capacità di lottatore, Caramon aveva provato una profonda vergogna nel ritrovarsi disteso sulla schiena dopo soli due round con quella donna, Kiiri. Il nero, Pheragas, aveva fatto volar via la spada a Caramon dopo una sola stoccata, poi l’aveva colpito alla testa con il proprio scudo, tanto per completare l’opera.

Ma Caramon era un allievo pronto e attento. La sua naturale abilità gli permise d’imparare in fretta, e non passò molto tempo prima che Arack potesse osservare con gioia l’omone che faceva volare in aria Kiiri con facilità, per poi avvolgere con freddezza Pheragas nella sua stessa rete, inchiodando il nero al suolo nell’arena con il suo stesso tridente.

Caramon medesimo era felice più di quanto lo fosse stato da moltissimo tempo. Detestava ancora il collare di ferro, e all’inizio di rado passava una giornata senza desiderare di spezzarlo e scappare.

Ma questi sentimenti si attenuarono a mano a mano che prendeva interesse al suo addestramento. A

Caramon era sempre piaciuta la vita militare. Gli piaceva avere qualcuno che gli dicesse cosa fare, e quando farlo. L’unico vero problema l’aveva con le sue capacità di recitazione.

Sempre aperto e onesto fino all’esagerazione, la parte peggiore dell’addestramento arrivò quando dovette fingere d’essere sconfitto. Avrebbe dovuto gridare forte, fingendo dolore, quando Rolf gli calpestava la schiena. Dovette imparare a crollare a terra come se fosse rimasto orribilmente ferito quando il barbaro si lanciava su di lui con le spade rientranti truccate.

«No! No! No! Grosso tonto!» urlava Arack più e più volte. Un giorno, imprecando contro Caramon, il nano gli si avvicinò e gli sferrò un pugno in piena faccia.

«Arrggh!» gridò Caramon, in preda a un genuino dolore, non osando reagire, con Raag che lo stava guardando, leccandosi le labbra.

«Ecco...» disse Arack, facendosi indietro con espressione trionfante, i pugni serrati, il sangue sulle nocche. «Ricordati quest’urlo. I gonzi lo adoreranno.»

Ma quando si trattava di recitare, Caramon appariva inadeguato. Anche quando urlava, assomigliava più a una «donzella alla quale fosse stato pizzicato il sedere che a qualcuno in punto di morte» come dichiarò Arack con disgusto. E poi, un giorno, il nano ebbe un’idea.

Gli venne in mente mentre stava seguendo la sessione di addestramento di quel pomeriggio. Si dava il caso che in quel momento ci fosse un piccolo pubblico. Di tanto in tanto Arack permetteva l’ingresso a certi membri del pubblico, avendo scoperto che questo faceva bene agli affari. In questa occasione stava intrattenendo un nobile, che aveva viaggiato fin lì insieme alla sua famiglia da Solamnia. Il nobile aveva due affascinanti figlie che, dall’istante in cui erano entrate nell’arena, non avevano mai distolto gli occhi da

Caramon.

«Perché non l’abbiamo visto combattere ieri sera?» chiese una delle figlie al padre.

Il nobile rivolse al nano un’occhiata interrogativa.

«E nuovo,» replicò Arack, burbero. «E ancora in addestramento. E pressoché pronto, intendiamoci. In effetti, stavo pensando di farlo partecipare, quando avete detto che sareste tornati a vedere i Giochi.»

«Non abbiamo detto che saremmo tornati,» cominciò a dire il nobile, ma le figlie dettero entrambe in un grido di costernazione.

«Be’...» si corresse il nobile, «forse, se potessimo trovare dei biglietti.»

Tutte e due le ragazze batterono le mani e il loro sguardo tornò a Caramon che si stava esercitando alla scherma con Pheragas. Il corpo abbronzato del giovane luccicava di sudore, i capelli gli si erano appiccicati al viso in tanti riccioli umidi, e si muoveva con la grazia di un atleta bene addestrato. Vedendo lo sguardo ammirato delle ragazze, il nano si rese conto d’un tratto che Caramon era un giovane uomo straordinariamente bello.

«Deve vincere,» disse una delle ragazze con un sospiro. «Non potrei sopportare di vederlo perdere!»

«Vincerà,» dichiarò l’altra. «È destinato a vincere. Ha l’aspetto del vincitore.»

«Certo! Questo risolve tutti i miei problemi!» esclamò il nano all’improvviso, inducendo il nobile e la sua famiglia a fissarlo perplessi. «Il Vincitore! Ecco come lo chiamerò. Mai sconfitto! Non sa che cosa sia perdere! Ha giurato di togliersi la vita, se qualcuno fosse mai riuscito a batterlo!»

«Oh, no!» gridarono sgomente le due ragazze. «Non dirci questo.» «È vero,» disse solennemente il nano fregandosi le mani. «Verranno da molte miglia tutt’intorno,» disse il nano a Raag quella sera,

«sperando di essere presenti la sera in cui perderà. E, naturalmente, non perderà, non per un bel pezzo. Nel frattempo sarà uno spezzacuori. Sì, adesso proprio me l’immagino. E ho anche il costume adatto...»

Nel frattempo Tasslehoff trovava molto interessante la sua vita nell’arena. All’inizio era rimasto profondamente offeso quando gli avevano detto che non poteva fare il gladiatore (Tas aveva già visto se stesso come un altro Kronin Thistleknot, l’eroe di Kenderhome), e aveva vagato per alcuni giorni in preda alla noia. Questo stato di cose però era terminato bruscamente il giorno in cui era stato quasi ucciso per mano di un minotauro inferocito, il quale aveva scoperto il kender che stava felicemente esaminando la sua stanza e quello che c’era dentro.

I minotauri erano irascibili. Combattevano nell’arena per il solo amore dello sport, si consideravano una razza superiore e vivevano e mangiavano separati dagli altri. I loro alloggi erano sacri e inviolabili.

Il minotauro aveva trascinato il kender davanti ad Arack esigendo che gli venisse permesso di squartarlo e di bere il suo sangue. Il nano avrebbe anche potuto acconsentire, non sapendo proprio cosa farsene del kender, ma si era ricordato il colloquio che aveva avuto con Quarath subito dopo l’acquisto dei due schiavi. Per qualche motivo la più alta autorità religiosa del paese aveva interesse che non capitasse niente a quei due.

Perciò, aveva dovuto rifiutare la richiesta del minotauro ma lo aveva ammorbidito procurandogli un cinghiale da massacrare per sport. Poi Arack aveva preso da parte Tas, lo aveva schiaffeggiato alcune volte energicamente, ma infine gli aveva dato il permesso di uscir fuori dall’arena e di esplorare la città, se il kender gli avesse garantito che sarebbe tornato per la notte.

Tas, che comunque era già uscito di nascosto dall’arena, ne rimase elettrizzato, e aveva ripagato la gentilezza del nano portandogli tutti quei piccoli ninnoli che pensava potessero piacergli.

Apprezzando queste attenzioni, Arack si era limitato a picchiare il kender con un bastone quando lo aveva sorpreso a tentare di portare dei dolci a Caramon di nascosto, invece di frustarlo come era solito fare con i disubbidienti.

Così, Tas andava e veniva per Istar come gli piaceva, imparando assai presto ad evitare le guardie della città, le quali mostravano una irragionevole antipatia per i kender. E fu così che Tasslehoff riuscì perfino a intrufolarsi nel Tempio.

Pur impegnato con l’addestramento, la dieta e altri problemi, Caramon non aveva mai perso di vista il suo vero scopo. Aveva ricevuto un messaggio, alquanto freddo, da Crysania, così sapeva che lei stava bene. Ma questo era tutto. Di Raistlin non c’era alcun segno.

Dapprima Caramon disperò di poter ritrovare suo fratello o Fistandantilus, dal momento che non gli veniva mai concesso di uscire dall’arena. Ma ben presto si rese conto che Tas poteva andare in giro e vedere le cose con molta più facilità di quanto avrebbe potuto fare lui se fosse stato libero. La gente aveva la tendenza a trattare i kender alla stessa maniera dei bambini, come se non esistessero.

E Tas era ancora più esperto della maggior parte dei kender nel fondersi con le ombre ed evitare di esser visto, nascondendosi dietro le tende o percorrendo furtivo e silenzioso i corridoi.

Inoltre c’era il vantaggio che il Tempio medesimo era talmente vasto e pieno di gente che andava e veniva a quasi tutte le ore, che un singolo kender [?• veniva facilmente ignorato o, al massimo, gli veniva intimato in tono acre di togliersi dai piedi. Un’ulteriore facilitazione fu il fatto che parecchi schiavi kender lavoravano nelle cucine, e c’erano perfino alcuni chierici kender che andavano e venivano liberamente.

A Tas sarebbe piaciuto moltissimo farseli amici e far loro domande sulla sua terra, in particolare ai chierici kender, dal momento che non aveva mai saputo della loro esistenza. Ma non osava.

Caramon l’aveva ammonito a non parlare troppo e, una volta tanto, Tas aveva preso seriamente l’avvertimento. Aveva scoperto che era esasperante fare continuamente attenzione a non parlare di draghi o del Cataclisma o di qualunque altra cosa in grado di sconvolgere l’ascoltatore, per cui aveva deciso che la cosa migliore era evitare del tutto la tentazione. Così, si accontentava di ficcare il naso in giro per il Tempio e di raccogliere informazioni.

«Ho visto Crysania,» riferì una sera a Caramon, quando questi fu di ritorno dalla cena e da un incontro di lotta con Pheragas. Tas era disteso sul letto mentre Caramon si esercitava con una mazza e una catena al centro della stanza, poiché Arack voleva che fosse capace di maneggiare altre armi oltre alla spada. Vedendo che Caramon aveva bisogno di fare ancora molta pratica, Tas strisciò fino al lato opposto del letto, tenendosi ben lontano da alcune delle più inconsulte sventole dell’omone.

«Come sta?» chiese Caramon, lanciando un’occhiata interessata al kender.

Tas scosse la testa. «Non Io so. Sembra a posto, credo. Per lo meno non sembra malata. Ma così come l’ho vista non mi è sembrata felice. Ha la faccia pallida e quando ho cercato di parlarle mi ha ignorato. Non credo che mi abbia riconosciuto.»

Caramon corrugò la fronte. «Vedi di scoprire cos’è successo,» disse. «Ricordati che anche lei cercava Raistlin. Forse lui c’entra per qualche cosa.»

«D’accordo,» rispose il kender, poi si abbassò di scatto quando la mazza gli sibilò vicino alla testa.

«Ehi, dico, stai attento, tirati più in là!» Si toccò con ansia il ciuffo per vedere se c’era ancora.

«A proposito di Raistlin,» riprese Caramon con voce sommessa, «immagino che neppure oggi avrai scoperto qualcosa.»

Tas scosse la testa. «L’ho chiesto a un mucchio di gente. Fistandantilus ha apprendisti che vanno e vengono. Ma nessuno ha mai visto qualcuno che corrisponda alla descrizione di Raistlin. E sai che gli individui con la pelle dorata e gli occhi a clessidra hanno la tendenza a risaltare in mezzo ad una folla. Ma,» il kender si mostrò più allegro, «potrei scoprire qualcosa molto presto. Ho sentito che Fistandantilus è tornato.»

«Davvero?» Caramon smise di far roteare la mazza e si girò verso Tas.

«Sì. Io non l’ho visto, ma alcuni dei chierici ne parlavano. Immagino sia ricomparso la scorsa notte, proprio nella Sala delle Udienze del Gran Sacerdote. Proprio così: pufl, ed eccolo là. Molto d’effetto.»

«Già,» grugnì Caramon. Facendo roteare distrattamente la mazza, rimase zitto per così tanto tempo che Tas sbadigliò e cominciò a scivolare nel sonno. La voce di Caramon lo riportò alla piena coscienza con un sussulto.

«Tas,» esclamò Caramon, «questa è la nostra possibilità.» «Possibilità di che?» Il kender sbadigliò di nuovo.

«La nostra possibilità di assassinare Fistandantilus,» disse con calma il guerriero.

Capitolo settimo.

La gelida affermazione di Caramon fece risvegliare di colpo il kender.

«A... assassinarlo? Credo, uh, credo che dovresti pensarci, Caramon,» balbettò Tas. «Voglio dire, insomma, cerca di vedere la cosa in questo modo. Questo Fistandantilus è davvero, sì, davvero, in gamba, vo... voglio dire che è un fruitore di magia molto dotato. Meglio ancora di Raistlin e Par-Salian messi insieme, se tutto quello che dicono è vero. Tu litui arrivi furtivo alle spalle d’un tipo del genere e lo ammazzi, così, semplicemente. Soprattutto quando non hai mai assassinato nessuno! Non sto mica dicendo che dovremmo fare pratica, intendiamoci, ma...» «Dovrà pur dormire, no?» chiese Caramon.

«Be’,» replicò Tas con voce esitante, «suppongo di sì. Tutti devono dormire , immagino, perfino i fruitori di magia...» «Soprattutto i fruitori di magia,» lo interruppe con freddezza Caramon. «Non ricordi quanto s’indeboliva Raistlin, se non dormiva? E questo vale per tutti gli stregoni, anche quelli più potenti. Per questo hanno perso le grandi battaglie: le Battaglie Perdute, appunto. Dovevano riposare. E smettila di dire “noi”. Lo farò io. Tu non dovrai neppure accompagnarmi. Basterà che tu scopra dov’è la sua stanza, quali difese ci siano, e quando va a letto. Da lì in avanti, me ne occuperò io.»

«Caramon,» cominciò a dire Tas, incerto, «credi davvero che sia giusto? Voglio dire, so che è questo il motivo per cui i maghi ti hanno mandato fin qui, indietro nel tempo. Per lo meno io penso che sia questo il perché. Ma qui ha finito per essere tutto un pasticcio, in un certo senso. e so che questo Fistandantilus, a quanto pare, è una persona davvero malvagia, indossa le Vesti Nere, e tutto il resto ma, poi, è giusto assassinarlo? Voglio dire, a me pare che questo ci faccia diventare altrettanto malvagi, non ti pare?»

«Non m’importa,» dichiarò Caramon senza mostrare emozione, con gli occhi sulla mazza che stava lentamente ruotando avanti e indietro. «Si tratta della sua vita o di quella di Raistlin, Tas. Se ucciderò Fistandantilus adesso, in quest’epoca, lui non sarà in grado di farsi avanti e d’impadronirsi di Raistlin. Potrei liberare Raistlin da quel corpo infranto, Tas, e farne una persona intera! Una volta che avrò estirpato da lui il male di quell’uomo, allora saprò che sarà tornato ad essere il vecchio Raist, il fratellino che amavo.» La voce di Caramon era diventata nostalgica e gli occhi gli si erano inumiditi. «Potrebbe venire a vivere con noi, Tas.»

«E Tika?» chiese Tas, esitante. «Che cosa proverà al pensiero che hai assassinato qualcuno?»

Gli occhi castani di Caramon lampeggiarono per la collera. «Te l’ho già detto altre volte, non parlarmi di lei, Tas!» «Ma Caramon...» «Parlo sul serio, Tas!»

E questa volta nella voce dell’omone c’era quella nota acuta la quale indicava che lui, come ben sapeva, era andato troppo oltre. Il kender si sedette sul letto, tutto curvo e con un’espressione infelice. Lanciandogli un’occhiata, Caramon sospirò.

«Ascolta, Tas,» disse con calma, «te l’ho già spiegato una volta. Non... non mi sono comportato bene con Tika. Ha avuto ragione a buttarmi fuori. Adesso lo capisco, anche se c’è stato un tempo in cui ero convinto che non l’avrei mai perdonata.» L’omone rimase silenzioso per un momento, mettendo ordine fra i suoi pensieri. Poi, con un altro sospiro, continuò: «Una volta le dissi che fintanto che Raistlin fosse vissuto, sarebbe sempre venuto lui per primo nei miei pensieri. L’avvertì di cercarsi qualcuno che potesse darle tutto il suo amore. Dapprima pensai che io avrei potuto farlo, quando Raistlin se ne andò per conto suo. Ma,» scosse la testa, «non ho potuto, non ha funzionato. E devo far così, adesso più che mai, non capisci? Non posso pensare a Tika! Lei... lei non fa altro che interferire...»

«Ma Tika ti ama tanto! » fu tutto quello che Tas riuscì a replicare. E, naturalmente, era la cosa sbagliata. Caramon si accigliò e riprese a roteare la mazza.

«D’accordo, Tas,» annuì, con una voce così profonda che avrebbe potuto provenire da sotto i piedi del kender. «Immagino che questo significhi un addio. Chiedi al nano un’altra stanza. Io lo farò. Se qualcosa dovesse andare storto, non vorrei cacciarti in un guaio...»

«Caramon, tu sai che non intendevo dire che non ti avrei aiutato,» borbottò Tas. «Hai bisogno di me!»

«Già, immagino di sì,» borbottò Caramon, arrossendo. Poi, guardando in direzione di Tas, ebbe un sorriso di scusa. «Mi spiace. Soltanto, non parlare più di Tika, va bene?»

«Va bene,» replicò Tas, infelice. A sua volta sorrise a Caramon, guardandolo mentre metteva via le armi e si preparava ad andare a letto. Ma v’era un flebile sorriso, e quando a sua volta strisciò dentro al proprio letto, Tas si sentì depresso e infelice come non si era più sentito dalla morte di Flint.

«Lui non avrebbe approvato, questo è sicuro,» disse Tas tra sé, ripensando al vecchio e burbero nano. «Adesso mi pare di sentirlo. “Stupido pomolo di porta di un kender!” direbbe. “Assassinare degli stregoni! Perché non risparmi guai a tutti e non ti ammazzi?”. E poi c’è Tanis,» pensò ancora Tas, mentre la sua infelicità cresceva. «Immagino quello che direbbe lui!». Girandosi sull’altro fianco, Tas si tirò le coperte fin sotto il mento. «Vorrei che fosse qui! Vorrei tanto che qualcuno fosse qui ad aiutarci ! Caramon non pensa bene, so che è così ! Ma cosa posso fare? Devo aiutarlo. E mio amico. Ed è probabile che si caccerà in un interminabile mare di guai senza di me!»

Il giorno seguente fu il primo in cui Caramon partecipò ai Giochi. Tas fece la sua visita al Tempio di prima mattina e fu di ritorno in tempo per assistere al combattimento di Caramon che avrebbe avuto luogo nel pomeriggio. Seduto sul letto, facendo dondolare avanti e indietro le tozze gambe, il kender fece il suo rapporto mentre Caramon camminava nervosamente su e giù per la stanza, aspettando che il nano e Pheragas gli portassero il suo costume.

«Hai ragione,» ammise Tas con riluttanza. «Fistandantilus ha bisogno di dormire un mucchio di tempo, a quanto pare. Va a letto presto ogni notte e dorme come un morto... voglio dire,» farfugliò correggendosi, «dorme profondamente fino alla mattina.»

Caramon lo fissò con espressione truce.

«Guardie?»

«No,» disse Tas, scrollando le spalle. «E neppure chiude la porta. Nessuno chiude le porte, al Tempio. Dopotutto, è un luogo sacro, e immagino che ognuno si fidi di tutti gli altri... oppure non hanno niente che valga la pena d’esser tenuto sotto chiave. Sai,» aggiunse il kender dopo una breve riflessione, «ho sempre detestato le serrature, ma adesso ho deciso che la vita senza di esse sarebbe davvero noiosa. Sono stato dentro ad alcune stanze del Tempio,» Tas ignorò beatamente l’espressione inorridita di Caramon, «e, credimi, non ne valeva proprio la pena. Ti verrebbe da pensare che con un fruitore di magia le cose possano essere diverse, ma Fistandantilus non tiene là dentro nessuno dei suoi trucchi per gli incantesimi. Immagino che usi quella stanza soltanto per passarvi la notte quando è in visita a corte. Inoltre,» fece notare il kender con un improvviso lampo di logica, «è l’unica persona malvagia a corte, perciò non ha bisogno di proteggersi da nessuno, a parte se stesso!»

Caramon, che già da tempo aveva smesso di ascoltarlo, borbottò qualcosa e continuò ad andare su e giù. Tas corrugò la fronte, a disagio. D’un tratto gli era venuto in mente che adesso anche lui e Caramon rientravano nelle alte sfere dei fruitori di magia malvagia. Questo lo aiutò a decidersi.

«Senti, mi spiace, Caramon,» disse Tas, un attimo dopo. «Ma, malgrado tutto, non credo di poterti aiutare. Talvolta i kender non sono molto scrupolosi nei confronti delle loro cose, o di quelle degli altri, se è per questo, ma non credo che nessun kender nella propria vita abbia mai assassinato qualcuno!». Sospirò, poi continuò con voce tremante: «E ho pensato a Flint e... e a Sturn. Tu sai che Sturm non approverebbe! Lui aveva talmente il senso dell’onore. Non è giusto, Caramon. Questo ci riduce a esser cattivi tanto quanto Fistandantilus. O forse peggio.»

Caramon aprì la bocca e stava giusto per rispondere quando la porta si aprì di colpo e Arack fece irruzione.

«Come stiamo andando, grassone?» esclamò il nano, sollevando lo sguardo su Caramon con un sorriso di scherno. «Un bel cambiamento da quando sei arrivato qui, non è vero?». Batté con ammirazione la mano sui muscoli duri dell’omone poi, stringendo la mano a pugno, sferrò all’improvviso un colpo in pancia a Caramon. «Duro come l’acciaio,» commentò, sogghignando e scuotendo la mano per il dolore.

Caramon lanciò un’occhiata infuriata e carica di disgusto al nano sotto di lui, guardò Tas e poi sospirò. «Dov’è il mio costume?» grugnì. «È quasi l’ora.»

Il nano alzò un sacco verso di lui. «È qui dentro, non preoccuparti. Non impiegherai molto a vestirti.»

Afferrando il sacco con un gesto nervoso, Caramon l’aprì. «Dov’è il resto?» chiese a Pheragas, che era appena entrato nella stanza.

«È tutto qui!» ridacchiò Arack. «Te l’ho detto che non avresti impiegato molto a vestirti!»

Il volto di Caramon divenne d’un rosso cupo. «Non... non posso indossare... soltanto questo...» balbettò, chiudendo frettolosamente il sacco. «Hai detto che ci sarebbero state delle signore...»

«E a loro piace ogni centimetro di pelle abbronzata!» gridò il nano. Poi la risata scomparve dalla sua faccia spezzettata, sostituita da un cipiglio cupo e minaccioso. «Mettitelo addosso, tanghero. Per cosa mai pensi che paghino... per veder cosa? Una scuola di danza? No. Pagano per vedere dei corpi coperti di sudore e di sangue. Più corpo, più sudore e più sangue, e ancora meglio se sangue vero!»

«Sangue vero?» Caramon sollevò lo sguardo, i suoi occhi castani lampeggiarono. «Che vuoi dire? Pensavo che tu avessi detto...»

«Bah! Preparalo, Pheragas. E mentre lo fai, spiega i fatti della vita a questo moccioso viziato. E tempo che tu cresca, Caramon, mio bel piccino.»

Con queste parole e una rauca risata il nano uscì a grandi passi.

Pheragas si fece da parte per lasciar passare il nano, poi si fece avanti nella piccola stanza. Il suo volto, di solito allegro e gioviale, era una maschera priva d’espressione. Né l’avevano i suoi occhi, che evitarono di fissare direttamente Caramon.

«Cosa voleva dire? Crescere? Sangue vero?»

«Ecco qui,» disse Pheragas, ignorando la domanda. «Ti do una mano con queste fìbbie. All’inizio ci vuole un po’ di tempo per abituarsi. Sono rigorosamente ornamentali, fatte per rompersi facilmente. Al pubblico piace se un pezzo del costume si molla o cade giù.»

Estrasse dalla borsa un guardiaspalla decorato e cominciò ad affibbiarlo a Caramon, lavorando dietro di lui e tenendo gli occhi fissi sulle fibbie.

«Questo è d’oro,» disse Caramon, calcando sulle parole.

Pheragas grugnì.

«Il burro fermerebbe un pugnale meglio di questa roba,» continuò Caramon, tastandolo. «E guarda tutta questa chincaglieria! La punta di una spada vi s’impiglierebbe e vi resterebbe incastrata.»

«Già.» Pheragas rise, ma era una risata forzata. «Come puoi vedere, è quasi meglio esser nudi piuttosto che indossare questa roba.»

«Allora non devo preoccuparmi molto,» osservò Caramon in tono truce, tirando fuori il perizoma di cuoio che era l’unico oggetto rimasto nel sacco, oltre all’elmo decorato. Anche il perizoma era decorato in oro, e gli copriva in maniera a malapena decente le pudende. Quando si fu completamente vestito con l’aiuto di Pheragas, perfino il kender arrossì alla vista di un Caramon guardato da dietro.

Pheragas fece per andarsene, ma Caramon lo fermò, con la mano sul braccio. «Farai meglio a dirmelo, amico mio. Se sei sempre mio amico, s’intende.»

Pheragas puntò gli occhi sul viso di Caramon per qualche istante, poi scrollò le spalle. «Pensavo che a quest’ora tu avessi già capito. Useremo armi affilate. Oh, le lame delle spade sono ancora rientranti,» si affrettò ad aggiungere, quando vide gli occhi di Caramon che si stringevano. «Ma !se verrai colpito, sanguinerai sul serio. È per questo che ci siamo esercitati con i nostri affondi.»

«Vuoi dire che la gente resterà davvero ferita? Che io potrei far del male a qualcuno? A qualcuno come Kiiri, Rolf, il Barbaro?». La voce di Caramon si alzò incollerita. «Che altro sta succedendo? Che altro non mi hai detto, amico?»

Pheragas fissò Caramon con freddezza. «Dove pensi che mi sia procurato queste cicatrici? Giocando con la mia bambinaia? Ascolta, un giorno capirai. Adesso non c’è tempo per spiegartelo. Fidati di noi, di Kiiri e me. Segui il nostro esempio. E... tieni d’occhio i minotauri. Combattono per proprio conto, non per qualche padrone o proprietario. Non rispondono a nessuno. Oh, accettano di attenersi alle regole, devono farlo altrimenti il Gran Sacerdote li rispedirebbe a Mithas. Ma... insomma, sono i favoriti della folla. Alla gente piace vedere che spillano sangue. E possono sia prendere sia dare, altrettanto bene.»

«Vai via!» ringhiò Caramon.

Pheragas rimase a fissarlo per un momento, poi si voltò e fece per uscire. Una volta sulla soglia, però, si fermò.

«Ascolta, amico,» disse con severità, «queste cicatrici che mi procuro nell’arena sono distintivi d’onore, buoni quanto gli speroni che qualche cavaliere si guadagna in un torneo! È il solo genere di onore che possiamo ancora procurarci da questo spettacolo pacchiano! L’arena ha un proprio codice, Caramon, e non ha dannatamente niente a che fare con quei cavalieri e nobili che se ne stanno seduti là fuori a guardare noi schiavi che sanguiniamo per il loro divertimento. Loro parlano del proprio onore. Bene, noi abbiamo il nostro. È quello che ci tiene in vita.» Si azzittì, parve che stesse per dire qualcos’altro, ma lo sguardo di Caramon era puntato sul pavimento, l’omone si rifiutava cocciutamente di ammettere le sue parole e la sua presenza.

Alla fine, Pheragas disse: «Hai cinque minuti,» e se ne andò sbattendo la porta alle proprie spalle.

Tas ardeva dalla voglia di dire qualcosa ma, vedendo la faccia di Caramon, perfino il kender seppe che era il momento di stare zitto.

Vai in battaglia con il sangue cattivo e verrà versato entro il calar della notte. Caramon non riusciva a ricordare quale vecchio e burbero comandante gli avesse detto questo, ma l’aveva giudicato sempre un buon assioma. La propria vita dipendeva spesso dalla lealtà di coloro con i quali si combatteva. Era una buona idea appianare qualunque controversia, prima. E neppure gli piaceva portar rancore: di solito serviva soltanto a scombussolargli lo stomaco.

Fu facile a Caramon, perciò, stringere la mano a Pheragas quando il nero fece per voltargli le spalle prima di entrare nell’arena, e fargli le scuse. Pheragas le accettò con calore mentre Kiiri, che ovviamente aveva saputo dell’episodio da Pheragas, mostrò la propria approvazione con un sorriso.

E mostrò anche la sua approvazione per il costume che Caramon indossava, fissandolo con una tale, palese ammirazione dai suoi lampeggianti occhi verdi che Caramon arrossì per l’imbarazzo.

I tre stavano parlando nei corridoi che correvano sotto l’arena, aspettando di entrare. Insieme a loro c’erano gli altri gladiatori che oggi avrebbero combattuto: Rolf, il Barbaro, e il Minotauro Rosso.

Sopra le loro teste potevano udire di tanto in tanto i ruggiti della folla, ovattati dalla distanza.

Allungando il collo, Caramon potè vedere la porta d’ingresso. Desiderò che giungesse subito il momento di cominciare. Poche volte si era sentito tanto nervoso. Si rese conto che era ancora più nervoso che se avesse dovuto andare in battaglia.

Anche gli altri avvertivano la tensione. Ciò appariva ovvio dalle risate di Kiiri, troppo forti e stridule, e dal sudore che colava lungo il viso di Pheragas. Ma era una buona tensione, mista com’era all’eccitazione. D’un tratto Caramon si rese conto di non veder l’ora di entrare nell’arena.

«Arack ha chiamato i nostri nomi,» annunciò Kiiri. Lei, Pheragas e Caramon vennero avanti: il nano aveva deciso, visto che lavoravano bene insieme, che avrebbero combattuto come una squadra (sperava anche che i due professionisti nascondessero gli eventuali errori di Caramon!).

La prima cosa che Caramon notò quando uscì fuori nell’arena fu il rumore. Si abbatté su di lui in onde tonanti, l’una dopo l’altra, provenendo in apparenza dal cielo intriso di luce solare sopra di lui.

Per un attimo si sentì smarrito nella confusione. L’arena ormai familiare, dove avevano lavorato e si erano esercitati tanto duramente durante quegli ultimi mesi, era divenuta d’un tratto un luogo estraneo. Il suo sguardo andò alle grandi file circolari di tribune che circondavano l’arena, e si sentì sopraffare alla vista delle migliaia di persone, tutte, a quanto pareva, in piedi che urlavano, pestavano sulle gradinate e applaudivano.

Il caleidoscopio dei colori gli travolse gli occhi: gli stendardi che gioiosi sbattevano al vento annunciando un Giorno di Giochi, i vessilli di seta di tutte le famiglie nobili di Istar, e le più umili bandiere di coloro che vendevano di tutto, dalla fratta ghiacciata al tè tarbeano, a seconda della stagione dell’anno. E tutto pareva in movimento creandogli una sensazione di stordimento e una nausea improvvisa. Sentì la mano fresca di Kiiri sul suo braccio. Voltandosi, vide che gli rivolgeva un sorriso rassicurante. Vide la familiare arena dietro di lei, vide Pheragas e gli altri suoi amici.

Sentendosi meglio, riportò la sua attenzione all’imminente azione. Avrebbe fatto bene a tenere la sua mente concentrata sul lavoro, si disse con severità. Se avesse mancato anche una singola mossa di quelle che aveva ripassato durante le prove, non soltanto avrebbe fatto la figura dello sciocco, ma avrebbe potuto accidentalmente far del male a qualcuno. Ricordava quanto Kiiri fosse stata meticolosa nel raccomandargli di sincronizzare con la massima precisione i suoi fendenti. Adesso, pensò trucemente, ne capiva il perché.

Tenendo gli occhi puntati sui suoi compagni e sull’arena, ignorando il rumore e la folla, prese il suo posto, in attesa di cominciare. Per qualche motivo l’arena gli parve diversa, e per un attimo non riuscì a spiegarsene la ragione. Poi si rese conto che, proprio come loro erano in costume, il nano aveva decorato anche l’arena. Qui c’erano le stesse piattaforme coperte di segatura dove aveva combattuto ogni giorno, ma adesso erano adorne dei simboli che rappresentavano i quattro angoli del mondo.

Intorno a queste quattro piattaforme, ardevano carboni roventi, il fuoco ruggiva, l’olio ribolliva e gorgogliava. Ponti di legno attraversavano i Pozzi della Morte, come venivano chiamati, collegando le quattro piattaforme. Questi pozzi avevano a tutta prima allarmato Caramon. Ma aveva appreso, ancora agli inizi, che erano messi lì soltanto per fare effetto. Al pubblico piaceva follemente quando un guerriero veniva spinto fuori dall’arena sui ponti. Farfugliavano entusiasti quando il Barbaro teneva Rolf sospeso per i calcagni sopra l’olio bollente. Avendo visto tutto durante le prove, Caramon poteva ridere insieme a Kiiri contemplando l’espressione terrorizzata sulla faccia di Rolf e gli sforzi frenetici che faceva per salvarsi, i quali, tutte le volte, vedevano il Barbaro colpito sulla testa da una delle poderose braccia di Rolf.

Il sole raggiunse lo zenit e un bagliore dorato indusse Caramon a volgere lo sguardo verso il centro dell’arena. Là si ergeva la Guglia della Libertà: un’alta struttura fatta d’oro, così delicata e decorata che pareva fuori posto in quell’ambiente così rozzo. In cima era appesa una chiave, la chiave che avrebbe aperto la serratura di qualsiasi collare di ferro. Caramon aveva visto quella guglia più e più volte durante gli allenamenti, ma non aveva mai visto la chiave, che veniva accuratamente custodita nell’ufficio di Arack. Al solo guardarla ebbe l’impressione che il collare di ferro intorno al suo collo fosse insolitamente pesante. Gli occhi gli si riempirono improvvisamente di lacrime. La libertà...

Svegliarsi al mattino e poter uscire dalla porta e andare dovunque lui avesse voluto in quell’ampio mondo. Era una cosa così semplice. E quanto ne sentiva la mancanza adesso!

Poi sentì Arack chiamare il suo nome, e vide che indicava il suo gruppo. Stringendo la propria arma Caramon si voltò per fronteggiare Kiiri, con l’immagine della chiave dorata ancora nella sua mente. Alla fine dell’anno, qualunque schiavo che si fosse comportato bene durante i Giochi, poteva combattere per il diritto di arrampicarsi su per quella guglia e prendere la chiave. Era tutta una finta, naturalmente. Arack sceglieva sempre quelli che davano la garanzia di attrarre il pubblico più numeroso. Caramon non ci aveva mai pensato prima, poiché le sue uniche preoccupazioni erano state suo fratello e Fistandantilus. Ma adesso si rese conto di avere un nuovo obbiettivo. Con un urlo selvaggio, levò in alto a mo’ di saluto la sua spada truccata.

Ben presto Caramon cominciò a rilassarsi e a divertirsi. Scoprì che gli piacevano i ruggiti e gli applausi della folla. Immedesimato nella loro eccitazione, scoprì che stava recitando per loro, proprio come Kiiri gli aveva detto che avrebbe fatto. Le poche ferite che aveva ricevuto durante gli scontri iniziali, giusto per scaldarsi, non erano nulla, soltanto graffi. Non sentiva neppure il dolore. Rise fra sé delle sue preoccupazioni. Pheragas aveva avuto ragione a non far parola di una cosa tanto sciocca. Gli dispiacque di aver fatto tante storie.

«Gli piaci,» disse Kiiri, sorridendogli durante uno dei loro momenti di riposo. Ancora una volta il suo sguardo percorse con ammirazione il corpo muscoloso e praticamente nudo di Caramon. «Non li biasimo. Non vedo l’ora di lottare con te.»

Kiiri rise, quando lui arrossì, ma Caramon vide nei suoi occhi che non stava scherzando, e fu d’un tratto acutamente consapevole della sua femminilità, qualcosa che non gli era mai capitato durante gli allenamenti. Forse era dovuto al suo costume succinto, che pareva concepito apposta per rivelare tutto nascondendo allo stesso tempo ciò che era più desiderabile. Caramon si sentì bruciare il sangue, sia per la passione sia per il piacere che provava in battaglia. Confusi ricordi di Tika gli vennero alla mente, e si affrettò a distogliere lo sguardo da Kiiri, rendendosi conto di aver detto con i propri occhi più di quanto intendeva.

La manovra gli riuscì solo in parte poiché si trovò a fissare le tribune, e gli occhi di molte bellissime donne che lo guardavano con ammirazione e che, risultava ovvio, stavano cercando di catturare la sua attenzione. «Tocca di nuovo a noi.» Kiiri gli dette di gomito e, riconoscente, Caramon ritornò nell’arena.

Sorrise al Barbaro, e l’uomo alto di statura venne avanti. Questo era il loro grande numero, e lui e Caramon vi si erano esercitati molte volte. Il Barbaro strizzò l’occhio a Caramon, mentre si fronteggiavano con le facce contorte in un’espressione di odio feroce. Ringhiando e grugnendo come animali entrambi gli uomini si rannicchiarono guatandosi e girando tutt’intorno nell’arena per un adeguato periodo di tempo, per far crescere la tensione. Caramon si sorprese sul punto di sorridere, e fu costretto a ricordarsi che avrebbe dovuto apparire cattivo. Gli piaceva il Barbaro, era un uomo delle pianure e per molti aspetti gli ricordava Riverwind: alto, con i capelli scuri, anche se il suo aspetto non era altrettanto severo. Anche il Barbaro era uno schiavo, ma il collare intorno al suo collo era vecchio e graffiato da innumerevoli combattimenti. Sarebbe stato lui il prescelto di quell’anno che si sarebbe impadronito della chiave d’oro, questo era certo.

Caramon vibrò un affondo con la spada retrattile. Il Barbaro lo schivò con facilità e, facendo lo sgambetto a Caramon con il calcagno lo fece cadere lungo disteso. Caramon stramazzò con un ruggito. Il pubblico gemette (le donne sospirarono), ma vi furono molti applausi per il Barbaro, che era uno dei favoriti. Il Barbaro si lanciò su Caramon, ancora a terra, puntando una lancia. Le donne urlarono per il terrore. All’ultimo istante Caramon con un guizzo balzò di lato e, afferrando il piede del Barbaro, lo fece cadere sulla piattaforma coperta di segatura.

Applausi tonanti. I due uomini si avvinghiarono, rotolando al suolo. Kiiri si precipitò in avanti per aiutare il compagno caduto, e il Barbaro li respinse entrambi, con grande delizia della folla. Poi Caramon, con un gesto galante, ordinò a Kiiri di ritirarsi. Risultò ovvio alla folla che si sarebbe occupato lui stesso di quell’insolente avversario.

Kiiri dette a Caramon una pacca sul sedere (questo non era nel copione, e Caramon quasi si dimenticò della mossa successiva), poi corse via. Il Barbaro si scagliò contro Caramon, il quale sfoderò il suo pugnale retrattile. Come avevano progettato, quello era il punto culminante dello spettacolo. Passando con un’abilissima manovra sotto il braccio sollevato dell’avversario, Caramon piantò il finto pugnale dritto nel ventre del Barbaro, dov’era stata abilmente nascosta, sotto il pettorale piumato, una vescica colma di sangue di pollo.

Funzionò! Il sangue di pollo schizzò sopra Caramon, scorrendogli sul viso e sul braccio. Caramon guardò il volto del Barbaro, pronto a un altro ammiccamento trionfante...

Qualcosa non andava.

Gli occhi dell’uomo si erano spalancati, com’era nel copione. Ma si erano spalancati per un dolore e uno choc veri. Barcollò in avanti, anche questo era nel copione, ma non il rantolo di agonia.

Neil’afferrarlo, Caramon si rese conto con orrore che il sangue che gli scorreva sul braccio era caldo!

