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Il sovrintendente al porto affidò Farr a due Szecr di basso rango con mostrine gialle e oro.

— Da questa parte, per favore.

Salirono una rampa e si fermarono sotto un’arcata che aveva la parete di vetro.

Farr si fermò per osservare la piantagione, mentre le guide si mostravano impazienti di andare avanti.

— Se Farr Sainh vuole…

— Un momento — rimbeccò Farr irritato. — Non c’è fretta.

Alla sua destra si estendeva la città, un’intricata foresta di svariate forme e colori. Nello sfondo crescevano le modeste case operaie a tre baccelli appena visibili dietro il magnifico sfoggio delle case dei piantatori, degli Szecr, dei coltivatori e degli sradicatori che si stendevano lungo la laguna. Tutte queste case erano diverse una dall’altra, allevate e foggiate secondo tecniche segrete che gli Iszici non rivelavano nemmeno ai loro compatrioti.

Farr le trovava bellissime, ma di una bellezza strana che lo infastidiva, come talvolta dà fastidio al palato un sapore nuovo. Pensò che fosse l’ambiente a influenzare il suo giudizio. Le case isziche risultavano abitabili, sulla Terra, ma qui erano nel loro ambiente naturale e tutte le stranezze di quel bizzarro pianeta derivavano dalla sua stranezza fondamentale.

Farr guardò con attenzione i campi che si estendevano a perdita d’occhio alla sua sinistra, alternando distese grigie, marroni, grigioverdi, verdi, secondo l’età e la varietà delle piante. Ogni pianta era dotata di una lunga e bassa rimessa in cui si faceva la cernita e si spedivano le sementi mature in tutto l’Universo.

I due Szecr cominciarono a borbottare nella lingua della loro casta e Farr si staccò dalla finestra.

— Da questa parte, Farr Sainh.

— Dove andiamo?

— Siete ospite di Zhde Patasz Sainh.

“Benone!” pensò Farr. Aveva studiato le case esportate sulla Terra, quelle di categoria AA vendute da K. Penche, e si rendeva conto che non avrebbero potuto reggere al confronto con quelle che i piantatori allevavano per loro uso personale.

Notando che i due Szecr, immobili come statue, fissavano il pavimento, domandò: — Che cosa succede?

I due ansimavano. Farr guardò a sua volta il pavimento: una vibrazione, un rombo lontano. “Un terremoto!” pensò Farr. Il rumore andò aumentando e le vetrate tintinnarono. Farr capì che stava per succedere qualcosa di terribile. Guardò oltre la vetrata e vide nel campo più vicino la terra sollevarsi e spaccarsi come per effetto di un’esplosione, proiettando ovunque teneri virgulti e sementi Un muso di metallo sbucò dall’apertura incominciando a salire… tre metri… sei metri. Una porta si spalancò con rumore metallico, e uomini bassi, bruni e muscolosi si riversarono nei campi mettendosi rapidamente a sradicare i virgulti. Sulla soglia, un uomo dai lineamenti tesi impartiva ordini incomprensibili.

Farr fissava la scena affascinato: era una scorreria in grande stile, una rapina mai vista. Da Tjiere si udirono risuonare dei corni e si sentì pure il sinistro sibilo dei raggi mortali. Due predoni, da bruni, divennero rossi. L’uomo che impartiva ordini urlò qualcosa e tutti si affrettarono a rientrare nel muso metallico.

Il portello si richiuse con violenza, ma uno degli scorridori non era stato abbastanza svelto: picchiò coi pugni sulla porta, ma invano. Stringendo nel pugno i germogli che aveva appena strappato, continuò a picchiare preso dal panico.

Il muso incominciò a vibrare, sollevandosi ancor più dalla buca. Dal forte di Tjiere stavano lanciando piastre di metallo. Nella fiancata del mostro si aprì un’apertura rotonda e un’arma sconosciuta vomitò una fiamma azzurra. Un albero enorme, a Tjiere, ondeggiò e si abbatté di schianto. I due Szecr caddero in ginocchio, annichiliti.

