PARTE QUARTA Discesa

«Le ricerche hanno portato alla conclusione che l'uomo, al di sotto di un preciso sublivello o metalivello, non è più in grado di riconoscere l'intelligenza come tale. Concepisce come intelligenza solo ciò che si muove nella cornice del suo stesso comportamento. Oltre quella cornice, nel microcosmo, appunto, semplicemente non la può vedere. La stessa cosa accadrebbe con un'intelligenza di grandi dimensioni, uno spirito molto esteso: l'uomo vedrebbe solo il caos, perché non riuscirebbe a districare quelle complesse connessioni. Le decisioni di una simile intelligenza gli rimarrebbero del tutto incomprensibili, giacché i parametri su cui essa si fonda supererebbero la sua capacità di elaborazione. Anche un cane vede nell'uomo solo il potere cui si sottopone, non lo spirito. I comportamenti umani gli sembrano privi di senso, perché noi agiamo sui fondamenti della riflessione, i quali superano le capacità percettive del cane. Allo stesso modo, non potremmo percepire Dio — ammesso che esista — in quanto intelligenza, dato che il suo pensiero deve poggiare su una riflessione totale, la cui complessità ci è completamente preclusa. Come conseguenza, Dio ai nostri occhi appare caotico e quindi serve soltanto a far vincere la locale squadra di calcio o a sventare una guerra. Un essere simile si trova ben oltre i confini estremi della capacità di comprensione umana. Cosa che, a sua volta, spinge a porsi una domanda: da parte sua. Dio è in grado di cogliere l'intelligenza del nostro sottolivello? Forse siamo solo un esperimento in una provetta…»

Dal diario di Samantha Crowe

Deepflight

Ma Anderson non lo colpì.

Qualche secondo prima, i delfini avevano avvisato della presenza di un oggetto sconosciuto e l'equipaggio dell'Independence era stato messo in stato di massima allerta. Subito dopo, anche i sistemi sonar avevano segnalato che qualcosa di forma e dimensioni indeterminate si stava avvicinando rapidamente. Non faceva rumore come un siluro e non si riusciva a identificare la fonte da cui proveniva.

Gli uomini sul ponte e quelli agli strumenti di controllo erano molto preoccupati, non solo perché quella cosa si avvicinava a velocità crescente e senza fare il minimo rumore, ma anche perché saliva verticalmente dagli abissi. Fissavano i monitor e, dalle tenebre, videro sbucare qualcosa di rotondo, che emetteva una luce bluastra. Quindi prese forma una sfera tremolante, da un diametro di oltre dieci metri, che si avvicinò, diventando sempre più grande.

Quando Buchanan diede ordine di sparare contro quella cosa sconosciuta, era ormai troppo tardi.

La sfera esplose proprio sotto lo scafo.

Durante gli ultimi minuti, il gas all'interno si era ulteriormente dilatato, accelerando la salita. Quella palla di gelatina sottile, tesa fino a scoppiare e giunta a tutta velocità, improvvisamente si strappò nella parte superiore, si aprì e rimase come uno straccio svolazzante. Il gas liberato vorticò verso la superficie e trascinò con sé qualcosa di grande e squadrato.

Il Deepflight affondato sfrecciava verso l'Independence, con la prua in avanti, e conficcò i siluri nello scafo della nave.

Quell'attimo si dilatò per un'eternità.

Poi seguì l'esplosione.


Ponte di comando

La nave gigantesca tremò.

Buchanan, che aveva visto avvicinarsi la disgrazia, era sul ponte di comando e si mantenne a fatica in equilibrio aggrappandosi al tavolo delle carte. Altri non trovarono nulla cui afferrarsi e caddero a terra. Nelle sale di controllo al di sotto dell'isola, la nave vibrò talmente che i monitor si frantumarono e altre apparecchiature volarono in aria. Nel CIC, Samantha e Shankar furono strappati via dalle loro sedie. Nel giro di un secondo, sull'Independence scoppiò il caos più totale. Il suono penetrante dell'allarme, entrato immediatamente in funzione, si mischiò alle urla; si sentirono stridii e boati, mentre un rombo si espandeva Lungo i corridoi, le sale e i livelli.

Pochi secondi dopo l'impatto, la maggior parte dei mangiapetrolio, com'erano chiamati nel gergo della Marina i tecnici delle caldaie e della trasmissione, era morta. L'esplosione aveva aperto una falla gigantesca nei punto di confine tra lo spazio di carico e la sala macchine, dotata di due turbine a gas LM-2500. Lo scafo venne squarciato per una lunghezza di venti metri. L'acqua entrò con violenza inaudita, travolgendo quelli che non erano stati uccisi dall'esplosione del batiscafo. Chi era riuscito a sopravvivere e cercava di sfuggire a quell'inferno doveva fare i conti con le paratie, che si stavano chiudendo. L'unica strada per salvare l'Independence era impedire un'ulteriore espansione della falla, il che voleva dire sacrificare le persone che stavano nel ventre della nave, chiudendole insieme con la mugghiante massa d'acqua.


Elevatore esterno

La piattaforma subì un violento scossone. Balzò in alto come un'altalena e scagliò Floyd Anderson al di sopra di Johanson. Il primo ufficiale mulinava le braccia, allungando le dita, ma lì non c'era nulla cui aggrapparsi. Spiccò un salto che, in altre circostanze, sarebbe stato comico. Poi sbatté la fronte sulla piattaforma, si girò sulla schiena e rimase immobile, con gli occhi sbarrati.

Vanderbilt barcollò. La pistola gli cadde e scivolò via, fermandosi a pochi centimetri dal bordo. Vide Johanson che cercava di rialzarsi a fatica, corse verso di lui e lo colpì nelle costole. Lo scienziato si rovesciò su un fianco con un grido soffocato. Vanderbilt non aveva la minima idea di cosa fosse successo, ma si rendeva conto che doveva essere qualcosa di molto grave. Tuttavia l'incarico prevedeva di eliminare Johanson e lui era fermamente deciso a portarlo a termine. Si chinò per attaccare l'uomo, gemente e sanguinante, disteso sulla piattaforma e gettarlo oltre le reti di protezione, ma qualcuno gli saltò addosso, bloccandolo.

«Maledetto bastardo!» gridò Anawak.

Vanderbilt fu tempestato da una scarica di colpi e indietreggiò. Ebbe bisogno di qualche istante per riprendersi dallo sbigottimento. Sollevò le braccia per proteggersi la testa, scartò di lato e colpì l'aggressore con un calcio nella rotula.

Anawak vacillò, chinandosi in avanti. Allora Vanderbilt spostò il proprio baricentro. Era corpulento e sembrava goffo e impacciato, però non era affatto così. Il vice direttore della CIA aveva frequentato tutti i corsi possibili di attacco e autodifesa e, nonostante il suo quintale di peso, riusciva anche a fare qualche salto di notevole portata. Prese la rincorsa, si catapultò in aria e atterrò con gli stivali contro lo sterno di Anawak, che cadde sulla schiena. La sua bocca si aprì, ma non uscì nessun suono. Vanderbilt sapeva che gli mancava il fiato. Si chinò su di lui, lo afferrò per i capelli, lo sollevò e gli affondò il gomito nel plesso solare.

Per il momento poteva bastare. Doveva tornare da Johanson. Buttarlo in mare e spedirgli Anawak al seguito.

Quando si alzò, vide Greywolf venire verso di lui.

Vanderbilt si mise in posizione di attacco. Girò sul proprio asse con la gamba destra tesa, sferrò il calcio e rimbalzò.

Che storia è mai questa? pensò, sbigottito. Tutti gli altri erano finiti a terra o si stavano contorcendo dal dolore. Quel gigantesco mezzo indiano, invece, non aveva fatto neanche una piega. Nei suoi occhi c'era un'espressione inequivocabile. Di colpo, Vanderbilt comprese che doveva vincere quel duello, altrimenti non sarebbe sopravvissuto. Incrociò le braccia per assestare il colpo, lo sferrò e sentì che il suo pugno veniva tranquillamente deviato. Un attimo dopo, la mano sinistra di Greywolf affondò nel suo doppio mento. Vanderbilt cercò di colpirlo coi piedi, ma l'altro, con una mossa disinvolta, lo trascinò con sé verso il bordo. Poi lo sollevò e lo colpì.

Il campo visivo di Vanderbilt esplose.

Tutto divenne rosso. Sentì il setto nasale che si rompeva. Il colpo successivo gli frantumò lo zigomo sinistro. Dalla sua gola uscì un grido gorgogliante. Un nuovo pugno si conficcò in mezzo alla mascella. I denti saltarono via. Ormai Vanderbilt urlava a pieni polmoni, per il dolore e per la rabbia. Era fuori di sé. Si trovava nella morsa del gigante e non poteva fare nulla per evitare che il suo viso fosse ridotto in poltiglia.

Le gambe cedettero.

Greywolf lo lasciò e lui cadde lungo disteso. Non vedeva più granché: un po' di cielo e l'asfalto grigio della piattaforma coi segni verniciati di giallo, il tutto attraverso una cortina di sangue, e là, vicinissima, l'arma. Allungò la destra, riuscì a prenderla, strinse l'impugnatura. Sollevò l'arma e sparò.

Per un momento regnò il silenzio.

L'aveva preso? Sparò un'altra volta, ma quel colpo andò in aria. Il suo braccio era stato piegato all'indietro. Per un attimo scorse Anawak, poi la pistola gli venne sottratta. Infine vide di nuovo gli occhi di Greywolf, iniettati d'odio.

Il dolore lo attraversò come una scossa elettrica.

Cos'era successo? Non era più appoggiato sulla schiena, ma verticale. O era sospeso? In effetti non sapeva più dov'erano il sopra e il sotto. Volò all'indietro. Attraverso una nebbia di sangue, riconobbe la piattaforma. Là c'era il bordo. Perché era oltre il bordo? Vide che esso gli passava davanti e si allontanava verso l'alto, insieme con le reti di protezione.

Allora Vanderbilt comprese che la sua vita era finita.

Il freddo lo colpì come uno shock.

Spuma che spruzzava verso l'alto. Verde striato dalla schiuma, bolle, tante bolle. Incapace di muoversi, Vanderbilt affondava. L'acqua del mare gli lavò il sangue dagli occhi. La nave non c'era più. In realtà non c'era più nulla, a parte un verde senza contorni che diventava sempre più scuro. E un'ombra.

Era veloce.

E aveva una bocca che si spalancava proprio davanti a lui.

Poi non ci fu davvero più nulla.


Laboratorio

«Per l'amor del cielo, che sta facendo?»

«Lo lasci andare.»

Le parole risuonavano nella testa di Karen. Erano la domanda fatta con orrore da Peak e il brusco ordine di Judith Li, appena prima che il laboratorio fosse scosso con incredibile violenza. Al rombo dell'esplosione era seguito un rumore indescrivibile, come se la nave si stesse sfasciando. Karen cadde, trascinando con sé Rubin. Finirono dietro il tavolo in una confusione di strumenti e contenitori. La sala rimbombava. Vibrava tutto. I vetri esplodevano. Karen pensò al laboratorio di massima sicurezza e sperò che l'isolamento di vetro corazzato e la paratia a tenuta stagna reggessero. Strisciando, si allontanò da Rubin, che stava rotolando e si guardava intorno, allucinato.

Lo sguardo di Karen cadde sulla valigetta con le provette. Era scivolata proprio davanti ai suoi piedi. L'aveva vista anche Rubin.

Per un attimo, ciascuno dei due valutò le proprie possibilità. Poi Karen si catapultò in avanti, ma Rubin fu più veloce. Afferrò la valigetta, saltò in piedi e corse attraverso la sala. Karen fu costretta a lasciare il suo rifugio. Doveva assolutamente recuperare la valigetta; non importava quello che sarebbe successo e quali conseguenze ci sarebbero state. Doveva fermare il piano di Judith Li.

Due soldati erano finiti a terra. Uno non si muoveva, l'altro si stava rialzando a fatica. Il terzo soldato era rimasto in piedi e teneva sempre l'arma spianata. Judith Li si chinò per prendere il mitra dell'uomo immobile, un massiccio aggeggio nero. Un istante dopo, scorse Karen.

Peak era appoggiato alla porta chiusa, rigidissimo. «Karen!» gridò. «Si fermi! Non le succederà niente! Si fermi, maledizione!»

Le raffiche dell'arma coprivano la sua voce. Karen fece un balzo felino dietro un bancone. Non sapeva con che cosa le stesse sparando Judith Li, ma i colpi sfasciavano il tavolo come se fosse stato di cartone. Schegge di vetro le passarono vicino alle orecchie e un microscopio da mezzo quintale si sfracellò a terra vicino a lei. In quell'inferno di rumori, c'era anche il suono lamentoso dell'allarme di bordo. Improvvisamente, Karen vide Rubin che, con gli occhi sgranati per il terrore, correva verso di lei.

«Mick», gridò Judith Li. «Idiota! Venga qui.»

Karen uscì dal suo nascondiglio, si lasciò cadere sull'uomo e gli strappò la valigetta. Nello stesso istante, la nave tremò di nuovo e la sala sembrò piegarsi. Rubin scivolò sul pavimento, finì contro uno scaffale e lo rovesciò. Fu martellato da una pioggia di provette e vetri. Lanciò un grido e, appoggiato sulla schiena, cominciò a zampettare come uno scarafaggio. Con la coda dell'occhio, Karen vide Judith agitare l'arma e il terzo soldato saltare oltre il tavolo distrutto. Anche lui aveva uno di quegli imponenti aggeggi neri e lo aveva sollevato già durante il salto.

Non c'erano vie di fuga. Quindi Karen si lasciò cadere vicino a Rubin.

«Non sparare!» sentì dire a Judith Li. «È troppo…»

Il soldato fece fuoco e la mancò. Con un suono simile a quello di un gong, i proiettili si conficcarono nel vetro blindato del simulatore di abissi marini e solcarono il vetro ovale da sinistra a destra.

Improvvisamente calò un silenzio inquietante. Solo l'allarme diffondeva a intervalli regolari il suo suono gracchiante. Come stregati, tutti fissavano la cisterna. Karen sentì un unico, altissimo scricchiolio. Allora girò la testa e vide delle crepe sulla grande superficie di vetro.

Le crepe diventavano sempre di più.

«Mio Dio», gemette Rubin.

«Mick!» gridò Judith. «Si muova! Venga qui!»

«Non posso», piagnucolò lui. «La mia gamba… Sono bloccato.»

«Fa lo stesso», lo interruppe la donna. «Non abbiamo più bisogno di lei. Andiamo via.»

«Non può…» iniziò a dire Rubin.

«Sal, apra la porta!»

Non si seppe mai se Peak avesse intenzione di ribattere qualcosa. Il vetro si frantumò, con uno schianto assordante. Tonnellate di acqua marina si riversarono su di loro. Karen balzò via. Dietro di lei, l'acqua invase nel laboratorio e distrusse tutto ciò che non era già stato frantumato.