Strappando fuori il pugnale dal corpo dell’altro, Caramon lo fissò, mentre cercava di reggere il Barbaro, il quale gli si era accasciato addosso. La lama non rientrava... era vera!

«Caramon...» esclamò l’uomo con voce soffocata. Il sangue gli sprizzò dalla bocca.

Il pubblico era in visibilio. Erano mesi che non vedeva effetti speciali come quelli!

«Barbaro! Non lo sapevo!» gridò Caramon, fissando con orrore il pugnale. «Lo giuro!»

E poi Pheragas e Kiiri gli furono al fianco, aiutandolo a calare il Barbaro morente sul suolo dell’arena.

«Continua a recitare!» intimò seccamente Kiiri a Caramon.

Caramon fece per colpirla per la collera, ma Pheragas gli bloccò il braccio. «La tua vita, la nostra vita, dipendono da questo!» sibilò il nero. «E la vita del tuo piccolo amico!»

Caramon li fissò in preda alla confusione. Cosa volevano dire? Cosa mai stavano dicendo? Lui aveva appena ucciso un uomo... un amico! Gemendo, si allontanò con uno scatto da Pheragas e s’inginocchiò accanto al Barbaro. Vagamente sentì che la folla applaudiva, e seppe, dentro di sé, che gli spettatori abboccavano. Il Vincitore stava rendendo omaggio al Morto...

«Perdonami,» disse al Barbaro, che annuì.

«Non è colpa tua,» bisbigliò l’uomo. «Non biasimarti...». Gli occhi gli divennero vitrei, una bolla di sangue gli esplose fuori dalle labbra.

«Dobbiamo portarlo fuori dall’arena,» bisbigliò Pheragas a Caramon, in tono asciutto, «e farlo apparire vero. Così come abbiamo fatto durante le prove... Hai capito?»

Caramon annuì scoraggiato. La tua vita... la vita del tuo piccolo amico. Sono un guerriero. Ho ucciso altre volte. La morte non è niente di nuovo, per me. La vita del tuo piccolo amico. Obbedisci agli ordini. Ci sono abituato. Obbedisci agli ordini, poi troverai le risposte.

Ripetendolo più e più volte, Caramon fu in grado di tenere a freno quella parte della sua mente che bruciava di rabbia e di dolore. Con freddezza e con calma aiutò Kiiri e Pheragas a rimettere in piedi il «corpo senza vita» del Barbaro come avevano fatto innumerevoli volte durante le prove.

Pheragas, con un abile movimento del braccio libero, fece anche in modo che il Barbaro «morto» sembrasse eseguire un inchino. Cosa che la folla, alla quale ciò piaceva moltissimo, accolse con applausi frenetici. Poi i tre amici trasportarono il cadavere giù dal palcoscenico, inoltrandosi nelle buie corsie sottostanti.

Una volta laggiù, Caramon li aiutò a distendere il Barbaro sulla fredda pietra. Rimase là per lunghi momenti a fissare il cadavere, vagamente conscio degli altri gladiatori i quali, in attesa del proprio turno di entrare nell’arena, guardavano quel corpo senza vita per poi riconfondersi con le ombre.

Caramon si risollevò lentamente. Girandosi di scatto afferrò Pheragas e, con tutta la forza che aveva, scagliò il nero contro la parete. Estratto dalla cintura il pugnale macchiato di sangue, Caramon lo tenne sospeso davanti agli occhi di Pheragas.

«È stato un incidente,» disse Pheragas a denti stretti.

«Armi affilate!» gridò Caramon, spingendo brutalmente la testa di Pheragas contro la parete di pietra. «Soltanto un po’ di sangue. Adesso, dimmi: in nome dell’Abisso, che cosa sta succedendo?»

«È stato un incidente, tanghero,» giunse una voce piena di scherno.

Caramon si girò. Il nano era lì, davanti a lui, il suo corpo tozzo era una piccola ombra contorta nel corridoio buio e umido sotto l’arena.

«E adesso ti parlerò degli incidenti,» proseguì Arack con voce sommessa e malevola. Dietro di lui si stagliava la gigantesca figura di Raag, con il randello stretto nell’enorme mano. «Lascia andare Pheragas. Lui e Kiiri devono tornare nell’arena a salutare il pubblico. Oggi tutti voi siete stati i Vincitori.»

Caramon fissò Pheragas per un attimo, poi lasciò ricadere la mano. Il pugnale gli scivolò dalle dita snervate cadendo sul pavimento. Quindi, il grosso guerriero si accasciò contro una parete. Kiiri lo guardò con un’espressione di muta comprensione, appoggiando la mano sul suo braccio. Pheragas sospirò, lanciò al nano compiaciuto un’occhiata velenosa, poi lui e Kiiri lasciarono il corridoio. Girarono intorno al corpo del Barbaro che giaceva non toccato sulla pietra.

«Mi avevi detto che nessuno rimane ucciso!» esclamò Caramon con voce soffocata dalla rabbia e dal dolore.

Il nano si avvicinò e si fermò davanti all’omone. «È stato un incidente,» ripetè Arack. «Qui da noi gli incidenti possono accadere. In particolare alla gente che non sta attenta. Potrebbero accadere anche a te, se non stai attento. O a quel tuo piccolo amico. Ora, il nostro Barbaro non è stato attento. O meglio, il suo padrone non è stato attento.»

Caramon sollevò la testa, fissando il nano con gli occhi spalancati per lo choc e l’orrore.

«Ah, vedo che hai capito, finalmente,» disse Arack.

«Quest’uomo è morto perché il suo proprietario ha pestato i piedi a qualcuno,» disse Caramon con voce sommessa.

«Già.» Il nano sogghignò e si tirò la barba. «Civilizzato, vero? Non come ai vecchi tempi. E nessuno sa niente. Salvo il suo padrone, naturalmente. Ho visto la sua faccia, questo pomeriggio. L’ha capito non appena hai infilzato il Barbaro. Era come se gli avessi piantato il pugnale addosso. Ha capito il messaggio, eccome!»

«È un avvertimento?» chiese Caramon con voce soffocata.

Il nano annuì di nuovo e scrollò le spalle.

«Chi?... Chi era il suo proprietario?»

Arack esitò, fissando Caramon beffardo, la sua faccia spezzettata si contorse in un sogghigno di scherno. Caramon quasi potè vedergli nella testa, che faceva i suoi calcoli, cercando di valutare quanto ci avrebbe guadagnato a dirlo, e quanto rimanendo zitto. A quanto parve, i soldi si ammucchiarono con più rapidità nella colonna del «dire», perché Arack non esitò a lungo. Facendo segno a Caramon di chinarsi, gli bisbigliò un nome nell’orecchio.

Caramon parve perplesso.

«Un alto chierico, un Reverendo Figlio di Paladine,» aggiunse il nano. «Il numero due dopo il Gran Sacerdote in persona. Ma si è fatto un brutto nemico.» Arack scosse la testa.

Una lontana esplosione di evviva scrosciò sopra di loro. Il nano sollevò lo sguardo, poi lo riportò su Caramon. «Devi salire e fare un inchino al pubblico. Se l’aspettano. Sei un Vincitore.»

«E lui?» chiese Caramon, il suo sguardo andò al Barbaro. «Lui non salirà. Non se ne chiederanno il perché?»

«Un muscolo stirato. Succede spesso. Non può fare l’ultimo inchino,» disse il nano con indifferenza. «Spargeremo la voce che è andato in pensione dopo che gli è stata ridata la libertà.»

Ridata la libertà! Le lacrime gli riempirono gli occhi. Caramon distolse lo sguardo, fissò l’estremità del corridoio. Scoppiò un altro applauso. Doveva andare. Per forza. La tua vita. Le nostre vite. La vita del tuo piccolo amico.

«È per questo,» disse Caramon con voce rauca, «è per questo che me l’hai fatto uccidere! Perché adesso mi hai incastrato. Sai che non parlerò...»

«Lo sapevo comunque,» ribatté Arack, sogghignando con cattiveria. «Diciamo che farlo uccidere da te è stato soltanto un piccolo tocco in più. Ai clienti la cosa piace, dimostra che mi prendo a cuore le cose. Vedi, è stato il tuo padrone a mandare questo avvertimento! Ho pensato che avrebbe apprezzato vederlo eseguire dal suo schiavo. Naturalmente, questo ti mette un po’ in pericolo. La morte del Barbaro dovrà venir vendicata. Ma farà meraviglie per gli affari, una volta che la voce si spargerà.»

«Il mio padrone!» esclamò Caramon a bocca spalancata. «Ma sei stato tu a comperarmi! La scuola...»

«Ah, io ho fatto soltanto da agente,» ridacchiò il nano. «Già, forse non lo sapevi...»

«Ma chi è il mio...». E poi Caramon seppe la risposta. Neppure sentì le parole che il nano disse.

Non riuscì a sentirle sopra il rombo che gli echeggiò all’improvviso nel cervello. Una marea rossosangue lo sommerse, soffocandolo. I polmoni gli facevano male, gli venne voglia di vomitare e si sentì venir meno le gambe. La vertigine passò. Caramon rantolò e sollevò la testa, scuotendosi di dosso la stretta dell’orco.

«Sto bene,» disse attraverso le labbra esangui.

Raag gli lanciò un’occhiata, poi guardò il nano.

«Non possiamo portarlo là fuori in queste condizioni,» disse Arack, guardando Caramon con disgusto. «Non con l’aspetto di un pesce a pancia in su. Portalo nella sua stanza.»

«No,» disse una vocina dall’oscurità. «Mi... mi occuperò io di lui.»

Tas strisciò fuori dall’ombra, il volto pallido almeno quanto quello di Caramon.

Arack esitò, poi ringhiò qualcosa e facendo un gesto all’orco si allontanò, salendo frettolosamente le scale per consegnare i premi ai vincitori.

Tasslehoff s’inginocchiò accanto a Caramon, con la mano sul braccio dell’omone. Lo sguardo del kender andò al cadavere che giaceva dimenticato sul pavimento di pietra. Anche lo sguardo di Caramon andò nella stessa direzione. Vedendo il dolore e l’angoscia nei suoi occhi, Tas sentì un nodo alla gola. Non riuscì a dire una parola, ma soltanto a battere una mano sul braccio di Caramon.

«Quanto hai sentito?» chiese Caramon con voce roca.

«Quel che basta,» rispose Tas con un filo di voce. «Fistandantilus.»

«Ha progettato tutto questo sin dall’inizio.» Caramon sospirò e reclinò la testa all’indietro, chiudendo stancamente gli occhi. «E così che si sbarazzerà di noi. E non dovrà neppure farlo lui stesso. Lascerà che questo... questo chierico...»

«Quarath.»

«Già, lascerà che questo Quarath ci ammazzi.» Caramon strinse i pugni. «Le mani dello stregone saranno pulite! Raistlin non sospetterà mai niente. E d’ora in avanti, tutte le volte che ci sarà un combattimento, mi chiederò: sarà vero quel pugnale che Kiiri impugna?». Riaprendo gli occhi, Caramon guardò il kender. «E tu, Tas, anche tu ci sei dentro. Il nano l’ha detto chiaramente. Però... io non posso andarmene, ma tu sì! Devi lasciare questo posto!»

«E dove mai potrei andare?» replicò Tas, disperato. «Mi ritroverebbe, Caramon. È il più potente fruitore di magia che sia mai vissuto. Neppure i kender possono nascondersi da gente come lui.»

Per qualche istante, i due rimasero seduti insieme in silenzio, con il ruggito della folla che continuava ad echeggiare sopra di loro. Poi, lo sguardo di Tas colse un luccichio metallico sull’altro lato del corridoio. Riconoscendo l’oggetto, si alzò in piedi e andò a recuperarlo.

«Posso farti entrare nel Tempio insieme a me,» disse, tirando un profondo respiro e cercando di mantenere ferma la voce. Raccolse dal pavimento il pugnale macchiato di sangue, lo portò indietro e lo porse a Caramon.

«Posso farlo stanotte.».

Capitolo ottavo.

La luna d’argento, Solinari, occhieggiò all’orizzonte. Levandosi al di sopra della torre centrale del l’empio del Gran Sacerdote, la luna sembrava la fiamma d’una candela che bruciasse su un lucignolo alto e scanalato. Quella notte Solinari era piena e luminosa, talmente luminosa che i servizi dei portaluce stradali non erano richiesti e i ragazzi che si guadagnavano da vivere illuminando con le loro bizzarre lampade d’argento la strada ai festaioli che andavano da una casa all’altra, passavano le ore notturne a casa, maledicendo la sfolgorante luce della luna che li derubava dei loro guadagni.

La gemella di Solinari, la rossosangue Lunitari, non era sorta, né sarebbe sorta per parecchie ore ancora, inondando le strade con il suo arcano splendore purpureo. In quanto alla terza luna, quella nera, la sua oscura rotondità in mezzo alle stelle venne notata da un uomo che la guardò per un breve istante, mentre si spogliava delle sue vesti nere, appesantita dai componenti degli incantesimi, indossando la più semplice e morigerata vestaglia nera da camera. Calandosi il cappuccio nero sopra la testa per escludere la luce fredda e penetrante di Solinari, si distese sul letto e scivolò nel sonno tranquillo così necessario a lui e alla sua Arte.

Per lo meno, era ciò che Caramon immaginò stesse facendo, mentre lui e il kender percorrevano le strade affollate illuminate dalla luce della luna. La notte era animata dai divertimenti. Passarono accanto a un gruppo dopo l’altro di gaudenti, comitive di uomini che ridevano sfrenatamente e discutevano dei Giochi; e comitive di donne che restavano in gruppo pur lanciando timide occhiate a Caramon con la coda dell’occhio. I loro indumenti sottili sbattevano intorno ai corpi alla morbida brezza, che era mite per essere autunno inoltrato. Un gruppo di queste donne riconobbe Caramon e il grosso guerriero si mise quasi a correre temendo che chiamassero le guardie per farlo ricondurre nell’arena.

Ma Tas, più esperto nelle cose del mondo, lo trattenne da gesti inconsulti. Il gruppo di donne contemplava Caramon con sguardo incantato. L’avevano visto combattere nell’arena quel pomeriggio, e si era già conquistato il loro cuore. Gli fecero banali domande sui Giochi, poi non ascoltarono le sue risposte, il che era comunque lo stesso. Caramon, infatti, era talmente nervoso che le sue risposte avevano pochissimo senso. Alla fine le donne se ne andarono ridendo per la loro strada, dopo avergli augurato buona fortuna. Caramon lanciò un’occhiata al kender, interrogandosi su tutto questo, ma Tas si limitò a scuotere la testa.

«Perché mai pensi che ti abbia fatto vestire?» il kender chiese a Caramon poco dopo.

E infatti Caramon si era interrogato proprio su questo punto. Tas aveva insistito perché indossasse il mantello di seta dorata che portava nell’arena, oltre all’elmo che aveva inalberato quel pomeriggio. Tutto ciò non pareva affatto adatto a entrare di nascosto nel Tempio: Caramon si era immaginato di dover strisciare attraverso le fogne o arrampicarsi sui tetti. Ma quando si era mostrato recalcitrante, gli occhi di Tas erano divenuti freddi. O Caramon faceva come lui gli aveva detto, oppure poteva dimenticarsene, gli aveva sbattuto in faccia, secco.

Sospirando, Caramon si era vestito come gli era stato ordinato, indossando il mantello sopra la camicia floscia e le brache di cuoio che portava di solito. Si era infilato alla cintura il pugnale macchiato di sangue. Istintivamente aveva cominciato a pulirlo, poi aveva smesso. No, sarebbe stato meglio lasciarlo così.

Era stato semplice per il kender aprire loro la porta dopo che Raag li aveva chiusi sotto chiave per la notte, e i due erano sgusciati attraverso il dormitorio dei gladiatori senza incidenti; la maggior parte dei guerrieri era addormentata o, nel caso dei minotauri, ubriachi fradici.

I due si erano incamminati per le strade senza cercare di nascondersi, con grande disagio di Caramon. Ma il kender appariva imperturbato. Insolitamente imbronciato e silenzioso, Tas continuava a ignorare le ripetute domande di Caramon. Ormai, erano vicinissimi al Tempio, il quale si stagliava davanti a loro in tutta la sua argentea e perlacea radiosità, e Caramon finì per fermarsi.

«Aspetta un momento, Tas,» disse a bassa voce, tirando il kender in un angolo in ombra, «come pensi di farci entrare là dentro?»

«Attraverso la porta principale,» rispose Tas, con calma.

«La porta principale?» ripetè Caramon, stupefatto. «Sei matto? Le guardie ci fermeranno...».

«È un tempio, Caramon,» replicò Tas con un sospiro. «Un tempio agli dei. Le creature malvagie semplicemente non entrano.»

«Fistandantilus entra,» ribatté Caramon, in tono burbero.

«Ma soltanto perché il Gran Sacerdote lo permette,» replicò Tas, scrollando le spalle. «Altrimenti non potrebbe entrare là dentro. Gli dei non lo permetterebbero. Per lo meno, questo mi ha detto uno dei chierici quando gliel’ho chiesto.»

Caramon corrugò la fronte. Il pugnale che aveva alla cintura gli parve all’improvviso pesante, il metallo gli premeva rovente contro la pelle. Era soltanto la sua immaginazione, si disse. Dopotutto, non era la prima volta che portava su di sé dei pugnali. Infilando una mano sotto il mantello, lo toccò per rassicurarsi. Poi, stringendo con forza le labbra, si avviò in direzione del Tempio. Dopo un attimo di esitazione, Tas lo raggiunse.

«Caramon,» disse il kender con una vocina sottile, «credo di sapere quello che stavi pensando. Io ho pensato la stessa cosa... E se per caso gli dei impedissero a noi di entrare?»

«Siamo venuti per distruggere il Male,» disse Caramon con voce tranquilla, la mano sul pugnale.

«Ci aiuteranno, non ci ostacoleranno. Vedrai.»

«Ma, Caramon...». Adesso era Tas a fare domande e Caramon, cupo in volto, a ignorarle. Alla fine raggiunsero la splendida gradinata che < conduceva al Tempio.

Caramon si arrestò, fissando l’edificio. Sette torri svettavano alte nel cielo, come una lode perenne agli dei per la loro creazione. Ma ce n’era una che si elevava a spirale al di sopra di tutte le altre.

Luccicando al bagliore di Solinari, pareva che non lodasse gli dei, ma piuttosto che volesse rivaleggiare con loro. La bellezza del Tempio, i suoi marmi rosati e perlacei che mandavano morbidi riflessi alla luce della luna, le sue pozze d’acqua immobile che riflettevano le stelle, i suoi ampi giardini costellati di fiori meravigliosi e fragranti, le sue decorazioni d’oro e d’argento... tutto questo lasciò Caramon senza fiato, trafiggendogli il cuore. Non riusciva a muoversi, era rimasto là come pietrificato da quello splendore.

lì poi, nei recessi della sua mente, come se fosse stata in agguato, fece cupolino una sensazione di orrore. Lui aveva già visto tutto questo! soltanto che l’aveva visto in un incubo: le torri contorte e deformi... confuso, chiuse gli occhi. Dove? Come? Poi, gli ritornò alla memoria. Il Tempio di Neraka dov’era stato imprigionato! Il Tempio della Regina delle Tenebre! Era stato proprio quello stesso Tempio, pervertito, corrotto e trasformato in una cosa orrenda dalla sua malvagità. Caramon tremò. Sopraffatto da quel terribile ricordo, chiedendosi cosa mai presagisse, per un attimo pensò di voltarsi e scappare.

Poi sentì Tas che lo tirava per il braccio. «Vai avanti!» gli ordinò il kender. «Così, desti sospetti!»

Caramon scosse la testa sgombrandola da quegli stupidi ricordi che non significavano nulla, come si disse. I due si avvicinarono alle guardie accanto alla porta.

«Tas!» disse Caramon all’improvviso, afferrando il kender per la spalla e stringendogliela con tanta forza da farlo squittire per il dolore. «Tas, questa è una prova! Se gli dei ci lasceranno entrare, saprò che stiamo facendo la cosa giusta! Avremo la loro benedizione!»

Tas non rispose subito. «È questo che pensi?» chiese poi, esitante.

«Naturalmente!». Gli occhi di Caramon luccicarono al vivido chiarore di Solinari. «Vedrai. Vieni.»

L’omone, recuperata la fiducia in se stesso, salì a grandi passi la gradinata. Caramon costituiva uno spettacolo imponente, con il mantello di seta dorata che gli svolazzava intorno e l’elmo dorato che sfavillava alla luce della luna. Le sentinelle smisero di parlare tra loro e si voltarono a guardarlo.

Una dette di gomito all’altra e gli! disse qualcosa, facendo un rapido movimento che mimava una pugnalata. Il suo compagno sogghignò e scosse la testa, fissando Caramon con ammirazione.

Caramon seppe subito cosa significava quella pantomima, e quasi si fermò, sentendo una volta ancora il sangue caldo schizzargli sulla mano... e le ultime parole soffocate del Barbaro. Ma era arrivato troppo oltre, ormai, per tornare indietro. E forse, si disse, quello era un segno. Lo spirito del Barbaro che si attardava lì accanto, bramoso di vendetta.

Ansioso, Tas levò lo sguardo su di lui. «Sarà meglio che lasci parlare me,» bisbigliò il kender.

Caramon annuì, deglutendo innervosito.

«Salute, gladiatore,» lo chiamò una delle guardie. «Sei nuovo ai Giochi, non è vero? Stavo dicendo al mio compagno che oggi si è perso un bel combattimento. E non soltanto questo, ma gli hai anche fatto guadagnare sei pezzi d’argento. Com’è che ti chiamano?»

«È il “Vincitore”,» interloquì, garrulo, Tas. «E oggi è stato soltanto l’inizio. Non è mai stato sconfitto in battaglia, e mai lo sarà.» «E tu chi sei, piccolo tagliaborse? Il suo agente?» La frase fu accolta con una fragorosa risata dall’altra guardia, a cui Caramon fece eco con una risata nervosa e stridula. Poi il grosso guerriero abbassò lo sguardo su Tas e seppe subito che erano nei guai! Tas si era sbiancato in viso. Tagliaborse! L’insulto più orribile, la cosa peggiore al mondo che si potesse dire ad un kender! La grossa mano di Caramon si serrò sopra la bocca di Tas.

«Sicuro,» annuì Caramon, tenendo ben stretto il kender che si dibatteva. «Ed è anche molto in gamba.»

«Be’, tienilo d’occhio,» aggiunse l’altra guardia, ridendo ancora di più. «Vogliamo vedere che tagli gole, non borse!»

Gli orecchi di Tasslehoff, l’unica parte della sua testa visibile sopra l’ampia mano di Caramon, divennero scarlatte. Suoni incoerenti giungevano da dietro il palmo di Caramon. «Cre... credo che faremo meglio a entrare,» balbettò il grosso guerriero, chiedendosi per quanto tempo sarebbe riuscito a trattenere Tas. «Siamo in ritardo.»

Le guardie si scambiarono un’occhiata, con l’aria di chi la sapeva lunga, e gli strizzarono l’occhio.

Una delle due scosse la testa con invidia. «Ho visto le donne che ti guardavano, oggi,» disse, volgendo lo sguardo alle ampie spalle di Caramon. «Avrei dovuto immaginare che saresti stato invitato qui per... uhm... cena.»

Di che cosa mai stavano parlando? L’espressione perplessa di Caramon indusse le guardie a scoppiare in un’altra risata.

«In nome degli dei!» sbottò una delle due. «Ma guardalo, è proprio nuovo!»

«Vai pure.» L’altra guardia gli fece cenno di passare. «Buon appetito!»

Altre risate. Arrossendo, non sapendo cosa dire e sempre cercando di tenere stretto Tas, Caramon entrò nel Tempio. Ma, mentre procedeva, udì le guardie che si scambiavano battute volgari, le quali gli fecero capire all’improvviso e con chiarezza quello che intendevano dire. Trascinando il kender, che non la smetteva di dibattersi, lungo un corridoio, svoltò di corsa al primo angolo.

Non aveva la più pallida idea di dove si trovava.

Lasciò andare Tas una volta che le guardie furono scomparse alla vista e fuori portata dalle loro voci. Il kender era pallido e stralunato.

«Quei... quei... io... se ne pentiranno...»

«Tas!» Caramon lo scosse. «Piantala. Calmati. Ricordati perché siamo qui.»

«Tagliaborse! Come se fossi un comune ladro!». Tas aveva praticamente la schiuma alla bocca.

«Io...»

Caramon lo fissò inferocito e il kender soffocò le sue proteste. Recuperando il controllo di sé, tirò un profondo respiro, e poi fece uscire lentamente l’aria dai polmoni. «Adesso sto bene,» disse, imbronciato. ti ho detto che sto bene!» sbottò, quando vide che Caramon lo stava ancora guardando dubbioso.

«Oh, insomma, siamo entrati, anche se non esattamente come mi aspettavo,» bofonchiò Caramon.

«Hai sentito quello che dicevano?»

«No... non dopo “ta... taglia..., dopo quella parola. Con la tua mano mi hai schiacciato anche buona parte degli orecchi,» replicò Tas con tono di accusa.

«Pare... pare che le signore... invitino gli uo... uomini qui dentro pe... per... sai cosa...»

«Ascolta, Caramon,» ribatté Tas, esasperato. «Hai avuto il tuo segno. ti hanno fatto entrare. È probabile che ti stessero soltanto prendendo in giro. Tu sei troppo credulone! Crederesti a qualunque cosa, Tika lo dice sempre.»

Un ricordo di Tika balenò nella mente di Caramon. Potè quasi sentirla che diceva quelle precise parole, ridendo. Ebbe l’impressione che la lama di un coltello gli tagliasse la pelle. Fissando Tas con furore, respinse subito quel ricordo.

«Già,» disse in tono amaro, arrossendo. «Probabilmente hai ragione, si stavano divertendo alle mie spalle. E io ci sono anche cascato! Ma...» sollevò la testa e per la prima volta contemplò intorno a sé la grandezza del Tempio. Cominciò a rendersi conto di dove si trovava: quel luogo sacro, quel palazzo degli dei. Ancora una volta sentì la reverenza e il timore che aveva provato nel guardarlo dall’esterno, illuminato dalla luce radiosa di Solinari. «Hai ragione, gli dei ci hanno dato il nostro segno!»

C’era un corridoio nel Tempio in cui pochi andavano e nessuno, di quelli che lo facevano, ci andava volontariamente. Se erano costretti a recarsi fin là per qualche incarico, svolgevano in fretta il loro compito e ; se ne andavano quanto più rapidamente possibile.

Non c’era niente di sbagliato nel corridoio in sé. Era splendido tanto quanto gli altri corridoi e le altre sale del Tempio. Meravigliosi arazzi realizzati ] in colori tenui davano grazia alle sue pareti, morbidi tappeti coprivano il pavimento di marmo, deliziose statue riempivano le alcove I immerse nell’ombra. Porte di legno decorate da sculture si aprivano su di esso, conducendo a stanze piacevolmente adorne come ogni altra stanza del Tempio. Ma quelle porte non si aprivano più.

Erano tutte chiuse a chiave. Tutte le stanze erano vuote. Tutte, tranne una.

Quella stanza si trovava proprio all’estremità del corridoio, che era! buia e silenziosa perfino durante il giorno. Era come se l’occupante di quella singola stanza proiettasse una cappa plumbea sul pavimento stesso dove camminava, nell’aria stessa che respirava. Quelli che entravano in quel corridoio si lamentavano dicendo che’ si sentivano soffocare. Annaspavano come qualcuno che stesse morendo dentro una casa in fiamme.

Quella era la stanza di Fistandantilus. Era sua da anni, da quando il Gran Sacerdote era salito al potere cacciando via i fruitori di magia dalla loro Torre di Palanthas, la Torre in cui Fistandantilus aveva regnato come capo del Conclave.

Che accordo avevano mai concluso le forze trainanti del Bene, e quelle del Male nel mondo? Quale intesa era stata raggiunta per consentire all’Oscuro di vivere all’interno del luogo più bello e più sacro di Krynn? Nessuno lo sapeva, molti facevano le più svariate ipotesi. Molti credevano che fosse per grazia del Gran Sacerdote, un gesto nobile nei confronti di un nemico sconfitto.

Ma perfino lui, perfino il Gran Sacerdote, non percorreva quel corridoio. Almeno in quel luogo, il grande mago regnava nel buio e con terrificante supremazia.

All’estremità opposta del corridoio si apriva un’alta finestra. Pesanti tende di velluto erano tirate sopra di essa, escludendo la luce del sole, durante il giorno, ed i raggi della luna, nelle ore notturne.

Ma quella notte, forse perché i servi erano stati incitati dal Capo della Servitù a pulire ed a raccogliere la polvere dal corridoio, le tende erano lievemente scostate, lasciando che la luce argentea di Solinari risplendesse nel corridoio cupo e vuoto. I raggi della luna che i nani chiamavano Candela della Notte, penetravano l’oscurità come una lunga lama sottile di lucido acciaio.

forse come il dito bianco e sottile di un cadavere, pensò Caramon, lasciando scorrere il suo sguardo lungo quel silenzioso corridoio. attraversando il vetro, quel dito di luce lunare percorreva il pavimento coperto dal tappeto per tutta la sua lunghezza, arrivando a sfiorargli i piedi, là dove si trovava.

«Quella è la sua porta,» disse il kender, con un sussurro talmente sommesso che Caramon riuscì appena a sentirlo sopra il battito del proprio cuore. «Sulla sinistra.»

Caramon infilò ancora una volta la mano sotto il mantello, cercando l’elsa del pugnale, la sua rassicurante presenza. Ma l’impugnatura era fredda. Caramon rabbrividì quando la toccò e si affrettò a ritrarre la mano.

Pareva una cosa tanto semplice percorrere quel corridoio. Eppure non riusciva a muoversi. Forse era l’enormità di quello che aveva in mente di fare: prendere la vita di un uomo, non in battaglia ma mentre dormiva. puccidere un uomo nel sonno, di tutti i momenti quello in cui siamo più indifesi, quando ci affidiamo alla mano degli dei. Poteva esserci un crimine più orrendo, più codardo?

Gli dei mi hanno dato un segno, si ricordò Caramon, e con durezza si costrinse anche a ricordarsi del Barbaro morente. Si costrinse a ricordare i tormenti di suo fratello nella Torre. Ricordò quant’era potente quel mago malvagio quand’era sveglio. Caramon tirò un profondo respiro e afferrò con decisione l’elsa del pugnale. Stringendola con forza, anche se non estrasse l’arma dalla cintura, prese ad avanzare lungo il corridoio silenzioso. Adesso pareva che la luce della luna lo chiamasse.

Sentì una presenza alle sue spalle, così vicina che, quando si fermò, Tas andò a sbattergli contro.

«Rimani qui,» gli ordinò Caramon.

«No...» cominciò a protestare Tas, ma Caramon lo zittì.

«Devi farlo. Qualcuno deve fare la guardia a questa estremità del corridoio. Se dovesse venir qualcuno, fai un rumore, qualcosa, insomma.»

«Ma...»

Caramon abbassò lo sguardo sul kender. Alla vista dell’espressione truce e dello sguardo freddo e privo di emozioni dell’omone, Tas deglutì e annuì. «Be’... resterò qui, in quell’ombra.» Gli indicò il punto e sgusciò via.

Caramon aspettò fino a quando fu sicuro che Tas non l’avrebbe «accidentalmente» seguito. Ma il kender si rannicchiò miserevolmente all’ombra d’un enorme albero rimasto piantato in un vaso dopo che era morto mesi prima. Caramon si voltò e proseguì.

Ai piedi del fusto rinsecchito dell’albero, le cui foglie frusciavano ad ogni suo minimo movimento, Tas seguì con lo sguardo Caramon che avanzava lungo il corridoio. Vide l’omone raggiungerne l’estremità, allungare una mano e afferrare la maniglia della porta. Vide Caramon dare una leggera spinta. La porta cedette alla sua pressione e si aprì in silenzio. L’omone scomparve all’interno della stanza.

Tasslehoff cominciò a tremare. Un’orribile sensazione di disagio gli si diffuse dallo stomaco a tutto il corpo, un gemito gli sfuggì dalle labbra. Schiacciandosi una mano contro la bocca, così da impedirsi di urlare, il kender si appiattì contro il muro e si convinse che sarebbe morto in solitudine, lì al buio.

Caramon infilò il suo grande corpo nella porta, aprendola all’inizio soltanto d’uno spiraglio, nel caso in cui i cardini si fossero messi a cigolare. Ma non vi fu il minimo rumore. Tutto, nella stanza, era silenzioso. Nessun rumore da nessuna parte del Tempio entrava in quella stanza, come se tutta la vita fosse stata inghiottita da quella soffocante oscurità. Caramon si sentì bruciare i polmoni, e ricordò vividamente il giorno in cui era quasi morto nel Mare di Sangue di Istar. Ma, con uno sforzo, mantenne regolare il respiro, evitando di ansimare fragorosamente.

Attese per qualche istante sulla soglia, cercando di placare il cuore che gli batteva frenetico, e diede un’occhiata alla stanza. La luce di Solinari entrava attraverso uno squarcio nelle pesanti tende che coprivano la finestra. Una sottile scheggia di luce argentea tagliava l’oscurità, penetrando come una sottile incisione che conduceva dritta al letto all’estremità opposta della stanza.

La mobilia, là dentro, era scarsa. Caramon vide la massa informe d’una pesante veste nera distesa sopra una sedia di legno. Accanto ad essa c’era un paio di stivali di cuoio morbido. Nessun fuoco ardeva dietro la grata, la notte era troppo calda. Stringendo l’elsa del pugnale, Caramon lo estrasse con lentezza e attraversò la stanza, guidato dalla luce argentea della luna.

Un segno degli dei, pensò Caramon, con il battito del cuore che quasi lo soffocava. Provò una sensazione di paura, una paura quale non aveva mai sperimentato nella sua vita: una paura che gli torceva lo stomaco, che gli strizzava le budella e faceva sussultare i muscoli e gl’inaridiva la gola.

Con un empito di disperazione si costrinse a inghiottire così da non tossire e svegliare il dormiente. Devo agire in fretta! si disse, già afferrato dal timore di sentirsi male o, addirittura, di perdere i sensi. Attraversò la stanza. Il soffice tappeto soffocò il rumore dei suoi rapidi passi. Adesso poteva vedere il letto e la nera figura addormentata sopra di esso. Poteva vedere la figura con chiarezza, la luce della luna tracciava una linea nitida sul pavimento fino alla lettiera, sopra la coperta, piegandosi poi verso l’alto fino alla testa appoggiata sul cuscino, con il cappuccio calato sul viso per escludere la luce.

«Così gli dei mi indicano la strada,» mormorò Caramon, inconsapevole di aver parlato ad alta voce.

Si avvicinò furtivo al fianco del letto, ristette, col pugnale stretto nel pugno, ascoltando il tranquillo respiro della vittima, cercando di avvertire qualche cambiamento nel ritmo profondo e costante che gli avrebbe detto d’essere stato scoperto.

Dentro e fuori... dentro e fuori... il respiro era forte, profondo e pacifico. Il respiro di un uomo giovane e sano. Caramon rabbrividì ricordando quanto avrebbe dovuto essere vecchio quello stregone, rievocando le storie tenebrose che aveva sentito raccontare su come Fistandantilus rinnovava la sua giovinezza. Il respiro dell’uomo continuava perfettamente regolare, non c’era nessuna interruzione, nessuna accelerazione. La luce della luna entrava, gelida, silenziosa, sempre uguale, un segno...

Caramon sollevò il pugnale. Un solo colpo, rapido e preciso, affondato in pieno petto, e tutto sarebbe finito. Si protese in avanti, poi esitò. No, ?rima di colpire avrebbe guardato quel viso... il viso dell’uomo che aveva torturato suo fratello.

No! Sciocco! urlò una voce dentro a Caramon. Pugnalalo adesso, presto! Caramon giunse a sollevare una seconda volta il pugnale, ma la mano gli tremava. Doveva vedere quel viso!

Allungando una mano tremante, sfiorò appena il cappuccio nero. Il tessuto era morbido e cedevole.

Lo scostò.

La luce argentea di Solinari toccò la mano di Caramon, poi scivolò sul volto del mago addormentato, inondandolo di radiosità. La mano di Caramon s’irrigidì, diventando bianca e fredda come quella di un cadavere mentre fissava il volto sul cuscino.

Non era il volto d’uno stregone antico e malvagio, coperto dalle cicatrici d’innumerevoli peccati.

Non era neppure il volto di un essere tormentato, la cui vita fosse stata rubata dal corpo per tenere in vita il mago morente.

era il volto di un giovane fruitore di magia, affaticato da lunghe notti trascorse sopra i suoi libri, ma adesso rilassata, immersa com’era in un tranquillo riposo. Era il volto di qualcuno la cui tenace sopportazione del costante dolore era contrassegnata dalle rughe profondamente incise e Inflessibili, un volto che aveva placato con dell’acqua fresca...

la mano che stringeva il pugnale calò fulminea affondando la lama dentro il materasso. Vi fu un urlo selvaggio, subito soffocato, e Caramon cadde in ginocchio accanto al letto, stringendo la coperta con le dita contorte per l’angoscia. Il suo grosso corpo era scosso dalle convulsioni, squassato da frementi singhiozzi.

Raistlin aprì gli occhi e si rizzò a sedere, sbattendo le palpebre al vivo bagliore di Solinari. Si calò ancora una volta il cappuccio sugli occhi, poi, sospirando per l’irritazione, sollevò una mano e con cautela sfilò il pugnale dalla stretta infiacchita di suo fratello.

Capitolo nono.

«Questo è stato davvero stupido da parte tua, fratello mio,» dichiarò Raistlin, rigirando il pugnale tra le dita sottili e studiandolo distrattamente. «Trovo difficile crederlo, perfino da parte tua.»

Inginocchiato sul pavimento accanto al letto, Caramon sollevò lo sguardo sul suo gemello. Il suo volto era smunto, tirato e pervaso d’un pallore mortale. Aprì la bocca.

«Non capisco, Raist,» lo precedette Raistlin, rifacendogli il verso.

Caramon serrò le labbra, il suo volto s’indurì in una maschera cupa e amara. I suoi occhi andarono al pugnale che suo fratello teneva ancora in mano. «Forse sarebbe stato meglio se non avessi scostato il cappuccio,» borbottò.

Raistlin sorrise, anche se suo fratello non se ne accorse.

«Non avevi scelta,» gli rispose. Poi sospirò e scosse la testa. «Fratello mio, pensavi sul serio di poter entrare così facilmente nella mia stanza e assassinarmi mentre dormivo? Tu sai quant’è leggero il mio sonno... è sempre stato leggero.»

«No, non te!» gridò Caramon con voce rotta, sollevando lo sguardo. «Credevo...». Non riuscì a proseguire.

Raistlin lo fissò perplesso, per un attimo, poi d’un tratto cominciò a ridere. Era un’orribile risata, sgradevole e beffarda, e Tasslehoff, che si trovava ancora all’estremità del corridoio, si tappò gli orecchi con le mani nell’udire quel suono, mentre cominciava ad avanzare furtivo lungo il corridoio verso l’origine di quella risata per vedere quello che stava succedendo.

«Tu volevi assassinare Fistandantilus,» disse Raistlin, fissando suo fratello con aria divertita. Rise di nuovo a quel pensiero. «Caro fratello, mi ero dimenticato di quanto puoi essere spassoso.»

Caramon arrossì e si alzò in piedi incerto.

«Avevo intenzione di farlo... per te,» rispose. Avvicinatosi alla finestra, aprì del tutto la tenda e fissò di cattivo umore il cortile del Tempio che risplendeva perlaceo e argenteo alla luce di Solinari.