Dalle rovine dell’albero, dai suoi grandi baccelli, dalle foglie-terrazza, dalle liane, dai terrazzi eleganti erano precipitati con la casa-albero decine di corpi di Iszici. Intanto, l’uomo bruno che continuava invano a sperare di poter risalire a bordo, scalciava nel vuoto mentre il muso metallico continuava a innalzarsi. Era questione di attimi, fra poco tutto lo scafo sarebbe uscito dal sottosuolo, e l’apparecchio avrebbe decollato come una freccia nello spazio.

Farr alzò gli occhi al cielo. Tre apparecchi da caccia, brutti, goffi e pesanti, simili a scotpioni di metallo, stavano scendendo in picchiata.

Un raggio mortale scavò un cratere vicino allo scafo. L’uomo bruno era appeso al portello, a venti metri dal suolo. Roteò tre volte su se stesso, e ricadde pesantemente di schiena.

Lo scafo cominciò a vibrare dapprima adagio, poi sempre più forte. Un altro raggio lo colpi sulla prua con uno schianto di metallo lacerato. Un altro ancora sollevò nubi di terriccio che lo ricoprirono.

I due Szecr s’erano rialzati, e, fissando il campo devastato, gridavano in una lingua incomprensibile. Uno afferrò Farr per un braccio.

— Venite. Dobbiamo portarvi al sicuro. Pericolo! Pericolo!

Farr si liberò dalla stretta. — Aspetterò qui.

— Farr Sainh, Farr Sainh — lo implorarono. — Abbiamo ordine di mettervi al sicuro!

— Qui sono al sicuro — insisté lui. — Voglio stare a guardare.

I tre caccia erano ormai sopra al cratere.

— Penso che i rapinatori ce la facciano! — osservò Farr.

— No! È impossibile — gridò uno degli Szecr. — Sarebbe la fine di Iszm!

Dal cielo scese un apparecchio più piccolo degli altri tre, che somigliava a una vespa. Si posò sul cratere e incominciò ad affondare, come uno scandaglio. Pochi attimi dopo era scomparso vibrando e ronzando sottoterra.

Lungo l’arcata arrivarono correndo una dozzina d’uomini, e Farr si accodò a essi, d’impulso, ignorando i due Szecr.

Gli Iszici attraversarono il campo, sempre di corsa, diretti al cratere, tallonati da Farr. Quando oltrepassarono il corpo dell’uomo bruno che era precipitato, Farr si fermò. Lo sconosciuto era alto, di fattezze leonine, con capelli folti, simili a una criniera e lineamenti marcati. Stringeva ancora nel pugno gli arbusti che aveva sradicato. Le dita si schiusero, inerti, proprio mentre Farr gli si fermava accanto e, contemporaneamente, l’uomo aprì gli occhi. Farr si chinò, diviso fra la compassione e la curiosità, ma subito fu afferrato da mani robuste. Voltatosi, scorse mostrine gialle e verdi e visi furibondi con labbra pallide tese su denti aguzzi.

— Lasciatemi andare! Lasciatemi andare! — gridò Farr dibattendosi mentre lo trascinavano via dal campo. Ma le mani degli Szecr affondarono ancor più duramente nelle sue braccia e nelle sue spalle. Parevano in preda a una muta pazzia furiosa, e Farr capì che era meglio tacere.

Di sotterra provenne un rombo sordo e continuo, poi il terreno si sollevò.

Gli Szecr trascinavano Farr verso Tjiere, e Farr tentava di opporre resistenza, dibattendosi e facendo forza coi piedi. Ma qualcosa di molto pesante lo colpì alla nuca, e, mezzo intontito, rinunciò infine a resistere. I suoi guardiani lo condussero sino a un albero isolato, vicino alla scogliera di basalto. Era un albero molto vecchio, col tronco nero e contorto, un pesante ombrello di foglie e pochi baccelli logori. Nel tronco si apriva un foro irregolare, nel quale gli Szecr spinsero Farr senza tante cerimonie.

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