Terry Pratchett L’arte della magia

Questo è un racconto sulla magia, su dove va e, cosa forse più importante, da dove viene e perché, sebbene non pretenda dare una risposta a tutti questi interrogativi. O a nessuno di essi.

Tuttavia può contribuire a spiegare perché Gandalf non si era mai sposato e perché Merlin era un uomo. Perché questo è anche un racconto sul sesso. Anche se, probabilmente, non nel senso di atletiche acrobazie molto spinte. A meno che i protagonisti non sfuggano totalmente al controllo dell’autore. Il che è possibile.

Comunque, questo è anzitutto il racconto di un mondo. Eccolo che viene. Osservate con attenzione, gli effetti speciali sono assai costosi.

Risuona una nota bassa. È un accordo profondo, vibrante. Annuncia che la sezione degli ottoni può intonare da un momento all’altro una fanfara per il cosmo. Perché lo scenario raffigura la tenebra del profondo spazio, rotta da poche stelle brillanti come la forfora sulle spalle di Dio.

Poi in alto appare, più grande del più grande e temibile incrociatore stellare mai concepito dall’immaginazione di un produttore cinematografico megalomane: una tartaruga, lunga diecimila miglia. È la Grande A’Tuin, uno dei rari astrochelonidi provenienti da un universo dove le cose sono meno di come sono e più come la gente immagina che siano. Trasporta sul suo guscio costellato da crateri di meteore quattro giganteschi elefanti, che sorreggono sulle loro spalle enormi la grande ruota del mondo-Disco.

Via via che la scena gira, l’intero mondo si fa visibile alla luce del suo minuscolo sole orbitante. Ci sono continenti, arcipelaghi, mari, deserti, catene montuose e al centro perfino una piccolissima calotta ghiacciata.

Gli abitanti di questo luogo, è ovvio, non si preoccupano di teorie globali. Il loro mondo, circondato da un oceano che precipita senza sosta nello spazio in una enorme cascata, è tondo e piatto come una pizza geologica, sebbene senza le acciughe.

Un mondo simile, che esiste soltanto perché agli dei piace scherzare, è un luogo dove la magia può sussistere. E anche il sesso, naturalmente.


Veniva camminando nella tempesta ed era riconoscibile per un mago in parte dal lungo mantello e dalla verga scolpita. Ma soprattutto perché le gocce di pioggia si fermavano a diversi centimetri al di sopra della sua testa, fumanti.

Era una terra dove i temporali erano frequenti, lassù nelle Ramtop Mountains, una terra di cime frastagliate, di dense foreste, di fiumi che scorrevano in strette valiate così profondamente incassate che, non appena la luce del giorno aveva raggiunto il fondo, era già tempo di lasciarlo di nuovo. Scampoli di nuvole avvolgevano le cime minori al di sotto del ripido sentiero lungo il quale il mago avanzava rischiando di scivolare a ogni passo. Qualche capra lo osservava con blando interesse attraverso la fessura degli occhi. Non ci vuole molto a suscitare l’interesse delle capre.

Di tanto in tanto il mago si fermava per lanciare in alto la sua pesante verga che ricadeva sempre indicando la stessa direzione. Allora lui con un sospiro la raccoglieva e continuava la sua marcia faticosa.

Il temporale percorreva le alture in mezzo ai lampi e ai rombi.

Il mago scomparve dietro la curva del sentiero e le capre si rimisero a brucare l’erba fradicia.

Finché qualcos’altro non le costrinse ad alzare il muso. Si irrigidirono, con gli occhi spalancati e le narici frementi.

Strano, perché sul sentiero non c’era niente. Eppure le capre lo guardarono passare finché non sparì dalla loro vista.

Un villaggio era annidato in una stretta valle tra boschi scoscesi. Non era un grande villaggio e non avrebbe figurato su una carta delle montagne. Compariva appena su una mappa del villaggio stesso.

Infatti, era uno di quei luoghi che hanno ragione di esistere solo perché certa gente ci è nata. L’universo ne è pieno: villaggi nascosti, piccole città spazzate dal vento sotto vasti cieli, capanne isolate su fredde montagne. L’unica traccia che lasciano nella storia è il fatto di essere il luogo incredibilmente comune dove ha avuto inizio qualcosa di straordinario. Spesso c’è soltanto una piccola lapide a indicare che, contro ogni probabilità ginecologica, un personaggio molto famoso è nato a metà altezza di quel particolare muro.

La nebbia si arricciolava in volute tra le case mentre il mago, attraversato uno stretto ponte sopra il corso d’acqua rigonfio, si dirigeva verso la fucina del villaggio (sebbene non esista alcun nesso tra questi due fatti). Le spirali di nebbia ci sarebbero state comunque: era una nebbia esperta, che delle sue volute aveva fatto una vera e propria arte.

La fucina, naturalmente, era affollata. Una fucina è un posto dove si è sicuri di trovare un bel fuoco e qualcuno con cui parlare. Diversi abitanti del villaggio se ne stavano stravaccati nella calda penombra ma, all’avvicinarsi del mago, si raddrizzarono pieni di aspettativa, cercando di darsi un contegno intelligente, generalmente con scarso successo.

Il fabbro non avvertì il bisogno di mostrare tanta deferenza. Salutò il mago con un cenno di testa, ma era un saluto tra eguali. O così la pensava lui. Dopotutto, qualsiasi fabbro con qualche competenza ha una certa dimestichezza con la magia, o almeno ritiene di averla.

Il mago s’inchinò. Un gatto bianco addormentato vicino alla fornace si svegliò e lo guardò con attenzione.

— Come si chiama questo villaggio, signore? — chiese il mago. Il fabbro alzò le spalle.

— Cattivo Somaro — rispose.

— Cattivo…?

— Somaro — ripeté l’altro, in un tono come volesse sfidare chiunque trovasse da ridirci.

Il mago ci pensò su.

— Un nome con una storia dietro di sé — disse alla fine — che in altre circostanze avrei piacere di udire. Ma vorrei parlare con te, fabbro, di tuo figlio.

— Quale? — domandò l’uomo e i presenti ridacchiarono. Il mago sorrise.

— Tu hai sette figli, non è vero? E tu stesso eri l’ottavo figlio di tua madre?

Il viso del fabbro s’indurì. Si girò verso i compaesani. — Bene, ha smesso di piovere. Sparite, tutti quanti. Io e… — guardò il mago con le sopracciglia inarcate.

— Tamburo Billet — si presentò lui.

— Io e il signor Billet dobbiamo parlare di certe cose. — Agitò il suo martello con gesto vago. E uno dopo l’altro i presenti se ne andarono, allungando il collo nel caso il mago facesse qualche mossa interessante.

Il fabbro tirò fuori due sgabelli da sotto una panca. Da un armadietto vicino al cassone dell’acqua prese una bottiglia e riempì due bicchierini con un liquido incolore.

I due uomini rimasero per un po’ seduti a guardare la pioggia e la nebbia che scendeva sul ponte.

Poi il fabbro disse: — So di quale figlio parli. In questo momento la Nonnina si trova di sopra con mia moglie. Ottavo figlio di un ottavo figlio, già. Questo particolare mi era venuto in mente ma, a essere sincero, non gli ho dato molto peso. Bene, bene. Un mago in famiglia, eh?

— Capisci le cose al volo — commentò Billet. Il gatto bianco saltò a terra e con un balzo andò ad acciambellarsi in grembo al mago, che si mise ad accarezzarlo distrattamente con le dita sottili.

— Bene, bene — ripeté il fabbro. — Un mago a Cattivo Somaro, eh?

— Può darsi, può darsi. Naturalmente, prima dovrà andare all’Università — disse il mago. — Potrà riuscire molto bene, è ovvio.

Il fabbro valutò attentamente l’idea e decise che gli piaceva un sacco. Fu colpito da un pensiero.

— Aspetta un momento — disse. — Sto cercando di ricordarmi cosa mi diceva mio padre. Un mago che sa di essere prossimo a morire, può trasmettere in qualche modo la sua arte magica a una specie di successore, giusto?

— Sì, anche se non ho mai sentito esprimere la cosa tanto succintamente — rispose il mago.

— Così, tu stai per, diciamo, morire?

— Oh, sì. — Il gatto fece le fusa quando le dita del mago lo solleticarono dietro l’orecchio.

Il fabbro aveva l’aria imbarazzata. — Quando?

Billet rifletté un momento. — Tra circa sei minuti.

— Oh!

— Non preoccuparti — lo rassicurò l’altro. — A dirti la verità, sto aspettando con impazienza questo momento. Ho sentito dire che è assolutamente indolore.

Dopo averci pensato, il fabbro chiese: — Chi te l’ha detto?

Il mago fece finta di non averlo udito. Fissava il ponte, in cerca di un segnale nella nebbia.

— Senti — gli disse il fabbro. — Faresti meglio a dirmi come si fa ad allevare un mago, capisci, perché dalle nostre parti non c’è un mago e…

— Si aggiusterà tutto da sé — rispose Billet allegro. — La magia mi ha guidato da te e la magia penserà a tutto. Di solito lo fa. Ho udito gridare?

Il fabbro alzò gli occhi al soffitto. Distinse, al di sopra del crepitare della pioggia, il suono di un paio di nuovi polmoni a tutto volume. Il mago sorrise. — Fallo portare quaggiù — disse.

Il gatto si mise seduto e fissò con interesse la larga porta della fucina. Il fabbro andò ai piedi della scala e chiamò eccitato. Allora l’animale saltò giù e attraversò adagio il locale, con un ronron che ricordava il rumore di una sega a nastro.

Una donna alta, dai capelli bianchi, scese la scala, stringendo nelle braccia un fagottino avvolto in una coperta. Il fabbro la sospinse in fretta dove sedeva il mago.

— Ma… — cominciò lei.

— Questo è molto importante — dichiarò il fabbro con aria d’importanza. — Che facciamo adesso, signore?

Il mago sollevò la sua verga. Aveva l’altezza di un uomo ed era spessa come il suo polso, coperta di intagli. Che sembravano cambiare sotto lo sguardo del fabbro, proprio come non volessero che lui vedesse che cosa erano.

— Il bambino deve tenerla — decretò Tamburo Billet. Il fabbro annuì e armeggiò con la coperta fino a estrarne una minuscola manina rosa. La guidò con delicatezza verso il bastone. Che il bimbo afferrò stretto.

— Ma… — obiettò la levatrice.

— Va tutto bene, Nonnina, so quello che faccio. Lei è una strega, signore, non le presti attenzione. Bene, e adesso? — concluse l’uomo.

Il mago restò in silenzio.

— Che cosa facciamo o… — cominciò il fabbro e s’interruppe. Si chinò a guardare il viso del vecchio mago. Billet sorrideva. Chi avrebbe saputo dire perché?

Il fabbro rimise il piccolo nelle braccia dell’agitatissima levatrice. Poi, con la massima precauzione, sciolse le ditina pallide dalla verga.

Questa al tatto dava una sensazione strana, untuosa, come di elettricità statica. Il legno era quasi nero, ma gli intagli erano leggermente più chiari e facevano male agli occhi se si cercava di scoprire che cosa fossero di preciso.

— Sei contento di te stesso? — chiese la levatrice.

— Eh? Oh, sì. Sì, certo, Perché?

La donna scostò un lembo della coperta. Il fabbro guardò giù e deglutì.

— No — bisbigliò. — Lui aveva detto…

— E lui come avrebbe fatto a saperlo? — ribatté lei sprezzante.

— Ma lui ha detto che sarebbe stato un figlio!

— A me non sembra un figlio, amico.

Il fabbro si accasciò sullo sgabello, con la testa nelle mani.

— Che cosa ho fatto? — gemette.

— Hai dato al mondo il suo primo mago femmina — disse la levatrice. — Chi è il furbastro, allora?

— Cosa?

— Stavo parlando alla bimba.

Il gatto bianco faceva le fusa e inarcava la schiena come si stesse strofinando alle gambe di un vecchio amico. Strano, perché lì non c’era nessuno.

— Sono stato uno sciocco — pronunciò una voce con un tono impossibile a udirsi da un orecchio mortale. — Ho dato per scontato che la magia sapesse ciò che faceva.

— FORSE È COSÌ.

— Se solo potessi fare qualcosa…

— NON SI PUÒ TORNARE INDIETRO. NON SI PUÒ TORNARE INDIETRO — disse la voce profonda e greve come il richiudersi delle porte di una cripta.

La manciata di nulla che era diventato Tamburo Billet rimase per un po’ a pensare.

— Ma lei avrà un sacco di problemi.

— È A QUESTO CHE SI RIDUCE LA VITA. COSI MI DICONO. IO NATURALMENTE NON SAPREI.

— E la reincarnazione?

La Morte esitò.

— NON TI PIACEREBBE — disse. — CREDI A ME.

— Ho sentito che certe persone lo fanno sempre.

— BISOGNA ESSERCI ALLENATI. BISOGNA COMINCIARE PICCOLO E CRESCERE VIA VIA. NON MAI IDEA DI COME SIA ORRIBILE ESSERE UNA FORMICA.

— È tanto brutto?

— NON CI CREDERESTI. E CON IL TUO KARMA È TROPPO SPERARE DI ESSERE UNA FORMICA.

La piccola era stata riportata a sua madre e il fabbro sedeva sconsolato a fissare la pioggia.

Tamburo Billet grattava il gatto dietro l’orecchio e intanto pensava alla propria vita. Era stata una vita lunga (questo era uno dei vantaggi dell’essere un mago) e lui aveva fatto parecchie cose di cui non andava troppo fiero. Era ormai tempo che…

— NON HO TUTTO IL GIORNO A DISPOSIZIONE, SAI — disse la Morte in tono di rimprovero.

Il mago abbassò gli occhi sul gatto e si rese conto per la prima volta di quanto ora sembrasse strano.

I vivi spesso non comprendono quanto il mondo sembri complicato quando uno è morto. Perché, mentre la morte libera la mente dalla costrizione delle tre dimensioni, la taglia anche fuori dal Tempo, che è soltanto un’altra dimensione. Così, mentre il gatto che si strofinava alle sue gambe invisibili era senza dubbio lo stesso gatto che lui aveva visto pochi minuti prima, adesso era anche con grande chiarezza un micino appena nato e una vecchia gattona grassa e mezza cieca, compresi tutti gli stadi intermedi. Tutto nello stesso tempo. In principio, quando era minuscolo, sembrava una carota bianca a forma di gatto. Descrizione, questa, di cui ci dobbiamo accontentare finché non si inventeranno gli aggettivi quadridimensionali adatti.

La mano scheletrica della Morte batté gentilmente il mago sulla spalla.

— VIENI VIA, FIGLIO MIO.

— Non c’è niente che io possa fare?

— LA VITA È FATTA PER I VIVI. COMUNQUE, LE HAI DATO LA TUA VERGA.

— Già. C’è quella.


La levatrice si chiamava Nonnina Weatherwax. Era una strega. Fatto più che accettato nelle Ramtop Mountains, e nessuno diceva male delle streghe. Almeno, fintantoché desiderava risvegliarsi al mattino con lo stesso aspetto di quando era andato a letto.

Quando la donna scese dabbasso, trovò il fabbro che fissava ancora la pioggia con aria cupa. Gli batté una mano nodosa sulla spalla. Lui alzò gli occhi a guardarla.

— Che devo fare, Nonnina? — domandò, senza riuscire a evitare il tono lamentoso.

— Cosa ne hai fatto del mago?

— L’ho portato fuori nella legnaia. Ho fatto bene?

— Per adesso basterà. Ora devi bruciare la verga.

Entrambi si voltarono a guardare il pesante bastone che il fabbro aveva appoggiato nell’angolo più oscuro della fucina. Sembrava quasi che l’oggetto ricambiasse lo sguardo.

— Ma è magica — bisbigliò l’uomo.

— Allora?

— Brucerà?

— Mai saputo che il legno non bruci.

— Non sembra giusto.

Nonnina Weatherwax chiuse le grandi porte e si girò verso di lui in collera.

— Adesso stammi a sentire. Gordo! Nemmeno le femmine maghi sono giuste! È il genere di magia sbagliata per le donne, quella dei maghi, tutta libri e stelle e giommetria. Lei non ce la farebbe. Chi ha mai sentito di un mago femmina?

— Ci sono le streghe — obiettò il fabbro incerto. — E le incantatrici, anche, ho sentito.

— Le streghe sono tutta un’altra cosa — sbuffò Nonnina Weatherwax. — La loro è una magia che viene dalla terra, non dal cielo, e gli uomini non ci hanno mai capito niente. Quanto alle incantatrici — aggiunse — sono come sono. Dammi retta, brucia la verga, seppellisci il corpo e non farne mai parola con nessuno.

Il fabbro annuì a malincuore, si avvicinò alla fucina e si diede da fare con il mantice finché non sprizzarono le scintille, poi andò a prendere la verga.

Quella non si mosse.

— Non vuole muoversi!

Tirava il bastone con tanta forza che il sudore gli colava sulla fronte. Ma quello, immobile, non mostrava di voler cooperare.

— Qui, fammi provare — disse la Nonnina e allungò le mani. Ci fu uno schiocco e un puzzo di stagno bruciacchiato.

Il fabbro attraversò di corsa il locale, zoppicando leggermente, per soccorrere la donna che era andata a sbattere a capofitto contro la parete opposta.

— Stai bene?

Lei aprì due occhi simili a diamanti infuriati e disse: — Capisco. È così che va, allora?

— Che va che cosa? — Il fabbro era totalmente disorientato.

— Aiutami a tirarmi su, sciocco. E portami un’accetta.

Il tono della sua voce suggeriva che disubbidire non sarebbe stata una buona idea. Il fabbro frugò freneticamente tra i vari arnesi dietro la fucina fino a trovare una vecchia scure a doppio taglio.

— Bene. Adesso levati il grembiule.

— Perché? Che hai intenzione di fare? — chiese l’uomo, che cominciava a perdere il filo degli avvenimenti. Lei se ne uscì in un sospiro esasperato.

— È di cuoio, idiota che non sei altro. Lo avvolgerò intorno al manico. Quello non mi farà lo stesso scherzo due volte!

Il fabbro si tolse a fatica il pesante grembiule di cuoio e glielo tese con una certa cautela.

Lei lo avvolse intorno al manico della scure che fece roteare in aria una o due volte. Poi attraversò il locale con passo deciso (al chiarore della fornace quasi incandescente la sua figura faceva pensare a un ragno) e con un grugnito di trionfo abbatté la pesante lama proprio nel centro della verga.

Uno scatto. Un verso come quello di una pernice. Un tonfo.

Silenzio.

Il fabbro allungò una mano molto lentamente, senza muovere la testa, e toccò la lama dell’accetta. Che non si trovava più sull’accetta. Si era conficcata nella porta, vicino alla sua testa, portandogli via un pezzettino di orecchia.

La Nonnina, con l’aria ancora confusa per avere cozzato contro un oggetto assolutamente inamovibile, fissava il pezzo di legno che aveva in mano.

— Bbbbennee — farfugliava — iiiinnn qquessttoo cccassoo…

— No — replicò con fermezza l’uomo, massaggiandosi l’orecchia. — No, qualunque cosa tu stia per suggerirmi. Lascialo perdere. Ci ammucchierò sopra della roba. Nessuno lo noterà. Lascialo perdere. È solo un bastone.

Solo un bastone?

— Hai qualche idea migliore? Che non rischierà di portarmi via la testa?

La donna lanciò un’occhiataccia alla verga, che non parve farci caso.

— Non ora subito — ammise. — Ma dammi soltanto il tempo…

— Va bene, va bene. Comunque, ho delle cose da fare, maghi da seppellire. Tu sai com’è.

Il fabbro prese una vanga vicino alla porta posteriore ed esitò.

— Nonnina.

— Cosa?

— Tu lo sai come vogliono essere sepolti i maghi?

— Sì.

— Be’, come?

Nonnina Weatherwax si fermò ai piedi della scala.

— Controvoglia.

Più tardi, quando gli ultimi raggi di luce furono svaniti dalla vallata, la notte calò adagio e una luna pallida e tersa brillò nel cielo incastonato di stelle. Nell’orto semibuio dietro la fucina risuonò di quando in quando il tintinnio di una vanga o un’imprecazione soffocata.

Nella sua culla, al piano superiore, dormiva il primo mago femmina del mondo.

Il gatto bianco era sdraiato mezzo addormentato sul suo privato ripiano vicino alla fornace. L’unico rumore nella fucina calda e scura era il crepitio delle braci che si assestavano sotto la cenere.

La verga era ritta nell’angolo, dove voleva rimanere, avvolta in ombre leggermente più nere di quanto siano normalmente le ombre.

Il tempo passava. Ciò che, essenzialmente, è il suo mestiere.

Un debole tintinnio, un soffio d’aria. Dopo un po’, il gatto si mise a sedere e a guardare con interesse.

Venne l’alba. Lassù, nelle Ramtop, l’alba è sempre uno spettacolo suggestivo, specie quando un temporale ha ripulito l’aria. La valle, dove si trovava Cattivo Somaro, dava su un panorama di montagne più basse e di colline dalle tinte violacee e arancione sotto la prima luce mattutina che si spandeva adagio su di esse (perché nel vasto campo magico del Disco la luce viaggia a un ritmo più lento) e più lontano le grandi pianure erano ancora una pozza d’ombra. Ancora più in là si scorgeva di tanto in tanto lo scintillio distante del mare.

In effetti, da lì lo sguardo poteva spaziare proprio fino all’estremo limite del mondo.

Non era questa un’immagine poetica, ma un fatto concreto, dato che il mondo era decisamente piatto e inoltre, come ben si sapeva, era trasportato attraverso lo spazio sul dorso di quattro elefanti, a loro volta poggiati sul guscio della Grande ATuin, la Grande Tartaruga Celeste.

A Cattivo Somaro, il villaggio si sta svegliando. Il fabbro è appena tornato nella sua fucina, che ha trovato più ordinata che negli ultimi cento anni, con tutti gli arnesi sistemati al posto giusto, il pavimento spazzato e nella fornace preparato un nuovo fuoco. Lui siede sull’incudine, che è stata spostata dall’altra parte del locale, e contempla la verga cercando di pensare.


Per sette anni non accadde granché, eccetto che nell’orto del fabbro uno dei meli crebbe parecchio più alto degli altri. E che spesso ci si arrampicava una bambina dai capelli scuri, i due incisivi mancanti e lineamenti che promettevano di diventare, se non proprio belli, almeno piacevolmente interessanti.

La piccola si chiamava Eskarina, per nessun motivo particolare tranne che a sua madre piaceva il suono della parola. E sebbene Nonnina Weatherwax la tenesse sotto attenta osservazione, non riuscì a scorgere in lei alcun segno di magia. È vero che la ragazzina passava più tempo ad arrampicarsi sugli alberi e a correre gridando forte di quanto facessero di solito le altre bambine. Ma a una femminuccia con quattro fratelli più grandi ancora a casa, si possono scusare un sacco di cose. Così, la strega cominciò a tranquillizzarsi e a pensare che dopo tutto la magia non si era impossessata di lei.

Ma la magia suole tenersi nascosta, come un sentiero tra l’erba.


L’inverno ritornò, e fu un brutto inverno. Le nuvole indugiavano sulle Ramtop come tante grandi e grasse pecore, riempiendo le gole di neve e trasformando le foreste in caverne silenziose e malinconiche. I passi alti erano chiusi e le carovane sarebbero tornate soltanto a primavera. Cattivo Somaro divenne una piccola isola di calore e di luce.

Alla prima colazione la madre di Esk osservò: — Sono preoccupata per Nonnina Weatherwax. Ultimamente non si è fatta vedere.

Il fabbro la guardò mentre si portava alla bocca una cucchiaiata di porridge.

— A me non dispiace — disse. — Lei…

— Lei ha un naso lungo — dichiarò Esk.

I suoi genitori la guardarono severi.

— Non bisogna fare una osservazione del genere — la rimproverò la madre.

— Ma il babbo dice che lei ficca sempre il suo…

— Eskarina!

— Ma lui ha detto…

— Io ho detto…

— Sì, ma lui ha detto che lei aveva…

Il fabbro si chinò a darle uno schiaffo. Non era molto forte e se ne pentì subito. I ragazzi si beccavano un buono schiaffo e di quando in quando una cinghiata ogni volta che se lo meritavano. Il guaio con la figlia, tuttavia, non consisteva tanto nelle normali disubbidienze, quanto nel vezzo che aveva di seguire implacabile il filo di un argomento, anche parecchio tempo dopo che avrebbe dovuto smettere. Cosa che aveva sempre il potere d’infuriarlo.