«Certo,» esclamò Raistlin, una traccia dell’antica amarezza gli s’insinuò nella voce. «Quando mai hai fatto qualcosa che non fosse per me?»

Pronunciando con voce imperiosa un comando, Raistlin fece in modo che la stanza fosse illuminata da una vivida luce che si sprigionò dal Bastone di Magius appoggiato contro la parete in un angolo.

Il mago buttò indietro la coperta e si alzò dal letto. Avvicinandosi alla grata, prò- ; nunciò un’altra parola e le fiamme balzarono fuori dalla pietra nuda. La loro luce arancione illuminò il suo volto esile e pallido, riflettendosi sui! suoi limpidi occhi castani.

«Be’, sei in ritardo, fratello mio,» continuò Raistlin, protendendo le mani per riscaldarle al fuoco, flettendo più volte le dita sottili. «Fistandantilus è morto. Per mano mia.»

Caramon si girò di scatto fissando suo fratello, colpito dallo strano tono della voce di Raistlin. Ma suo fratello rimase accanto al fuoco, a fissare le fiamme.

«Tu pensavi di entrare e di pugnalarlo mentre dormiva,» mormorò Raistlin, con un sorriso severo sulle labbra sottili. «Il più grande mago che sia vissuto... fino ad ora.»

Caramon vide suo fratello appoggiarsi al caminetto come in preda a un’improvvisa debolezza.

«È rimasto sorpreso di vedermi,» proseguì Raistlin con voce sommessa, «e mi ha dileggiato, come mi aveva dileggiato nella Torre. Ma aveva paura. Potevo vederlo nei suoi occhi.

«“Così, piccolo mago,” mi ha schernito Fistandantilus, “come hai fatto ad arrivare qui? È stato il grande Par-Salian a mandarti?”

«“Sono venuto da solo,” gli ho risposto. “Adesso sono io il padrone della Torre.”

«Questo non se l’era aspettato. “Impossibile,” mi ha risposto, ridendo. “Io sono colui la cui venuta è stata predetta dalla profezia. Sono io il maestro del passato e del presente. Quando sarò pronto tornerò alla mia proprietà.”

«Ma già mentre parlava la paura è cresciuta nei suoi occhi, poiché leggeva i miei pensieri. “Sì,” ho risposto alla sua tacita domanda, “la profezia non ha funzionato come speravi. Tu intendevi viaggiare dal passato al presente utilizzando la forza vitale che mi hai strappato per rimanere in vita. Ma hai dimenticato, o forse non ci hai badato, che io potevo attingere alla tua forza spirituale! Dovevi tenermi vivo per potermi succhiare la linfa vivente. E, a questo fine, mi hai dato parole e mi hai insegnato a usare il Globo dei Draghi. Quando sono giaciuto morto ai piedi di Astinus, hai alitato aria in questo sventurato corpo che avevi torturato. Mi hai portato dalla Regina delle Tenebre implorandola di darmi la Chiave per disserrare i misteri degli antichi testi magici che non potevo leggere. E, quando alla fine sono stato pronto, avevi intenzione di entrare nel guscio spezzato del mio corpo per rivendicarlo come tuo.»

Raistlin si voltò verso suo fratello, e Caramon arretrò di un passo, spaventato dall’odio e dal furore che vide bruciare dentro quegli occhi più luminosi delle fiamme che danzavano nel fuoco.

«Così, aveva pensato di mantenermi debole e fragile. Ma io l’ho combattuto» ripetè Raistlin con voce sommessa e fremente, lo sguardo fisso lontano. «L’ho usato! Ho usato il suo spirito, sono vissuto con il dolore e l’ho vinto! “Tu sei il maestro del passato,” gli ho detto, “ma ti manca la forza per accedere al presente. Io sono il maestro del presente, e sto per diventare il maestro del passato!”»

Raistlin sospirò, lasciò ricadere la mano, la luce tremolò nei suoi occhi e si spense, lasciandoli bui e tormentati. «L’ho ucciso,» mormorò, «ma è stata una battaglia amara.»

«L’hai ucciso? Ma di... dicevano che eri tornato per imparare da lui,» balbettò Caramon. La confusione gli distorceva il viso.

«L’ho fatto,» disse Raistlin con voce sommessa. «Ho passato con lui lunghi mesi sotto altra guisa, rivelandogli la mia vera identità soltanto quando sono stato pronto. E questa volta io l’ho prosciugato!»

Caramon scosse la testa. «È impossibile. Quella notte sei partito alla stessa ora in cui siamo partiti noi... Per lo meno è quello che ha detto l’elfo scuro.»

Raistlin scosse la testa, irritato. «Fratello mio, per te il tempo è un viaggio dall’alba al tramonto. Per quelli di noi, invece, che hanno padroneggiato i segreti, è un viaggio al di là dei soli. I minuti diventano anni, le ore millenni. Sono mesi ormai che percorro questi corridoi come Fistandantilus. Durante queste ultime settimane ho visitato tutte le Torri della Grande Stregoneria, quelle ancora in piedi s’intende, per studiare e imparare. Sono stato con Lorac, nel regno degli elfi, e gli ho insegnato a usare il Globo dei Draghi, un dono micidiale per qualcuno così debole e vano come lui. Più tardi lo intrappolerò. Ho passato lunghe ore insieme ad Astinus nella Grande Biblioteca. E prima ancora ho studiato con il grande Fistandantilus. Ho visitato altri luoghi ancora, vedendo orrori e meraviglie al di là di ogni tua immaginazione. Ma per Dalamar, ad esempio, sono rimasto via soltanto un giorno e una notte. Come per te.»

Ciò andava al di là della comprensione di Caramon. Disperatamente, cercò di aggrapparsi a qualche brandello della realtà.

«Allora... significa forse che stai... bene, adesso? Voglio dire, nel presente? Nel nostro tempo?».

Fece un gesto. «La tua pelle non è più dorata, hai perso quegli occhi a clessidra. Hai l’aspetto che avevi... quand’eri giovane e abbiamo cavalcato fino alla Torre, sette anni or sono. Sarai ancora così quando ritorneremo?»

«No, fratello mio,» rispose Raistlin, parlando con la pazienza che si usa per spiegare le cose a un bambino. «Par-Salian te l’avrà certamente spiegato... o forse no, non l’ha fatto. Il tempo è un fiume. Io non ho cambiato il suo corso. Mi sono semplicemente arrampicato fuori, rituffandomi in un punto più a monte. Mi trasporta con sé. Io...»

Raistlin smise all’improvviso di parlare, lanciando una rapida occhiata alla porta. Poi, con un rapido movimento della mano, la fece spalancare di colpo e Tasslehoff Burrfoot ruzzolò dentro, cadendo per terra a faccia in giù.

«Oh, ciao,» esclamò Tas con allegria, tirandosi su dal pavimento. «Stavo giusto per bussare.»

Spolverandosi, si rivolse a Caramon con entusiasmo. «Ho capito adesso! Vedi, era Fistandantilus che è diventato Raistlin che è diventato Fistandantilus. Soltanto che adesso è Fistandantilus che diventa Raistlin che diventa Fistandantilus, per poi ridiventare Raistlin. Capito?»

No, Caramon non aveva capito. Tas si rivolse al mago. «È giusto, non è vero, Raist...»

Il mago non rispose. Stava fissando Tas con un’espressione così strana e pericolosa negli occhi che il kender si girò a guardare, inquieto, Caramon. Si avvicinò di un passo o due al guerriero, giusto nel caso in cui Caramon avesse avuto bisogno di aiuto, s’intende.

D’un tratto la mano di Raistlin fece un rapido, lieve movimento evocatore. Tasslehoff non avvertì nessuna sensazione di movimento ma per mezzo battito di cuore la stanza si trasformò in una macchia confusa, poi si trovò trattenuto per il colletto a pochi pollici dal volto sottile di Raistlin.

«Perché mai Par-Salian ha mandato te?» chiese il giovane mago con una voce sommessa che fece “tremare” la pelle del kender, come aveva avuto l’abitudine di dire Flint.

«Oh, ha pensato che Caramon avrebbe avuto bisogno di aiuto, naturalmente, e...» Raistlin accentuò la stretta, i suoi occhi divennero due sottili fessure. Tas balbettò: «Uh, in realtà non credo che avesse davvero l’intenzione di mandarmi.» Tas cercò di torcere la testa per guardare Caramon con espressione implorante ma la stretta di Raistlin era forte e potente, e lo stava quasi soffocando. «È... è stato più o meno un incidente, credo, per lo meno per quello che ri... riguardava lui. E pò... potrei parlare meglio se mi lasciassi respirare... ogni tanto.»

«Continua!» gli ordinò Raistlin, dandogli una leggera scrollata.

«Raist, smettila...» cominciò Caramon, facendo un passo verso di lui, corrugando la fronte.

«Chiudi il becco!» gl’intimo Raistlin, furibondo, senza mai distoglieré gli occhi fiammeggianti dal kender. «Continua.»

«C’era... sì, c’era un anello che qualcuno aveva lasciato cadere... be’, forse non era caduto...» balbettò Tas, abbastanza allarmato dall’espressione negli occhi di Raistlin da essere indotto a dire la verità, o per lo meno quella porzione di verità che un kender era in grado di dire. «Cre... credo di essere, in un certo senso, entrato nella stanza di qualcun altro e de... dev’essermi caduto nella borsa, immagino, perché non so come sia privato fin là, ma quando Fu... uomo vestito di rosso ha mandato a casa Bupu, ho saputo che il prossimo sarei stato io. E non potevo abbandonare Caramon! Così, ho... ho detto una preghiera a F... Fizban, voglio dire paladine, e mi sono infilato l’anello e... puff»

Tas alzò le mani, «ero diventato un topo!»

Il kender fece una pausa in quel momento drammatico, sperando in una reazione adeguatamente stupita da parte del suo pubblico. Ma gli occhi di Raistlin non fecero altro che dilatarsi per l’impazienza e la sua mano torse ancora di più il colletto del kender, così Tas si affrettò a continuare, poiché gli riusciva sempre più difficile respirare.

«E così sono stato in grado di nascondermi,» squittì, non diversamen-B dal topo che era stato, «e mi sono intrufolato nel labra... lavaratorio di Par-Salian, e lui stava facendo delle cose bellissime, e le rocce cantavano I Crysania giaceva là per terra, tutta pallida, e Caramon pareva terrorizzato e io non potevo lasciarlo andare da solo, così... così...». Tas scrollò le spalle e guardò Raistlin con disarmante innocenza, «... eccomi qui.»

Raistlin continuò a stringerlo per un po’ ancora, divorandolo con lo sguardo, come se avesse voluto strappargli via la pelle dalle ossa e vedere dentro la sua anima. Poi, in apparenza soddisfatto, il mago lasciò cadere il kender sul pavimento e si voltò a fissare il fuoco. I suoi pensieri vagarono lontano.

«Che cosa significa questo?» mormorò. «Un kender... tutte le regole della magia lo proibiscono! Significa forse che il corso del tempo può venir alterato? Sta dicendo la verità? Oppure è così che progettano di fermarmi?»

«Che hai detto?» chiese Tas, interessato, sollevando lo sguardo mentre sedeva, sul tappeto cercando di riprender fiato. «Il corso del tempo alterato? Da me? Vuoi dire che io potrei...»

Raistlin si girò di scatto fissando il kender con tanta cattiveria che Tas chiuse la bocca e con un moto quasi impercettibile si spostò verso il punto in cui si trovava Caramon.

«Sono rimasto molto sorpreso di trovare tuo fratello. E tu no?» chiese Tas a Caramon, ignorando lo spasimo di dolore che solcava il volto del grosso guerriero. «Anche Raistlin è rimasto sorpreso di vederci, vero? E strano, perché l’avevo visto al mercato degli schiavi e avevo pensato che anche lui ci avesse visto...»

«Il mercato degli schiavi!» esclamò Caramon all’improvviso.

Basta con quei discorsi sui fiumi del tempo... Questo era qualcosa che poteva capire! «Raist... hai detto che sei qui da mesi, questo significa che sei tu colui che ha fatto creder loro che io abbia aggredito Crysania! Sei tu che mi hai comperato! Sei tu che mi hai spedito ai Giochi!»

Raistlin fece un gesto d’impazienza, irritato che i suoi pensieri fossero stati interrotti.

Ma Caramon insistette. «Perché?» volle sapere, con rabbia. «Perché quel posto?»

«Oh, in nome degli dei, Caramon!» Raistlin si voltò di nuovo, con gli occhi gelidi. «Di che utilità potevi mai essermi nelle condizioni in cui ti trovavi quando sei arrivato qui? Io ho bisogno d’un guerriero forte nel luogo in cui stiamo per andare, non di un grassone ubriaco.»

«E... e hai ordinato la morte del Barbaro?» chiese Caramon con occhi lampeggianti. «Hai mandato un avvertimento a come-si-chiama?... a Quarath?»

«Non essere stupido, fratello mio,» replicò Raistlin con voce arcigna. «Cosa m’importa di questi meschini intrighi di corte? Dei loro giochetti insensati? Se volessi sbarazzarmi di un nemico, la sua vita si spegnerebbe nel giro di pochi istanti. Quarath si compiace di credere che io gli dedichi un simile interesse, ma...»

«Ma il nano ha detto...»

«Il nano sente soltanto il suono del denaro che gli vien fatto cadere nel palmo della mano. Ma... credi pure quello che vuoi.» Raistlin scrollò le spalle. «M’importa assai poco.»

Caramon rimase silenzioso per lunghi momenti, riflettendo. Tas aprì la bocca: c’erano almeno cento domande che moriva dalla voglia di fare a Raistlin, ma Caramon lo guardò furibondo e il kender si affrettò a chiuderla. Caramon, ripassando lentamente nel proprio cervello tutto ciò che suo fratello gli aveva detto, sollevò d’un tratto lo sguardo.

«Cosa vuoi dire con “dove stiamo per andare”?»

«Questo è un mio segreto,» rispose Raistlin. «Lo saprai quando verrà il momento, per così dire. Qui il mio lavoro progredisce, ma non è ancora del tutto finito. C’è qualcun altro, qui, che deve venir ammorbidito e riplasmato.»

«Crysania,» mormorò Caramon. «Questo ha qualcosa a che fare con la sfida alla Regina delle Tenebre, vero? Come hanno detto? Ti serve un chierico...»

«Sono molto stanco, fratello mio,» lo interruppe Raistlin. A un suo gesto le fiamme del caminetto scomparvero. A una sua parola, la luce che s’irradiava dal Bastone si spense. L’oscurità scese gelida e desolante sui tre che si trovavano là. Perfino la luce di Solinari era scomparsa, dopo che la luna era affondata dietro gli edifici. Raistlin attraversò la stanza diretto verso il suo letto. Le sue vesti nere frusciarono sommesse. «Lasciatemi al mio riposo. In ogni caso non dovreste rimanere qui troppo a lungo, senza alcun dubbio delle spie avranno già riferito la vostra presenza, e Quarath può essere un nemico mortale. Cercate di evitare di farvi ammazzare. Mi darebbe terribilmente fastidio dover addestrare un’altra guardia del corpo. Addio, fratello mio. Sii pronto. La mia convocazione arriverà presto. Ricorda la data.»

Caramon aprì la bocca, ma si trovò a parlare a una porta. Lui e Tas si trovavano all’esterno del corridoio, adesso immerso nel buio.

«È davvero incredibile!» esclamò il kender, esalando un sospiro deliziato. «Non ho provato la minima sensazione di movimento... e tu? Un istante prima eravamo là, e quello successivo qui. Con un semplice gesto della mano. Dev’essere meraviglioso essere un mago,» concluse Tas con desiderio, fissando la porta chiusa. «Sfrecciare attraverso il tempo e lo spazio e le porte chiuse.»

«Su, vieni,» lo sollecitò Caramon d’un tratto, voltandosi e incamminandosi a grandi passi lungo il corridoio.

«Senti, Caramon,» disse Tas con voce sommessa, correndogli dietro, «Cosa voleva dire Raistlin con “Ricorda la data”? Forse siamo vicini al suo Giorno del Dono della Vita o qualcosa del genere? Gli devi fare un regalo?»

«No,» borbottò Caramon. «Non essere sciocco.» «Non sono sciocco,» protestò Tas, offeso.

«Dopotutto, mancano poche settimane alla Festa dei Reciproci Doni ed è probabile che si aspetti un regalo per allora. Per lo meno, suppongo che la Festa qui a Istar cada negli stessi giorni in cui la celebriamo noi, nel nostro tempo. Tu pensi che...».

Caramon si fermò di colpo.

«Cosa c’è?» chiese Tas, allarmato dall’espressione inorridita sulla faccia dell’omone. Il kender si guardò rapidamente intorno, serrando la mano sull’elsa del piccolo pugnale che portava infilato alla cintura. «Cosa hai visto? Io non...»

«La data!» gridò Caramon. «La data, Tas! La Festa ! A Istar!». giirandosi di scatto, afferrò lo stupefatto kender per il bavero. «Che anno è? Che anno?»

«Diamine... » Tas deglutì a fatica, sforzandosi di pensare. «Credo... sì, qualcuno mi ha detto che era il...»

Caramon gemette, allargò le dita lasciando cadere Tas, e si prese la testa fra le mani.

«Cosa c’è?» chiese Tas.

«Pensa, Tas, pensa!» disse Caramon, con voce soffocata. Poi, stringendosi la testa, infelice, il grosso guerriero avanzò lungo il corridoio alla cieca, nel buio, con passo barcollante. «Che cosa vogliono che faccia? Cosa posso fare?»

Tas lo seguì più lentamente. «Vediamo,» rimuginò tra sé, «siamo ormai alla Festa dei Reciproci Doni dell’anno 962. Un numero così ridicolmente alto. Per qualche motivo mi sembra familiare. La Festa dei: Reciproci Doni, l’anno 962... Oh, sì, adesso ricordo!» esclamò con voce trionfante. «È stata l’ultima Festa dei Reciproci Doni subito prima... subito prima...»

L’improvvisa rivelazione fece mancare il respiro al kender.

«Subito prima del Cataclisma!» bisbigliò.

Capitolo decimo.

Denubis mise giù la penna d’oca e si sfregò gli occhi. Sedeva nella quiete della stanza delle trascrizioni, con la mano sugli occhi, sperando che un breve momento di riposo gli fosse d’aiuto. Ma non servì. Quando aprì gli occhi e strinse la penna d’oca per ricominciare il suo lavoro, le parole che stava cercando di tradurre nuotavano ancora assieme in un guazzabuglio senza senso.

Si rimproverò con severità e ordinò a se stesso di concentrarsi e, alla fine, le parole cominciarono ad acquistare un senso e a disporsi in ordine. Ma era un’impresa ardua. La testa gli faceva male.

Gli sembrava che gli facesse male da giorni, ormai, con un dolore sordo e pulsante che era presente perfino nei suoi sogni.

«Non è strano questo clima?» si disse più volte. «Troppo caldo per l’inizio della stagione della Festa.»

faceva troppo caldo, stranamente caldo. L’aria era densa di umidità, pesante e oppressiva. A quanto pareva, le brezze fresche erano state Inghiottite dal calore. Aveva sentito dire che a Kathay, lontana cento miglia, il mare si stendeva calmo e piatto sotto il sole cocente, talmente calmo che nessuna nave poteva salpare. Erano tutte alla fonda nei porti, con i loro capitani che imprecavano e i carichi che marcivano.

Asciugandosi la fronte, Denubis cercò di continuare a lavorare con diligenza, traducendo i Dischi di Mishakal in solamnico. Ma la sua mente divagava. Le parole gli facevano pensare a una storia che aveva sentito dibattere la sera prima fra alcuni Cavalieri di Solamnia: una storia macabra che Denubis tentava di bandire dalla propria mente.

Un cavaliere chiamato Soth aveva sedotto una giovane chierica elfo e poi l’aveva sposata, portandola nel suo castello di Dargaard Keep come sua moglie. Ma questo Soth era già stato sposato, così avevano detto quei cavalieri, e c’era più d’una ragione per credere che la sua prima moglie avesse fatto una fine orrenda.

I Cavalieri avevano mandato una delegazione per arrestare Soth e pro cessarlo, ma si diceva che adesso Dargaard Keep fosse una fortezza armata: i cavalieri fedeli a Soth difendevano il loro signore. Ciò che rendeva la cosa particolarmente tormentosa era che la donna elfo sedotta dal’ signore era rimasta con lui, salda nel suo amore e nella sua fedeltà verso l’uomo, anche se la sua colpevolezza era stata provata.

Denubis rabbrividì e cercò di bandire il pensiero. Ecco! Aveva commesso un errore. Non c’era niente da fare! Fece per mettere giù di nuovo, la penna d’oca, poi sentì che la porta della stanza delle trascrizioni si apriva. Si affrettò a sollevare la penna d’oca e riprese rapidamente a scrivere.

«Denubis,» disse una voce sommessa ed esitante.

Il chierico sollevò lo sguardo. «Crysania, mia cara,» rispose con un sorriso.

«Sto disturbando il tuo lavoro? Posso ritornare più tardi...»

«No, no,» l’assicurò Denubis. «Sono contento di vederti. Molto contento.» Questo era verissimo.

Crysania riusciva con la sua sola presenza a farlo sentire calmo e tranquillo. Perfino il suo mal di testa pareva attenuarsi. Lasciando lo sgabello dall’alto schienale, cercò una sedia per lei e una per sé, poi si sedette accanto a lei, chiedendosi perché fosse venuta.

Quasi in risposta, Crysania contemplò la stanza tranquilla e pacifica intorno a sé, e sorrise. «Mi piace, qui,» dichiarò. «È così tranquillo e, sì, privato.» Il suo sorriso si affievolì. «Talvolta mi stanco di... d’incontrare così tanta gente,» disse, andando con lo sguardo alla porta che dava accesso alla sezione principale del Tempio.

«Sì, è tranquillo, qui,» convenne Denubis. «Adesso, per lo meno. Non era così gli anni scorsi. Quando sono arrivato qui la prima volta, era pieno di scribi, intenti a tradurre le parole degli dei nelle varie lingue, in modo che tutti potessero leggerle. Ma il Gran Sacerdote non riteneva che questo fosse necessario e uno alla volta se ne sono andati tutti, trovando cose più importanti da fare. Salvo io.» Sospirò. «Sono troppo vecchio, immagino,» aggiunse con gentilezza, scusandosi. «Ho cercato di pensare a qualcosa d’importante da fare, e non ci sono riuscito. Perciò sono rimasto qui. Non pare che la cosa abbia importato a qualcuno... non molto, comunque.»

Non potè fare a meno di accigliarsi un po’, ricordando quelle lunghe discussioni con il Reverendo Figlio Quarath, il quale lo stuzzicava e lo pungolava perché dedicasse se stesso a qualcosa di significativo. Alla fine, il Sommo Chierico aveva rinunciato, dichiarando a Denubis che con lui non c’erano speranze. Così Denubis era tornato al suo lavoro, sedendo giorno dopo giorno in pacifica solitudine, traducendo le pergamene I i tomi, e mandando le traduzioni a Solamnia dove giacevano, senza che nessuno le leggesse, in qualche grande biblioteca.

«Ma basta parlare di me,» aggiunse, vedendo il volto pallido di Crysania. «Cosa succede, mia cara? Non ti senti bene? Perdonami, ma non ho potuto fare a meno di notare come tu sia parsa infelice durante queste ultime settimane.»

Crysania fissò le proprie mani in silenzio, poi risollevò lo sguardo sul chierico. «Denubis,» cominciò a dire, esitante, «tu pensi... pensi che la chiesa sia... quello che dovrebbe essere?»

Non era affatto questo che si era aspettato. Lei aveva più l’aspetto di una giovane ragazza ingannata dal suo amante. «Diamine, certo, mia cara,» rispose Denubis con una certa confusione.

«Davvero?». Crysania lo fissò negli occhi con tanta intensità da indurre Denubis a fare una pausa.

«Tu sei con la chiesa da moltissimo tempo, ? prima dell’avvento del Gran Sacerdote e di Quar... dei suoi ministri. Mi parli dei vecchi tempi. L’hai vista cambiare. E migliore, adesso?»

Denubis aprì la bocca per rispondere che, sì, certamente, era migliore. Come avrebbe potuto essere altrimenti con un uomo buono e santo come il Gran Sacerdote alla sua testa? Ma d’un tratto si rese conto che gli occhi grigi di Dama Crysania guardavano dritti nella sua anima e sentì il loro sguardo scrutatore e penetrante illuminare tutti gli angoli oscuri in cui sapeva di aver nascosto delle cose per anni. Con una sensazione di disagio si sovvenne di Fistandantilus.

«Be’, certo... è soltanto che...» finì per farfugliare. Se ne accorse e Tossendo si azzittì. Crysania annuì con aria grave, come se si fosse aspettata quella risposta.

«No, è meglio,» disse con fermezza, non volendo arrecare guasti alla sua giovane fede com’era capitato alla propria. Si sporse in avanti, prendendole la mano. «Io sono soltanto un vecchio uomo di mezza età, mia cara. E ai vecchi di mezza età non piacciono i cambiamenti. Tutto qui. per noi ogni cosa era migliore ai vecchi tempi. Ebbene,» ridacchiò, «Perfino l’acqua pareva avere un sapore migliore. Non sono abituato ai periodi moderni. Mi riesce difficile capirli. La chiesa sta facendo un sacco di bene, mia cara. Sta portando ordine al paese ed alle strutture della città...»

«Che la società lo voglia o no,» borbottò Crysania, ma Denubis la Ignorò.

«Sta sradicando il male,» continuò, e d’un tratto la storia di quel cavaliere, di quel Lord Soth, gli fluttuò spontanea alla superficie della mente. Si affrettò, frenetico, a sprofondarla, ma non prima di aver perso il filo del discorso. Annaspando, cercò di recuperarlo, ma era troppo tardi.

«Davvero?» gli stava chiedendo Dama Crysania. «Sta sradicando il male? Oppure siamo come bambini lasciati soli a casa di notte, che i< accendono una candela dopo l’altra per tener lontana l’oscurità... Non ci accorgiamo che l’oscurità ha uno scopo, anche se potremmo non essere in grado di capirlo, e così, in preda al nostro terrore, finiamo per bruciare la casa!»

Denubis ammiccò più volte, non riuscendo affatto a capire quelle parole. Ma Crysania continuò, diventando sempre più inquieta a mano a mano che parlava. Era ovvio, si rese conto Denubis a disagio, che se l’era tenuto dentro per settimane.

«Noi non cerchiamo di aiutare quelli che hanno perso la strada a trovarla di nuovo! Noi voltiamo loro la schiena, chiamandoli indegni, oppure ci sbarazziamo di loro! Sai,» si voltò verso Denubis,

«che Quarath ha proposto di eliminare dal mondo le razze degli orchi?»

«Ma, mia cara, dopo tutto gli orchi sono un branco di scellerati assassini...» azzardò Denubis, protestando debolmente.

«Creati dagli dei, proprio come noi,» ribatté Crysania. «Abbiamo forse diritto, nella nostra imperfetta comprensione del grande schema delle cose, di distruggere qualcosa che è stato creato dagli dei?»

«Perfino i ragni?» chiese Denubis malinconico, senza riflettere. Vedendo l’espressione irritata di lei, sorrise. «Non ha importanza. Sono le farneticazioni di un vecchio.»

«Sono venuta qui convinta che la chiesa fosse tutto ciò che c’è di buono e sincero, e adesso... adesso...». Si prese la testa fra le mani.

A Denubis il cuore faceva male tanto quanto la sua testa. Allungando una mano tremante, accarezzò delicatamente i lisci capelli azzurro-neri di lei, confortandola come avrebbe confortato la figlia che non aveva mai avuto.

«Non vergognarti delle tue domande, bambina,» disse, cercando di dimenticare che aveva provato vergogna per la sua. «Vai a parlare al Gran Sacerdote. Risponderà ai tuoi dubbi. Ha molta più saggezza di me.»

Crysania sollevò lo sguardo, speranzosa.

«Tu pensi...»

«Certo,» sorrise Denubis. «Vallo a trovare stasera, mia cara. Terrà udienza. Non aver timore. Domande del genere non lo incolleriscono.» «Molto bene,» fece Crysania con espressione decisa.

«Hai ragione. È stato sciocco da parte mia lottare con me stessa senza aiuto. Lo chiederò al Gran Sacerdote. Certamente potrà trasformare in luce questa tenebra.»

Denubis sorrise, e si alzò in piedi insieme a Crysania. D’impulso, la donna si sporse in avanti e lo baciò con delicatezza sulla guancia. «Grazie, amico mio,» disse con voce sommessa. «Ti lascerò al tuo lavoro.»

Neil’osservarla mentre usciva dalla stanza silenziosa illuminata dalla luce del sole, Denubis provò un improvviso, inesplicabile dolore e, poi, un’immensa paura. Era come se si trovasse in un luogo invaso da una vivida luce e la vedesse incamminarsi verso un’enorme e terribile oscurità. La luce intorno a lui diventava sempre più viva, mentre l’oscurità intorno a lei diventava più orribile, più densa. Confùso, Denubis si portò la mano agli occhi. La luce era reale! Stava entrando a fiotti in quella stanza inondandolo d’una radiosità così brillante e splendida che non riusciva a guardarla. La luce penetrò il suo cervello, il dolore che avvertiva alla testa era lancinante. Ma, pensò disperato, devo avvertire Crysania, devo fermarla...

La luce lo inghiottì, riempiendo la sua anima d’un bagliore accecante. poi, d’un tratto, quella vivida luce scomparve. Si trovava di nuovo nella biblioteca illuminata dal sole. Ma non era solo. Sbattendo le palpebre, cercò subito di abituare i suoi occhi a quella relativa oscurità, si guardò intorno e vide un elfo nella stanza insieme a lui, che lo stava osservando con comprensione. L’elfo era anziano, quasi calvo, con una barba bianca lunga e meticolosamente curata. Indossava lunghe vesti bianche e il medaglione di Paladine gli pendeva dal collo. L’espressione del viso dell’elfo era triste, d’una tristezza così intensa che a Denubis venne voglia di piangere, anche se non aveva nessuna idea del motivo.

«Mi spiace,» disse Denubis con voce rauca. Portandosi la mano alla testa, si rese conto d’un tratto che non gli faceva più male. «Non... non ti avevo visto entrare. Posso fare qualcosa per te? Stai cercando qualcuno?» ; «No, ho trovato colui che cercavo,» replicò l’elfo con calma, ma sempre con la stessa espressione triste, «se tu sei Denubis.»

«Sono Denubis,» rispose il chierico, perplesso. «Ma perdonami, non riesco a ricordare...» I «Il mio nome è Loralon,» disse l’elfo.

A Denubis mancò il fiato. Il più grande dei chierici elfi, Loralon, anni addietro si era opposto all’ascesa al potere di Quarath. Ma Quarath era troppo forte. Forze potenti lo appoggiavano. Le parole di Loralon di riconciliazione e di pace non erano state apprezzate. In preda al dolore il vecchio chierico era ritornato al suo popolo, nella meravigliosa terra di Silvanesti che amava, giurando di non volgere mai più lo sguardo su Istar.

Cosa faceva qui?

«Certamente tu cerchi il Gran Sacerdote,» balbettò Denubis. «Io...»

«No. C’è soltanto una persona in questo Tempio che sto cercando, e quella sei tu, Denubis,» ribadì Loralon. «Adesso, vieni. Ci aspetta un lungo viaggio.»

«Viaggio!» ripetè Denubis, scioccamente, chiedendosi se non stesse impazzendo. «E impossibile, non ho più lasciato Istar da quando sono arrivato qui, trent’anni fa...»

«Vieni, Denubis,» disse Loralon, con gentilezza.

«Dove? Come? Non capisco...» gridò Denubis. Vide Loralon al centro di quella pacifica stanza illuminata dalla luce del sole, che lo osservava, sempre con quell’espressione di profonda, indicibile tristezza. Sollevando una mano, Loralon si toccò il medaglione che portava al collo.

E poi Denubis seppe. Paladine aveva dato al suo chierico la vista interiore... Aveva visto il futuro.

Scosse la testa, sbiancandosi in volto I inorridito.

«No,» bisbigliò. «È troppo orribile.»

«Tutto non è ancora deciso. I piatti della bilancia si stanno inclinando, ma non hanno ancora traboccato. Questo viaggio potrebbe esser breve oppure durare per un periodo incalcolabile. Vieni, Denubis, qui la tua presenza non è più necessaria.»

Il sommo chierico elfo gli tese la mano. Denubis si sentì gratificato da una sensazione di pace e di comprensione che non aveva mai provato prima, perfino in presenza del Gran Sacerdote. Chinando la testa, allungò il braccio e prese la mano di Loralon. Ma, mentre faceva questo, non riuscì a trattenersi dal piangere...

Crysania sedeva in un angolo della sontuosa Sala delle Udienze del Gran Sacerdote, le mani incrociate tranquillamente in grembo, il volto pallido ma composto. Guardandola, nessuno avrebbe intuito il tumulto della sua anima. Nessuno, salvo forse un uomo, che era entrato nella stanza senza essere notato da nessuno e che adesso si trovava nell’ombra di 1 un’alcova e la stava osservando.

Là seduta, ascoltando la voce musicale del Gran Sacerdote, sentendolo discutere d’importanti questioni di stato con i suoi ministri, udendolo passare dalla politica alla soluzione dei grandi misteri dell’universo insieme ad altri ministri, Crysania arrossì al pensiero di aver anche ] soltanto considerato la possibilità di avvicinarlo con le sue insignificanti domande.

Le parole di Elistan le tornarono alla mente: «Non andare da altri per ottenere le risposte. Guarda nel tuo cuore, cerca la tua fede. Troverai le risposte, oppure arriverai a capire che la risposta l’hanno gli dei stessi, e non gli uomini.»

E così Crysania sedeva là, preoccupata per i propri pensieri, scrutando il proprio cuore.

Sfortunatamente la pace che cercava continuava a eluderla, e D’un tratto decise che forse non c’erano risposte alle sue domande. Poi sentì una mano sul braccio. Trasalendo, Crysania levò lo sguardo.

«Ci sono risposte alle tue domande, Reverenda Figlia,» disse una voce ; che trasmise attraverso i suoi nervi un brivido sconvolgente di riconoscimento, «ci sono risposte, ma tu ti rifiuti di ascoltarle.»

Conosceva la voce ma, scrutando ansiosa in mezzo alle ombre del cappuccio, non riuscì a riconoscere il volto. Lanciò un’occhiata alla mano posata sul suo braccio, credendo di conoscere quella mano. Le vesti nere ricadevano intorno alla persona, e il suo cuore dette in un sussulto. Ma non c’erano rune d’argento sulla veste che lui indossava. Ancora una volta fissò quel viso. Tutto quello che riuscì a vedere fu il luccicare di quegli occhi nascosti, la pelle pallida... Poi la mano lasciò il suo braccio e. sollevandosi, rovesciò all’indietro la parte anteriore del cappuccio.

Dapprima Crysania provò un amaro disappunto. Gli occhi del giovane non erano dorati, né avevano quella forma di clessidra che era diventata il suo simbolo. La pelle non era tinta d’oro, il volto non era fragile e malaticcio. Il volto di quell’uomo era pallido, come avrebbe potuto essere dopo ore di studio, ma era sano, perfino bello, salvo per quell’espressione di amaro e perpetuo cinismo. Gli occhi erano castani, limpidi e caldi come il vetro, riflettendo tutto quello che vedevano, senza rivelare niente di ciò che c’era dietro. Il corpo dell’uomo era snello ma muscoloso. Le vesti nere, disadorne che indossava rivelavano i contorni di un paio di spalle robuste, non la struttura curva e infranta del mago. E poi l’uomo sorrise e le sue labbra sottili si dischiusero.

«Sei tu!» alitò Crysania, balzando in piedi.

L’uomo le appoggiò una mano sulla spalla, esercitando una lieve pressione che la costrinse a riprendere posto sulla sedia. «Per favore, rimani seduta, Reverenda Figlia,» le disse. «Mi siederò con te. Qui c’è quiete, e potremo parlare senza essere interrotti.» Voltandosi, fece un gesto aggraziato e tutt’ad un tratto una sedia che si era trovata sul lato opposto della stanza comparve accanto a lui. Crysania cacciò un lieve singulto e lanciò un’occhiata intorno a sé. Ma se qualcun altro aveva notato la scena, ma tutti si davano da fare per ignorare il mago. Crysania si voltò e vide Raistlin che la stava osservando divertito, e sentì una vampa di calore sulla pelle.

«Raistlin,» disse con voce priva d’espressione, per celare la sua confusione, «sono contenta di vederti.»

«Ed io sono contento di vedere te, Reverenda Figlia,» lui rispose, con quella voce beffarda che le dava sui nervi. «Ma non mi chiamo Raistlin.»

Crysania lo fissò, adesso arrossendo ancora di più per l’imbarazzo. «Perdonami,» disse, scrutando con attenzione il suo viso, «ma mi ricordi moltissimo qualcuno che conosco... che conoscevo una volta.»

«Forse questo chiarirà il mistero,» disse lui con voce sommessa. «Per quelli che ci circondano, il mio nome è Fistandantilus.»

Crysania rabbrividì involontariamente, le luci nella sala parvero oscurarsi per un attimo. «No,» disse scuotendo lentamente la testa, «non può essere! Sei tornato indietro... per imparare da lui!»

«Sono tornato indietro per diventare lui,» rispose Raistlin.

«Ma... ho sentito raccontare delle storie. È malvagio, immondo...». Si ritrasse da Raistlin, fissandolo inorridita.

«Il malvagio non c’è più,» rispose Raistlin. «È morto.»

«Tu?» La parola fu un bisbiglio.

«Mi avrebbe ucciso, Crysania,» rispose Raistlin con semplicità, «così come aveva assassinato innumerevoli altri. Si trattava della mia vita o della sua.»

«Abbiamo scambiato un male con un altro,» replicò Crysania, in tono triste e disperato. Gli voltò le spalle.

Raistlin si rese subito conto che la stava perdendo. La fissò in silenzio. Crysania si era spostata sulla sedia, girando il viso altrove. Poteva vedere il suo profilo, freddo e puro come la luce di Solinari. La studiò con freddezza, proprio come studiava i piccoli animali che capitavano sotto il suo coltello quando sondava i segreti della vita stessa. Proprio come li scuoiava della loro pelle per vedere il cuore che pulsava sotto, così scuoiò j mentalmente Dama Crysania delle sue difese esterne per vedere la sua anima.

«Fistandantilus aveva in mente di venire nel nostro tempo per uccidermi, occupare il mìo corpo e riprendere l’opera là dove la Regina delle Tenebre l’aveva lasciata in sospeso. Aveva in mente di portare sotto il suo controllo i draghi malvagi. I Signori dei Draghi, come mia sorella Kitiara, sarebbero accorsi sotto il suo stendardo. Il mondo sarebbe piombato un’altra volta nella guerra.»

Raistlin fece una pausa. «Adesso la minaccia non c’è più,» disse con voce sommessa.

I suoi occhi imprigionavano Crysania proprio come la sua mano le imprigionava il polso.

Guardando dentro di essi, Crysania si vide riflessa nella loro superficie a specchio. E vide se stessa non come il chierico pallido, severo e studioso come si era sentita definire più di una volta, ma come qualcosa di bello e desiderabile. Quell’uomo era venuto da lei fiducioso, e lei l’aveva deluso.