«Karen!» Era Rubin. «La prego, non mi lasci qui…»

La sua voce divenne un gorgoglio. La donna vide Peak zoppicare fuori dal laboratorio, con Judith al seguito. Nell'uscire, lei batté con la mano in un punto vicino alla porta e, con rinnovato orrore, comprese che cosa significava.

Judith voleva chiuderla dentro.

L'ondata la colpì alle spalle e la spinse in avanti, facendola cadere sulle ginocchia. Era fradicia fino alle ossa, ma stringeva a sé la valigetta con le provette. Boccheggiando e lottando per non essere risucchiata via, cercò di raggiungere la porta che si stava chiudendo lentamente, fece gli ultimi metri con un unico balzo, sbatté contro l'intelaiatura e arrivò sulla rampa.


Elevatore esterno

Greywolf e Anawak aiutarono Johanson a rialzarsi. Benché fosse stato duramente colpito, era cosciente.

«Dov'è Vanderbilt?» mormorò.

«A pescare», rispose Greywolf.

Anawak si sentiva come se fosse finito sotto un treno. Il punto in cui Vanderbilt l'aveva colpito col gomito gli doleva al punto che riusciva appena a stare in piedi. «Jack», ripeteva. «Mio Dio, Jack.» Greywolf l'aveva salvato. Ormai sembrava una tradizione. «Come mai sei venuto qui?»

«Ero stato un po' brusco», disse Greywolf. «Volevo scusarmi.»

«Brusco? Ma sei pazzo? Non hai niente di cui doverti scusare.»

«Mi sembra sia stato un bene che si volesse scusare», ansimò Johanson.

Greywolf fece un sorriso tirato. Il suo viso color rame era impallidito. Che gli sta succedendo? Si chiese Anawak. Le spalle di Greywolf si piegarono in avanti, le sue palpebre vibrarono…

Improvvisamente Anawak vide che la T-shirt di Greywolf era piena di sangue. Per un attimo s'illuse che fosse quello di Vanderbilt, poi si rese conto che la macchia si allargava e che il sangue usciva dal ventre di Greywolf. Allungò le braccia per afferrare il gigante, ma, in quel momento, un nuovo rimbombo arrivò dalla pancia dell'Independence. La nave ondeggiò e Johanson gli barcollò addosso. Greywolf si rovesciò in avanti e sparì oltre il bordo.

«Jack!»

Cadde sulle ginocchia e scivolò verso il punto in cui l'amico era sparito. Greywolf era caduto in una rete e guardava verso di lui. Il mare sotto infuriava.

«Jack, dammi la mano.»

Greywolf non si mosse. Fissava Anawak con le mani premute contro il ventre. Tra le sue dita sgorgava il sangue.

Vanderbilt! Quel maledetto bastardo l'aveva colpito.

«Jack, andrà tutto bene.» Sembrava la battuta di un film. «Dammi la mano. Ti tiro su. Ne usciremo, vedrai.»

Di fianco a lui, strisciando, era arrivato Johanson. Si mise bocconi e cercò di raggiungere la rete, ma era troppo in basso.

«In un modo o nell'altro devi venire su», gridò Anawak, disperato. Poi prese una decisione. «No, resta lì. Vengo giù io. Io ti sollevo e Sigur ci aiuta da sopra.»

«Scordatelo», ansimò Greywolf, a fatica.

«Jack…»

«È meglio così.»

«Non dire stronzate», sbottò Anawak. «Non voglio neppure sentirle, quelle scemenze da film. 'Lasciatemi qui', 'Non preoccupatevi per me', eccetera.»

«Leon, amico mio…»

«No! Ho detto di no.»

Dalla bocca di Greywolf sgorgò una sottile striscia di sangue. «Leon…» Sorrise. D'un tratto sembrò completamente rilassato.

Poi, con un colpo, si sollevò, si fece rotolare oltre la rete e cadde tra le onde.


Laboratorio

Rubin non vedeva né sentiva più nulla. L'acqua che usciva dalla cisterna infuriava su di lui. Si chiedeva cosa mai fosse successo negli ultimi secondi. La situazione era sfuggita di mano. Poi, improvvisamente, si rese conto che la massa vorticosa d'acqua aveva sollevato lo scaffale e la gamba si era liberata. Così riemerse, sputacchiando.

Grazie a Dio, hai superato il peggio, pensò.

L'acqua del simulatore non sarebbe bastata per sommergere il laboratorio. Era tanta, però, non appena si fosse dispersa in tutta la sala, non sarebbe stata più alta di un metro.

Si strofinò gli occhi.

Dov'era Judith Li?

Di fianco a lui galleggiava il corpo di un soldato. L'altro, ancora completamente intontito, era uscito dall'acqua più in là, in fondo alla sala.

Judith Li se n'era andata.

L'avevano lasciato lì.

Sbigottito, Rubin fissò la porta chiusa. A poco a poco, la mente gli si snebbiò. Doveva uscire da lì. Nella nave era esploso qualcosa, probabilmente stavano affondando. Se non avesse raggiunto uno spazio aperto nel giro di pochi minuti, la situazione rischiava di diventare molto difficile.

Intorno a lui cominciò a splendere una luce.

C'erano dei lampi.

Di colpo gli venne in mente che nella cisterna non c'era solo l'acqua. Cercò di alzarsi, scivolò e cadde all'indierro. L'acqua sprizzò. Rubin finì con la testa sotto la superficie, remò con le mani e sentì che qualcosa opponeva resistenza.

Qualcosa di liscio. Di mobile.

Davanti ai suoi occhi comparvero dei lampi, poi non riuscì più a prendere aria perché la gelatina gli stava coprendo il viso. Come impazzito, Rubin cercò di strapparla via, ma non riusciva ad afferrare quella sostanza. Scivolava ovunque e, se riusciva a prenderla in mano, essa cambiava forma all'istante oppure si scioglieva. Inoltre continuava ad arrivarne altra.

No, pensò. No! No!

Aprì la bocca e sentì che quella sostanza gli stava strisciando dentro. Perse completamente il lume della ragione. Una sottile propaggine serpeggiò nell'esofago, altre gli penetrarono nelle narici. Lui soffocava, dava colpi all'intorno… Poi sentì un dolore incredibile alle orecchie, come se un boia vi stesse conficcando spietatamente dei coltelli. Un ultimo, limpido pensiero gli disse che la gelatina era diretta nel suo cranio.

Dal momento della disgrazia nel ponte a pozzo Rubin aveva continuato a chiedersi se l'organismo esaminava il cervello umano per curiosità o perché avesse qualche intenzione precisa, oppure se lo facesse per abitudine. Da milioni di anni s'infilava in tutto ciò che, dal suo punto di vista, meritava di essere esaminato…

Poi non si chiese più niente.


Greywolf

Che pace. Che tranquillità.

Probabilmente Vanderbilt aveva provato altre sensazioni. Aveva avuto paura. La sua morte era stata orribile, com'era giusto che fosse. Senza la paura era un'altra cosa.

Gieywolf sprofondava nell'abisso.

Tratteneva il fiato. Nonostante il tremendo dolore al ventre, voleva tenere il fiato il più a lungo possibile. Ma non perché credesse che ciò gli avrebbe allungato la vita. Quello era l'ultimo atto di volontà, di controllo. Sarebbe stato lui a determinare quando l'acqua gli sarebbe entrata nei polmoni.

Alicia era là sotto. Tutto quello che aveva voluto, quello che era stato importante per lui si trovava sott'acqua. Dunque era logico che pure lui seguisse quella strada. Era inevitabile.

Se nel tempo della tua vita sei stato un uomo buono, allora rinascerai come un'orca.

Vide un'ombra nera venire verso di lui. Un'altra la seguiva. Gli animali non gli prestarono attenzione. Già, pensò. Io sono amico vostro. Voi mi lasciate in pace. Naturalmente lui sapeva che il motivo per cui quegli animali non l'avevano visto era molto più prosaico. Quelle orche non erano amiche di nessuno. Da molto tempo non erano più loro stesse. Erano maltrattate da una specie che procedeva senza scrupoli, esattamente come gli uomini.

Ma anche quello si sarebbe rimesso a posto. Prima o poi. E il lupo grigio sarebbe diventato un'orca.

Poteva esserci un ultimo pensiero più bello?

Espirò.


Peak

«Ma è completamente impazzita?»

La voce di Peak risuonava tra le pareti della rampa. Judith Li procedeva in fretta davanti a lui. Cercò d'ignorare il dolore martellante alla caviglia e di tenere il passo della donna, che aveva buttato via il mitra e teneva in mano la pistola.

«Non mi dia sui nervi, Sal.» Judith Li si diresse verso la scaletta di boccaporto successiva. Salirono al livello immediatamente superiore, nel punto in cui sfociava il corridoio del settore segreto. Dal ventre della nave arrivavano tremiti e rimbombi sinistri. Il pavimento oscillava violentemente e si piegava, così furono costretti a fermarsi. Forse alcune paratie non avevano retto alla pressione dell'acqua. Nel frattempo, l'Independence si era sensibilmente inclinata e ciò li costrinse a percorrere il corridoio in salita. Dalla sala di controllo uscirono uomini e donne, che correvano verso di loro. Fissarono Judith Li in attesa di ordini, ma lei non li degnò di uno sguardo e continuò a camminare.

«Non darle sui nervi?» Peak le sbarrò la strada. Sentiva che il suo orrore si stava trasformando in rabbia. «Lei uccide senza scrupoli oppure lascia che le persone muoiano. Perché, maledizione? Non era questo che avevamo pianificato e discusso!»

Judith Li lo guardò. Il suo viso era tranquillo, ma gli occhi acquamarina fiammeggiavano. Peak non aveva mai visto prima quella luce sinistra. D'un tratto comprese che quella soldatessa pluridecorata era completamente pazza.

«Era stato discusso con Vanderbilt», spiegò lei.

«Con la CIA?»

«Con Vanderbilt della CIA.»

«Per questa follia si è impegolata con quel sacco di merda?» Peak fece una smorfia. «Mi viene da vomitare, Jude. Dobbiamo evacuare la nave.»

«Inoltre è stato approvato dal presidente degli Stati Uniti», aggiunse lei.

«Non è vero!»

«Più o meno.»

«Non così! Non le credo!»

«Lo approverebbe.» Lo oltrepassò. «Ora si tolga dai piedi. Stiamo perdendo tempo.»

Peak le zoppicò dietro. «Quelle persone non le hanno fatto niente. Hanno rischiato la vita. Sono dalla nostra parte! Perché non ci limitiamo a imprigionarle?»

«Chi non è con me è contro di me. Non se n'è accorto, Sal?»

«Johanson non era contro di lei.»

«E invece sì, fin dall'inizio.» Si girò di scatto e lo guardò. «Ma lei è cieco, rimbambito o che? Non capisce cosa succederebbe se l'America non vincesse questa guerra? Se la vincesse qualcun altro, infliggerebbe una sconfitta anche a noi.»

«Non si tratta dell'America! Si tratta del mondo.»

«Il mondo è l'America!»

Peak la fissò. «Lei è pazza.»

«No, sono realista, stupido negro. E lei farà quello che dico io. Lei è sotto il mio comando!» Si rimise in movimento. «Forza, ora. Abbiamo un incarico da eseguire. Devo scendere col batiscafo prima che scoppi la nave. Mi aiuti a trovare i due siluri col veleno di Rubin, poi, per quanto mi riguarda, può anche filarsela.»


Rampa

Karen oscillò per alcuni secondi, indecisa sul da farsi, quando sentì delle voci arrivare dalla parte superiore della rampa. Judith Li e Peak erano spariti. Probabilmente stavano andando nel laboratorio segreto di Rubin a prendere il veleno. Corse verso il gomito della rampa e vide Anawak e Johanson che si sorreggevano a vicenda.

«Leon», gridò. «Sigur!»

Corse verso i due e li abbracciò. Fu costretta ad allargare molto le braccia, ma aveva un bisogno incontenibile di stringere a sé i due uomini. In particolare uno dei due. Evidentemente aveva esagerato, perché Johanson gemette.

Lei si tirò indietro. «Scusa…»

«Sono solo le ossa.» Johanson si pulì la barba dal sangue. «Lo spirito è sempre determinato. Cos'è successo?»

«Cos'è successo a voi, piuttosto!»

Dal pavimento giunse un rumore. Un lungo scricchiolio attraversò lo scafo dell'Independence e il pavimento si piegò leggermente verso poppa.

Si raccontarono in sintesi gli ultimi avvenimenti. Anawak era visibilmente colpito dalla morte di Greywolf. «Qualcuno di voi ha idea di cosa sia successo alla nave?» chiese.

«No, e temo che non avremo il tempo di pensarci.» Karen si guardava intorno, nervosa. «Credo che dovremo fare due cose contemporaneamente: impedire l'immersione di Judith e cercare di metterci al sicuro.»

«Credi che voglia portare a termine il suo piano?»

«Certo che lo farà», ringhiò Johanson. Sollevò la testa. Dal ponte di volo arrivavano dei rumori. Si sentiva il crepito dei rotori. «Sentito? I topi lasciano la nave.»

«Ma che cos'è successo a Judith?» Anawak scosse la testa, sbigottito. «Perché ha sparato a Sue?»

«Voleva uccidere anche me. Judith Li ucciderà chiunque si metta sulla sua strada. Non è mai stata interessata a una soluzione pacifica.»

«Ma a che scopo?»

«Ormai non ha più importanza», esclamò Johanson. «Il suo progetto ha tempi molto stretti. Qualcuno deve fermarla. Non deve portare sott'acqua quel veleno.»

«Giusto», approvò Karen. «E invece porteremo giù questo.»

Solo in quel momento Johanson si accorse della valigetta che lei teneva in mano. «Sono gli estratti del feromone?»

«Sì. Il lascito di Sue.»

«Bene, ma chi ci può aiutare?»

«Be', io ho un'idea.» Esitò. «Non so se funzionerà. Mi è venuta ieri… Nel frattempo, però, sono cambiate alcune cose.» La spiegò.

«Sembra buona», affermò Anawak. «Ma richiede un'estrema velocità. In fondo ci resta solo qualche minuto. Non appena la barca affonda, dobbiamo essere da qualche parte all'asciutto.»

«Soprattutto non so bene come potremo realizzarla», ammise Karen.

«Ma io sì.» Anawak indicò la rampa. «Abbiamo bisogno di una dozzina di siringhe sottocutanee. Me ne occupo io. Voi scendete e allestite il batiscafo.» Rifletté. «Poi ci servono… Aspetta! Pensi di riuscire a trovare qualche…?»

«Sì, va bene. E le siringhe dove pensi di procurartele?»

«In ospedale.»

Sopra di loro il rumore si fece più intenso. Nel passaggio dell'elevatore di sinistra apparve un elicottero e passò vicinissimo alle onde. L'acciaio dell'hangar scricchiolava. La nave aveva iniziato a deformarsi.