La bimba scoppiò a piangere. Lui si alzò, arrabbiato e imbarazzato con se stesso, e uscì per andare alla fucina.

Si udì un forte scricchiolio e un tonfo.

Lo trovarono per terra privo di conoscenza. Dopo lui sostenne sempre di avere battuto la testa sul montante della porta. Cosa strana, perché Gordo non era molto alto e prima c’era sempre stato spazio più che sufficiente. Però lui era certo che, qualunque cosa fosse accaduta, non aveva nulla a che fare con la parvenza di un movimento proveniente dall’angolo più buio della fucina.

Comunque fosse, gli avvenimenti lasciarono un segno su quella giornata. Una giornata di vasellame rotto, una giornata in cui la gente si pestava i piedi e si irritava. La madre di Esk fece cadere una brocca che era appartenuta a sua nonna e nella soffitta un’intera cassetta di mele andò a male. Nella fucina la fornace si fece di cattivo umore e si rifiutò di tirare. Jaims, il figlio maggiore, scivolò su una lastra di ghiaccio per la strada e si fece male a un braccio. Il gatto bianco (o forse un suo discendente, visto che i gatti conducevano una loro propria vita complicata nel fienile adiacente alla fucina) si arrampicò su per il camino del retrocucina e rifiutò di scendere. Perfino il cielo si fece opprimente come un vecchio materasso e l’aria soffocante, malgrado la neve.

I nervi scossi, la noia, il malumore facevano vibrare l’aria come all’annuncio di un temporale.

— Bene! Basta così! — gridò la madre di Esk. — Cern, tu, con Gulta ed Esk potete andare a vedere come sta la Nonnina e… dov’è Esk?

I due figli più piccoli smisero di litigare senza troppa convinzione e vennero fuori da sotto il tavolo.

— È andata nell’orto — annunciò Gulta. — Ancora.

— Allora va e riportala qui, e poi filate.

— Ma fa freddo!

— Sta per nevicare di nuovo!

— Sono solo meno di due chilometri e la strada è abbastanza sgombra. E chi ci teneva tanto ad andare fuori quando abbiamo avuto la prima nevicata? Sparite e non tornate finché non sarete di umore migliore.

Trovarono Esk appollaiata su una biforcazione del grosso melo. Ai ragazzini l’albero non piaceva molto. Tanto per cominciare, era talmente rivestito dal vischio da sembrare verdeggiante anche a metà inverno; e i suoi frutti erano piccoli e così aspri da darvi i crampi di stomaco per poi marcire dalla sera alla mattina; inoltre, benché sembrasse facile arrampicarcisi, accadeva spesso che i suoi rami si rompessero e vi facessero perdere l’equilibrio nei momenti meno opportuni. Una volta Cern aveva giurato che un ramo si era contorto apposta per farlo cadere. Ma l’albero tollerava Esk, che era solita sedercisi se era irritata o stufa o aveva semplicemente voglia di starsene da sola. I ragazzini sentivano che il diritto di ogni fratello di tormentare la propria sorella finiva ai piedi del tronco. Così le lanciarono una palla di neve. Che non la colpì.

— Andiamo a trovare la vecchia Weatherwax.

— Ma tu non sei obbligata a venire.

— Perché non faresti altro che farci rallentare e probabilmente ti metteresti a piangere.

Esk li guardò con aria solenne. Era una bambina che non piangeva molto, tanto sembrava che non servisse un granché.

— Se non volete che venga, allora verrò — disse. Tra fratelli, un discorso del genere passa per logica.

— Oh, noi vogliamo che tu venga — si affrettò a dichiarare Gulta.

— Mi fa piacere saperlo — ribatté Esk, che si lasciò cadere su un mucchio di neve.

I bambini avevano un canestro contenente delle salsicce affumicate, uova sode e, dato che la loro madre era prudente quanto generosa, un grosso barattolo di marmellata di pesche che a nessuno della famiglia piaceva molto. Lei, però, continuava a farla ogni anno quando le piccole pesche selvatiche erano mature.

Gli abitanti di Cattivo Somaro avevano imparato a convivere con i lunghi inverni e le strade che portavano fuori del villaggio erano fiancheggiate da assi per ridurre l’ammucchiarsi della neve e, quel che più importa, per impedire ai viandanti di perdersi. Se erano gente del posto, la cosa non era così grave, perché molte generazioni prima un anonimo genio del consiglio del villaggio aveva avuto l’idea di fare delle tacche ogni dieci alberi della foresta lì intorno, per una distanza di quasi quattro chilometri. Ci era voluto un bel po’ di tempo e ritagliare le tacche era sempre il compito di ogni uomo nel suo tempo libero. Ma negli inverni durante i quali un uomo poteva perdersi nella tormenta a poche centinaia di metri da casa sua, più di una vita era stata salvata dalla traccia delle tacche trovate al tatto sotto la neve.

Nevicava di nuovo quando i tre ragazzini lasciarono la strada e s’inerpicarono su per il sentiero dove, d’estate, la casa della strega era seminascosta tra cespugli di lampone e una profusione di magica digitale.

— Nessuna impronta — osservò Cern.

— Eccetto che per le volpi — disse Gulta. — Dicono che lei si può tramutare in una volpe. O altro. Perfino un uccello. Qualunque cosa. È così che lei sa sempre che cosa succede.

Si guardarono intorno con cautela. Una magra cornacchia in effetti li stava osservando poco lontano dal tronco morto di un albero.

— Dicono che nei pressi di Crack Peak c’è un’intera famiglia che può trasformarsi in lupi — aggiunse Gulta, uno a cui non piaceva lasciare in sospeso un soggetto promettente — perché una notte qualcuno ha sparato a un lupo e il giorno dopo la loro zietta zoppicava per una ferita di freccia nella gamba, e…

— Io non ci credo che le persone possano trasformarsi in animali — disse lentamente Esk.

— Ah sì, signorina Intelligentona?

— La Nonnina è grande e grossa. Se si trasformasse in una volpe, che accadrebbe di tutti i pezzi che avanzerebbero?

— Lei li farebbe semplicemente sparire con la magia — ribatté Cern.

— Io non penso che la magia funzioni in questo modo — obiettò Esk. — Non si possono fare accadere le cose così, c’è una specie di… una cosa come l’altalena. Se si spinge giù un’estremità, l’altra va su… — Lasciò la frase in sospeso.

I fratelli le lanciarono un’occhiata.

— Non ce la vedo la Nonnina su un’altalena — disse Gulta. Cern ridacchiò.

— No, voglio dire, ogni volta che accade una cosa, un’altra deve accadere pure… credo — terminò incerta la bambina, evitando un mucchio di neve insolitamente profondo. — Soltanto nella… direzione opposta.

— Questa è una stupidaggine — la rimbeccò Gulta — perché, guarda. Ti ricordi quando l’estate scorsa è venuta quella fiera e ci lavorava un mago che ha fatto apparire dal nulla tutti quegli uccelli e altri oggetti? Voglio dire, è successo così, lui ha detto solo certe parole e ha agitato le mani, ed è successo semplicemente così. Non c’era nessuna altalena.

— C’erano i seggiolini volanti — disse Cern. — E uno stand dove bisognava gettare delle cose alle cose per vincere delle cose.

— E tu, Gul, non hai colpito niente.

— Nemmeno tu. Hai detto che gli oggetti erano incollati agli oggetti così che era impossibile farli cadere, hai detto…

Sembravano due cuccioli. Esk ascoltava distratta la loro conversazione. "Io lo so ciò che voglio dire" pensava la bambina. "La magia è facile. Basta trovare il posto dove tutto si tiene in equilibrio e spingere. Chiunque potrebbe farlo. In questo non c’è niente di magico. Tutte quelle parole ridicole e quell’agitare le mani è semplicemente… è soltanto per…"

Si fermò, sorpresa di se stessa. Sapeva ciò che intendeva. L’idea era proprio lì nella sua mente. Ma non sapeva come tradurla in parole, nemmeno a se stessa.

Scoprire delle parole nella propria testa e non sapere esprimerle, era una sensazione orribile. Era…

— Dai, vieni, o staremo qui tutto il giorno.

Lei scosse la testa e si affrettò a seguire i fratelli.

Il cottage della strega consisteva di tante parti aggiunte e tante tettoie che era difficile vedere come doveva essere la costruzione originale. O se mai ce n’era stata una. D’estate era circondato da folte aiuole di quelle che la Nonnina chiamava genericamente "le Erbe": piante strane, fronzute o basse o arruffate, dai fiori curiosi o frutti dai colori vivaci o baccelli sgradevolmente rigonfi. Solo la Nonnina sapeva a che cosa servissero e i colombi selvatici tanto affamati da beccarli, in genere ne emergevano squittendo e urtando qua e là, (oppure, qualche volta, non ne venivano più fuori).

Adesso tutto era sepolto sotto la neve. Una banderuola dimenticata sbatteva contro l’asta. La Nonnina non approvava il volo, ma alcune delle sue amiche usavano ancora le scope.

— Sembra vuoto — disse Cern.

— Niente fumo — aggiunse Gulta.

"Le finestre assomigliano a occhi" pensò Esk. Ma lo tenne per sé.

— È soltanto la casa della Nonnina — disse ad alta voce. — È tutto a posto.

Il senso di vuoto che veniva dal cottage era così forte che i bambini lo avvertivano. Le finestre sembravano degli occhi, nere e minacciose contro il biancore della neve. E nelle Ramtop mai nessuno lasciava spegnere il fuoco d’inverno. Era una questione di orgoglio.

Esk avrebbe voluto dire "Andiamo a casa". Ma sapeva che, se lo avesse fatto, i fratelli sarebbero partiti di corsa. Disse invece: — Mamma dice che appesa a un gancio del gabinetto c’è una chiave. — Un’alternativa non migliore dell’altra. Anche un comune gabinetto sconosciuto poteva contenere delle minacce come nidi di vespe, grossi ragni, cose misteriose che frusciavano nel tetto. E, durante un inverno particolarmente rigido, un piccolo orso ibernato che aveva causato un’acuta costipazione nella famiglia finché non era stato persuaso a svernare nel fienile… Il gabinetto di una strega poteva contenere qualsiasi cosa.

— Andrò a vedere, che ne dite? — domandò.

— Se vuoi — rispose Gulta con tono indifferente, che quasi riuscì a nascondere il suo sollievo.

In realtà, quando la piccola arrivò ad aprire la porta contro la neve che ci si era ammucchiata davanti, il locale era vuoto e pulito e non conteneva nulla di più sinistro di un vecchio almanacco o, più precisamente, la metà di un vecchio almanacco appeso a un gancio. La Nonnina nutriva una obiezione filosofica alla lettura. Ma sarebbe stata l’ultima a sostenere che i libri, specie quelli con le pagine sottili, non tornassero utili.

Vicino alla porta, la chiave divideva un ripiano con una crisalide e un mozzicone di candela. Esk la prese con precauzione, per non disturbare la crisalide, e tornò svelta dai fratelli.

Era inutile provare la porta principale sulla facciata della casa. A Cattivo Somaro le porte del genere le usavano solo le spose e i cadaveri, e la Nonnina aveva sempre evitato di diventare l’una cosa o l’altra. Sul retro la neve si era ammucchiata davanti alla porta e nessuno aveva rotto il ghiaccio sul cassone dell’acqua.

Nel tempo che ci volle per scavarsi un passaggio fino alla porta e convincere la chiave a girare, la luce ormai si stava dileguando dal cielo.

All’interno, la grande cucina era scura e fredda e odorava soltanto di neve. La cucina era sempre scura, ma loro erano abituati a vedere un bel fuoco nell’ampio camino e ad annusare lo spesso vapore di qualunque cosa lei stesse bollendo in quel momento. E che a volte dava il mal di testa o faceva avere delle visioni.

I tre bambini vagarono qua e là, incerti, chiamando, finché Esk non decise che non potevano più posporre di salire di sopra. Il rumore sordo del nottolino sulla porta della scaletta risuonò parecchio più forte del normale.

La Nonnina era stesa sul letto, con le braccia conserte sul petto. Il vento aveva spalancato la finestrella e aveva spinto la neve morbida sul pavimento e sopra il letto.

Esk fissava la trapunta variopinta sotto il corpo della vecchia, perché a volte un piccolo dettaglio poteva espandersi e riempire tutto il mondo. Udì appena Cern che si era messo a piangere. Stranamente, in quel momento ricordava il padre che aveva confezionato la trapunta due inverni prima, quando la neve era stata quasi altrettanto abbondante e nella fucina c’era stato poco lavoro. E come lui avesse usato ogni tipo di stracci che erano arrivati a Cattivo Somaro da tutto il mondo: seta, cuoio, cotone, lana. E, naturalmente, dato che lui non era molto bravo nel cucito, ne era risultato uno strano oggetto informe e pieno di bozzi, più simile a una tartaruga piatta che a una trapunta. E la madre aveva generosamente deciso di regalarla alla Nonnina la scorsa Notte della Posta al Cinghiale? E…

— È morta? — chiese Gulta, come se Esk fosse una esperta in materia.

La piccola alzò gli occhi su Nonnina Weatherwax. Il viso della vecchia era affilato e grigio. Era quello l’aspetto di una persona morta? Il suo petto non avrebbe dovuto alzarsi e abbassarsi?

Gulta si riprese.

— Dovremmo andare a cercare qualcuno e dovremmo partire ora perché tra un minuto farà buio — dichiarò. — Ma Cern rimarrà qui.

Il fratello lo guardò esterrefatto.

— Per che fare?

— Qualcuno deve rimanere con i morti — spiegò Gulta. — Ti ricordi quando è morto Zio Derghart e il babbo è dovuto andare e rimanere seduto lì tutta la notte con tutte le candele e il resto? Altrimenti arriva un essere cattivo a portarsi via l’anima da… da qualche parte — terminò debolmente. — E dopo la persona ritorna a perseguitarti.

Cern aprì la bocca per rimettersi a piangere. Esk disse in fretta: — Rimarrò io. A me non importa. È soltanto la Nonnina.

Gulta la guardò, sollevato.

— Accendi delle candele o roba del genere — la consigliò. — Credo che si debba fare così. E poi…

Dal davanzale della finestra si udì raspare. Era una cornacchia che ci si era posata e li fissava sospettosa, battendo le palpebre. Gulta gridò e le scagliò contro il cappello. Quella fuggì via, gracchiando con rimprovero, e lui richiuse la finestra.

— L’ho già vista qui intorno. Credo che la Nonnina le dia da mangiare. Le dava — si corresse. — Comunque, torneremo qui con gli altri, non ci metteremo molto. Vieni, Ce.

Scesero rumorosamente le scale. Esk li accompagnò giù e sprangò la porta dietro di loro.

Sopra le montagne il sole era una palla vermiglia e già spuntavano le prime stelle nel cielo.

Esk cercò qua e là nella cucina buia finché non scovò un pezzetto di candela e una scatola con l’esca e l’acciarino. Dopo molti tentativi riuscì ad accendere la candela e la mise sulla tavola, anche se in realtà non illuminava la stanza, ma semplicemente popolava di ombre l’oscurità. Poi trovò la sedia a dondolo della vecchia vicino al camino spento, e ci si sedette ad attendere.

Il tempo passava e non accadeva nulla.

Poi udì bussare alla finestra. Lei prese il mozzicone di candela e sbirciò attraverso gli spessi vetri rotondi.

Un tondo occhio giallo le ricambiò lo sguardo.

La candela sgocciolò e si spense.

La bambina rimase immobile, quasi senza respirare. Sentì bussare di nuovo, poi più nulla. Dopo un breve silenzio, il saliscendi della porta venne scosso rumorosamente.

"Arriva un essere cattivo" aveva detto il fratello.

Indietreggiò a tentoni fin quasi a inciampare sulla sedia a dondolo; la trascinò e la incuneò del suo meglio contro la porta. Con un ultimo rumore sordo, il chiavistello tacque.

Esk rimase in attesa ad ascoltare finché non le sembrò che il silenzio le rombasse nelle orecchie… Poi qualcosa cominciò a battere contro la finestrella del retrocucina, piano ma con insistenza. Dopo un po’ smise. Un momento dopo ricominciò nella camera da letto al piano di sopra… un debole rumore raschiante, un rumore come di artiglio.

Esk capiva che era necessario farsi coraggio, ma in una notte come quella il coraggio durava solo finché una candela rimaneva accesa. Attraversò la cucina scura, con gli occhi ben chiusi, finché arrivò alla porta.

Nel focolare un grosso grumo di fuliggine venne giù con un tonfo. E quando la piccola udì raspare freneticamente in provenienza del camino, tirò il chiavistello, aprì la porta e uscì a precipizio nella notte.

Il freddo era tagliente come la lama di un coltello e la neve si era coperta di una crosta di ghiaccio. Esk non si preoccupava di sapere dove fosse diretta, ma il terrore la spingeva ad arrivarci, ovunque fosse, il più rapidamente possibile.


Nel cottage la cornacchia atterrò pesantemente nel focolare in mezzo alla fuliggine, borbottando irritata tra sé e sé. Si allontanò saltellando nell’ombra e un momento dopo ci fu lo scatto del nottolino della porta che dava sulla scala e un fruscio su per i gradini.


Esk si alzò il più possibile sulla punta dei piedi e tastò con la mano il tronco dell’albero per cercare la tacca. Questa volta ebbe fortuna, ma la traccia segnata dalle incisioni le rivelò che si trovava a quasi due chilometri dal villaggio e che era scappata nella direzione sbagliata.

Nel cielo c’era uno spicchio di luna e una manciata di stelle, piccole, lucenti e fredde. Intorno a lei la foresta era un intrico di nere ombre e di pallida neve. E non tutte le ombre erano immobili, lei se ne rendeva conto.

Tutti sapevano che nelle montagne c’erano i lupi, perché certe notti il loro ululato riecheggiava giù dalle cime, ma raramente si avvicinavano al villaggio. I moderni lupi erano la progenie di antenati che erano sopravvissuti perché avevano imparato che la carne umana aveva spigoli aguzzi.

Ma l’inverno era estremamente rigido e quel branco era abbastanza affamato da dimenticare tutto della selezione naturale.

Esk ricordava le raccomandazioni che si facevano a tutti i bambini. Arrampicarsi su un albero. Accendere un fuoco. Quando ogni altro mezzo fallisce, trovare un bastone e almeno picchiarli. Non cercare mai di correre più veloci di loro.

L’albero dietro a lei era un faggio, dal tronco liscio. Impossibile arrampicarcisi.

Esk osservò una lunga ombra staccarsi da una chiazza buia e farsi un po’ più vicina. Si inginocchiò, stanca, spaventata, incapace di pensare, e frugò nella neve così gelida da bruciarle le dita, in cerca di un bastone.


Nonnina Weatherwax aprì gli occhi e fissò il soffitto screpolato e rigonfio come una tenda.

Si concentrò per ricordarsi di avere delle braccia e non delle ali, e perciò nessun bisogno di saltellare. Dopo una trasformazione, era sempre consigliabile restare stesa per un po’, per riabituare la mente al proprio corpo. Ma sapeva di non averne il tempo.

— Accidenti alla bambina — borbottò e cercò di volare sulla spalliera del letto. La cornacchia, che già decine di volte aveva vissuto quella esperienza e che considerava (per quanto gli uccelli siano capaci di considerare qualcosa, il che è davvero poco) che una buona dieta di cotenne di lardo e avanzi scelti di cucina nonché un posatoio caldo per la notte valesse bene il disturbo di lasciare di tanto in tanto che la Nonnina condividesse la sua testa, la osservava con blando interesse.

Trovati gli stivali, la Nonnina scese pesantemente le scale, resistendo all’impulso di scivolare. La porta era spalancata e sul pavimento c’era già un pulviscolo di neve.

— Oh, mannaggia — esclamò. Si chiese se dovesse cercare di trovare la mente di Esk. Ma le menti umane non erano mai così acute e limpide come quelle animali, e comunque la potenza della mente della foresta stessa rendeva una ricerca improvvisata difficile quanto distinguere il rumore di una cascata durante un temporale. Però, anche senza vederlo, la vecchia riusciva a sentire la mente del branco di lupi: una sensazione forte e acuta che riempiva la bocca con il gusto del sangue.

Sulla crosta di ghiaccio, riusciva a stento a distinguere le piccole impronte, già quasi cancellate dalla neve fresca. Imprecando e borbottando. Nonnina Weatherwax si strinse nello scialle e si avviò.

Nella fucina il gatto bianco si svegliò sul suo personale ripiano dov’era acciambellato, nell’udire i rumori provenienti dall’angolo più buio. Il fabbro aveva accuratamente richiuso le grandi porte quando era uscito con i ragazzini divenuti quasi isterici. Il gatto osservò con interesse l’ombra sottile che tentava il chiavistello e controllava i cardini.

Le porte erano di quercia, rese più dure dal calore e dagli anni, ma questo non gli impedì di essere scaraventate dall’altra parte della strada.

Il fabbro, che percorreva in fretta il sentiero, udì un suono nel cielo. Anche la Nonnina lo udì. Un suono ben preciso, simile al fruscio di oche in volo, e al suo passaggio le nuvole grevi di neve ribollirono e si contorsero.

Anche i lupi lo udirono, mentre volteggiava basso sulle cime degli alberi e si avventava sulla radura. Ma lo udirono troppo tardi.

Adesso Nonnina Weatherwax non aveva bisogno di seguire le orme. Si lasciò guidare dai lampi di luce irreale in distanza, dagli strani fruscii e tonfi sordi, e dagli ululati di dolore e di terrore. Due lupi le sfrecciarono accanto con le orecchie appiattite, decisi a schiacciare sotto le zampe qualunque ostacolo si trovasse sulla loro strada.

Un rumore di rami spezzati. Una sagoma grossa e pesante si abbatté su un abete vicino alla Nonnina e crollò, uggiolando, nella neve. Un altro lupo la superò descrivendo una traiettoria orizzontale all’altezza della sua testa e rimbalzò sul tronco di un albero.

Quindi il silenzio.

La Nonnina si fece strada tra i rami coperti di neve.

Scorse un largo circolo dove la neve era appiattita. Ai margini, dei lupi erano stesi a terra morti oppure saggiamente decisi a non muoversi.

La verga era piantata diritta nella neve e alla Nonnina sembrò che si voltasse a guardarla mentre lei le passava accanto cercando accuratamente di evitarla.

Al centro del circolo c’era anche un mucchietto, arrotolato su se stesso. La vecchia si inginocchiò con un certo sforzo e allungò una mano per toccarlo con delicatezza, ma si fermò un momento prima di sfiorare la spalla di Esk. Alzò uno sguardo minaccioso sulla verga intagliata, sfidandola a muoversi ancora.

L’aria si fece più spessa. Sembrò che il bastone arretrasse anche senza muoversi. Allo stesso tempo un che di indefinibile fece comprendere in modo inequivocabile alla strega come la verga non si considerasse sconfitta. Per lei si trattava semplicemente di una mossa tattica e non desiderava in alcun modo che la vecchia pensasse di avere vinto, perché non era affatto così.

Esk ebbe un brivido. La Nonnina le batté dolcemente sulla spalla.

— Sono io, piccola. La Nonnina.

Il mucchietto rimase immobile.

La vecchia si morse un labbro. Non sapeva mai bene cosa fare con i bambini, che lei considerava (seppure le capitava di pensarci) una via di mezzo tra gli animali e gli esseri umani. I neonati li capiva. Bastava dargli del latte da una parte e mantenere l’altra parte pulita per quanto possibile.

Gli adulti erano ancora più facili, perché provvedevano da sé a nutrirsi e a tenersi puliti. Ma tra i due c’era tutto un mondo di esperienza di cui lei non si era mai occupata. Per quanto ne sapeva, era sufficiente impedire che gli succedesse qualcosa di fatale e sperare che tutto finisse per il meglio.

La Nonnina, dunque, era imbarazzata, ma sapeva di dover fare qualcosa.

— I lupi cattivi ci hanno spaventato, allora? — azzardò.

Per qualche misteriosa ragione, la cosa sembrò funzionare. Una voce soffocata venne dall’interno della palla: — Ho otto anni, sai.

— A otto anni, non ci si appallottola in mezzo alla neve — ribatté la Nonnina, cercando di destreggiarsi nelle complicazioni di una conversazione tra adulto e bambino.