Il dolore nella sua voce era insopportabile, e Crysania cercò ancora una volta di parlare, ma Raistlin continuò, attirandola ancora più vicina:

«Tu conosci le mie ambizioni,» le disse. «A te ho aperto il mio cuore. È forse mia intenzione rinnovare la guerra? E forse mio desiderio conquistare il mondo? Mia sorella Kitiara è venuta da me a chiedermi proprio questo, a cercare il mio aiuto. Ho rifiutato e tu, temo, ne hai pagato le conseguenze.» Raistlin sospirò e abbassò gli occhi. «Le avevo parlato di te, Crysania, della tua bontà e del tuo potere. Si è incollerita e ha mandato il suo cavaliere della morte a ucciderti, pensando così di porre fine alla tua influenza su di me.»

«Allora, io ho influenza su di te?» chiese Crysania con voce sommessa, senza più cercare di liberarsi dalla stretta di Raistlin. La sua voce tremava di gioia. «Posso sperare che tu abbia visto le vie della chiesa e...» «Le vie di questa chiesa?» chiese Raistlin. La sua voce era di nuovo amara e beffarda. Ritirando d’un tratto la mano, si appoggiò allo schienale della sedia, raccogliendo le vesti nere intorno a sé e fissando Crysania con un sorriso di scherno.

L’imbarazzo, la rabbia e un senso di colpa chiazzavano le guance di’ Crysania d’un rosso pallido. I suoi occhi grigi si oscurarono fino a diventare d’un azzurro profondo. Il colore delle sue guance si diffuse alle labbra, e all’improvviso fu bella, qualcosa che Raistlin osservò senza volerlo. Il pensiero lo infastidì oltre ogni limite, minacciando di sconvolgere la sua concentrazione. Lo respinse irritato.

«Conosco i tuoi dubbi, Crysania,» continuò d’un tratto. «So quello che hai visto. Hai scoperto che la chiesa, si occupa molto più della gestione del mondo piuttosto che indicare la via degli dei. Hai visto i suoi chierici fare il doppio gioco, darsi alla politica, spendere soldi per esibirsi quando avrebbero potuto impiegarli per i poveri. Hai pensato di ristabilire il primato della Chiesa quando fossi tornata, per scoprire invece che altri avevano indotto gli dei a scagliare, nella loro giusta collera, su coloro che li avevano abbandonati!, la montagna di fuoco. Avevi cercato di darne la colpa... ai fruitori di magia, forse.»

Il rossore di Crysania divenne più intenso, non riusciva più a guardarlo e. rivolse il volto altrove, ma la sua pena e la sua umiliazione erano ovvie.

Raistlin continuò senza pietà. «Il tempo del Cataclisma si avvicina, già i veri chierici hanno lasciato il paese... Sì, non lo sapevi? Il tuo amico Denubis se n’è andato. Tu, Crysania, sei l’unico vero chierico rimasto nel paese.»

Crysania fissò Raistlin sbigottita. «È... è impossibile,» bisbigliò. lanciò un’occhiata alla sala intorno a sé. E per la prima volta riuscì a sentire le conversazioni di quelli che avevano formato capannelli lontano dal gran Sacerdote. Sentì parlare dei Giochi, sentì discussioni sulla distribuzione dei fondi pubblici, l’instradamento degli eserciti, i modi migliori per riportare sotto controllo una nazione ribelle, tutto nel nome della chiesa.

E poi, come per soffocare le altre voci aspre, la voce dolce e musicale del Gran Sacerdote si gonfiò nella sua anima, calmando il suo spirito turbato. Il Gran Sacerdote era ancora là. Voltando le spalle alla tenebra, guardò verso la sua luce e sentì la sua fede ancora una volta forte e pura che si levava per difenderla. Freddamente riportò lo sguardo su Raistlin.

«C’è ancora bontà nel mondo,» disse severa. Alzandosi in piedi, fece per andarsene. «Fintanto che quel sant’uomo, di sicuro benedetto dagli dei, governa, non posso credere che gli dei abbiano scatenato la loro collera contro la chiesa. Diciamo piuttosto che è stato contro il mondo, per aver ignorato la chiesa,» continuò, con voce bassa e appassionata. Anche Raistlin si era alzato e, tenendole gli occhi puntati addosso, le si avvicinò di più.

Lei non parve accorgersene, ma continuò: «O per aver ignorato il Gran Sacerdote! Deve averlo previsto! Forse perfino in questo momento sta tentando di prevenirlo! Implorando gli dei di aver pietà!»

«Guarda quell’uomo,» bisbigliò Raistlin, «... quell’uomo “benedetto” dagli dei.» Tendendo un braccio, il mago prese Crysania tra le sue forti mani e la costrinse a guardare il Gran Sacerdote. Sopraffatta da un senso di colpa per aver dubitato e arrabbiata con se stessa per aver imprudentemente permesso a Raistlin di vedere dentro di lei, Crysania tentò con rabbia di liberarsi dalla sua presa, ma lui la strinse con fermezza, bruciandole la pelle con le dita.

«Guarda!» ripetè Raistlin. Scuotendola leggermente, le fece sollevare la testa così da obbligarla ad appuntare il suo sguardo direttamente nella luce e nella gloria che circondavano il Gran Sacerdote.

Raistlin sentì il corpo che teneva così stretto al suo che cominciava a tremare, e sorrise soddisfatto.

Avvicinando a Crysania la sua testa avvolta nel cappuccio nero, le bisbigliò all’orecchio, mentre l’alito le accarezzava la guancia:

«Cosa vedi, Reverenda Figlia?»

L’unica risposta che ricevette fu un lamento straziante.

Il sorriso di Raistlin si accentuò. «Dimmelo,» insistè.

«Un uomo,» balbettò Crysania, tenendo il suo sguardo appuntato sul Gran Sacerdote. «Soltanto un uomo... umano. Sembra stanco e... e spaventato. Ha la pelle floscia. Sono molte notti che non dorme. I suoi pallidi occhi azzurri guizzano qua e là in preda alla paura...». D’un tratto si rese conto di ciò che aveva detto. Acutamente conscia della vicinanza di Raistlin, del calore e della sensazione che emanavano da quel forte corpo muscoloso sotto le morbide vesti nere, Crysania si liberò dalla sua stretta.

«Che razza d’incantesimo è questo che mi hai lanciato?» chiese con rabbia, voltandosi per affrontarlo.

«Nessun incantesimo, Reverenda Figlia,» rispose Raistlin, con calma. «Ho invece spezzato l’incantesimo che egli intesse intorno a sé per la paura che prova. È quella paura che causerà la sua rovina e porterà la distruzione sul mondo.»

Crysania fissò Raistlin con occhi spiritati. Voleva che mentisse. Voleva fermamente che mentisse.

Ma poi si rese conto che, anche se stava mentendo, la cosa non aveva importanza. Lei non poteva più mentire a se stessa.

Confusa, spaventata e sconcertata, Crysania si girò e, semiaccecata dalle lacrime, corse fuori dalla Sala delle Udienze.

Raistlin la seguì con lo sguardo, senza provare né esultanza né soddisfazione per quella sua vittoria.

Dopotutto, non era niente di più di quanto si era aspettato.

Tornando a sedersi accanto al fuoco, scelse un’arancia da una fruttiera su un tavolo e la sbucciò con noncuranza fissando pensieroso le fiamme.

Un’altra persona nella stanza aveva osservato Crysania che fuggiva dalla Sala delle Udienze. E ora osservò Raistlin che mangiava l’arancia, prima succhiandone il sugo per poi divorarne la polpa.

Con il volto pallido per la rabbia che lottava con la paura, Quarath lasciò la Sala delle Udienze e fece ritorno nella sua stanza dove camminò nervosamente avanti ed indietro fino all’alba.

Capitolo undicesimo.

La notte durante la quale i veri chierici lasciarono

Krynn divenne poi nota nella storia scritta come la Notte del Giudizio. Dove fossero andati e quale fosse stato il loro destino, non lo riferisce neppure Astinus. Qualcuno dice che sono stati vistitrecento anni più tardi durante i giorni amari e desolati della Guerra delle Lance. Ci sono molti elfi pronti a giurare su tutto ciò che hanno di più caro che Loralon, il più grande e devoto dei chierici elfi, abbia percorso le terre torturate di Silvanesti piangendone la caduta e benedicendo gli sforzi di coloro che avevano dedicato se stessi alla sua ricostruzione.

Ma per la maggior parte degli abitanti di Krynn, la dipartita dei veri chierici passò inosservata. Però quella notte si rivelò per altri, e in molti modi, la Notte del Giudizio.

Crysania fuggì dalla Sala delle Udienze del Gran Sacerdote in preda alla confusione e alla paura.

La sua confusione era facilmente spiegabile. Aveva visto la più grande delle creature, il Gran Sacerdote, l’uomo che perfino i chierici della sua epoca riverivano ancora, ridotto a un essere umano intimorito della sua ombra, un umano che si nascondeva dietro agli incantesimi e lasciava che altri governassero per lui. Tutti i dubbi e le apprensioni che aveva sviluppato dentro di sé sulla sua azione e il destino di Krynn erano tornati. In quanto a ciò che temeva, questo non poteva o non voleva definirlo.

In un primo momento, dopo aver lasciato la sala, andò avanti alla cieca, incespicando, senza una chiara idea di dove stesse andando, o di quello che stava facendo. Poi, cercò rifugio in un angolo, si asciugò le lacrime e si ricompose. Vergognandosi della sua momentanea perdita di controllo, seppe subito quello che doveva fare.

Doveva trovare Denubis. Avrebbe dimostrato che Raistlin si era sbagliato. Percorrendo i corridoi vuoti, rischiarati dalla luce morente di Lunitari, Crysania si recò nella stanza di Denubis. Quella storia dei chierici i che scomparivano non poteva esser vera. In realtà, Crysania non avrebbe in seguito creduto alle antiche leggende della Notte del giudizio... le considerava storielle per bambini. Ora, tornata nel passato, negava ancora di crederci. Raistlin doveva essersi... sbagliato.

Si affrettò a proseguire senza fermarsi, conoscendo bene la strada. Aveva fatto visita a Denubis nella sua stanza parecchie volte per discutere di teologia o di storia, o per ascoltare i racconti della sua terra natia. bussò alla porta.

Non vi fu risposta.

«Sta dormendo,» si disse Crysania, irretita dal brivido improvviso che scuoteva il suo corpo.

«Certo, è passata l’ora della Veglia Profonda. Tornerò domattina.»

Ma bussò di nuovo, e perfino chiamò con voce sommessa: «Denubis.»

Ancora nessuna risposta.

«Tornerò. Dopotutto sono passate soltanto poche ore da quando l’ho visto,» si disse di nuovo, ma trovò la propria mano sulla maniglia, intenta ad abbassarla con delicatezza. «Denubis?» bisbigliò, con il cuore che le balzava in gola. La stanza era buia: dava su un cortile interno, per cui non lasciava filtrare niente del chiarore della luna. Per un attimo, Crysania sentì venir meno la sua forza di volontà. «E ridicolo!» si rimproverò, già immaginando l’imbarazzo di Denubis e il proprio se l’uomo si fosse svegliato sorprendendola a strisciare nella sua camera da letto in piena notte.

Crysania spalancò la porta con un movimento deciso, lasciando che la luce delle torce nel corridoio illuminasse la piccola stanza. Era proprio come l’aveva lasciata: ordinata, pulita e... vuota. Be’, non vuota del tutto. I libri di Denubis, le sue penne d’oca, perfino i suoi indumenti erano ancora là, come se fosse uscito soltanto per pochi minuti, con l’intenzione di tornare subito. Ma lo spirito della stanza non c’era più, l’aveva lasciata fredda e vuota, con il letto ancora fatto.

Per un attimo, le luci del corridoio si offuscarono davanti agli occhi di Crysania. Sentì le gambe che le s’indebolivano e si appoggiò contro la porta. Poi, come pochi istanti prima, si costrinse ad essere calma, a pensare razionalmente. Con fermezza chiuse la porta, e con fermezza ancora maggiore s’indusse a percorrere i corridoi addormentati verso la propria stanza.

Molto bene, la Notte del Giudizio era giunta. I veri chierici se n’erano andati. Era quasi il giorno della Festa dei Reciproci Doni. Tredici giorni dopo la Festa, il Cataclisma si sarebbe abbattuto.

Questo pensiero la costrinse ad arrestarsi. Sentendosi debole e sofferente, si appoggiò a una finestra e fissò l’interno di un giardino inondato dal bianco bagliore della luna senza nulla vedere. Così, quella era la fine dei suoi piani, dei suoi sogni dei suoi obbiettivi. Sarebbe stata costretta a far ritorno al proprio tempo senza poter riferire nulla se non un desolante fallimento.

L’argenteo giardino ondeggiò alla sua vista. Aveva trovato una chiesa corrotta, col Gran Sacerdote in apparenza responsabile della terribile distruzione del mondo. Aveva perfino fallito nella sua originaria convinzione di sottrarre Raistlin alle pieghe della tenebra. Raistlin non l’avrebbe mai ascoltata. Era probabile che in quel preciso momento stesse facendosi beffe di lei...

«Reverenda Figlia?» le giunse una voce.

Asciugandosi in fretta gli occhi, Crysania si voltò. «Chi è?» Chiamò, cercando di schiarirsi la gola.

Fissò il buio, poi trattenne il respiro quando una figura ammantata emerse dalle ombre. Non riuscì a parlare.

La voce le venne meno.

«Raistlin!» Esclamò. «Ero diretto alle mie stanze quando ti ho visto qui, immobile,» le disse la voce, e non rideva né la dileggiava. Era fredda e venata di cinismo, ma aveva una strana qualità, una sorta d, calore che faceva tremare

«Spero che tu non stia male,» disse Raistlin, avvicinandosi. Non poteva distinguere il suo volto nascosto dalle ombre del tenebroso cappuccio Ma poteva vedere i suoi occhi che luccicavano limpidi e freddi alla luce della luna. «No,» mormorò Crysania, confusa, e girò altrove il viso, sperando ardentemente che ogni traccia delle sue lacrime fosse scomparsa. Ma servì a ben poco. La stanchezza, la tensione e le sue stesse debolezze la sopraffecero. Malgrado cercasse disperatamente di controllarle, le laccrime le sgorgarono un’altra volta, scendendole lungo le guance

«Vai via, per favore,» disse, serrando gli occhi ed inghiottendo le lacrime come un’amara medicina. Sentì un calore avvilupparla e la morbidezza delle vesti di velluto nero sfiorarle il braccio nudo. Sentì il dolce profumo delle spezie e dei petali di rosa e un vago olezzo appiccicoso di putrefazione: forse ali di pipistrello o il cranio di qualche animale, quelle cose misteriose di cui i maghi si servivano per lanciare i loro incantesimi. E poi sentì una mano , toccarle la guancia, dita sottili, sensibili e forti e ardenti di quello strano calore.

Crysania non fu certa se fossero state le dita ad asciugarle le lacrime o se queste non si fossero disseccate al loro calore bruciante. Poi le mani sollevarono con delicatezza il suo mento e girarono la testa lontano dal chiarore della luna. Crysania non riusciva a respirare, il battito del cuore la soffocava. Tenne gli occhi chiusi, temendo quello che avrebbe potuto vedere. Ma poteva sentire il corpo snello di Raistlin, duro sotto le vesti morbide, premerle addosso. Poteva percepire quel terribile calore

Crysania volle d’un tratto che quell’oscurità l’avvolgesse, la nascondesse e la confortasse. Voleva che quel calore bruciasse via il gelo che era dentro di lei. Bramosa, alzò le braccia e protese le mani... e Raistlin non c’era più. Potè udire il fruscio delle sue vesti che si allontanava nel silenzio del corridoio.

Sorpresa, Crysania aprì gli occhi. Poi, piangendo di nuovo, premette la guancia contro il freddo vetro. Ma queste erano lacrime di gioia.

«Paladine!» bisbigliò sommesso, «grazie. La mia via, ora, è spianata. Non fallirò.»

Una figura abbigliata di scuro si aggirava furtiva per i corridoi del Tempio. E quelli che l’incontravano si ritraevano in preda al terrore... si ritraevano davanti a qualcosa che poteva venir percepito, se non visto, su quel volto incappucciato. Infine Raistlin entrò nel proprio corridoio deserto, colpì impetuosamente la porta della sua stanza al punto quasi da infrangerla, e fece guizzare le fiamme nel caminetto con niente di più di un’occhiata. Il fuoco ruggì su per il camino e Raistlin prese a camminare avanti e indietro, lanciando imprecazioni contro se stesso, fino a quando non fu troppo stanco. Allora si lasciò cadere su una sedia e fissò il fuoco con sguardo febbricitante.

«Sciocco,» ripetè più volte. «Questo avrei dovuto prevederlo!». Serrò il pugno. «Avrei dovuto saperlo. Questo corpo, malgrado tutta la sua forza, ha la più grande debolezza nota all’umanità. Non importa quanto sia intelligente e disciplinata la mente, quanto siano controllate le emozioni, quello aspetta tra le ombre come una grande bestia, pronta a balzar fuori e a prendere il sopravvento.»

Ringhiò per la rabbia e si affondò le unghie nel palmo della mano fino a quando non ne sprizzò il sangue. «Posso ancora vederla! Posso vedere la sua pelle color avorio, le sue labbra pallide e morbide. Posso sentire l’odore dei suoi capelli, percepire le dolci curve del suo corpo accanto al mio! No!». Fu un vero, autentico urlo acuto. «Questo non deve succedere, non bisogna permettere che succeda! O forse...». Un pensiero. «E se la seducessi? Questo non la porrebbe ancora di più in mio potere?». Il pensiero era più che tentatore e causò un tale impeto di desiderio al giovane che tutto il suo corpo fu scosso da un tremito.

Ma la parte fredda, logica e calcolatrice della mente di Raistlin prese il sopravvento. «Cosa ne sai, tu, dell’arte di fare all’amore?» si chiese, con una risata di scherno. «Cosa ne sai della seduzione? In questo sei un bambino, più stupido di quella mostruosità di tuo fratello.»

I ricordi della sua giovinezza gli irruppero nella memoria come un’inondazione. Fragile e malaticcio, famoso per il suo mordace sarcasmo e per i suoi modi sornioni, Raistlin non aveva certo mai attirato l’attenzione delle donne, non come il suo aitante fratello. Immerso nei suoi studi di magia, ossessionato da essi, non aveva sentito molto quella perdita. Oh, una volta aveva sperimentato. Una delle ragazze di Caramon, annoiata dalle facili conquiste, aveva pensato che il gemello dell’omone avrebbe potuto rivelarsi più interessante. Pungolato dalle frecciate di suo fratello e dei suoi compagni, Raistlin aveva ceduto alla sua grossolana seduzione. Era stata un’esperienza deludente per entrambi. La ragazza era tornata con gratitudine fra le braccia di Caramon. Per Raistlin era stata la semplice dimostrazione di ciò che aveva sempre sospettato, che la vera estasi si trovava soltanto nella sua magia.

Ma questo corpo, più giovane, più forte, più simile a quello di suo fratello, ardeva di una passione che non aveva mai provato prima. Eppure non poteva cedere ad essa. «Finirei per distruggere me stesso.» Questo lui lo capiva con gelida chiarezza. «E, lungi dal favorire il mio obbiettivo, potrei benissimo danneggiarlo. Lei è vergine, pura nella mente e nel corpo. Quella purezza è la sua forza. Mi serve appannata, ma mi serve intatta.»

Avendo deciso questo con estrema fermezza e avendo una lunga esperienza nell’esercitare il più rigido controllo mentale sulle sue emozioni, il giovane mago si rilassò e tornò a prender posto sulla sua sedia, lasciando che la stanchezza lo invadesse. Col fuoco ormai morente nel camino, i suoi occhi si chiusero nel riposo che avrebbe restaurato il suo potere infiacchito.

Ma prima di cadere nel sonno, sempre là, seduto, vide ancora una volta, con non voluta vivezza, una singola lacrima che luccicava nel chiarore lunare.

La Notte del Giudizio continuò. Un accolito venne svegliato dal sonno profondo, con l’ordine di presentarsi a Quarath. Trovò il chierico elfo seduto nelle sue stanze.

«Mi hai mandato a chiamare, mio signore?» chiese l’accolito, sforzandosi di soffocare uno sbadiglio. Appariva assonnato, e le sue vesti erano spiegazzate. Addirittura, nella fretta di rispondere alla convocazione, si era infilato gli indumenti alla rovescia.

«Qual è il significato di questo rapporto?» volle sapere Quarath, battendo la mano su un pezzo di carta sulla scrivania.

L’accolito si chinò per guardar meglio, sfregandosi via il sonno dagli occhi quel tanto che bastava a rendergli comprensibile la scrittura.

«Oh, quello,» annuì un istante dopo. «Proprio quello che dice, mio signore.»

«Che Fistandantilus non è responsabile della morte del mio schiavo? Trovo molto difficile crederlo.»

«Nondimeno, mio signore, puoi interrogare tu stesso il nano. Ha confessato, dopo una grande dose di persuasione pecuniaria, di essere stato in realtà assoldato dal signore citato qui, il quale, a quanto pare, si è molto irritato per l’esproprio, da parte della chiesa, delle sue proprietà alla periferia della città.»

«So ben io quanto lo irrita!» esclamò Quarath. «Far uccidere il mio schiavo non sarebbe proprio tipico di Onygion, non è così subdolo e spregevole da non affrontarmi a faccia a faccia.»

Quarath rimase seduto, pensieroso. «Allora, perché mai il fallo commesso da quel grosso schiavo?» chiese d’un tratto, scoccando all’accolito un’occhiata d’intesa.

«Il nano ha dichiarato che si è trattato di qualcosa deciso in privato li,tra lui e Fistandantilus. A quanto pare, il primo lavoro di questa natura che si fosse presentato, andava affidato a quello schiavo, Caramon.»

«Questo non sta scritto nel rapporto,» disse Quarath, fissando il giovane con severità.

«No,» ammise l’accolito, arrossendo. «Non... non mi piace affatto mettere per iscritto qualcosa sui... fruitori di magia. Qualunque cosa del genere, dove possa essere letta...»

«No. Immagino di non poterti biasimare,» borbottò Quarath. «Molto bene, puoi andare.»

L’accolito annuì, fece un inchino, e tornò riconoscente al suo letto. Quarath, invece, non si coricò per molte ore ancora, ma rimase seduto nel suo studio, esaminando e riesaminando il rapporto. Poi sospirò. «Sto peggiorando come il Gran Sacerdote, sussultando alla vista di ombre che non ci sono. Se Fistandantilus avesse voluto sbarazzarsi di me, avrebbe potuto farlo nel giro di pochi istanti. Avrei dovuto rendermi conto che questo non è il suo stile.» Alla fine si alzò in piedi. «Comunque, era insieme a lei, stanotte. Mi chiedo cosa questo significhi... Forse niente. Certamente il corpo nel quale è comparso questa volta è assai migliore di quelli che di solito ripesca.»

L’elfo esibì un truce sorriso mentre metteva ordine sul suo tavolo e metteva via con cura il rapporto. «La Festa è alle porte. Tornerò a occuparmi di questa faccenda solo quando sarà finita la stagione delle vacanze. Dopotutto, si sta avvicinando in fretta il momento in cui il Gran Sacerdote si appellerà agli dei perché sradichino tutto il male dalla faccia di Krynn. Ciò spazzerà via questo Fistandantilus e tutti i suoi seguaci, facendoli ripiombare nella tenebra che li ha generati.»

Sbadigliò e si stiracchiò. «Ma prima mi occuperò di Lord Onygion.»

La Notte del Giudizio era quasi finita. Il mattino illuminava il cielo mentre Caramon giaceva nella sua cella, fissando la luce grigia. Domani ci sarebbe stato un altro Gioco, il suo primo dopo l’«incidente».

La vita non era stata piacevole per il grosso guerriero durante quegli ultimi giorni. Esteriormente niente era cambiato. Gli altri gladiatori erano per la maggior parte coriacei veterani, da lungo tempo abituati alla vita dei Giochi.

«Non è un brutto sistema,» aveva detto Pheragas con una scrollata di spalle quando Caramon l’aveva affrontato il giorno del suo ritorno dal

Tempio. «Certo, è assai meglio così che vedere migliaia di uomini che si i ammazzano sui campi di battaglia. Qui, se un nobile si ritiene offeso da un altro, la faida viene regolata segretamente, in privato, con soddisfazione di tutti.»

«Salvo per l’innocente che muore per una causa che non gl’interessa o non capisce!» aveva replicato Caramon con rabbia.

«Non essere così bambino!» aveva sbuffato Kiiri, intenta a lucidare uno dei suoi pugnali retrattili.

«A quanto hai raccontato, tu stesso hai lavorato anche come mercenario. Allora capivi, o t’importava delle cause per le quali combattevi? Non combattevi e uccidevi perché eri pagato bene? Avresti combattuto se non ti avessero pagato? Non vedo la differenza.»

«La differenza è che avevo una scelta!» aveva risposto Caramon, accigliandosi. «E conoscevo la causa per la quale combattevo! Non avrei mai combattuto per qualcuno che, stando alle mie convinzioni, non fosse stato nel giusto! Non importava quanto mi avessero pagato! Mio fratello la pensava allo stesso modo. Lui ed io...». D’un tratto Caramon si era zittito.

Kiiri lo aveva guardato in modo strano, poi aveva scosso la testa con i un sogghigno. «Inoltre,» aveva aggiunto, in tono disinvolto, «aggiunge un 1 sapore piccante... una punta di vera tensione. D’ora in avanti combatterai i meglio, vedrai.»

Ripensando a quella conversazione mentre giaceva lì nel buio, Caramon cercò di ragionare a fondo, nella sua maniera lenta e metodica. | Forse Kiiri e Pheragas avevano ragione. Forse lui si comportava proprio da bambino, mettendosi a piangere perché il giocattolo lucente col quale gli era piaciuto trastullarsi l’aveva d’un tratto tagliato. Ma, riesaminando la cosa da ogni angolo possibile, non riusciva ancora a credere di aver torto. Un uomo meritava una scelta, meritava di poter scegliere il proprio modo di vivere, il proprio modo di morire. Nessun altro aveva il diritto di decidere questo per lui.

E poi, a quella luce antelucana, un peso schiacciante parve abbattersi su Caramon. Si rizzò a sedere, appoggiato a un gomito, fissando, senza I vederla, la cella grigia. Se questo era vero, se ogni uomo meritava una scelta, allora, com’era la questione con suo fratello? Raistlin aveva fatto una scelta, quella di percorrere le strade della tenebra invece che quelle della luce. Caramon aveva il diritto di strappar via suo fratello da quei I sentieri?

La sua mente riandò a quei giorni che senza volerlo aveva richiamato alla memoria parlando con Kiiri e Pheragas, quei giorni immediatamente precedenti la Prova, quei giorni che erano stati i più felici della sua vita, i giorni in cui aveva lavorato come mercenario insieme a suo fratello.

Avevano combattuto bene insieme ed erano stati sempre bene, accolti dai nobili. Malgrado i guerrieri fossero comuni quanto le foglie degli alberi, i fruitori di magia che potevano, ed erano disposti a partecipare a Un combattimento, erano tutt’altra cosa. Nonostante non pochi nobili si fossero mostrati un po’ dubbiosi davanti all’aspetto fragile e malaticcio di Raistlin, ben presto erano rimasti colpiti dal suo coraggio e dalla sua parità. I due fratelli venivano pagati bene e ben presto erano stati molto richiesti. Ma avevano sempre scelto con cura la causa per la quale combattere.

«Quella era opera di Raistlin,» bisbigliò Caramon fra sé con nostalgia, io avrei combattuto per chiunque, la causa m’importava assai poco. Ma Raistlin insisteva a dire che la causa doveva essere giusta. Abbiamo rinunciato a più d’un lavoro perché lui diceva che riguardava un uomo forte che cercava di diventare più forte divorandone altri...»

«Sì, quella era opera di Raistlin!» ripetè Caramon con voce sommessa, fissando il soffitto. «... Oppure non E appunto questo, come dicono i fruitori di magia, che lui sta facendo. Ma posso fidarmi di loro? È stato Par-Salian a coinvolgerlo, lo ha ammesso lui stesso! Raistlin ha liberato Il mondo da quella creatura, Fistandantilus. A detta di tutti è un’ottima cosa. E Raist mi ha detto di non aver avuto nulla a che fare con la morte del Barbaro. Così, in realtà, non ha fatto niente di male. Forse l’abbiamo giudicato male... Forse noi non abbiamo nessun diritto di tentare di costringerlo a cambiare...»

Caramon sospirò. «Cosa posso fare?»

Chiuse gli occhi, in preda a una disperata stanchezza, e infine si addormentò... e ben presto il profumo delle focaccine appena sfornate gli riempi la mente.

Il sole sfolgorò nel cielo. La Notte del Giudizio terminò. Tasslehoff si alzò dal suo letto, salutando con foga il nuovo giorno, e decise che lui, Personalmente, avrebbe fermato il Cataclisma.

Capitolo dodicesimo.

«Alterare il tempo!» esclamò Tasslehoff, in tono deciso, scivolando furtivo oltre il muro del giardino che circondava l’area sacra del tempio e lasciandosi cadere, atterrando infine in un’aiuola.

Alcuni chierici stavano camminando nel giardino, intenti a conversare fra loro dei giorni lieti e vivaci dell’imminente! Festa dei Reciproci Doni. Piuttosto che interrompere la loro conversazione, Tas fece quello che giudicò una cortesia e si appiattì tra i fiori fino a quando non si furono allontanati, anche se ciò significava sporcare i suoi gambali azzurri.

Era piuttosto piacevole giacere in mezzo alle rose rosse della Festa, così chiamate perché crescevano soltanto in quella stagione. Il clima era caldo, troppo caldo, diceva la maggior parte della gente. Tas sogghignò!» Vatti a fidare degli umani... Se il clima fosse stato freddo, il tipico clima della ricorrenza della Festa dei Reciproci Doni, si sarebbero ugualmente lamentati. Tas pensava, da parte sua, che il clima era delizioso. Un pochino difficile respirare con quell’aria pesante, forse, ma, in fin dei conti, non si poteva avere tutto.

Tas aveva ascoltato con interesse i discorsi dei chierici. La Festa dei Reciproci Doni doveva essere qualcosa di splendido, pensò, e per un istante soppesò la possibilità di parteciparvi. L’inizio era in programma proprio per quella sera: il Benvenuto alla Festa.

Sarebbe terminato presto, poiché tutti volevano dormire parecchio per prepararsi in piena forma per i grandi festeggiamenti successivi, quelli veri, che sarebbero cominciati all’alba di domani, continuando poi per giorni e giorni. L’ultimo giorno delle celebrazioni avrebbe preceduto l’inverno buio e aspro.

«Forse parteciperò a quei festeggiamenti stasera...» pensò Tas. Aveva supposto che il Benvenuto alla Festa, nel Tempio, sarebbe stato una celebrazione solenne e imponente e, perciò, monotona e noiosa, per lo meno dal punto di vista di un kender. Ma da come avevano parlato quei chierici, sembrava che sarebbe stata una cosa parecchio vivace.

L’indomani Caramon avrebbe combattuto: i Giochi erano uno dei punti salienti della stagione della Festa. Il combattimento di domani avrebbe stabilito quali squadre avrebbero avuto il diritto di affrontarsi nello Scontro finale, l’ultimo Gioco dell’anno prima che l’inverno imponesse la chiusura dell’arena. I vincitori dell’ultimo Gioco avrebbero conquistato la propria libertà. Naturalmente, era già stato stabilito in anticipo chi avrebbe vinto domani: la squadra di Caramon. Ma per qualche motivo questa notizia aveva fatto piombare Caramon in un cupo avvilimento.

Tas scosse la testa. Decise che non sarebbe mai riuscito a capire quell’uomo. Tutto quell’imbronciarsi a proposito dell’onore. Dopotutto, era soltanto un gioco. Comunque, semplificava le cose. Sarebbe stato semplice per lui sgattaiolare via furtivo e spassarsela.

Ma, poi, il kender sospirò. No, aveva faccende serie di cui occuparsi. fermare il Cataclisma era più importante di una festa, forse anche di un paio di feste. Avrebbe sacrificato il divertimento per questa grande causa.

Sentendosi molto ipocrita e nobile (e, d’un tratto, molto annoiato) il kender squadrò con viva irritazione i chierici che si stavano allontanando, desiderando che si spicciassero. Infine entrarono nell’edificio, lasciando sgombro il giardino. Con un sospiro di sollievo, Tas si tirò su e si ripulì dal terriccio. Colta una rosa della Festa, se l’infilò nel ciuffo come decorazione in onore della stagione, poi sgusciò dentro il Tempio.

Anche questo era decorato per i giorni della Festa dei Reciproci Doni, tanta bellezza e splendore lasciarono il kender senza fiato. Si guardò Intorno deliziato, meravigliandosi di vedere le migliaia di rose della Festa che erano state coltivate nei giardini un po’ dappertutto sull’intero Krynn e che erano state portate qui per riempire i corridoi del Tempio con la loro dolce fragranza. Corone di «sempre-in-boccio» aggiungevano un profumo speziato, la luce del sole traeva vividi riflessi dalle loro foglie appuntite intrecciate con velluto rosso e piume di cigno. Cesti di frutta rara ed esotica si trovavano disposti su quasi ogni tavolo, doni giunti da ogni parte di Krynn perché fossero goduti da tutti coloro che si trovavano nel tempio. Vassoi di carni delicate e di dolci meravigliosi erano disposti attorno ad essi. Pensando a Caramon, Tas riempì le proprie borse fino al limite, immaginando con gioia la delizia dell’omone. Non aveva mai visto Caramon avvilito davanti a un pasticcino glassato alle mandorle.

Tas vagò per le sale, smarrito nella felicità. Si era quasi dimenticato il motivo per il quale era venuto qui, ed era costretto a rinfrescarsi in continuazione la memoria sulla sua Importante Missione. Nessuno gli prestava attenzione. Tutti quelli a cui passava accanto erano presi dalla festa imminente o impegnati a dirigere il governo o la chiesa o tutte e due le Cose. Pochi rivolgevano a Tas una seconda occhiata. Di tanto in tanto una guardia lo fissava con astio, ma Tas si limitava a rispondere con un sorriso allegro e un agitare di mano a mo’ di saluto, proseguendo per la sua strada. Era un vecchio proverbio kender: Non cambiare di colore per diventare uguale a quello delle pareti. Dai l’impressione di essere a casa tua, e le pareti cambieranno colore per diventare uguali a te.

Alla fine, dopo molti giri e molte curve (e parecchie fermate per esaminare oggetti interessanti, ad alcuni dei quali capitò di finire nelle sue tasche), Tas si trovò nell’unico corridoio che non era decorato, che non era pieno di gente allegra intenta a prendere gioiosi accordi per la Festa, in cui non echeggiavano i cori intenti a provare i loro inni. In quel corridoio le tende erano ancora tirate, negando l’ingresso al sole. Era freddo e buio, e lo era ancora di più per contrasto con il resto del mondo.

Tas strisciò lungo il corridoio, avanzava a passi sommessi non per qualche particolare motivo, ma soltanto perché quel corridoio era così tetro, silenzioso e triste che pareva aspettarsi da tutti coloro che vi entravano quell’identico comportamento, offendendosi moltissimo se non vi si fossero conformati. L’ultima cosa che Tas intendeva fare era offendere un corridoio, si disse, per cui camminò in silenzio. La possibilità di riuscire ad arrivare fino a Raistlin con passo furtivo senza che il mago se ne accorgesse e intravedere qualche meraviglioso esperimento di magia non attraversò di certo la mente del kender, mai e poi mai.

Avvicinandosi alla porta, sentì Raistlin che parlava e, dal tono della sua voce, pareva che avesse un visitatore.

«Dannazione,» fu il primo pensiero del kender, «adesso, prima di riuscire a parlargli, dovrò aspettare che questa persona se ne vada. E ho anche una Importante Missione da assolvere... Che sconsiderati! Chissà quanto tempo ci metteranno.»

Accostando l’orecchio al buco della serratura, per riuscire a calcolare quanto tempo ancora quella persona aveva intenzione di restare, Tas rimase sorpreso nell’udire la voce di una donna che rispondeva al mago.

«Questa voce mi sembra familiare,» si disse il kender, schiacciando ancora di più l’orecchio contro la serratura per ascoltare. «Ma certamente! Crysania! Perché mai è qui?»

«Hai ragione, Raistlin,» la sentì dire con un sospiro, «questo è assai più riposante dei corridoi variopinti. Quando sono venuta qui la prima volta avevo paura. Tu sorridi ! Ma è così, lo ammetto. Questo corridoio mi appariva così desolato, squallido e freddo. Ma adesso i corridoi del Tempio sono invasi da un calore oppressivo e soffocante. Perfino le decorazioni ] per la Festa mi opprimono. Vedo così tanti sprechi, tanto denaro buttato al vento che potrebbe essere usato per aiutare i bisognosi.»

Smise di parlare e Tas sentì un fruscio. Dal momento che nessuno più parlava, il kender smise di ascoltare e accostò l’occhio al buco della serratura. Poteva vedere con chiarezza l’interno della stanza. Le pesanti tende erano tirate, ma la stanza era illuminata dalla morbida luce d’una candela. Crysania era seduta proprio davanti a lui. A quanto pareva, il fruscio da lui udito era stato prodotto da lei che si era mossa per l’impazienza o la frustrazione. Crysania aveva appoggiato la testa sulla mano, e l’espressione sulla sua faccia era di confusione e perplessità.

Ma non fu questo che fece sgranare gli occhi al kender. Crysania era cambiata! Erano cambiate le vesti bianche semplici e disadorne, la severa acconciatura dei capelli. Indossava vesti bianche come le altre femmine chierico, ma queste erano decorate con raffinati ricami. Aveva le braccia nude, pur ostentando al polso un sottile bracciale dorato che metteva in risalto il limpido pallore della sua pelle. I capelli le ricadevano da una scriminatura centrale avvolgendole le spalle con la morbidezza di tante piume. Le sue guance erano vivificate da un soffuso rossore, il suo sguardo, animato da intimo calore, si attardava sulla figura abbigliata di nero che le sedeva davanti, volgendo la schiena a Tas.

«Umpf,» mormorò tra sé il kender con interesse. «Tika aveva ragione.»

Tas sentì Crysania che diceva, dopo un breve silenzio: «Non so perché sono venuta qui.»

Io sì, pensò il kender, tutto giulivo, riaccostando rapidamente l’orecchio al buco della serratura, così da poter sentire meglio.

La voce di Crysania proseguì: «Mi sento talmente colma di speranza quando vengo a trovarti, ma mi congedo sempre depressa e infelice, volendo mostrarti il cammino della giustizia e della verità, convincerti che soltanto seguendo questo cammino possiamo sperare di riportare la pace nel nostro mondo. Ma tu capovolgi sempre le mie parole, le rovesci come un guanto.»

Tas sentì Raistlin che rispondeva: «Gli interrogativi sono tuoi.» E vi fu un altro suono, come se il mago si fosse avvicinato di più alla donna, Io mi limito semplicemente ad aprire il tuo cuore in modo che tu possa ascoltarli. Certamente Elistan ti avrà consigliato di guardarti dalla fede i cieca...»

Tas aveva percepito una nota sarcastica nella voce del mago, ma a quanto pareva Crysania non se n’era accorta, poiché rispose subito, e con sincerità: «Certo. C’incoraggia a porci dei dubbi e spesso ci ricorda l’esempio di Goldmoon, e come i suoi interrogativi condussero al ritorno dei veri dei. Ma gli interrogativi dovrebbero condurci a una miglior comprensione, e i tuoi interrogativi mi rendono soltanto più confusa e infelice!»