«Fa' in fretta», lo pregò Karen.

Anawak la guardò negli occhi. Per un momento rimasero a fissarsi. Maledizione, pensò lei. Perché proprio ora?

«Conto su di te», disse Anawak.


Evacuazione

A differenza degli altri, Samantha Crowe sapeva bene cos'era successo all'Independence. Le telecamere sullo scafo avevano trasmesso ai monitor l'immagine della sfera luminosa che saliva. La sfera era fatta di gelatina, quello era certo e, quand'era esplosa, il gas al suo interno si era dilatato. Si trattava probabilmente di metano. In mezzo alle bolle vorticanti, le era sembrato di vedere una sagoma conosciuta: quello che arrivava a tutta velocità contro l'Independence era un batiscafo.

Un Deepflight dotato di siluri.

Immediatamente dopo l'esplosione era scoppiato l'inferno. Murray Shankar aveva battuto la testa contro la console e sanguinava copiosamente. Samantha Crowe l'aveva aiutato a rialzarsi, poi nel CIC erano arrivati di corsa dei soldati e dei tecnici e li avevano cacciati fuori. Il rauco suono a intervalli regolari dell'allarme li spingeva a muoversi. Nei corridoi laterali la gente si assiepava, ma pareva che l'equipaggio dell'Independence avesse ancora la situazione sotto controllo. Un ufficiale li prese in consegna e li condusse verso una scala, in direzione della poppa. «Attraverso l'isola usciamo sul ponte di volo», spiegò. «Non fermatevi. Attenetevi alle disposizioni.»

Samantha spinse Shankar, ancora intontito, sulla scala. Lei era piccola e minuta, Shankar alto e pesante, però raccolse tutte le sue forze e ci riuscì. «Muoviti, Murray!» ansimò.

Le mani di Shankar afferrarono tremanti i pioli. Si tirò su a fatica. «Ho sempre immaginato in maniera diversa un contatto diretto», esclamò, tossendo.

«Hai sempre visto i film sbagliati.»

Per calmarsi, una sigaretta sarebbe stato l'ideale. Pensò a quella che si era accesa qualche secondo prima dell'esplosione e che era rimasta a consumarsi nel CIC. Che guaio… Cosa non avrebbe dato per una sigaretta! Fumarne ancora una prima di tirare le cuoia. Qualcosa le diceva che le speranze di sopravvivere non erano particolarmente alte.

Ma non dobbiamo affidarci alle lance di salvataggio, rifletté poi. Abbiamo gli elicotteri!

Provò un certo sollievo. Shankar aveva raggiunto la parte superiore della scaletta di boccaporto e alcune mani si erano tese verso di lui. Samantha lo seguì e intanto si chiedeva se non stavano sperimentando proprio il tipo di contatto in cui la specie umana era così esperta: aggressivo, spietato, mortale.

I soldati li trascinarono all'interno dell'isola.

Ehi, Miss Alien. Sei sempre affascinata dalla possibilità che nell'universo esistano altre forme di vita intelligenti?

«Ha una sigaretta?» chiese a un soldato.

L'uomo la fissò. «Ma è matta? Si sbrighi a uscire!»


Buchanan

Sul ponte c'erano Buchanan col secondo ufficiale e il timoniere. Buchanan si teneva informato sull'evolversi della situazione e dava istruzioni, mantenendo un tono pacato e riflessivo. A quanto pareva, l'esplosione aveva distrutto una parte della stiva e della sala macchine. La stiva non avrebbe creato problemi, ma nella sala macchine si era evidentemente innescata una reazione a catena nei sistemi del carburante e del lubrificante. Come conseguenza, ci furono altre esplosioni. I sistemi esplodevano uno dopo l'altro. Il fabbisogno di elettricità della nave era garantito da una serie di gruppi elettrogeni. Oltre alle due turbine a gas LM-2500, provvedevano all'energia dell'Independence sei generatori diesel, che stavano appunto saltando in aria l'uno dopo l'altro. Probabilmente, laggiù nelle catacombe, sotto il ponte dei veicoli, erano tutti morti. Nel momento in cui aveva dato l'ordine di chiudere le paratie, aveva sacrificato l'equipaggio della sala macchine, ma non poteva permettersi il lusso di pensarci. Dovevano evacuare la nave. Non osava immaginare per quanto tempo ancora sarebbe rimasta relativamente stabile. L'impatto era avvenuto nella parte centrale, quindi non avrebbero potuto impedire che la stiva si riempisse a prua e che la nave s'inabissasse in avanti.

Nello scafo c'era troppa acqua. Sotto l'enorme pressione, quell'acqua si sarebbe aperta la strada verso la punta della prua e avrebbe sfondato le paratie del livello appena superiore. Se poi fossero saltate anche le paratie del ponte di poppa, la nave avrebbe rischiato di riempirsi completamente.

Buchanan non si faceva illusioni, sapeva che sarebbe successo. L'unico dubbio era quando. La gestione di quella crisi dipendeva esclusivamente da lui e dalle sue capacità di valutare gli eventi. Valutò che subito dopo sarebbe stata la volta del ponte dei veicoli sotto il laboratorio e di una parte degli alloggiamenti limitrofi. L'unica nota consolante era che a bordo non c'erano marine. In caso di guerra, a bordo ci sarebbero stati circa tremila uomini. Invéce ora erano poco meno di centottanta e si trovavano tutti nei livelli superiori.

Alcuni dei monitor che trasmettevano sul ponte il quadro complessivo del CIC erano saltati. Proprio sopra la testa di Buchanan era appeso il telefono rosso piombato che, nelle situazioni eccezionali, permetteva il collegamento diretto col Pentagono. Lui fece scorrere lo sguardo sugli apparecchi per le comunicazioni, pratici e disposti razionalmente, sugli strumenti di navigazione e sui tavoli delle carte. Niente poteva aiutarli.

Robaccia inutile.

Sul ponte, il personale addetto allo sbarco si muoveva freneticamente. La gente veniva condotta di corsa dall'isola verso il ponte di volo e fatta salire sugli elicotteri già pronti, coi rotori accesi, Buchanan parlò brevemente con la centrale di volo e poi tornò a guardare fuori, attraverso la grande vetrata verde del ponte di comando. Un elicottero si era già sollevato e si allontanava velocemente dalla nave. Non erano abbastanza veloci. Se la prua si fosse piegata ancora, il ponte di volo si sarebbe trasformato in uno scivolo. I velivoli erano ben assicurati, ma, a un certo punto, la situazione sarebbe diventata critica.


Livello 3

Anawak non incontrò molte persone. Temeva di finire nelle braccia di Judith Li e di Peak, ma evidentemente i due erano in marcia nella direzione opposta. Senza fiato e con le costole doloranti, si affrettò lungo il corridoio diretto alla stazione medica.

L'ospedale era deserto. Non c'era traccia di Angeli e del suo personale. Attraversò diverse sale piene di letti prima di arrivare nella stanza delle attrezzature mediche. Sembrava che ci fosse stato un terremoto. Gli armadietti erano aperti, il pavimento era ricoperto di schegge che scricchiolavano sotto i piedi. Aprì tutti i cassetti e frugò nelle scansie finite a terra e ricoperte di macerie senza riuscire a trovare neppure una siringa.

Dov'erano?

Dov'erano di solito quando si andava dal medico? Sempre in qualche cassetto. Lo sapeva bene. In piccoli armadietti laccati di bianco con molti cassetti.

Da sotto giunse un rumore. Udì dei lamenti. L'acciaio si stava piegando.

Si precipitò nella sala adiacente. Anche lì era un disastro, ma uno degli armadietti laccati sembrava fissato molto bene. Lo raggiunse e frugò all'interno, gettandosi alle spalle tutto ciò che gli capitava tra le mani. Finalmente trovò ciò che stava cercando. Afferrò una dozzina di siringhe in confezione sterile e se le infilò nella giacca. Adesso non restava altro che tornare indietro.

Che idea folle!

O Karen aveva ragione, e allora si trattava di un piano geniale, oppure si erano creati un'immagine completamente falsa della realtà. La proposta, da un lato plausibile, gli appariva dall'altro irrealizzabile e ingenua, soprattutto sullo sfondo del messaggio escogitato da Samantha e mandato negli abissi. Però… Samantha? Ma dov'era?

Samantha che gli era apparsa in sogno molto tempo prima e gli aveva indicato la via per il Nunavut…

Nelle sue orecchie risuonò un fortissimo gong, come se fosse andata in frantumi una campana. Il pavimento s'inclinò ulteriormente. Dal fondo della nave arrivava un ruggito cupo.

L'acqua!

Anawak si chiese se avrebbe avuto il tempo di fuggire. Poi non si chiese più niente e si mise a correre.


Laboratorio

Karen non sapeva cosa l'aspettava. Si sentiva a disagio all'idea di riaprire la porta del laboratorio. Ma, se voleva far partire il piano, il laboratorio era l'unica possibilità.

Il pavimento tremava. Sotto i suoi piedi, lei sentiva l'acqua scrosciare e gorgogliare. Johanson si appoggiò vicino a lei, ansimando pesantemente. «Apri», disse.

Karen vide il simbolo rosso dell'emergenza sopra la tastiera. Mentre correva fuori, Judith Li era riuscita a inserire la chiusura d'emergenza che sigillava il laboratorio. Digitò una combinazione numerica e la porta si aprì. L'acqua si rovesciò contro di lei e le sommerse le gambe. Usciva dal laboratorio illuminato a giorno, ma, anziché scorrere lungo la rampa, si raccoglieva appena fuori della porta e cresceva. Karen comprese subito il perché: l'Independence era così inclinata che l'acqua non poteva scorrere verso il ponte a pozzo. Probabilmente, a causa dell'inclinazione, quella parte della rampa aveva assunto una posizione orizzontale.

Indietreggiò. «Dobbiamo stare attenti», disse. «Quella sostanza potrebbe essere uscita.»

Johanson gettò uno sguardo all'interno. Nelle immediate vicinanze della cisterna distrutta vide galleggiare due corpi senza vita. Con passi cauti, camminò tra i vortici dell'acqua, che fluiva, impetuosa. Karen lo seguì. Il loro primo sguardo fu ai container del laboratorio di massima sicurezza: sembravano intatti. Fu un sollievo. Una contaminazione di Pfiesteria era l'ultima cosa di cui avevano bisogno in quel momento.

Verso poppa, il pavimento emergeva lentamente dall'acqua. In compenso, dalla parte opposta, l'acqua era molto più alta.

«Sono tutti morti», mormorò Karen.

Johanson socchiuse le palpebre. «Là!»

Poco discosto dai soldati galleggiava un terzo corpo.

Era Rubin.

Karen ricacciò indietro il disgusto e il terrore. «Ce ne serve uno», disse. «Non importa quale.»

«Però dobbiamo spingerci più all'interno.»

«Sì. Non si può fare diversamente.» Avanzò.

«Attenta!» gridò Johanson

Lei stava per girarsi quando qualcosa la colpì da dietro, facendola scivolare. Con un grido, finì in acqua; poi riemerse, sputando, e si girò sulla schiena.

Uno dei soldati era là, e li teneva sotto tiro con un fucile nero e massiccio.

«Oh, no», disse disperato. «Oooh, no.»

Nel suo sguardo si leggeva chiaramente la paura di morire. Karen si rialzò, sollevando con calma le mani in modo che l'uomo le potesse vedere.

«Oh, no», ripeté il soldato.

Era molto giovane; sui vent'anni, forse nemmeno, pensò Karen. Il fucile tremava nella sua mano. Fece un passo indietro, spostando lo sguardo da lei a Johanson e viceversa.

«Ehi», disse Johanson. «Vogliamo aiutarti.»

«Voi ci avete chiuso qui dentro», disse il soldato. Sembrava sul punto di scoppiare in lacrime.

«Non siamo stati noi», mormorò Karen.

«Ci avete… con questo… ci avete lasciati soli con questo…»

Ci mancava solo quella. L'Independence stava affondando, dovevano fermare Judith Li, prendere in qualche modo uno dei morti per portare a termine il piano, e adesso si trovavano davanti quel ragazzo in preda al panico.

«Come ti chiami?» domandò Johanson.

«Come?» Gli occhi del soldato fiammeggiarono. Poi lui gli puntò contro l'arma.

«No!» gridò Karen.

Johanson sollevò le mani per indicare che era tutto a posto. Guardò la bocca dell'arma e abbassò la voce. «Per favore, dicci il tuo nome.»

Il soldato esitò.

«È importante che conosciamo il tuo nome», ribadì Johanson con voce dolce.

«MacMillan. Sono… Mi chiamo MacMillan.»

Karen cominciò a capire che cosa aveva in mente Johanson. La prima mossa da fare per ricondurre qualcuno alla normalità è richiamargli alla mente chi è.

«Bene, MacMillan, molto bene. Ascoltami, abbiamo bisogno del tuo aiuto. Questa nave sta affondando. Noi dobbiamo condurre un esperimento che potrebbe salvarci tutti…»

«Tutti?»

«Hai una famiglia, MacMillan?»

«Perché lo vuole sapere?»

«Dove abita la tua famiglia?»

«A Boston.» I lineamenti del giovane s'irrigidirono. Cominciò a piangere. «Ma Boston è…»

«Lo so», disse Johanson, comprensivo. «Ascolta, possiamo fare ancora qualcosa per rimettere tutto a posto. Anche a Boston. Ma, per farlo, abbiamo bisogno del tuo aiuto. Ne abbiamo bisogno adesso! Ogni secondo che perdiamo potrebbe annullare l'ultima possibilità della tua famiglia.»

«Ti prego», mormorò Karen. «Aiutaci.»

Il soldato continuava a guardarli. Tirò su col naso. Poi abbassò il fucile.

«Ci portate fuori da qui?» chiese.

«Sì», confermò Karen. «Promesso.» Mio Dio, che stai dicendo? pensò. Non puoi promettere niente. Proprio niente.


Judith Li

Sorprendentemente, il laboratorio segreto appariva intatto, forse perché era più in alto rispetto a quello ufficiale. Il pavimento era ricoperto di schegge di vetro, ma il resto era a posto.

Alcuni monitor lampeggiavano.

Dove avrà messo i tubi? rifletté Judith Li.

Infilò l'arma nella fondina e si guardò intorno. La sala era deserta. Nella piccola cisterna ad alta pressione si aspettava di vedere il bagliore blu, ma poi le venne in mente che Rubin le aveva spiegato di aver condotto a termine con successo l'esperimento col veleno. Spiò attraverso uno degli oblò. Nulla. Nessun organismo, nessun bagliore.

Peak girava fra i tavoli da laboratorio e gli armadi. «Qui», gridò.