La palla non rispose.

— Probabilmente a casa ho del latte e dei biscotti — arrischiò allora la vecchia.

Senza ottenere alcun effetto.

— Eskarina Smith, se non ti comporti subito come si deve, ti arriva uno schiaffo!

Esk tirò cautamente fuori la testa.

— Non c’è bisogno di fare così.

Quando il fabbro giunse al cottage, la Nonnina stava arrivando e portava Esk per mano. I ragazzini si sporsero a guardare dietro la schiena del padre.

— Uhm. — Il fabbro non sapeva bene come intavolare la conversazione con una persona che si supponeva morta. — Loro, uhm, mi hanno detto che tu eri… malata. — Si girò a lanciare un’occhiataccia ai figli.

— Stavo facendo un riposino e mi devo essere appisolata. Ho il sonno molto pesante.

— Già — fece l’uomo, incerto. — Bene. Va tutto bene, allora. Che è successo con Esk?

— Si è presa un po’ di paura. — La nonnina strinse la mano della piccola. — Ombre e roba del genere. Ha bisogno di stare bene al caldo. Stavo per metterla nel mio letto, è un po’ confusa, se per te va bene.

Il padre non era proprio sicuro che gli andasse bene. Ma era sicurissimo che sua moglie, come tutte le altre donne del villaggio, teneva Nonnina Weatherwax in grande considerazione, anzi aveva per lei un timore reverenziale. E che se lui avesse cominciato a obiettare, si sarebbe trovato rapidamente a mal partito.

— Ottimo, ottimo — disse — se non ti è di disturbo. La manderò a prendere in mattinata, che ne dici?

— Va bene. Ti inviterei a entrare, ma non c’è nemmeno il fuoco acceso…

— No, no, va tutto bene — disse in fretta il fabbro. — Ho la cena che mi aspetta. Sta zitto — aggiunse, rivolto a Gulta, che aveva aperto la bocca per parlare e saggiamente ci aveva ripensato.

Quando se ne furono andati, tra le proteste dei due ragazzini che echeggiavano tra gli alberi, la Nonnina aprì la porta, spinse dentro Esk, e tirò il chiavistello dietro di loro. Prese due candele dalla provvista che teneva sulla dispensa e le accese. Poi tirò fuori da una cassapanca delle coperte di lana, vecchie ma ancora utilizzabili, ancora odorose di erbe anti tarme, ci avvolse la bambina e la fece sedere sulla poltrona a dondolo.

Si mise in ginocchio, con un accompagnamento di ossa scricchiolanti e di grugniti, e si preparò ad accendere il fuoco: una faccenda complicata, consistente in funghi seccati di quelli che crescono sugli alberi, usati come esca, trucioli di legno, ramoscelli spezzati, e molto soffiare e sudare.

Esk le disse: — Non devi fare così, Nonnina.

La vecchia si raddrizzò e guardò il parafuoco. Era un oggetto niente male, che il Fabbro aveva fatto per lei parecchi anni prima, con un motivo di gufi e pipistrelli. Di solito, però, lei non s’interessava al disegno.

— Ah, sì? — disse in tono asciutto. — Tu conosci un modo migliore, vero?

— Lo potresti accendere con la magia.

La Nonnina concentrò tutta la sua attenzione nel disporre altri ramoscelli sulle fiamme stente.

— E come farei, prego? — osservò, rivolta apparentemente al parafuoco.

— Eh… — La bambina esitava. — Non… non posso ricordarmelo. Ma tu devi saperlo comunque, non è così? Lo sanno tutti che sei capace di fare la magia.

— C’è magia e magia. La cosa importante, ragazza mia, è sapere a che cosa serve la magia e a che cosa non serve. Dammi retta, non ha mai avuto lo scopo di accendere il fuoco, di questo puoi essere certa. Se il Creatore avesse voluto che noi usassimo la magia per accendere il fuoco, allora non ci avrebbe dato, ehm… i fiammiferi.

— Ma tu saresti capace di accendere il fuoco con la magia? — insisté Esk, mentre la vecchia appendeva al suo gancio una vecchia cuccuma annerita. — Voglio dire, se tu lo volessi. Se fosse possibile.

— Forse. — Ma lei non avrebbe potuto: il fuoco non era dotato di una mente, non era una creatura viva. E queste erano due delle tre ragioni.

— Potresti accenderlo molto meglio.

— Se vale la pena di fare una cosa, vale la pena di farla male — sentenziò la Nonnina, rifugiandosi negli aforismi, ultima risorsa di un adulto messo alle strette.

— Sì, ma…

— Con me niente ma.

Si mise a frugare in una scatola di legno scuro sulla dispensa. La Nonnina si vantava di non avere rivali nella conoscenza delle proprietà delle erbe delle Ramtop. Nessuno meglio di lei conosceva i molti usi della Pianta Spigata, Desiderio di Fanciulla e Amore fluente. Ma c’erano delle volte in cui doveva ricorrere alla sua piccola provvista di medicine gelosamente commerciate e attentamente custodite provenienti dalla Regione di Forn (situata per quanto ne sapeva lei, in una qualsiasi zona che distasse più di un giorno di viaggio), per ottenere l’effetto desiderato.

Sminuzzò delle foglie rosse secche in un boccale, ci versò sopra del miele e acqua bollente dalla cuccuma, e lo mise in mano alla bambina. Poi piazzò sotto la grata una grossa pietra rotonda (che, più tardi, avvolta in un panno di lana, sarebbe servita da scaldaletto), ingiunse a Esk di non muoversi dalla poltrona e andò nel retrocucina.

Esk tamburellava con i calcagni sulle zampe della poltrona e intanto sorseggiava la bevanda, che aveva uno strano gusto pepato. Chissà cos’era. Naturalmente lei aveva già bevuto gli infusi della Nonnina i quali contenevano miele in quantità maggiore o minore a seconda che, a giudizio della vecchia, uno faceva troppe storie. E sapeva pure che lei era famosa nelle montagne a causa di certe sue pozioni speciali per malattie alle quali sua madre (e a volte anche delle donne giovani) alludevano a voce bassa e sopracciglia inarcate.

Al suo ritorno, la Nonnina la trovò addormentata. Né la bambina si ricordava che l’avesse messa a letto e avesse sprangato le finestre.

Tornata dabbasso, Nonnina Weatherwax trascinò più vicina al fuoco la poltrona a dondolo.

Nascosta nella mente della bambina, si diceva che lì c’era qualcosa. Non le garbava pensare che cosa fosse, ma ricordava quanto era successo ai lupi. E tutto quel parlare di accendere il fuoco con la magia. Lo facevano i maghi, era una delle prime cose che apprendevano.

La strega sospirò. C’era solo un modo per accertarsene, e lei stava diventando troppo vecchia per una cosa del genere.

Prese la candela e, attraversato il retrocucina, entrò nel locale annesso dove teneva le capre. Queste la guardarono senza paura, ciascuna accovacciata nel suo recinto simile a una palla pelosa, le tre bocche che masticavano ritmicamente la razione giornaliera di fieno. L’aria era calda e leggermente flatulenta.

Sulle travi in alto era appollaiato un gufetto, una delle varie creature per le quali vivere con la Nonnina compensava un eventuale disturbo. Le bastò una parola perché l’animale venisse a posarsi sulla sua mano e lei gli accarezzò la testa pensierosa mentre cercava con lo sguardo un posto comodo dove sdraiarsi. Avrebbe dovuto contentarsi di un mucchio di fieno.

Soffiò sulla candela e si stese, con il gufo posato sul suo dito.

L’unico rumore in tutto l’edificio era quello delle capre che andavano avanti, beate, nella notte a masticare, ruttare, ingoiare il loro cibo.

Il corpo della Nonnina era immobile. Il gufo se la sentì penetrare nella mente e le fece posto di buona grazia. La vecchia sapeva che dopo se ne sarebbe pentita. Cambiare d’identità in un solo giorno l’avrebbe lasciata svuotata la mattina seguente e con una voglia terribile di mangiarsi i sorci. Naturalmente, quando era più giovane, non ci badava: correva con i cervi, cacciava con le volpi, apprendeva le strane, sotterranee abitudini delle talpe. Di rado trascorreva una notte nel proprio corpo. Ma adesso la cosa le riusciva più difficile, specie al momento di tornare indietro. Forse sarebbe venuto il momento quando tornare le sarebbe stato impossibile; forse, una volta a casa, il suo corpo sarebbe stato soltanto carne morta. E forse, dopo tutto, non sarebbe stata nemmeno una cattiva soluzione.

I maghi, questo, non lo avrebbero mai saputo. Se gli capitava di entrare nella mente di un’altra creatura, lo facevano come un ladro; non per malvagità, ma semplicemente perché non contemplavano l’idea di farlo in un altro modo, scervellati buoni a nulla quali erano. E che vantaggio ci sarebbe stato ad assumere il corpo di un gufo? Volare era impossibile, ci sarebbe voluta una vita per impararlo. Il modo migliore era introdursi nella sua niente e guidarla con garbo, così come fa la brezza leggera con una foglia.

Il gufo si mosse, volò sul piccolo davanzale e scivolò silenzioso nella notte.

Le nuvole si erano diradate e uno spicchio di luna faceva risplendere le montagne. Guardando attraverso gli occhi del gufo, la Nonnina passava veloce attraverso le fila degli alberi. Una volta imparato, era quello l’unico modo di viaggiare! Lei amava più di tutti prendere a prestito gli uccelli e usarli per esplorare le alte valli nascoste dove nessuno andava, i laghi segreti tra i neri dirupi, i minuscoli campi recintati negli scampoli di terreno pianeggiante, incastonati sulle superfici rocciose, proprietà di esseri occulti e misteriosi. Una volta aveva volato con le oche che a primavera e in autunno attraversavano le montagne, e si era presa lo spavento più grande della sua vita quando aveva quasi oltrepassato il raggio consentito per ritornare.

Il gufo sbucò fuori della foresta e sorvolò i tetti del villaggio per andare a posarsi, sollevando uno spruzzo di neve, sul melo più grande nell’orto del fabbro. Il tronco era tutto ricoperto di vischio.

Seppe di essere nel posto giusto non appena le sue zampe toccarono la corteccia. L’albero era irritato per la sua presenza, lei sentiva che cercava di respingerla.

"Io non me ne vado" pensò.

Nel silenzio della notte l’albero disse: "Fai pure la prepotente, allora, solo perché sono un albero. Tipico di una donna".

"Almeno ti stai rendendo utile" pensò la Nonnina. "Meglio un albero di un mago, no?"

"Non è una brutta vita" pensò l’albero. "Sole. Aria fresca. Tempo per riflettere. In primavera anche le api."

Nel suo modo di pronunciare "api" c’era una nota lasciva che quasi indusse la Nonnina (la quale aveva diversi alveari) a rinunciare all’idea del miele. Era come ricordarsi che le uova erano pulcini non nati.

"Sono venuta per la bambina, Esk" sibilò.

"Una bambina promettente" pensò l’albero. "La osservo con interesse. Inoltre, le piacciono le mele."

"Bestia che non sei altro" esclamò scioccata la Nonnina.

"Che ho detto? Scusami se non mi esprimo bene."

La vecchia strega scivolò più vicina al tronco.

"Devi lasciarla andare" pensò. "La magia comincia a manifestarsi."

"Di già? Sono impressionato."

"È il genere di magia sbagliato!" protestò lei. "È la magia di un mago, non la magia delle donne! Lei ancora non sa di che si tratta, ma la sua magia stanotte ha fatto morire un branco di lupi!"

"Grandioso!", esclamò l’albero.

La Nonnina urlò furente: "Grandioso? Supponiamo che avesse discusso con i fratelli e fosse andata in collera, eh?"

L’albero si scrollò e dai suoi rami venne giù una cascata di fiocchi di neve.

"Allora devi insegnarle."

"Insegnarle? Che ne so io della formazione dei maghi."

"Allora mandala all’università."

"È una femmina" protestò la Nonnina, saltellando sul suo ramo.

"E con questo? Chi dice che le donne non possano diventare maghi?"

La vecchia esitò. Era come se l’albero avesse chiesto perché i pesci non possono essere uccelli. Tirò un gran respiro e fece per parlare. Ma si arrestò. Sapeva che la risposta esisteva, una risposta tagliente, incisiva, fulminante e soprattutto una risposta lapalissiana. Solo che, cosa estremamente irritante, non le riusciva di ricordarla.

"Le donne non sono mai state dei maghi. È contro natura. Tanto varrebbe affermare che le streghe possono essere degli uomini" dichiarò alla fine.

"Se si definisce strega una che adora l’impulso pancreativo, che venera, cioè, il fondamentale…" cominciò l’albero e andò avanti per parecchi minuti. Nonnina Weatherwax ascoltò con crescente impazienza frasi come "Dee Madri" e "culto primitivo della luna". Lei sapeva benissimo cosa significava essere una strega: conoscere tutto delle erbe e del malocchio, andarsene in giro di notte a volare e, più in generale, essere fedeli alla tradizione. Certamente non implicava avere a che fare con le dee, che fossero madri o no, le quali si dilettavano di certi giochetti assai dubbi. E quando l’albero si mise a parlare di "ballare nude", lei cercò di non ascoltarlo. Infatti, pur rendendosi conto che da qualche parte, sotto il suo complicato strato di gonne e sottogonne, ci doveva essere della pelle, ciò non voleva dire che lei approvasse la cosa.

L’albero terminò il suo monologo.

La Nonnina aspettò finché non fu sicura che quello non avrebbe aggiunto altro, e chiese: "Questa è arte magica, vero?".

"La sua base teorica, sì."

"Voi maghi vi fate di sicuro delle strane idee."

L’albero ribatté: "Non sono più un mago, soltanto un albero".

La Nonnina arruffò le penne. "Bene, stammi a sentire, signor Albero alias Base Teorica, se le donne fossero destinate a essere dei maghi allora sarebbero capaci di farsi crescere lunghe barbe bianche e lei non diventerà un mago, è chiaro?, l’arte dei maghi non è il modo giusto di usare la magia, mi senti?, consiste soltanto di luci e fuoco e pasticciare con le polveri e lei non farà niente del genere e buonanotte a te".

Il gufo abbandonò il ramo. Se la Nonnina non tremava dalla rabbia era soltanto perché il volo ne avrebbe risentito. Maghi! Parlavano troppo e appuntavano gli incantesimi nei libri come fossero state farfalle. Ma, quel che era peggio, erano convinti che la loro fosse l’unica magia degna di essere praticata.

Di una cosa lei era assolutamente certa. Mai le donne erano state maghi e non avrebbero cominciato a esserlo proprio ora.

Tornò al cottage che la notte cominciava a impallidire. Dopo il sonnellino nel fieno, almeno si sentiva il corpo riposato e aveva sperato di trascorrere qualche ora nella poltrona a dondolo a mettere in ordine i suoi pensieri. Era quello il momento, quando la notte non era ancora terminata ma il giorno non del tutto iniziato, che i pensieri si presentavano chiari e precisi, senza maschera. Lei…

La verga era appoggiata alla parete, vicino alla dispensa.

La Nonnina restò immobile.

— Capisco — disse alla fine. — Allora le cose stanno così, eh? E a casa mia, per di più?

Si mosse adagio e dal cantuccio presso il focolare prese un paio di ceppi che buttò sulla brace e pompò il mantice finché le fiamme non si levarono alte nel camino.

Allora si voltò, borbottò sottovoce per precauzione qualche incantesimo protettivo, e afferrò la verga. Che non oppose resistenza, tanto che lei per poco non perse l’equilibrio. Ma adesso che la teneva in mano, ne percepiva la vibrazione, il netto e possente crepitio della sua magia. E scoppiò a ridere.

Era tutto così semplice, allora. La verga adesso non opponeva più alcuna resistenza.

Invocando una maledizione sui maghi e le loro opere, la sollevò sopra la testa e la sbatté con violenza sui ceppi, là dove il fuoco ardeva più gagliardo.

Esk mandò un grido. Il suono rimbalzò attraverso le assi della camera da letto e fendette l’aria nel cottage semibuio.

La Nonnina era vecchia e stanca e aveva la mente confusa dopo una lunga giornata. Ma sopravvivere da strega richiede l’abilità di ricorrere a misure immediate. Stava fissando la verga nelle fiamme ma, non appena udì il grido, allungò le mani ad afferrare la grossa cuccuma nera e la versò sul fuoco. Tirò la verga fuori dalla nuvola di vapore e corse su per la scala, nel timore di ciò che avrebbe potuto vedere.

Esk sedeva sul letto, illesa ma urlante. La vecchia la prese in braccio e cercò di confortarla. Non era sicura di come ci si comportava in simili casi. Ma dei colpetti distratti sulla schiena e vaghe parole rassicuranti parvero funzionare. E gli urli diventarono lamenti e, alla fine, singhiozzi. Qua e là la Nonnina distingueva parole come "fuoco" e "rovente" e la sua bocca si strinse in una piega amara.

Dopo un bel po’, riadagiò la bimba sul letto, le rimboccò le coperte e scese piano le scale.

La verga era di nuovo al suo posto contro la parete. Né lei fu sorpresa nel vedere che il fuoco non aveva lasciato alcuna traccia.

Girò la poltrona a dondolo in modo da averla di fronte e si sedette con il mento su una mano, sul viso un’espressione di cupa determinazione.

La poltrona prese a dondolarsi da sola. Era l’unico rumore nel silenzio che si faceva più spesso e si spandeva a riempire la stanza come una terribile nebbia scura.

La mattina seguente, prima del risveglio di Esk, la vecchia nascose la verga nella paglia, in luogo sicuro.

Esk mangiò la sua colazione e bevve un bicchierone di latte di capra, senza il minimo segno degli avvenimenti delle ultime ventiquattro ore. Era la prima volta che si trovava nel cottage della Nonnina per più di una breve visita. Mentre questa lavava i piatti e mungeva le capre, lei approfittò dell’implicito permesso di esplorare il posto.

Scoprì così che la vita nel cottage non era del tutto normale. A cominciare, per esempio, dal nome delle capre.

— Ma devono avere un nome! — esclamò. — Ogni cosa ha un nome.

La vecchia la guardò sporgendo la testa dal fianco a forma di pera dell’animale che guidava il gregge, mentre il latte zampillava nel basso secchio.

— Direi che hanno un nome nel linguaggio delle capre — rispose vagamente. — Perché mai dovrebbero averne uno nel linguaggio umano?

— Be’ — cominciò Esk e si fermò. Rimase per un po’ a riflettere. — Allora, come ottieni che facciano quello che vuoi tu?

— Lo fanno e basta, e quando mi vogliono si mettono a belare forte.

Esk tese con aria grave alla capra una manciata di fieno. La Nonnina la osservava pensierosa. Le capre avevano i loro propri nomi, lei lo sapeva: "capra che è mia figlia", "capra che è mia madre, "capra che guida il gregge" e una mezza dozzina di altri nomi, non ultimo quello di "capra che è questa capra". Avevano per regolare il gregge un sistema complicato, quattro stomachi e un apparato digerente assai attivo, come si sentiva bene nelle notti quiete. Per questo, secondo la Nonnina, dare loro dei nomi quali Botton d"oro sarebbe stato un insulto a un nobile animale.

— Esk — chiamò, dopo essere giunta a una decisione.

— Sì?

— Cosa ti piacerebbe fare da grande?

Il viso della piccola si fece inespressivo. — Non lo so.

Senza smettere di mungere, la Nonnina insisté: — Be’, cosa credi che farai quando sarai cresciuta?

— Non so. Mi sposerò, suppongo.

— Lo desideri?

Le labbra della piccola si aprirono a formare la lettera "N" ma, incontrando l’occhio della Nonnina, Esk ci ripensò.

— Tutte le persone grandi che conosco sono sposate — disse alla fine. E, dopo averci ripensato, aggiunse cauta: — Eccetto te.

— E vero.

— Non desideravi sposarti?

Fu la volta della vecchia di riflettere.

— Non mi ci sono mai decisa — dichiarò poi. — Troppe altre cose da fare, capisci.

— Il babbo dice che sei una strega — arrischiò.

— Infatti.

Esk annuì. Nelle Ramtop si accordava alle streghe la stessa condizione sociale che altre culture riconoscevano alle monache o agli esattori delle tasse o agli addetti alla pulizia dei pozzi neri. In altre parole, esse venivano rispettate, qualche volta ammirate, in generale applaudite per fare un lavoro che andava fatto. Ma la gente non si sentiva mai del tutto a proprio agio in una stessa stanza con loro.

— Ti piacerebbe imparare l’arte di una strega? — chiese la Nonnina.

— Vuoi dire la magia? — Gli occhi di Esk brillavano.

— Sì, la magia. Non quella dei fuochi d’artificio. Magia vera.

— Sai volare?

— Ci sono cose migliori che volare.

— E io posso impararle?

— Se i tuoi genitori dicono di sì.

Esk sospirò. — Mio padre non lo farà.

— Allora dovrò scambiare una parola con lui — disse la Nonnina.


— Adesso stammi a sentire, Gordo Smith!

Il fabbro indietreggiò attraverso la fucina, le mani alzate per ripararsi dalla furia della vecchia che avanzava verso di lui, l’indice puntato con aria indignata.

— Io ti ho portato al mondo, stupido, e in te non c’è più buon senso di quanto ce ne fosse allora…

— Ma… — L’uomo si provò a protestare, girando intorno all’incudine.

— La magia ha trovato la tua bambina! La magia dei maghi! La magia sbagliata, m’intendi? Una magia che non era destinata a lei!

— Sì, ma…

— Hai idea di ciò che è capace di fare?

Il fabbro si diede per vinto. — No.

La Nonnina fece una pausa e un po’ della sua collera sbollì.

— No — ripeté più sommessamente. — No, non potresti.

Si sedette sull’incudine e cercò di calmarsi.

— Ascolta. La magia è dotata di una specie… di vita propria. Questo non ha importanza perché… a ogni modo, capisci, la magia dei maghi… — Alzò gli occhi e leggendo l’incomprensione sul suo volto, provò di nuovo: — Be’ conosci il sidro?

Il fabbro fece cenno di sì. Adesso si sentiva su terreno più sicuro, ma non era certo di dove l’avrebbe condotto.

— E poi c’è l’acquavite — disse la strega.

Lui annuì. A Cattivo Somaro, d’inverno, tutti facevano l’acquavite, lasciando fuori di notte i recipienti con il sidro e togliendo via il ghiaccio finché non restava che una piccola quantità di alcol.

— Be’, uno può bere una gran quantità di sidro e sentirsi meglio, e questo è quanto, non è così?

Il fabbro annuì di nuovo.

— Ma l’acquavite, uno la beve in boccali piccoli e a piccole dosi e non spesso, altrimenti va subito alla testa?

Di nuovo lui fece di sì e, conscio di non dare un grande contributo al dialogo, aggiunse: — È così.

— Ecco la differenza — dichiarò la Nonnina.

— Differenza da che cosa?

La vecchia sospirò. — La differenza tra la magia delle streghe e quella dei maghi. Ed è quest’ultima che l’ha trovata, e se lei non la controlla, allora ci sono Coloro che controlleranno lei. La magia può essere una specie di porta e dall’altra parte ci sono delle Cose spiacevoli. Capisci?

Il fabbro annuì. In realtà non capiva, ma supponeva a ragione che, se rivelava questo fatto, la Nonnina si sarebbe addentrata in orribili dettagli.

— La bambina ha uno spirito forte e forse ci vorrebbe del tempo. Ma presto o tardi loro la sfideranno — concluse la vecchia strega.

L’uomo prese un martello dalla panca, lo fissò come se non l’avesse mai visto prima, e lo rimise giù.

— Ma — protestò — se lei è dotata della magia dei maghi, non le servirà a niente imparare l’arte delle streghe. Tu hai detto che sono due cose diverse.

— Sono entrambe magiche. Se non puoi imparare a cavalcare un elefante, almeno puoi imparare a montare a cavallo.

— Che cos’è un elefante?

— Una specie di tasso — rispose la Nonnina. Non avrebbe mantenuto per quaranta anni la sua credibilità come esperta della foresta, se avesse mai ammesso la propria ignoranza.

Il fabbro sospirò. Riconosceva di essere stato sconfitto. Sua moglie aveva chiaramente ammesso di essere favorevole all’idea e, adesso che ci pensava, c’erano dei vantaggi. La Nonnina non sarebbe vissuta in eterno e, tutto sommato, essere il padre dell’unica strega di tutta la zona non sarebbe stato male.