«Come conosco bene quella sensazione,» mormorò Raistlin così sommessamente che Tas quasi non lo udì. Il kender sentì Crysania che si muoveva sulla sedia e rischiò una rapida sbirciata. Il mago le era accanto, con una mano appoggiata sul suo braccio. Mentre lui diceva queste parole, Crysania gli si avvicinò, ancora di più, appoggiando una mano sulla sua. Quando parlò, c’erano tanto amore, speranza e gioia nella sua voce che Tas si sentì invadere da un immenso calore.

«Dici davvero?» chiese Crysania al mago. «Le mie povere parole toccano qualche parte in te? No, non guardare altrove! Posso vedere dalla tua espressione che ci hai riflettuto e le hai meditate. Siamo così simili, noi due! L’ho saputo la prima volta che ci siamo incontrati. Ah, sorridi di nuovo, prendendoti gioco di me. Fai pure. Io conosco la verità. Mi hai detto la stessa cosa sulla Torre. Hai detto che ero ambiziosa quanto te. Ci ho riflettuto: hai ragione. Le nostre ambizioni assumono forme diverse, ma forse non sono così dissimili come credevo un tempo. Viviamo entrambi vite solitarie, dedicate ai nostri studi. Non apriamo il nostro cuore a nessuno, neppure a coloro che ci sono più vicini. Tu ti circondi di tenebra ma, Raistlin, io ho visto al di là di quella tenebra. Il calore, la luce...»

Tas riappiccicò prontamente l’occhio alla serratura. Sta per baciarla, pensò, in preda a un’incontenibile eccitazione. E meraviglioso. Aspetta che lo dica a Caramon!

«Su, sciocco!» intimò poi a Raistlin, con impazienza, mentre il mago sedeva là, immobile, con la mano sul braccio di Crysania. «Come puoi resistere?» borbottò, fissando le labbra dischiuse della donna, i suoi occhi sfavillanti.

D’un tratto Raistlin si scostò da Crysania e le voltò le spalle, alzandosi di scatto dalla sedia. «Sarà meglio che tu vada,» disse con voce roca. Tas sospirò e si ritrasse dalla porta disgustato. Si appoggiò alla parete e scosse la testa.

Si udirono dei colpi di tosse, aspri e profondi, e la voce di Crysania, gentile e preoccupata.

«Non è niente,» disse Raistlin, mentre apriva la porta. «Sono parecchi giorni che non mi sento bene. Non riesci a indovinarne la ragione?» chiese, con la porta semichiusa. Tas si appiattì contro la parete perché non lo vedessero, non volendo interrompere (o perdersi) qualcosa. «Non l’hai percepito?»

«Ho percepito qualcosa,» mormorò Crysania col fiato mozzo. «Cosa vuoi dire?»

«La collera degli dei,» rispose Raistlin, e fu chiaro per Tas che non era questa la risposta che Crysania aveva sperato. Parve afflosciarsi. Raistlin non se ne accorse, ma continuò: «Il loro furore mi martella, come se il sole si avvicinasse sempre di più a questo sventurato pianeta. Forse è per questo che ti senti depressa e infelice.»

«Forse,» mormorò Crysania.

«Domani s’inizia la grande Festa,» mormorò Raistlin con voce sommessa. «Tredici giorni dopo, il Gran Sacerdote farà la sua richiesta. ( già lui e i suoi ministri la progettano. Gli dei lo sanno. Gli hanno mandato un avvertimento: la scomparsa dei chierici. Ma lui non vi ha badato. Ogni giorno, dall’inizio della Festa in poi, i segni ammonitori si faranno più intensi, più chiari. Hai letto le Cronache degli Ultimi Tredici Giorni di Astinus? Non sono una piacevole lettura, e sarà ancora meno piacevole viverli.»

Crysania lo guardò e il suo volto s’illuminò. «Torna indietro con noi prima di allora!» esclamò, tutta infervorata. «Par-Salian ha dato a Caramon un congegno magico che ci riporterà nel nostro tempo. Il kender mi ha detto...»

«Quale congegno magico?» volle sapere Raistlin all’improvviso, e lo strano tono della sua voce fece provare un brivido al kender, cogliendo di sorpresa Crysania. «A cosa assomiglia? Come funziona?». I suoi occhi ardevano di febbre.

«Non... non lo so,» esclamò Crysania, esitante.

«Te lo dirò io.» Tas si staccò all’improvviso dalla parete, presentandosi ai loro sguardi. «Scusatemi, non volevo spaventarvi. Soltanto... non ho potuto fare a meno di sentire. Felice Festa dei Reciproci Doni a tutti e due, a proposito.» Tas tese la piccola mano, ma nessuno dei due gliela strinse.

Sia Raistlin sia Crysania lo stavano fissando con la stessa espressione ?di chi, d’un tratto, ha scoperto un ragno nella minestra, a cena. Imperturbabile, Tas continuò a cinguettare allegramente, infilandosi una mano in tasca. «Di che stavamo parlando? Oh, il congegno magico. Sì, siii,» si affrettò a proseguire sempre più rapidamente vedendo gli occhi di Raistlin socchiudersi in maniera allarmante, «quando si apre, ha la forma di uno... di uno scettro e ha una... una sfera a un’estremità, tutta scintillante di gioielli. È grande press’a poco così,» il kender allargò le mani, distanziandole di circa un braccio, «quando è aperto del tutto. Poi, Par-Salian ha fatto qualcosa e il congegno si è...»

«... ripiegato su se stesso,» concluse per lui Raistlin, «fino a poterlo infilare in tasca.»

«Sì, è proprio così!» esclamò Tas tutto eccitato. «Esatto! Come facevi a saperlo?»

«L’oggetto mi è familiare,» rispose Raistlin, e Tas colse di nuovo una strana eco nella voce del mago, un tremore, una tensione... Paura? euforia? Il kender non riuscì a capirlo. Anche Crysania se ne accorse.

«Cosa c’è?» volle sapere.

Raistlin non rispose subito, all’improvviso il suo volto era divenuto una maschera indecifrabile, impassibile, fredda. «Esito a dirlo,» rispose. «Devo prima studiare questa faccenda.» Scoccando un’occhiata al kender. «Cos’è che vuoi? Oppure stavi soltanto origliando dal buco della serratura?»

«Certo che no!» ribatté Tas, offeso. «Sono venuto per parlarti... se tu e Dama Crysania avete finito, s’intende,» si affrettò a correggersi, lanciando un’occhiata a Crysania.

Lei lo guardò con espressione assai poco amichevole, pensò il kender, poi tornò a rivolgersi a Raistlin: «Ti vedrò domani?» gli chiese.

«Non credo,» lui rispose. «Naturalmente, io non parteciperò alla Festa dei Reciproci Doni.»

«Oh, ma non intendo andarci neppure io...» cominciò Crysania.

«Si aspetteranno di vederti,» disse Raistlin, d’un tratto. «Inoltre ho trascurato per troppo tempo i miei studi nel piacere della tua compagnia.»

«Capisco,» rispose Crysania. La sua voce era fredda e distante e,,Tasslehoff lo intuì, ferita e delusa.

«Arrivederci, signori,» disse Crysania un attimo dopo, quando fu chiaro che Raistlin non avrebbe aggiunto nient’altro. Con un lieve inchino, si girò e s’inoltrò nel buio corridoio, le sue bianche vesti parvero portarsi via la luce mentre si allontanava.

«Dirò a Caramon che gli hai mandato i tuoi saluti,» le gridò Tas, ma Crysania non si voltò. Il kender si girò verso Raistlin con un sospiro. «Temo che Caramon non le abbia fatto una grande impressione. Ma d’altronde era sbronzo a causa dello spirito dei nani...»

Raistlin tossì. «Sei venuto qui per discutere di mio fratello?» lo interruppe con freddezza. «Perché, se è così, te ne puoi andare...»

«Oh, no,» si affrettò a replicare Tas. Poi sollevò lo sguardo sul mago con un sorriso. «Sono venuto per impedire il Cataclisma!»

Per la prima volta nella sua vita, il kender ebbe la soddisfazione di vedere che le sue parole avevano lasciato Raistlin assolutamente stupefatto. Ma non fu una soddisfazione che godette a lungo. Il volto del mago impallidì e s’irrigidì, i suoi occhi simili a specchi parvero infrangersi, permettendo a Tas di vedere dentro a quelle profondità buie e ardenti chi” Raistlin teneva nascoste.

Mani forti come gli artigli di un uccello da preda affondarono nelle spalle del kender, facendogli male. Nel giro di pochi istanti Tas si trovò scagliato dentro la stanza di Raistlin. La porta si chiuse di colpo con uno schianto assordante.

«Cosa ti ha dato questa idea?» volle sapere Raistlin.

Sorpreso, Tas arretrò cercando di farsi il più piccolo possibile, e lanciò un’occhiata inquieta intorno a sé. Il suo istinto di kender gli diceva che avrebbe fatto meglio a cercare un posto dove nascondersi.

«Uh... Sei stato tu,» balbettò Tas. «Be’... non proprio. Ma hai detto qualcosa sulla m... mia venuta qui nel passato che avrebbe permesso di cambiare il tempo. E ho pensato che fer... fermare il Cataclisma sarebbe stata una specie di opera di bene...»

«E come avevi in mente di fare?» gli chiese Raistlin, e i suoi occhi ardevano di un fuoco così rovente che Tas si sentì sudare al solo guardarli.

«Oh... avevo in mente di discuterne con te, naturalmente,» disse il kender, sperando che Raistlin fosse ancora sensibile alle lusinghe, «e poi pensavo, se tu avessi detto che andava bene, di andare a parlarne con il Gran Sacerdote, per dirgli che stava facendo davvero un grosso errore, uno dei Più Grossi Errori di Tutti i Tempi, se capisci quello che voglio dire. E, sono sicuro che una volta che gliel’avessi spiegato, mi avrebbe ascoltato...»

«Ne sono sicuro,» replicò Raistlin, con voce più che mai fredda e controllata. Ma, cosa strana, a Tas parve d’individuare una nota di immenso sollievo. «Così,» il mago gli voltò le spalle, «hai intenzione di parlarne al Gran Sacerdote. E se per caso lui si rifiutasse di ascoltare? Allora, cosa succederebbe?»

Tas fece una pausa, rimanendo a bocca aperta. «Immagino di non averci pensato,» disse, un attimo dopo. Sospirò, poi scrollò le spalle. «Ce ne torneremo a casa.»

«C’è un altro modo,» disse Raistlin con voce sommessa, prendendo posto su una sedia e fissando il kender con i suoi occhi simili a specchi. «Un modo sicuro! Un modo che ti permetterebbe di fermare il Cataclisma senza il pericolo di fallire.»

«C’è?» esclamò Tas con foga. «E qual è?»

« congegno magico,» rispose Raistlin, allargando le mani sottili. «I suoi poteri sono immensi, vanno molto al di là di ciò che Par-Salian ha raccontato a quell’idiota di mio fratello. Attivalo il giorno del Cataclisma e la sua magia distruggerà la montagna di fuoco che si trova in alto sopra Il mondo, cosicché non potrà far del male a nessuno.» «Davvero?». Tas era rimasto a bocca aperta.

«È magnifico.» Poi corrugò la fronte. «Ma come posso esserne sicuro? Supponi che non funzioni...»

«Cos’hai da perdere,» gli chiese Raistlin, «se per qualche motivo dovesse fallire, cosa della quale io sinceramente dubito?». Il mago sorrise dell’ingenuità del kender. «Dopotutto, è stato creato dalla cerchia più ; alta dei fruitori di magia...»

«Come i globi dei draghi?» lo interruppe Tas.

«Come i globi dei draghi,» sbottò Raistlin, irritato dall’interruzione. «Ma se dovesse fallire, potresti sempre usarlo per fuggire all’ultimo momento.»

«Con Caramon e Crysania,» aggiunse Tas.

Raistlin non gli rispose, ma nella sua eccitazione il kender non se ne accorse. Poi gli venne in mente qualcosa.

«E se Caramon dovesse decidere di andarsene prima?» chiese intimorito.

«Non lo farà,» rispose Raistlin con voce sommessa. «Fidati di me,» aggiunse vedendo che Tas stava per ribattere.

Il kender rifletté di nuovo, poi sospirò. «Mi è appena venuto in mente una cosa. Non credo che Caramon mi permetterà di prendere quell’ogetto. Par-Salian gli ha ingiunto di difenderlo con la propria vita. Non lo perde mai di vista e lo chiude a chiave in una cassapanca quando deve andar via. E sono sicuro che non mi crederebbe se cercassi di spiegargli perché Io voglio.»

«Non dirglielo. Il giorno del Cataclisma è il giorno della Sbronza Finale,» disse Raistlin scrollando le spalle. «Se il congegno scomparirà per un breve periodo, lui non se ne accorgerà mai.»

«Ma vorrebbe dire rubare,» disse Tas sconvolto.

Le labbra di Raistlin si contrassero. «Diciamo prendere a prestito,» lo corresse con voce suadente.

«E per una causa tanto nobile! Caramon non si arrabbierà. Conosco mio fratello. Pensa a quanto sarà orgoglioso di te!»

«Hai ragione,» disse Tas con gli occhi che gli sfavillavano. «Sarò un vero eroe, ancora più grande dello stesso Kronin Thistleknot in persona! Come si fa a farlo funzionare?»

«Ti darò le istruzioni,» disse Raistlin, alzandosi in piedi. Ricominciò a tossire. «Torna da me... fra tre giorni. E adesso... devo riposare.»

«Sicuro» disse Tas in tono allegro, alzandosi in piedi. «Spero che tu ti senta meglio.» Andò verso la porta. Una volta là, però, esitò. «Oh, scusa, non ho un regalo per te, mi spiace...»

«Mi hai fatto un dono,» disse Raistlin, «un dono d’inestimabile valore. Grazie.»

«Davvero?» fece Tas, stupefatto. «Oh, vuoi dire fermare il Cataclisma. Be’, lascia perdere. Io...»

D’un tratto Tas si trovò in mezzo al giardino, intento a fissare i cespugli di rose e un chierico estremamente sorpreso che, a quanto pareva, aveva visto il kender materializzarsi dal nulla proprio in mezzo al sentiero.

«Per la barba del grande Reorx! Vorrei proprio sapere come si fa,» disse Tas, pieno di desiderio.

Capitolo tredicesimo.

Con l’inizio della Festa dei Reciproci Doni giunse la prima di quelle che più tardi sarebbero divenute note come le Tredici Calamità. (Astinus, notate, le registra nelle Cronache come i Tredici Ammonimenti.)

Il giorno spuntò caldo e soffocante. Era il più caldo giorno inaugurale della Festa che chiunque, perfino gli elfi, riuscisse a ricordare. Nel Tempio le rose della Festa si afflosciarono e appassirono, le corone di «sempre-in-boccio» presero a puzzare talmente che parevano essere state cotte nel forno, la neve che raffreddava il vino nelle coppe d’argento fondeva così in fretta che i servi non fecero nient’altro, tutto il giorno, se non correre avanti e indietro dalle profondità delle cantine scavate nella roccia alle sale in cui avevano luogo i festeggiamenti, portando secchi di neve semi fusa.

Raistlin si svegliò quella mattina, nell’ora buia prima dell’alba, così malato da non riuscire ad alzarsi dal letto. Giaceva nudo, coperto di sudore, in preda ad allucinazioni febbrili che l’avevano spinto a strapparsi di dosso gli indumenti e le coperte. Gli dei erano davvero vicini, ma era la vicinanza di una divinità in particolare, la sua dea, la Regina delle Tenebre, che aveva effetto su di lui. Poteva sentire la sua collera, come poteva sentire la collera di tutti gli dei a causa del tentativo del Gran Sacerdote di distruggere l’equilibrio che cercavano di stabilire nel mondo. Così, Raistlin aveva sognato la sua Regina, ma lei aveva scelto di non apparirgli nella sua collera, come ci si sarebbe potuti aspettare. Raistlin non aveva sognato il terribile drago a cinque teste, il Drago di Tutti i Colori e di Nessuno, che avrebbe cercato di fare schiavo il mondo nella Guerra delle Lance.

Non l’aveva vista come il Guerriero Oscuro che Conduceva le sue legioni alla morte e alla distruzione. No, gli era comparsa come la Tentatrice Oscura, la più bella di tutte le donne, la più seducente, e così aveva passato la notte con lui, allettandolo con la debolezza e la gloria della carne.

Con gli occhi chiusi, rabbrividendo nella stanza che era più fredda di qualche grado del calore esterno, Raistlin aveva richiamato l’immagine di quei IMI grandi capelli scuri, sospesi davanti a lui; aveva sentito il suo tocco, il suo calore. Alzando le mani, lasciandosi affondare sotto la sua malia, aveva scostato quei capelli aggrovigliati e aveva visto il volto di Crysania!

Il sogno era terminato, infranto quando la mente aveva ripreso il controllo. E adesso giaceva sveglio, esultante nella sua vittoria, conoscenti! però il prezzo che aveva pagato. Uno squassante accesso di tosse si presentò a ribadirlo.

«Non mi arrenderò,» farfugliò, non appena potè respirare. «Non riuscirai a conquistarmi così facilmente, mia Regina.» Scendendo dal letto con passo barcollante, talmente debole che dovette fermarsi più volte a recuperare il fiato, si infilò le vesti nere e andò verso la scrivania Maledicendo il dolore che aveva nel petto, aprì un antico testo sugli attrezzi magici e cominciò la sua laboriosa ricerca.

Anche Crysania aveva dormito male. Come Raistlin, sentiva la vicinanza di tutti gli dei, ma del suo dio, Paladine, più di ogni altro. Sentiva la sua collera, ma era venata di un dolore così profondo e devastante che Crysania non riusciva a sopportarlo. Sopraffatta da un senso di colpa, voltò le spalle a quel volto gentile e cominciò a correre. Continuò a correre, piangendo, incapace di vedere dove stava andando. Incespicò cadde nel nulla, l’anima lacerata dalla paura. Poi delle braccia robuste l’afferrarono. Venne avvolta da morbide vesti nere, tenuta accanto ad un corpo muscoloso. Dita sottili le accarezzarono i capelli, calmandola, Sollevò lo sguardo su un viso...

Campane... delle campane ruppero l’immobilità. Sorpresa, Crysania si rizzò a sedere sul letto, guardandosi intorno con occhi spiritati. Poi, ricordando il volto che aveva visto, ricordando il calore del suo corpo e il conforto che vi aveva trovato, si prese la testa dolorante fra le mani e pianse.

La prima cosa che Tasslehoff provò nello svegliarsi fu una sensazione di disappunto. Ricordò che oggi iniziava la Festa dei Reciproci Doni, ma anche il giorno in cui, stando a quanto Raistlin aveva detto, sarebbero cominciate ad accadere Cose Spaventose. Guardandosi intorno alla grigia luce che filtrava attraverso la finestra, l’unica cosa spaventosa che Tas vide fu Caramon, sul pavimento, intento alla ginnastica mattutina, chi sbuffava come un mantice.

Nonostante le giornate di Caramon fossero piene di esercizi con le armi eseguiti con i membri della sua squadra per sviluppare nuovi aspetti della loro routine, l’omone combatteva ancora una interminabile battaglia con il suo peso. Non era più a dieta e poteva mangiare lo stesso cibo degli altri. Ma il nano, con il suo occhio acuto, si era subito accorto che

Caramon mangiava cinque volte più di chiunque altro!

Un tempo l’omone aveva mangiato per il puro piacere. Adesso, depresso, infelice e ossessionato dal pensiero di suo fratello, Caramon cercava consolazione nel cibo allo stesso modo in cui qualcun altro poteva cercare consolazione nel bere. (Infatti, una volta Caramon ci aveva provato, chiedendo a Tas di portargli di nascosto una bottiglia di spirito dei nani. disabituato a quel forte alcolico, era stato colto da un violento malessere con grande e segreto sollievo del kender.) di conseguenza, Arack aveva decretato che Caramon avrebbe potuto mangiare soltanto se avesse eseguito tutta una serie di strenui esercizi tutti i giorni. Caramon si chiedeva spesso come il nano potesse sapere se lui saltava un giorno, poiché faceva gli esercizi la mattina presto, prima che gli altri si svegliassero. Ma in qualche modo Arack lo sapeva.

L’unica mattina in cui Caramon aveva saltato gli esercizi, gli era stato proibito l’accesso alla mensa da un Raag sogghignante col randello in mano!

Annoiato di dover ascoltare i grugniti, i gemiti e le imprecazioni di Caramon, Tas si arrampicò su una sedia e sbirciò fuori dalla finestra per vedere se all’esterno stesse accadendo qualcosa di spaventoso. Si sentì molto rallegrato.

Capitolo quattordicesimo.

«Sono le forze del male che operano per sconfiggermi!» gridò il Gran Sacerdote, la sua voce musicale trasmise un fremito di coraggio alle anime di coloro che ascoltavano. «Ma non mi arrenderò! Né dovete farlo voi! Dobbiamo esser forti davanti a questa minaccia...»

«No,» mormorò Crysania fra sé, in preda alla disperazione. «No, hai capito male! Come puoi essere così cieco?»

Assisteva alle Preghiere del Mattino, dodici giorni dopo che il Primo dei Tredici Ammonimenti era stato dato, senza però che alcuno gli avesse prestato ascolto. Da allora erano arrivati rapporti da ogni parte del continente che riferivano di altri strani avvenimenti, ogni giorno uno nuovo.

«Re Lorac riferisce che a Silvanesti gli alberi hanno pianto sangue per tutta la giornata,» riferì il Gran Sacerdote, con un’accresciuta intensità nella voce per lo sgomento e l’orrore causati dagli eventi che raccontava. «La città di Palanthas è coperta da una densa nebbia bianca, talmente fitta che gli abitanti si smarriscono se escono di strada.

«A Solamnia nessun fuoco vuole ardere. I loro focolari sono freddi e spogli. Le forge sono chiuse, il carbone potrebbe benissimo essere ghiaccio, visto il calore che sprigiona. Eppure, sulle pianure di Abanasinia, l’erba della prateria ha preso fuoco. Le fiamme infuriano senza nessun controllo, riempiendo il cielo di fumo nero e scacciando gli uomini delle pianure dalle loro capanne tribali.

«Proprio questa mattina i grifoni hanno portato la notizia che la città elfa di Qualinost è stata invasa dagli animali della foresta, diventati d’un tratto strani, e selvaggi...»

Crysania non ce la fece più. Malgrado le donne la guardassero sbigottite quando si alzò, ignorò le loro occhiate furiose e abbandonò i Riti, fuggendo per i corridoi del Tempio.

Un lampo frastagliato l’accecò, l’aspro e feroce rimbombare del tuono che seguì subito dopo la indusse a coprirsi il volto con le mani.

«Tutto questo deve cessare, altrimenti impazzirò,» mormorò con voce rotta, rifugiandosi spaventata in un angolo.

Da dodici giorni, da quando si era scatenato il ciclone, una tempesta infuriava su Istar, inondando la città di pioggia e di grandine. Il bagliore dei lampi e il rombo dei tuoni erano quasi continui, facendo tremare il Tempio, rendendo impossibile il sonno, martellando la mente. Tesa, intontita dalla fatica, esausta e terrorizzata, Crysania si accasciò su una sedia.

Un tocco delicato sul braccio la fece sussultare, inducendola a balzare in piedi allarmata. Si trovò davanti un giovane aitante avvolto in un mantello inzuppato d’acqua. Potè intravedere i contorni di un paio di spalle forti e muscolose.

«Scusami, Reverenda Figlia, non intendevo spaventarti,» disse il giovane con una voce che le era vagamente familiare come il suo volto.

«Caramon!» esclamò Crysania con un singulto di sollievo, aggrappandosi a lui come a qualcosa di vero e solido. Vi fu un altro lampo accecante e un frastuono assordante. Crysania strinse gli occhi, serrando i denti, mentre sentiva che perfino il corpo forte e muscoloso di Caramon diventava teso per il nervosismo. Lui la sorresse, impedendole di cadere.

«Do... dovevo presenziare alle Preghiere del Mattino,» balbettò Crysania quando la sua voce fu di nuovo udibile. «Dev’essere orribile là fuori. Sei inzuppato fino al midollo!»

«Sono giorni che cerco d’incontrarti...» cominciò a dire Caramon.

«Lo... Lo so,» ansimò Crysania. «Mi spiace. È soltanto che ho... ho avuto da fare...»

«Dama Crysania,» l’interruppe Caramon, cercando di mantenere calma la voce. «Non stiamo parlando di un invito alla Festa dei Reciproci Doni. Domani questa città cesserà di esistere! Io...»

«Zitto!» gli ordinò Crysania. Lanciò un’occhiata nervosa intorno a sé. «Qui non possiamo parlare.»

Il bagliore di un lampo e uno schianto assordante la spinsero a rannicchiarsi, ma recuperò il controllo quasi subito. «Vieni con me.»

Caramon esitò, poi, corrugando la fronte, la seguì mentre Crysania gli faceva strada attraverso il Tempio fino a una delle molte stanze interne, immerse nella penombra. Per lo meno, qui la luce dei lampi non poteva penetrare e il rombo dei tuoni giungeva ovattato. Facendo attenzione a chiudere la porta, Crysania prese posto su una sedia e fece segno a Caramon di fare lo stesso.

Caramon rimase interdetto per un istante, poi si sedette, a disagio e con i nervi a fior di pelle, acutamente conscio delle circostanze del loro Ultimo incontro, quando la sua ubriachezza aveva quasi causato la morte di loro tutti. Forse anche Crysania aveva pensato la stessa cosa. Lo guardava con occhi che erano freddi e grigi come l’alba. Caramon arrossì.

«Sono lieta di vedere che la tua salute è migliorata,» disse Crysania, sforzandosi di tenere la severità fuori dalla sua voce... e fallendo del tutto.

Il rossore di Caramon divenne ancora più intenso. Abbassò lo sguardo sul pavimento.

«Mi spiace,» disse Crysania d’un tratto. «Per favore, perdonami. Sono... sono molte notti che non dormo, da quando è cominciato.» Si portò una mano tremante alla fronte. «Non riesco a pensare,» aggiunse con voce roca. «Questo frastuono incessante...»

«Capisco,» disse Caramon levando lo sguardo su di lei. «E hai ogni diritto di disprezzarmi. Io disprezzo me stesso per quello che ero, ma questo, adesso, non ha davvero importanza. Dobbiamo andarcene, Dama Crysania.»

«Sì, hai ragione.» Crysania tirò un profondo sospiro. «Dobbiamo andarcene da qui. Ci rimangono soltanto poche ore per fuggire. Ne sono ben consapevole, credimi.» Sospirando abbassò lo sguardo sulle proprie mani. «Ho fallito,» aggiunse con voce opaca. «Ho continuato a sperare, fino all’ultimo momento, che in qualche modo le cose potessero cambiare. Ma il Gran Sacerdote è cieco. Cieco!»

«Comunque, non è per questo che mi hai evitato, vero?» chiese Caramon, con voce senza espressione. «Per impedirmi di andarmene?» a

Adesso toccò a Crysania di arrossire. Abbassò lo sguardo sulle sue; mani che si stava torcendo in grembo. «No,» disse con voce talmente bassa che Caramon la udì appena. «No, non... non volevo andarmene senza... senza...»

«...Raistlin,» terminò Caramon. «Dama Crysania, lui ha la sua magia. È stato grazie ad essa, soprattutto, che è venuto qui. Ha fatto la sua scelta. Me ne sono reso conto, infine. Noi dovremmo andarcene...»

«Tuo fratello è stato terribilmente malato,» disse Crysania, all’improvviso.

Caramon alzò gli occhi a fissarla, il volto teso per la preoccupazione.

«Ho tentato per giorni di vederlo, ancora all’inizio della Festa, ma ha rifiutato l’ingresso a tutti, perfino a me. E adesso, oggi, mi ha mandato a chiamare,» proseguì Crysania, sentendo il viso bruciarle sotto lo sguardo penetrante di Caramon. «Gli parlerò, cercherò di convincerlo a venire con noi. Se la sua salute è menomata, non avrà la forza di usare la sua magia.»

«Sì,» mormorò Caramon, pensando alle difficoltà che comportava il lancio di un incantesimo così potente e complesso. Par-Salian aveva impiegato giorni per farlo, ed era in buona salute. «Cos’è che non va in Raist?» chiese all’improvviso.

«La vicinanza degli dei influisce su di lui,» rispose Crysania, «così come influisce su altri, anche se rifiutano di ammetterlo.» La sua voce si smorzò, dolente, ma Crysania strinse con forza le labbra, per un attimo, poi continuò: «Dobbiamo esser pronti a muoverci in fretta nel caso in cui acconsenta a venire con noi...»

«E se non acconsentirà?» chiese Caramon.

Crysania arrossì. «Credo che... lo farà,» disse, sopraffatta dalla confusione, i suoi pensieri riandarono a quei momenti, nella camera di lui, quando si erano trovati così vicini, all’espressione bramosa, piena di desiderio, nei suoi occhi, all’ammirazione... «Gli ho... parlato... dell’erroneità del suo comportamento. Gli ho mostrato come il male non possa mai costruire o creare, ma sia in grado soltanto di distruggere e rivolgersi contro se stesso. Ha ammesso la validità delle mie argomentazioni e ha promesso di pensarci.»

«E ti ama,» disse Caramon con voce sommessa.

Crysania non riuscì a guardarlo negli occhi. Non riuscì a rispondere. Il cuore le batteva talmente forte che per un momento non riuscì più a sentire nessun altro rumore al di sopra del pulsare del suo sangue. Poteva sentire gli occhi scuri di Caramon che la fissavano mentre il tuono rimbombava e scuoteva il Tempio tutt’intorno a loro. Crysania rinserrò le mani l’una sull’altra per arrestare il loro tremito, poi si avvide che Caramon si stava alzando in piedi.

«Mia signora,» disse il guerriero con voce sommessa e solenne, «se hai ragione, se la tua bontà e il tuo amore potranno distoglierlo da quei sentieri tenebrosi che sta percorrendo, per sua propria scelta, riconducendolo alla luce, io... io...» Caramon parve soffocare e si affrettò a girare la testa dall’altra parte.

Sentendo tutto quell’amore nella voce dell’omone e vedendo le lacrime che cercava di nascondere, Crysania venne sopraffatta dal dolore e dal rimorso. Cominciò a chiedersi se non l’aveva mal giudicato. Alzandosi in piedi, toccò delicatamente il grosso, muscoloso braccio del guerriero, sentendolo pieno di tensione mentre lottava per recuperare il controllo di sé.

«Devi tornare? Non puoi rimanere...»

«No.» Caramon scosse la testa. «Devo andare a prendere Tas e il congegno che Par-Salian mi ha dato. È chiuso sotto chiave. E poi, ho degli amici... Ho tentato di convincerli a lasciare la città. Potrebbe essere troppo tardi, ma devo fare un ulteriore tentativo...»

«Certo,» annuì Crysania. «Capisco. Torna più presto che puoi. Incontriamoci... incontriamoci nelle stanze di Raistlin.»

«Lo farò, mia signora,» rispose Caramon con fervore. «E adesso devo andare, prima che i miei amici vadano ad allenarsi.» Prendendole la mano nella sua, la strinse con fermezza, poi si affrettò ad allontanarsi. Crysania lo seguì con lo sguardo mentre si allontanava nel corridoio, dove la luce delle torce risplendeva schiarendo appena la penombra. Il grosso guerriero si stava muovendo con rapidità e sicurezza, e neppure sussultò quando passò davanti a una finestra all’estremità del corridoio e venne illuminato all’improvviso da un vivido lampo di luce. Era la speranza che teneva ancorato il suo spirito, pur nel turbinare della tempesta, la stessa speranza che Crysania aveva d’un tratto sentito gonfiarsi dentro di sé.

Caramon sparì nel buio e Crysania, sollevando le vesti bianche con una mano per evitare che strisciassero sul pavimento, si voltò e salì rapidamente la scala che conduceva a quella parte del Tempio che ospitava il mago dalla Veste Nera.

Il suo morale e la sua speranza le vennero un po’ meno quando entrò in quel corridoio. Qui tutto il furore della tempesta pareva scatenarsi senza nessun freno. Neppure le pesanti tende riuscivano a tener fuori i lampi accecanti, le pareti più spesse non riuscivano a smorzare il rombo dei tuoni.

Forse a causa di qualche finestra difettosa, perfino il vento sembrava esser penetrato dentro le mura del Tempio. Qui non ardeva nessuna torcia, non che ve ne fosse bisogno, talmente incessanti erano i lampi.

I capelli neri le vennero soffiati negli occhi, le vesti le svolazzarono intorno. Quando si avvicinò alle stanze del mago in fondo al corridoio, potè sentire il crepitio della pioggia contro il vetro. L’aria era fredda e umida. Rabbrividendo, affrettò il passo e già aveva alzato la mano per bussare alla porta quando d’un tratto il corridoio sfrigolò del bagliore biancoazzurro di un lampo. La simultanea esplosione del tuono mandò a sbattere Crysania contro la porta. Questa si spalancò di colpo e lei si ritrovò tra le braccia di Raistlin.

Era come nel suo sogno. Quasi singhiozzando per il terrore, si strinse alla morbidezza vellutata delle sue vesti nere e si scaldò al calore del suo corpo. Dapprima il corpo accanto al suo era teso, poi sentì che si rilassava. Le sue braccia le si strinsero intorno quasi convulsamente, una mano si levò ad accarezzarle i capelli, calmandola, confortandola.

«Su, su,» bisbigliò lui, quasi che stesse rassicurando una bambina spaventata. «Non temere la tempesta, Reverenda Figlia. Esultane! Assapora la potenza degli dei, Crysania! Così essi spaventano gli sciocchi. Non possono farci del male, no, se hai scelto di fare altrimenti.»

Gradualmente i singhiozzi di Crysania diminuirono. Le parole di Raistlin non erano il dolce mormorio di una madre. Colse in pieno il loro significato. Sollevò la testa e lo guardò.

«Cosa vuoi dire?» chiese con voce esitante, tutt’a un tratto spaventata. Una crepa era comparsa nei suoi occhi simili a specchi, permettendole di vedere l’anima che bruciava dentro.

Involontariamente cominciò a scostarsi da lui, ma Raistlin allungò una mano e, lisciandole la cascata di capelli neri, scostandoli dal suo viso con mani tremanti, bisbigliò: «Vieni con me, Crysania! Vieni con me nell’epoca in cui sarai l’unico chierico al mondo, nell’epoca in cui potremo varcare il portale e sfidare gli dei, Crysania! Pensaci! Governare, mostrare al mondo una potenza come questa!»

Raistlin lasciò la stretta. Sollevando le braccia, con le vesti nere che parevano risplendergli intorno quando i lampi avvampavano e i tuoni scrosciavano, scoppiò a ridere. E allora Crysania colse il luccichio febbrile dei suoi occhi e le chiazze di vivido colore sulle sue guance mortalmente pallide.

Era magro, molto più magro di quando l’aveva visto l’ultima volta.

«Sei malato,» lei disse, arretrando, con le mani dietro la schiena, cercando la maniglia della porta.

«Cercherò aiuto...»

«No!» L’urlo di Raistlin fu più forte del tuono. I suoi occhi riacquistarono la loro superficie a specchio, il suo volto era freddo e composto. Allungando una mano, le afferrò il polso in una stretta dolorosa e tornò a trascinarla, con uno scatto, nella stanza. La porta si chiuse alle spalle di Crysania sbattendo. «Sono malato,» disse Raistlin con maggior calma, «ma non c’è nessun aiuto possibile, nessuna cura per la mia malattia se non quella di fuggire da questa follia. I miei piani sono quasi completi. Domani, il giorno del Cataclisma, l’attenzione degli dei sarà rivolta alla lezione che devono infliggere a questi poveri disgraziati. La Regina delle Tenebre non sarà in grado di fermarmi mentre opererò la mia magia e mi trasporterò verso quell’unico momento della storia quando lei è vulnerabile al potere di un vero chierico!»

«Lasciami andare!» gridò Crysania, il dolore e l’indignazione sommergevano la sua paura.

Rabbiosamente, liberò con uno strattone il proprio braccio dalla stretta di Raistlin. Ma ricordava ancora il suo abbraccio, il tocco delle sue mani... Offesa e vergognosa, Crysania si voltò dall’altra parte. «Devi operare il tuo male senza di me,» disse, con la voce soffocata dalle sue stesse lacrime.

«Non verrò con te.» «Allora morirai,» disse Raistlin con tono sinistro. «Come osi minacciarmi?» gridò Crysania, girandosi di scatto per fronteggiarlo. Lo choc e il furore le avevano inaridito gli occhi.

«Oh, non per mano mia,» precisò Raistlin con uno strano sorriso. «Morirai per mano di coloro che ti hanno mandato qui.»

Crysania sbatté le palpebre, stordita. Poi riacquistò la sua compostezza. «Un altro espediente?» chiese, con freddezza, arretrando da lui, provando un dolore così intenso nel cuore per quel suo tentativo d’ingannarla che era più di quanto lei potesse sopportare. Voleva soltanto andarsene, prima che lui si accorgesse di quanto era riuscito a ferirla...

«Nessun espediente, Reverenda Figlia,» replicò Raistlin, semplicemente. Indicò con un gesto un libro rilegato in rosso che giaceva aperto sulla scrivania. «Guarda tu stessa. Ho studiato a lungo...».

Indicò con un ampio gesto della mano le file e file di libri allineati lungo la parete. Crysania rimase senza fiato. L’ultima volta che aveva visitato quella stanza non c’erano libri. Guardandola, lui annuì. «Sì, li ho portati da luoghi remoti, ho viaggiato lontano per cercarne molti. Questo, sono finalmente riuscito a trovarlo nella Torre della Grande Stregoneria di Wayreth, come ho sempre sospettato che dovesse accadere. Vieni a dare un’occhiata.»

«Cos’è?» Crysania fissò il volume come se fosse un serpente velenoso avvolto in spire.

«Un libro, nulla più.» Raistlin ebbe uno stanco sorriso. «Ti posso assicurare che non si trasformerà in un drago portandoti via ad un mio ordine. Ripeto, è un libro, una enciclopedia, se vuoi. Molto antica, scritta durante l’Era dei Sogni.»

«Perché vuoi che lo veda? Cos’ha a che fare con me?» chiese Crysania insospettita. Ma aveva smesso di avvicinarsi furtivamente alla porta. Il calmo comportamento di Raistlin la rassicurava.

Per il momento aveva perfino smesso di prestare attenzione ai lampi e agli schianti della tempesta che infuriava all’esterno.

«È un’enciclopedia di congegni magici prodotti durante l’Era dei Sogni,» proseguì Raistlin imperturbabile, senza mai distogliere gli occhi da Crysania, dando l’impressione di attirarla sempre più vicino con u suo sguardo mentre rimaneva accanto alla scrivania. «Leggi...»

«Non posso leggere il linguaggio della magia,» disse Crysania accigliandosi, poi la sua fronte si spianò. «Oppure intendi tradurmelo?» chiese con alterigia.

Gli occhi di Raistlin balenarono di rabbia per un istante, ma quasi subito la rabbia venne sostituita da un’espressione di tristezza e fatica che toccarono in pieno il cuore di Crysania. «Non è scritto nel linguaggio della magia,» disse, con voce sommessa. «Altrimenti non ti avrei chiesto di venire qui.»

Abbassando lo sguardo sulle vesti nere che indossava, le esibì quel fin troppo familiare sorriso triste e contorto. «Molto tempo fa ho volontariamente pagato lo scotto. Non so perché avrei dovuto sperare che tu ti fidassi di me.»

Mordendosi il labbro, provando una profonda vergogna anche se non aveva nessuna idea del perché, Crysania passò sull’altro lato della scrivania. Rimase là, esitante. Sedendosi, Raistlin le fece cenno di avvicinarsi, e lei avanzò d’un passo, fermandosi accanto al libro aperto. Il mago pronunciò un ordine, e il bastone che era appoggiato alla parete vicino a Crysania esplose in una marea di luce gialla, facendola sussultare quasi quanto i lampi.