Lei lo raggiunse di corsa. Uno scaffale era caduto. A terra, c'erano diversi tubi sottili, a forma di siluro, lunghi quasi un metro. Li sollevarono, l'uno dopo l'altro. Due erano notevolmente più pesanti rispetto agli altri. Poi Judith vide i segni di riconoscimento. Rubin li aveva segnati su un fianco con un pennarello resistente all'acqua.

«Sal», mormorò, affascinata. «Abbiamo in mano il nuovo ordine mondiale.»

«Bene.» Peak si guardava nervosamente intorno. Una provetta rotolò giù da un tavolo e si ruppe con un leggero tintinnio. L'allarme continuava a risuonare. «Allora portiamo il nuovo ordine mondiale fuori di qui il più in fretta possibile.»

Judith Li scoppiò a ridere. Passò a Peak uno dei tubi, prese l'altro e uscì di corsa dal laboratorio. «Tra cinque minuti avrò mandato all'inferno questa creazione arrogante, Sal, può contarci!»

«Con chi vuole scendere? Crede che Mick sia ancora vivo?»

«Non m'interessa se lo è.»

«Potrei accompagnarla io.»

«Grazie, Sal, molto generoso da parte sua. E cosa vorrebbe fare? Venire laggiù a rompermi i timpani perché mi permetto di ammazzare quella fanghiglia blu?»

«È una cosa maledettamente diversa e lei lo sa bene!»

Raggiunsero la scaletta di boccaporto. Dalla parte opposta, qualcuno stava correndo verso di loro a testa bassa.

«Leon!»

Anawak sollevò lo sguardo, li riconobbe e si fermò di colpo. Erano molto vicini; in mezzo a loro c'era solo la scaletta di boccaporto.

«Jude… Sal…» Anawak li fissò. «Ma guarda un po'.»

Ridicolo! pensò Judith. Quell'uomo era assolutamente incapace di fingere. Le era bastato uno sguardo per capire che Anawak sapeva tutto. «Da dove arriva?» chiese.

«Io… volevo cercare gli altri e…»

Non aveva importanza quanto sapesse. Non avevano tempo da perdere. Forse stava davvero cercando i suoi amici, forse aveva un piano. No, non aveva importanza. Anawak si era messo sulla sua strada.

Judith Li tirò fuori la pistola.


Ponte di volo

Quando uscirono sul ponte, Samantha Crowe era alle calcagna di Murray Shankar, ma poi qualcuno la fermò.

«Aspetti», disse un soldato in uniforme.

«Ma io devo…»

«Lei è nel prossimo gruppo.»

Due dei grandi Super Stallion avevano già lasciato il ponte e altri due attendevano di fronte all'isola. Erano parcheggiati vicinissimi. Mentre correva con soldati e civili, Shankar si girò verso Samantha. Il gigantesco eliporto s'inclinava sempre di più. Era così grande da dare l'impressione che non fosse la nave a essere obliqua, bensì il mare, agitato e coperto di schiuma.

«Ci vediamo più tardi!» gridò Shankar. «Te ne andrai col prossimo volo.»

Samantha lo seguì con lo sguardo mentre lui correva sulla rampa che portava all'interno del Super Stallion. Un vento gelido le frustava il viso. A quanto pareva, l'evacuazione procedeva in maniera molto ordinata. Era un bene. Doveva solo pazientare.

Il suo sguardo vagava tutt'intorno. Dov'erano gli altri? Leon, Sigur, Karen…

Erano già andati via?

Un pensiero tranquillizzante. Il portellone si chiuse alle spalle di Shankar. I rotori presero a girare più velocemente.


Scafo

Meno di trenta metri sotto il ponte di volo, l'acqua premeva contro le paratie della stiva di prua e degli alloggi dell'equipaggio.

Le paratie reggevano.

Un siluro era rimasto in acqua. Durante l'esplosione del batiscafo, l'innesco era scattato, però il siluro non era esploso. Casi del genere erano rari, ma succedevano. Era affondato in una stiva piena d'acqua, sopra una grata che, staccatasi in parte dal suo ancoraggio, si torceva nell'oscurità. Il siluro ci rotolava sopra dolcemente e scivolava di alcuni centimetri in avanti, seguendo la progressiva inclinazione della nave.

Le paratie reggevano, ma la grata scricchiolava e gemeva sotto la pressione.

Anche i puntoni reggevano ancora, però erano sottoposti a una tensione estrema. Nell'acciaio delle paratie si formarono alcune crepe. Una delle grandi viti di rinforzo si staccò lentamente dal suo ancoraggio, forzando la filettatura.

Poi uscì con un botto.

La tensione aumentò. La grata schizzò in aria, altre viti saltarono, la parete cedette. Il siluro ricevette un colpo che lo catapultò verso l'alto e lo spinse nel punto in cui confinavano tutti gli spazi: la stiva di prua e le gigantesche camerate dei marinai da una parte e il ponte dei veicoli proprio sotto il laboratorio dall'altra.

Era uno dei punti di contatto più sensibili della nave.

La carica esplosiva fece il proprio lavoro.


Livello 3

«No», disse Peak.

Lasciò cadere l'involucro a forma di siluro e puntò la pistola contro Judith Li. «Non lo farà.»

Judith rimase immobile. L'arma era sempre puntata contro Anawak.

«Sal, ne ho abbastanza delle sue resistenze», sibilò. «Mi faccia il piacere di non comportarsi da idiota.»

«Abbassi l'arma.»

«Maledizione, Sal! La porterò davanti alla corte marziale, io…»

«Al tre sparo, Jude! Glielo giuro. Non ucciderà altre persone. Abbassi l'arma. Uno… due…»

Judith Li abbassò il braccio. «Va bene, Sal. Va bene.»

«La lasci cadere.»

«Perché non ne parliamo e…»

«La lasci cadere!»

Negli occhi di Judith Li comparve un lampo di odio indicibile. L'arma cadde rumorosamente a terra.

Anawak gettò un'occhiata a Peak. «Grazie», disse. Con un balzo, raggiunse la scaletta di boccaporto e sparì. Judith Li lo sentì correre via. I passi si allontanarono. Imprecò.

«Generale comandante Judith Li», disse Peak in tono formale. «Io la destituisco dal comando per incapacità d'intendere e di volere. Da questo momento in poi lei è ai miei ordini. Può…»

Ci fu un colpo terribile. Dal basso provennero mostruosi gorgoglii. La nave si piegò in avanti come un ascensore in caduta e Peak perse l'equilibrio. Cadde a terra, rotolò e si rialzò immediatamente.

Dov'era la sua arma? Dov'era Judith?

«Sal!»

Si girò. La donna era inginocchiata davanti a lui. Gli teneva l'arma puntata contro.

Peak si bloccò. «Jude.» Scosse la testa. «Cerchi di capire…»

«Idiota», disse Judith Li. E sparò.


Ponte di volo

Samantha Crowe barcollò. Il ponte si stava inclinando ancora di più. Il Super Stallion coi rotori in movimento scivolò verso l'elicottero parcheggiato poco oltre. Quindi si sollevò, ululando, e cercò di guadagnare quota per evitare l'impatto.

Samantha si sentì mancare il respiro. No, pensò. Non è possibile. Non può essere. Non a un passo dalla salvezza.

Sentiva gridare. Alcune persone caddero, altre scapparono. Fu trascinata via e cadde a terra. Da sdraiata, vide il Super Stallion finire addosso all'altro elicottero, un cannone laterale sfiorare quello dell'altro, poi rimanere incastrato, mentre il colosso volante iniziava a girare su se stesso.

Lo Stallion era fuori controllo.

Samantha balzò in piedi. Presa dal panico, cominciò a correre.


Porte di comando

Buchanan non credeva ai propri occhi.

Era stato scaraventato contro la sedia, contro quella fantastica Captain's Chair coi braccioli comodi e il poggiapiedi che tutti gli invidiavano, un misto di sedia da scrivania barocca e poltrona di comando del capitano Kirk. Colpì la sedia con la testa e prese a sanguinare. Sul ponte di comando volava tutto. Lui si rialzò, barcollando, e corse alla finestra laterale, giusto in tempo per vedere il Super Stallion girare e rovesciarsi lentamente su un fianco.

Si era incastrato!

«Fuori di qui!» gridò.

L'elicottero continuava a girare. Il personale del ponte fuggiva, tentando disperatamente di mettersi al sicuro, mentre Buchanan non riusciva a staccare gli occhi dall'elicottero che si stava rovesciando.

D'un tratto, il velivolo si liberò e salì.

Buchanan boccheggiò. Per un momento sembrò che il pilota avesse ripreso il controllo. Ma era troppo inclinato. La coda dell'elicottero, lungo trenta metri, si sollevò quasi in verticale, i rotori ulularono ancora più forte, poi l'elicottero precipitò.

Buchanan si portò le mani davanti al viso e fece un passo indietro.

Era una mossa ridicola. Tanto valeva allargare le braccia e dare il benvenuto alla sua fine.

Oltre trentatré tonnellate di elicottero da combattimento con novemila litri di carburante si schiantarono contro il ponte di comando, trasformando la parte anteriore dell'isola in un inferno di fiamme. Tutte le finestre si frantumarono. Una fiammata invase la costruzione, liquefece l'arredamento, fece esplodere i monitor, strappò le paratie dai loro ancoraggi, colpì i fuggitivi sulle scalette di boccaporto, li ridusse in cenere e, attraverso i corridoi, si allargò al resto dell'isola.


Ponte di volo

Samantha correva per salvarsi la vita.

Intorno a lei, cadevano macerie infuocate. Correva verso la poppa dell'Independence. La nave si era talmente inclinata che lei doveva avanzare in salita ansimando pesantemente. Negli ultimi anni, i suoi polmoni avevano ricevuto più nicotina che aria fresca.

In effetti, aveva sempre pensato che sarebbe morta per un cancro ai polmoni.

Incespicò e cadde sull'asfalto. Mentre cercava di rialzarsi, vide la parte anteriore dell'isola avvolta dalle fiamme. Anche il secondo elicottero stava bruciando. Sul ponte c'erano individui ridotti a torce umane che correvano per un tratto e poi crollavano. Lo spettacolo era orribile, e la consapevolezza di avere pochissime possibilità di sopravvivere all'affondamento dell'Independence era ancora più orribile.

Violente detonazioni facevano volar via dall'isola globi incandescenti. Le fiamme urlavano e infuriavano. Poi ci fu una violenta esplosione. E proprio davanti a Samantha cadde una pioggia di scintille.

Shankar aveva perso la vita in quell'inferno.

Lei non voleva morire così.

Balzò in piedi e riprese a correre verso poppa senza avere la minima idea di come avrebbe fatto ad arrivarci.


Livello 3

Judith imprecò.

Aveva tenuto il primo siluro ben stretto sotto il braccio, ma il secondo era rotolato via da qualche parte. O era caduto nella scaletta di boccaporto oppure era precipitato nel corridoio verso prua.

Quel maledetto imbecille di Peak!

Mentre oltrepassava il cadavere, si chiedeva se un unico siluro pieno di veleno sarebbe stato sufficiente. Le sarebbe rimasta una sola possibilità. Forse uno non avrebbe funzionato, forse non si sarebbe aperto per disperdere in acqua il veleno. In ogni caso, era meglio averne due.

Osservò il corridoio.

Poi sentì sopra di sé un potente rimbombo e la nave vibrò con maggiore violenza. Judith Li cadde e scivolò sulla schiena lungo il corridoio. Cos'era successo? La portaerei stava saltando in aria? Doveva uscire in fretta. Il Deepflight le sarebbe servito non solo per portare a termine la missione, ma anche per salvarsi la vita.

Il siluro le scivolò di mano.

«Merda!»

Cercò di afferrarlo, ma quello continuava a rotolare. Se quei tubi fossero stati pieni di esplosivo, sarebbero già saltati in aria. Ma dentro non c'era esplosivo, bensì un liquido per eliminare una specie intelligente.

Allargò braccia e gambe nel tentativo di aggrapparsi da qualche parte. Dopo alcuni secondi, la calma tornò. Sentiva male ovunque, come se qualcuno l'avesse colpita con una sbarra di ferro. Forse non dimostrava di avere quasi cinquant'anni, però si sentiva come se ne avesse cento. Si alzò, reggendosi alla parete e si guardò intorno.

Era sparito anche il secondo siluro.

Avrebbe voluto urlare.

I rumori di sottofondo provocati dall'acqua risuonavano spaventosamente vicini. Non aveva più molto tempo. Dall'alto arrivava un rumore gorgogliante.

E del calore.

Sobbalzò. In effetti faceva più caldo.

Doveva ritrovare i siluri.

Con selvaggia determinazione, si staccò dalla parete e si dedicò alla ricerca.


Laboratorio

Quando il colpo fece vibrare la nave, il soldato MacMillan era appena dietro Johanson e Karen, col fucile spianato. Caddero tutti in acqua. Karen riemerse e sentì un'esplosione provenire dall'alto.

Poi la luce si spense.

«Sigur?» gridò.

Nessuna risposta.

«MacMillan?»

«Sono qui.»

Sentiva il fondo sotto i piedi e l'acqua le arrivava al petto. Maledizione, ci mancava anche quella! Avevano quasi raggiunto uno dei soldati morti.

Qualcosa urtò dolcemente la sua spalla e lei lo afferrò. Uno stivale. Teneva in mano uno stivale e dentro c'era una gamba.

«Karen?» La voce di Johanson, vicinissima.

A poco a poco, i loro occhi si abituarono all'oscurità. Un attimo dopo, si accesero le luci di emergenza rosse e il laboratorio prese l'aspetto di un cupo antinferno. Nella penombra, Karen vide la testa di Johanson che si sollevava dall'acqua. «Vieni qui», gli gridò. «Aiutami.»

Ora il cupo rimbombo non veniva solo dal basso, ma anche dall'alto. Che cos'era successo? Lei ebbe la sensazione che nel laboratorio si fosse alzata la temperatura. Johanson apparve al suo fianco. «Chi è?»

«Non importa. Prendilo.»

«Dobbiamo uscire di qui», ansimò MacMillan. «In fretta.»

«Sì, subito, noi…»

«Presto!»

Karen guardò l'acqua un po' più avanti.

Una debole luce blu.

Un lampo.

Afferrò il piede del morto e si mosse in direzione della porta. Johanson aveva preso il braccio dell'uomo. O era una donna? Avevano preso Sue? Karen sperava che quello che si stavano trascinando appresso non fosse il cadavere della povera Sue. Si spinse in avanti, poi colpì qualcosa che la fece scivolare. Finì con la testa sott'acqua.

Guardò nel buio con gli occhi sbarrati.

Qualcosa serpeggiava verso di lei.

Si muoveva velocemente e sembrava una lunga anguilla luminosa. Anzi un gigantesco verme senza testa. E poi… Non era uno soltanto, erano molti.

Riemerse. «Via di qui.»