— Va bene — disse.

E così, mano a mano che l’inverno volgeva alla fine e cominciava la sua lunga e riluttante ascesa verso la primavera, Esk trascorse dei giorni di fila con Nonnina Weatherwax, per apprendere l’arte delle streghe.

Che consisteva principalmente di cose da ricordare.

Le lezioni erano molto pratiche: pulire il tavolo della cucina ed Erboristeria Fondamentale; pulire il recinto delle capre e Gli Usi dei Funghi; fare il bucato e L’Evocazione degli Dei Minori; badare al grosso alambicco di rame nel retrocucina e La Teoria e la Pratica della Distillazione. Al tempo in cui i venti caldi spiravano dall’Orlo e non restavano della neve che tracce melmose sul lato degli alberi volto verso il Centro, Esk sapeva preparare una gamma di unguenti, diversi liquori medicinali, una ventina di infusi speciali e un certo numero di pozioni misteriose che, secondo la Nonnina, lei avrebbe potuto imparare a usare a tempo debito.

La magia era proprio ciò che non aveva fatto.

— Tutto a tempo debito — ripeteva vaga la Nonnina.

— Ma s’intende che io sia una strega!

— Non sei ancora una strega. Nominami tre erbe buone per l’intestino.

Esk si mise le mani dietro la schiena, chiuse gli occhi e recitò: — Le cime fiorite della Grande Peahane, la polpa della radice dei Pantaloni del Vecchio, i gambi del Giglio d’Acqua, i baccelli del…

— Benissimo. Dove si trovano i cetrioli acquatici?

— Nelle torbiere e negli stagni, dalle montagne di…

— Bene. Stai imparando.

— Ma non è magia!

La Nonnina si sedette al tavolo di cucina.

— Come non lo è la maggior parte della magia. Si tratta soltanto di conoscere le erbe giuste, imparare a osservare il tempo, scoprire le usanze degli animali. E anche le usanze della gente.

— Tutto qui! — esclamò sconvolta la bambina.

Tutto? È un tutto mica male - ribatte la vecchia. — Ma no, non è tutto. C’è dell’altro.

— Non puoi insegnarmelo?

— Tutto a suo tempo. Non è ancora il momento che tu vada a mostrarti.

— Mostrarmi? A chi?

Gli occhi della Nonnina si volsero rapidi alle ombre negli angoli della stanza.

— Lascia perdere.

Poi anche le ultime restanti tracce di neve erano scomparse e il vento primaverile soffiava impetuoso intorno alle cime dei monti. Nell’aria della foresta c’era il sentore di terriccio e di resina. I primi fiori precoci sfidavano le gelate notturne e le api cominciavano a svolazzare.

— Prendi le api, questa sì che è magia — sentenziò Nonnina Weatherwax.

Sollevò con precauzione il coperchio del primo alveare.

— Le api — continuò — vogliono dire idromele, cera, miele. Una cosa meravigliosa, le api. E perfino governate da una regina — aggiunse, con una nota di approvazione.

— Non ti pungono? — chiese la bambina, tirandosi un po’ indietro. Un nugolo di api uscì dal favo e sciamò oltre le pareti di legno grezzo della cassetta.

— Quasi mai — rispose la vecchia. — Volevi la magia. Guarda.

Infilò la mano nell’intricata massa degli insetti e dalla gola emise un suono debole ma stridulo e penetrante. La massa si spostò e una grossa ape, più lunga e grassa delle altre, le strisciò sulla mano, seguita da alcune operaie che la lisciavano e l’assistevano.

— Come ci sei riuscita? — chiese Esk.

— Ah, non ti piacerebbe saperlo?

— Sì, mi piacerebbe. Ecco perché te l’ho domandato. Nonnina — ribatté la bambina severamente.

— Credi mi sia servita della magia?

— No — rispose la piccola. — Credo soltanto che conosci un sacco di cose sulle api.

La Nonnina ridacchiò.

— Esatto. Naturalmente, questa è una forma di magia.

— Come, semplicemente conoscere le cose?

— Conoscere le cose che gli altri non sanno - dichiarò la Nonnina. Depose con precauzione la regina tra i suoi soggetti e richiuse il coperchio dell’alveare.

— E penso sia tempo che tu impari qualche segreto — aggiunse.

"Finalmente" pensò Esk.

— Ma anzitutto, dobbiamo presentare i nostri omaggi all’Alveare — dichiarò la strega, che riuscì a pronunciare la parola con la A maiuscola.

— Ma perché? — protestò Esk.

— Perché le streghe devono essere diverse, e ciò fa parte del segreto.

Sedettero su una panca scolorita davanti al muro del cottage rivolto verso il Bordo. Lì di fronte le Erbe erano già alte una trentina di centimetri, una collezione sinistra di pallide foglie verdi.

La Nonnina si accomodò sulla panca. — Bene. Sai il cappello nell’ingresso vicino alla porta. Va a prenderlo.

Esk ubbidì, entrò in casa e tolse dal gancio il cappello della vecchia. Era alto, a punta e. naturalmente, nero.

La Nonnina lo rigirò fra le mani e lo ispezionò con cura.

— Dentro questo cappello c’è uno dei segreti della nostra arte — disse in tono solenne. — Se non sai dirmi qual è, allora tanto vale che non ti insegni più niente. Perché, una volta che conosci il segreto del cappello, non puoi più tornare indietro. Dimmi cosa sai del cappello.

— Posso tenerlo in mano?

— Accomodati.

Esk guardò nel cappello. All’interno c’era un filo metallico per dargli una forma e due spilloni. E quello era tutto.

Non c’era nulla di particolarmente strano nel copricapo, eccetto il fatto che nel villaggio nessuno ne possedeva uno simile. Questo però non lo rendeva magico. Esk si morse un labbro, si vedeva già rimandata a casa in disgrazia.

Il cappello non emanava nulla di strano, né aveva delle tasche nascoste. Era semplicemente il tipico cappello delle streghe. La Nonnina lo indossava sempre quando andava nel villaggio, ma nella foresta portava soltanto un cappuccio di pelle.

La bambina cercò di ricordarsi dei frammenti di lezione che la vecchia le impartiva con parsimonia. "Non si tratta di ciò che sai tu, si tratta di ciò che gli altri non sanno." "La magia può essere una cosa giusta nel posto sbagliato, o una cosa sbagliata nel posto giusto." "Può essere…"

La Nonnina lo indossava sempre per andare al villaggio. Come pure il grande mantello nero, che di certo non era magico, perché era servito quasi tutto l’inverno da coperta per le capre, e lei lo lavava a primavera.

Nella mente di Esk cominciò a prendere corpo la risposta e non le piacque un granché. Somigliava a tante delle risposte della vecchia. Un semplice giochetto di parole. Lei diceva cose che uno aveva sempre saputo, ma in modo diverso così da sembrare importanti.

— Credo di saperlo — disse alla fine.

— Fuori, allora.

— In certo modo, sono due parti.

— Ebbene?

— E un cappello da strega perché lo porti tu. Ma tu sei una strega perché porti questo cappello. Uhm.

— E così… — la incalzò la Nonnina.

— E così la gente ti vede arrivare con il cappello e il mantello e sa che sei una strega ed è per questo che la tua magia funziona? — terminò Esk.

— E giusto — confermò la vecchia. — Si chiama "menteologia" — concluse. Si diede un colpetto sui capelli d’argento, tirati in una crocchia talmente compatta da spaccare la roccia.

— Ma non è reale! — protestò la bambina. — Questa non è magia, è… è…

— Ascolta. Se dai a una persona una bottiglia di giulebbe rossa contro la flatulenza, può anche fare effetto. Ma se vuoi che lo faccia di sicuro, allora lascia che sia la loro mente a farla funzionare. Digli che sono raggi di luna imbottigliati in un vino fatato o roba del genere. Borbottaci sopra per un po’. Lo stesso succede per le maledizioni.

— Maledizioni? — disse Esk con voce debole.

— Già, maledizioni, ragazza mia, e non occorre che tu abbia l’aria tanto scioccata! Le pronuncerai anche tu, quando è necessario. Quando sei sola, e non hai nessuno per aiutarti, e…

Esitò, imbarazzata dallo sguardo interrogativo della bambina, e finì debolmente: — …e gli altri non ti mostrano rispetto. Devi lanciarla a voce alta, e che sia lunga e complicata. Devi improvvisarla, se, necessario, ma funzionerà a dovere. Il giorno dopo, quando si tagliano un dito o cadono dalla scala o il loro cane casca a terra morto, si ricorderanno di te. E la prossima volta si comporteranno meglio.

— Anche così, però, non sembra magia — insisté Esk, strisciando un piede nella polvere.

La Nonnina riprese: — Una volta ho salvato la vita di un uomo. Una medicina speciale due volte al giorno. Acqua bollita con un po’ di succo di bacca. Gli ho detto che l’avevo acquistata dai nani. Curare consiste in massima parte in questo, in realtà. Se ci si mettono d’impegno, la maggior parte delle persone guariscono dei loro malanni, basta che tu dia loro un interesse.

Batté sulla mano di Esk con la maggior grazia possibile. — Sei un po’ giovane per questo — disse — ma quando crescerai, scoprirai che non sono molti quelli che adoperano la loro testa. Anche tu — sentenziò.

— Non capisco.

— Sarei sorpresa se lo facessi — replicò brusca la vecchia. — Ma puoi dirmi il nome di cinque erbe efficaci per la tosse secca.

Finalmente era giunta la primavera. La Nonnina portava Esk a fare lunghe camminate, che spesso duravano un giorno intero, fino a stagni nascosti o alle pendici delle montagne per raccogliere piante rare. Alla bambina piaceva, lassù sulle colline dove il sole picchiava forte ma l’aria tuttavia era gelida. Le piante crescevano folte, abbarbicate al terreno.

Dalle vette più alte lo sguardo spaziava fino all’Oceano dell’Orlo, che correva intorno ai limiti del mondo. Nella direzione opposta la catena delle Ramtop si snodava in distanza, ammantata nelle nevi eterne. Essa arrivava fino al centro del mondo dove, per generale convinzione, gli Dei vivevano su una montagna di roccia e di ghiaccio, alta sedicimila metri.

— Con gli Dei non c’è problema — affermò la Nonnina mentre mangiavano il pranzo che si erano portate e contemplavano la vista. — Noi non diamo fastidio agli dei e gli dei non vengono a dare fastidio a noi.

— Conosci molti dei?

— Ho visto qualche volta gli dei del tuono e, naturalmente, Hoki.

— Hoki?

La Nonnina masticava il suo tramezzino. — Oh, lui è un dio della natura. A volta si manifesta come una quercia, o mezzo uomo e mezzo capra. Ma per lo più, io lo considero una gran seccatura. Lo trovi, naturalmente, soltanto nel profondo dei boschi. Suona il flauto. Malissimo, se vuoi saperlo.

Stesa a pancia sotto, Esk guardava le terre in basso. Dei calabroni svolazzavano sui cespugli di timo. Sentiva il sole caldo sulla schiena, ma lassù c’erano ancora tracce di neve sulle rocce dal lato a settentrione.

— Parlami delle terre là in basso — chiese pigramente.

La Nonnina guardò con aria di disapprovazione il paesaggio che si stendeva per migliaia di chilometri.

— Sono semplicemente altri luoghi — dichiarò. — Proprio come qui, solo differenti.

— Ci sono città e così via?

— Direi di sì.

— Non sei mai stata a vederle?

La Nonnina si appoggiò all’indietro e si sistemò con attenzione la sottana per esporre al sole diversi centimetri della sottogonna di flanella e lasciare che i suoi caldi raggi carezzassero le sue vecchie ossa.

— No — rispose. — Ci sono già abbastanza guai da queste parti senza andare a cercare in posti lontani.

— Una volta ho sognato una città — raccontò Esk. — Ci vivevano centinaia di persone e c’era un edificio con un grande cancello, ed era un cancello magico…

Sentì dietro di lei un rumore come di tessuto lacerato. La Nonnina si era addormentata.

— Nonnina!

— Uhm?

Esk rimase un momento a pensare, poi chiese astutamente: — Questo è un momento giusto per te?

— Uhm.

— Hai detto che mi avresti mostrato una vera magia, al momento giusto. E questo è un momento giusto.

— Uhm.

Nonnina Weatherwax aprì gli occhi e guardò il cielo. Che a quell’altezza era più scuro, più violaceo che azzurro. Pensò: "Perché no? Lei impara presto. Ne sa più di me dell’erboristeria. Quando avevo la sua età, il vecchio Garamer Tumulto mi aveva già insegnato a incarnarmi, mutarmi, spostarmi da un luogo all’altro a qualsiasi ora del giorno. Forse sono troppo cauta".

— Un pochino soltanto? — implorò la bambina.

La vecchia non sapeva decidersi, ma non gli venivano in mente altre scuse. "Sicuramente lo rimpiangerò", si disse. E non aveva tutti i torti.

— Va bene — dichiarò alla fine.

— Una magia vera? — insisté Esk. — Niente più erbe o "menteologia?"

— Una magia vera, come la chiami tu, sì.

— Un incantesimo?

— No. Un Prestito.

L’espressione della piccola era piena di aspettativa. Sembrava più animata, pensò la vecchia, di quanto l’avesse mai vista prima.

Scrutò le valli che si stendevano davanti a loro finché non trovò ciò che cercava. Un’aquila grigia volteggiava pigramente sopra una foresta azzurrognola in lontananza. In quel momento la sua mente era tranquilla. Avrebbe fatto benissimo al caso suo.

La chiamò piano e quella venne volteggiando verso di loro.

— La prima cosa che devi ricordare del Prestito, è che devi sentirti comoda e al sicuro — affermò la vecchia spianando con la mano l’erba vicino a lei. — Il letto è la cosa migliore.

— Ma che cos’è un Prestito?

— Stenditi per terra e tiemmi la mano. La vedi l’aquila lassù?

Esk fissò il cielo scuro.

C’erano… due minuscole figure in basso sull’erba mentre lei si lasciava portare dal vento…

Sentiva il vento fischiarle tra le penne. L’aquila non stava cacciando, si godeva semplicemente il calore del sole sulle ali, e la terra sottostante non era in quel momento per lei che una forma senza importanza. Ma l’aria, l’aria era una cosa tridimensionale, complessa e cangiante, un insieme di spirali e di curve che si prolungavano nella lontananza, uno zigzag di correnti che si avvolgevano intorno a caldi pilastri. Lei… sentì una pressione che la tratteneva dolcemente.

— L’altra cosa da ricordare — disse, molto vicina, la voce della Nonnina — è che non bisogna turbare il proprietario che ti ospita. Se gli lasci capire che sei lì, o lotterà contro di te o si farà prendere dal panico. E in entrambi i casi, tu non avresti la minima possibilità. Lui è stato un’aquila per tutta una vita, e tu no.

Esk rimase in silenzio.

— Non hai paura, vero? — chiese la vecchia. — Ti può succedere la prima volta, e…

— Non ho paura — rispose la bambina. — Come faccio per controllarla?

— Non puoi. Non ancora. Comunque, controllare una creatura selvatica non è cosa facile da imparare. Tu devi… riuscire a farla comportare in un certo modo… diciamo che devi suggerirglielo. Con un animale domestico, naturalmente, è tutto diverso. Ma è impossibile portare qualsiasi creatura a fare qualcosa che è totalmente contraria alla sua natura. Adesso prova a trovare la mente dell’aquila.

Esk percepiva la presenza della Nonnina come una nuvola argentea in fondo alla propria mente. Dopo qualche tentativo, trovò l’aquila e mancò poco che la perdesse. La sua mente era piccola, aguzza e purpurea come la punta di una freccia. Totalmente concentrata sul volo, non notò la sua presenza.

— Bene — disse la Nonnina. — Non andremo più lontano. Se vuoi che giri, devi…

— Sì, sì. — Esk flesse le dita (ovunque esse fossero) e l’uccello planò nell’aria e girò.

La vecchia era stupefatta. — Ottimo. Come ci sei riuscita?

— Io… io non lo so. Mi è soltanto sembrato ovvio.

— Uhm. — La strega saggiò con cautela la piccola mente dell’aquila e la trovò ancora del tutto ignara dei suoi passeggeri. Ne rimase davvero colpita. Un caso assolutamente raro.

Planarono sopra la montagna, mentre Esk esplorava eccitata i sensi dell’animale. La voce della Nonnina le arrivava monotona, le dava istruzioni, la guidava, la metteva in guardia. Lei quasi non l’ascoltava. Sembrava troppo complicato. Perché non poteva impadronirsi della mente dell’aquila? Non le avrebbe fatto del male. Lei sapeva come fare, era questione di destrezza, come schioccare le dita (ciò che in effetti non le era mai riuscito) e allora sarebbe stata in grado di fare l’esperienza del volo per davvero, non di seconda mano. Allora avrebbe potuto…

— Non farlo — la ammonì con calma la Nonnina. — Non ne verrà niente di buono.

— Che cosa?

— Credi veramente di essere la prima, ragazza mia? Non credi che tutte noi non abbiamo pensato come sarebbe stato bello, assumere un altro corpo per volare nel vento o respirare l’acqua? E credi davvero che sarebbe tanto facile?

Esk le lanciò un’occhiataccia.

— Non occorre che mi guardi in questo modo — ribatté la vecchia. — Un giorno mi ringrazierai. Non metterti a giocare prima di sapere quello che fai, eh? Prima di arrivare ai giochetti, devi avere imparato che cosa fare se le cose si mettono male. Non cercare di camminare prima di essere capace di correre.

— Io sento come farlo. Nonnina.

— Può darsi. È più difficile di quanto sembri, il Prestito; anche se riconosco che hai l’inclinazione. Per oggi basta così, riportaci sopra i nostri due corpi e ti mostrerò come tornare.

L’aquila volò sopra le due figure sdraiate ed Esk vide, con l’occhio della mente, due canali aperti per loro. L’ombra della mente della Nonnina svanì.

Ora…

La Nonnina si era sbagliata. La mente dell’aquila si limitò a lottare, senza avere il tempo di lasciarsi prendere dal panico. Esk la teneva racchiusa nella sua mente. L’altra si dimenò per un momento e poi si fuse dentro di lei.

La strega aprì gli occhi in tempo per vedere l’uccello volare basso sul terreno, con un rauco grido di trionfo, e dileguarsi giù per il fianco della montagna. Per un attimo non fu più che un puntino che andava rimpicciolendo e poi era scomparso, con un ultimo stridio riecheggiante.

La Nonnina abbassò gli occhi sulla forma silenziosa di Esk. La bambina era abbastanza leggera, ma la strada per tornare a casa era lunga e il pomeriggio stava volgendo alla fine.

— Accidenti — esclamò, ma senza troppa convinzione. Si alzò, si spazzolò l’abito e, borbottando, issò a fatica sulla spalla il corpo inerte della bambina.

Alta sulle montagne, nell’aria cristallina del tramonto, l’aquila-Esk salì ancora più su, ebbra della pura vitalità del volo.

Sulla strada di casa la Nonnina s’imbatté in un orso affamato. La schiena le faceva un gran male e non era d’umore di sentirsi grugnire contro. Borbottò qualche parola sottovoce e l’orso, con suo enorme ma fugace stupore, andò a sbattere pesantemente contro un albero e non riprese i sensi per parecchie ore.

Giunta al cottage, la Nonnina mise il corpo di Esk a letto e accese il fuoco. Riportò dentro le capre, le munse e sbrigò le faccende serali.

Si assicurò che tutte le finestre fossero aperte e, quando cominciò a fare buio, accese una lanterna e la poggiò sul davanzale.

Di regola, Nonnina Weatherwax dormiva solo poche ore per notte e si svegliò di nuovo a mezzanotte. La stanza non era cambiata, anche se la lanterna aveva il suo personale piccolo sistema solare di stupidissime falene.

Quando si risvegliò di nuovo all’alba, la candela si era spenta da un pezzo ed Esk dormiva ancora del sonno leggero, impossibile a risvegliarsi, di colui che prende a Prestito.

Quando la vecchia portò fuori le capre nel loro recinto, scrutò con attenzione il cielo.

Venne il mezzogiorno, e a poco a poco la luce si ritirò da un’altra giornata. La Nonnina andava su e giù per la cucina senza scopo. Di tanto in tanto era presa da accessi frenetici di lavori domestici: vecchie incrostazioni furono tirate fuori senza tante cerimonie dalle fessure nelle pietre del pavimento, la fuliggine accumulatasi durante l’inverno fu grattata via dalla parete del camino e la superficie ricoperta da uno strato di grafite, un nido di topi dietro la dispensa venne espulso delicatamente ma gettato con fermezza nel recinto delle capre.

Scese il crepuscolo.

Nel mondo-Disco la luce era antica e lenta e greve. La Nonnina, in piedi sulla porta del suo cottage, la osservò dileguarsi dalle montagne e fluire come un fiume dorato attraverso la foresta, e il suo riverbero indugiare qua e là, finché non impallidì e scomparve.

Tamburellando con le dita sullo stipite della porta, la vecchia canticchiava un motivetto triste.

Venne l’alba e il cottage era vuoto, eccetto che per il corpo di Esk sempre silenzioso e immobile sul letto.


Mentre la luce dorata scorreva lenta sul mondo-Disco, simile alla prima onda di marea sulla sabbia, l’aquila volava più alta nel cielo, battendo l’aria con il ritmo lento e possente delle sue ali.

Il mondo intero si dispiegava sotto Esk… tutti i continenti, tutte le isole, tutti i fiumi e specialmente il grande anello dell’Oceano Circolare.

A quelle altezze niente altro esisteva, nemmeno il suono.

Inebriata da quella sensazione, Esk voleva costringere i muscoli stanchi a uno sforzo ancora maggiore. Ma qualcosa non andava. Le sembrava che i suoi pensieri divagassero e sparissero, senza che lei riuscisse a controllarli. Dolore euforia stanchezza le fluivano nella mente eppure, al tempo stesso, altre sensazioni ne sfuggivano. I ricordi si disperdevano nell’aria. Non appena le riusciva di afferrare un pensiero, questo evaporava e lasciava il vuoto dietro a sé.

Stava perdendo grossi brandelli di se stessa e le era impossibile ricordare che cosa stava perdendo. Fu presa dal panico e si mise a pensare alle cose di cui era sicura…

"Io sono Esk, e mi sono impadronita del corpo di un’aquila e della sensazione del vento tra le penne, della fame, della ricerca di qualcosa che non è il cielo giù in basso…"

Provò di nuovo. "Io sono Esk e sto cercando la corrente del vento, il dolore dei muscoli, la sferza dell’aria, il suo gelo…"

"Io sono Esk in alto sull’aria-umida-bagnata-bianca, al di sopra di tutto, il cielo è sottile…"

"Io sono Io sono."


La Nonnina era in giardino, tra gli alveari, le gonne svolazzanti al vento del primo mattino. Passava da un alveare all’altro e batteva sui tetti. Poi, ritta tra i cespugli di borraggine e di menta da lei stessa piantati lì intorno, stese le braccia e prese a cantare in toni ultracuti, non percettibili da una persona normale.

Ma dagli alveari si levò un forte ronzio e a un tratto l’aria si fece densa per il fitto sciame delle grosse api, che presero a svolazzarle intorno alla testa e unirono il loro basso ronzio al suo canto.

Poi se ne andarono volando nella luce che si alzava sopra la radura e sciamarono sopra gli alberi.

È risaputo (o almeno lo è per le streghe) che tutte le colonie di api sono, per così dire, solo parte della creatura chiamata lo Sciame. Allo stesso modo che le singole api compongono le cellule dell’alveare. La Nonnina non mescolava molto spesso i suoi pensieri con le api. In parte perché le menti degli insetti erano cose strane e aliene che sapevano di stagno, ma soprattutto perché sospettava che lo Sciame fosse molto più intelligente di lei.

Sapeva che le sue creature sì sarebbero presto unite alle colonie delle api selvatiche nel folto della foresta e che, tra poche ore, ogni angolo delle praterie montane sarebbe stato attentamente sorvegliato. Non le restava che attendere.

A mezzodì le api tornarono e la Nonnina lesse nei loro pensieri che non vi era traccia di Esk.

Rientrò nella frescura del cottage e sedette nella poltrona a dondolo, lo sguardo fisso alla porta.