«Leggi,» disse Raistlin, indicandole la pagina. Cercando di ricomporsi, Crysania abbassò lo sguardo, scorrendo la pagina, anche se non aveva nessuna idea di cosa stesse cercando. Poi la sua attenzione venne catturata. Congegno del viaggio nel tempo diceva una delle voci e, accanto ad essa, c’era l’immagine di un congegno simile a quello che il kender aveva descritto.

«È questo?» chiese, levando lo sguardo su Raistlin. «Il congegno che Par-Salian ha consegnato a Caramon per farci tornare?»

Il mago annuì, i suoi occhi rifletterono la luce del bastone.

«Leggi,» lui ripetè con voce sommessa.

Incuriosita, Crysania scorse il testo. C’era poco più d’un paragrafo che descriveva il congegno che il grande mago, adesso dimenticato, aveva concepito e fabbricato e i requisiti per il suo uso. La maggior parte della descrizione andava al di là della sua capacità di comprensione, trattandosi di cose arcane. Ne afferrò il significato a spizzichi...

... trasporterà la persona già sotto l’incantesimo del tempo avanti o indietro... deve venir montato in maniera corretta e le sfaccettature devono venir orientate nell’ordine prescritto... trasporterà soltanto una persona, la persona alla quale è stato dato nel momento in cui l’incantesimo è stato lanciato...

L’uso del congegno è ristretto agli elfi, agli umani ed agli orchi... non è richiesto nessun incantesimo... Crysania giunse alla fine e sollevò lo sguardo su Raistlin, incerta. Lui la stava guardando con una strana espressione ansiosa. Là, c’era qualcosa che Raistlin aspettava che lei trovasse. E, nel profondo del suo intimo, avvertiva un’inquietudine, una paura, un torpore, come se il suo cuore comprendesse il testo con più rapidità del suo cervello.

«Di nuovo,» disse Raistlin.

Cercando di concentrarsi, malgrado una volta ancora fosse disturbata dalla tempesta che infuriava all’esterno, aumentando ulteriormente d’intensità, Crysania esaminò di nuovo il testo.

Ed eccolo là. Le parole le balzarono addosso, afferrandola alla gola, soffocandola.

Trasporterà soltanto una persona...

Trasporterà soltanto una persona!

Crysania sentì che le gambe le cedevano. Per fortuna Raistlin spostò una sedia dietro di lei, altrimenti sarebbe stramazzata sul pavimento.

Rimase immobile per lunghi istanti, a fissare la stanza. Malgrado fosse illuminata dalla luce dei lampi e dalla magica radiosità del bastone, per lei era diventata d’un tratto un antro tenebroso.

«E lui... lo sa?» chiese infine, attraverso le labbra intorpidite.

«Caramon?» sbuffò Raistlin. «Certo che no. Se gliel’avessero rivelato, Caramon si sarebbe rotto il suo collo da imbecille per cercare di fartelo avere, e ti avrebbe supplicato in ginocchio di adoperarlo e di concedergli il privilegio di morire al tuo posto. Riesco a immaginare ben poco d’altro che potrebbe farlo più felice.

«No, Dama Crysania, lo avrebbe usato fiduciosamente, con te accanto a lui oltre al kender, senza alcun dubbio. E sarebbe rimasto sconvolto quando gli avessero spiegato per quale motivo era ritornato solo. Mi chiedo come Par-Salian sperasse di riuscirci,» aggiunse Raistlin, con un truce sorriso. «Caramon è capacissimo di fargli crollare la Torre addosso. Ma ciò che abbiamo qui non appartiene né a questo né a quello.»

Lo sguardo di Raistlin si fissò su quello di Crysania, anche se lei avrebbe voluto evitarlo. La costrinse, con la sua forza di volontà, a guardarlo negli occhi. E, ancora una volta, lei vide se stessa, sola e terribilmente spaventata.

«Ti hanno mandato qui indietro nel tempo per farti morire, Crysania,» disse Raistlin, con una voce che era poco più di un sospiro, pur penetrando fin nell’animo di Crysania, echeggiando nella sua mente con maggior forza del tuono. «È questo il Bene di cui mi parlavi? Bah! Anche loro vivono nella paura come il Gran Sacerdote! Temono te come temono me. L’unico sentiero che porta al bene, Crysania, è il mio sentiero! Aiutami a sconfiggere il Male. Ho bisogno di te...»

Crysania chiuse gli occhi. Poteva vedere di nuovo, vividamente, la calligrafia di Par-Salian sul biglietto che aveva trovato. La tua vita o la tua anima- conquista l’una e perderai l’altra! Ci sono molti modi per tornare indietro, e uno di questi è tramite Caramon. Par-Salian l’aveva fuorviata di proposito! Che altra maniera esisteva, oltre a quella di Raistlin? Era questo che il mago aveva inteso dire? Chi mai avrebbe potuto risponderle, qui? C’era qualcuno, chiunque potesse essere, in quel mondo tetro e desolato di cui potesse fidarsi?

Con i muscoli che le si contraevano, che le si contorcevano, Crysania si alzò dalla sedia. Non guardò Raistlin, tenne gli occhi fissi davanti a sé, sul nulla. «Devo andare...» mormorò con voce rotta. «Devo pensare...»

Raistlin non cercò di fermarla e non accennò ad alzarsi. Non disse una parola, fino a quando lei non ebbe raggiunto la porta.

«Domani...» allora bisbigliò. «Domani...».

Capitolo quindicesimo

Ci volle tutta la forza di Caramon, più quella di altre due guardie, per aprire le grandi porte del Tempio e farlo uscire in mezzo alla tempesta. Il vento lo colpì con tutta la sua violenza, respingendo l’omone contro la parete di pietra e tenendovelo inchiodato per un istante, come se non fosse più grande e massiccio di Tas. Caramon lottò contro il vento e alla fine vinse, la forza delle raffiche si attenuò quel tanto che bastava a permettergli di scendere la scalinata.

La furia della tempesta era un po’ meno intensa quando s’inoltrò in mezzo agli alti edifici della città, ma era pur sempre difficile procedere. In alcuni punti l’acqua era profonda un piede e gli vorticava intorno alle gambe, minacciando più di una volta di travolgerlo. I lampi quasi lo accecavano, i tuoni erano assordanti. Superfluo dire che vide pochissima gente. Gli abitanti di Istar si erano rifugiati in casa in preda alla paura, maledicendo o invocando gli dei a seconda degli stati d’animo e delle convinzioni personali. L’occasionale passante che incrociava, spinto in mezzo alla tempesta da chissà quale disperata ragione, si schiacciava contro le facciate degli edifici oppure rimaneva pietosamente rannicchiato nei vani delle porte.

Ma Caramon continuò ad avanzare, seppure a fatica, desideroso di ritornare all’arena. Il suo cuore era pieno di speranza, il suo morale era alto malgrado la tempesta. O, forse, a causa della tempesta.

Era certo che adesso Pheragas e Kiiri l’avrebbero ascoltato, invece di rivolgergli delle strane, gelide occhiate, quando cercava di convincerli a fuggire da Istar.

«Non posso dirvi come lo so... lo so, e basta!» li implorava. «E imminente un disastro. Ne sento l’odore!»

«Per perdere il torneo finale!» esclamava Kiiri con freddezza.

«Non ci sarà nessun torneo finale, con questo tempo!» Caramon agitava le braccia.

«Nessuna tempesta così violenta è mai durata a lungo!» ribatteva Pheragas. «Si esaurirà, e avremo una bellissima giornata. Inoltre,» socchiudeva gli occhi, «cosa faresti senza di noi, nell’arena?»

«Diamine, se necessario combatterò da solo,» replicava Caramon, un po’ turbato. Quando fosse giunto il momento di combattere, lui aveva in mente di esser già partito da un bel pezzo, lui e Tas e Crysania, e forse... forse...

«Se necessario...» aveva ripetuto Kiiri con un tono di voce strano a aspro, scambiando un’occhiata con Pheragas. «Grazie per aver pensato a noi, amico,» aveva detto con un’occhiata sarcastica al collare di ferro di Caramon, un collare uguale al suo, «ma no, grazie. La nostra vita sarebbe finita, schiavi fuggiaschi! Quanto tempo pensi che potremmo vivere la fuori?»

«Non avrà importanza, non dopo... non dopo...» Caramon aveva sospirato scrollando la testa, infelice. Cosa poteva dire? Come poteva farsi capire? Ma non gli avevano dato nessuna possibilità.

Si erano allontanati senza dire un’altra parola, lasciandolo solo nella mensa.

Ma adesso l’avrebbero di sicuro ascoltato! Avrebbero capito che quella non era una comune tempesta. Avrebbero avuto il tempo per riuscire a mettersi in salvo? Caramon corrugò la fronte e per la prima volta desiderò di aver prestato maggior attenzione ai libri. Non aveva nessuna idea di quanto sarebbe stata grande l’area entro la quale si sarebbero visti gli effetti devastanti della montagna di fuoco. Scosse la testa. Forse era già troppo tardi.

Be’, lui aveva tentato, si disse, mentre procedeva a fatica sguazzando nell’acqua. Distogliendo con uno sforzo i propri pensieri dalla situazione dei suoi amici, si costrinse a pensare a cose più allegre.

Ben presto se ne sarebbe andato da quel luogo terribile. Ben presto tutto gli sarebbe parso come un brutto sogno.

Sarebbe tornato a casa da Tika. Forse con Raistlin! «Terminerò di costruire la nuova casa,» disse, pensando con rincrescimento a tutto il tempo che aveva sprecato. Un’immagine gli venne alla mente. Poteva vedere se stesso accanto al fuoco, nella loro nuova casa, la testa di Tika appoggiata alle sue ginocchia. Le avrebbe raccontato le avventure che avevano vissuto. Raistlin avrebbe passato le serate con loro, a leggere, a studiare, abbigliato di bianco...

«Tika non crederà a una sola parola su tutto questo,» disse Caramon fra sé. «Ma non avrà importanza. Avrà di nuovo a casa l’uomo del quale si è innamorata. E questa volta non la lascerò mai più, per nessun motivo!». Sospirò, quasi sentendo i suoi crespi riccioli rossi che gli si attorcigliavano intorno alle dita, vedendoli risplendere al riflesso del fuoco del camino.

Questi pensieri accompagnarono Caramon in mezzo alla tempesta fino all’arena. Il grosso guerriero estrasse dal muro il blocco di pietra mobile che scopriva il passaggio usato da tutti i gladiatori per le loro scorribande notturne (Arack sapeva della sua esistenza ma, per tacito accordo, faceva finta di non vedere finché non avessero abusato di quel privilegio ed entrò. Naturalmente, non c’era nessuno nell’area dei combattimenti. Gli allenamenti erano stati tutti annullati. Tutti si erano rifugiati all’interno, maledicendo il tempo schifoso e scommettendo se avrebbero oppure no combattuto l’indomani.

Arack era di un umore quasi altrettanto schifoso degli elementi. Aveva ormai calcolato più e più volte quanti pezzi d’oro gli sarebbero scivolati via dalle mani se avesse dovuto cancellare lo Scontro Finale, l’evento sportivo dell’anno a Istar. Cercò di consolarsi al pensiero che «lui» gli aveva promesso bel tempo. E «lui» fra tutti avrebbe dovuto saperlo. Comunque, il nano guardava ugualmente fuori con espressione fosca.

Dal punto in cui si trovava, una finestra in alto nella torre sovrastante i terreni dell’arena, vide Caramon strisciare attraverso la parete di pietra.

«Raag!» indicò il grosso guerriero all’orco. Abbassando lo sguardo, Raag annuì mostrando di aver capito e, afferrando il gigantesco randello, aspettò che il nano mettesse via i suoi libri contabili.

Caramon si affrettò a raggiungere la cella che divideva con il kender, ansioso di raccontargli di Crysania e di Raistlin. Ma quando entrò, la piccola stanza era vuota.

«Tas,» fece, guardandosi intorno per accertarsi che non si trovasse in qualche angolo in mezzo alle ombre. Ma il bagliore d’un lampo illuminò la stanza con intensità maggiore della luce del giorno.

Non c’era alcun segno del kender.

«Tas, vieni fuori! Non è questo il momento di mettersi a giocare!» ordinò Caramon con voce severa. Un giorno Tasslehoff l’aveva spaventato a morte nascondendosi sotto il letto per poi balzar fuori quando Caramon gli aveva voltato la schiena. Accesa una torcia, l’omone si mise carponi, brontolando, e diresse la luce sotto il letto. Tas non c’era.

«Spero che quel piccolo sciocco non abbia tentato di uscir fuori con questa tempesta!» si disse Caramon, mentre la sua irritazione si trasformava all’improvviso in preoccupazione. «Verrà soffiato via fino a Solace. ( ) forse è andato alla mensa e mi sta aspettando. Forse è insieme a Kiiri e a Pheragas. Ecco, dev’essere così. Prendo il congegno e lo raggiungo...»

Continuando a parlare tra sé, Caramon si avvicinò alla piccola cassapanca di legno dove teneva la sua armatura. Aprendola, tirò fuori il costume dorato. Gratificandolo di un’occhiata di disprezzo, ne buttò i pezzi sul pavimento. «Per lo meno non dovrò più indossare quella tenuta,» esclamò in tono riconoscente. «Anche se,» sogghignò un po’ vergognoso, «sarebbe divertente vedere la reazione di Tika se comparissi davanti a lei rivestito di questa armatura! Chissà come si metterebbe a ridere... Ma scommetto che le piacerebbe lo stesso.» Fischiettando allegramente, Caramon si affrettò a tirar fuori tutto quello che c’era nella cassapanca e,! usando il filo di una delle spade retrattili, sollevò con attenzione il doppio fondo che aveva creato all’interno.

Smise di colpo di fischiettare.

Il doppio fondo era vuoto.

Caramon frugò freneticamente all’interno della cassapanca, tastando dappertutto, anche se era ovvio che un ciondolo grande come il congegno magico avrebbe avuto ben poche possibilità di scivolare attraverso una fessura. Con il cuore che gli batteva all’impazzata per la paura, Caramon si alzò in piedi e cominciò a frugare la stanza, illuminando ogni angolo con la luce della torcia, sbirciando ancora una volta sotto i letti. Lacerò perfino il proprio materasso di paglia e stava per cominciare a fare altrettanto con quello di Tas quando, all’improvviso, notò qualcosa.

Non soltanto il kender se n’era andato, ma lo stesso era capitato alle sue borse, a tutti i suoi amati averi. E anche al suo mantello.

E poi Caramon seppe: era stato Tas a prendere il congegno.

Ma perché?... Per un momento Caramon ebbe l’impressione che un lampo l’avesse folgorato, l’improvvisa comprensione si aprì sfrigolando la strada dal suo cervello al suo corpo con uno choc che lo paralizzò.

Tas aveva visto Raistlin, gliel’aveva raccontato. Ma cosa aveva fatto, Tas, in quel posto? Perché era andato a trovare Raistlin? D’un tratto Caramon si rese conto che il kender aveva abilmente distolto la conversazione da quel punto.

Caramon gemette. Naturalmente, il curiosissimo kender gli aveva chiesto del congegno... ma Tas era sempre parso soddisfatto delle sue risposte. Di certo non aveva mai tentato d’impadronirsene. Di tanto in tanto Caramon aveva controllato, per accertarsi che fosse ancora là, una cosa che andava sempre fatta quando si viveva con un kender. Ma se il congegno avesse incuriosito Tas quanto bastava, allora il kender lo avrebbe portato da Raistlin... L’aveva fatto spesso ai vecchi tempi, quando aveva scoperto qualcosa di magico.

O forse Raistlin aveva ingannato Tas, inducendo il kender a portarglielo! Una volta entrato in possesso di quel congegno, Raistlin poteva costringerli ad andare con lui. Aveva forse complottato per questo fin dall’inizio? Aveva ingannato Tas e raggirato Crysania? Caramon sentì la mente incespicargli nella testa in preda alla confusione. O forse...

«Tas!» gridò Caramon, aggrappandosi d’un tratto a un’azione concreta e positiva. «Devo trovare Tas! Devo fermarlo!»

Febbrilmente l’omone ghermì il suo mantello inzuppato. Era appena uscito dalla porta quando una gigantesca ombra scura gli bloccò il passaggio.

«Fuori dai piedi, Raag,» ringhiò Caramon, dimenticandosi completamente, nella sua ansia, del luogo in cui si trovava.

Raag glielo ricordò all’istante, la sua mano titanica si richiuse sulla massiccia spalla di Caramon.

«Dove vai, schiavo?»

Caramon cercò di scrollarsi di dosso la stretta dell’orco, ma Raag si limitò semplicemente a stringere ancora di più la morsa. Si udì uno scricchiolio, e Caramon rantolò per il dolore.

«Non fargli male, Raag,» ingiunse una voce da qualche punto vicino alla rotula di Caramon.

«Domani deve combattere. Cosa ancora più importante, deve vincere!»

Raag respinse Caramon dentro la cella con lo stesso sforzo d’un adulto che avesse spinto, scherzando, un bambino. Il grosso guerriero barcollò all’indietro, cadendo pesantemente sul pavimento di pietra.

«Hai proprio molto da fare, oggi,» commentò Arack, in tono disinvolto, entrando nella cella e lasciandosi andare su un letto.

Rizzandosi a sedere, Caramon si sfregò la spalla dolorante. Lanciò una rapida occhiata a Raag, il quale era ancora in piedi e bloccava la porta. Arack continuò:

«Sei già uscito una volta in questo tempo schifoso, e adesso stavi per uscire di nuovo?». Il nano scosse la testa. «No, no. Non posso permetterlo. Potresti prenderti un raffreddore...»

«Ehi,» disse Caramon, sorridendo debolmente e leccandosi le labbra aride, «stavo giusto andando alla mensa per cercare Tas...». Si ritrasse involontariamente quando una saetta esplose all’esterno.

Vi fu un crepitio assordante, con un improvviso odore di legno bruciato.

«Dimenticatene, il kender se n’è andato,» disse Arack scrollando le spalle. «E ho avuto l’impressione che se ne sia andato una volta per tutte. ha impacchettato tutte le sue cose.»

Caramon deglutì, schiarendosi la gola. «Lascia che vada a cercarlo, allora...» cominciò a dire.

Il sogghigno di Arack si contorse d’un tratto in un perfido cipiglio. «Non m’importa un dannato accidente di quel piccolo bastardo! Immagino di averci rimesso i soldi che mi ha fruttato a causa di quello che mi ha rubato. Ma su di te ho fatto un grosso investimento. Il tuo piccolo piano di fuga è fallito, schiavo.»

«Fuga?» Caramon sbottò in una risata. «Non ho mai... Non capisci...»

«Così, non capisco?» ringhiò Arack. «Non capisco che hai tentato di far fuggire due dei miei migliori combattenti? Cercavi di rovinarmi, vero?» La voce del nano divenne uno stridio acuto al di sopra dell’ululato del vento, all’esterno. «Chi ti ha indotto a farlo?». L’espressione di Arack divenne d’un tratto astuta. «Non è stato il tuo padrone, perciò non mentire. È venuto a trovarmi.»

«Rais... uhm, Fistandantilus...» balbettò Caramon, rimanendo a bocca spalancata.

Il nano sorrise compiaciuto. «Già. E Fistandantilus mi ha avvertito che avresti potuto tentare qualcosa del genere. Mi ha detto di sorvegliarti con attenzione. Ha perfino suggerito una punizione adatta per te. Il combattimento finale di domani non avverrà fra la tua squadra e i minotauri. Sarai tu contro Kiiri e Pheragas e il Minotauro Rosso!» Il nano È sporse in avanti, sbirciando maliziosamente Caramon. «E le loro armi” saranno vere!»

Caramon fissò Arack per un attimo senza capire. Poi: «Perché?» borbottò desolato. «Perché vuole uccidermi?»

«Ucciderti?» Il nano ridacchiò. «Non vuole ucciderti! Pensa che tu vincerai! “È una prova,” mi ha detto, “non voglio uno schiavo che non sia il migliore! E questo lo dimostrerà. Caramon mi ha dimostrato quello che poteva fare contro il Barbaro. Quella è stata la sua prima prova. Facciamo in modo che questa prova sia più ardua per lui,” ha concluso. Oh, è un tipo raro il tuo padrone!»

Il nano sghignazzò, battendosi le ginocchia a quel pensiero e perfino Raag dette in un grugnito che avrebbe potuto essere un’indicazione di divertimento.

«Non combatterò,» dichiarò Caramon, mentre il volto gli s’induriva in truci linee sottili.

«Uccidetemi! Non combatterò contro i miei amici. E loro non combatteranno contro di me!»

«Lui ha previsto che avresti detto proprio questo!» esclamò il nano, scoppiando in una fragorosa risata. «Non è così, Raag? Proprio le identiche parole. Per Gar, se ti conosce! Si potrebbe pensare che siate gemelli! “Così,” mi ha detto, “se rifiuterà di combattere, e lo farà, non ho alcun dubbio che gli dirai che i suoi amici combatteranno al suo posto, soltanto che combatteranno contro il Minotauro Rosso, e sarà il minotauro ad avere le armi vere!”»

Caramon ricordava vividamente il giovane che si dibatteva nell’agonia sul pavimento di pietra mentre il veleno del tridente del minotauro gli scorreva attraverso il corpo.

«In quanto ai tuoi amici,» lo schernì il nano, «Fistandantilus si è preso cura anche di quello. Dopo quello che ha detto loro, credo che saranno ansiosissimi di scendere nell’arena!»

Caramon affondò la testa nel petto. Cominciò a tremare. Il suo corpo era scosso da brividi di gelo, lo stomaco gli si attorcigliò. L’enormità della malvagità di suo fratello lo sopraffaceva, la sua mente si riempì di oscurità e di disperazione. Raistlin ci ha ingannati tutti, ha ingannato Crysania, Tas e me! È stato Raistlin a farmi uccidere il Barbaro. Mi ha mentito! Ha mentito anche a Crysania. Non è capace di amarla più di quanto la luna scura sia capace d’illuminare i cieli notturni. La sta usando! E

Tas? Tas! Caramon chiuse gli occhi. Ricordava l’espressione di Raistlin quando aveva scoperto il kender, le sue parole: «Il kender può alterare il tempo... è così che progettano di fermarmi?» Tas era un pericolo per lui, una minaccia!

Adesso non aveva più alcun dubbio, là dov’era andato Tas...

Il vento all’esterno ululava e strideva, ma non con la stessa intensità del dolore e dell’angoscia nell’anima di Caramon. Stordito e nauseato, squassato da spasimi di gelo simili ad aghi acuminati, il grosso guerriero perse completamente ogni comprensione di ciò che stava accadendo intorno a lui.

Non vide il gesto di Arack, né sentì le mani gigantesche di Raag che lo afferravano. Non sentì neppure i legami ai suoi polsi...

Fu soltanto più tardi, quando l’orribile sensazione di nausea e di dolore passò, che si rese nuovamente conto del luogo in cui si trovava...

Si trovava in una minuscola cella senza finestre molto in profondità nel sottosuolo, probabilmente al di sotto dell’arena. Raag dopo aver collegato una catena al collare di ferro intorno al suo collo, stava adesso imbullonando l’altra estremità a un anello nel muro di pietra. Poi l’orco lo fece cadere sul pavimento con una spinta e controllò le cinghie di cuoio che legavano i polsi di Caramon.

Il grosso guerriero sentì la voce del nano che l’ammoniva: «Non troppo stretto. Domani deve combattere...»

Vi fu un lontano rombo di tuono, udibile perfino così in profondità nel sottosuolo. A quel frastuono, Caramon sollevò speranzoso lo sguardo. Non potremo combattere con questo tempo...

Il nano sogghignò mentre seguiva Raag fuori della porta di legno. Fece per chiuderla sbattendola, poi sporse la testa da dietro l’angolo, agitando la barba per il godimento quando vide l’espressione sul volto di Caramon.

«Oh, a proposito, Fistandantilus dice che domani sarà una giornata bellissima. Un giorno che tutti su Krynn ricorderanno a lungo...»

La porta sbatté e venne chiusa a chiave.

Caramon sedette in solitudine, immerso in quell’oscurità densa e umida. La sua mente era calma, la nausea e lo choc l’avevano ripulita come una lavagna da ogni sensazione, da qualunque emozione.

Era solo, perfino Tas se n’era andato. Non c’era nessuno a cui poteva rivolgersi per chiedere consiglio, non c’era più nessuno che potesse prendere le decisioni al posto suo.

Adesso seppe. Adesso comprese. Era per questo che i maghi l’avevano rimandato indietro nel tempo. Essi conoscevano la verità. Ma volevano che lui l’imparasse da solo. Il suo gemello era perduto, non avrebbe potuto mai più essere recuperato.

Raistlin doveva morire.

Capitolo sedicesimo

Ad Istar quella notte nessuno dormì. Il furore della tempesta crebbe ancora fino a quando non sembrò che dovesse distruggere ogni cosa lungo il suo cammino. Il sibilo del vento era come il gemito mortifero d’una banshee, penetrando perfino gli schianti continui dei tuoni. Frastagliate saette danzavano in mezzo alle strade, facendo cadere pietre e mattoni dalle case, infrangendo perfino i vetri più spessi, permettendo al vento e alla pioggia di precipitarsi all’interno delle abitazioni come tanti selvaggi conquistatori. Le acque delle inondazioni ruggivano attraverso le strade, portandosi via le bancarelle del mercato, i recinti degli schiavi, i carri e i carrelli.

Eppure nessuno rimase ferito.

Era come se gli dei, in quell’ultima ora, tenessero le mani piegate a coppa sopra i vivi per proteggerli, sperando, implorandoli che prestassero ascolto agli ammonimenti.

All’alba la tempesta cessò. D’un tratto il mondo si riempì d’un profondo silenzio. Gli dei aspettavano, non osando neppure respirare, per timore di perdere quel singolo piccolo grido che avrebbe ancora potuto salvare il mondo.

Il sole si levò in un pallido cielo azzurro, gravido d’acqua.

Non ci fu uccello che cantò per dargli il benvenuto, nessuna foglia frusciò alla brezza del mattino, poiché non c’era nessuna brezza del mattino. L’aria era immobile e mortalmente calma. Il fumo si alzava verticale dai camini fino al cielo, le acque dell’inondazione si ritrassero rapidamente come se fossero state risucchiate da un enorme canale di scolo. La gente strisciò fuori dalle porte, guardandosi intorno, incredula che i danni non fossero peggiori e poi, esausta a causa delle molte notti insonni, tornò a letto.

Ma, malgrado tutto, c’era stata una persona a Istar che aveva dormito pacificamente per tutta quella notte. In effetti, fu l’improvviso silenzio a svegliarla.

Come a Tasslehoff Burrfoot piaceva raccontare: aveva parlato agli spettri della Foresta Scura, aveva incontrato parecchi draghi (e volato su due di loro), si era avvicinato moltissimo al maledetto Bosco di Shoikan (la vicinanza era sempre più stretta ad ogni narrazione), aveva rotto un globo dei draghi, ed era stato personalmente responsabile della sconfitta della Regina delle Tenebre (con un po’ di aiuto). Una pura e semplice tempesta, anche come quella che si era scatenata quelle notti, aveva ben poche possibilità di spaventarlo, e ancora meno di turbare il suo sonno.

Recuperare il congegno magico era stata una faccenda molto semplice. Tas scosse la testa al pensiero dell’ingenuo orgoglio di Caramon nel ritenere intelligente la scelta del nascondiglio. Tas si era astenuto dal dirlo all’omone, ma quel doppio fondo avrebbe potuto venir individuato da qualunque kender al di sopra dei tre anni di età.

Tas sollevò ansioso il congegno magico fuori dalla scatola, fissandolo con deliziata meraviglia.

Aveva dimenticato quanto fosse affascinante e piacevole a vedersi, così ripiegato in forma di ciondolo ovale. Gli pareva impossibile che le sue mani fossero in grado di ritrasformarlo in un congegno capace di compiere un simile miracolo!

In fretta e furia Tas ripassò le istruzioni di Raistlin che si era impresso nella mente. Il mago gliele aveva fornite soltanto pochi giorni prima, obbligandolo a mandarle a memoria, immaginando che Tas avrebbe perso subito delle istruzioni scritte, come gli aveva rinfacciato in tono caustico.

Non erano difficili, e in pochi attimi ritornarono alla memoria di Tas:

Il tuo tempo è il tuo anche se ci viaggi attraverso.

Le sue distese vedrai

turbinanti nell’eternità.

Non ostruire il suo flusso.

Afferra con fermezza la fine e l’inizio,

rigirali su se stessi come un guanto, e

tutto ciò che è sciolto sarà ancorato.

Il destino sarà sopra la tua testa.

Il congegno era così bello che Tas avrebbe potuto fermarsi lì a contemplarlo per ore. Ma non aveva tempo a disposizione. Così, si affrettò a cacciarlo in una delle sue borse, agguantò anche le altre - giusto nel caso in cui lui avesse trovato qualcosa che valeva la pena di portare con sé, o qualcosa avesse trovato lui...) indossò il mantello e corse fuori. Lungo il percorso ripensò alla sua ultima conversazione col mago pochi giorni prima.

«Prendi “a prestito” l’oggetto la notte prima,» gli aveva consigliato Raistlin. «La tempesta sarà spaventosa, e Caramon potrebbe mettersi In testa di andarsene. Inoltre, sarà facilissimo per te intrufolarti nella stanza conosciuta come la Camera Sacra del Tempio senza farti notare, mentre infuria la tempesta. La tempesta cesserà all’alba, e poi il Gran Sacerdote ed i ministri inizieranno la processione. Andranno nella Camera Sacra, sarà qui che il Gran Sacerdote farà le sue richieste agli dei.

«Tu dovrai trovarti nella Camera Sacra e attiverai il congegno nel momento stesso in cui il Gran Sacerdote cesserà di parlare...»

«Come fermerà il Cataclisma?» l’aveva interrotto Tas con foga. «vedrò scoccare un raggio di luce verso il cielo o qualcosa del genere-Fara stramazzare al suolo il Gran Sacerdote?»

«No,» gli aveva risposto Raistlin, con un lieve accesso di tosse, «non,,, uhm... non farà stramazzare al suolo il Gran Sacerdote. Ma hai ragione per quanto riguarda la luce.»

«Davvero?». Tas era rimasto a bocca aperta. «Ho soltanto tirato a indovinare! E fantastico! Si vede che sto migliorando con queste cose magiche.»

«Sì, aveva risposto Raistlin in tono asciutto. «Adesso, per continuare, prima che venissi interrotto...»

«Mi spiace, non succederà più,» si era scusato Tas. Poi aveva chiuso la bocca, mentre Raistlin lo fissava furioso.

«Devi sgusciare dentro la Camera Sacra durante la notte. Lo spazio dietro l’altare è tutto coperto da tende. Nasconditi là e non verrai scoperto.»

«Poi fermerò il Cataclisma, tornerò da Caramon e gli dirò tutto! Sarò un eroe...» Tas si era interrotto, un improvviso pensiero gli aveva attraversato la mente. «Ma posso essere un eroe se fermerò qualcosa che non è mai cominciato? Voglio dire, come farà la gente a sapere che ho fatto qualcosa... che non ho fatto?»

«Oh, loro lo sapranno...» aveva replicato Raistlin con voce sommessa.

«Lo sapranno? Ma non riesco lo stesso a capire... Oh, tu hai da fare immagino. Suppongo che dovrei andare. Va bene. Ehi... già, tu te ne andrai, dopo che tutta questa faccenda sarà finita,» aveva detto Tas, trovandosi sospinto in maniera piuttosto energica verso la porta dalla mano di Raistlin appoggiata sulla sua spalla. «Tu, dove andrai?»

«Dove sceglierò,» aveva detto Raistlin.

«Potrei venire con te?» aveva chiesto Tas, avidamente.

«No, ci sarà bisogno di te nel tuo tempo,» aveva risposto Raistlin, fissando il kender in maniera molto strana, o così aveva pensato Tas in quel momento. «Per badare a Caramon...»

«Sì, immagino che tu abbia ragione,» aveva sospirato il kender. «Bisogna stargli dietro.» Avevano raggiunto la porta. Tas l’aveva guardata per un momento, poi aveva sollevato su Raistlin uno sguardo carico di desiderio. «Immagino che non potresti... spedirmi da qualche parte come hai fatto l’ultima volta? È un gran bel divertimento...»

Reprimendo un sospiro, Raistlin aveva spedito cortesemente il kender dentro uno stagno in mezzo alle anatre, con grande spasso di Tas. In effetti il kender non riusciva a ricordare un’altra volta in cui Raistlin fosse stato così gentile con lui.

Dev’essere dovuto al fatto che porrò fine al Cataclisma, aveva deciso Tas. È probabile che mi sia davvero grato... soltanto non sa esprimerlo in maniera adeguata. O forse non gli è permesso dimostrare gratitudine dal momento che è malvagio.

Quello era stato un pensiero interessante che Tas aveva preso in considerazione mentre usciva a guado dallo stagno per far ritorno tutto gocciolante all’arena.

Tas se l’era ricordato di nuovo quando, la notte prima del Cataclisma-che-non-ci-sarebbe-stato, era uscito un’altra volta. Ma i suoi pensieri su Raistlin erano stati brutalmente interrotti. Non si era reso conto di quanto la tempesta fosse peggiorata, e la ferocia del vento l’aveva un po’ sconcertato, sollevandolo letteralmente da terra e sbattendolo contro il muro esterno dell’arena, non appena aveva messo il naso fuori. Dopo essersi fermato un attimo per riprender fiato e controllare se non si fosse rotto qualcosa, il kender si era tirato su e si era rimesso in cammino verso il Tempio, con il magico congegno stretto saldamente in pugno.

Questa volta aveva avuto sufficiente presenza di spirito da tenersi rasente gli edifici, avendo scoperto che lì il vento non lo sballottava poi tanto. In realtà, camminare in mezzo alla tempesta era risultata un’esperienza piuttosto esilarante. A un certo punto un fulmine aveva colpito un albero accanto a lui, riducendolo in frantumi. In un altro punto del tragitto aveva mal calcolato la profondità dell’acqua che scorreva lungo la strada ed era stato trascinato via lungo l’isolato a gran velocità. Questo era divertente, e sarebbe stato ancora più spassoso se lui fosse stato in grado di respirare. Alla fine l’acqua l’aveva scaricato in maniera piuttosto brusca in un vicolo, dove aveva potuto rialzarsi in piedi e proseguire il suo viaggio.

Tas era stato quasi dispiaciuto di raggiungere il Tempio mettendo fine a tante avventure, ma ricordando la sua Missione Importante, era scivolato attraverso il giardino facendosi strada all’interno. Una volta là, come Raistlin aveva predetto, gli era stato facile mimetizzarsi attraverso la confusione creata dalla tempesta. I chierici correvano dappertutto, cercando di asciugare i pavimenti con gli stracci e di ripulirli dai vetri rotti delle finestre, riaccendendo le torce spente dal vento, confortando coloro che non ce la facevano più a resistere alla tensione.

Non aveva idea di dove si trovasse la Camera Sacra, ma non c’era niente che gli piacesse di più del vagare per luoghi strani e sconosciuti.

Due o tre ore (e parecchie borse rigonfie) più tardi si era imbattuto in una stanza che coincideva esattamente con la descrizione di Raistlin. qui giunto, essendo piuttosto affaticato, Tas era stato contento di riposare Dopo aver esaminato la stanza e averla trovata noiosamente vuota, avev oltrepassato l’altare, (vuoto anche quello,) e si era acquattato dietro tende, sperando (anche se era stanco) di trovare qualche tipo di caverna segreta dove il Gran Sacerdote stesse celebrando riti sacri vietati agli occhi dei comuni mortali.

Guardandosi intorno, aveva sospirato. Niente... niente più di una parete coperta da tende. Sedendosi dietro le tende, aveva disteso il suo mantello per farlo asciugare, si era strizzato l’acqua dal ciuffo, e con l’aiuto del bagliore dei lampi che entrava dalle finestre di vetro colorato aveva cominciato a mettere ordine tra gli oggetti interessanti che erano finiti nelle sue borse.

Dopo un po’ le sue palpebre erano diventate troppo pesanti per riuscire a tenerle aperte e gli sbadigli avevano cominciato a fargli male alle mascelle. Acciambellandosi sul pavimento era scivolato nel sonno, soltanto un po’ infastidito dal rombo dei tuoni. Il suo ultimo pensiero era stato per Caramon... Si era già accorto della sua assenza e, a causa di ciò, era molto arrabbiato?

La cosa successiva che Tas aveva notato, era il silenzio. Perché mai questo avesse dovuto destarlo da un sonno perfettamente tranquillo fu sulle prime un mistero. Era anche un mistero il luogo in cui si trovava, ma poi se ne ricordò.

Oh, sì. Si trovava nella Camera Sacra del Tempio del Gran Sacerdote di Istar. Oggi era il giorno del Cataclisma. Trovando che tutto questo lo confondeva parecchio... alterare il tempo era un tale fastidio... Tas decise di non pensarci e di cercare invece di capire perché ci fosse tanto silenzio.

Poi se ne rese conto. La tempesta era cessata! Proprio come Raistlin aveva detto che sarebbe successo. Alzandosi in piedi, Tas sbirciò fuori, attraverso le tende, nella Camera Sacra. Attraverso le finestre poteva vedere la viva luce del sole. Tas deglutì per l’eccitazione.

Non aveva nessuna idea di che ora fosse ma, a giudicare dal bagliore del sole, doveva essere quasi metà mattina. Ricordò che la processione sarebbe cominciata tra poco, e avrebbe impiegato un po’ per dipanarsi attraverso il Tempio. Il Gran Sacerdote avrebbe invocato gli dei all’Alta Veglia, una volta che il sole avesse raggiunto il suo zenit nel cielo.

E infatti, mentre Tas pensava a questo, le campane si misero a suonare a distesa proprio sopra di lui, o per lo meno così gli parve, e il loro clangore lo sorprese più del tuono. Per un momento si chiese se non fosse condannato a passare il resto della vita con quei rintocchi che gli echeggiavano nelle orecchie... Poi le campane della Torre sopra di lui smisero di suonare, e qualche istante dopo lo fecero anche le campane dentro la sua testa. Sospirò di sollievo, e sbirciò di nuovo fuori dalle pieghe delle tende dentro la Camera Sacra, chiedendosi se non ci fosse la possibilità che arrivasse qualcuno a far le pulizie, quando vide una figura indistinta sgusciare dentro la stanza.

Tas si ritrasse. Tenendo le tende scostate soltanto di uno spiraglio, guardò con un occhio solo. La figura teneva la testa china, i suoi passi erano lenti e incerti. Sostò un attimo per appoggiarsi a uno dei banchi di pietra che fiancheggiavano l’altare, come se fosse troppo stanca per proseguire, poi cadde in ginocchio. Anche se indossava le vesti bianche come chiunque altro nel Tempio, a Tas parve che quella figura avesse un aspetto familiare perciò, quando fu abbastanza sicuro che l’attenzione della figura non era rivolta a lui, si arrischiò ad allargare lo spiraglio.

«Crysania!» disse fra sé con interesse. «Mi chiedo perché sia arrivata così presto...». Poi venne colto da un improvviso, sconfortante disappunto. E se anche lei si fosse trovata là per fermare il Cataclisma? «Accidentaccio! Raistlin ha detto che io potevo riuscirci...» borbottò.

Poi si rese conto che Crysania stava parlando: stava dicendo qualcosa fra sé, oppure pregava, Tas non ne fu ben sicuro. Tenendosi accostato alla tenda quanto più osava, ascoltò le parole sommesse da lei pronunciate.

