Terza parte

9

La notte era trascorsa come un episodio di sogno.

Dopo aver fatto partire Leila per Londra aveva pensato di restare nel suo appartamento fino all’alba, poi aveva deciso di no. Bastava la telefonata o la visita di un amico per sconvolgere i suoi piani. Era uscito, incamminandosi verso il suo appartamento di Disley High Street, e s’era accorto che la ferita sanguinava ancora abbondantemente. Dal suo punto di vista, dal punto di vista del vero John Redpath, si trattava solo di un fastidio trascurabile. Poteva sopportare praticamente all’infinito il dolore e il freddo dei vestiti inzuppati di sangue; ma una voce gli aveva detto che gli occorrevano tutte le sue forze, tutte le sue risorse per la battaglia che lo attendeva.

Era andato al pronto soccorso dell’ospedale di Calbridge, dove il suo arrivo appena dopo l’ora di chiusura dei bar aveva dato l’impressione che lo avessero ferito in una zuffa. Solo il fatto che lui fosse perfettamente sobrio e la sua aria di rispettabilità avevano convinto il giovane medico a non chiamare la polizia, ad accettare la storia che si era ferito con uno scalpello per il legno. Lo avevano ripulito, gli avevano dato i punti, messo il disinfettante, lo avevano bendato, gli avevano fatto l’antitetanica e dato un sacco di raccomandazioni. Poi gli avevano scritto una ricetta e l’avevano rispedito a casa con l’ambulanza. Nella tranquillità neutra, dolcissima, del suo appartamento si era infilato nel letto freddo; e aveva dormito fino all’alba.


Risvegliandosi in una luce grigiastra, coi fantasmi delle impressioni sensoriali che cominciavano a piovergli addosso da tutto il palazzo, Redpath capì subito che gli effetti extrasensoriali ESP del Composto Centottantatré non erano ancora svaniti.

E capì anche che la sera prima, esausto e cerebralmente sovraffaticato com’era, aveva scoperto la tattica migliore per affrontare la situazione. Il trucco stava nel non pensare in maniera logica al suo piano, nel diventare un automa, uno zombie. La cosa nella cantina di Raby Street, il nato-Una-Volta, era ancora legato a lui, come gli aveva dimostrato il mostruoso momento di esistenza triplice, con tutte le sue rivelazioni; ma il legame non sarebbe mai stato completo come l’alieno desiderava, perché fra menti tanto diverse non esistevano i punti di contatto indispensabili.

Era il rapporto quello che mancava, decise. Su certi livelli esisteva una sorta di comunicazione, ma non c’era rapporto, e finché le cose stavano così lui sarebbe rimasto se stesso, avrebbe pensato con una parte del suo cervello, lasciando che un’altra parte guidasse le sue azioni. Sempre ammettendo che riuscisse a tenere sotto controllo le sue azioni…

“La famiglia mi vuole. Forse mi stanno cercando! Che diavolo potrei fare se Albert mi apparisse qui davanti?

“E quanto tempo resta? Quanto tempo, prima che arrivi la megamorte?”

Galvanizzato dal senso d’urgenza della sera prima, Redpath scostò le lenzuola e rotolò di lato. Il dolore della ferita lo colpì all’improvviso, intensissimo. Più cauto, si alzò, si massaggiò il fianco, indossò un maglione leggero e un paio di calzoni puliti. La luce del giorno aumentava d’intensità. In lontananza passò il camioncino di un lattaio, segno che la città si stava risvegliando. Prese la borsa da ginnastica in finta pelle, v’infilò dentro i cinque fazzoletti che possedeva e chiuse la cerniera lampo. Senza perdere tempo a mangiare o a radersi, raccolse la borsa e il televisore di Leila (non era troppo pesante, ce l’avrebbe fatta) e uscì.

La minuscola fetta di quartiere che vedeva dalle finestre del corridoio era perfettamente normale, come sempre. Gli alberi, il parcheggio sul retro, il cortile del negozio pieno di piedistalli per lampadari, la fila di case e garage: tutto gli inviava lo stesso messaggio, e cioè che solo quello era il vero universo, sicuro, immutabile, e che pensare diversamente era follia. Redpath distolse gli occhi, scese le scale, arrivò in strada. A quell’ora il traffico era scarso, c’erano solo pochi operai che andavano in fabbrica in bicicletta o in macchina; nessuno si sarebbe accorto di lui anche se girava con un televisore in mano.

Appena gli fu possibile svoltò in una via laterale, e quello fu l’inizio di una giornata di vagabondaggi casuali, nel tentativo di confondersi fra la gente.

A metà mattina comperò quattro litri di benzina a un garage, dove gli fecero pagare venti penny di deposito per una tanca ammaccata che un tempo conteneva olio per auto. Poco dopo acquistò un accendino e quattro bottiglie da un litro di limonata. A corto di soldi, troppo carico per continuare a girare, decise di trascorrere il resto della giornata in un parco. Il più vicino era il Churchill, ma se Betty York e gli altri lo stavano cercando senz’altro ci sarebbero andati, e lui non voleva incontrarli prima di essere pronto.

Raggiunse un parco più piccolo, prediletto dai pensionati perché non conteneva la zona-giochi per bambini. La giornata era calda, dolce, ideale per prendere il sole. Si sistemò con tutte le sue cose al centro di una distesa d’erba, sicuro che nessuno, e tanto meno la polizia, lo avrebbe notato. Si tolse il giubbotto e il maglione, si sdraiò qualche minuto per calmare il dolore pulsante della ferita, poi bevve un po’ di limonata. Calmata la sete, vuotò le bottiglie sull’erba e le riempì di benzina. Le tappò, le infilò nella borsa, avvolte nei fazzoletti che li sarebbero serviti da miccia.”

Dopo di che, preparato quel modesto arsenale, si sdraiò e cercò di svuotare la mente, cosa che si dimostrò eccezionalmente difficile.

Il cielo blu aveva lo stesso aspetto di sempre, ma adesso lui sapeva che era una finestra aperta sullo spazio, una finestra da cui altri occhi potevano guardare giù. Il breve contatto con l’inseguitore alieno gli aveva fatto capire che era vicino alla Terra, ma quanto vicino? Ed era possibile che in quello stesso momento, mentre lui era lì sdraiato, quella volta blu, eterea, diventasse il teatro della prima battaglia interstellare della storia umana? L’inseguitore, il nato-Tre-Volte, dimostrava un’indifferenza totale per le forme di vita diverse dalla sua; forse si sarebbe sorpreso di incontrare oggetti in orbita che rilevavano la sua presenza. Redpath dubitava che i satelliti laser, ammesso che esistessero, potessero qualcosa contro un’astronave; ma se la nave aliena arrivava a portata dei missili nucleari le cose potevano prendere una piega imprevedibile. A meno che l’astronave non potesse rendersi invisibile ai radar, magari assorbendo tutte le radiazioni incidenti.