Johanson tirava dall'altra parte. Sotto la superficie dell'acqua si stendevano i tentacoli luminosi. Erano almeno una dozzina. MacMillan sollevò il fucile. Karen sentì qualcosa scivolarle sulla caviglia e poi trascinarla.

Nello stesso istante, uscirono dall'acqua diverse cose che strisciarono su di lei. Cercò di strapparsele via. Johanson le balzò vicino e affondò le dita fra i tentacoli intorno al corpo della donna, ma era come se lei fosse tra le spire di un anaconda.

L'essere la stringeva.

L'essere? Stava combattendo contro miliardi di esseri. Miliardi e miliardi di esseri unicellulari.

«Non ci riesco», ansimò Johanson.

La gelatina strisciava sul petto della donna verso la gola. Karen finì di nuovo sotto. L'acqua splendeva. Dietro i tentacoli sgusciava qualcosa di grande. La massa principale dell'organismo.

Karen lottava con tutte le forze per raggiungere la superficie. «MacMillan» gorgogliò.

Il soldato sollevò il fucile.

«Con quello non otterrai nulla», gridò Johanson.

MacMillan sembrava assolutamente calmo. Puntò e prese la mira sulla grande massa che si avvicinava. «E invece con questo otterrò qualcosa.» Fece fuoco ed esclamò: «Le pallottole esplosive ottengono sempre qualcosa!»

La raffica penetrò nell'organismo, l'acqua sprizzò. MacMillan sparò una seconda raffica e la cosa andò in brandelli.

Frammenti di gelatina volarono ovunque. Karen annaspava, in cerca d'aria. Poi di colpo fu libera. Johanson la afferrò. Ripresero a trascinare il cadavere. Lo specchio d'acqua si abbassava e ora procedevano in fretta. Dopo che la nave si era ulteriormente rovesciata in avanti, la maggior parte dell'acqua si era raccolta nella parte del laboratorio verso prua e la porta era praticamente all'asciutto. Era difficile non scivolare sul pavimento in pendenza, ma ormai procedevano con l'acqua non più alta della caviglia.

Portarono il cadavere fuori, sulla rampa. Anche là l'acqua si era ritirata. A Karen sembrò di sentire un grido soffocato.

«MacMillan?»

Sbirciò nel laboratorio. «MacMillan, dov'è?»

L'organismo luminoso stava tornando a riunirsi. I frammenti si fondevano. I tentacoli sembravano scomparsi. L'essere aveva assunto una forma piatta.

«Chiudi la porta», gridò Johanson. «Può ancora uscire. C'è acqua sufficiente.»

«MacMillan!»

Karen si aggrappò al telaio della porta e continuò a guardare nella sala illuminata di rosso, ma il soldato non si vedeva.

MacMillan non ce l'aveva fatta.

Un filo sottile e luminoso si avvicinò. Karen balzò all'indietro e chiuse la paratia. Il tentacolo accelerò, ma stavolta non fu sufficiente. La porta si chiuse.


Esperimenti

Anawak era stato sorpreso dall'esplosione sulla scaletta di boccaporto. Aveva il respiro affannoso e il ginocchio gli faceva male. Imprecò. Vanderbilt gli aveva colpito proprio il ginocchio uscito malconcio dall'incidente con l'idrovolante.

Trovò diversi boccaporti bloccati. Ormai la nave era molto inclinata. L'unica via di fuga era quella lungo la rampa del ponte dell'hangar, quindi lui corse indietro e salì finché non fu abbastanza in alto per raggiungere la rampa. Più saliva, Più aumentava il calore. Cos'era successo lassù? Il rumore non lasciava presagire nulla di buono. Zoppicò lungo il ponte dell'hangar e vide del fumo nero e spesso entrare dalle porte aperte.

Gli sembrò di sentire qualcuno che chiedeva aiuto.

Fece qualche passo nell'hangar.

«C'è qualcuno?» gridò.

La visuale era pessima. Dietro le strisce di fumo nero si riusciva appena a intravedere l'illuminazione gialla del soffitto. In compenso, il grido d'aiuto adesso si sentiva chiaramente.

La voce di Samantha!

«Sam?» Anawak corse in avanti, in mezzo alle nubi di fuliggine. Stava in ascolto, ma il grido non si ripeteva. «Sam? Dove sei?»

Niente.

Attese ancora un momento, poi si girò e corse verso la rampa. Si accorse troppo tardi che essa aveva assunto la pendenza di un trampolino per il salto con gli sci. Gli si piegarono le gambe. Rotolò giù, pregando che almeno una delle siringhe rimasse intatta. C'erano poche speranze che gli rimanessero intatte le ossa. Invece non si ruppe nulla. Quando finalmente arrivò in fondo, finì nell'acqua, che attutì l'impatto. Si riscosse, si riportò all'asciutto procedendo gattoni e vide Karen e Johanson che trascinavano un corpo verso il ponte a pozzo.

Il pavimento era ricoperto da una sottile pellicola d'acqua.

Il bacino artificiale! Stava tracimando nei corridoi. Se l'Independence si fosse piegata ancora un po', tutto quel settore sarebbe stato sommerso.

Dovevano affrettarsi.

«Ho le siringhe», gridò.

Johanson sollevò lo sguardo. «Era ora.»

«Chi è? Chi avete preso?» Anawak si rialzò, barcollando, raggiunse di corsa i due e lanciò un'occhiata al cadavere.

Era Rubin.


Ponte di volo

Al fondo del ponte di coperta, Samantha si accovacciò e guardò l'isola in fiamme.

Vicino a lei c'era un uomo tremante. Sembrava pakistano e indossava una tenuta da cuoco. Soltanto a loro due era venuta l'idea di scappare lì, oppure nessun altro c'era riuscito. L'uomo respirò affannosamente e si rialzò.

«Sa una cosa?» disse lei. «Questo è il risultato del confronto tra specie intelligenti.»

L'altro la fissò come se le stesse crescendo un corno in fronte.

Samantha sospirò.

Aveva raggiunto il punto al di sotto del quale c'era la piattaforma dell'elevatore di destra. Lì si apriva l'accesso al ponte dell'hangar. Aveva gridato un paio di volte, ma nessuno aveva risposto.

Sarebbero sprofondati con la nave in fiamme.

Probabilmente le lance di salvataggio non c'erano neppure. Su una portaerei, ci si salvava prima di tutto coi velivoli. Ammesso che ci fossero delle lance, ci sarebbe comunque stato bisogno di qualcuno che le sganciasse e le calasse in acqua. Ma erano spariti tutti nell'inferno di fuoco.

Un fumo nero giunse verso di loro. Un fumo ripugnante, catramoso. Nella sua ultima ora, Samantha non voleva respirare quella roba.

«Ha una sigaretta?» chiese al cuoco.

Si aspettava una reazione sconcertata e invece lui tirò fuori un pacchetto di Marlboro e un accendino. «Lights», spiegò.

«Oh? Per la salute?» Samantha sorrise e inspirò mentre il cuoco la faceva accendere. «Molto divertente.»


Feromone

«Gli iniettiamo la sostanza sotto la lingua, nel naso, negli occhi e nelle orecchie», disse Karen.

«Perché proprio in quei punti?» chiese Anawak.

«Perché penso siano i punti in cui fatica meno a entrare.»

«Allora iniettala anche sotto le unghie, senza dimenticare quelle dei piedi. Ovunque. Più ce n'è, meglio è.»

Il ponte a pozzo era deserto; il personale tecnico era probabilmente fuggito. Karen aveva tolto in fretta a Rubin tutti i vestiti tranne le mutande, mentre Johanson e Anawak riempivano le siringhe con l'estratto di feromoni. Se n'era rotta una sola. Rubin era coricato sulla sponda artificiale. L'acqua era salita solo di qualche centimetro, ma continuava a crescere. Con grande cautela, avevano tolto i pezzi di gelatina sotto cui era sparita una parte della testa di Rubin e li avevano gettati in un luogo asciutto. Dalle orecchie gli usciva ancora qualche frammento. Anawak lo tirò via.

«Potete anche iniettargliela nel didietro», disse Johanson. «Ne abbiamo in abbondanza.»

«Credi che funzionerà?» chiese Karen dubbiosa.

«Quel poco di yrr che è rimasto nel suo corpo non può essere in grado di produrre tanto feromone quanto quello che gli iniettiamo noi. Se ci cascheranno, penseranno che l'ha prodotto lui.» Johanson si mise in ginocchio. Allungò verso di loro una mano con Le siringhe piene. «Chi si offre?»

Karen sentì salire il disgusto.

«Non accapigliatevi, eh?» esclamò Johanson. «Leon?»

Alla fine lo fecero insieme. Il più velocemente possibile, iniettarono a Rubin la soluzione di feromone, finché non arrivò a contenerne quasi due litri. Probabilmente una metà sarebbe uscita.

«L'acqua è salita», osservò Anawak.

Karen rimase in ascolto. Si sentivano gemiti e stridii in tutta la nave. «Fa anche più caldo.»

«Sì, perché sta bruciando il ponte di coperta.»

«Forza.» Karen prese Rubin sotto le ascelle e lo sollevò. «Portiamo a termine questo lavoro prima che arrivi Judith.»

«Judith? Pensavo che Peak l'avesse messa fuori gioco», esclamò Johanson.

Anawak gli lanciò uno sguardo mentre trascinavano il cadavere di Rubin nel ponte a pozzo. «Lo credi davvero? Eppure la conosci. Non è una che si fa mettere fuori gioco così facilmente.»


Livello 3

Judith era fuori di sé.

Continuava a correre nel corridoio e a guardare nelle porte aperte. Quel maledetto tubo doveva essere da qualche parte! Era lei, che non cercava bene. Di certo l'aveva proprio sotto il naso.

Cerca, stupida bestia, si diceva. Sei troppo stupida per trovare un tubo. Stupida bestia. Vecchia rimbambita!

D'un tratto le mancò il pavimento sotto i piedi. Barcollò e si aggrappò a qualcosa. Erano saltate altre paratie. Il corridoio s'inclinava sempre più. Probabilmente l'Independence era ormai così piegata che le prime onde stavano già lambendo il bordo del ponte di volo verso prua.

Non poteva durare ancora a lungo.

Di colpo vide il tubo.

Era rotolato dentro un passaggio aperto. Judith Li lanciò un grido di trionfo. Corse verso il tubo, lo afferrò e corse lungo il corridoio verso la scaletta di boccaporto. Il cadavere di Peak era proprio lì in mezzo. Spinse via il corpo pesante e scese la scala. Per gli ultimi due metri saltò e si tenne stretta alla ringhiera per non cadere lunga distesa. E là c'era il secondo tubo.

Adesso era davvero euforica. Il resto sarebbe stato un gioco da ragazzi. Ma, quando riprese a correre, si dovette ricredere: alcune delle scalette di boccaporto erano bloccate da diversi oggetti. Per liberarle ci sarebbe voluto troppo tempo.

Come si usciva da lì?

Doveva tornare indietro. Doveva risalire, arrivare al ponte dell'hangar e prendere la rampa.

Cominciò a salire velocemente coi due siluri, stretti a sé come se fossero il suo tesoro più prezioso.


Anawak

Rubin era pesante. Dopo essersi infilati le tute di neoprene — Johanson ansimando e gemendo -, unirono le forze e lo trascinarono lungo il molo di destra. Dal ponte si vedeva una scena assurda. I moli si sollevavano da tutte e due le parti, come trampolini da sci. Il fondo era visibile nel punto in cui toccava la paratia di poppa. Una gran parte dell'acqua del bacino aveva sollevato i quattro zodiac ormeggiati ed era. rifluita nel corridoio del laboratorio. Anawak sentiva i gemiti dell'acciaio e si chiedeva per quanto tempo la struttura avrebbe retto quel carico.

I tre batiscafi erano appesi obliquamente sopra il bacino. Il Deepflight 2 era stato spostato al posto del Deepflight 1, andato perso. Gli altri due batiscafi erano stati aperti.

«Con quale vuole scendere Judith?» chiese Anawak.

«Col Deepflight 3», rispose Karen.

Osservarono le funzioni del quadro di controllo e provarono a schiacciare diversi pulsanti. Non accadde nulla.

«Deve funzionare.» Lo sguardo di Anawak si spostava sulla console. «Roscovitz ha detto che il ponte a pozzo dispone di un circuito elettrico autonomo.» Si chinò ancora di più sul quadro di controllo e lesse con attenzione le scritte. «Eccolo. Questo è il tasto per farlo scendere. Bene, voglio il Deepflight 3. Così Judith Li non potrà prenderlo in caso riesca ad arrivare qui.»

Karen mise in funzione l'impianto di sollevamento, ma, invece del batiscafo di mezzo, si abbassò quello davanti.

«Non puoi far calare il Deepflight 3…?»

«Probabilmente c'è un sistema, ma io non lo conosco. Per quello che ne so, scendono l'uno dopo l'altro.»

«Non importa», la interruppe Johanson nervosamente. «Non abbiamo tempo da perdere. Prendi il Deepflight 2

Attesero finché il batiscafo non scese all'altezza del molo. Karen ci saltò sopra e aprì le coperture delle due cabine a forma di tubo. Il corpo di Rubin sembrava incredibilmente pesante quando lo tirarono a bordo. In effetti era appesantito dall'umidità e dalla sostanza che gli avevano iniettato. La testa ciondolava da una parte all'altra e gli occhi acquosi fissavano il nulla. Tirarono e spinsero insieme, finché Rubin non finì nella cabina tubolare del copilota.

Era arrivato il momento.

Il suo sogno dell'iceberg. Sapeva che prima o poi sarebbe finito là sotto. L'iceberg si sarebbe sciolto e lui sarebbe sprofondato sul fondo dell'oceano sconosciuto…

Per incontrare chi?


Karen Weaver

«No, Leon, tu non vai.»

Anawak sollevò sorpreso la testa. «Che vorresti dire?»

«Quello che ho detto.» Uno dei piedi di Rubin era ancora fuori. Karen lo colpì con un calcio. Trovava terribile dover trattare un morto in quel modo, anche se Rubin era stato un traditore. Ma la pietà era un sentimento che non si poteva permettere. «Scenderò io.»

«Come? Perché questa decisione improvvisa?»

«Perché è giusto così.»

«No, per niente.» La afferrò per le spalle. «Karen, potrebbe andare malissimo. Questo…»

«So bene come può andare a finire», mormorò. «Nessuno di noi ha grandi possibilità di salvarsi, ma le vostre sono maggiori. Prendete gli altri batiscafi e auguratemi buona fortuna, okay?»

«Karen! Perché?»

«Vuoi assolutamente saperlo, vero?»

Anawak la fissò.

«Vorrei far gentilmente notare che stiamo perdendo tempo», sbuffò Johanson. «Perché non state qui voi due e vado io?»

«No.» Karen continuava a fissare Anawak. «Leon, lo sai che ho ragione. Un Deepflight lo guido con la mano sinistra, sono più brava di voi. Sono stata con l'Alvin sulla dorsale medioatlantica, a migliaia di metri di profondità. Sono quella che conosce meglio i batiscafi e…»

«È una follia», esclamò Anawak. «So guidare questa cosa bene quanto te.»