Sapeva qual era il prossimo passo da farsi. Ma la sola idea la rivoltava. Tuttavia, andò a cercare una scala, si arrampicò a fatica sul tetto e tirò fuori la verga dal suo nascondiglio nella paglia.

Era fredda gelata ed emanava vapore.

— Al di sopra del limite delle nevi perenni, allora — disse la Nonnina.

Ridiscese e piantò la verga in una aiola di fiori. La fulminò con gli occhi e provò la sgradevole sensazione di essere ricambiata.

— Non credere di avere vinto, perché non è vero — scattò. — È solo che non ho il tempo di mettermi a fare i trucchetti. Tu devi sapere dove si trova. Ti ordino di portarmi da lei!

La verga la guardò ottusamente.

— Per… — la Nonnina fece una pausa, le sue invocazioni erano un tantino arrugginite — … per le erbe e per la pietra, te lo ordino!

Attività, movimento, vivacità… tali parole sarebbero una descrizione del tutto inesatta della reazione della verga.

La Nonnina si grattò il mento. Si rammentò della lezioncina che si insegna a tutti i bambini: qual è la parola magica?

— Per piacere! — si corresse.

La verga tremò, si alzò alquanto dal terreno e si girò in aria fino a restare sospesa con aria invitante all’altezza della cintola.

La vecchia aveva sentito dire che le scope erano tornate molto di moda tra le streghe più giovani, ma a lei la cosa non garbava. Come poteva un corpo presentare un aspetto rispettabile mentre tagliava l’aria sospeso su un arnese domestico? Un simile procedimento, inoltre ti esponeva a un sacco di correnti d’aria.

Ma non era quello il momento di pensare alla rispettabilità. Si fermò soltanto per afferrare il cappello dal gancio dietro la porta, si arrampicò sulla verga e si sistemò come meglio poté, naturalmente all’amazzone e con le gonne ben strette tra le ginocchia.

— Bene — disse. — E adesso, viaaaa…

Nella foresta gli animali scapparono e si dispersero sotto l’ombra che gli passava sopra, urlante e imprecante. La Nonnina si reggeva con tanta forza da averne le nocche sbiancate e scalciava furiosamente mentre, alta al di sopra delle cime degli alberi, apprendeva un’importante lezione sui centri di gravità e la turbolenza atmosferica. La verga sfrecciava in avanti, senza curarsi delle sue grida.

Uscita dalla foresta e arrivata sulle praterie montane, la vecchia era riuscita ormai in qualche modo a farsene una ragione. Il che voleva dire che si teneva stretta con le ginocchia e con le mani, purché non le importasse di essere a testa in giù. Meno male che il suo cappello, essendo di forma aerodinamica, si rivelava utile.

La verga si tuffava tra neri dirupi e lungo le alte vallate spoglie, dove si diceva che una volta scorressero fiumi ghiacciati, al tempo dei Giganti del Ghiaccio. L’aria, che si era fatta sottile, pungeva la gola.

Si arrestarono d’improvviso su un cumulo di neve. La Nonnina cadde e rimase ansimando a terra, mentre cercava di ricordarsi perché stesse sopportando tante traversie.

A pochi centimetri più in là, scorse sotto una sporgenza un mucchio di penne. Lei si avvicinò e una testa si alzò di scatto: l’aquila la fissava con uno sguardo selvaggio e spaventato. Tentò di volare via e ricadde. La vecchia allungò una mano per toccarla e quella le staccò di netto un triangolo di carne.

— Capisco — disse calma la Nonnina, senza rivolgersi a nessuno in particolare. Si guardò intorno e trovò un masso delle dimensioni giuste. Sparì dietro di esso per qualche secondo, per amore della rispettabilità, e ricomparve con in mano una sottogonna. L’uccello ci si avventò contro, rovinando il ricamo a piccolo punto, lavoro di varie settimane. Ma lei riuscì a farne un involto e tenerlo in modo da evitare i suoi sporadici attacchi.

Poi si voltò verso la verga, che adesso era conficcata ritta nel cumulo di neve.

— Tornerò indietro a piedi — le disse freddamente.

Si accorse però che si trovavano su uno sperone che dava su un salto di parecchie centinaia di metri per finire su nere rocce aguzze.

— Benissimo, allora — concesse la Nonnina — ma devi volare adagio, hai capito? Senza salire in alto.

In effetti, sia perché lei aveva adesso un po’ più di esperienza, sia perché forse la verga ci faceva più attenzione, il viaggio di ritorno fu quasi tranquillo. Tanto che la vecchia a momenti si persuadeva che, con il tempo, sarebbe arrivata a non gradire il volo invece di esecrarlo. Bisognava soltanto smettere in qualche modo di guardare il terreno.

L’aquila era stesa sul vecchio tappetino davanti al focolare vuoto. Aveva bevuto dell’acqua sulla quale la Nonnina aveva bofonchiato qualche incantesimo che diceva di solito per impressionare i pazienti. Ma non si sa mai, potevano pure avere qualche effetto. L’animale aveva anche ingoiato dei pezzi di carne cruda.

Ciò che non aveva fatto era rivelare il minimo segno d’intelligenza.

La strega si domandava se dopo tutto fosse quello l’uccello giusto. Rischiò un’altra beccatina e fissò intenta gli occhi gialli e cattivi, cercando di convincersi che nelle loro profondità brillasse un piccolo lampo, quasi impercettibile.

Scrutò l’interno della testa. La mente dell’aquila era sempre lì, vivida e vigile, ma c’era dell’altro. La mente, naturalmente, non ha colore e nondimeno le fibre di quella dell’aquila sembravano purpuree. Intorno e mescolate con loro c’erano deboli tracce argentee.

Esk aveva imparato troppo tardi che la mente dà forma al corpo, che Prendere a prestito è una cosa ma che il sogno di assumere realmente un’altra forma comporta automaticamente una punizione.

La Nonnina sedeva e si dondolava. Non sapeva che fare. Sapeva che il Districamento delle menti aggrovigliate era al di là dei suoi poteri, al di là di qualsiasi potere nelle Ramtop, al di là perfino…

Non si udì alcun rumore, ma forse si produsse un cambiamento nel tessuto dell’aria. La vecchia alzò gli occhi sulla verga, che a malincuore aveva riportato nel cottage.

— No — pronunciò con fermezza.

Poi pensò: "Perché l’ho detto? Per me? In quella c’è il potere, ma non è il potere del mio genere."

"Tuttavia, qui intorno non ne esiste di alcuna altra specie. E anche ora, può essere troppo tardi."

"Potrebbe forse non essere mai abbastanza presto."

S’introdusse di nuovo nella testa dell’uccello per calmare i suoi timori e dissipare il panico. L’animale si lasciò prendere su e rimase aggrappato al suo polso, stringendo tanto forte gli artigli da farle uscire il sangue.

La Nonnina prese la verga e andò di sopra, dove Esk giaceva sul lettuccio nella stanza dal basso soffitto a volta.

Depose l’uccello sulla spalliera del letto e rivolse la sua attenzione alla verga. Ancora una volta gli intagli si spostarono sotto il suo sguardo, senza mai rivelare del tutto la loro vera forma.

La Nonnina non era ignara degli usi del potere, ma era consapevole di non poter fare assegnamento che su una blanda pressione per dirigere lo svolgimento degli eventi. Naturalmente, lei non si sarebbe espressa in questi termini: avrebbe detto che c’era sempre una leva se uno sapeva dove cercarla. Il potere della verga era duro, violento, magia allo stato puro distillata dalle forze che governavano l’universo stesso.

Ci sarebbe stato un prezzo da pagare. E la Nonnina ne sapeva abbastanza delle arti magiche per essere certa che sarebbe stato un prezzo alto. Ma a che valeva essere del mestiere, se ci si preoccupava del prezzo?

Si schiarì la gola, chiedendosi che diavolo avrebbe dovuto fare. Forse se lei…

Il potere la colpì come se le avessero lanciato un mattone. Si sentì prendere e sollevare tanto che la sorprese abbassare gli occhi e vedere di avere i piedi ancora ben piantati a terra. Provò a fare un passo avanti e scariche magiche crepitarono nell’aria intorno a lei. Allungò una mano per sostenersi alla parete e sotto le sue dita le vecchie assi di legno si mossero e presero a far germogliare le foglie. Un ciclone di magia turbinò nella stanza e alzò la polvere modellandola per un attimo in strane forme sconcertanti, sul lavamano la brocca e il catino, con il loro delizioso motivo a boccioli di rosa, si ruppero in frammenti. Sotto il letto il tradizionale terzo componente del trio di porcellana si trasformò in una cosa orribile e sgattaiolò via.

La Nonnina aprì la bocca per imprecare, ma ci ripensò vedendo le sue parole divenire nuvole sfrangiate d’arcobaleno.

Guardò Esk e l’aquila, che non pareva accorgersi di nulla, e si sforzò di concentrarsi. Si lasciò penetrare nella testa dell’animale e di nuovo nella sua mente vide i fili d’argento avviluppati così strettamente a quelli purpurei da assumere la medesima forma. Adesso, però, poteva scorgere dove terminavano e dove sarebbe stato possibile dipanarli con prudenza. Una cosa tanto ovvia che lei ne rise e il suono della sua risata si alzò in volute arancioni e rosse che si dileguarono nel soffitto.

Il tempo passava. Il compito, malgrado il potere le pulsasse nella testa, si rivelò estremamente difficile; era come infilare un ago al riverbero lunare, ma alla fine si ritrovò con una manciata d’argento. Nel mondo lento e pesante, che sembrava adesso essere il suo, la vecchia prese la matassina e la lanciò adagio verso Esk. La vide trasformarsi in una nuvola, che vorticò e si disperse.

La Nonnina percepì allora un pigolio acuto e scorse delle ombre vaghe. Pazienza, era quanto accadeva a tutti presto o tardi. Erano arrivati, attirati come sempre da una scarica di magia. Occorreva soltanto imparare a ignorarli.


La vecchia si svegliò con la luce brillante del sole che le batteva sugli occhi. Si ritrovò accasciata contro la porta, con la sensazione che l’intero suo corpo soffrisse di mal di denti.

Allungò a tentoni una mano, trovò l’orlo del lavamano e si tirò su a sedere. Non la sorprese vedere che brocca e bacinella avevano lo stesso aspetto di sempre. Anzi, la curiosità ebbe la meglio sui suoi dolori e lei diede una rapida occhiata sotto il letto per controllare che, sì, tutto era come d’abitudine.

L’aquila era ancora appollaiata sulla ringhiera del letto. Esk dormiva ancora, di un sonno vero e non dell’immobilità di un corpo assente. Non restava che sperare che non si svegliasse con l’irresistibile impulso di avventarsi sui conigli.

La Nonnina portò giù l’uccello che non oppose resistenza, e lo lasciò andare libero dalla porta posteriore. Quello volò pesantemente sull’albero più vicino, dove si sistemò a riposarsi. Sospettava di dovercela avere con qualcuno, ma non riusciva a ricordarne il perché, nemmeno se ne fosse andato della sua vita.

Esk aprì gli occhi e rimase a lungo a fissare il soffitto. Durante i lunghi mesi trascorsi, le erano diventati familiari ogni bozza e ogni crepa dell’intonaco: creavano un fantastico paesaggio capovolto che lei aveva popolato di una complessa civiltà tutta sua.

Nella sua mente i sogni si affollavano. Tirò fuori un braccio dalle lenzuola e lo contemplò, chiedendosi perché non era coperto di penne. Era tutto molto sconcertante.

Spinse via le coperte, si mise seduta sulla sponda del letto, distese le ali nel vento e planò fuori nel mondo…

Il tonfo sul pavimento della camera da letto fece correre la Nonnina su per la scala, le fece prendere la piccola nelle braccia e tenerla stretta per calmare il suo terrore. Si dondolava avanti e indietro sui calcagni e intanto emetteva dei suoni vaghi per tranquillizzarla.

Esk, il viso sconvolto dalla paura, alzò gli occhi su di lei.

— Mi sentivo svanire.

— Sì, sì. Ora va meglio — mormorò la vecchia.

— Tu non capisci! Non riuscivo nemmeno a ricordare il mio nome! — gridò la bambina.

— Ma adesso te lo ricordi.

Esk esitò per pensarci. — Sì. Sì, certo — rispose — Adesso.

— Perciò va tutto bene.

— Ma…

La Nonnina sospirò. — Hai imparato una cosa. — Ritenne opportuno far trapelare nella sua voce un tono severo: — Si dice che un po’ di conoscenza sia una cosa pericolosa, ma è niente a paragone di tanta ignoranza.

— Ma che cosa è successo?

— Hai pensato che il Prestito non bastasse. Hai pensato che sarebbe stato bello impadronirti del corpo di un’altra creatura. Ma devi sapere che un corpo è come… come uno stampo di gelatina. Che imprime una forma sul suo contenuto, capisci? Non puoi avere la mente di una bambina nel corpo di un’aquila. Non per lungo tempo, a ogni modo.

— Io sono diventata un’aquila?

— Sì.

— Non ero più io?

La Nonnina ci rifletté per un po’. Doveva sempre fermarsi quando la conversazione con Esk la portava oltre le possibilità del vocabolario di una persona di modesta levatura.

— No — rispose dopo un po’ — non nel modo che intendi. Soltanto un’aquila che forse a volte aveva degli strani sogni. Per esempio, quando sogniamo di volare, forse ricordiamo di camminare e di parlare.

— Urgh.

— Ma ora è tutto finito — disse la vecchia con un debole sorriso. — Tu sei tornata a essere te stessa e l’aquila è rientrata in possesso della sua mente. In questo momento si trova sul grande faggio vicino al gabinetto. Vorrei che le portassi fuori del cibo.

Seduta sui calcagni, Esk fissava un punto dietro la testa della Nonnina.

— C’erano delle cose strane — disse in tono discorsivo. La vecchia si girò di scatto.

— Voglio dire, vedevo delle cose in una specie di sogno — aggiunse la bambina. Lo shock della strega era così visibile che lei esitò, nel timore di avere detto qualcosa di sbagliato.

— Che genere di cose?

— Creature grandi, forme di tutti i generi. Che se ne stavano sedute.

— Era buio? Voglio dire, queste Cose erano nell’oscurità?

— C’erano le stelle, credo. Nonnina?

Nonnina Weatherwax fissava la parete.

— Nonnina? — ripeté Esk.

— Eh? Sì? Oh! — La vecchia si riscosse. — Sì. Capisco. Adesso vorrei che tu scendessi a prendere del lardo nella dispensa e lo mettessi fuori per l’uccello, hai capito? Sarebbe anche una buona idea ringraziarlo. Non si sa mai.

Al suo ritorno, Esk trovò la Nonnina che spalmava del burro sul pane. Tirò lo sgabello vicino al tavolo, ma la vecchia le fece cenno con il coltello che teneva in mano.

— Prima mettiamo in chiaro una cosa. Resta in piedi. Guardami.

Esk ubbidì, perplessa. La Nonnina conficcò il coltello nel tagliere e scosse la testa.

— Accidenti! — esclamò senza rivolgersi a nessuno in particolare. — Io non so come loro si comportano, se conosco i maghi dovrebbe esserci una specie di cerimonia, quelli devono sempre complicare le cose…

— Che vuoi dire?

La Nonnina non le badò, ma andò all’angolo scuro presso la dispensa.

— Probabilmente dovresti mettere un piede in un secchio di porridge freddo e un guanto sulla mano e tutto quel genere di roba — continuò. — lo non volevo farlo, ma Loro mi stanno forzando la mano.

— Di che parli, Nonnina?

La vecchia strega tirò con violenza la verga fuori dall’ombra e l’agitò vagamente in direzione di Esk.

— Ecco. È tua. Prendila. Spero soltanto che sia la cosa giusta da farsi.

In effetti la presentazione di una verga a un apprendista stregone è di solito una cerimonia molto importante, specie se la verga è stata ereditata da un mago più anziano. Per antica tradizione ha luogo una iniziazione lunga e paurosa, con maschere e cappucci e spade e tremendi giuramenti a proposito di lingua tagliata alla gente, le loro budella strappate da uccelli selvatici e le ceneri disperse ai quattro venti e così via. Dopo qualche ora di questo tipo di procedura, l’apprendista può essere ammesso nella confraternita dei Saggi e degli Illuminati.

Si pronuncia anche un lungo discorso. Per pura coincidenza, la Nonnina ne riassunse l’essenza in poche parole.

Esk prese in mano la verga e la osservò.

— È molto graziosa — disse incerta. — Gli intagli sono carini. A che serve?

— Siediti ora. E ascolta attentamente per una volta. Il giorno che sei nata…

— …e questo è quanto.

Esk esaminò la verga, poi si rivolse alla Nonnina.

— Devo essere un mago?

— Sì. No. Non lo so.

— La tua non è una vera risposta, Nonnina — la rimproverò la piccola. — Lo sono o non lo sono?

— Le donne non possono essere maghi — sbottò la vecchia. — È contro natura. Tanto varrebbe avere un fabbro donna.

— A dire la verità, ho osservato papà al lavoro e non vedo perché…

— Ascolta — ribatté in fretta la Nonnina. — Non può esserci un mago femmina come non può esserci una strega maschio, perché…

— Io ho sentito di streghe maschi — osservò tranquillamente Esk.

— Stregoni.

— Credo di sì.

— Voglio dire che non ci sono streghe maschi, soltanto uomini stupidi — ribatté la vecchia con veemenza. — Se gli uomini fossero streghe, sarebbero maghi. Si riduce tutto a — si batté la mano sulla fronte — alla "menteologia". A come funziona la tua mente. Quelle degli uomini funzionano diversamente dalle nostre, capisci. La loro magia consiste tutta di numeri e angoli e spigoli e ciò che fanno le stelle, come se ciò avesse davvero importanza. È tutto potere. È tutta… — la Nonnina s’interruppe e ripescò il suo termine preferito per descrivere quanto lei disprezzava nell’arte dei maghi — giommetria.

— Tutto a posto, allora — disse sollevata Esk. — Rimarrò qui a imparare l’arte delle streghe.

— Ah — esclamò cupa la vecchia — tu parli bene. Io non credo che sarà così facile.

— Ma hai detto che gli uomini possono essere maghi e le donne streghe e che non può essere viceversa.

— Giusto.

— Benissimo, allora — esclamò Esk trionfante — è tutto risolto, no? Io non posso essere altro che una strega.

La Nonnina additò la verga e la bambina si strinse nelle spalle.

— È solo un vecchio bastone.

La donna scosse la testa. Esk batté le palpebre. — No?

— No.

— E non posso essere una strega?

— Non so cosa puoi essere. Prendi la verga.

— Che?

— Prendi la verga. Guarda, ho preparato la legna nel focolare. Accendi il fuoco.

— La scatola con l’esca e l’acciarino è… — cominciò la piccola.

— Una volta mi hai detto che c’erano modi migliori per accendere il fuoco. Provamelo.

La vecchia si alzò. Nella penombra della cucina sembrò crescere fino a riempirla d’incerte ombre ondeggianti, vagamente minacciose.

Guardò Esk con occhi fiammeggianti e le ordinò con voce gelida: — Provamelo.

— Ma… — volle obiettare Esk, stringendo a sé con forza la pesante verga e facendo capovolgere il suo sgabello nella fretta d’indietreggiare.

Provamelo.

Esk ruotò su se stessa con un grido. Il fuoco le sprizzò dalla punta delle dita e attraversò la stanza, esplodendo con tanta forza da scaraventare all’intorno il mobilio. Una palla di livida luce verde crepitò sul focolare, attraversata da forme cangianti mentre vorticava sfrigolando sulle pietre, che si spaccarono e poi si sparsero all’intorno. Il parafuoco di ferro resistette bravamente per qualche momento prima di sciogliersi come cera, apparve un attimo come una macchia rossa nella palla di fuoco e quindi scomparve. Subito dopo la cuccuma fece la stessa fine.

Proprio quando sembrava che il caminetto li avrebbe seguiti, la vecchia pietra del focolare cedette e con un ultimo spruzzo la palla di fuoco sprofondò e sparì dalla vista.

Di tanto in tanto un crepitio o una nuvoletta di vapore segnalò il suo passaggio nel terreno. A parte questo, regnava il silenzio, l’alto silenzio sibilante che fa seguito a un rumore troppo intenso. Dopo la luce accecante di prima la stanza sembrò piombare nelle tenebre.

Alla fine la Nonnina strisciò fuori da dietro il tavolo e si avvicinò cautamente il più vicino possibile al buco, ancora circondato da una crosta di lava, poi si buttò indietro davanti a un altro getto di vapore bollente.

— Dicono che sotto alle Ramtop ci siano le miniere dei nani — osservò senza nesso apparente. — Povera me, quei poveretti avranno una bella sorpresa.

Stuzzicò il mucchietto di ferro che si andava raffreddando là dove prima c’era stata la cuccuma, e aggiunse: — Peccato per il parafuoco. Sopra c’erano scolpiti dei gufi, sai.

Si aggiustò con mano tremante i capelli bruciacchiati. — Credo che ci voglia una bella tazza di… una bella tazza di acqua fredda.

Esk sedeva contemplando sorpresa la propria mano.

— Quella era vera magia — disse alla fine. — E l’ho fatta io.

Un tipo di vera magia — la corresse la Nonnina. — Non dimenticarlo. E neppure vorrai ripeterla tutto il tempo. Se hai in te questa magia, devi imparare a controllarla.

— Tu puoi insegnarmelo?

— Io? No!

— Come posso imparare se nessuno me lo insegnerà?

— Devi andare là dove ne sono capaci. La scuola dei maghi.

— Ma hai detto…

La vecchia si fermò nell’atto di riempire un boccale dal secchio dell’acqua.

— Sì, sì — scattò. — Non badare a ciò che ho detto o al senso comune o altro. Certe volte bisogna andare dove ti portano gli eventi, e suppongo che in un modo o nell’altro tu andrai alla scuola dei maghi.

Esk ci penso su.

— Vuoi dire che è il mio destino?

La Nonnina scrollò le spalle. — Qualcosa di simile. Probabilmente. Chissà?

Quella stessa notte, parecchio dopo avere messo a letto la bambina, la vecchia si mise il cappello in testa, accese una candela nuova, sparecchiò la tavola, ed estrasse una scatoletta di legno dal suo nascondiglio segreto nella dispensa. Dentro c’erano una bottiglia d’inchiostro, un’antiquata penna d’oca e dei fogli di carta.

Lei non si sentiva molto a suo agio davanti al mondo delle lettere. Aveva gli occhi strabuzzati, la punta della lingua in fuori, la fronte imperlata da goccioline di sudore. Ma la penna scorreva scricchiolando sulla pagina, con l’accompagnamento di tanto in tanto di un’imprecazione sottovoce come "accidenti" e "dannazione".

Ecco il testo della lettera, benché a questa versione manchino le gocce di cera, le macchie d’inchiostro, le cancellature, le chiazze umide dell’originale, nonché lo stile tutto sgrammaticato.


Al Mago Capo, Università Invisibile. Saluti. Io spero stai bene, ti mando una Escarrina Smith, lei ha la stoffa per diventare un mago ma quello che si può fare di lei non lo so lei lavora sodo si tiene pulita e conosce anche diverse arti della casa, manderò Soldi con lei Che tu possa vivere a lungo e finire i tuoi giorni in pace, E molto obbligata. Esmeralda Weatherwax (signorina) Strega.


La Nonnina alzò il foglio alla luce e lo esaminò con occhio critico. Era una buona lettera. Aveva ricavato "diverse" dall’Almanacco che leggeva ogni sera. E che prediceva sempre "diverse sciagure" e "diversa malasorte". Anche se non era proprio sicura del suo significato, restava pur sempre una parola maledettamente buona.

Sigillò la lettera con la cera della candela e la mise sulla dispensa. L’avrebbe data da trasmettere al corriere quando sarebbe andata la mattina dopo al villaggio per comperare un’altra cuccuma.


L’indomani la Nonnina scelse con una certa cura cosa indossare e si decise per un vestito nero con un motivo di rane e pipistrelli, una grande cappa di velluto (o per lo meno di quello che può sembrare velluto dopo essere stato indossato invariabilmente per trenta anni) e il capello a cono del suo rango, fissato da spilloni.

La loro prima visita fu per lo scalpellino a cui ordinare la pietra del focolare da sostituire. Poi andarono dal fabbro.