“I fattori sconosciuti sono troppi, e poi io non so niente d’astronautica. E sto pensando a cose che non dovrei pensare…”

Nel tardo pomeriggio vide un jet che volava verso ovest, lasciando una sottile scia bianca in cielo, e si chiese come se la stesse cavando Leila. Gli venne in mente che avrebbero dovuto darsi un appuntamento telefonico, per tenersi informati. Così, invece, era costretto ad andare avanti da solo secondo i tempi previsti, sperando che lei avesse avuto il tempo di raggiungere Gilpinston e…

“Sto pensando di nuovo! Facciamo un elenco. Dieci star del cinema col cognome che inizia per A. Bud Abbott. Non c’è bisogno che siano star… John Abbott. John Agar. Brian Aherne. Woody Allen…”

Poco dopo le sei l’aria si raffreddò notevolmente e un banco di nubi avanzò dalle montagne, annunciando mutamenti atmosferici. Redpath si rimise il maglione e il giubbotto e restò al parco per un’altra ora. Mentre si preparava a ripartire scoprì, felice, di avere soldi a sufficienza per una tazza di tè caldo. S’incamminò lentamente verso il centro, mentre un buio prematuro per la stagione si addensava all’orizzonte, e prese un tè in un locale deserto. Era troppo forte e troppo dolce. Fu quasi un piacere nostalgico assaporarlo in tutti i suoi difetti.

Quando arrivò a Woodstock Road cadevano le prime gocce di pioggia, e l’aria era impregnata dell’odore di polvere. I bambini abituati a giocare per strada tornavano in casa, forse lieti di quella pioggia improvvisa che li costringeva a occuparsi ancora delle cose fra cui avrebbero trascorso l’inverno. Quando Redpath lasciò la via principale per imboccare il labirinto di stradine laterali, vide dietro molte finestre un’esplosione di luci calde, colorate. Tutti accendevano stufe, radio e televisori; le pentole cominciavano a bollire. La gente faceva una delle cose che sapeva fare meglio: obbediva alle memorie razziali, si ritirava in fondo alla caverna, al caldo. Era una serata magnifica per sbarrare le finestre, mettere le poltrone attorno al fuoco e restarsene in compagnia a chiacchierare, magari a cantare…

“C’è qualcosa che non va. Dovrei avere paura, e invece non sento niente. Non coverò il desiderio di tornare a far parte della famiglia?”

Dietro gli occhi di Redpath si agitò qualcosa.

“Se mi controlla meglio quando sono più vicino, se la sua forza cresce all’inverso del quadrato delle distanze, come riuscirò a …?”

Svoltò in Raby Street, la borsa piena di Molotov in una mano e il televisore nell’altra. Raggiunse il numero centotrentuno, come chi torna a casa dopo la lunga giornata di lavoro. Grosse gocce di pioggia precipitavano come proiettili sulle cartacce del giardino mal tenuto, tracciavano linee sulle finestre polverose, incrostavano di gioielli il muschio della facciata. Le tendine erano tirate sul bovindo, ma Redpath sapeva che la casa era di nuovo viva. Nella sua testa si agitava il serpente. Salì gli scalini davanti all’entrata, ma mentre stava per posare le sue cose gli venne ad aprire Wilbur Tennent, signorile, splendido nel suo vestito grigio chiaro. Dietro di lui, immobile sulla soglia del soggiorno, era visibile Betty York, ancora vestita come due giorni prima.

— Che piacere rivederti, John. — Tennent fece entrare Redpath nell’atrio, in una nuvola di acqua di colonia e dopobarba, e si girò verso Betty. — Te l’avevo detto che sarebbe tornato.

Lei gli si avvicinò, sorridente. — Vedo che hai portato le tue cose, tesoro. Ti do una mano.

— Ce la faccio da solo — disse Redpath, stringendo forte la borsa. — Porto questa roba in camera, se non vi spiace.

— Ma certo. Poi scendi subito. È quasi pronto da mangiare.

— Che bel televisore — commentò Tennent. — John e io potremo guardarci le corse di cavalli.

— Lascialo in pace. — Betty spinse via Tennent, lasciando libero il cammino per Redpath. Mentre passava davanti alla porta del soggiorno, Redpath diede un’occhiata dentro e vide che i mobili erano tutti al loro posto. La signorina Connie e Albert erano seduti sulle loro poltrone. Fissavano il rettangolo di vetro dietro cui ardeva il fuoco della stufa a gas. Non parvero nemmeno accorgersi del suo arrivo.

— Scendo fra un minuto — disse a Betty. — Appena ho messo a posto la mia roba.

— D’accordo, tesoro. — Betty entrò in soggiorno e chiuse la porta, lasciandolo solo nell’atrio.

Redpath portò la borsa e il televisore fino al secondo piano, oltrepassò le altre porte, entrò nella camera che Betty York gli aveva mostrato alla sua prima visita. Tutto era esattamente come lo ricordava, persino il linoleum rosa sporco di marrone. Mise il televisore su un cassettone, la borsa su una sedia, l’aprì e restò un attimo a fissarne il contenuto, perplesso.

“Quattro bottiglie di… benzina. È roba pericolosa. Forse dovrei avvisare Betty, chiederle di buttarle. Non vorrei correre il rischio di un incendio. Specialmente qui, dove sono al sicuro. Quel pezzo di ghiaccio di Leila si meritava tutto quello che le ho fatto, ma la polizia non la penserà così. Quando troveranno il cadavere cominceranno a cercarmi, ma qui non mi succederà niente. Qui sono al sicuro… Con la mia famiglia.”

Redpath si sentì improvvisamente vacillare. Dovette fare uno sforzo per non perdere l’equilibrio. Si portò le mani agli occhi, premette le dita per calmare un dolore che non era esattamente un dolore; e per un attimo gli apparve una serie di immagini contrastanti. C’era la schiena snella di Leila, nuda, sfigurata dalle coltellate; c’era un’altra immagine, confortante eppure inquietante, di Leila che stringeva un libretto nero che sembrava un passaporto; e al di sopra di tutto c’era una scacchiera trasparente di pannelli colorati, con luci che si accendevano e spegnevano in fretta, creando disegni complessi, urgenti. Quei disegni danzavano davanti ai suoi occhi con la velocità del vento che spazza un campo di grano. Ebbe la sensazione di qualcosa che stava per accadere, di un pericolo terribile, ma passò subito. Abbassò le mani, guardò la stanza, annuì soddisfatto, scese le scale per raggiungere gli altri che lo aspettavano.

“Qui va tutto bene” pensò. “Qui sono al sicuro con la mia famiglia.”

10

Un giorno d’attesa snervante ai voli internazionali dell’aeroporto Heathrow aveva lasciato Leila Mostyn più stanca di quanto non ritenesse possibile.

C’era sovrabbondanza di passeggeri diretti in America. Molti erano ragazzi che sembravano aver deciso all’improvviso di partire, e acquistare un biglietto non era stato facile. Non era riuscita a trovare posto sul primo aereo in partenza per Chicago. Aveva rinunciato ad alcune possibilità di volo con scali intermedi in favore di un volo extra che doveva partire a mezzogiorno. Tenuto conto dei fusi orari, sarebbe arrivata all’aeroporto O’Hara di Chicago verso le tre del pomeriggio, ora locale, col che le restavano quattro ore per raggiungere Gilpinston. Sarebbe stato meglio avere più tempo a disposizione, specialmente perché sapeva che i controlli all’ufficio immigrazione USA potevano essere molto lenti; ma a quel punto la cosa le sembrava ragionevole. Pensava di farcela.

Poi la situazione aveva cominciato a precipitare. Dapprima avevano annunciato che un guasto alla torre di controllo di Francoforte avrebbe ritardato l’arrivo del suo aereo di due ore. Leila era rimasta distrutta, vedendo che il tempo disponibile si dimezzava; ma ormai era troppo tardi per prendere un volo a scali intermedi. Con lo stomaco sconvolto da una sensazione di disagio, aveva cercato di modificare i suoi piani in rapporto alla scarsezza di tempo. Aveva mangiato qualcosa allo snack, e stava cercando di calmarsi con un bicchiere di vermouth, quando venne annunciata un’altra ora di ritardo. Qualche passeggero fece commenti ironici.