«… inoltre quello laggiù è il mio mondo. Il profondo mare blu, Leon. Fin da quand'ero piccola. Dal mio decimo anno di vita.»

Anawak aprì la bocca per ribattere. Karen gli posò l'indice sulle labbra e scosse la testa. «Vado io.»

«Vai tu», sussurrò lui.

«Okay.» Si guardò intorno. «Aprite la chiusa e fatemi scendere. Non ho idea di cosa succederà quando il pozzo sarà aperto. Forse gli yrr ci attaccheranno direttamente, forse non succederà niente. Pensiamo positivo. Dopo che mi sarò sganciata, aspettate un minuto e, se la situazione lo permette, partite col secondo batiscafo. Non seguitemi. Rimanete appena sotto le onde e vedete di allontanarvi dalla nave. Più tardi…» Fece una pausa. «Prima o poi qualcuno ci ripescherà, no? Questi affari hanno a bordo una trasmittente satellitare.»

«A dodici nodi avrai bisogno di due giorni e due notti per raggiungere la Groenlandia o le Svalbard», commentò Johanson. «Il combustibile non è sufficiente.»

«Andrà tutto bene.» Si sentiva il cuore stretto. Abbracciò in fretta Johanson. Pensava a com'erano sfuggiti insieme allo tsunami sulle Shetland.

Si sarebbero rivisti!

«Che ragazza valorosa», disse Johanson.

Poi lei strinse il viso di Anawak tra le mani e gli diede un lungo bacio sulla bocca. Non avrebbe più voluto lasciarlo. Avevano parlato così poco, soprattutto di quello che sarebbe stato meglio per loro…

Adesso non diventare sentimentale.

«Sta' attenta», disse Anawak sottovoce. «Al più tardi tra un paio di giorni saremo di nuovo insieme.»

Con un balzo, Karen entrò nella cabina tubolare del pilota. Il Deepflight 2 oscillò leggermente. Lei si mise prona, scivolò nella posizione corretta e attivò il dispositivo di chiusura. Lentamente le due cupole si abbassarono e si chiusero. Osservò gli strumenti. Tutto sembrava intatto.

Karen Weaver sollevò i pollici.


Il mondo dei viventi

Johanson andò al pannello di controllo, aprì la chiusa e mise in movimento il Deepflight, che cominciò a scendere. Le paratie si apiirono e apparve il mare scuro. Non c'era nulla che cercasse di entrare. Karen staccò dall'interno il blocco per liberare il batiscafo, che sbatté sull'acqua e affondò. Nella cupola di vetro entrò l'aria del sistema. I colori impallidirono l'uno dopo l'altro, e il profilo del Deepflight cominciò a sfocarsi finché di esso non rimase che un'ombra.

Poi sparì.

Anawak sentì come una coltellata nel cuore.

«I ruoli degli eroi in questa storia sono già stati assegnati. Ai morti. Tu appartieni al mondo dei vivi.»

Greywolf!

«Forse hai bisogno di un intermediario che ti confidi quello che lo spirito uccello vede.»

Il medium di cui gli aveva parlato Akesuk era stato Greywolf, che gli aveva spiegato il suo sogno e aveva visto giusto. L'iceberg si era sciolto, ma la strada di Anawak non portava negli abissi, bensì nella luce.

Lo portava nel mondo dei vivi.

Da Samantha Crowe.

Anawak sobbalzò. Ma certo! Come aveva potuto farsi prendere così tanto dall'idea dell'eroico sacrificio? Come aveva potuto lasciarsi sfuggire il vero compito che lo aspettava a bordo dell'Independence?

«E ora?» chiese Johanson.

«Piano B.»

«Che sarebbe?»

«Devo tornare su.»

«Ma sei pazzo? A che scopo?»

«Voglio trovare Sam. E Murray.»

«Lassù non c'è più nessuno», disse Johanson. «La nave è stata evacuata. Erano tutti e due nel CIC l'ultima volta che li ho visti. Probabilmente sono stati tra i primi a volare via.»

«No.» Anawak scosse la testa. «Almeno non Sam. L'ho sentita chiedere aiuto.»

«Come? Quando?»

«Prima che vi raggiungessi. Sigur, non voglio infastidirti coi miei problemi, ma nella mia vita ho chiuso gli occhi troppo spesso. Ora è diverso. Non sono più così. Capisci? Non posso ignorarlo.»

Johanson sorrise. «No. Non puoi.»

«Stai attento! Faccio solo un tentativo. Intanto abbassa il Deepflight 3 e preparalo per la partenza. Se non riesco a trovare Sam nei prossimi minuti, torno indietro e ce la filiamo.»

«E se la trovassi?»

«C'è il Deepflight 4

«Va bene.»

«Davvero?»

«Certo.» Johanson allargò le braccia. «Cosa stai aspettando?»

Anawak esitò e si morse le labbra. «E se non torno entro cinque minuti, vattene senza di me, capito?»

«Aspetterò.»

«No. Tu aspetti cinque minuti. Al massimo.»

Si abbracciarono. Anawak corse lungo il molo. La zona in cui iniziava il tunnel che conduceva al settore del laboratorio era tutta allagata, ma l'Independence sembrava ancora in posizione piuttosto stabile. Negli ultimi minuti, la nave non si era ulteriormente inclinata in avanti.

Per quanto ancora? pensò Anawak.

L'acqua gli lambì le caviglie. Avanzò, a un certo punto fu costretto a nuotare, sentì di nuovo il pavimento sotto i piedi, infine nuotò ancora per qualche metro. Subito dopo, procedere divenne più difficile. Nei pressi della rampa dell'hangar, il soffitto era inclinato verso la superficie dell'acqua, ma rimanevano alcuni metri liberi per respirare. Anawak nuotò davanti alla porta chiusa del laboratorio fino al gomito della rampa e sbirciò oltre. Mentre alcune parti della rampa erano diventate piane, altre erano molto ripide. E il tratto fino al ponte dell'hangar era ripidissimo. In alto era sospesa una cappa di fumo. Doveva procedere carponi. Nonostante la tuta di neoprene aveva freddo. Anche se fossero riusciti ad andarsene col batiscafo, la loro sopravvivenza non era affatto certa.

E invece sì. Doveva sopravvivere! Doveva rivedere Karen Weaver.

Si mise a salire con decisione.

Fu più facile di quanto avesse creduto. L'acciaio della rampa era scanalato per offrire una presa ai veicoli e ai marinai. Le dita di Anawak si aggrapparono ai solchi. Più saliva, più la temperatura aumentava. In compenso nei suoi polmoni arrivò del fumo denso, che gli tolse il poco fiato rimasto. Le nuvole di fumo diventavano sempre più spesse. Dal ponte di volo arrivava ancora quel tremendo rimbombo.

Quando aveva sentito il grido di Samantha stava già bruciando tutto. Se era sopravvissuta all'esplosione e all'incendio, forse era ancora via.

Ansimando, si trascinò per gli ultimi metri e, con sua grande sorpresa, si rese conto che la visuale nell'hangar era migliore che sulla rampa. Nel tunnel il fumo si accumulava; lì i passaggi degli elevatori esterni permettevano la circolazione dell'aria. Facevano entrare il fumo, ma nel contempo lo disperdevano. L'aria era calda e soffocante come in un forno. Anawak si premette la manica davanti alla bocca e al naso e corse sui ponte dell'hangar.

«Sam!» gridò.

Nessuna risposta. Cosa si era aspettato? Che sarebbe corsa verso di lui a braccia spalancate?

«Sam! Samantha!»

Doveva essere impazzito.

Però meglio essere pazzo che morto, anche se apparentemente vivo. Greywolf aveva ragione. Lui aveva vissuto come uno zombie. La pazzia che sentiva in quel momento gli dava molto di più di una vita illusoria.

«Sam!»


Ponte a pozzo

Johanson era solo.

Era praticamente certo che Floyd Anderson gli avesse rotto un paio di costole. Almeno così si sentiva. Ogni movimento gli procurava un dolore infernale. Quando avevano portato via Rubin e l'avevano caricato sul batiscafo, più volte avrebbe voluto urlare per il dolore, però aveva stretto i denti per non creare ulteriori problemi.

Ma le forze lo stavano abbandonando.

Pensò al Bordeaux nella sua cabina. Che guaio! Ne avrebbe gustato volentieri un bicchiere. Sì, non avrebbe sanato le costole, tuttavia avrebbe dato a quella incresciosa situazione una nota sopportabile. Anche a costo di brindare con se stesso, dal momento che tutti i buongustai erano morti, tranne lui. Soprattutto tenuto conto del fatto che, tra gli individui fantastici o ripugnanti conosciuti nelle ultime settimane, non ce n'era neppure uno che condividesse il suo spiccato senso estetico.

Probabilmente lui era un dinosauro.

Un Saurus exquisitus, pensò, mentre abbassava il Deepflight 3 all'altezza del molo.

Gli piaceva. Saurus exquisitus. Era proprio quello. Un fossile che amava essere un fossile. Affascinato dal futuro e dal passato che troppo spesso si mescolavano, al punto da rendergli impossibile capire in quale epoca stesse vivendo. Le cose passate e quelle future eccitavano la sua fantasia.

Bohrmann…

Il tedesco avrebbe saputo apprezzare un buon Bordeaux. Lui e nessun altro. Sue si era divertita, ma avrebbe potuto anche offrirle un vino preso al supermercato. Del team dello Château Disaster, chi era sufficientemente raffinato da saper apprezzare un Pomerol, il suo bouquet ricco di sfumature? Nessuno, tranne forse…

Judith Li.

Cercò per l'ennesima volta d'ignorare il dolore, saltò sul Deepflight, gemette e restò in posizione eretta con le ginocchia tremanti. Aprì il coperchio del meccanismo di chiusura e liberò gli sportelli, che lentamente si sollevarono. Le due cabine tubolari erano aperte davanti a lui.

«Tutti a bordo», gridò.

Strano… Stava in equilibrio su un batiscafo in un ponte a pozzo inclinato. In quali situazioni ti cacciava la vita. Ripensò a Judith Li.

Piuttosto avrebbe vuotato le bottiglie nel mar di Groenlandia. Si poteva preservare il bello anche non condividendolo con determinate persone.


Judith Li

Quando raggiunse il ponte dell'hangar era affannata.

Le dense nuvole di fumo bloccavano quasi completamente la visuale, tuttavia le sembrò di vedere in lontananza una figura che correva avanti e indietro.

Poi sentì: «Sam! Samantha!»

Era stato Anawak a gridare?

Esitò. A cosa sarebbe servito eliminarlo, ormai? Le ultime paratie a prua potevano cedere da un momento all'altro e la nave si sarebbe spezzata. A quel punto, l'Independence sarebbe sprofondata come un sasso.

Corse verso la rampa e vide un buco pieno di fumo. Le si strinse lo stomaco. Non aveva paura e tantomeno considerava quella discesa superiore alle sue forze, però si chiese come avrebbe fatto a scendere coi due tubi. Se le fossero scivolati di mano, sarebbero finiti nell'acqua scura.

Mise i piedi di traverso e cominciò a scendere la rampa, un passo alla volta. Intorno a lei, buio opprimente e fumo soffocante. I suoi stivali risuonavano contro l'acciaio scanalato.

Perse l'equilibrio e cadde con le gambe distese in avanti. Poi scivolò a folle velocità. Serrava i due tubi tra le braccia, ma sentiva dolorosamente la ruvida superficie della rampa e i travetti che le martellavano l'osso sacro. Poi si ribaltò e vide l'acqua nera che si avvicinava.

Cadde e non vide più niente. Poi riemerse, boccheggiando.

Non aveva lasciato andare i tubi!

Dalle pareti del tunnel provenivano gemiti cupi. Judith Li si mosse, nuotò silenziosamente, superò il gomito e si diresse verso il ponte a pozzo. Nel tunnel l'illuminazione era spenta, ma il ponte a pozzo disponeva di un sistema elettrico autonomo. Oltre, c'era più luce. Nell'avvicinarsi, vide il molo sollevato, il coperchio di chiusura di poppa che pendeva minaccioso sul bacino artificiale e i due batiscafi, uno dei quali ondeggiava all'altezza del molo.

Due batiscafi? Il Deepflight 2 era sparito.

E sul Deepflight 3 c'era Johanson, in equilibrio precario, con indosso una tuta di neoprene.

Ponte di volo

Samantha Crowe non ce la faceva più.

Sì, il cuoco pakistano aveva le sigarette, ma per il resto non era di grande aiuto. Se ne stava accucciato a frignare e non era in grado di elaborare uno straccio di piano. A dire la verità, neppure Samantha sapeva che cosa fare. Guardava sbigottita le fiamme che divampavano, ma odiava anche soltanto l'idea di arrendersi. Dopo aver trascorso anni — decenni — ad ascoltare l'universo nella speranza di ricevere segnali da intelligenze aliene, arrendersi era impensabile. Quella cosa non poteva rientrare nel suo repertorio.

Improvvisamente si sentì un boato. Sull'isola si allargò una nuvola incandescente, che esplose come se fosse un fuoco d'artificio. Un'ondata di violente vibrazioni attraversò il ponte di coperta, poi alcune fontane di fuoco saettarono verso Samantha e il cuoco.

Urlando, l'uomo balzò in piedi, fece un salto indietro, inciampò e cadde fuori bordo. Samantha cercò di afferrare il suo braccio teso. Per qualche istante, il cuoco la fissò, col volto deformato dal terrore, poi cadde nell'abisso. Colpì il portellone di poppa inclinato, venne trascinato via e sparì. Le urla finirono. Samantha sentì un tonfo, si ritrasse, atterrita, e girò la testa.

Era in mezzo alle fiamme. L'asfalto bruciava tutt'intorno a lei. Il calore sembrava insopportabile. Solo la parte di dritta era stata risparmiata dalle fiamme. Per la prima volta, Samantha sentì nascere dentro di sé una vera disperazione. Non c'era più speranza. Al massimo poteva ritardare la morte, nient'altro.

Il calore la costrinse a spostarsi indietro. Corse verso destra, dove c'era il raccordo dell'elevatore esterno.

Che doveva fare?

«Sam!»

Adesso aveva anche le allucinazioni! Qualcuno aveva gridato il suo nome? Impossibile.

«Sam! Samantha!»

No, non era un'allucinazione. Qualcuno stava gridando il suo nome.

«Qui!» urlò. «Sono qui.»

Si guardò intorno, con gli occhi sgranati. Da dove proveniva la voce? Sul ponte di volo non vedeva nessuno.

Poi comprese.

Con cautela, per non cadere, si chinò oltre il bordo. L'aria era piena di fumo, tuttavia vide chiaramente sotto di lei la piattaforma inclinata dell'elevatore esterno.