L’incontro fu lungo e tempestoso. Esk uscì nell’orto e salì al suo vecchio posto sul melo. Dalla casa le giungevano gli urli del padre, i lamenti della madre e lunghe pause di silenzio. Il che voleva dire che Nonnina Weatherwax parlava piano nella voce che Esk definiva "è proprio così". La vecchia aveva a volte un modo di parlare piatto e misurato. Il genere di voce che probabilmente il Creatore aveva usato. Che in essa ci fosse della magia o soltanto "menteologia", di sicuro escludeva ogni possibilità di discussione. Qualunque fosse l’argomento, stabiliva che così dovevano andare le cose.

Un vento leggero faceva ondeggiare l’albero. Seduta sul ramo, Esk dondolava pigramente le gambe.

Pensava ai maghi. Loro non venivano spesso a Cattivo Somaro, ma di loro si raccontava una quantità di storie. Erano saggi, ricordava la bambina, e di solito molto vecchi e compivano magie possenti, complesse e misteriose e quasi tutti avevano la barba. Erano anche, senza eccezione, uomini.

Con le streghe lei si trovava su terreno più sicuro, perché era andata con la Nonnina a visitare un paio di villaggi di streghe più in là sulle colline. E comunque le streghe occupavano un posto importante nel folclore delle Ramtop. Le streghe, ricordava, erano astute, di solito molto vecchie o almeno si sforzavano di sembrarlo e facevano dei sortilegi un po’ sospetti, casarecci e organici, e alcune di loro avevano la barba. Erano anche, senza eccezione, donne.

In tutto questo c’era un qualche problema fondamentale che lei era incapace di risolvere. Perché…

Cern e Gulta vennero di corsa giù per il sentiero e si fermarono sotto l’albero urtandosi e spingendosi. Alzarono gli occhi a guardare la sorella con un misto di ammirazione e di disprezzo. Streghe e maghi erano oggetto di timore reverenziale, non così una sorella. Sapere che la propria sorella stava imparando a diventare una strega, svalutava in qualche modo l’intera categoria.

— Tu non puoi fare veramente degli incantesimi — disse Cern. — È vero?

— Naturale che non puoi — disse Gulta. — Che cos’è quel bastone?

Esk aveva lasciata la verga appoggiata al melo. Cern la toccò con precauzione.

— Non voglio che la tocchi — protestò in fretta Esk. — Per piacere. È mia.

Normalmente Cern aveva la sensibilità di un elefante ma, con sua grande sorpresa, la sua mano si fermò a metà gesto.

— Comunque non ne avevo voglia — borbottò, per nascondere la sua confusione. — È soltanto un vecchio bastone.

— È vero che sai fare gli incantesimi? — chiese Gulta. — Ho sentito la Nonnina che lo diceva.

— Stavamo ascoltando alla porta — aggiunse il fratello.

— Siete voi che avete detto che non sono capace — rispose Esk con fare disinvolto.

— Be’, puoi o non puoi? — ribatté Gulta, arrossendo.

— Forse.

— Non puoi!

Esk abbassò gli occhi a guardarlo. Amava i fratelli, quando se ne ricordava (più che altro per dovere), sebbene generalmente li ricordasse come una serie di rumori fragorosi in pantaloni. Ma nel modo di fissarla di Gulta c’era qualcosa di estremamente sgradevole, come se lei lo avesse personalmente insultato.

Sentì d’improvviso correrle un formicolio per tutto il corpo e a un tratto il mondo parve farsi ai suoi occhi più netto e più vivido.

— Posso — affermò.

Gulta guardò prima lei poi la verga, a occhi socchiusi. Ed esclamò, con un calcio violento: — Vecchio bastone!

Alla bambina sembrò di vedere un porcellino arrabbiato.

Gli urli di Cern richiamarono la Nonnina e i genitori prima alla porta sul retro e poi li fecero arrivare correndo giù per il sentiero.

Appollaiata sulla biforcazione del melo, Esk aveva sul viso un’espressione sognante. Cern si nascondeva dietro l’albero, la bocca spalancata nell’urlo così che si vedevano le tonsille vibrare.

Gulta sedeva attonito dentro un mucchio di vestiti che non gli calzavano più e arricciava il grugno.

La Nonnina si avvicinò a grandi passi all’albero finché il suo naso adunco non si trovò alla stessa altezza di quello di Esk.

— Trasformare le persone in maiali non è permesso - sibilò. — Perfino i fratelli.

— Non sono stata io, è soltanto successo. A ogni modo, devi riconoscere che questa forma gli va meglio — disse calma la bambina.

— Che succede qui? — domandò il fabbro. — Dov’è Gulta? Che ci fa qui questo maiale?

— Questo maiale — rispose Nonnina Weatherwax — è tuo figlio.

Con un sospiro la madre di Esk si accasciò all’indietro, ma il marito era un po’ meno impreparato di lei. Spostò lo sguardo da Gulta, che era riuscito a tirarsi fuori dai suoi indumenti e stava grufolando con entusiasmo tra i primi frutti caduti a terra, alla sua unica figlia.

— È lei che ha fatto questo?

— Sì. Oppure è suo tramite che è stato fatto — disse la Nonnina, con uno sguardo sospettoso alla verga.

— Oh! — Il fabbro fissò il suo quinto figlio. Doveva ammettere che la nuova forma gli si addiceva. Senza guardare, allungò una mano e mollò uno scappellotto sulla testa dell’urlante Cern.

— Puoi farlo tornare come prima? — chiese. La Nonnina si voltò e con un’occhiata girò la domanda a Esk, che si strinse nelle spalle.

— Lui non ci credeva che ero capace di fare un sortilegio — disse calma la bambina.

— Già. Be’, credo che gli hai dimostrato di avere ragione. E adesso lo farai tornare normale, signora. All’istante. Mi senti?

— Non voglio. È stato sgarbato.

— Capisco.

Esk fissò la nonnina con aria di sfida. Lei la ricambiò con uno sguardo severo. Le loro due volontà cozzarono come cimbali e tra di loro l’aria si fece spessa. Ma la Nonnina aveva trascorso una vita a piegare creature recalcitranti e, sebbene Esk fosse un’avversaria straordinariamente forte, era ovvio che avrebbe ceduto prima della fine del paragrafo.

— Oh, va bene — disse in tono querulo. — Non so perché uno si dovrebbe scomodare a trasformarlo in un maiale, quando lui lo era già per conto suo.

Non sapeva da dove le fosse venuta la magia, ma mentalmente si voltò da quella parte e fece un suggerimento. Gulta riapparve, nudo, con una mela in bocca.

— Che c’è? — farfugliò.

La Nonnina si rivolse al fabbro.

— Adesso mi crederai? — domandò aggressiva. — Credi davvero che lei possa sistemarsi quaggiù e dimenticarsi tutto della magia? Riesci a immaginarti il suo povero marito se si sposasse?

— Ma tu hai sempre detto che per le donne era impossibile fare i maghi — protestò lui. In realtà era piuttosto impressionato. Non si era mai saputo che Nonnina Weatherwax avesse trasformato una persona in un’altra cosa.

— Adesso non pensarci — ribatté la vecchia, un po’ più calma. — Lei ha bisogno di addestramento. Ha bisogno di sapere come controllarsi. Per pietà, metti qualcosa addosso a quel ragazzino.

— Gulta. rivestiti e piantala di piagnucolare — gli ordinò il padre e si rivolse di nuovo alla Nonnina.

— Hai detto che c’era una specie di scuola? — azzardò.

— L’Università Invisibile, sì. Per formare i maghi.

— E sai dov’è?

— Sì — mentì lei, la cui conoscenza della geografia era ancora peggiore di quella della fisica sub-atomica.

Il fabbro guardò prima lei e poi la figlia, che se ne stava con l’aria imbronciata.

— E faranno di lei un mago?

La Nonnina sospirò.

— Non so che cosa faranno di lei — rispose.


Fu così che, una settimana più tardi, la Nonnina chiuse la porta del cottage e appese la chiave al suo gancio nel gabinetto. Aveva mandato le capre da una sua collega strega che viveva più lontano nelle colline e che aveva anche promesso di tenere d’occhio il cottage. A Cattivo Somaro non restava che fare a meno di una strega per un po’.

La Nonnina era vagamente conscia che era possibile trovare l’Università Invisibile soltanto se questa lo voleva. E l’unico luogo dove cominciare a cercare era la città di Ohuian Cutash, una manciata di circa un centinaio di case a una ventina di chilometri di distanza. Era là che si andava una o due volte l’anno se si era un Cattivo Somarese veramente cosmopolita.

La vecchia ci era andata soltanto una volta in vita sua e non le era piaciuto affatto. L’odore dell’abitato non era quello giusto, lei si era persa e diffidava della gente di città con i loro modi pieni di ostentazione.

Lei ed Esk ottennero un passaggio sul carro che arrivava periodicamente con il metallo per la fucina. Era traballante ma sempre meglio che camminare, tanto più che la Nonnina aveva impacchettato i loro pochi averi in un grosso sacco, sul quale si sedette per sicurezza.

Esk stringeva tra le braccia la verga e contemplava i boschi che scorrevano lungo la via. Quando furono a diversi chilometri dal villaggio, osservò: — Mi pareva che tu avessi detto che nelle altre terre le piante sono differenti.

— Infatti.

— Questi alberi sembrano proprio gli stessi.

La vecchia li guardò con aria sprezzante.

— Nemmeno un po’ belli come i nostri.

In realtà cominciava a provare un certo sgomento. La sua promessa di accompagnare Esk all’Università Invisibile era stata fatta senza pensare. Il poco che sapeva del resto del Disco lo aveva ricavato per sentito dire e dalle pagine dell’Almanacco, ed era convinta che loro due andassero incontro a terremoti, maremoti, flagelli e massacri, di cui molti "diversi" o anche peggio. Ma era decisa ad andare fino in fondo. Una strega faceva troppo assegnamento sulle parole per rinnegare mai la propria.

Era vestita di nero, come si conviene, e nascondeva sulla sua persona un certo numero di spilloni e un coltello per tagliare il pane. Il piccolo gruzzolo, prestatole a malincuore dal fabbro, era celato nei misteriosi strati della sua biancheria intima. Le tasche della sua gonna tintinnavano di amuleti e un ferro di cavallo appena forgiato, mezzo di prevenzione sempre potente nei momenti difficili, le appesantiva la borsa. Si sentiva pronta al massimo per affrontare il mondo.

Il sentiero si snodava giù per le montagne. Per una volta tanto il cielo era limpido e le alte cime delle Ramtop si stagliavano nette e bianche come le spose del cielo (con i corredi zeppi di temporali) e i tanti ruscelletti, che scorrevano ai lati o attraverso il sentiero, fluivano pigri tra gli arbusti delle olmarie e delle spiree.

All’ora di colazione giunsero al sobborgo di Ohulan (consistente in una locanda e una manciata di cottage appartenenti a gente incapace di sopportare lo stress della vita urbana). Pochi minuti dopo, il carro le depositò nella piazza principale (e del resto l’unica) della città.

Era giorno di mercato.

Nonnina Weatherwax si fermò incerta sul selciato, stringendo forte la spalla di Esk, mentre la folla turbinava intorno a loro. Aveva sentito raccontare di cose tremende che potevano accadere alle campagnole appena arrivate nelle grandi città, e teneva la borsetta così stretta da averne le nocche sbiancate. Se un forestiero si fosse azzardato anche soltanto a farle un cenno di testa, se la sarebbe passata brutta.

Gli occhi di Esk brillavano. La piazza era un mosaico di rumori, colori, odori. Su un lato si ergevano i templi delle più importanti deità del Disco e da essi filtravano profumi arcani che, uniti agli odori delle merci, formavano un miscuglio complesso di fragranze. C’erano bancarelle piene di seducenti curiosità che lei moriva dalla voglia di esaminare.

La Nonnina lasciò che venissero trascinate dalla folla. Anche lei era incuriosita dalle bancarelle. Si mise a gironzolare qua e là, senza mai allentare nemmeno per un minuto la vigilanza contro borsaioli, terremoti e trafficanti del sesso, finché non scorse qualcosa di vagamente familiare.

C’era un piccolo banco coperto, drappeggiato di nero e polveroso, incastrato tra due case. Insignificante com’era, sembrava tuttavia che facesse ottimi affari. Le clienti erano per lo più donne di ogni età, ma tra loro la vecchia notò anche qualche uomo. Tutti, però, avevano una cosa in comune. Nessuno ci si avvicinava direttamente. Ci passavano davanti con aria indifferente, per poi infilarsi d’improvviso nell’ombra del tendone. Un momento ne ergevano, togliendo rapidi come un fulmine la mano dalla borsa o dalla tasca, in gara per il titolo dell’Andatura Più Disinvolta, con tanta bravura che un osservatore avrebbe dubitato di ciò che lui o lei aveva appena visto.

Era straordinario come uno stand, ignoto alla maggior parte della gente, fosse così popolare.

— Che c’è lì dentro? — domandò Esk. — Cosa comprano tutti?

— Medicine — affermò la Nonnina.

— Nelle città ci debbono essere un sacco di malati — osservò la bambina con aria grave.

Dentro, la botteguccia era una massa di ombre e l’odore delle erbe era tanto denso da poterlo imbottigliare. La Nonnina tastò con dita esperte qualche balla di foglie secche. Esk si scostò da lei per cercare di leggere le etichette sulle bottiglie che aveva di fronte. Lei conosceva bene quasi tutti i preparati della Nonnina, ma lì non ne riconobbe nessuno. I nomi erano divertenti: Olio di Tigre, Preghiera della Fanciulla, Ausilio dei Mariti. Uno o due dei tappi avevano il medesimo odore del retrocucina dopo che la vecchia strega aveva terminato certe sue distillazioni segrete.

Un’ombra si mosse nei recessi semibui del locale e una mano dalla pelle scura e grinzosa si posò leggera sulle sue.

— Posso aiutarti, signorina? — La voce, gracchiante, aveva i toni di uno sciroppo di fichi. — Vuoi conoscere il tuo futuro a forse è il tuo futuro che vuoi cambiare?

— Lei sta con me — sibilò la Nonnina, girandosi di scatto — e i tuoi occhi ti tradiscono, Hilta Trovacapra, se non sei capace di vedere che età ha.

L’ombra davanti a Esk si chinò in avanti.

— Esme Weatherwax? — chiese.

— In persona. Ancora a vendere gocce miracolose e piccoli amuleti, Hilta? Come te la passi?

— Meglio del solito perché ti rivedo — rispose l’ombra. — Cosa ti porta giù dalle montagne, Esme? E questa piccola… è forse la tua assistente?

— Per piacere, che cosa vendi? — domandò Esk.

L’ombra rise. — Oh, delle cose per impedirne altre che non dovrebbero succedere e aiutare quelle che dovrebbero, tesoro. Aspettate un attimo che io chiuda, mie care, e sarò subito da voi.

L’ombra passò accanto a Esk in una scia di fragranze e chiuse le tende davanti al chiosco. Poi tirò su i drappeggi sul retro facendo entrare la luce pomeridiana.

— Non posso sopportare l’oscurità e respirare quest’aria — dichiarò Hilta Trovacapra — ma è quello che si aspettano i clienti. Tu sai com’è.

— Sì — annuì saggiamente Esk. — "Menteologia".

Hilta, una donnetta grassa con un enorme cappello ornato di frutti, guardò prima lei e poi la Nonnina e ridacchiò.

— È così che vanno le cose — affermò. — Gradireste del tè?

Si sedettero su balle di erbe sconosciute nel cantuccio privato ricavato tra i muri ad angolo delle due case, e bevvero un liquido verde e fragrante in lazze sorprendentemente delicate. Al contrario della Nonnina, che si vestiva come un rispettabile corvo, Hilta Trovacapra era tutta merletti e scialli e colori e orecchini e talmente tanti braccialetti che un semplice movimento delle sue braccia risuonava come un insieme di strumenti a percussione che cadessero da un promontorio. Ma Esk vedeva ugualmente la somiglianza tra le due donne.

Difficile descriverla. Ma era impossibile immaginarle inchinarsi davanti a chicchessia.

— Allora, come va la vita? — chiese la Nonnina.

L’altra strega alzò le spalle e con il suo gesto fece perdere la presa al capotamburo proprio quando era quasi riuscito a tornare in cima.

— Come l’amante frettoloso, viene e se ne… — cominciò e si arrestò vedendo l’occhiata significativa che l’amica lanciava a Esk.

— Non male, non male — rimediò in fretta. — Il consiglio ha provato una volta o due a buttarmi fuori, sai, ma hanno tutti moglie e in qualche modo non riesce mai. Dicono che non sono il tipo giusto, ma io dico che in questa città più di una famiglia sarebbe più numerosa e più povera se non fosse per i Preservativi Mentaperenne di Madame Trovacapra. So chi viene nella mia bottega, io. Ricordo chi compra le mie gocce e il mio unguento speciali, io. La vita non è male. E come va nel tuo villaggio con quel nome buffo?

— Cattivo Somaro — disse pronta Esk. Prese da uno scaffale un vasetto di coccio e ne odorò il contenuto.

— Va abbastanza bene — concesse la Nonnina. — I rimedi naturali sono sempre richiesti.

Esk annusò ancora la polvere; le sembrò mentaperenne con una base che non le riuscì d’identificare, e richiuse con cura il coperchio. Mentre le due donne chiacchieravano in una specie di codice femminile, pieno di occhiate e di sottintesi, lei esaminò le altre pozioni esotiche esposte. O non proprio esposte. Stranamente sembravano essere seminascoste ad arte, come se Hilta non avesse veramente voglia di venderle.

— Non ne riconosco nessuna — disse, rivolgendosi più che altro a se stessa. — Cosa danno alle persone?

— Libertà — dichiarò Hilta, che aveva un udito fine. Poi, rivolta di nuovo alla Nonnina: — Quanto le hai insegnato?

— Non tanto. Lei ha potere, ma di quale genere non sono sicura. Potrebbe essere quello di un mago.

Hilta si girò lentamente e squadrò Esk da capo a piedi.

— Ah! — esclamò. — Questo spiega la verga. Mi chiedevo di che parlassero le api. Bene, bene. Dammi una mano, piccola.

Esk le tese una mano. Le dita di Hilta erano così piene di anelli che era come pescare in un sacchetto di noci.

La Nonnina si raddrizzò in atteggiamento di disapprovazione quando vide l’amica mettersi a ispezionare il palmo della bambina.

— Non credo che questo sia necessario — disse severamente. — Non tra di noi.

Esk interloquì: — Tu lo fai, Nonnina, al villaggio. Ti ho vista. E le tazze dei tè. E le carte.

La Nonnina si agitò imbarazzata. — Be’, sì. È una specie di accordo. Tu gli tieni la mano e quelli si predicono la fortuna da sé. Ma non c’è bisogno di andare in giro a crederci. Ci troveremmo tutti nei guai se andassimo in giro a credere ogni cosa.

— I Poteri Che Esistono hanno molte strane qualità e intriganti e vari sono i modi in cui manifestano i loro voleri in questo cerchio di luce che noi chiamiamo il mondo fisico — dichiarò solennemente Hilta. E strizzò l’occhio a Esk.

— Be’, suvvia! — s’impazientì la Nonnina.

— No, calmati. È vero — ribatté Hilta.

— Uhm.

— Vedo che siete all’inizio di un lungo viaggio — osservò l’amica.

— Incontrerò uno sconosciuto alto e bruno? — chiese Esk, esaminandosi il palmo. — La Nonnina lo dice sempre alle donne, dice…

La vecchia sbuffò e Hilta rispose: — No. Ma sarà un viaggio molto strano. Andrete assai lontano pur restando nello stesso posto. E la vostra sarà una direzione strana. Sarà un’esplorazione.

— Puoi dire tutto questo dalla mia mano?

— Be’, principalmente sto solo indovinando. — Hilta si appoggiò all’indietro e allungò una mano per prendere la teiera (il capotamburo, che era risalito a mezza strada, ricadde sui cembalisti arrancanti). La donna fissò attentamente Esk e aggiunse: — Un mago femmina, eh?

— La Nonnina mi porta all’Università Invisibile — spiegò la bambina.

Hilta inarcò le sopracciglia. — Sai dove si trova?

La Nonnina aggrottò la fronte. — Non esattamente — ammise. — Speravo che tu potessi darmi delle indicazioni più precise, visto che hai più familiarità di me con i mattoni e roba del genere.

— Dicono che abbia molte porte, ma quelle che si trovano in questo mondo sono nella città di Ankh-Morpork — disse Hilta. Vedendo che la Nonnina non capiva, aggiunse: — Sul Mare Circolare. — E poi, davanti allo sguardo interrogativo dell’altra: — A quasi mille chilometri da qui — concluse.

— Oh! — esclamò la Nonnina.

Si raddrizzò e spazzò via dal suo vestito un immaginario granello di polvere.

— Faremmo meglio a muoverci — dichiarò.

Hilta scoppiò a ridere. A Esk la sua risata piacque molto. La Nonnina non rideva mai, si limitava semplicemente a sollevare un po’ gli angoli della bocca. Ma Hilta rideva come una persona che aveva riflettuto molto sulla Vita e aveva capito che era tutta uno scherzo.

— Partite domattina, comunque — consigliò. — A casa mia c’è posto, potete stare da me e domani ci sarà la luce.

— Non vorremmo disturbare — disse la Nonnina.

— Sciocchezze. Perché non fate un giretto mentre chiudo bottega?


Ohulan era la città centro di mercato di una regione agricola molto estesa e il commercio non terminava con il tramonto. Al contrario, le torce brillavano su ogni banco e ogni baracchino e la luce si diffondeva dalle porte aperte delle locande. Perfino i templi mettevano fuori delle lanterne colorate per attirare i fedeli serali.

Hilta si muoveva tra la folla come uno svelto serpente tra l’erba secca, l’intero suo banco e la merce ridotti a un fagotto incredibilmente piccolo sulla schiena, i gioielli tintinnanti come un gruppetto di ballerini di flamenco. La Nonnina camminava pesantemente dietro di lei, con i piedi che le dolevano perché non abituati al selciato cittadino.

Ed Esk si perse.

Ci volle un po’ di tempo, ma ci riuscì. Aveva dovuto intrufolarsi abbassandosi tra due bancarelle poi sfrecciare via per un vicolo laterale. La Nonnina l’aveva ammonita più che abbondantemente sulle cose innominabili in agguato nelle città. Il che dimostrava come la vecchia non conoscesse bene la "menteologia", poiché ora Esk era decisa a vederne una o due di persona.

In realtà, dato che Ohulan era un luogo barbaro e incivile, le sole cose che succedevano al calar della notte erano dei furtarelli, un po’ di commercio alla buona nei luoghi del piacere, e sbronzarsi fino a cadere per terra o mettersi a cantare o entrambe le cose…

Secondo i canoni poetici, uno dovrebbe muoversi in una fiera come il cigno bianco si muove a sera sopra la baia. Ma a causa di certe difficoltà tecniche Esk finì per muoversi tra la folla come un carretto traballante, urtando le persone con la punta della verga ondeggiante alta sopra la sua testa. Delle teste si voltarono e non soltanto perché erano state colpite. Qualche volta i maghi passavano in città ed era la prima volta che se ne fosse visto uno alto un metro e trenta e con i capelli lunghi.

Un osservatore attento avrebbe notato strane cose al passaggio della bambina.

Prendiamo, per esempio, l’uomo con le tre ciotole capovolte che invitava un gruppetto di gente a esplorare insieme a lui il mondo eccitante della fortuna e delle probabilità correlato alla posizione di un pisello secco. Il tizio si era reso vagamente conto di una figuretta rimasta ad osservarlo solennemente per qualche momento; subito dopo una cascata di piselli era rotolata giù da ognuna delle ciotole che lui aveva sollevato. E dopo pochi secondi si era trovato immerso nei legumi fino alle ginocchia. Ma si era anche ritrovato in un guaio peggiore: a un tratto doveva un sacco di soldi a tutti.

C’era anche una disgraziata scimmietta che per anni aveva ballonzolato legata a una catena mentre il suo proprietario strimpellava un organetto. D’improvviso l’animale si voltò, socchiuse gli occhietti rossi, morse la gamba dell’uomo, ruppe la catena e si dileguò su per i tetti con il ricavo della serata in una tazza di stagno. La storia non dice come i soldi furono spesi.

Su una bancarella lì vicino le papere di marzapane contenute in una scatola si animarono, passarono frullando davanti all’attonito venditore per approdare, schiamazzando felici, nel fiume (dove, all’alba, si erano liquefatte. A dimostrazione della selezione naturale).