Erano riusciti a salire sull’aereo quando erano quasi le tre, e ormai lei si sentiva tesa, nervosa, ansiosa. L’uomo seduto al suo fianco aveva tentato di iniziare una conversazione, ma Leila gli aveva risposto con tanta freddezza e distrazione da costringerlo a dedicarsi a una rivista. Pochi minuti dopo, un capitano evidentemente imbarazzato aveva spiegato per altoparlante che l’arrivo in ritardo aveva causato problemi per il rifornimento di carburante, e che bisognava aspettare quarantacinque minuti prima che l’aereo fosse pronto a partire. La notizia aveva suscitato altri commenti ironici e aumentato, per una specie di strana reazione, l’allegria dei passeggeri più giovani. Qualcuno si era alzato, si era messo nei corridoi scambiando battute sarcastiche con gli amici.

Leila si era chiusa in una sfera di solitudine, separandosi da un ambiente che ormai le sembrava stupido e ostile, pieno di grida e risate assordanti, di cose e odori sconosciuti, di sibili pneumatici e gemiti idraulici. Quello era un mondo di gente normale che faceva cose normali, e lei ne era esclusa. Aveva paura di pensare troppo a quello che stava per fare; e fino a che le enormi portiere non si erano chiuse, sigillando l’aereo, aveva provato il desiderio di alzarsi e scendere. Solo quando si accesero i motori, facendo tremare il pavimento e i braccioli del sedile, lei permise al fiume di pensieri di riversarsi nella sua mente.

“Cosa mi hai fatto, John? Le cose che stanotte ho accettato come prove solo perché ero del tutto sconvolta non sono affatto prove. Un pezzo di giornale con la data sbagliata, un paio di coincidenze strane…

“Mio Dio, cosa sto facendo? Andrò a finire in galera, ecco cosa! Parto per gli Stati Uniti per andare a bruciare una casa con le bombe molotov. Mi chiuderanno in carcere, non uscirò più!”

Leila fissava due steward che stavano cercando di infilare un grande contenitore d’alluminio per cibi caldi nell’apposito scomparto. La sua mente era talmente sottosopra che solo dopo dieci minuti di vani tentativi da parte degli steward, Leila capì che la sequela d’inconvenienti e ritardi per quel volo non era ancora terminata. Il contenitore d’alluminio continuava a bloccare un corridoio, e l’aereo non s’era mosso di un millimetro.

Un’hostess cercò di dare consigli ai due steward, che la cacciarono in malo modo. L’hostess si arrabbiò. I due rinnovarono gli sforzi per sistemare il contenitore, lo presero a pugni, a spallate, facendo un gran fracasso. Arrivarono un altro steward e un membro dell’equipaggio. I quattro cominciarono a discutere sottovoce, e l’udito acuto di Leila captò due parole: “tecnico” e “dissigillare”. Il suo cuore cominciò a battere più forte.

L’annuncio del capitano che si prevedeva un altro ritardo suscitò applausi ironici, ma Leila non li sentì nemmeno. Si sganciò la cintura, si alzò, prese giacca e borsa e si incamminò verso la porta centrale dell’aereo che si era appena aperta. Uno steward in camicia bianca a mezze maniche le sbarrò la strada mentre lei cercava di oltrepassare il meccanico che stava salendo a bordo con una scatola d’attrezzi.

— Mi spiace, signorina — disse lo steward. — Non si può scendere. C’è qualcosa che non va?

— Ho cambiato idea. Non parto più. — Cercò di essere decisa, sicura. — Voglio scendere, e penso che questo rientri nei miei diritti.

Lo steward scosse la testa. — I passeggeri non possono più scendere quando i bagagli sono stati caricati. È una misura di sicurezza, signorina.

— Non me ne importa niente dei vostri regolamenti.

— Se volete tornare a sedervi sono sicuro che…

— Non ho nessuna voglia di tornare a sedermi perché questo aereo doveva partire più di quattro ore fa, e così io ho perso un appuntamento importantissimo, e adesso è inutile che vada in America, per cui non ci vado. — Leila alzò il tono di voce, attirando l’attenzione dei passeggeri più vicini. — Se cercate di tenermi a bordo per forza, mentre i vostri cosiddetti tecnici tentano di sistemare quel contenitore, vi prometto che butto in piedi la causa più rognosa, più lunga e più spiacevole che vi sia mai capitata.

— Ma non capite, signorina? — disse lo steward, con aria infelice. — Se scendete adesso dovremo scaricare tutti i bagagli e…

— Siete voi che non capite — ribatté Leila. — Se mi impedite di scendere immediatamente mi rivolgerò ai giornali, e racconterò che questo volo ha avuto un ritardo di quattro ore per un banalissimo contenitore di cibo. Farò in modo che tutta l’Inghilterra sappia che razza di servizio offre la vostra compagnia.

Lo steward alzò le mani. — Aspettate qui, per favore. Vi faccio parlare col capitano Sinclair.

I trenta minuti che seguirono furono uno dei periodi più difficili e imbarazzanti di tutta la vita di Leila, specialmente perché la sua brusca decisione di non partire suscitò i sospetti degli impiegati della dogana e dell’ufficio immigrazione, nonché della polizia; ma lei superò tutto con una calma gelida. Crollò solo quando, ripartita dall’aeroporto in direzione nord, si trovò nei pressi di Uxbridge. Accecata dalle lacrime, si fermò sul ciglio della strada, appoggiò la fronte sul volante.

— Mi spiace, John — mormorò. — Mi spiace tanto. Ho tentato, anche se tu non vorrai credermi… Ma stasera dovrai cavartela da solo.

11

La famiglia era riunita di nuovo. Sedevano tutti a semicerchio nel soggiorno del pianterreno.

Betty York era vicina alla parete a sinistra della stufa, con le unghie dei piedi dipinte in rosso e le unghie delle mani dipinte d’un marrone orribile. Vicino a lei c’era John Redpath; poi veniva Wilbur Tennent, maestoso ed elegante, leggermente chino in avanti, forse per non stropicciare la giacca. Al suo fianco c’era Albert, che annuiva e sbuffava, le mani enormi intrecciate sullo stomaco, vestito come sempre di una tuta marrone e stivali logori. E accanto alla parete, sulla destra della stufa, c’era la signorina Connie, coi capelli bianchi e gli occhiali senza montatura, avvolta in un cardigan grigio e in un vestito nero lungo fino ai piedi. Sferruzzava alacremente, aggiungeva altri punti irregolari alla massa informe di lana che si intravedeva nell’oscurità alle sue spalle.

— Prima che me ne scordi, John. — Tennent infilò una mano in tasca, ne tolse un fascio di banconote strette da un elastico e le mise in grembo a Redpath. — Parsnip Bridge ha vinto, come avevo previsto.

— Grazie. — Redpath si accorse che non aveva idea di dove fossero finiti i soldi vinti due giorni prima. Per un attimo si chiese se Tennent se li fosse ripresi senza farsene accorgere, o se li avesse fatti sparire la signorina Connie per motivi che lui ignorava.

Tennent si fregò le mani, felice come un bambino. — Andiamo bene, vecchio mio. Per domani ho un paio di cavalli, e se vuoi seguire i miei consigli devi…

— Lascialo in pace — intervenne Betty. — Ti ho già detto che a John non interessano i tuoi sistemi per fare soldi in fretta.