«Sam?»

«Qui! Qui in alto!» Urlava fino a sputare l'anima. Qualcuno arrivò di corsa sulla piattaforma e sollevò la testa.

Era Anawak.

«Leon!» gridò. «Sono qui!»

«Mio Dio, Sam.» La fissò. «Aspetta. Resta lì, vengo a prenderti.»

«E come, ragazzo mio?»

«Salgo.»

«Non si può più salire», gridò lei. «Qui è tutto in preda delle fiamme. L'isola, il ponte di volo… C'è un inferno di fuoco che farebbe impallidire qualsiasi film catastrofico.»

Anawak correva nervosamente avanti e indietro. «Dov'è Murray?»

«Morto.»

«Dobbiamo andarcene, Sam.»

«Grazie per l'attenzione che mi riservi.»

«Sei sportiva?»

«Come?»

«Sai saltare?»

Samantha lo fissò. Sportiva! Oh, santo cielo. Un tempo lo era stata. In un'epoca lontana della sua vita, prima di scoprire le sigarette. E quelli erano almeno otto metri, forse dieci. Senza contare che l'inclinazione della piattaforma aveva formato una sorta di scivolo.

«Non lo so.»

«Neanch'io. Hai un'idea migliore che possa funzionare nel giro dei prossimi dieci secondi?»

«No.»

«Possiamo andarcene col batiscafo.» Anawak allargò le braccia. «Forza, salta! Ti prendo io.»

«Scordatelo, Leon. È meglio se ti sposti.»

«Smettila di arringare il popolo e salta!»

Samantha lanciò un'ultima occhiata al di sopra della propria spalla. Le fiamme si avvicinavano. La attaccavano, lingueggiavano fameliche verso di lei. Chiuse per un momento gli occhi e li riaprì.

«Arrivo, Leon!»


Ponte a pozzo

Dove diavolo era Anawak?

Johanson stava accucciato sul batiscafo, che ondeggiava lievemente, e guardava nell'acqua nera della chiusa: finora non era comparso nulla che facesse pensare agli yrr. In fondo, però, a che scopo? Perché avrebbero dovuto attaccare ancora? Dovevano soltanto aspettare che la nave affondasse. Gli yrr avevano distrutto anche l'Independence.

I cinque minuti erano passati.

Forse poteva andarsene. C'era un altro batiscafo a disposizione di Leon e di Samantha.

E Shankar?

Allora sarebbero stati in quattro. Non poteva andar via. Se Anawak fosse arrivato con Samantha e Shankar, avrebbero avuto bisogno di entrambi i batiscafi.

Cominciò a canticchiare la Prima sinfonia di Mahler.

«Sigur!»

Johanson sobbalzò. Un dolore paralizzante gli frustò la parte superiore del corpo e gli tolse il respiro. Proprio dietro all'imbarcazione, sul molo, c'era Judith Li e gli puntava contro una pistola. Di fianco a lei c'erano due tubi sottili.

«Scenda, Sigur. Non mi costringa a spararle.»

Johanson afferrò il cavo cui era appeso il Deepflight. «Perché dice 'costringere'? Pensavo che si divertisse.»

«Scenda.»

«Mi vuole minacciare, Jude?» Fece un sorriso asciutto, mentre i suoi pensieri correvano all'impazzata. Doveva trattenerla. Improvvisare. Bluffare, fare il possibile fino all'arrivo di Anawak «Al suo posto non sparerei, altrimenti può dire addio alla sua immersione.»

«Che intende?»

«Questo lo vedrà.»

«Parli.»

«Parlare è noioso. Forza, generale comandante Li. Non sia così schizzinosa. Mi spari e lo scoprirà.»

Lei esitò. «Cos'ha messo nel batiscafo, maledetto idiota?»

«Sa che le dico?» Con grande fatica, Johanson si rialzò. «La aiuterò a rimettere tutto a posto, però prima mi deve spiegare una cosa.»

«Non c'è tempo.»

«Già. Che stupido.»

Judith Li lo fulminò con un'occhiata furiosa. Abbassò l'arma. «Avanti, chieda.»

«La domanda la conosce già. Perché?»

«Dice sul serio?» Judith Li sbuffò. «Provi un po' a sforzare il suo cervello così sviluppato. Dove crede che sarebbe il mondo senza gli Stati Uniti d'America? Noi siamo l'unico elemento di stabilità rimasto. Esiste un solo modello duraturo per il successo nazionale e internazionale, un modello reale e valido senza limiti per ogni persona in ogni società: quello americano. Non possiamo permettere al mondo, né alle Nazioni Unite, di risolvere il problema degli yrr. Essi hanno inferto gravi danni all'umanità, però hanno anche a disposizione un mostruoso potenziale di conoscenze. In quali mani vuole che finiscano, quelle conoscenze, Sigur?»

«Nelle mani di quelli che le sappiano usare al meglio.»

«Esatto.»

«Ma questo è ciò cui abbiamo lavorato tutti, Jude! Non siamo dalla stessa parte? Potremmo arrivare a un accordo con gli yrr. Potremmo…»

«Ma non ha ancora capito? La possibilità di un accordo ci è preclusa. Contraddice gli interessi del mio Paese. Noi, gli Stati Uniti, dobbiamo arrivare a quelle conoscenze e nel contempo impedire ad altri di arrivarci. Non c'è alternativa: bisogna liberare il mondo dagli yrr. Anche solo una coesistenza sarebbe l'ammissione della nostra sconfitta, una sconfitta dell'umanità, della fede in Dio, della fiducia nella nostra egemonia. Ma la cosa peggiore di una coesistenza è che porterebbe a un nuovo ordine mondiale. Rispetto agli yrr, saremmo tutti uguali. Ogni Paese che possiede una tecnologia sviluppata potrebbe comunicare con loro. Tutti cercherebbero di speculare, di stringere alleanze con loro, di entrare in possesso delle loro cognizioni, e magari qualcuno prima o poi riuscirebbe persino a sconfiggerli. E arriverebbe a dominare il pianeta.» Fece un passo verso di lui. «Capisce? Quella cosa laggiù dispone di una biotecnologia che noi oggi non ci sognamo neppure. Con lei si può entrare in contatto solo per via biologica, così in tutto il mondo diventerebbe legittimo continuare gli esperimenti coi microbi. Non possiamo permetterlo. Non c'è alternativa, è necessario distruggere gli yrr, e deve farlo l'America! Non possiamo permetterlo a nessuno, nemmeno a quegli smidollati dell'ONU, in cui ogni straccione ha un posto e il diritto di voto.»

«Lei è incredibile», commentò Johanson, tossendo. «Ma che razza di persona è?»

«Sono una persona che crede in Dio…»

«Lei è in pieno delirio di onnipotenza! Lei ama la sua carriera!»

«E la mia patria!» gridò Judith Li. «E lei a che cosa crede? Io so in cosa credo. Solo gli Stati Uniti d'America riusciranno a salvare il mondo…»

«E a stabilire una volta per tutte quali sono i ruoli, vero?»

«E allora? Il mondo vuole sempre che gli Stati Uniti facciano il lavoro sporco, e lo stiamo facendo anche adesso! Ed è giusto così! Non possiamo permettere che il mondo condivida il sapere degli yrr, quindi dobbiamo distruggerli e preservare quel sapere. Così saremo definitivamente noi a guidare la storia di questo pianeta e nessun dittatore, nessun regime che non ci sia amico potrà mettere in discussione questa egemonia.»

«Lei intende annientare l'umanità.»

Judith Li digrignò i denti. «Oh, voi scienziati vi riempite la bocca con argomenti simili. Non avete mai creduto che questo nemico si potesse sconfiggere e neppure che il suo annientamento arrivasse a risolvere i nostri problemi. Ve la fate sotto, piagnucolate all'idea che l'estinzione degli yrr possa distruggere l'ecosistema del pianeta. Ma gli yrr lo stanno già distruggendo! Crede che non sia il caso di mettere in conto qualche danno all'ambiente se, in compenso, torniamo a essere la specie dominante del pianeta?»

«Lei è l'unica che vuole dominare. Ed è una povera pazza. Come crede di dominare i vermi e impedire che…»

«Prima avveleniamo gli uni, poi gli altri. Quando non avremo più gli yrr tra i piedi, il campo sarà libero.»

«Lei avvelena l'umanità.»

«Sa una cosa, Sigur? Ridurre il numero degli esseri umani può avere anche i suoi vantaggi. A dire la verità, il pianeta potrebbe trarre profitto dal diventare più… spazioso.» Socchiuse le palpebre. «E ora si tolga dai piedi.»

Johanson non si mosse. Si tenne stretto al cavo e scosse la testa. «Il batiscafo non è utilizzabile», affermò.

«Non ci credo.»

«Allora non le resta che correre il rischio.»

Judith annuì. «Lo farò.»

Sollevò la pistola e sparò. Johanson cercò di scansarsi, ma sentì la pallottola penetrare nello sterno. Un'ondata di freddo e di dolore lo investì.

Quella stronza aveva sparato.

Gli aveva sparato.

Le sue dita si staccarono dal cavo, una alla volta. Barcollò, cercò di dire qualcosa, si girò e cadde bocconi nella cabina tubolare del pilota.


Elevatore esterno

Nel momento in cui vide saltare Samantha, Anawak dubitò che sarebbe andata bene: lei scalciava in aria, ma si era gettata troppo a sinistra. Anawak si lanciò all'indietro, spostandosi contemporaneamente di lato, allargò le braccia e sperò che l'impatto non li spedisse entrambi in mare.

Benché fosse minuta, Samantha lo colpì con la forza di un autobus in corsa.

Anawak cadde sulla schiena, con Samantha sopra. Scivolarono sul piano inclinato, strillando. Lui cercò di spingere i tacchi contro il pavimento, ma la sua testa sbatté contro l'asfalto. Era la seconda volta in quel giorno che faceva un'esperienza sgradevole sull'elevatore, e sperava intensamente che fosse l'ultima.

Si fermarono appena prima del bordo.

Samantha lo fissò. «Tutto bene?» gli chiese con un filo di voce.

«Mai stato meglio.»

Lei si staccò da Anawak, cercò di alzarsi, ma ricadde. «Non ce la faccio.»

Anawak saltò in piedi. «Che c'è?»

«Il mio piede. Il destro.»

Anawak s'inginocchiò e le toccò la caviglia.

Samantha gemette. «Credo sia rotta.»

Lui si bloccò. La nave si era forse inclinata ancora?

La piattaforma scricchiolò.

«Mettimi un braccio intorno alle spalle.» Aiutò Samantha a rialzarsi. Appoggiandosi a lui sarebbe riuscita a procedere su una gamba sola. Faticosamente, raggiunsero l'interno dell'hangar. Non si vedeva a una spanna dal naso e oltretutto il pavimento era diventato molto ripido.

Come faremo a scendere la rampa? pensò Anawak. Ormai doveva essere una vera e propria parete verticale.

Fu allora che sentì la rabbia crescere dentro di lui.

Quello era il mar di Groenlandia. L'estremo nord. E lui proveniva dall'estremo nord. Era un inuk. Un inuk al cento per cento! Era nato nell'Artico e apparteneva a quelle zone. Ma di certo non sarebbe morto lì e neppure sarebbe morta Samantha. «Forza», la incitò. «Avanti.»


Deepflight 3

Judith Li corse al pannello di controllo. Ho perso troppo tempo, rifletté. Non dovevo farmi coinvolgere da Johanson in quella discussione insensata.

Fece risalire un po' il Deepflight e lo spostò lungo il molo finché non fu esattamente sopra di lei. Vide i due vani vuoti. I siluri perforanti erano infilati nei loro supporti, mentre i due siluri più piccoli erano stati tolti per far spazio ai tubi pieni di veleno. Perfetto! Il Deepflight disponeva ancora di un considerevole armamento.

Infilò velocemente i tubi nei vani e li bloccò. Il progetto del sistema era magnifico. Non appena fossero stati sparati fuori, una piccola capsula esplosiva si sarebbe occupata di spruzzare il veleno. Della diffusione si sarebbe occupata l'acqua e il resto — involontariamente — l'avrebbero fatto gli yrr. Quella era la parte migliore del piano: la morte programmata delle cellule, elaborata da Rubin. Una volta infettato, l'insieme si sarebbe autodistrutto con una reazione a catena.

Rubin aveva fatto un buon lavoro.

Esaminò ancora una volta il sistema di blocco, manovrò il Deepflight sino a portarlo sopra la chiusa e lo abbassò al livello dell'acqua. Non aveva tempo d'infilarsi la tuta di neoprene. Doveva stare attenta. Scese velocemente la scaletta verso l'imbarcazione. Il Deepflight oscillò mentre lei si arrampicava a bordo. Il suo sguardo cadde sul vano del pilota aperto e, dentro, lei vide Johanson. Era in posizione prona, immobile.

Quell'incorreggibile idiota… Perché non si era spostato, lasciandosi cadere nel bacino? Adesso avrebbe dovuto anche disfarsi del cadavere.

Provò un vago dispiacere. In un certo senso, quell'uomo le piaceva, lo ammirava.

In altre circostanze, forse…

Un rumore attraversò la nave.

No, era troppo tardi per occuparsi di lui e in effetti non importava. Il batiscafo si poteva guidare tranquillamente anche dal posto del copilota. Le funzioni si potevano trasferire. Poteva disfarsi di Johanson sott'acqua.

Da qualche parte, l'acciaio si crepò con un rumore assordante.

Judith Li s'infilò velocemente nella cabina tubolare e azionò la chiusura degli sportelli, che si abbassarono e si chiusero con uno scatto. Fece scivolare le dita sulle apparecchiature di controllo: un ronzio riempì lo spazio interno, si accesero alcune file di luci e due piccoli monitor. Tutti i sistemi erano pronti. Il Deepflight galleggiava tranquillo sull'acqua verde e nera del mar di Groenlandia, pronto a scendere negli abissi attraverso i tre metri del pozzo.

Judith si sentì travolgere dall'euforia.

Ce l'aveva fatta.


Rifugio

Johanson era seduto presso il lago.

Lo specchio d'acqua si stendeva davanti a lui, calmo e pieno di stelle. Quanto aveva desiderato tornarci un'altra volta. Osservava il paesaggio della sua anima e provava un senso di rispetto e di felicità. Si sentiva stranamente privo di peso, non sentiva il caldo e il freddo. E poi c'era qualcosa di diverso dal solito. Gli sembrava di essere lui stesso il lago, la casetta, la foresta nera e silenziosa tutt'intorno a essa, i rumori del sottobosco, la luna… Lui era tutto e tutto era in lui.

Tina Lund.