Quanto alla bancarella, scivolò giù per un vicolo e non fu più vista.

Esk, in realtà, si spostava attraverso la fiera piuttosto simile all’incendiario che si muove in un campo di grano o a un neutrone che rimbalza nel reattore. Tuttavia i poeti, e l’ipotetico osservatore, avrebbero potuto individuare il suo passaggio zigzagante seguendo le manifestazioni d’isteria e di violenza. Ma, come ogni buon catalizzatore, lei non era coinvolta nei processi cui dava inizio. E quando ormai i non ipotetici potenziali osservatori avevano distolto lo sguardo, la ragazzina era già lontana.

Cominciava anche a sentirsi stanca. Per principio alla Nonnina Weatherwax la notte andava bene, ma era contraria a condividere con un’altra persona la luce della candela. Così, se a sera doveva leggere, generalmente persuadeva il gufo a venire ad appollaiarsi sulla spalliera della sua seggiola, e leggeva attraverso i suoi occhi. Quindi Esk era abituata ad andare a letto verso il crepuscolo, e questo era passato da un pezzo.

Davanti a lei vide un portone illuminato che le ispirava simpatia e dal quale proveniva un allegro vociare. Vi si diresse, stanca ma decisa, con la verga che ancora irradiava una magia intermittente come un faro soprannaturale.

Il proprietario dell’Indovinello del Violinista si considerava un uomo di mondo. Il che era vero, perché era troppo stupido per essere davvero crudele, troppo pigro per essere davvero spregevole; e benché con il corpo avesse girato parecchio, con la mente non era mai andato oltre la propria testa.

Non era abituato a essere interpellato da un bastone. Specie quando parlava in una vocetta lamentosa e chiedeva latte di capra.

Conscio che tutti nella locanda lo guardavano e sogghignavano, si sporse con precauzione al di sopra del bancone per guardare giù. Esk lo fissò. "Guardali dritto negli occhi" aveva sempre detto la Nonnina. "Concentra il tuo potere su di loro, fagli abbassare gli occhi, nessuno può sostenere lo sguardo di una strega eccetto, naturalmente, una capra."

L’albergatore, che si chiamava Skiller, si ritrovò davanti una bambina che lo guardava con gli occhi socchiusi.

— Che cosa? — le domandò.

— Latte — rispose lei, sempre con lo sguardo fisso. — Lo ottieni dalle capre. Lo sai?

Skiller vendeva soltanto birra che, secondo i clienti, otteneva dai gatti. Nessuna capra che si rispetti avrebbe sopportato l’odore dell’Indovinello del Violinista.

— Non ne abbiamo — affermò. Osservò attentamente la verga e corrugò le sopracciglia.

— Potresti dare un’occhiata — ribatté Esk.

Skiller si raddrizzò, in parte per evitare lo sguardo della piccola, che per simpatia gli faceva lacrimare gli occhi, e in parte perché un orribile sospetto si stava facendo strada nella sua mente.

Anche i baristi di seconda categoria tendono a risuonare con la birra che servono. E le vibrazioni, provenienti dalle grosse botti alle sue spalle, non gli trasmettevano più il fremito del luppolo e della schiuma. Emettevano invece una nota che aveva molto più del latteo.

Per fare una prova l’uomo girò il rubinetto e vide un rivolo di latte colare nel recipiente.

La verga sporgeva sempre, simile a un periscopio, al di sopra dell’orlo del bancone. Lui avrebbe giurato che anch’essa lo stesse fissando.

— Non sprecarlo — disse una voce. — Un giorno potresti ringraziare di averlo.

Era lo stesso tono di voce usato dalla Nonnina quando Esk faceva i capricci davanti a un piatto di nutriente verdura, bollita fino a diventare gialla, fino a perdere anche le ultime tracce di vitamine. Ma all’orecchio ipersensibile di Skiller risuonò non come una ingiunzione, ma come una predizione. Rabbrividì. Non riusciva nemmeno a immaginare come ridursi per dovere ringraziare di bere un boccale di birra stantia e di latte cagliato. Piuttosto avrebbe preferito morire.

Forse sarebbe morto.

Asciugò con cura un boccale quasi pulito passandoci il pollice e lo riempì al rubinetto. Si accorse che parecchi dei suoi clienti se ne stavano andando alla chetichella. A nessuno piaceva la magia, specie nelle mani di una donna. Non si poteva mai sapere che cosa le sarebbe saltato in testa di fare in seguito.

— Il tuo latte — disse. E aggiunse: — Signorina.

— Ho del denaro — assicurò Esk. La Nonnina le aveva sempre detto che si doveva essere pronti a pagare senza poi essere obbligati a farlo, alla gente questo comportamento piace. Fa tutto parte della "menteologia".

— No, non me lo sognerei mai — si affrettò a protestare Skiller. Si chinò sul bancone. — Però, se tu potessi, ehm, far tornare il resto com’era? Da queste parti non c’è grande richiesta di latte.

Si scostò un po’ più in là. Per bere il latte, la bambina aveva appoggiato la verga al bar, e lui si sentiva a disagio. Esk lo guardò al disopra di due baffi di crema.

— Non l’ho trasformata in latte — affermò. — Sapevo soltanto che sarebbe stato latte perché era il latte che volevo. Secondo te, che cos’era?

— Ehm. Birra.

Esk rifletté. Ricordava vagamente di avere assaggiato della birra una volta e di non avere gradito il suo gusto. Ma si rammentava di una cosa che tutti a Cattivo Somaro reputavano assai meglio della birra. Era una delle ricette più segrete della Nonnina. Una bevanda che faceva bene, perché consisteva soltanto di frutta, più darsi da fare un sacco per raffreddarla e bollirla e provarne con attenzione poche gocce dandogli fuoco.

Nelle sere eccezionalmente fredde la Nonnina ne metteva un cucchiaino nel suo latte. Doveva essere un cucchiaio di legno, per via di ciò che faceva al metallo.

La bambina si concentrò. Riusciva con la mente a raffigurarsi il sapore e, con quel po’ di facoltà che cominciava ad accettare senza comprenderla scoprì di potere isolare il sapore in piccole forme colorate…

La moglie di Skiller, una donnetta magra, venne fuori dal retro per vedere come mai c’era tanta calma. A un cenno del marito, non aprì bocca e restò scioccata a osservare Esk che ondeggiava leggermente, con gli occhi chiusi e muovendo le labbra.

…piccole forme che non ti servivano si confondevano di nuovo nel grande insieme delle forme, e poi tu trovavi quelle che ti servivano e le riunivi, e poi c’era una specie di uncino a significare che avrebbero trasformato un oggetto in un’altra cosa simile a loro, e poi…

Skiller si voltò con cautela e guardò il barile dietro a lui. L’odore del locale era cambiato e lui riusciva a sentire l’oro puro che trasudava dal vecchio fusto.

Preso con attenzione un bicchierino dalla riserva sotto il banco, fece uscire dal rubinetto un piccolo getto del liquido d’oro scuro. Lo contemplò pensieroso alla luce della lampada, rigirò il bicchiere tra le dita, lo annusò più volte e ne ingollò il contenuto in un solo sorso.

Il suo viso rimase lo stesso, sebbene gli occhi gli si inumidissero e la gola gli tremasse un po’. Sotto lo sguardo attento della moglie e di Esk, la sua fronte s’imperlò di goccioline di sudore. Passati dieci secondi, era evidente che era sul punto di battere un record eroico. Forse dalle orecchie gli uscivano nuvolette di vapore, ma poteva trattarsi di una chiacchiera. Le sue dita tamburellavano uno strano ritmo sul bancone.

Alla fine deglutì, sembrò giungere a una decisione, si rivolse solennemente a Esk e farfugliò una filza di suoni inarticolati.

Con la fronte aggrottata, ripensò mentalmente la frase e fece un secondo tentativo. Senza miglior successo.

Si arrese.

— Bharrgsh nargh!

La moglie sbuffò e gli tolse il bicchiere di mano senza che lui protestasse. Lo annusò. Guardò i fusti, uno a uno. Il suo sguardo incontrò quello incerto di lui. Perduti in un paradiso privato per due, calcolarono senza parlare il prezzo di vendita di seicento galloni di brandy di pesca bianca di montagna distillato tre volte, e persero il conto.

La signora Skiller era più svelta di comprendonio del marito. Si chinò a sorrìdere a Esk, che era troppo stanca per ricambiarla con un’occhiataccia. Non era un sorriso particolarmente riuscito; perché la signora Skiller mancava di pratica.

— Come hai fatto a venire qui, ragazzina? — La sua voce suggeriva casette di zenzero e il tonfo dello sportello di un grande forno.

— Mi sono persa dalla Nonnina.

— E dov’è adesso la Nonnina, cara? — Lo sportello del forno si chiuse di nuovo con fracasso. Si annunciava una notte difficile per tutti coloro che vagavano in foreste metaforiche.

— Da qualche parte, suppongo.

— Ti piacerebbe andare a dormire in un grande letto di piume, tutto morbido e caldo?

La bambina la guardò riconoscente, anche se si rendeva vagamente conto che la donna aveva la faccia di un astuto furetto, e fece cenno di sì.

Avete ragione. Ci vorrà più di un tagliaboschi di passaggio per sistemare questa faccenda.


In quel momento la Nonnina si trovava a due strade di distanza. Si era anche persa, secondo il criterio di certa gente. Lei non la pensava così. Lei lo sapeva dove si trovava, era tutto il resto che lo ignorava.

Si è già accennato come sia molto più difficile individuare una mente umana di quella, diciamo, di una volpe. La mente umana, che considera il fatto come una specie di affronto, vuole sapere perché. Ecco perché.

La mente degli animali è semplice e perciò acuta. Gli animali non perdono mai tempo a dividere l’esperienza in tante piccole parti e a speculare su quelle che gli sono sfuggite. Per loro l’intero apparato dell’universo consiste nettamente in cose quali: a) accoppiarsi, b) mangiare, c) sfuggire, d) rocce. Ciò libera la mente da inutili pensieri e la rende perspicace, quando occorre. Un animale normale, infatti, non cerca mai di camminare e masticare gomma allo stesso tempo.

L’essere umano medio, d’altro lato, pensa ogni sorta di cose, ventiquattro ore su ventiquattro, a ogni sorta di livelli, con interruzioni risultanti da una quantità di calendari biologici e di orologi. Ci sono pensieri che si esprimono e pensieri privati, pensieri reali, pensieri riguardanti pensieri, e un’intera gamma di pensieri subconsci. Per un telepatico la mente umana è una confusione di rumori. Una stazione ferroviaria con tutti gli altoparlanti contemporaneamente in funzione. Una vera e propria lunghezza d’onda FM (e certe di quelle stazioni non sono rispettabili, stazioni pirate su mari proibiti che trasmettono a tarda notte le registrazioni di musica sentimentale).

Tentando di localizzare Esk soltanto con la magia della mente, la Nonnina cercava di trovare l’ago nel pagliaio.

Infatti non le riusciva. Le giunsero invece da migliaia di cervelli, che tutti pensavano simultaneamente, abbastanza segnali da convincerla che il mondo era davvero stupido come lei aveva sempre ritenuto che fosse.

Incontrò Hilta all’angolo della strada. L’amica aveva con sé la sua scopa in modo da condurre meglio una ricerca aerea (ma in grande segretezza; infatti gli uomini di Ohulan, consumatori convinti dell’Unguento di Lunga Durata, erano assolutamente contrari alle donne volanti). Hilta era agitata.

— Non la minima traccia di lei — la informò la Nonnina.

— Sei stata giù al fiume? Potrebbe esserci caduta.

— In questo caso, ne sarebbe ricaduta fuori. E a ogni modo, Esk sa nuotare. Io penso che si nasconda, accidenti a lei.

— Cosa facciamo?

La vecchia la fulminò con lo sguardo. — Hilta Trovacapra, mi vergogno di te, che ti comporti da vigliacca. Ti sembro preoccupata? L’altra la guardò.

— Lo sei. Un po’. Quasi non ti si vedono più le labbra.

— Sono semplicemente arrabbiata, ecco tutto.

— Gli zingari vengono sempre qui alla fiera, può darsi che l’abbiano presa.

La Nonnina era preparata a credere qualsiasi cosa della gente di città, ma in quel caso si trovava su terreno più sicuro.

— Allora sarebbero molto più stolidi di quanto li giudico — scattò. — Ascolta, lei ha la verga.

— A che le servirebbe? — Hilta era vicina alle lacrime.

— Mi pare che non hai capito niente di ciò che ti ho raccontato — disse severa la Nonnina. — Non ci resta che tornare a casa tua e attendere.

— Per quale ragione?

— Le grida o i rumori violenti o le palle di fuoco o che altro — rispose un po’ vagamente la Nonnina.

— È tremendo!

— Oh, mi aspetto che è quanto gli capiterà. Dammi retta, tu va avanti e metti il bricco sul fuoco.

Hilta le lanciò uno sguardo disorientato, poi salì sulla scopa e si alzo adagio con volo irregolare nelle ombre tra i camini. Se le scope fossero vetture, la sua sarebbe stata una Mini Morris con i vetri a doppio scorrimento.

Dopo averla osservata per un po’, la Nonnina la seguì camminando sulia via bagnata. Era ben decisa che non l’avrebbero mai indotta a salire su uno di quei così.


Esk era stesa tra le lenzuola leggermente umide del grande letto di piume nella stanza dell’attico dell’Indovinello. Era stanca, ma non riusciva a dormire. Prima di tutto, il letto era troppo freddo. Si chiese incerta se avrebbe avuto il coraggio di riscaldarlo, ma ci ripensò. Per quanta attenzione mettesse negli esperimenti, non pareva capace di padroneggiare gli incantesimi riguardanti il fuoco. O non funzionavano affatto o funzionavano fin troppo bene. I boschi intorno al cottage stavano diventando pericolosi in seguito ai buchi lasciati dalla scomparsa delle palle di fuoco. Almeno, sosteneva la Nonnina, se quel tipo di magia non funzionava, lei avrebbe avuto un bell’avvenire nella costruzione dei gabinetti o nello scavo dei pozzi.

Si girò, cercando di non badare al lieve odore di muffa del letto. Poi allungò un braccio nel buio finché la sua mano non trovò la verga, appoggiata alla spalliera. La signora Skiller aveva molto insistito per portarla giù, ma Esk ci si era aggrappata con tutte le sue forze. Era l’unica cosa al mondo che lei fosse assolutamente certa le appartenesse.

Toccare la lucida superficie con le sue strane incisioni le dava uno strano senso di conforto. La bambina si addormentò e sognò di bracciali, pacchetti strani e montagne. E stelle lontane alte sulle montagne, e un freddo deserto dove strane creature avanzavano barcollanti attraverso la sabbia e la fissavano con i loro occhi da insetti…

Uno scricchiolio sulla scala. Poi un altro. Quindi il silenzio, quella specie di silenzio soffocato, ovattato di qualcuno che si sforza di rimanere immobile.

La porta si aprì. La figura di Skiller disegnò un’ombra più densa contro la luce delle candele proveniente dalla scala; seguì una breve conversazione bisbigliata prima che l’uomo si dirigesse in punta di piedi verso la spalliera del letto, il più silenziosamente possibile. Cercò a tastoni con precauzione la verga che scivolò da un lato, ma lui fu svelto ad afferrarla e mandò fuori adagio il respiro che aveva trattenuto.

Così gliene restava poco per urlare quando la verga gli si mosse nelle mani. Ne sentì la squamosità, la rivolta, la forza…

Esk si drizzò a sedere in tempo per vedere Skiller rotolare giù per la ripida scala, sempre agitando disperatamente le braccia contro un qualcosa d’invisibile che le avvolgeva. Dal basso venne un altro grido quando lui atterrò sulla moglie.

La verga cadde con un tonfo sul pavimento dove rimase circondata da un debole alone di ottarino.

Esk scese dal letto e attraversò la stanza. Risuonò una imprecazione minacciosa. La bambina fece capolino dalla porta e si trovò davanti la faccia della signora Skiller.

— Dammi quella verga!

Esk si chinò a raccoglierla, le dita strette intorno al fusto di lucido legno. — No. È mia.

— Non è un oggetto adatto per le bambine — la rimbeccò la moglie del barista.

— Appartiene a me — dichiarò Esk e richiuse piano la porta. Rimase un momento ad ascoltare i borbottii che le giungevano dal basso e a riflettere sulla sua prossima mossa. Trasformare la coppia in qualche modo probabilmente avrebbe causato soltanto un trambusto e comunque non era del tutto certa di come farlo.

Il fatto era che la magia funzionava davvero solo quando lei non ci pensava. Pareva che la sua mente le facesse da ostacolo.

Riattraversò la stanza per aprire la finestrella e lasciò entrare gli strani effluvi notturni della civiltà: l’umidità che saliva dalle strade, il profumo dei giardini fioriti, il debole lezzo proveniente in distanza da una latrina troppo piena. Fuori c’erano delle tegole bagnate.

Sentendo Skiller risalire la scala, Esk spinse la verga fuori sul tetto e le strisciò dietro, aggrappandosi al cornicione della finestra. Il tetto scendeva inclinato su una rimessa e lei si sforzò di mantenersi in equilibrio, un po’ strisciando e un po’ avanzando carponi sulle tegole sconnesse. Dopo un salto di due metri su una pila di vecchi barili, scivolò giù in fretta sul legno sdrucciolevole e attraversò di corsa senza altri inciampi il cortile della locanda.

Sgambettando nella nebbia della strada, ancora udiva l’eco di una discussione animata giungerle dall’Indovinello.

Skiller passò a precipizio accanto alla moglie e posò una mano sul rubinetto del fusto più vicino. Aspettò un attimo e poi lo aprì.

L’odore acutissimo del brandy di pesca riempì il locale. Lui richiuse il getto e si rilassò.

— Temevi che si sarebbe trasformato in qualcosa di brutto? — gli domandò la moglie. Lui annuì.

— Se non fossi stato così maldestro… — cominciò la donna.

— Ti dico che mi ha morso!

— Avresti potuto essere un mago e non ci saremmo più dovuti preoccupare. Non hai un po’ di ambizione?

Skiller scosse la testa. — Secondo me, ci vuole più di una verga per fare un mago — replicò. — Comunque, ho sentito dire che ai maghi non è permesso di sposarsi, non gli è nemmeno permesso di… — esitò.

— Che cosa? Permesso che cosa?

Il marito si dimenò. — Be’. Lo sai. Quella cosa.

La signora Skiller dichiarò spicciativa: — Non so di che stai parlando.

— No, suppongo di no.

La seguì riluttante fuori dalla sala buia. Forse, quanto a questo, i maghi non se la passavano poi tanto male…

La sua idea si dimostrò giusta quando la mattina seguente rivelò che i dieci fusti di brandy di pesca si erano davvero mutati in qualcosa di brutto.

Esk vagò per le strade grige finché arrivò ai piccoli moli fluviali di Ohulan. Delle larghe chiatte piatte si dondolavano contro le banchine e dai tubi da stufa di una o due di loro uscivano delle volute di fumo. Esk si arrampicò senza difficoltà sulla più vicina e con l’aiuto della verga sollevò il telone incerato che ne ricopriva buona parte.

Un odore pungente, un misto di lanolina e di letame, si levò in aria. La chiatta portava un carico di lana.

È sciocco andare a dormire su una chiatta qualsiasi, senza sapere quali strane sponde vi scorreranno sotto gli occhi quando vi sveglierete, senza sapere che di norma le chiatte partono di buon’ora, appena al levar del sole, senza sapere quali nuovi orizzonti vi saluteranno l’indomani…

Voi questo lo sapete. Esk no.


Esk si svegliò sentendo qualcuno fischiare. Rimase immobile, riandando nella mente gli avvenimenti della sera finché non si ricordò perché si trovava lì. Allora si girò con precauzione su un fianco e alzò un lembo del telone.

Era lì, dunque. Ma il "lì" si era mosso.

"Allora, è questo che chiamano navigare" pensò mentre osservava passarle avanti la sponda lontana. "Non mi sembra molto speciale."

Non le venne in mente di preoccuparsi. Per i primi otto anni della sua vita il mondo era stato un luogo particolarmente noioso e, adesso che cominciava a farsi interessante, lei non intendeva comportarsi da ingrata.

Al fischio dell’uomo si unì il latrare di un cane. Esk si riadagiò nella lana, si concentrò fino a trovare la mente dell’animale e vi penetrò con prudenza. Dal suo cervello inefficiente e disorganizzato apprese che sulla chiatta c’erano almeno quattro persone e molte di più sulle altre imbarcazioni a rimorchio in fila sul fiume. Tra di loro c’erano dei bambini.

Lasciò andare l’animale e si mise di nuovo a contemplare a lungo la scena. Ora la chiatta passava tra due alte scogliere, dove la roccia assumeva così tanti colori da far pensare che un Dio affamato avesse confezionato il club sandwich record di tutti i tempi. Cercò di scacciare il pensiero che le si presentò subito dopo. Ma quello persisteva e le entrava in mente come il danzatore di limbo che, inatteso, passi sotto la porta del gabinetto della Vita. Presto o tardi lei avrebbe dovuto lasciare il suo nascondiglio. Non era il suo stomaco a incalzarla, ma la sua vescica non ammetteva ritardo.

Forse se lei…

Il telone venne scostato dalla sua testa con mossa rapida e una grossa faccia barbuta la guardò.

— Bene, bene — esclamò. — Allora, cosa abbiamo qui? Una passeggera clandestina, sì o no?

Esk la fissò. — Sì — rispose. Le sembrava inutile negarlo. — Potresti aiutarmi a uscire, per piacere?

— Non hai paura che ti butti al… al luccio? — chiese la faccia. E, notando lo sguardo perplesso della piccola, aggiunse: — Un grosso pesce d’acqua dolce. Veloce. Un sacco di denti. Luccio.

Un pensiero simile non l’aveva nemmeno sfiorata. — No — rispose sincera. — Perché? Lo farai?

— No. No certo. Non c’è bisogno di spaventarsi.

— Non lo sono.

— Oh! — Un braccio dalla pelle scura, attaccato alla testa secondo le normali regole, apparve e l’aiutò a tirarsi fuori dal suo nido lanoso.

In piedi sul ponte della chiatta, Esk si guardò intorno. Il cielo, di un azzurro di porcellana, si stendeva sulla larga vallata attraverso la quale il fiume scorreva pigro.

Dietro a lei le Ramtop ancora fungevano da barriera per le nuvole, ma non dominavano più il paesaggio come avevano sempre fatto da quando Esk le conosceva. La distanza le aveva ridotte.

— Dove siamo? — chiese annusando i nuovi odori di acquitrini e di carici.

— La Vallata Superiore del fiume Ankh — rispose l’uomo che l’aveva scoperta. — Che ne pensi?

Lei lasciò vagare lo sguardo su e giù per il fiume. Che era già molto più largo di quanto era a Ohulan.

— Non so. Di sicuro ce n’è tanto. Questa è la tua nave?

— Barca — la corresse lui. Era più alto di suo padre, ma non così vecchio, e abbigliato come uno zingaro. La maggior parte dei suoi denti erano diventati d’oro, ma Esk decise che non era il momento di chiedergli il perché. Aveva quel genere di abbronzatura che i ricchi ci mettono un’eternità per ottenere a prezzo di vacanze dispendiose e carta stagnola. Quando per averla basta farsi un culo così lavorando all’aria aperta tutto il giorno.

L’uomo aggrottò la fronte. — Sì, è mia — rispose, deciso a riprendere l’iniziativa. — E tu che ci fai qui, vorrei sapere? Sei scappata di casa, sì o no? Se fossi un ragazzo, direi che vai in cerca di fortuna?

— E le ragazze non possono farlo?

— Si suppone, credo, che cerchino un ragazzo che la fortuna ce l’ha già — disse l’uomo, con un sorriso a duecento carati. Le tese una mano scura, piena di anelli. — Vieni a fare colazione.

— A dire la verità, vorrei usare il tuo gabinetto — dichiarò la bambina.

L’uomo spalancò la bocca. — Questa è una chiatta, sì o no?

— Sì.

— Il che significa che c’è soltanto il fiume. — Le batté sulla mano. — Non ti preoccupare — aggiunse. — Lui ci è abituato.