— E perché non dovrebbero interessargli? Qualche sterlina in più fa piacere a tutti. Giusto? — Tennent, in cerca di sostegno, si voltò a guardare Redpath con un sorriso amichevole. Lo fissò per qualche secondo, mentre l’allegria spariva dalla sua faccia e nei suoi occhi s’accendeva la scintilla della perplessità. — John? Ti piace qui, vero? Voglio dire, non faresti niente per…

— Lascialo in pace — intervenne Betty. — Come fa a riposarsi se tu gli stai sempre addosso?

Tennent s’immerse nel silenzio, lanciando di tanto in tanto un’occhiata interrogativa a Redpath. Redpath, stranamente sollevato, mise i soldi sul bracciolo della poltrona, in posizione neutra. Seguì un lungo periodo in cui nessuno parlò, ma la stanza era comunque piena di piccoli rumori: il borbottio del fuoco, il ticchettio dell’orologio, il tintinnio dei ferri della signorina Connie, gli sbuffi e i sospiri di Albert. Le tendine riposavano tranquille sul bovindo. Redpath girò lo sguardo lungo la stanza, si fermò su una cosa piccola e nera attaccata alla tappezzeria. Era un insetto, forse lo stesso che aveva notato due sere prima, nello stesso posto, e vibrava seguendo lo stesso ritmo assurdo.

“Cristo, ma perché vibrano sempre? Pensavo che fosse già morto. Quanto tempo vive un insetto come quello, tra l’altro? Un rospo può vivere quarant’anni. Roba da non credere! Già dev’essere brutto essere rospo per un anno, figuriamoci per quaranta! Leila, come puoi essere morta se …?”

— Lo so io quel che ci vuole — disse Betty York, alzandosi. — Una bella tazza di tè e qualcosa da mangiare.

“Io non ne ho bisogno. Io devo bere acqua, un sacco di acqua, e guardare la televisione “.

— I panini sono pronti, tesoro, e per il tè basta un attimo. — Betty attraversò il semicerchio di poltrone che Redpath aveva davanti, e per un attimo lui vide solo i suoi lunghi capelli neri, i jeans blu, le borchie di rame. — Ti piace il Plumrose, vero?

Redpath annuì, perplesso dalla voglia improvvisa di bere acqua e guardare la televisione. “Stasera non c’è Jack Haley, no? L’ho visto ieri sera. Ma con chi ero?”.

Betty ritornò dopo pochissimi minuti. Tennent spostò la poltrona per lasciarle sistemare il carrello al centro del gruppo. Betty riempì cinque tazze da un’enorme teiera. La signorina Connie mise da parte i ferri, prese un sandwich e cominciò a mangiare con una voracità incredibile per una persona anziana dall’aspetto così fragile. Redpath guardò i panini imbottiti di carne e gli venne in mente che non aveva mangiato niente per tutto il giorno.

Si servì quattro sandwich. Arrivato all’ultimo, si accorse che Alberi non aveva preso niente né da mangiare né da bere. Leggermente incuriosito, tese la testa in avanti e vide che Albert era ancora nella stessa identica posizione di quando lui era entrato nella stanza, abbandonato sulla poltrona con le gambe distese e le mani incrociate sullo stomaco. Il suo mento enorme era più sporgente che mai; i suoi occhi erano fissi nel vuoto, come quelli di un malato sotto sedativi; e tremiti quasi continui gli scuotevano il corpo. Le sopracciglia erano madide di sudore.

Gli altri, apparentemente ignari delle condizioni di Albert, continuavano a mangiare in silenzio.

Redpath mise giù il piatto, si voltò per guardare meglio Albert. I gemiti inarticolati che Albert emetteva divennero più forti, e i suoi occhi (addolorati, supplicanti, disperati) si posarono su Redpath. Quello sguardo sembrava volergli trasmettere un messaggio, ricordargli una tremenda responsabilità che lui si era assunto. Redpath si sentì spaventato.

— Non è delizioso? — disse la signorina Connie con la sua voce stridula, sorridendo con quei denti da vecchia.

— Proprio delizioso — dissero Tennent e Betty, all’unisono.

Redpath distolse gli occhi da Alberi, si girò a guardare l’orologio, vide che le lancette sottili indicavano quasi le dieci e trenta. In un angolo remoto della sua mente ci fu un sussulto, la sensazione che il tempo passasse troppo in fretta. Prese il sandwich appena morsicato, scoprì che non ne aveva più voglia, si riaccomodò in poltrona. I suoi pensieri cominciarono a vagare. Per un motivo che gli sfuggiva, si trovò a riflettere sulla casa. La vide non come un’unità totale, ma come un insieme di diversi elementi architettonici. Quella stanza era sempre una stanza, ma adesso la vedeva anche come un volume di spazio più o meno cubico, artificialmente definito e delimitato. L’istinto gli diceva che un pavimento è una porzione di terreno solido, ma quel pavimento, per quanto sembrasse solido, era una specie di piattaforma o di ponte. Era un sandwich architettonico composto da uno strato esterno di assi, uno strato centrale di travi di legno, uno strato inferiore di calcina, e sotto… Sotto c’era la cantina della casa… Il regno delle tenebre che iniziava solo pochi centimetri sotto i suoi piedi… E c’era qualcosa…

Sussultò, sorpreso. Tennent si era girato verso di lui, gli puntava contro l’indice con una espressione di esuberanza assoluta.

— Sìììììììì… Bisogna arrivare fino in fondo alla strada — intonò Tennent. — Sìììì… Fino in fondo alla strada.

— È quello che ci vuole — disse Betty, e si mise a cantare.

Redpath gettò un’occhiata alla signorina Connie, che annuì incoraggiante; e improvvisamente si trovò a cantare, timido, esitante. I membri della famiglia cominciavano a divertirsi, come faceva tutta la gente normale di Calbridge, e se Albert non ne aveva voglia erano affari suoi.

Poco dopo Redpath guardò di nuovo l’orologio, e fu oscuramente sorpreso di scoprire che mancavano solo quindici minuti a mezzanotte. Provò ancora una volta quella sensazione strana dietro gli occhi.

“Lo so cosa sta succedendo ad Albert” pensò, aiutato dall’intuito e dalla telepatia. “Sta combattendo. Sta combattendo la mia battaglia. Sa che c’è poco tempo e cerca di aiutarmi… Ma cosa dobbiamo combattere?”

Redpath si alzò lentamente in piedi, rivolse un sorriso a Betty. — Il bagno è in cima alla prima rampa di scale, vero?

— Certo, tesoro. — Lei gli lanciò un’occhiata seria. — Non stare via troppo.

— No. — Uscì, si trovò nel pozzo di tenebre dell’atrio. Gli occorse un po’ di tempo per individuare l’interruttore.

Quando lo premette, una luce debole, marroncina come le ali d’una falena, si diffuse nell’ambiente. Vicino a lui c’era la porta della cucina, un rettangolo di oscurità senziente. Si girò, salì le scale, entrò in bagno, accese la luce, tentò di chiudere la porta. Il chiavistello era in condizioni talmente disastrose che dovette rinunciare all’idea.

Si avvicinò al lavandino, aprì il rubinetto dell’acqua fredda, infilò sotto la bocca. L’acqua scese con una violenza che non si aspettava, gli tolse il fiato, però continuò a bere. Nel giro di pochi secondi si sentiva già lo stomaco gonfio e indolenzito. Quasi soffocato, alzò la testa a prendere fiato, poi ricominciò a bere.