«Paladine, dio dell’eterna bontà, il più grande e il più saggio, ascolta la mia voce in questo giorno di suprema tragedia. So che non posso fermare ciò che sta per giungere. E, forse è segno di mancanza di fede che io metta anche soltanto in dubbio ciò che fai. Ti chiedo soltanto questo, aiutami a capire! Mostrami che non ho fallito, tornando qui indietro nel tempo per compiere tutto ciò che mi ero proposta.

«Concedimi di poter restare qui, senza essere vista, e di ascoltare ciò che nessun mortale ha mai udito, né è sopravvissuto per poterlo riferire: le parole del Gran Sacerdote. È un brav’uomo, forse troppo bravo.» Crysania si prese la testa fra le mani. «La mia fede è appesa a un filo,» disse con voce talmente sommessa che Tas a stento riuscì a sentirla. «Mostrami qualche giustificazione per questo terribile gesto. Se è un tuo capriccio, morirò come è stato stabilito, forse insieme a tutti coloro che da tempo hanno perduto la fede nei veri dei...»

«Non dire che hanno perduto la loro fede, Reverenda Figlia.» Dall’aria sgorgò una voce che sorprese talmente il kender da farlo quasi cadere fuori dalle tende. «Di’ piuttosto che la loro fede nei veri dei è stata sostituita dalla loro fede in quelli falsi: il denaro, il potere, l’ambizione...»

Crysania sollevò la testa con un gemito, al quale Tas fece eco, ma fu la vista del suo volto, non la vista d’una risplendente figura bianca che si stava materializzando accanto a lei, che indusse il kender a trattenere il respiro. Era ovvio che Crysania non aveva dormito per molte notti, i suoi occhi erano grandi, cerchiati di scuro e infossati. Le guance erano scavate, le labbra secche e screpolate. Non si era data la pena di pettinarsi, i capelli le ricadevano sul viso come nere ragnatele mentre fissava timorosa e allarmata quella strana figura spettrale.

«Chi... chi sei?» balbettò.

«Mi chiamo Loralon. E sono venuto a condurti via. La tua morte non è contemplata, Crysania. Adesso sei l’ultimo vero chierico su Krynn e puoi unirti a noi che ce ne siamo andati molti giorni addietro.»

«Loralon, il grande chierico di Silvanesti,» mormorò Crysania. Lo fissò per lunghi istanti, stringendo nervosamente le mani davanti a sé mentre s’inginocchiava. «Non ancora. Devo ascoltare il Gran Sacerdote. Devo capire...»

«Non hai capito già abbastanza?» le chiese Loralon con severità. «Cosa hai sentito nella tua anima, quella notte?»

Crysania deglutì, poi si scostò i capelli dal viso con mano tremante. «Sgomento, umiltà,» bisbigliò.

«Certamente tutti devono sentire questo davanti alla potenza degli dei...»

«Nient’altro?» insistè Loralon. «Invidia, forse? Il desiderio di emularli? Di esistere al loro stesso livello?»

«No!» rispose Crysania con rabbia, poi arrossì, volgendo altrove la faccia.

«Adesso vieni con me, Crysania,» insistette Loralon. «Una vera fede non ha bisogno di dimostrazioni, di nessuna giustificazione, per credere a ciò che nel proprio cuore sa che è giusto.»

«Le parole del mio cuore echeggiano vuote nella mia mente,» replicò Crysania. «Sono soltanto ombre. Devo vedere la verità, che risplende alla limpida luce del giorno! No, non verrò via con te. Rimarrò a sentire quello che dirà! Saprò se gli dei sono giustificati!»

Loralon la guardò con un’espressione che era più di pietà che di collera. «Non guardi la luce, anche se ti trovi davanti ad essa. L’ombra che vedi proiettarsi davanti a te è la tua. La prossima volta che vedrai con chiarezza, Crysania, sarà quando verrai accecata dalla tenebra... la tenebra interminabile. Addio, Reverenda Figlia.»

Tasslehoff sbatté le palpebre e si guardò intorno. Il vecchio elfo se n’era andato! Si era mai trovato veramente là? Il kender se lo chiese con! inquietudine. Ma doveva esserci stato, poiché Tas poteva ancora ricordare le sue parole. Si sentiva raggelato e confuso. Cosa aveva voluto dire? Tutto gli era suonato così strano. E che cosa aveva voluto dire Crysania dichiarando che era stata mandata là a morire?

Poi il kender si rasserenò. Nessuno dei due sapeva che il Cataclisma non ci sarebbe stato. Non c’era da stupirsi che Crysania si sentisse triste e depressa.

«È probabile che si rallegri non poco quando scoprirà che dopotutto il mondo non verrà affatto devastato,» si disse Tas.

E poi il kender udì delle voci lontane levarsi in un canto. La processione! Stava cominciando. Per l’eccitazione Tas fu quasi sul punto di lanciare un evviva. Temendo di venir scoperto, si affrettò a tapparsi la bocca con le mani. Poi diede un’ultima rapida sbirciata a Crysania. Sedeva sconsolata, facendosi piccola piccola al suono della musica. Distorta dalla distanza, questa suonava stridente, aspra e sgradevole. Il volto di Crysania era cinereo, al punto che Tas, per un attimo, si allarmò, ma poi vide che stringeva le labbra con fermezza, con lo sguardo che le s’incupiva.

«Ti sentirai bene molto presto,» le disse Tas in silenzio, poi il kender si ritrasse dietro la tenda per tirar fuori dalla sua borsa il meraviglioso congegno magico. Si sedette, tenendo il congegno fra le mani, e attese.

La processione parve durare un’eternità, per lo meno dal punto di vista del kender. Sbadigliò. Le Missioni Importanti erano decisamente noiose, decise con irritazione, e sperò che qualcuno avrebbe apprezzato quello che lui aveva dovuto sopportare, una volta che tutto fosse finito. Gli sarebbe piaciuto da matti giocherellare con quel congegno magico, ma Raistlin gli aveva bene inculcato nella mente che doveva lasciarlo stare fino a quando non fosse giunto il momento, e poi seguire le istruzioni alla lettera. Talmente intensa era stata l’espressione negli occhi di Raistlin e talmente gelida la sua voce da penetrare perfino l’atteggiamento incurante del kender. Tas sedeva là, tenendo stretto l’oggetto magico, quasi timoroso di muoversi.

Poi, proprio quand’era sul punto di rinunciare, in preda alla disperazione (e il suo piede sinistro stava lentamente perdendo ogni sensibilità) sentì un’esplosione di voci bellissime subito fuori della porta! Una luce brillante penetrò le tende. Il kender combatté la propria curiosità, ma alla fine non riuscì a resistere alla tentazione di dare una sbirciatina. Dopotutto, non aveva mai visto il Gran Sacerdote. Dicendosi che aveva bisogno di vedere quello che stava succedendo, lanciò un’altra occhiata attraverso la fessura.

La luce quasi lo accecò.

«Grande Reorx!» farfugliò il kender, coprendosi gli occhi con le mani. Ricordò che una volta, da bambino, aveva sollevato lo sguardo sul sole, cercando di capire se era davvero una gigantesca moneta d’oro e, se era così, in qual modo avrebbe potuto toglierla dal cielo. Era stato costretto a letto per tre giorni, con degli stracci inzuppati sugli occhi.

«Chissà come ci riesce?» si chiese Tas, mentre arrischiava un’altra occhiatina attraverso le dita.

Fissò il cuore di quella luce, come aveva fissato il sole. E vide la verità. Il sole non era una moneta d’oro. Il Gran Sacerdote era soltanto un uomo.

Il kender non provò il tremendo choc che aveva scosso Crysania quando aveva visto l’uomo vero che c’era dietro l’illusione. Forse ciò era dovuto al fatto che Tas non aveva preconcetti su come il Gran Sacerdote avrebbe dovuto essere. I kender non si lasciavano mai sgomentare da niente o da nessuno (anche se Tas doveva ammettere di sentirsi un po’ strano nelle vicinanze del cavaliere della morte, Lord Soth.) Rimase perciò solo moderatamente sorpreso nel vedere che il tanto sacro Gran Sacerdote era niente più di un umano di mezza età, mezzo calvo, con pallidi occhi azzurri, e l’espressione terrorizzata di un cervo intrappolato in una macchia. Tas rimase sorpreso, e deluso.

«Mi sono preso tutti questi fastidi per niente,» pensò il kender, irritato. «Non ci sarà nessun Cataclisma. Non credo che quest’uomo riuscirebbe a farmi arrabbiare abbastanza da indurmi a lanciargli addosso una torta, per non parlare di un’intera montagna di fuoco.»

Ma Tas non aveva nient’altro da fare (e moriva davvero dalla voglia di far funzionare il congegno magico), perciò decise di rimanere là ad osservare e ad ascoltare. Malgrado tutto, qualcosa avrebbe potuto succedere. Cercò di vedere Crysania, chiedendosi cosa provasse, ma l’alone di luce che circondava il re sacerdote era così luminoso che non riusciva a, vedere nient’altro nella stanza.

Il Gran Sacerdote camminò fin davanti all’altare, muovendosi lentamente, con lo sguardo che guizzava a destra e a sinistra. Tas si chiese se, il Gran Sacerdote avrebbe visto Crysania, ma a quanto pareva era accecato anche lui dalla propria luce, poiché il suo sguardo le passò sopra senza notarla. Arrivato all’altare, non s’inginocchiò a pregare come aveva fatto Crysania. Tas ebbe l’impressione che fosse sul punto di farlo, ma poi il Gran Sacerdote scosse rabbiosamente la testa e rimase là in piedi.

Dal suo punto di visuale, direttamente dietro e un po’ sulla sinistra dell’altare, Tas era in grado di contemplare senza difficoltà la faccia dell’uomo. Ancora una volta il kender strinse il magico congegno in preda all’eccitazione, poiché l’espressione di puro terrore in quegli occhi acquosi era stata nascosta dalla maschera dell’arroganza.

«Paladine,» strombazzò il Gran Sacerdote, dando a Tas la chiara impressione che quell’uomo si stesse rivolgendo a un subalterno. «Paladine, vedi il male che mi circonda! Sei stato testimone delle calamità che hanno flagellato Krynn nei giorni scorsi. Tu sai che questo male è diretto contro la mia persona, poiché io sono il solo che lo combatte! Certamente, adesso devi aver capito che questa dottrina dell’equilibrio non può funzionare!»

La voce del Gran Sacerdote perse quello squillo aspro, per diventare morbida e sommessa come un flauto. «Capisco, naturalmente. Ai vecchi tempi, quand’eri debole, dovevi praticare questa dottrina. Ma adesso hai me, il tuo braccio destro, il tuo vero rappresentante su Krynn. Con la nostra potenza unita, posso spazzare via il Male da questo mondo. Posso distruggere la razza degli orchi! Mettere in riga i capricciosi umani! Trovare nuove terre lontane per i nani e i kender e gli gnomi, quelle razze che non hai creato...»

Che insulto! pensò Tas, irritatissimo. Ho una mezza idea di lasciare che procedano e gli facciano cascare addosso la montagna!

«E regnerò nella gloria,» la voce del Gran Sacerdote divenne un crescendo, «dando inizio a un’epoca in grado di rivaleggiare perfino con la favolosa Era dei Sogni!» Il Gran Sacerdote spalancò le braccia. «Paladine, hai dato questo e anche di più a Huma, il quale altri non era che un cavaliere rinnegato di infimi natali! Esigo che tu dia anche a me il potere di cacciare le ombre del Male che oscurano questa terra.»

Il Gran Sacerdote a questo punto tacque, aspettando, con le braccia sollevate.

Tas trattenne il fiato, aspettando anche lui, stringendo il magico congegno fra le mani.

E poi il kender sentì la risposta. L’orrore s’impadronì di lui, una paura che non aveva mai provato prima, neppure in presenza di Lord Soth o vicino al Bosco di Shoikan. Tremando, il kender cadde sulle ginocchia e chinò la testa, piagnucolando e tremando, implorando misericordia e perdono da qualche forza invisibile. Potè sentir giungere, da oltre la tenda, in risposta al suo farfugliare incoerente, un’eco, e seppe che Crysania era là, e anche lei sentiva quell’orribile collera rovente che si stava abbattendo su di loro come il tuono della tempesta.

Ma il Gran Sacerdote non disse una sola parola. Rimase là a fissare speranzoso il cielo che non poteva vedere attraverso le massicce mura e i soffitti del suo Tempio... il cielo che non poteva vedere a causa della propria luce.

Capitolo diciassettesimo.

Fermamente deciso ad agire, Caramon piombò in un sonno esausto e, per alcune ore, fu benedetto dall’oblio. Si svegliò con un sussulto e trovò Raag chino su di lui intento a spezzargli le catene.

«E questi?» gli chiese Caramon, sollevando i polsi imprigionati.

Raag scosse la testa. Anche se Arack non pensava proprio che lo stesso Caramon sarebbe stato così pazzo da tentare, disarmato, di sopraffare l’orco, il nano aveva visto abbastanza follia negli occhi dell’uomo, la sera prima, da non voler correre rischi.

Caramon sospirò. Sì, aveva preso davvero in esame quella possibilità, come ne aveva esaminate molte altre quella notte, ma l’aveva scartata. La cosa più importante era rimanere in vita, per lo meno fino a quando non si fosse assicurato che Raistlin era morto. Dopo, niente avrebbe più avuto importanza...

Povera Tika... Avrebbe atteso, atteso, fino a quando un giorno si sarebbe svegliata rendendosi conto che lui non sarebbe mai più tornato a casa.

«Muoviti!» grugnì Raag.

Caramon si mosse, seguendo l’orco su per le scale umide e contorte che conducevano fuori dai magazzini sotto l’arena. Scosse la testa, sgombrandola dai pensieri su Tika. Questi avrebbero potuto indebolire la sua determinazione, e lui non poteva permetterselo. Raistlin doveva morire. Era come se la notte scorsa il lampo avesse illuminato una parte della mente di Caramon che era rimasta al buio per anni. Infine, aveva visto la vera portata delle ambizioni di suo fratello, la sua bramosia di potere. Infine, Caramon aveva smesso di cercare delle scusanti per lui. Lo irritava ammetterlo, ma perfino l’elfo scuro, Dalamar, conosceva Raistlin assai meglio di lui, suo fratello gemello.

L’amore l’aveva accecato e, a quanto pareva, aveva accecato anche Crysania. Caramon ricordò un detto di Tanis: «Non ho mai visto nulla fatto per amore che abbia portato al male». Sbuffò. Be’, c’era una prima volta per tutto (questo era stato uno dei detti favoriti di Flint). Una prima volta... e un’ultima.

Caramon non aveva nessuna idea di come avrebbe fatto a uccidere suo fratello. Ma non era preoccupato. Dentro di sé provava una strana sensazione di pace. Stava pensando con una chiarezza e una logica che lo lasciavano stupefatto. Sapeva di poterlo fare. E neppure Raistlin avrebbe potuto fermarlo, non questa volta. L’incantesimo magico del viaggio nel tempo avrebbe richiesto la completa concentrazione del mago. L’unica cosa che avrebbe potuto fermare Caramon era la morte stessa.

E perciò, si disse Caramon trucemente, dovrò vivere.

Rimase tranquillo, senza muovere un muscolo o pronunciare una parola, mentre Arack e Raag si sforzavano di farlo entrare nella sua armatura.

«Non mi piace,» borbottò il nano più di una volta rivolto all’orco, mentre vestivano Caramon.

L’espressione calma, impassibile dell’omone rendeva il nano ancora più inquieto che se si fosse trovato davanti a un toro infuriato. L’unica volta che Arack vide un guizzo di vita sulla faccia stoica di Caramon fu quando gli affibbiò la spada corta alla cintura. L’omone abbassò lo sguardo su di essa, riconoscendo l’inutile materiale di scena per quello che era. Arack lo vide sorridere amaramente.

«Tienilo d’occhio,» ordinò Arack, e Raag annuì. «E tienilo lontano dagli altri finché non entrerà nell’arena.»

Raag annuì di nuovo, poi condusse Caramon, con le mani legate, dentro i corridoi sotto l’arena dove gli altri aspettavano. Kiiri e Pheragas lanciarono un’occhiata a Caramon quando entrò. Il labbro di Kiiri si arricciò, e gli voltò freddamente le spalle. Caramon incontrò lo sguardo di Pheragas senza batter ciglio, senza pregare o implorare con gli occhi. Questo non era ciò che Pheragas si era aspettato, a quanto pareva. Dapprima il nero parve confuso poi, dopo che Kiiri gli ebbe bisbigliato qualche parola, anche lui gli voltò le spalle. Ma Caramon vide anche le spalle di Pheragas abbassarsi all’improvviso, mentre l’uomo scuoteva la testa.

Poi un fragore si levò dalla folla, e Caramon spostò lo sguardo su ciò che poteva vedere delle tribune. Era quasi mezzogiorno. I Giochi sarebbero cominciati all’Alta Veglia in punto. Il sole risplendeva nel cielo, la gente, essendo riuscita a dormire un po’, era numerosa e di umore particolarmente buono. Erano previsti alcuni combattimenti preliminari, per stuzzicare l’appetito della folla e accrescere la tensione. Ma la vera attrazione era lo Scontro Finale, quello che avrebbe stabilito chi sarebbe stato il campione, lo schiavo che avrebbe vinto la propria libertà o, nel caso del Minotauro Rosso, abbastanza ricchezze da durargli per anni.

Arack, saggiamente, mantenne alta l’andatura dei primi combattimenti, rendendoli leggeri, perfino comici. Per l’occasione aveva importato qualche nano dei burroni, e li aveva mandati nell’arena dando loro delle vere armi (che, naturalmente, non avevano nessuna idea di come usare). Il pubblico ululava la sua contentezza, ridendo fino alle lacrime alla vista dei nani che inciampavano sulle loro stesse spade, vibrandosi stoccate feroci con l’elsa dei pugnali, oppure voltando le spalle e scappando fuori dall’arena strillando a squarciagola. Naturalmente il pubblico non si godette il numero quanto gli stessi nani che, alla fine, buttarono via tutte le armi e si lanciarono in un combattimento con il fango. Dovettero esser portati fuori dall’arena a viva forza.

La folla applaudì, ma adesso molti cominciarono a pestare i piedi esigendo, di buonumore ma ugualmente impazienti, l’attrazione principale. Arack tirò la cosa alquanto in lungo ben sapendo, da quell’uomo di spettacolo che era, quanto fosse utile espandere la loro eccitazione. Aveva ragione.

Ben presto le tribune giunsero a oscillare a causa della folla che applaudiva frenetica, batteva i piedi e cantava.

E fu così che nessuno tra la folla sentì il primo tremore.

Caramon lo sentì, e lo stomaco gli sobbalzò quando il suolo tremò sotto i suoi piedi. Si sentì raggelare dalla paura... non la paura di morire, ma la paura di morire senza riuscire a portare a compimento il suo obbiettivo. Sollevando con ansia lo sguardo al cielo, cercò di ricordare ogni singola leggenda che aveva udito sul Cataclisma. Gli parve di ricordare che si era abbattuto verso la metà del pomeriggio. Ma c’erano stati terremoti, eruzioni vulcaniche, spaventosi disastri naturali di ogni genere su tutto Krynn ancora prima che la montagna di fuoco si schiantasse sulla città di Istar facendola affondare talmente in profondità nel suolo che il mare l’aveva sommersa.

Caramon ricordava vividamente le rovine di quella città condannata come le aveva viste dopo che la loro nave era stata risucchiata dentro il vortice di quello che, nel suo tempo, era conosciuto come il Mare di Sangue di Istar. Allora gli elfi del mare li avevano salvati, ma non ci sarebbe stata nessuna salvezza per quella gente. Vide ancora una volta gli edifici contorti e infranti. La sua anima si ritrasse per l’orrore e si rese conto, con un sussulto, di aver tenuto lontano dalla sua mente quel terribile spettacolo.

Non ho mai creduto sul serio che sarebbe successo, si rese conto, rabbrividendo, per la paura, mentre il terreno fremeva quasi per solidarietà. Ho soltanto poche ore a disposizione, forse neppure tanto. Devo uscire da qui. Devo raggiungere Raistlin!

Poi si calmò. Raistlin lo aspettava. Raistlin aveva bisogno di lui, o per lo meno aveva bisogno di un «guerriero addestrato». Raistlin si sarebbe assicurato che lui avesse tempo in abbondanza, tempo di vincere e di arrivare fino a lui. Oppure tempo per perdere e venir sostituito.

Ma fu con una sensazione di enorme sollievo che Caramon sentì cessare il tremito, poi udì la voce di Arack provenire dal centro dell’arena che annunciava lo Scontro Finale.

«Un tempo hanno combattuto come una squadra, signore e signori, e come voi tutti sapete, è stata la migliore squadra che abbiamo mai visto da molti anni a questa parte. Molte volte avete visto uno di loro rischiare la propria vita per salvare quella di un compagno di squadra. Erano come fratelli,»

Caramon trasalì a queste parole, «ma adesso sono acerrimi nemici, signore e signori, poiché quando si tratta della libertà, della ricchezza, di vincere questo Gioco, il più grande di tutti, l’amore deve accontentarsi dell’ultima fila. Daranno tutto di se stessi, di questo potete essere sicuri, signore e signori. Questo è un combattimento all’ultimo sangue fra Kiiri, la Sirine, Pheragas di Ergoth, Caramon il Vittorioso, e il Minotauro Rosso. Non lasceranno questa arena se non con i piedi in avanti!»

La folla applaudì e ruggì. Anche se sapevano che era una finta, adoravano convincere se stessi che non lo era. Il ruggito crebbe d’intensità quando il Minotauro entrò, la sua faccia bestiale come sempre sdegnosa. Kiiri e Pheragas gli lanciarono un’occhiata, guardarono il tridente che impugnava, poi si scambiarono un’occhiata. La mano di Kiiri si serrò intorno al pugnale.

Caramon sentì che il terreno aveva ripreso a tremare. Poi Arack chiamò il suo nome. Era giunto il momento dell’inizio del Gioco.

Tasslehoff sentì il primo tremito e per un momento pensò che fosse soltanto la sua immaginazione, una reazione a quella terribile collera che rullava intorno a loro. Poi vide le tende ondeggiare avanti e indietro e si rese conto che, sì, il suolo tremava davvero...

Attiva il congegno! echeggiò all’improvviso una voce nel suo cervello. Con le mani che gli tremavano, gli occhi puntati sul ciondolo, Tas ripetè le istruzioni:

«Il tuo tempo è il tuo, vediamo, giro la faccia verso di me. ecco. anche se ci viaggi attraverso. sposto questa piastra da destra a sinistra. vedi come si espande, la piastra posteriore cade, formando due dischi collegati da aste... funziona!»

Eccitatissimo, Tass continuò:

«...attraverso l’eternità, giro la cima rivolta verso di me in senso antiorario dal fondo. non ostacolare il suo scorrere. Assicurati che la catenella del ciondolo sia libera... ecco, esatto. Adesso, stringi con mano ferma l’inizio e la fine. Tieni i dischi ad entrambe le estremità. girali su se stessi, così, e tutto quello che è sciolto sarà assicurato. La catenella si arrotolerà da sola dentro il corpo! Non è meraviglioso? Lo sta proprio facendo! Adesso, il destino sarà sopra la tua testa. Lo tengo sopra la mia testa e... aspetta! C’è qualcosa che non va! non credo che debba succedere questo...»

Un minuscolo pezzo ingioiellato cadde dal congegno, colpendo Tas sul naso. Poi un altro, e un altro ancora, fino a quando il kender, sconvolto, si ritrovò in mezzo ad una vera pioggia di frammenti multicolori.

«Cosa?» Tas fissò con occhi spiritati il congegno che teneva sollevato sopra la testa. Con movimenti frenetici girò di nuovo le estremità. Questa volta la pioggia dei frammenti divenne un rovescio, tintinnando sul pavimento con note squillanti simili ai rintocchi delle campane.

Tasslehoff non ne era sicuro, ma non credeva proprio che il comportamento dovesse essere quello.

Comunque, non si poteva mai sapere, specialmente quando si trattava dei giocattoli degli stregoni.

Lo guardò, trattenendo il fiato, aspettando la luce...

D’un tratto il terreno gli sobbalzò sotto i piedi, scagliandolo oltre le tende e facendolo finire lungo disteso sul pavimento ai piedi del Gran Sacerdote. Ma l’uomo non si accorse della presenza del kender dal volto cinereo. Il Gran Sacerdote si guardava intorno con perfetta serenità, osservando con spassionata curiosità le tende che s’increspavano come onde, le minuscole crepe che all’improvviso avevano cominciato a ramificarsi attraverso l’altare di marmo. Sorridendo fra sé, come rassicurato che quella fosse l’acquiescenza degli dei, il Gran Sacerdote voltò le spalle all’altare che si andava sbriciolando e tornò indietro lungo la corsia centrale, passando davanti ai banchi che tremavano e uscendo nella sezione principale del Tempio.

«No!» gemette Tas, scuotendo il congegno. In quell’istante, i sottili cilindri che collegavano le due estremità dello scettro si separarono fra le sue mani. La catena gli scivolò fra le dita. Lentamente, tremando quasi quanto il pavimento sul quale giaceva, Tasslehoff si rialzò, stringendo in mano i pezzi rotti del congegno magico.

«Cos’ho fatto?» gemette Tas. «Ho seguito le istruzioni di Raistlin, sono sicuro di averle seguite! Io...»

E d’un tratto il kender seppe. Attraverso le lacrime tutti quei frammenti luccicanti divennero una macchia confusa. «È stato così carino con: me,» mormorò Tas. «Mi ha fatto ripetere le istruzioni più e più volte, per essere sicuro che tu abbia capito bene, mi aveva detto.» Tas serrò gli occhi, bramando ardentemente che quando li avesse riaperti tutto gli fosse apparso come un brutto sogno.

Ma quando li riaprì, non fu così.

«Ho fatto tutto nel modo giusto. Voleva che lo rompessi!» Tas piagnucolò, rabbrividendo.

«Perché? Per farci arenare qui! Per farci morire tutti? No! Vuole Crysania, lo hanno detto i maghi della Torre. Ecco!» Tas si girò di scatto. «Crysania!»

Ma il chierico non lo sentì né lo vide. Con lo sguardo fisso davanti a sé, immobile, malgrado il pavimento le tremasse sotto i ginocchi là dov’era genuflessa, gli occhi di Crysania ardevano di un’arcana luce interiore. Le sue mani, ancora congiunte come in preghiera, erano serrate con tale forza l’una sull’altra che le dita erano diventate d’un rosso scarlatto e le nocche bianchissime.

Le sue labbra si muovevano. Stava pregando?

Correndo di nuovo dietro le tende, Tas si affrettò a raccogliere ogni più minuscolo frammento del congegno ingioiellato. Raccolse la catenella che era scivolata quasi del tutto dentro una crepa del pavimento, poi ficcò il tutto in una borsa e la chiuse accuratamente. Dando un’ultima occhiata al pavimento, strisciò fuori nella Camera Sacra.

«Crysania,» bisbigliò. Detestava dover disturbare le sue preghiere, ma la faccenda era troppo urgente.

«Crysania?» disse ancora, avvicinandosi e fermandosi accanto a lei, dal momento che appariva ovvio che non era neppure consapevole della sua presenza.

Osservando le sue labbra, vi lesse le parole silenziose:

«So...» stava dicendo Crysania, «so qual è stato il-mio errore! Forse a me gli dei concederanno quello che hanno negato a lui!»

Tirando un profondo respiro, abbassò la testa. «Grazie, Paladine. Grazie!» la sentì intonare Tas, con fervore. Poi, Crysania si alzò rapidamente in piedi. Lanciando un’occhiata un po’ stupita agli oggetti che tutt’intorno a lei nella stanza si agitavano in una danza mortale, il suo sguardo guizzò sopra la testa del kender senza vederlo.

«Crysania!» barbugliò il kender, questa volta tirandola per le vesti bianche, «Crysania, l’ho rotto! L’unica nostra via di scampo per tornare! Una volta ho rotto un globo dei draghi. Ma quel giorno lo feci apposta! Questo non ho mai avuto intenzione di romperlo. Povero Caramon! Devi aiutarmi! Vieni con me, parla a Raistlin, fa’ in modo che l’aggiusti!»

Il chierico abbassò su Tasslehoff uno sguardo privo d’espressione, come se il kender fosse un estraneo che l’avesse accostata per strada, «Raistlin!» mormorò, staccando con gentilezza ma con fermezza le mani del kender dalla sua veste. «Certo! Aveva cercato di dirmelo, ma io non ho voluto ascoltare. E adesso so. Conosco la verità!»

Spingendo via Tas, Crysania raccolse le sue morbide vesti bianche, corse fuori dalla fila dei banchi e si precipitò lungo la corsia centrale senza guardare una sola volta dietro di sé, mentre le fondamenta stesse del Tempio sobbalzavano.

Fu soltanto quando Caramon ebbe cominciato a salire le scale che conducevano fuori nell’arena che Raag rimosse i legacci che imprigionavano i polsi del gladiatore. Flettendo le dita e sogghignando, Caramon seguì Kiiri e Pheragas e il Minotauro Rosso fino al centro dell’arena. Il pubblico l’applaudì. Caramon, prendendo il suo posto fra Kiiri e Pheragas, lanciò un’occhiata nervosa al cielo. Era passata l’Alta Veglia e il sole aveva incominciato la sua lunga discesa.

Istar non sarebbe mai vissuta per vedere il tramonto.

Pensando a questo, e pensando che anche lui non avrebbe mai più rivisto i raggi del sole inondare lo sperone d’una fortezza, o fondersi con il mare, o illuminare le cime dei vallenwood, Caramon sentì le lacrime pungergli gli occhi. Non piangeva tanto per sé, quanto per quelli che gli erano accanto, i quali quel giorno dovevano morire, e per tutti gli innocenti che sarebbero periti senza capirne il perché.

Piangeva anche per il fratello che aveva amato, ma le sue lacrime per Raistlin erano per qualcuno che era morto molto tempo addietro.

«Kiiri, Pheragas,» disse Caramon a bassa voce quando il minotauro avanzò a grandi passi per inchinarsi da solo davanti agli spettatori, «non so che cosa il mago vi abbia detto, ma io non vi ho mai traditi.»

Kiiri si rifiutò anche soltanto di guardarlo. Vide il suo labbro che si arricciava. Pheragas, lanciandogli un’occhiata con la coda dell’occhio, vide la chiazza delle lacrime sul volto di Caramon ed esitò, corrugando la fronte, prima di volgere anche lui altrove lo sguardo.

«In realtà non ha importanza,» continuò Caramon, «che mi crediate o no. Potete uccidervi tra di voi per la chiave, se volete, poiché io troverò la mia libertà a modo mio.»

Adesso Kiiri lo guardò, con gli occhi spalancati per l’incredulità. La folla era in piedi, urlando il nome del minotauro, il quale stava compiendo il giro dell’arena, agitando il tridente sopra la testa.

«Sei pazzo!» bisbigliò, con la voce più alta che osava emettere. Girò significativamente lo sguardo su Raag. Come al solito l’enorme corpo giallastro dell’orco bloccava l’unica uscita.

Imperturbabile, Caramon seguì la direzione dello sguardo di Kiiri senza che la sua faccia cambiasse espressione.

«Le nostre armi sono vere, amico mio,» disse Pheragas, aspro. «Le tue non lo sono!»

Caramon annuì ma non rispose.

«Non farlo!» Kiiri gli si avvicinò di più. «Oggi ti aiuteremo noi a fingere nell’arena. Cre... credo che nessuno di noi due abbia davvero creduto a quell’uomo dalle Vesti Nere. Devi ammettere che sembrava strano che tu cercassi di far lasciare la città a noi due! Abbiamo pensato, come ha detto lui, che tu volessi il premio tutto per te. Ascolta, fingi di essere ferito proprio all’inizio. Fatti portar fuori. Stanotte ti aiuteremo noi a scappare.»

«Non ci sarà stanotte,» disse Caramon con voce sommessa. «Non per me, non per nessuno di noi. Non ho molto tempo. Non posso spiegare. Tutto quello che chiedo è questo, non cercate di fermarmi.»

Pheragas tirò un sospiro, ma le parole gli morirono sulle labbra quando un altro tremito, questa volta più forte, scosse il terreno.

Adesso tutti se ne accorsero. L’arena ondeggiò sulle sue fondamenta, i ponti sopra i Pozzi della Morte scricchiolarono, il pavimento si alzò e ricadde, facendo quasi perdere l’equilibrio al Minotauro Rosso. Kiiri si afferrò a Caramon. Pheragas piantò i piedi per terra come un marinaio a bordo di un vascello in balia delle onde. La folla delle tribune tacque all’improvviso quando i sedili oscillarono sotto i corpi degli spettatori. Sentendo il crepitio del legno qualcuno urlò. Parecchi balzarono in piedi. Ma il tremito cessò con la stessa rapidità con cui era cominciato. Tutto era ritornato tranquillo... troppo tranquillo. Caramon sentì i capelli che gli si rizzavano sulla testa e gli venne la pelle d’oca. Nessun uccello cantava, non un cane abbaiava. La folla era silenziosa, aspettava in preda alla paura. Devo uscire di qui! decise Caramon. I suoi amici non avevano più importanza, niente aveva importanza. Aveva un unico obbiettivo: fermare Raistlin.

E doveva agire adesso, prima che arrivasse la prossima scossa e prima che la gente si fosse ripresa da quella appena finita. Lanciando una rapida occhiata intorno a sé, Caramon vide Raag accanto all’uscita, il volto giallastro e chiazzato dell’orco era corrugato, perplesso, il suo lento cervello stava cercando di capire quello che stava succedendo. Arack era comparso all’improvviso accanto a lui e si stava guardando intorno. Probabilmente sperava di non trovarsi costretto a rifondere i soldi ai suoi clienti. Già la folla aveva cominciato a quietarsi, anche se molti continuavano a lanciare occhiate incerte tutt’intorno.

Caramon tirò un profondo respiro poi, stringendo Kiiri fra le braccia, la sollevò con tutte le sue forze e scagliò la donna stupefatta addosso a Pheragas, facendoli rotolare tutti e due per terra.

Dopo averli visti cadere Caramon si girò di scatto e, preso lo slancio, si avventò con tutto il peso del suo corpo massiccio contro l’orco, piantando le spalle nello stomaco di Raag con tutta la forza che gli era stata data da quei mesi di allenamento. Era un colpo che avrebbe ucciso un essere umano, ma fece soltanto mancare il fiato all’orco. La violenza della carica di Caramon li mandò a sbattere violentemente tutti e due contro il muro.

Disperatamente, mentre Raag annaspava per riprendere il fiato, Caramon cercò di afferrare il robusto randello dell’orco. Ma proprio mentre lo strappava dalla stretta di Raag, l’orco si riprese.

Ululando per la collera Raag sollevò entrambe le mani massicce sotto il mento di Caramon, sferrando un colpo che fece schizzare il grosso guerriero dentro l’arena.

Atterrando pesantemente, per qualche istante Caramon non riuscì a vedere assolutamente niente, salvo il cielo e la terra che turbinavano tutt’intorno a lui. Ma, anche se stordito per il colpo, il suo istinto di guerriero prese il sopravvento. Cogliendo un movimento alla sua sinistra, Caramon guizzò via rotolando sul fianco, proprio nell’istante in cui il tridente del minotauro si piantava nel punto in cui si era trovato il braccio col quale di solito Caramon impugnava la spada. Sentì il minotauro che ringhiava e grugniva in preda ad una furia bestiale.

Caramon lottò per rimettersi in piedi, scrollando la testa per schiarirsela, ma sapeva che non avrebbe mai potuto sperare di evitare il secondo colpo del minotauro. E poi un corpo nero s’interpose fra lui e il Minotauro Rosso. Vi fu un lampeggiare d’acciaio quando la spada di Pheragas bloccò il colpo del tridente che avrebbe finito Caramon. Barcollando, Caramon arretrò per riprendere fiato e sentì le mani fresche di Kiiri che lo aiutavano a sorreggersi.

«Stai bene?» borbottò.

«Un’arma!» riuscì a rantolare Caramon, con la testa che ancora gli rintronava a causa del colpo infertogli dall’orco.

«Prendi la mia,» gli disse Kiiri, spingendo la sua spada corta tra le mani di Caramon. «Poi riposati un momento. Mi occupo io di Raag.»

L’orco, impazzito per la rabbia e l’eccitazione della battaglia, si era lanciato contro di loro come un bolide, con le mascelle sbavanti spalancate.

«No! Ne hai bisogno...» cominciò a protestare, ma Kiiri si limitò a rivolgergli un sogghigno.

«Osserva!» esclamò, poi pronunciò strane parole che richiamarono vagamente a Caramon il linguaggio della magia. Queste, però, avevano un lieve accento che ricordava la lingua elfa.

E d’un tratto Kiiri non c’era più. Al suo posto si ergeva un’orsa gigantesca. Caramon rimase senza fiato, incapace per un momento di capire cos’era successo. Poi ricordò: Kiiri era una sirine, dotata del potere di’ cambiar forma!

Inalberandosi sulle zampe posteriori, l’orsa torreggiò sopra l’enorme orco. Raag si arrestò di colpo, spalancando gli occhi, allarmato a quella vista. Kiiri ruggì per la rabbia, facendo balenare i denti aguzzi. La luce del sole si rifletté vivida sui suoi artigli quando una delle sue enormi zampe sferzò l’aria e colpì l’orco sulla faccia chiazzata.

L’orco ululò per il dolore, rivoli di sangue giallastro colarono dai segni lasciati dall’artiglio, un occhio scomparve in mezzo a una sanguinolenta massa gelatinosa. L’orsa balzò addosso all’orco.

Guardando, in preda allo sgomento, Caramon riuscì a vedere soltanto, in un turbine, la pelle gialla, la pelliccia marrone e il sangue.

Anche la folla, che pure all’inizio aveva lanciato un urlo deliziato, era divenuta d’un tratto conscia che quel combattimento non era simulato. Questo era reale. Qualcuno stava per morire. Vi fu un momento di scioccato silenzio, poi, qua e là, qualcuno applaudì. Ben presto i battimani e le urla divennero assordanti.

Ma Caramon dimenticò rapidamente la gente nelle tribune. Vide la sua possibilità. Adesso soltanto il nano gli bloccava l’uscita, e il volto di

Arack, anche se contorto per la rabbia, tradiva ugualmente, nelle sue smorfie, la paura. Caramon poteva facilmente passare...

In quel momento udì un grugnito di piacere del minotauro. Voltandosi, Caramon vide Pheragas accasciarsi al suolo per il dolore, colpito al plesso solare dal manico del tridente. Il minotauro invertì l’arma, alzandola per uccidere, ma Caramon cacciò un urlo, distraendo il minotauro quel tanto che bastava per fargli perdere lo slancio.

Il Minotauro Rosso si voltò per affrontare quella nuova sfida, con un sogghigno sulla faccia rossa e pelosa. Vedendo Caramon armato soltanto di una spada corta, il sogghigno del minotauro si allargò.

Scagliandosi addosso a Caramon, il minotauro cercò di affrettare la fine del combattimento. Ma Caramon lo schivò con destrezza; sollevando il piede sferrò un calcio, frantumando la rotula del minotauro. Fu un colpo doloroso e paralizzante, che lo fece ruzzolare al suolo.

Sapendo che il suo avversario era fuori combattimento, almeno per qualche istante, Caramon corse accanto a Pheragas. Il nero era ancora rannicchiato al suolo e si stringeva lo stomaco.