In piedi sulla banchina, la Nonnina batteva impaziente il piede sulle assi di legno. L’ometto, che era quanto di più simile avesse Ohulan in fatto di direttore dei docks, stava visibilmente ritirandosi sotto l’impatto dell’occhiata minacciosa della vecchia. Forse l’espressione di lei non era così crudele quanto l’antico strumento per schiacciare i pollici del condannato, ma pareva suggerire che quella tortura fosse una possibilità concreta.

— Sono partiti prima dell’alba, dici — lo interrogò la Nonnina.

— Sss…ì. Ehm. Non sapevo che non avrebbero dovuto.

— Hai visto una bambina a bordo? — Lo stivaletto della vecchia non cessava di tamburellare.

— Uhm. No. Mi dispiace. — Il viso dell’ometto si rischiarò. — Erano Zoon — continuò. — Se la bambina è con loro, non le sarà fatto alcun male. Si può sempre fidarsi di uno Zoon, dicono. Ci tengono molto alla famiglia.

La Nonnina si voltò verso Hilta, ondeggiante come una farfalla sconcertata, e inarcò le sopracciglia.

— Oh, sì — trillò l’amica. — Gli Zoon hanno un’ottima fama.

— Uhm — borbottò la vecchia. Girò sui tacchi e si avviò di nuovo verso il centro della città. L’ometto si accasciò come se gli avessero appena tolto la gruccia dalla camicia.

L’abitazione di Hilta stava sopra un erborista e dietro una conceria e offriva una splendida vista dei tetti di Ohulan. A lei piaceva perché garantiva la privacy sempre apprezzata (come diceva lei) "dai miei clienti più giudiziosi, i quali preferiscono fare i loro specialissimi acquisti in un’atmosfera di calma dove la parola d’ordine è sempre la discrezione."

Nonnina Weatherwax esaminò il soggiorno con disprezzo malcelato. C’erano troppe nappine, tende di perline, carte astrologiche e gatti neri. La Nonnina i gatti non li sopportava. Annusò l’aria.

— È la conceria? — chiese in tono accusatorio.

— Incenso — rispose Hilta. Davanti al disprezzo della Nonnina fece fronte con coraggio. — I clienti lo apprezzano. Li mette nella giusta disposizione d’animo. Tu sai com’è.

— Avrei pensato, Hilta. che si potesse fare un mestiere perfettamente rispettabile senza ricorrere a trucchi da salotto. - La Nonnina si sedette e si accinse alla lunga e difficile operazione di togliersi gli spilloni.

— In città è diverso — obiettò Hilta. — Bisogna muoversi con i tempi.

— Ne sono sicura. Non so perché. Il bricco è sul fuoco? — La vecchia allungò un braccio sul tavolo e tirò via il cappuccio di velluto dalla palla di cristallo dell’amica, una sfera di quarzo grossa come la sua testa.

— Non sono mai riuscita a cavarmela con questo dannato coso di silicone — dichiarò. — Quando ero ragazza, andava benissimo una ciotola d’acqua con dentro una goccia d’inchiostro. Vediamo un po’…

Scrutò il cuore danzante della sfera e cercò di servirsene per concentrare la sua mente sul luogo dove si trovava Esk. Nel migliore dei casi era rischioso usare una sfera di cristallo: fissarla voleva dire di solito che l’unica cosa garantita che ti riserbava il futuro era una forte emicrania. La Nonnina non se ne fidava perché riteneva che rientrasse nell’arte dei maghi. Per due soldi, così la pensava lei, quella disgraziata palla ti risucchiava la mente come un mollusco dalla sua conchiglia.

— Questo dannato oggetto è tutto una scintilla — si lamentò. Ci soffiò sopra e lo pulì con la manica. Hilta si chinò sulla sua spalla per guardare.

— Quella non è una scintilla, quella significa qualcosa — disse lentamente.

— Che cosa?

— Non sono sicura. Posso provare? Lei è abituata a me. — Spinse via un gatto dall’altra sedia e si chinò in avanti a scrutare nelle profondità del cristallo.

— Uhm… fa pure. Ma non troverai…

— Aspetta. Sta apparendo qualche cosa.

— Da qui sembra tutto scintillante — insisté la Nonnina. — Piccole luci argentee fluttuanti come in quei giocattoli, sai, una tempesta di neve in una bottiglietta. Davvero carino.

— Già, ma guarda bene oltre i fiocchi…

La vecchia guardò.

Ecco ciò che vide.

Si trovava molto in alto e sotto le si presentava una vasta distesa attraverso la quale scorreva tortuoso un grande fiume come un serpente ubriaco. In primo piano fluttuavano le luci argentee ma non erano, per così dire, che pochi fiocchi nella tempesta di luci che si avvitavano in una grande spirale pigra (paragonabile a un tornado geriatrico con un attacco di neve), per poi ricadere giù, giù sul paesaggio indistinto. Aguzzando la vista, la Nonnina riusciva a scorgere dei puntolini sul fiume…

Di tanto in tanto, una specie di lampo brillava per un attimo nel turbine delle pagliuzze.

La vecchia batté le palpebre e alzò gli occhi. La stanza sembrava molto buia.

Non sapendo che dire, osservò: — Un tempo strano. — Anche con gli occhi chiusi continuavano a danzarle davanti le pagliuzze luccicanti.

— Non credo che sia il tempo — disse Hilta. — In realtà una persona non è in grado di vederlo, è la sfera di cristallo che lo mostra. Credo che sia la magia, che si condensa fuori dell’aria.

— Dentro la verga?

— Sì. È questa l’opera della verga di un mago: distilla in qualche modo la magia.

La Nonnina si arrischiò a gettare un’altra occhiata alla palla di cristallo.

— Dentro Esk — azzardò.

— Sì.

— Sembra che ce ne sia un sacco.

— Sì.

La Nonnina desiderò, e non per la prima volta, di saperne di più sul modo in cui i maghi usavano la loro magia. Ebbe la visione di Esk che si riempiva di magia, finché ogni tessuto e ogni poro del suo corpo non ne erano saturati. Quindi la magia cominciava a uscirne, adagio dapprima, per trasformarsi poi, mano a mano, in grandi rovesci di potenzialità occulta. Capace di causare ogni sorta di danni.

— Accidenti — esclamò. — Non mi è mai piaciuta quella verga.

— Almeno la piccola si sta dirigendo verso il luogo dove c’è l’Università — la consolò Hilta. — Loro sapranno cosa fare.

— Può darsi. Secondo te, quanta strada hanno fatto sul fiume?

— Venti miglia o giù di lì. Quelle chiatte si spostano soltanto a passo d’uomo. Gli Zoon non hanno fretta.

— Bene. — La Nonnina si alzò, la mascella serrata in atto di sfida. Prese il cappello e raccolse la sacca contenente tutti i suoi beni.

— Ritengo di poter camminare più svelta di una chiatta. Il fiume fa una quantità di curve, io invece vado in linea retta.

— Hai intenzione di andarle dietro a piedi? — Hilta era esterrefatta. — Ma ci sono foreste e animali selvatici.

— Bene, non mi dispiacerebbe tornare alla civiltà. Lei ha bisogno di me. Quella verga le sta prendendo la mano. Dicevo che l’avrebbe fatto, ma qualcuno mi ha ascoltato?

— Lo hanno fatto? — chiese Hilta che ancora tentava di capire che cosa intendeva l’amica per ritorno alla civiltà.

— No — rispose fredda la Nonnina.


L’uomo si chiamava Amschat B’hal Zoon. Viveva sull’imbarcazione con le sue tre mogli e i tre figli. Era un Bugiardo.

Ciò che sempre irritava i nemici della tribù Zoon non era semplicemente la loro onestà, totale al punto da fare rabbia, ma il loro modo schietto di esprimersi. Gli Zoon non avevano mai sentito parlare di un eufemismo, né avrebbero saputo che farci se ne avessero avuto uno, salvo a definirlo senza dubbio "un modo carino di dire una cattiveria".

La loro rigida aderenza alla verità non era loro imposta da un dio (come generalmente è il caso), ma aveva una base genetica. Di regola uno Zoon non era capace di dire una bugia più di quanto fosse capace di respirare sott’acqua. Infatti, il concetto stesso bastava a sconvolgerli in maniera considerevole. Dire una Bugia equivaleva ad alterare totalmente l’universo.

Il fatto costituiva un certo handicap per una razza di commercianti. E così, nel corso dei millenni, gli anziani degli Zoon avevano studiato quello strano potere che gli altri possedevano in tale abbondanza, e avevano deciso che anche loro dovevano averlo.

I giovani che mostravano il minimo segno di tale talento venivano spronati, in occasione di speciali ricorrenze cerimoniali, a gareggiare nella distorsione della Verità. La prima protomenzogna registrata nella storia degli Zoon era stata: "Effettivamente, mio padre è molto alto". Ma alla fine, avendo capito il meccanismo, avevano istituito la carica di Bugiardo tribale.

Bisogna comprendere che, mentre la maggioranza degli Zoon è incapace di mentire, essi provano grande rispetto per lo Zoon in grado di affermare che il mondo è diverso da quello che è. E il Bugiardo gode di una posizione eminente. Egli rappresenta la sua tribù nei suoi contatti con il mondo esterno, che lo Zoon ordinario ha rinunciato da lungo tempo a capire. Le tribù Zoon sono molto fiere dei loro Bugiardi.

Tutto ciò irrita parecchio le altre razze. Per loro, gli Zoon avrebbero dovuto adottare titoli più adatti, quali "diplomatico" o "addetto alle pubbliche relazioni". Ritengono che quelli si facciano beffe delle convenienze.

— È tutto vero? — domandò sospettosa Esk, con uno sguardo alla cabina affollata.

— No — dichiarò Amschat. La moglie più giovane, che stava cucinando il porridge su un piccolo fornello elaborato, ridacchiò. I tre bambini fissavano solenni Esk al di sopra del bordo del tavolo.

— Tu non dici mai la verità?

— E tu? — La smorfia divertita dell’uomo mise in mostra una vera miniera d’oro, ma i suoi occhi non sorridevano. — Perché ti trovo sul mucchio della mia lana? Amschat non rapisce i bambini. Ci saranno delle persone a casa che si preoccupano, sì o no?

— Mi aspetto che la Nonnina verrà a cercarmi — rispose Esk — ma non credo che si preoccuperà molto. Immagino che sarà arrabbiata. Comunque, sono diretta a Ankh-Morpork. Puoi cacciarmi dalla nave…

— …barca…

— Se vuoi. Non m’importa del luccio.

— Non posso farlo — affermò Amschat.

— Era una bugia?

— No! Il paese intorno a noi è pericoloso, ladri e… altro.

Esk annuì tutta contenta. — Allora, è tutto a posto. Non mi da fastidio dormire sulla lana. E posso pagarmi il passaggio. Posso… — Esitò. La sua frase interrotta rimase sospesa nell’aria come una piccola voluta di cristallo, mentre la discrezione si aggiudicava il controllo della sua lingua. — … fare cose utili — concluse debolmente.

Si accorse che Amschat guardava di sottecchi la moglie più anziana, che stava cucendo vicino alla stufa. Secondo la tradizione Zoon, la donna vestiva soltanto di nero. La Nonnina l’avrebbe approvato incondizionatamente.

— Che genere di cose utili? — chiese l’uomo. — Lavare e spazzare, sì o no?

— Se vuoi — rispose Esk. — Oppure distillati usando il duplice o triplice alambicco, fare vernici, smalti, creme, fondere le varie cere, fabbricare candele, selezionare semi, radici e talee e tantissime preparazioni con le Otto Erbe Meravigliose; sono capace di filare, cardare, macerare e tessere sul telaio a mano e a pedali, lavorare a maglia se qualcuno mi mette la lana sui ferri; posso leggere il suolo e le rocce, fare piccoli lavori di falegnameria; predire il tempo facendo attenzione ai segnali degli animali e scrutando il cielo; badare alle api, fare cinque tipi d’idromele, fare tinture, acidi e pigmenti, incluso un azzurro molto resistente; sono capace di fare quasi tutti i lavori da stagnino, risuolare gli stivali, curare e lavorare moltissime pelli. E se avete delle capre, posso badarci io. Mi piacciono le capre.

Amschat la guardava pensieroso. La bambina capì che si aspettava che lei continuasse.

— Alla Nonnina non garba vedere le persone starsene sedute senza fare niente. Lei dice sempre che una ragazza che sa usare le mani, sarà sempre in grado di guadagnarsi da vivere — spiegò.

— O di trovarsi marito, immagino — osservò l’uomo.

— In effetti, la Nonnina aveva da dire molto su questo punto…

— Ci scommetto — disse Amschat, con un’occhiata alla moglie più anziana che annuì quasi impercettibilmente.

— Benissimo — riprese. — Se sei in grado di renderti utile, puoi rimanere. E sai suonare uno strumento?

Esk lo fissò a sua volta, senza battere ciglio. — Probabile.


E così Esk, con un minimo di difficoltà e un po’ di rimpianto, lasciò le Ramtop e il loro clima e si unì agli Zoon nel loro lungo viaggio sull’Ankh.

C’erano almeno trenta chiatte e su ognuna almeno una numerosa famiglia di Zoon. Nessuna delle imbarcazioni trasportava lo stesso carico. La maggior parte erano attaccate insieme e gli Zoon tiravano semplicemente il cavo e si trasferivano sul ponte della più vicina, quando gli veniva voglia di stare un po’ in compagnia.

Esk si sistemò tra la lana di pecora. Era un posticino caldo, odorava leggermente come il cottage della Nonnina e, cosa ancora più importante, le permetteva di essere indisturbata.

Cominciava a preoccuparsi un po’ della magia.

Che decisamente stava sfuggendo al suo controllo. Lei non faceva nulla di magico, ma la magia succedeva lo stesso intorno a lei. E capiva che se gli altri l’avessero saputo, probabilmente non ne sarebbero stati soddisfatti.

Per esempio, quando rigovernava, era obbligata a muovere rumorosamente le stoviglie e schizzare acqua dappertutto per nascondere il fatto che quelle si pulivano da sole. Se si metteva a rammendare, doveva farlo in un angolo riparato del ponte per nascondere il fatto che gli orli del buco si combaciavano perfettamente come per… come per magia. Poi, il secondo giorno del viaggio, svegliandosi aveva trovato che i bioccoli di lana intorno al posto dove aveva nascosto la verga durante la notte si erano pettinati, cardati e filati a formare ordinate matasse.

Scacciò dalla mente l’idea di accendere fuochi.

Trovava però altre compensazioni. A ogni pigra ansa del grande fiume brunastro si aprivano nuovi scenari. C’erano scure distese racchiuse tra fitte foreste, che la chiatta superava viaggiando al centro del fiume con gli uomini armati e le donne sotto coperta. A eccezione di Esk, che sedeva ad ascoltare attenta i fischi e le esclamazioni di disprezzo che li seguivano dal folto dei cespugli sulle sponde. C’erano dei tratti di terreno coltivato. C’erano diverse città più grandi di Ohulan. C’erano perfino delle montagne, sebbene fossero vecchie e piatte e non giovani e gaie come le sue montagne. Anche se non sentiva esattamente nostalgia di casa, qualche volta le sembrava di essere lei stessa una barca, trascinata all’estremità di una fune senza fine ma sempre attaccata a un’ancora.

Le chiatte si fermavano ad alcune di quelle città. Per tradizione, solo gli uomini scendevano a terra e il solo Amschat, in testa il suo cappello cerimoniale da Bugiardo, parlava con i non appartenenti agli Zoon. Di solito Esk lo accompagnava. Lui tentava di accennarle che avrebbe dovuto ubbidire alle leggi non scritte della vita degli Zoon e restare a bordo. Ma per Esk un semplice accenno equivaleva alla puntura di una zanzara per il rinoceronte. Lei, infatti, già cominciava a imparare che, se ignori le regole, quasi sempre gli altri le riscrivono così che esse non si applicano più a te.

Comunque, sembrava ad Amschat che quando era insieme a Esk, lui spuntava sempre un buon prezzo. C’era qualcosa in una ragazzina che li fissava decisa da dietro alle sue gambe, che induceva anche i mercanti più incalliti a concludere in fretta l’affare.

In realtà, la cosa cominciava a preoccuparlo. Quando, nella città di Zemphis cinta dalle mura, un sensale gli offrì un sacchetto di acquamarine in cambio di un centinaio di velli di pecora, una voce a livello della sua tasca disse: — Non sono acquamarine.

— Senti la ragazzina! — sogghignò il sensale.

Con aria solenne Amschat prese una delle pietre per esaminarla. — La ascolto — disse — e in effetti sembrano acquamarine. Ne hanno la lucentezza e lo scintillio.

Esk scosse la testa. — Sono soltanto imitazioni — affermò. Lo disse senza pensarci e subito lo rimpianse perché i due uomini si volsero a fissarla.

Amschat rigirò la pietra nel palmo della mano. Mettere delle pietre cangianti in una scatola con delle gemme vere in modo che sembrassero cambiare colore era un trucco tradizionale. Ma quelle avevano all’interno il fuoco azzurro genuino. Scrutò il volto del sensale. Amschat era stato ottimamente addestrato nell’arte della Bugia. Ora che ci pensava, ne riconosceva i segni sottili.

— Pare che ci sia un dubbio — disse — ma è presto risolto. Non c’è che da portarle dallo stimatore perché tutti sanno che queste imitazioni si dissolverebbero nel liquido epatico, sì o no?

Il sensale esitava. Amschat si era leggermente spostato e il suo atteggiamento suggeriva che bastava un improvviso movimento da parte sua per ritrovarsi steso nella polvere. E quella dannata ragazzina lo fissava come se potesse leggere i suoi più reconditi pensieri. Il coraggio lo abbandonò.

— Mi rincresce per questo sfortunato incidente — dichiarò. — Avevo accettato in buona fede le pietre come acquamarine. Ma, piuttosto che creare un disaccordo tra noi, ti chiederò di gradirle come… come un dono. E quanto alla lana, posso offrirti questa rosetta di prima scelta?

Estrasse da un sacchetto di velluto una piccola pietra rossa. Senza nemmeno guardarla, ma senza distogliere i suoi occhi dall’uomo, Amschat la passò a Esk. Lei fece cenno di sì.

Quando il mercante si fu allontanato, lo Zoon prese per mano la bambina e la trascinò al banco dello stimatore, poco più di una nicchia nel muro. Il vecchio prese la più piccola delle pietre azzurre, ascoltò le affrettate spiegazioni di Amschat, versò in una coppetta un po’ di fluido epatico e vi immerse la pietra. Che schiumeggiò e si dissolse.

— Molto interessante — disse. Prese con le pinzette un’altra pietra e la esaminò con la lente.

— Sono veramente delle imitazioni, ma molto ben fatte — concluse. — Non sono affatto senza valore e io, per esempio, sarei pronto a offrirti… Che cosa hanno gli occhi della bambina?

Lo Zoon diede una gomitata a Esk, che smise di sperimentare un altro Sguardo.

— Ti offrirei, diciamo, due zais d’argento?

— Diciamo cinque? — ribatté Amschat in tono amabile.

— E a me piacerebbe tenere una delle pietre — interloquì Esk.

Il vecchio alzò le mani. — Ma sono semplici curiosità! Di valore soltanto per un collezionista!

— Un collezionista potrebbe venderle a un ignaro acquirente come le migliori rosette o acquamarine — osservò Amschat — specialmente se lui fosse l’unico stimatore della città.

Dopo qualche protesta da parte del vecchio, finalmente si accordarono per tre zais e una delle pietre con una sottile catenina d’argento per Esk.

Quando non furono più a portata di voce, Amschat le porse le monetine d’argento, dicendole: — Queste sono tue. Te le sei guadagnate. Ma… — si chinò finché i suoi occhi furono all’altezza di quelli di lei — mi devi dire come sapevi che le pietre erano false.

Sembrava ansioso di saperlo, ma Esk capiva che in realtà non avrebbe gradito conoscere la verità. La magia metteva le persone a disagio. Non gli sarebbe piaciuto sentirsi rispondere semplicemente: "le imitazioni sono imitazioni e le acquamarine, acquamarine, e anche se per te sembrano le stesse, questo succede perché quasi tutti non usano i loro occhi nel modo giusto; nulla può nascondere del tutto la propria vera natura".

Invece disse: — I nani estraggono queste pietre vicino al villaggio dove sono nata e si impara presto a vedere come cambiano di colore secondo la luce.

Dopo averla fissata ancora per un po’, lo Zoon alzò le spalle.

— Okay. Bene. Ho ancora degli affari da concludere qui. Perché non ti compri degli abiti nuovi o qualche altra cosa? Ti metterei in guardia contro i commercianti senza scrupoli ma, non so, non credo che ti caccerai nei guai.

Esk annuì. L’altro si allontanò per la piazza del mercato. Al primo angolo si girò, la guardò pensieroso, quindi scomparve tra la folla.

"Be’" si disse la piccola "ecco la fine della mia navigazione. Lui non ne è proprio certo, ma sicuramente adesso mi sorveglierà e, prima che me ne accorga, mi porterà via la verga e ci saranno ogni sorta di guai. Perché tutti si fanno sconvolgere dalla magia?"

Con un sospiro pieno di filosofia, si diede a esplorare le possibilità della città.

Rimaneva, però, la questione della verga. Lei l’aveva conficcata bene tra le balle di lana che ancora non sarebbero state scaricate. Se tornava a cercarla, gli altri si sarebbero messi a fare domande, e lei non conosceva le risposte.

Trovato un vicolo che faceva al caso suo, lo percorse veloce finché non trovò un portone che le garantiva la privacy necessaria.

Se tornare alla chiatta era fuori questione, non rimaneva che una cosa. Allungò una mano e chiuse gli occhi.

Sapeva esattamente cosa voleva fare. Se lo vedeva davanti agli occhi. La verga non doveva arrivare volando, distruggendo la chiatta e attirando l’attenzione. Lei voleva soltanto provocare un piccolo cambiamento nel modo in cui il mondo era organizzato. Non un mondo dove la verga stava nascosta nella lana, ma un mondo dove stesse nelle sue mani. Un piccolo cambiamento, un’alterazione infinitesimale nel Modo di Essere delle Cose.

Se Esk avesse ricevuto il corretto addestramento nell’arte dei maghi, avrebbe saputo che ciò era impossibile. Ogni mago sapeva come spostare gli oggetti, cominciando dai protoni in su. Ma, secondo la fisica elementare, l’importante nel muovere un oggetto dall’A alla Z era che. a un certo punto, si doveva passare attraverso il resto dell’alfabeto. Il solo modo perché un oggetto svanisse ad A e comparisse a Z, sarebbe stato scompigliare la Realtà stessa. Il pensiero rifuggiva dai problemi che ciò avrebbe causato.

Esk, naturalmente, non era stata addestrata. Ed è noto che un ingrediente vitale del successo è non sapere che è impossibile fare ciò che si tenta. La persona che ignori le possibilità di fallire può costituire un serio ostacolo sul sentiero della bicicletta della storia.

Durante gli sforzi della bambina per spostare la verga, le onde si propagavano nell’etere magico e causavano nel mondo-Disco una miriade di minutissimi mutamenti, di cui la maggior parte andò ignorata. Forse sulle spiagge qualche granellino di sabbia cambiò appena di posizione o una foglia rimase appesa al ramo in modo marginalmente diverso. Ma poi l’onda della probabilità investì il confine della Realtà e rimbalzò come il fango fuori dalla riva dello stagno. Così, incontrando le onde pigre provenienti dalla direzione opposta, causò piccoli ma importanti vortici nel tessuto dell’esistenza. Si possono avere vortici nel tessuto dell’esistenza, perché è un tessuto assai strano.

Naturalmente Esk ignorava tutto questo, ma fu molto soddisfatta quando dall’aria la verga le cadde in mano.

La sentì calda.

La guardò per un po’ e capì che doveva fare qualcosa: era troppo grossa, troppo appariscente, troppo imbarazzante. Attirava l’attenzione.

— Se ti porto ad Ankh-Morpork — disse a voce alta e con fare pensieroso — ci devi andare camuffata.

Gli ultimi pochi sprazzi di magia volteggiavano intorno alla verga e si spensero.

Alla fine Esk trovò una soluzione al problema immediato. Scovò nella principale piazza del mercato di Zemphis un negozietto che vendeva delle scope. Comperò la più grossa, se la riportò sotto il portone, tolse il manico e infilò con forza la verga nella saggina. Non le sembrava giusto trattare in quel modo un nobile oggetto e lei se ne scusò in silenzio.

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