Poteva sentire la voce del dottor Hyall: “Lo sapevi che ai giorni bui della medicina uno dei metodi più comuni per stabilire se un individuo era epilettico consisteva nel fargli bere qualche litro d’acqua?”.

Un improvviso conato di vomito costrinse Redpath a raddrizzarsi. Si aggrappò all’orlo del lavandino, cercando di calmare gli spasimi del diaframma. Ormai era perfettamente inutile continuare. Ingoiare un’altra sorsata d’acqua significava vomitare tutto quello che aveva nello stomaco. Adesso era ora di guardare la televisione.

“E stai attento se ti capita che il televisore si guasti” diceva il dottor Hyall, sorridendogli dolcemente dal tunnel del passato. “Se bisogna regolare i comandi, specialmente il comando di stabilità verticale, lascia che ci pensi qualcun altro. Mai inginocchiarti davanti a un apparecchio con le immagini che rotolano.”

Aprì la porta del bagno, uscì sul pianerottolo, si girò verso il davanti della casa. A destra aveva la parte più lunga di pianerottolo e le scale per il secondo piano; a sinistra le scale che scendevano a pianterreno. Stava per partire verso destra, quando sotto si spalancò la porta del soggiorno e Betty York apparve nell’atrio. Arrivarono subito anche Tennent e la signorina Connie. Si misero tutt’e tre a scrutarlo.

— Stai bene, tesoro? — chiese Betty.

— Non potrei stare… meglio — rispose Redpath, lottando per pronunciare quelle parole, per pensare e non pensare. — Jack Haley… Televisione.

Gesticolò verso l’alto, cominciò a salire le scale per il secondo piano. Dietro di sé udì rumore di passi. Accelerò, raggiunse il secondo pianerottolo, corse alla sua stanza nel buio più completo. Entrò, chiuse la porta, accese la luce. Solo allora si accorse che la porta aveva un piccolo chiavistello di ottone. Restò a fissarlo per qualche secondo, poi lo spinse in avanti, proprio mentre qualcuno abbassava la maniglia.

— Cosa stai facendo, John, vecchio mio? — chiese Tennent. — Aprimi.

— Non capisci — mormorò Redpath. — Jack Haley… Televisione. — Preso il televisore, lo portò sull’altro lato della stanza, si inginocchiò (lavanti alla presa.

— Dài, John, non sai cosa ti perdi. — La voce di Tennent era carezzevole. Cominciò a cantare: — Sììììì… Fino in fondo alla strada. — Le parole della canzone si persero in un rumore violento, un rumore che poteva essere prodotto solo da due o più paia di pugni che battessero contemporaneamente sulla porta. Sullo sfondo udì anche voci di donna.

Redpath scosse la testa, in preda al panico. — Il mio film preferito. Film così non se ne fanno più… — Cercò di infilare la spina nella presa di corrente, ma non entrava. Provò altre due volte prima di capire dov’era lo sbaglio: la spina era di tipo moderno, non si adattava a quella presa, vecchia di chissà quanti anni.

— Film così non se ne fanno più — ripeté assurdamente, fissando il televisore inutilizzabile.

Smisero di picchiare alla porta. Iniziò una serie di tonfi continui, regolari: Tennent stava cercando di abbattere la porta a spallate, e ad ogni colpo il legno cedeva, s’incurvava verso l’interno della stanza. I tre sul pianerottolo non sembravano più esseri umani; e fra loro c’era qualcuno che produceva un risucchio viscido, ripugnante.

Slughhh, slughhh, slughhh.

Disperato, Redpath strappò la spina del televisore, mettendo a nudo i fili. Li arrotolò alla svelta e li infilò nei due buchi della presa, senza fare nessuna attenzione. Ci fu uno scoppiettio, una fiammata rossastra. Redpath venne scagliato nelle tenebre, che lo divorarono avidamente.

12

La tristezza pervadeva l’entità enorme, composita, che era la nave. La tristezza dei preparativi di morte.

Quell’emozione non aveva nessun rapporto col fatto che un membro della Prima Razza stesse per scomparire: era solo un rinnegato che aveva minacciato le basi stesse della sua società, e in un continuum ordinato non poteva esistere un posto per lui. E neppure importava che un’ampia zona del pianeta, il settimo partendo dall’esterno del sistema, dovesse essere resa sterile. I suoi abitanti appartenevano alla specie di esseri diffusa in quasi tutto l’universo, i simulacri. Non possedevano la capacità di comunicare con la Stella-che-vive, quindi potevano essere considerati accumuli casuali di cellule, pseudo-esseri la cui esistenza o distruzione erano prive d’importanza per il grande schema.

La tristezza che pervadeva l’entità composita della nave era dovuta al fatto che una parte della sua struttura doveva morire, doveva sacrificarsi per arrivare alla distruzione del nato-Una-Volta.

Grazie agli echi vitali residui, erano stati identificati i resti delle parti esterne della nave fuggiasca. La nave si trovava su un’isola vicina a una delle più grandi estensioni di terra. Una parte dell’involucro esterno della nave inseguitrice, vivo come tutto il resto, si era distaccata con sommo dolore dallo scafo, aveva assunto la forma adatta a penetrare ad alta velocità nell’atmosfera. Di conseguenza, una parte del corpo della nave si era già sottoposta volontariamente alla degenerazione dello stato virale. Esposta all’ossigeno, avrebbe eliminato in pochissimo tempo ogni forma di vita su una superficie molto ampia, per poi raggiungere la fase d’inattività.

Quella perdita era già insopportabile per la nave; ma la vera tragedia era che un frammento del nato-Tre-Volte, di un membro della Prima Razza, fosse costretto a separarsi dal corpo parentale per affrontare una morte sicura. Privo com’era di molti dei più primitivi poteri psionici del nato-Una-Volta, l’inseguitore non era in grado di sganciare o controllare la capsula per telecinesi. Gli era necessario sacrificare una parte del proprio essere per guidare la bomba vivente che avrebbe fatto giustizia. E la sensazione di tragedia era così forte perché quella morte sarebbe stata definitiva: in circostanze simili, non poteva verificarsi il ciclo di ingestione, purificazione e rinascita.

Però quel compito gli era stato assegnato molti anni prima, aveva accettato tutte le responsabilità che comportava, ed era impossibile tornare indietro.

Dolcemente, senza rimorsi, la capsula si staccò dal grande scafo della nave e iniziò la lunga discesa verso la Terra.

13

Redpath si risvegliò in un silenzio sia esterno sia interno, con la sensazione meravigliosa di essere ancora una creatura umana. Si sentiva normale, puro, privilegiato per il semplice fatto di essere vivo. Quella gioia così modesta durò solo una dozzina di battiti cardiaci; poi guardò l’orologio e vide che mancavano sei minuti a mezzanotte.

“Dove sono finiti? La porta ha resistito? Se ne sono andati, o aspettano sul pianerottolo che io esca?”

Si alzò, guardò la stanza, e in quel momento dentro di lui esplosero frammenti di memoria. I ricordi si unirono a formare un’immagine terribile. Aveva pochissimo tempo! Ormai Leila doveva trovarsi davanti alla casa di Gilpinston; la megamorte stava scendendo sul pianeta; e lui aveva un appuntamento con qualcosa che lo aspettava in cantina.