Che peccato. Come gli dispiaceva che non fosse lì. Quella tranquillità e quella pace profonda le sarebbero piaciute. Ma lei era morta, uccisa dalla violenta ribellione della natura contro una piaga creata della civiltà umana, una piaga che, simile a una muffa, si stendeva lungo le coste. Tina era stata spazzata via, come tutto il resto. Però l'immagine impressa sulla sua retina rimaneva. Il lago era eterno. Quella notte non sarebbe finita. E all'essere solo sarebbe seguito il benefico nulla, il piacere finale dell'egoista.

Voleva quello? Voleva davvero essere solo?

Da una parte, perché no? Essere solo aveva una serie di vantaggi impagabili. Si passava tempo prezioso con se stessi. Si stava in ascolto del proprio animo e si sentivano cose sorprendenti.

Ma, dall'altra… Su quale linea correva il confine della solitudine?

Improvvisamente provò paura.

La paura faceva male. Gli mordeva il petto, gli toglieva il respiro. Sentì freddo e prese a tremare. Le stelle del cielo si trasformarono in luci rosse e verdi ed emisero un ronzio elettrico. Tutta l'immagine si sfocò in qualcosa di splendente, spigoloso. Lui non era più seduto davanti al lago. Il lago non c'era più. Lui era disteso, stretto in un tunnel, in una canna, in un tubo.

All'improvviso riprese coscienza.

Sei morto, pensò.

No, non era morto. Ma sentiva che gli rimanevano solo pochi secondi. Era disteso all'interno del batiscafo che doveva portare il veleno negli abissi per ripagare il crimine compiuto dagli yrr -ammesso che fosse davvero un crimine — con un crimine peggiore, un crimine contro gli yrr e contro l'umanità.

Davanti a lui non splendevano le stelle, ma le apparecchiature del Deepflight. Erano accese. Alzò lo sguardo, sbirciò attraverso la cupola di vetro e vide il bordo superiore del ponte a pozzo sparire verso l'alto.

Erano nella chiusa.

Con un incredibile sforzo di volontà, riuscì a girare la testa. Nella cabina tubolare di fianco a lui riconobbe il bel profilo di Judith Li.

Juiith Li.

Judith Li l'aveva ucciso.

Quasi.

Il batiscafo sprofondava. Passarono davanti ai pannelli d'acciaio rivettati. Ben presto sarebbero stati fuori. Niente e nessuno poteva impedire a Judith Li di scaricare in mare il suo carico mortale.

Non poteva finire così.

Fece scivolare le mani da sotto il busto e allargò le dita. Cominciò a sudare e quasi perse i sensi. Là c'era la console. Lui era nella cabina del pilota. Judith Li aveva trasferito i comandi e guidava il batiscafo dalla cabina del copilota.

Ma quella cosa si poteva cambiare.

Era sufficiente premere un tasto e i comandi sarebbero tornati a lui.

Ma dov'era quel pulsante?

Era stata Kate Ann Browning ad addestrarli. L'aveva fatto in maniera esaustiva e lui era stato attento. Quelle cose lo interessavano. Il Deepflight rappresentava l'inizio di una nuova era nelle immersioni abissali, e Johanson nutriva un grande interesse per il futuro. Sapeva dov'era quel tasto! Sapeva anche a cosa servivano gli altri strumenti e cosa bisognava fare per ottenere l'effetto desiderato. Doveva soltanto ricordare.

Ricorda!

Le sue dita strisciavano come ragni sulle tastiere sporche di sangue. Il suo sangue.

Ricorda!

Là. Il tasto. E di fianco…

Non poteva più fare granché. La vita lo stava abbandonando, ma lui aveva ancora un residuo di forza. Sarebbe bastato.

Va' all'inferno, Judith Li!


Judith Li

Judith Li fissava fuori dalla cupola. A pochi metri da lei, si stendeva la parete d'acciaio della chiusa. Il batiscafo scendeva lentamente verso il mare aperto. Ancora un metro, forse meno, e avrebbe fatto partire l'elica. Poi si sarebbe spostata di lato. Voleva essere il più lontano possibile dall'Independence nel momento in cui sarebbe affondata.

Quando avrebbe incontrato il primo insieme di yrr? Un insieme massiccio avrebbe potuto crearle dei problemi, lo sapeva, e non aveva la minima idea di quanto potessero diventare grandi quelle creature. Forse sarebbe stata anche attaccata dalle orche. In entrambi i casi, il suo armamento le avrebbe liberato la strada. Non c'era motivo di preoccuparsi.

Doveva solo aspettare la nuvola blu. Il momento giusto per sparare era poco prima della fusione.

Quei maledetti esseri unicellulari avrebbero avuto una bella sorpresa.

Che pensiero divertente. Un organismo unicellulare poteva essere sorpreso?

Ma subito dopo fu lei a meravigliarsi. Nelle apparecchiature era cambiato qualcosa. Si era appena spenta una spia, quella che indicava che i controlli dalla sua parte…

I comandi!

Non aveva più il controllo dei comandi! Tutte le funzioni erano state trasferite al pilota. Si era acceso un display che mostrava la disposizione dei quattro siluri, due sottili e due più grandi, i siluri perforanti.

Uno dei siluri perforanti era illuminato.

Judith Li sobbalzò, terrorizzata. Colpì la console per riportare i controlli alla sua postazione, ma il comando di sparo non si poteva bloccare. Nei suoi occhi acquamarina si riflettevano, inesorabili, le cifre del conto alla rovescia.

00.03… 00.02… 00.01…

«No!»

00.00.

Il suo volto si pietrificò.


Siluro

Il siluro perforante che Johanson aveva sparato schizzò fuori dal tubo. Si aprì la strada nell'acqua per circa tre metri, poi impattò contro la parete d'acciaio della chiusa ed esplose.

Il Deepflight fu travolto da un'ondata mostruosa e si schiantò contro la parete opposta. Dalla chiusa sgorgò una gigantesca fontana d'acqua. Il batiscafo si stava ancora ribaltando quando partì il secondo siluro. Con un rumore assordante, metà del ponte a pozzo saltò in aria e si gonfiò in una palla di fuoco, in cui sparirono immediatamente il Deepflight, le persone a bordo e il carico velenoso, come se non fossero mai esistiti. Grossi frammenti si conficcarono nel ponte e nelle pareti, perforando le cisterne di zavorra di poppa, che si riempirono immediatamente, mentre, attraverso il cratere, che una volta era stato il fondo del bacino artificiale, sgorgarono migliaia di tonnellate di acqua marina.

La poppa dell'Independence sprofondò.

La nave prese ad affondare a grande velocità.


Fuga

Anawak e Samantha avevano appena raggiunto il bordo della rampa quando l'ondata dell'esplosione percorse la nave.

La scossa li fece cadere. Anawak vorticò in aria e vide il tunnel pieno di fumo girare davanti ai suoi occhi, poi finì a testa in giù nella gola nera. Di fianco a lui, Samantha roteò e sparì dal suo campo visivo. L'acciaio scanalato gli sbatteva contro le spalle, la schiena, il petto, il bacino e gli strappava la pelle. Anawak atterrò, fece un salto e fu preso da un'onda d'urto che lo trascinò via. Per un attimo, ebbe l'impressione di essere spinto nuovamente in alto. Nelle sue orecchie risuonava un rumore indescrivibile, come se tutta la nave stesse andando in pezzi. Continuò a cadere per qualche secondo, poi, con un ampio arco, finì in acqua e andò sotto.

Venne subito risucchiato da un vortice. Mulinò le braccia e le gambe per sfuggirgli, senza avere la minima idea di dove fossero il sopra e il sotto. L'Independence non stava affondando di prua? Perché allora era sommersa la poppa?

Il ponte a pozzo. Era esploso.

Johanson!

Qualcosa lo colpì sul viso. Un braccio. Lo afferrò e lo tenne stretto, sbatté i piedi, ma non ebbe la sensazione di andare avanti. Fu scagliato da una parte e immediatamente trascinato indietro, in tutte le direzioni contemporaneamente. I polmoni gli dolevano come se stesse respirando fuoco liquido. Doveva tossire. Quell'ottovolante subacqueo gli dava anche una profonda nausea.

Improvvisamente la testa sbucò in superficie.

Luce fioca.

Samantha emerse al suo fianco. Lui le teneva sempre stretto il braccio. La donna aveva gli occhi chiusi e sputacchiava. Finì ancora sott'acqua e lui la tirò su. Intorno, l'acqua schiumava e ribolliva. Anawak alzò la testa e comprese che erano sul fondo del tunnel della rampa. Dove una volta c'era il gomito che portava al laboratorio e al ponte a pozzo, adesso infuriavano le onde.

L'acqua saliva ed era freddissima.

Acqua gelida direttamente dall'oceano.

La sua tuta di neoprene lo avrebbe protetto per un po' contro l'ipotermia. Ma Samantha non la indossava.

Annegheremo, pensò. Oppure congeleremo. In un modo o nell'altro, questa è la fine. Siamo rinchiusi nel ventre di questa orribile nave che si sta riempiendo. Affonderemo con l'Independence.

Moriremo.

Morirò.

Fu preso da una paura sconosciuta. Non voleva morire. Non voleva che finisse così. Amava la vita. L'amava tantissimo e aveva ancora tante cose da fare. Non poteva morire. Non era ancora arrivato il suo momento. Un'altra volta, bene, ma adesso no.

La paura era insopportabile.

Finì di nuovo sott'acqua. Qualcosa gli aveva toccato la testa. Era un'oggetto non particolarmente duro, ma che lo teneva sotto. Anawak sbatté le gambe e si liberò. Riemerse, boccheggiando, e vide ciò che l'aveva colpito. Il suo cuore fece un balzo.

Uno degli zodiac era stato sputato fuori dal ponte a pozzo, probabilmente liberato dall'onda d'urto dell'esplosione. Galleggiava, girando su se stesso nell'acqua schiumosa che continuava a crescere nel tunnel della rampa. Un gommone intatto, dotato di fuoribordo e cabina antipioggia. Pensato per otto persone, quindi più che sufficiente per due, e completo di attrezzature d'emergenza.

«Sam!» gridò.

Non la vedeva. Intorno a lui c'era soltanto nera acqua gorgogliante.

No, non può essere. Un attimo fa era vicino a me. «Sam!»

L'acqua continuava a salire. Oltre metà del tunnel era sommerso. Allungò le braccia, si sollevò sul bordo di gomma dello zodiac e si guardò intorno. Samantha era sparita. «No», urlò. «No, maledizione, no!»

Si sollevò nella barca, che oscillava violentemente. Muovendosi carponi, andò dalla parte opposta e guardò in acqua.

Samantha era là!

Galleggiava vicino allo zodiac. Le onde le coprivano il viso. Il gommone gli aveva impedito di vederla. La donna agitava debolmente le mani e aveva gli occhi semichiusi. Anawak si chinò verso l'esterno, riuscì ad afferrarle i polsi e la tirò.

«Sam!» strillò.

Le palpebre della donna vibrarono. Poi lei tossì e buttò fuori l'acqua. Anawak puntò i piedi contro il bordo e la tirò a sé. Le braccia gli dolevano talmente che temeva di non farcela, ma la volontà gli diceva che quella era l'unica strada percorribile per salvare Samantha. Non devi tornare a casa senza di lei, sembrò ammonirlo. Altrimenti puoi anche buttarti subito in acqua.

Gemeva e si lamentava, gridava e imprecava, tirava e trascinava… Poi improvvisamente la donna fu a bordo.

Anawak cadde seduto.

Non aveva più forze.

Non fare lo smidollato, gli disse la sua voce interiore. Il fatto che tu sia sullo zodiac non serve a niente. Devi uscire dalla nave prima che essa ti trascini con sé negli abissi.

Lo zodiac girava sempre più in fretta. Ballava sulla colonna d'acqua in salila verso il ponte dell'hangar. Ancora un breve tratto e sarebbero stati sputati proprio lì. Anawak si alzò, ma ricadde subito. Si trascinò fino alla cabina di guida e si rialzò, aggrappandosi ai sostegni della parete. Lo sguardo gli cadde sulla strumentazione. Era disposta intorno al timone ed era identica a quella del Blue Shark. Una situazione nota. Sapeva come fare.

Sollevò lo sguardo. Stavano risalendo la parte finale della rampa. Si aggrappò e attese il momento giusto.

D'un tratto furono fuori dal tunnel. Un'ondata li scagliò via e li spedì nell'hangar, che aveva già iniziato a riempirsi.

Anawak accese il fuoribordo.

Niente.

Forza, pensò. Non fare così il difficile, brutto stronzo! Accenditi.

Ancora niente.

Accenditi! Brutto stronzo! Brutto stronzo!

Di colpo, il motore rombò e lo zodiac scattò in avanti. Anawak si rovesciò aU'indietro. Riuscì ad afferrare uno dei sostegni della cabina e rientrò. Le sue mani strinsero il timone. Sfrecciò a tutta velocità nell'hangar, fece una virata mozzafiato e sfrecciò verso il passaggio per l'elevatore esterno.

L'apertura diventava sempre più bassa.

Più si avvicinava, più il passaggio si restringeva. La velocità con cui il ponte si stava riempiendo aveva dell'incredibile. L'acqua entrava dal basso e dai lati in ondate grigie e increspate. Nel giro di qualche secondo, gli otto metri di altezza dell'hangar si erano ridotti a quattro.

Meno di quattro.

Tre.

Il fuoribordo ululava in maniera straziante.

Meno di tre.

Ora!

Schizzarono fuori come una palla di cannone. Il tetto della cabina strisciò violentemente contro il bordo superiore del passaggio, poi lo zodiac volò sopra la cresta delle onde, rimase sospeso in aria per un attimo e ricadde con un tonfo.

Il mare era in tempesta. Tutt'intorno a loro rotolavano grigie onde mostruose. Anawak strinse con tale forza il timone che le nocche gli diventarono bianche. Risalì la successiva montagna d'acqua e cadde nell'abisso appena dietro, risalì di nuovo e ricadde. Poi diminuì la velocità. Era meglio andare più lentamente. Le onde erano molto alte, ma non ripide. Girò lo zodiac di centottanta gradi, si lasciò sollevare dalla successiva montagna che rotolava verso di lui, quindi procedette molto lentamente, guardando fuori.

La vista era spettrale.

L'isola in fiamme dell'Independence emergeva dal mare color ardesia e spiccava nel cielo nuvoloso. Sembrava che un vulcano stesse eruttando in mezzo all'oceano. Nel frattempo, anche il ponte di volo era finito sott'acqua, e solo le rovine in fiamme continuavano testardamente a opporsi al destino ineluttabile. Anìwak era riuscito a distanziare lo zodiac dalla nave che stava affondando, ma il ruggito delle fiamme li raggiungeva lo stesso.

Continuava a fissare quello spettacolo, ammutolito.

«Forme di vita intelligenti…» Samantha gli comparve al fianco, bianca come un lenzuolo, con le labbra blu e tremante. Si stringeva nella giacca, e teneva piegata la gamba ferita. «Con loro si hanno solo guai.»

Anawak rimase in silenzio.

Guardarono insieme l'Independence che affondava.

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