«Suvvia,» grugnì Caramon, cingendolo alla vita con un braccio. «Ti ho visto altre volte beccarti colpi del genere per poi alzarti e andare a trangugiare un pasto di cinque portate. Cosa succede?»

Ma non vi fu risposta. Caramon sentì il corpo dell’uomo tremare con- v vulsamente, e vide che la lucida pelle nera era bagnata di sudore. Poi Caramon vide i tre tagli sanguinanti che il tridente aveva lasciato sul braccio di Pheragas...

Pheragas sollevò lo sguardo verso il suo amico. Vedendo l’orrore nei suoi occhi, si rese conto che Caramon aveva capito. Rabbrividendo per il dolore causatogli dal veleno che scorreva nelle sue vene, Pheragas cadde in ginocchio. Il grosso braccio di Caramon lo cingeva alla vita.

«Prendi... prendi la mia spada.» Pheragas soffocò. «Presto, sciocco!» Sentendo, dai suoni che produceva il suo nemico, che il minotauro era di nuovo in piedi, Caramon esitò solo un istante, poi prese la grande spada dalla mano di Pheragas.

Pheragas rantolò al suolo contorcendosi per il dolore.

Stringendo la spada, con le lacrime che gli accecavano gli occhi, Caramon si sollevò e si girò di scatto, bloccando l’improvviso affondo del minotauro. Anche se zoppicava da una gamba, la forza del minotauro era tale da riuscire a compensare facilmente quella dolorosa lesione. Inoltre il minotauro sapeva che bastava soltanto un nonnulla per uccidere la sua vittima, e Caramon avrebbe dovuto entrare nell’arco d’azione del tridente per usare la spada.

I due si guatarono, mentre si giravano intorno lentamente. Caramon non sentiva più la folla che pestava i piedi e fischiava e applaudiva impazzita alla vista del vero sangue. Non pensava più alla fuga, non aveva più alcuna idea di dove si trovasse. I suoi istinti di guerriero avevano preso il sopravvento. Sapeva una sola cosa: doveva uccidere.

E così, aspettò. Pheragas gli aveva insegnato che i minotauri avevano un grosso difetto. Credendosi indistintamente superiori a tutte le altre razze, i minotauri sottovalutavano l’avversario. Facevano errori, bastava aspettarli al varco. Il Minotauro Rosso non faceva eccezione. Caramon poteva avvertire con chiarezza i pensieri del minotauro: dolore e collera indignazione per l’insulto subito, il desiderio bramoso di metter fine alla vita di quell’insignificante e stupido umano.

I due si stavano avvicinando sempre di più al punto in cui Kiiri era ancora avvinta a Raag in un combattimento, che da quello che Caramon poteva giudicare dagli schianti, i ringhii e le urla acute dell’orco era feroce. D’un tratto, in apparenza distrattosi a guardare Kiiri, Caramon scivolò su una pozza di viscido sangue giallo. Il Minotauro Rosso, ululando deliziato, si scagliò in avanti per impalare sul tridente quel corpo umano

Ma la scivolata era una finta. La spada di Caramon balzò alla luce del sole. Il minotauro, avvedendosi di essere stato raggirato, cercò di riprendersi dallo slancio in avanti. Ma si era dimenticato del ginocchio lesionato. Questo non poteva sorreggere il suo peso, e il Minotauro Rosso crollò al suolo mentre la spada di Caramon troncava di netto quella testa bestiale.

Disincagliando la spada con uno strattone, Caramon udì un orribile ringhio alle sue spalle e si voltò giusto in tempo per vedere le mascelle della grande orsa che si chiudevano sul gigantesco collo di Raag. Con un energico scuotimento del capo, Kiiri morse in profondità la giugulare. j bocca dell’orco si spalancò in un urlo che nessuno avrebbe mai sentito

Caramon fece per avvicinarsi, quando notò un improvviso movimento alla sua destra. Si girò fulmineo, ogni nervo vibrante, quando Arack gli sfrecciò accanto: il volto del nano era un’orrenda maschera di dolore e di furore. Caramon vide balenare il pugnale nella mano del nano, e si lanciò in avanti, ma era ormai troppo tardi. Non riuscì a fermare la lama prima che affondasse nel petto dell’orsa. Subito la mano del nano fu innondata di caldo sangue rosso. La grande orsa ruggì per il dolore e la collera. Una enorme zampa saettò in avanti. Afferrando il nano con le ultime, convulse energie, Kiiri sollevò Arack e lo scagliò attraverso l’arena. Il corpo del nano andò a schiantarsi contro la Guglia della Libertà dov’era appesa la chiave d’oro, impalandosi su una delle numerose decorazioni argentate. Il nano cacciò un urlo stridulo, spaventoso, poi l’intero pinnacolo crollò, abbattendosi dentro il pozzo sottostante colmo di fiamme.

Kiiri cadde, il sangue sgorgava dallo squarcio che aveva sul petto. La folla era in delirio, gridava e urlava il nome di Caramon. L’omone non li sentiva. Chinandosi, prese Kiiri tra le braccia.

L’incantesimo che aveva intessuto si sciolse. L’orsa non c’era più, era Kiiri quella che stringeva al petto.

«Hai vinto, Kiiri,» bisbigliò Caramon. «Sei libera.»

Kiiri levò lo sguardo su di lui e sorrise. Poi i suoi occhi si spalancarono, la vita li lasciò. Il suo sguardo morente rimase fisso sul cielo, quasi (così parve a Caramon) in attesa, come se adesso sapesse quello che stava per accadere.

Dopo aver disteso delicatamente il suo corpo sul terreno dell’arena inzuppato di sangue, Caramon si risollevò. Vide il corpo di Pheragas immobilizzarsi negli ultimi spasimi dell’agonia. Vide gli occhi fìssi e ciechi di Kiiri.

«Risponderai di questo, fratello mio,» disse Caramon con voce sommessa.

Udì un rumore alle sue spalle, un mormorio come quello rabbioso d’un mare in tempesta. Truce in volto, Caramon strinse la spada e si voltò, preparandosi ad affrontare qualunque nuovo nemico l’aspettasse. Ma non c’era nessun nemico, soltanto gli altri gladiatori. Alla vista del volto di Caramon, macchiato di sangue e rigato dalle lacrime, si trassero da parte ad uno ad uno, facendogli strada.

Guardandoli, Caramon capì che, finalmente, era libero. Libero di cercare suo fratello, libero di metter fine per sempre alla schiavitù. Sentì la sua anima librarsi, la morte aveva poco significato per lui, e non gli faceva nessuna paura. L’odore del sangue era nelle sue narici, e si sentiva colmato dalla dolce follia della battaglia.

Adesso, in preda alla più intensa bramosia di vendetta, Caramon corse fino ai margini dell’arena, preparandosi a scendere le scale che conducevano giù nelle gallerie che correvano sotto di essa, quando il primo dei terremoti frantumò la città condannata di Istar.

Capitolo diciottesimo

Crysania non vide né udì Tasslehoff. La sua mente era accecata da una miriade di colori che turbinavano dentro le sue profondità, sfavillando come splendidi gioielli, poiché all’improvviso aveva capito. Era per questo che Paladine l’aveva riportata qui, non per redimere il ricordo del Gran Sacerdote, ma per imparare dai suoi errori. E sapeva, sapeva nella sua anima, di aver imparato.

Poteva appellarsi agli dei e questi le avrebbero risposto, non con la collera, ma con il potere! La fredda oscurità dentro di lei spezzò il guscio e la creatura liberata esplose alla luce del sole.

Come in una visione contemplò se stessa che teneva sollevato in alto con una mano il medaglione di Paladine, la cui superficie di platino lampeggiava al sole. Con l’altra mano chiamava a sé legioni di credenti, e questi si affollavano intorno a lei con espressioni rapite e adoranti mentre li conduceva verso terre di una bellezza al di là di ogni immaginazione.

Sapeva di non possedere ancora la chiave che apriva la porta. E non poteva accadere qui, l’ira degli dei era troppo grande perché lei potesse penetrarla. Ma dove trovare la Chiave, o perfino la porta?

Quella danza di colori la stordiva, non riusciva a vedere e neppure a pensare. E poi sentì una voce, una piccola voce, e delle mani la tirarono per le vesti. «Raistlin...» sentì che la voce diceva, il resto delle parole andò smarrito. Ma d’un tratto la sua mente si schiarì. I colori sparirono, così come la luce, lasciandola sola in quella tranquilla oscurità che leniva la sua anima.

«Raistlin,» mormorò. «Lui ha cercato di dirmelo...»

Ma quelle mani la stringevano ancora. Con fare assente se le staccò di dosso e le spinse via.

Raistlin l’avrebbe condotta fino al Portale, l’avrebbe aiutata a trovare la Chiave. Il male si rivolge contro se stesso, aveva detto Elistan. Così Raistlin l’avrebbe aiutata senza volerlo. L’anima di Crysania cantava un inno di gioia a Paladine. Quando tornerò nella mia gloria, con la bontà in mano, quando tutto il male del mondo sarà stato vinto, allora lo stesso Raistlin vedrà la mia potenza, e finirà per capire e credere.

«Crysania!»

Il suolo tremò sotto i piedi di Crysania, ma lei non si accorse del tremito. Sentì una voce che chiamava il suo nome, una voce sommessa, rotta da colpi di tosse.

«Crysania,» disse ancora la voce. «Non c’è molto tempo. Fai presto!»

La voce di Raistlin! Guardandosi intorno con occhi spiritati, Crysania lo cercò, ma non vide nessuno. E poi si rese conto che stava parlando alla sua mente, che la stava guidando. «Raistlin,» mormorò, «ti sento. Sto arrivando.»

Voltandosi, corse lungo la corsia e uscì dal Tempio. Il grido del kender alle sue spalle cadde su orecchie sorde.

«Raistlin?» si chiese Tas, perplesso, guardandosi intorno. Poi capì. Crysania stava andando da Raistlin! In qualche modo, magicamente, lui la stava chiamando e lei lo avrebbe trovato! Tasslehoff si precipitò a sua volta fuori nel corridoio del Tempio, inseguendo Crysania. Certo, avrebbe indotto Raistlin a riparare il congegno...

Una volta fuori, Tas guardò nelle due direzioni, e vide subito Crysania. Ma il cuore quasi gli balzò dal petto: correva così rapidamente che aveva raggiunto l’estremità del corridoio.

Accertandosi che i frammenti del congegno frantumato fossero al sicuro nella sua borsa, Tas, con espressione risoluta, si lanciò all’inseguimento di Crysania, tenendo d’occhio le bianche vesti svolazzanti.

Sfortunatamente la cosa non durò molto a lungo. Crysania scomparve ben presto dietro un angolo.

Il kender corse come non aveva mai corso prima, neppure quando gli immaginari terrori del Bosco di Shoikan l’avevano perseguitato. Il ciuffo dei capelli sbatteva al vento dietro di lui, le sue borse gli rimbalzavano intorno all’impazzata, spargendo fuori il loro contenuto, lasciandosi dietro una scia luccicante di anelli, braccialetti e altri ninnoli.

Stringendo saldamente la borsa che conteneva il congegno magico, Tas raggiunse l’estremità del corridoio e slittò intorno ad essa, andando a sbattere, nella fretta, contro la parete opposta. Oh, no! Il cuore, dopo avergli sobbalzato in petto, gli cadde ai calcagni con un tonfo. Cominciò a desiderare, con uno scatto irritato, che il suo cuore se ne stesse tranquillo. Le sue acrobazie cominciavano a dargli la nausea.

Il corridoio era gremito di chierici, tutti vestiti di bianco! Come avrebbe mai potuto rintracciare Crysania? Poi la intravide a metà strada verso il fondo del corridoio, i suoi capelli neri che luccicavano alla luce delle torce. Vide anche che i chierici si giravano di scatto sulla sua scia, urlando o fissandola furiosamente.

Tas si lanciò al suo inseguimento, mentre la speranza rinasceva in lui: nella sua fuga precipitosa Crysania era adesso ostacolata dalla folla nel Tempio. Il kender sfrecciò in mezzo a loro ignorando le grida d’indignazione, sottraendosi alle mani che cercavano di afferrarlo.

«Crysania!» urlò disperato.

La folla di chierici nel corridoio diventava più fitta, tutti si affrettavano verso le uscite interrogandosi sugli strani tremiti del suolo e cercando d’indovinare quello che preannunciavano.

Tas vide Crysania fermarsi più di una volta, facendosi largo a spintoni in mezzo alla gente. Si era appena liberata quando Quarath sbucò da dietro l’angolo, chiamando il Gran Sacerdote. Senza guardare dove stava andando, Crysania gli finì addosso, e lui l’afferrò.

«Fermati, mia cara!» gridò Quarath, scuotendola, convinto che fosse in preda a un attacco d’isterismo. «Calmati!»

«Lasciami andare!» Crysania cercò di divincolarsi dalla sua stretta.

«È impazzita per il terrore! Aiutatemi a tenerla!» gridò Quarath ai numerosi chierici che si trovavano lì accanto.

D’un tratto Tas si rese conto che Crysania appariva impazzita. Adesso che si stava avvicinando a lei, poteva vedere la sua faccia. I suoi capelli neri erano una massa aggrovigliata, i suoi occhi erano infossati, d’un grigio cupo, del colore d’un grappolo di nubi tempestose, e il suo volto era arrossato per lo sforzo. Pareva non sentisse niente, nessuna voce penetrava la sua coscienza, salvo, forse, una.

Altri chierici l’afferrarono, a un ordine di Quarath. Urlando in maniera incoerente, Crysania lottò anche contro di loro. La disperazione le dava forza e più di una volta fu quasi sul punto di sfuggir loro. Le sue vesti bianche si laceravano fra le mani dei chierici mentre cercavano di trattenerla. A Tas parve di vedere del sangue sul volto di più d’un chierico. Arrivando di corsa, Tas stava per saltare sulla schiena del più vicino dei chierici, dandogli una botta in testa, quando venne accecato da una luce sfolgorante che fece immobilizzare tutti, perfino Crysania.

Nessuno si mosse. Tutto ciò che Tas riuscì a sentire per qualche istante furono gli ansiti di Crysania che cercava di respirare, così come l’ansimare affannoso di quelli che avevano cercato di fermarla.

Poi, una voce parlò.

«Gli dei stanno arrivando,» disse la voce musicale dal centro della luce, «per mio ordine...»

Il suolo sotto i piedi di Tasslehoff sobbalzò, sollevandosi in aria, scagliando via il kender come una piuma. Poi, scese rapidamente mentre Tas continuava a salire, per schizzare un’altra volta in alto e andargli incontro mentre scendeva. Il kender andò a sbattere contro il pavimento. L’impatto mozzò il fiato nel suo piccolo corpo.

Nell’aria vi fu un’esplosione di polvere e vetro e schegge, urla e grida e schianti. Tas non potè far niente se non lottare per cercare di respirare. Disteso sul pavimento di pietra, mentre questo sobbalzava e oscillava sotto di lui, guardò con stupore le colonne che si crepavano e si sbriciolavano, le pareti che si spezzavano, i pilastri che cadevano, e la gente che moriva.

Il Tempio di Istar stava crollando.

Strisciando carponi, Tas cercò disperatamente di non perdere d’occhio Crysania, la quale pareva ignara di ciò che stava accadendo intorno a lei. Adesso, in preda al terrore, quelli che l’avevano trattenuta la lasciarono andare e Crysania, sentendo sempre soltanto la voce di Raistlin, tornò a rimettersi in cammino. Tas urlò, Quarath si era lanciato verso di lei, ma proprio mentre il chierico stava per raggiungerla, una gigantesca colonna di marmo accanto a lei traballò e si abbatté al suolo.

Tas trattenne il respiro. Per qualche istante non riuscì a vedere niente, poi la polvere di marmo si depositò. Di Quarath era rimasta soltanto una massa sanguinolenta sul pavimento. Crysania, in apparenza illesa, stava fissando stordita l’elfo, il cui sangue era schizzato dappertutto sulle sue vesti bianche.

«Crysania!» urlò Tasslehoff con voce roca. Ma lei non lo sentì. Invece si voltò e s’inoltrò incespicando in mezzo alle rovine, senza vedere nulla, senza sentire nulla, salvo quella voce che adesso la chiamava più urgentemente che mai.

Alzatosi in piedi barcollando, con il corpo dolorante e pieno di lividi, Tas la rincorse. Quando furono quasi in fondo al corridoio, Tas vide Crysania girare a destra e scendere una rampa di scale.

Prima di seguirla, Tas arrischiò una rapida occhiata alle sue spalle, attirato da una terribile curiosità.

La luce sfolgorante riempiva ancora il corridoio, illuminando i corpi dei morti e dei morenti. Nelle mura del Tempio le crepe si stavano spalancando sempre più, il soffitto si afflosciava, la polvere rendeva l’aria soffocante. E in mezzo a quella luce, Tas poteva ancora udire la voce, soltanto che adesso la musica incantevole era svanita, diventando aspra, stridula, stonata...

«Gli dei stanno arrivando...»

Fuori della grande arena, correndo attraverso Istar, Caramon lottava per farsi largo attraverso le strade soffocate dalla morte. Proprio come la mente di Crysania, anche la sua udiva la voce di Raistlin. Ma non era lui che stava chiamando. No, Caramon la sentiva così come l’aveva sentita nel grembo della loro madre, udiva la voce del suo gemello, la voce del sangue.

E così Caramon non prestò nessuna attenzione alle urla dei morenti, o alle invocazioni di aiuto che si levavano da coloro che si trovavano intrappolati sotto le rovine. Non prestò nessuna attenzione a ciò che stava accadendo intorno a lui. Gli edifici gli stavano praticamente crollando addosso, le pietre grandinavano sulle strade, sfiorandolo senza colpirlo in pieno. Le sue braccia e la parte superiore del corpo cominciarono ben presto a sanguinare a causa di tanti piccoli tagli frastagliati. Le sue gambe erano ferite in cento e più punti.

Ma non si fermò, non sentì neppure il dolore. Arrampicandosi sopra le macerie, sollevando gigantesche travi di legno e scagliandole lontano dalla propria strada, Caramon avanzò lentamente attraverso le morenti strade di Istar fino al Tempio che scintillava al sole davanti a lui. Nella mano impugnava una spada macchiata di sangue.

Tasslehoff seguì Crysania giù, sempre più giù, nelle viscere stesse del suolo, o perlomeno così parve al kender. Non aveva neppure sospettato che esistessero posti del genere nel Tempio, e si chiese come avesse fatto, durante i suoi molti vagabondaggi, a non accorgersi di tutte quelle scale nascoste. Si chiese anche come Crysania potesse sapere della loro esistenza. Passava attraverso porte segrete che non erano visibili neppure agli acuti occhi da kender di Tas.

Il terremoto cessò, il Tempio tremò ancora per qualche istante, in una sorta di orrendo ricordo, poi fu come percorso da un brivido e ritornò all’immobilità. Fuori c’erano caos e morte, ma all’interno tutto era fermo e silenzioso. A Tas parve che ogni cosa al mondo trattenesse il fiato, in attesa...

Quaggiù, dovunque il quaggiù si trovasse, Tas vide assai pochi danni, forse perché era troppo in profondità nel sottosuolo. La polvere offuscava l’aria, cosicché era assai difficile respirare o vedere, e di tanto in tanto una crepa appariva sulla parete, oppure una torcia cadeva sul pavimento. Ma la maggior parte delle torce era ancora nei supporti sul muro, e continuava ad ardere, proiettando un bagliore arcano sulla polvere che ristagnava nell’aria.

Crysania non si fermò, né diede alcun segno di esitazione, ma proseguì con passo veloce, anche se ben presto Tas perse il senso dell’orientamento e finì per non avere la più pallida idea di dove si trovasse. Era riuscito a rimanere al passo con lei abbastanza facilmente, ma cominciava a sentirsi sempre più stanco e sperò che arrivassero ben presto dovunque stessero andando. Le costole gli facevano maledettamente male. Ogni respiro gli bruciava i polmoni come il fuoco, e gli pareva che le sue gambe appartenessero a un nano con i polpacci enormi e i piedi calzati nel ferro.

Seguì Crysania giù per un’altra rampa di scale marmoree, costringendo i suoi muscoli doloranti a continuare a muoversi. Una volta arrivato in fondo, Tas sollevò stancamente lo sguardo e tanto per cambiare il cuore gli si sollevò. Si trovavano in un corridoio buio e stretto che terminava, grazie al cielo, in una parete, e non proseguiva con un’altra scala!

Qui un’unica torcia ardeva infilata nel suo supporto, sopra una porta buia.

«Ma certo!» si rese conto Tas con gratitudine. «Il laboratorio di Raistlin! Doveva trovarsi qui sotto.»

Correndo in avanti, era arrivato vicinissimo alla porta, quando una grande forma scura gli piombò addosso da dietro,, facendolo cadere. Tas ruzzolò sul pavimento, il dolore nelle costole lo indusse a riprender fiato.

Il kender sollevò lo sguardo e lottando contro il dolore, colse il balenare di un’armatura dorata e il vivido riflesso della torcia sulla lama di una spada. Riconobbe il corpo bronzeo e muscoloso dell’uomo, ma il volto dell’uomo, il volto dell’uomo che avrebbe dovuto essergli così familiare, era il volto di qualcuno che Tas non aveva mai visto prima.

«Caramon?» bisbigliò, mentre l’uomo gli passava accanto come un’ondata. Ma Caramon non lo vide né lo sentì. Freneticamente Tas cercò di alzarsi in piedi.

Poi arrivò la scossa di assestamento e il terreno ondeggiò sotto i piedi di Tas. Barcollando all’indietro e addossandosi a una parete, udì un crepitio sopra di sé, e vide che il soffitto cominciava a cedere.

«Caramon!» gridò, ma la sua voce si smarrì nel fragore delle travi che gli crollarono addosso, colpendolo alla testa. Tas lottò per non perdere i sensi, malgrado il dolore. Ma il suo cervello, come se si rifiutasse cocciutamente di aver qualcosa a che fare con quell’indescrivibile caos, spense le luci, e Tas sprofondò nella tenebra.

Crysania corse senza alcuna esitazione dentro la stanza che stava molto al di sotto del Tempio. Ma nell’entrare i suoi passi zelanti titubarono. Irresoluta, lanciò un’occhiata intorno a sé, con la gola che le pulsava dolorosamente.

Aveva attraversato il Tempio così duramente colpito senza vederne gli orrori, ciecamente. Persino adesso, abbassando lo sguardo sulla propria veste chiazzata di sangue, non riusciva a ricordare come fosse successo. Ma qui, in questa stanza, le cose risaltavano con vivida chiarezza, anche se il laboratorio era illuminato soltanto dalla luce che sgorgava a fiotti da un cristallo posto in cima a un bastone magico. Guardandosi intorno, sopraffatta e sgomenta per la sensazione del male incombente, non riuscì a indursi a varcare la soglia.

D’un tratto sentì un lieve rumore e qualcosa le toccò il braccio. Allarmata, si girò di scatto, e vide creature scure, vive, informi, intrappolate e imprigionate nelle gabbie. Sentendo l’odore del suo sangue caldo, si agitavano alla luce irradiata dal bastone, ed erano state le mani protese di una di queste che aveva sentito su di sé. Rabbrividendo, Crysania si ritrasse da loro e andò a sbattere contro qualcosa di solido.

Era una bara aperta che conteneva il corpo di quello che un tempo avrebbe potuto essere un giovane. Ma la pelle era tesa sulle sue ossa come pergamena, la sua bocca era aperta in un urlo silenzioso e orrendo. Il suolo sobbalzò sotto i suoi piedi, e il corpo nella bara rimbalzò verso l’alto, incontrollato, fissandola dalle occhiaie vuote.

Crysania gemette, ma nessun suono le uscì dalla gola, il suo corpo era raggelato nel sudore freddo.

Stringendosi la testa fra le mani tremanti, strinse le palpebre per non vedere quell’orribile spettacolo. Il mondo cominciò a scivolare via, poi sentì una voce sommessa.

«Vieni, mia cara,» disse la voce che era stata nella sua mente. «Vieni. Con me sei al sicuro, adesso. Le creature create dal Male di Fistandantilus non possono agire contro di te mentre sono qui io.»

Crysania sentì la vita ritornarle nel corpo. La voce di Raistlin le dava conforto. La nausea passò, il suolo smise di tremare, la polvere si depositò. Il mondo piombò in un silenzio di morte.

Grata, Crysania aprì gli occhi. Vide Raistlin a una certa distanza da lei, che la fissava dalle ombre della sua testa incappucciata, con gli occhi che luccicavano del riflesso del bastone magico. Ma mentre lo guardava, Crysania intravide le forme che si contorcevano nelle gabbie. Tremando, tenne lo sguardo fisso sul pallido volto di Raistlin.

«Fistandantilus?» chiese attraverso le labbra aride. «Ha costruito questo?»

«Sì, questo laboratorio è suo,» rispose Raistlin freddamente. «Lo ha creato molti, moltissimi anni or sono. All’insaputa di tutti i chierici ha utilizzato la sua grande magia per rintanarsi sotto il Tempio come un verme, divorando la solida roccia, plasmandola in forma di sale e di porte segrete, lanciando incantesimi su di esse, cosicché pochi sapevano della loro esistenza.»

Crysania vide un sorriso sardonico disegnarsi sulle labbra sottili di Raistlin, quando si girò verso la luce.

«L’ha mostrato a pochi nell’arco degli anni. Soltanto a un manipolo di apprendisti è stato permesso di condividere il segreto.» Raistlin scrollò le spalle. «E nessuno di questi è vissuto per poterlo raccontare.» La sua voce si ammorbidì. «Ma poi Fistandantilus commise un errore. Lo mostrò a un giovane apprendista. Un giovane fragile, brillante, dalla lingua sferzante, il quale osservò e mandò a memoria ogni svolta e ogni angolo dei corridoi nascosti, e studiò ogni parola di ogni incantesimo che rivelava porte segrete, recitandole più e più volte, affidandole alla memoria prima di coricarsi, notte dopo notte. E così noi ci troviamo qui, tu ed io, al sicuro, almeno per il momento, dalla collera degli dei.»

Con un movimento della mano invitò Crysania a raggiungerlo in fondo alla stanza, accanto a una grande scrivania di legno decorato da sculture. Su di essa era appoggiato un libro d’incantesimi rilegato in argento che Raistlin stava leggendo quando lei era arrivata. Un cerchio di polvere d’argento era stato disegnato intorno alla scrivania. «Sì, tieni gli occhi su di me. L’oscurità non è poi così terrificante, dopotutto, non è vero?»

Crysania non potè rispondere. Si rese conto di avergli permesso ancora una volta, nella sua debolezza, di leggere nei suoi occhi più di quanto avrebbe voluto che lui vedesse. Arrossendo, si affrettò a distogliere lo sguardo.

«So... sono rimasta sorpresa. È tutto,» disse. Ma non potè fare a meno di reprimere un brivido quando lanciò una nuova occhiata verso la bara. «Cos’è... o cos’era... quello?» bisbigliò inorridita.

«Uno degli apprendisti di Fistandantilus, senza dubbio,» rispose Raistlin. «Il mago gli ha succhiato la forza vitale per allungare la propria vita. Era qualcosa che faceva... di frequente.»

Raistlin tossì, i suoi occhi s’incupirono come a un terribile ricordo, e Crysania vide uno spasimo di paura e di dolore passargli sopra la faccia solitamente impassibile. Ma prima che potesse chiedere altre cose, si udì lo schianto della porta che andava in frantumi. Il mago vestito di nero riguadagnò rapidamente la sua compostezza. Sollevò gli occhi e andò con lo sguardo al di là di Crysania.

«Ah, entra, fratello mio. Stavo giusto pensando alla Prova, il che naturalmente mi ha indotto a ricordarmi di te.»

Caramon! Sul punto di svenire per il sollievo, Crysania si voltò per dare il benvenuto all’omone e alla sua solida e rassicurante presenza, al suo volto benevolo e gioviale. Ma le parole di benvenuto le morirono sulle labbra, inghiottite dall’oscurità che pareva esser diventata ancora più fitta con l’arrivo del guerriero.

«Parlando di Prove, sono contento che tu sia sopravvissuto alla tua, fratello,» disse Raistlin, il sorriso sardonico gli era tornato un’altra volta sulle labbra. «Questa dama,» lanciò un’occhiata a Crysania, «avrà bisogno di una guardia del corpo là dove stiamo per andare. Non so dirti cosa significhi per me avere qualcuno che conosco e di cui posso fidarmi.»

Crysania si ritrasse davanti a quel terribile sarcasmo, e vide Caramon sussultare come se le parole di Raistlin fossero state tanti minuscoli aculei avvelenati che gli erano stati lanciati contro, penetrandogli nella pelle. Ma il mago non parve accorgersene, o forse la cosa non gì’importava.

Stava leggendo il libro degli incantesimi aperto sulla scrivania, mormorando parole sommesse e tracciando simboli nell’aria con le mani sottili.

«Sì, sono sopravvissuto alla tua prova,» replicò Caramon con calma. Entrò nella stanza e venne illuminato dalla luce del bastone. Crysania trattenne il fiato per la paura.

«Raistlin!» gridò, arretrando da Caramon, quando l’omone avanzò lentamente, con in pugno la spada insanguinata. «Raistlin, guarda!» esclamò Crysania, incespicando contro la scrivania accanto alla quale si trovava il mago, entrando senza saperlo dentro il cerchio di polvere d’argento. Alcuni granelli di polvere rimasero appiccicati al fondo della sua veste, scintillando alla luce del bastone.

Irritato da quell’interruzione, il mago levò lo sguardo.

«Sono sopravvissuto alla tua prova,» ripetè Caramon, «come tu sei sopravvissuto alla Prova della Torre. Là hanno infranto il tuo corpo. Qui tu hai infranto il mio cuore. Adesso al suo posto non c’è nulla, soltanto un gelido vuoto, nero come le tue vesti. E come la lama di questa spada, è intriso di sangue. Un povero, sventurato minotauro è morto trafitto da questa lama. Un amico ha dato la sua vita per me, un’amica è morta fra le mie braccia. Hai mandato il kender a morire, non è vero? E quanti altri sono morti per portare avanti i tuoi malvagi disegni?». La voce di Caramon divenne un letale bisbiglio.

«Questo mette la parola fine a tutto, fratello mio. Nessun altro morirà per causa tua. Salvo uno, io stesso. È giusto, non è vero, Raist? Siamo venuti al mondo insieme, e insieme lo lasceremo.»

Fece un altro passo avanti. Raistlin parve sul punto di parlare, ma Caramon lo interruppe.

«Non puoi usare la tua magia per fermarmi, non questa volta. Conosco questo incantesimo che intendi lanciare. So che richiederà tutta la tua potenza, tutta la tua concentrazione. Se userai anche la più piccola frazione di magia contro di me, non avrai più la forza per lasciare questo posto, e il mio scopo sarà stato ugualmente raggiunto. Se non morirai per mano mia, morirai per mano degli dei.»

Raistlin fissò suo fratello senza fare nessun commento, poi, scrollando le spalle, tornò a leggere il suo libro. Fu soltanto quando Caramon fece un altro passo avanti, e Raistlin sentì sferragliare l’armatura dorata, che il mago sospirò per l’esasperazione e levò lo sguardo sul suo gemello. I suoi occhi, che luccicavano dalle profondità del cappuccio, parevano gli unici punti di luce della stanza.

«Ti sbagli, fratello mio,» disse Raistlin con voce sommessa. «C’è un altro che morirà.» Il suo sguardo simile a uno specchio andò a Crysania, che era rimasta sola fra i due fratelli, con le vesti bianche che spiccavano nel buio.

Gli occhi di Caramon s’intenerirono per la pietà quando anche lui guardò Crysania, ma la determinazione sulla sua faccia non vacillò. «Gli dei la prenderanno con loro,» disse, misurando le parole. «Lei è un vero chierico. Nessuno dei veri chierici è morto nel Cataclisma. È per questo che Par-Salian l’ha mandata indietro nel tempo.» Tendendo la mano, indicò. «Guarda, la ce n’è uno che aspetta.»

Crysania non ebbe bisogno di voltarsi a guardare. Sentiva la presenza di Loralon.

«Vai da lui, Reverenda Figlia,» le disse Caramon. «Il tuo posto è alla luce, non qui nell’oscurità.»

Raistlin non disse niente, non fece movimenti di alcun genere; si limitò a rimanere in silenzio alla scrivania, con la mano sottile appoggiata sul libro degli incantesimi.

Crysania non si mosse. Le parole di Caramon le martellavano nella mente come le ali delle creature malefiche che svolazzavano intorno alla Torre dell’Alta Stregoneria. Udì le parole, ma per lei non avevano alcun significato. Tutto quello che poteva vedere era se stessa, che reggeva nella mano quella luce splendente guidando il popolo. La Chiave... il Portale... Vide Raistlin che teneva in mano la Chiave, lo vide che le faceva segno di avvicinarsi. Ancora una volta sentì il tocco delle labbra di Raistlin che le ardeva sulla fronte.

Una luce tremolò e si spense. Loralon se n’era andato.

«Non posso,» cercò di dire Crysania, ma non si udì nessuna voce. Non ce n’era bisogno. Caramon comprese. Esitò, fissandola per un unico, lungo istante, poi sospirò.

«Così sia,» disse infine Caramon, con freddezza, mentre anche lui avanzava nel cerchio d’argento.

«Un’altra morte non significherà molto per nessuno di noi due, adesso, non è vero, fratello mio?»

Crysania fissava affascinata la spada insanguinata che risplendeva alla luce del bastone.

L’immaginò con grande chiarezza che le trafiggeva il corpo e, sollevando lo sguardo e guardando Caramon negli occhi, vide che anche lui s’immaginava la stessa cosa ma che neppure questo l’avrebbe fatto desistere. Lei non era niente per lui, neppure un essere umano vivente che respirava.

Era soltanto un ostacolo sulla sua strada, che le impediva di arrivare al suo vero obbiettivo, suo fratello.

Che terribile odio! pensò Crysania e poi, guardando nelle profondità di quegli occhi che adesso erano così vicini ai suoi, ebbe un improvviso lampo d’intuizione: che terribile amore!

Caramon le si lanciò addosso con una mano protesa, pensando di afferrarla e di scagliarla da parte.

Spinta dal panico, Crysania schivò la sua stretta, barcollando all’indietro e finendo addosso a Raistlin il quale non fece nessun movimento per toccarla. La mano di Caramon ghermì soltanto una manica della sua veste lacerandogliela e stappandola via. In preda al furore, Caramon scagliò a terra il bianco tessuto, e adesso Crysania seppe di dover morire. Ma continuò a interporre il proprio corpo fra quello di Raistlin e suo fratello.

La spada di Caramon balenò.

Disperata, Crysania strinse il medaglione di Paladine che le cingeva la gola.

«Fermo!». Urlò quell’ordine nel medesimo istante in cui chiudeva gli occhi per la paura. Il suo corpo si ritrasse in attesa del terribile dolore dell’acciaio che le lacerava le carni. Poi udì un gemito e il tonfo metallico di una spada che cadeva sul pavimento di pietra. Il sollievo la invase e fu colta da una debolezza improvvisa; fu sul punto di svenire. Singhiozzando, sentì che stava per cadere.

Ma mani snelle e agili l’afferrarono; braccia sottili e muscolose la strinsero, una voce sommessa pronunciò il suo nome in tono di trionfo. Fu avvolta da una calda oscurità, vi affogò dentro, affondando sempre più in basso. E sentì bisbigliare al suo orecchio le parole della strana lingua della magia. Come mani o ragni che l’accarezzassero, le parole strisciarono sopra il suo corpo. Il salmodiare delle parole divenne sempre più forte, la voce di Raistlin sempre più alta. La luce argentea avvampò, poi scomparve. La stretta del braccio di Raistlin intorno a Crysania si serrò ancor più nell’estasi, e si sentì roteare, imprigionata in quell’estasi, vorticando via insieme a lui in mezzo alla tenebra.

Gli mise le braccia intorno alle spalle, gli appoggiò la testa sul petto e si lasciò affondare nella tenebra. Mentre cadeva, le parole della magia si mescolarono al canto del suo sangue e al canto delle pietre del Tempio...

E in mezzo a tutto questo, una singola nota discordante: un gemito aspro e straziante.

Tasslehoff Burrfoot sentì le pietre che cantavano, ed esibì un sorriso sognante. Ricordò di essere un topo che zampettava in mezzo alla polvere d’argento mentre le pietre cantavano...

Tas si risvegliò all’improvviso. Giaceva su un freddo pavimento di marmo, coperto di polvere e di macerie. Sotto di lui il suolo aveva ricominciato a tremare e a fremere. Tas seppe, a causa della strana e insolita sensazione di paura che andava crescendo dentro di lui, che stavolta gli dei facevano sul serio. Stavolta il terremoto non sarebbe finito.

«Crysania! Caramon!» gridò Tas, ma sentì rispondergli soltanto l’eco della sua voce stridula, che rimbalzò cavernosa dalle pareti sussultanti.

Alzandosi in piedi barcollante, ignorando il dolore alla testa, Tas vide che la torcia ardeva ancora sopra la stanza buia dentro la quale Crysania era entrata... quella parte dell’edificio sembrava non essere stata toccata dai sussulti convulsi del suolo.

Magia, pensò Tas vagamente, entrando nella stanza e riconoscendo cose stregonesche. Cercò segni di vita, ma vide soltanto le orrende creature imprigionate nelle gabbie che si scagliavano contro gli sportelli delle loro celle, sapendo che la fine della loro torturata esistenza era vicina, ma per nulla disposte a rinunciare alla vita, non importava quanto fosse dolorosa.

Tas si guardò intorno con occhi spiritati. Dov’erano mai andati tutti? «Caramon?» chiamò, con un filo di voce. Ma non vi fu nessuna risposta, soltanto un lontano borbottìo a mano a mano che i tremiti del terreno si intensificavano. Poi, alla vaga luce della torcia esterna, Tas intravide un luccichio metallico sul pavimento, vicino a una scrivania. Attraversando il pavimento con passo barcollante, Tas riuscì a raggiungerlo.

La sua mano si chiuse sull’elsa di una spada da gladiatore. Appoggiandosi alla scrivania per sorreggersi, Tas fissò la lama d’argento coperta di nere macchie di sangue. Poi sollevò qualcos’altro che si trovava sul pavimento sotto la spada: i resti d’un tessuto bianco. Vide dei ricami dorati raffiguranti il simbolo di Paladine luccicare opachi al bagliore della torcia. C’era un cerchio di polvere sul pavimento, polvere che un tempo avrebbe potuto essere stata d’argento ma che adesso era bruciata ed annerita.

«Se ne sono andati,» esclamò Tas con voce sommessa, rivolto alle farfuglianti creature chiuse nelle gabbie. «Se ne sono andati... sono rimasi tutto solo.»

Un improvviso sussulto del terreno fece cadere il kender carponi sul pavimento. Vi fu uno schiocco lacerante, così forte che quasi lo assordò. Le rocce si spezzarono, le fondamenta del Tempio si divisero.

E poi il Tempio stesso andò in frantumi. Le mura andarono in pezzi. I marmi si squarciarono. I diversi piani esplosero l’uno dopo l’altro, come i petali d’una rosa che si dischiudono alla luce del mattino... una rosa, questa, che sarebbe morta al calar della notte. Il kender seguì con lo sguardo quel terribile processo fino a quando vide la torre stessa del Tempio spaccarsi in due e crollare al suolo con uno schianto più devastante di un terremoto.

Incapace di muoversi, protetto dai potenti incantesimi delle tenebre lanciati da un mago malefico morto da tempo, Tas rimase nel laboratorio di Fistandantilus con lo sguardo levato al firmamento.

E vide che dal cielo cominciava a piovere fuoco.

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