Si alzò traballando, fu costretto a lottare perché le gambe non cedessero. Colpi martellanti gli squassavano le tempie. Osservando i fili che giacevano accanto alla presa capì di essere stato fortunato. Avrebbe potuto fulminarsi, o scatenare un attacco di grande male che sarebbe durato ore. In quel momento non riusciva a capire se avesse subìto un attacco di dimensioni modeste, o se fosse semplicemente svenuto al passaggio della corrente elettrica. Gli effetti di cui risentiva erano ambigui; ma il risultato più vitale, più importante, era essere di nuovo se stesso, sottratto al controllo esterno, libero di pensare e di agire. E quei secondi preziosi passavano in fretta.

La borsa era ancora sulla sedia, dove l’aveva lasciata. Redpath l’aprì, tirò fuori una delle quattro bottiglie, provò a girare il tappo di metallo. La bottiglia era bagnata di benzina, le sue mani madide di sudore, la presa incerta. Il tappo rifiutò di svitarsi. Bestemmiando, Redpath lanciò un’occhiata alla porta: per fortuna era abbastanza robusta da resistere all’assalto di Wilbur Tennent. In quell’istante ci fu un colpo spaventoso. La parte superiore della porta venne sfondata da un oggetto metallico, la testa di un maglio.

Redpath, momentaneamente paralizzato, restò a fissare la porta. Il maglio scomparve. La mano di Tennent si infilò nello squarcio e cominciò a cercare il chiavistello.

Redpath agì d’impulso. Prese un fazzoletto dalla borsa, lo usò per afferrare meglio il tappo della bottiglia. Questa volta il tappo si svitò subito. Infilò il fazzoletto nel collo della bottiglia, poi strinse la molotov nell’incavo del braccio e tirò fuori un’altra bottiglia. Dovette lottare di nuovo col tappo. Era appena riuscito a toglierlo, quando il chiavistello della porta si aprì con uno scatto secco.

Tennent entrò nella stanza. Aveva in mano il maglio, e i suoi occhi erano quelli di un cadavere.

Con lui c’erano Betty York e la signorina Connie. Tutt’e due avevano in mano uno scalpello da muratore, del tipo che si usa per scavare le pareti: oggetti appuntiti, capaci di fracassare il cranio. Una parte del cervello di Redpath, come per sfuggire alla realtà, notò che gli attrezzi erano nuovi e pensò: «Ma che brava, signorina Connie. Pensi sempre a tutto”.

— State indietro — ordinò. La sua gola era secca. Chissà se quei tre burattini capivano ancora il linguaggio umano. — Non voglio farvi del male. Avete capito?

La signorina Connie lo fissò stralunata ed emise una serie di gorgoglii orrendi. Poi, anche se fra lei e Redpath c’era il letto, avanzò tranquillamente, salì sul materasso con una agilità innaturale.

Tennent e Betty girarono attorno al letto. Redpath indietreggiò, agitò la bottiglia aperta, lanciando benzina da per tutto. I tre, colpiti dal fluido volatile, si fermarono un attimo, poi ripresero ad avanzare. Tennent stringeva forte il maglio, era pronto a usarlo per commettere un omicidio; e le due donne muovevano nell’aria gli scalpelli, come serpenti.

— Fermatevi — mormorò Redpath. Poi lasciò cadere la bottiglia vuota e tolse di tasca l’accendino. Betty sibilò, si lanciò avanti. Redpath girò la rotella dell’accendino. La sua mano prese fuoco, fu avvolta da una fiamma giallastra, debole. Spinse lontano Betty, le incendiò i vestiti. Betty andò a sbattere contro Tennent. La signorina Connie si lanciò su di lui dal letto, come uno spaventapasseri animato. Redpath sentì un dolore improvviso alla spalla sinistra. La colpì con la mano in fiamme e la fece cadere; poi saltò sul letto. Con un solo balzo arrivò alla porta e si precipitò sul pianerottolo. Nella stanza, Tennent si era tolto la giacca, la stava usando per spegnere gli abiti di Betty. La signorina Connie si era già rimessa in piedi e stava stracciando il vestito nero.

La fiamma che avviluppava la mano di Redpath si spense con lo spostamento d’aria, lasciando un dolore acuto. Timoroso che la camera da letto potesse esplodere, Redpath corse giù per le scale, continuando a stringere l’altra molotov. Raggiunse il pianerottolo del primo piano, lo attraversò di corsa, si mise a scendere verso il salotto. A metà delle scale si fermò di colpo. La porta del soggiorno era aperta, rettangolo di luce nel buio della casa; e sulla soglia spuntava un paio di stivali logori.

“Albert mi sta aspettando! Potrei raggiungere lo stesso la porta d’ingresso, ma è piena di chiavistelli, e intanto che io cerco d’aprire lui avrebbe tutto il tempo di prendermi alle spalle. E con due mani come le sue non ha nemmeno bisogno del maglio o degli scalpelli…”

— Slughhh, slughhh — disse una voce sopra di lui, spaventosamente vicina. Una figura scheletrica coi capelli bianchi, vestita solo di una sottoveste grigia, cercò di afferrarlo dalla ringhiera del pianerottolo. Scostò quelle mani adunche con un colpo di braccia, sentì dei passi risuonare più in alto sulle scale, si lanciò con un salto fino a pianterreno. Rizzandosi subito in piedi, si precipitò verso la cucina.

“È quasi fatta, amico! Apri la porta della cantina, dài fuoco al fazzoletto, lancia la bottiglia sulle scale, poi esci dalla finestra della cucina. Al cinema l’hai visto fare centinaia di volte, e se ci riesce un tipo come Randolph Scott…”

Redpath piombò nella cucina buia, andò a destra, spalancò la porta rossa che dava in cantina. Sotto di lui si spalancavano tenebre profondissime, che esalavano un respiro caldo. Ignorando il terrore che minacciava di farlo cadere in ginocchio, alzò l’accendino, diede un colpo alla rotella. La fiamma non si accese. Riprovò, mentre l’atrio risuonava di passi, e di nuovo non ottenne nessun risultato.

“La valvola! Ho dimenticato di abbassare la maledetta valvola del gas!”

Infilò l’accendino sotto il fazzoletto umido di benzina. Stava per girare la rotella, quando qualcosa si abbatté contro la porta della cantina a tutta velocità. La porta colpì Redpath alle spalle, lo scaraventò sul primo gradino. Perse l’equilibrio, scivolò in giù di altri gradini. La bottiglia gli sfuggì di mano, scomparve nelle tenebre, con una serie di colpi sempre più forti.

Un colpo, due, tre… Silenzio.

“Avrebbe dovuto rompersi! Il pavimento è di cemento… La bottiglia avrebbe dovuto rompersi!”

Si accese la luce, e nello stesso istante il maglio passò con un sibilo sopra la testa di Redpath, andò a finire contro la parete al suo fianco, scavando un buco nel cemento. Wilbur Tennent, che adesso indossava solo il giubbotto e i pantaloni, era sopra di lui, lo guardava con quei terribili occhi da cadavere e si preparava già a lanciare il maglio per la seconda volta. Redpath non aveva alternative. Corse giù per la scala; e quando arrivò quasi in fondo, ormai nell’impossibilità di tornare su, si accorse che il pavimento e le pareti erano ricoperte quasi interamente da una poltiglia molliccia, color rosso-marrone. Sembrava una massa di sangue semicoagulato e di pezzi di fegato, e si muoveva. Si stava ritirando dal fondo delle scale, lasciando libera una zona di pavimento che aveva al centro la bottiglia di Redpath.

“Mio Dio, l’incubo era vero! Sono finito nello stomaco della casa!”

Ormai oltre i limiti del terrore, col cervello sconvolto, Redpath raccolse la bottiglia, indietreggiò nell’angolo vicino al fondo delle scale. La poltiglia oscena smise di ritirarsi, prese ad avanzare verso di lui, protendendo tentacoli che si ricoprivano di liquidi gorgoglianti e venivano riassorbiti dalla massa centrale.

Intanto Wilbur Tennent scendeva lentamente le scale col maglio, seguito dalla signorina Connie e da Betty York, che avevano ancora i loro micidiali scalpelli. Betty indossava solo la biancheria intima. Era ustionata allo stomaco e alle cosce, e su un lato della testa le si erano inceneriti i capelli. I suoi occhi, come quelli di Tennent, erano spenti, privi di vita.

Redpath, con la precisione meccanica di un robot, girò la rotella dell’accendino, e questa volta ricordò di tener abbassata la valvola del gas. Uscì una fiamma blu che lui accostò alla bottiglia, incendiando il fazzoletto. La bottiglia si trasformò in una torcia giallastra che emanava luce e calore. Il fronte della poltiglia informe smise immediatamente di avanzare. Redpath alzò di più la bottiglia, e a quella luce vide che nella massa amorfa, sul fondo, c’era qualcosa che sembrava una struttura centrale, una cresta di protoplasma in cui era sepolta una forma che poteva essere un occhio. L’occhio lo fissò, e a lui parve che la vita gli sfuggisse, gli sembrò di trasformarsi in un ammasso di organi immobili, privi di volontà.

“Si sta impossessando di me, Leila, e con una rapidità spaventosa!

“Devo lanciare la bottiglia prima che mi esploda in faccia, però so che non servirà a niente.

“Qui non c’è niente che possa bruciare!

“Forse la benzina riuscirebbe a ferire il nato-Una-Volta, ma è troppo grande per poterlo uccidere così. Non credevo che fosse tanto grande. Comunque non fa nessuna differenza, perché… perché…”

Redpath non riusciva più nemmeno a pensare. Tennent era arrivato in fondo alle scale e si stava avvicinando, il maglio puntato contro la sua spalla destra. Redpath tentò di muoversi, di sfuggire al colpo, ma era completamente paralizzato. Non poteva nemmeno aprire le dita e lasciar cadere la bottiglia. Tennent gli giunse più vicino, alzò il maglio sopra la testa, e improvvisamente si fermò in quella posizione. Davanti a lui si era materializzato Albert.

L’apparizione fu istantanea, magica, stupefacente.

Redpath aveva già intuito che Albert possedeva la facoltà del teletrasporto; ma vederlo comparire così all’improvviso gli procurò una sorpresa enorme, una sorpresa che superò anche il terrore della morte e la ripugnanza per la creatura aliena. Restò a guardarlo, travolto da una meraviglia superstiziosa. Albert distese le braccia, diventò un crocefisso che proteggeva Redpath dal maglio di Tennent.

— Togliti di mezzo — disse Tennent. La sua voce era monocorde, inumana. — Se non ti sposti dovrò ucciderti.

— Sarebbe una buona idea — replicò dolcemente Albert — ma non puoi. Vedi, io sono l’unico di cui il nostro padrone abbia ancora bisogno. Wilbur, sta succedendo tutto esattamente come aveva previsto Prince Reginald.

— Mentiva.

— No! Ci ha raccontato la verità. Ormai sono più di dieci minuti che le cose si sono messe in moto. Il padrone ha cercato di costringermi a trasportarlo nell’altra casa. E io non gli ho obbedito, Wilbur. “Ho fatto resistenza”, Wilbur. Per la prima volta in dodici anni ho trovato la forza di resistere a quel mostro.

I muri marroni, viventi, della cantina si gonfiarono e si sgonfiarono, come un cuore palpitante. Albert vacillò, quasi fosse stato colpito. Si girò a guardare Redpath. La sua faccia era pallida, solcata da rivoli di sudore; i suoi occhi erano di ghiaccio.

— È merito tuo, ragazzo. Il padrone ha paura, sta invecchiando, non riesce più a controllarmi come una volta; ma i guai più seri glieli hai dati tu. Più lui si sforzava di tenerti sotto controllo, più io ero libero. — Albert si interruppe, deglutì faticosamente. — Devi continuare a lottare, ragazzo. Non arrenderti adesso. Se riesci a gettare la bottiglia, dovremmo essere a posto. Io posso portare via tutti… Mettere fine per sempre a tutto questo.

Redpath sentiva che la bottiglia diventava sempre più calda, che correva il rischio di trasformarsi in una torcia umana, ma non riusciva a lanciarla. — Io… Io… Puoi portare via anche me?

Albert gli rivolse un sorriso strano, triste. — Tu non sei ancora parte di noi, ragazzo. Tu sei pulito.

— Pulito?

— È quello che ho detto. Vedi, non hai mai dovuto aiutarci a nutrire il padrone.

— Oh! — Redpath guardò gli occhi di Albert e vide qualcosa che andava molto oltre il dolore, qualcosa che non desiderava sapere.

— Sì, ragazzo, è orribilmente terribile. — Albert si girò a guardare Wilbur e le due donne. — Non lasciate tutto sulle spalle mie e di John! Per amor del cielo, dateci una mano a farla finita per sempre. — La sua voce era distrutta. Ogni parola era come lo spezzarsi di un osso.

Tennent spalancò la bocca, emise un gemito roco, lanciò il maglio. Il martello a due teste volò alto nell’aria, andò a piombare vicino al centro della poltiglia marrone, scomparve in un gorgo di liquidi scuri.

Un urlo silenzioso esplose nel cervello di Redpath, annichilendolo.

Si accorse solo vagamente che quell’orribile poltiglia si muoveva in avanti a velocità tremenda, agitando i tentacoli. La massa amorfa gli avvolse le caviglie, e lui provò dolore; ma il dolore era attutito dallo spettacolo terrificante di quello che stava accadendo a Tennent, a Betty e alla signorina Connie. Quando la poltiglia toccava la carne nuda delle loro gambe, la pelle scompariva, apparivano i muscoli, nudi, rossi, perfettamente visibili come su un atlante anatomico. La signorina Connie cadde carponi nella massa aliena, si rialzò. Le sue mani adesso sembravano guanti scarlatti.

Solo Albert era risparmiato da quella furia. Immobile su un lembo di cemento, fissava Redpath con intensità estrema.

Redpath, trafitto e ispirato dal suo sguardo, fece uno sforzo estremo per gettare la bottiglia. Il suo braccio ebbe un tremito. La bottiglia gli sfuggì di mano, cadde nella massa scura ai suoi piedi. Non scoppiò, ma la benzina incendiata si sparse tutt’attorno. La poltiglia si ritrasse a raggiera, come un iris che aprisse i petali. Un altro urlo silenzioso traversò la mente di Redpath.

Si portò le mani alle tempie, cercò di guardare Albert. Albert aveva chiuso gli occhi. La sua faccia, nonostante le deformità acromegaliche, era solenne come quella di un antico sacerdote. Redpath ne ebbe una ultima immagine frammentaria, lo vide deciso, eroico, con gli stivali logori, con la tuta marrone, col pacchetto di Lucky Strike che sporgeva da una tasca; poi l’immagine scomparve, nell’incredibile calor bianco di una fornace.

Albert non esisteva più.

Le tre persone, i tre ammassi di muscoli rossi che erano con lui, non esistevano più.

La massa di protoplasma scuro e intelligente che era con lui non esisteva più.

Redpath “sentì” la morte del nato-Una-Volta. Cadde in ginocchio nella cantina che adesso era vuota, pura, sicura; e per un istante, nell’ultimo sussulto delle facoltà telepatiche che gli erano state concesse, sentì la sorpresa e la soddisfazione che vibrarono nell’entità composita che era l’astronave aliena. Sentì anche gli echi di una gioia più limitata, deboli come la luce delle stelle a mezzogiorno: la gioia della capsula che stava precipitando verso la Terra, e che ora poteva rinunciare alla morte definitiva, poteva tornare alla nave.

Poi il terzo occhio della sua mente si chiuse per sempre.

14

Restava la tristezza immensa, la compassione enorme per quattro esseri umani travolti da qualcosa che era peggiore di ogni malattia, vissuti schiavi e prigionieri del terrore, morti tra le spire del dolore e dell’orrore. E come loro dovevano esserci state molte persone, nel corso degli anni; persone come Prince Reginald e i Rodgers, gli sfortunati proprietari della casa di Gilpinston. Chi poteva dire quanti uomini, animali e uccelli, forse ancora vivi, erano stati rigettati dalla cantina e fatti scomparire da Albert o dalla signorina Connie?

Redpath restò lì inginocchiato per un po’, a chiedersi se avrebbe mai più trascorso una notte di sonno tranquillo; poi capì che lui, per lo meno, era ancora vivo, e che lo aspettavano tutte le responsabilità pratiche dei vivi.

Fece il giro della casa da cima a fondo, spense tutte le luci, si assicurò che non ci fossero ancora scintille capaci di suscitare un incendio. Impiegò molto tempo, soprattutto perché le nuove ferite alla spalla e alle caviglie gli rendevano difficili i movimenti. Era già passata l’una quando uscì. Chiuse accuratamente la porta, raccolse borsa e televisore e si incamminò sul breve sentiero che portava alla strada.

Pioveva ancora. Le luci dei lampioni erano avvolte da un alone giallo, e le finestre erano buie in tutte le case. A parte l’acqua che gorgogliava nelle grondaie, non si udiva nessun rumore. “È bello” pensò, guardandosi attorno con gioia profonda. “Se avessi i capelli neri, e se al posto di queste strane ferite avessi fori di proiettile, questo potrebbe essere uno dei vecchi meravigliosi film di Francis Lederer.”

Senza voltarsi a guardare la casa numero 131, partì verso le luci che delimitavano il percorso di Woodstock Road. Dopo una decina di passi l’umidità dell’asfalto era già penetrata in quello che restava delle sue scarpe; ma lui era nello stato d’animo adatto a gustare ogni sensazione naturale, e proseguì imperterrito, senza problemi.

Arrivato al primo incrocio girò a destra, e stava per traversare la strada quando poco lontano apparve una mini color rosso ciliegia. Riconobbe immediatamente l’auto, ma non certo per precognizione. Sollevato, si fermò sotto il lampione, aspettò che la macchina si fermasse accanto al marciapiede. Quando Leila gli aprì la portiera lui le mostrò il televisore, per farle segno di abbassare lo schienale del sedile; poi sistemò televisore e borsa sul sedile posteriore, senza dire niente. Salì, sedette, chiuse la portiera, sempre in silenzio.

— Dimmi solo una cosa. Mi hai portato un ricordino da Chicago?

— Oh, John! — Lei esclamò il suo nome con evidente sollievo. — Ero così preoccupata. Ieri sera eri talmente…

— Lo so com’ero ieri sera, ma ti prometto che non succederà mai più. È finita.

— Ho cercato di andare in America — disse Leila, stringendo i lembi della giacca. — Ma poi mi è mancato il coraggio.

Lui scosse la testa. — No, ti è mancata la convinzione. Non hai creduto a niente di quello che ti ho raccontato, vero?

— Ti prego, scusami, John.

— Non è colpa tua. — Le sorrise, rassicurante. — Comunque voglio che tu mi faccia un paio di favori. Per prima cosa voglio che tu mi stia a sentire, e io ti racconterò tutto dall’inizio alla fine. Non potrei parlarne con nessun altro, e ho bisogno di dire subito tutto, per schiarirmi le idee, per separare gli incubi dalla realtà prima di dimenticare tutto. D’accordo?

— Ti ascolto. — Lei gli restituì il sorriso, gli mise la mano sulla spalla, la ritirò immediatamente al suo sussulto. — Cosa c’è, John?

— Mi hai fatto tornare in mente il secondo favore che volevo chiederti… Puoi portarmi all’ospedale?

— Cosa ti sei fatto?

— Cosa mi sono…? — Quella domanda così semplice, così naturale, implicava che fino a prova contraria tutte le sue ferite dovevano avere cause molto prosaiche; e Redpath capì all’improvviso quanto sarebbe parsa assurda la sua storia.

“La ferita alla spalla? Ma niente, me l’ha fatta la cara signorina Connie con uno scalpello prima che io le dessi fuoco.

“La bruciatura alla mano? Oh, sai com’è, il nato-Una-Volta mi ha paralizzato, e così ho tenuta in mano per troppo tempo una bottiglia incendiaria.

“Quelle zone di pelle viva sulle caviglie? È stato quando il nato-Una-Volta ha cominciato a mangiarmi. Si nutre di cheratina, sai. Esatto: la proteina che si trova nella pelle e nei capelli e nelle unghie e nelle piume e nei becchi degli uccelli. Per fortuna che avevo le calze di nylon e le scarpe con la suola di gomma. Altrimenti sarei conciato proprio male. Sissignora, proprio male!”

Redpath ripassò mentalmente il racconto che voleva fare a Leila. Cominciava alle prime ore di martedì, quando Albert, ne era convinto, si era presentato alla sua porta per metterlo in guardia, poi si era lasciato spaventare dalla visione mostruosa proiettata dal nato-Una-Volta. L’alieno aveva ricordato ad Albert qual era la punizione per i traditori. Albert aveva un ruolo di primo piano anche in altri avvenimenti. Aveva trasportato Redpath in America, sul tappeto magico della psicocinesi, e gli aveva fatto vedere quello che il nato-Una-Volta faceva agli esseri umani. E, naturalmente, Albert era il primo attore dell’ultima scena. Quell’uomo così brutto e così eroico era al centro di tutta la storia… Ma adesso dov’era finito? A cosa serviva raccontare a Leila che Albert e gli altri probabilmente erano bruciati nell’enorme fornace dell’acciaieria di Calbridge, ma che poteva anche trattarsi di un vulcano al centro della Terra o del Sole?

Come poteva credergli Leila? Ripensando a tutto quell’incubo, come poteva crederci lui stesso?

— John, ti ho chiesto cosa ti sei fatto.

Redpath la fissò per qualche secondo, prese una decisione. — Mi sono ferito alla spalla con un chiodo che sporgeva dal muro, dopo di che mi sono versato un po’ di acido sulle caviglie.

— Allora sarà meglio che ti porti in ospedale. — Leila ingranò la marcia e premette sull’acceleratore. — Certa gente non dovrebbe andare in giro da sola.

— Io sono proprio uno di quelli. Pensi che potremmo rimediare in qualche modo?

— Questa è la proposta di matrimonio più volgare che io abbia mai sentito — commentò Leila, senza togliere gli occhi dalla strada. — Immagino di doverla prendere per quello che è.

— Grazie. — Redpath si abbandonò sul sedile, distolse i pensieri da un passato che diventava sempre più irreale di secondo in secondo, cominciò a riflettere sul futuro che doveva ancora emergere dalle nebbie delle probabilità.


FINE
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