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A bordo dell’Ares, l’ufficio del Comandante era stato progettato per contenere tre uomini al massimo, quando la forza di gravità era in atto, ma c’era spazio più che sufficiente per sei quando la nave si trovava in un’orbita libera. Ci si poteva allora accomodare sulle pareti o sul soffitto, secondo i gusti. Tutti i componenti del gruppo raccolti intorno al capitano Norden, tranne uno, erano già stati nello spazio altre volte, e sapevano quello che ci si attendeva da loro, ma questa volta non si trattava di una riunione di normale amministrazione. Il volo inaugurale di una nuova astronave era sempre una solennità, e l’Ares era la prima astronave del suo genere; infatti era la prima nave spaziale costruita unicamente per il trasporto passeggeri, anziché per il solo carico. Era stata concepita con l’intento di trasportare un equipaggio di trenta uomini e circa centocinquanta passeggeri, i quali avrebbero potuto usufruire di comodità definibili, al massimo, spartane. Ma al suo primo viaggio le proporzioni si erano quasi invertite, e attualmente un equipaggio di soli sei uomini stava aspettando che salisse a bordo il loro unico passeggero.

«Io non ho ancora capito bene» disse Owem Bradley, lo specialista in elettronica «che cosa ce ne faremo di quello lì una volta che l’avremo a bordo.»

«Stavo appunto per parlarvene» disse il capitano Norden. «Immagino che conosciate tutti il signor Gibson.»

La domanda suscitò un coro di risposte.

«Io ho l’impressione che i suoi libri siano scemenze belle e buone» disse il dottor Scott. «Gli ultimi, perlomeno. Polvere marziana non era male, ma è completamente superato.»

«Storie!» protestò Mackay, l’astronomo. «Gli ultimi racconti sono di gran lunga i migliori! Adesso Gibson s’interessa finalmente solo alle cose fondamentali.»

Un tale scoppio d’indignazione da parte del mite scozzese era inconsueto, ma prima che qualcuno potesse controbattere, il capitano Norden riprese: «Se non vi dispiace, non ci siamo raccolti qui per fare i critici letterari. Avremo tempo d’avanzo per questo in seguito. Ci sono un paio di punti che la Società vuole che vi chiarisca prima che si cominci. Il signor Gibson è un personaggio molto importante, un ospite di riguardo, ed è stato invitato a compiere questo viaggio perché possa poi parlarne al ritorno. Non è il solito banale trucco pubblicitario: noi stiamo effettivamente facendo la storia, e il nostro viaggio inaugurale dovrebbe essere esaltato degnamente. Perciò cercate di comportarvi come gentiluomini, almeno per un po’ di tempo: il libro di Gibson si venderà probabilmente con una tiratura di mezzo milione di copie, e la vostra reputazione avvenire può dipendere dal comportamento che terrete nei prossimi tre mesi.»

«Tutto questo mi sa maledettamente di ricatto» disse Bradley.

«Prendetela come vi pare» riprese Norden sorridendo. «Naturalmente spiegherò a Gibson che non potrà aspettarsi il servizio che avremo in seguito, quando a bordo ci saranno camerieri, e cuochi, e chissà quanta altra grazia di Dio.»

«Credete che ci aiuterà a lavare i piatti?» domandò qualcuno.

Ma prima che Norden potesse occuparsi di questo problema, dal quadro di comunicazione venne uno sfrigolio, e una voce cominciò a parlare attraverso la grata del citofono.

«Qui stazione numero uno: pronto Ares? Il vostro passeggero sta arrivando.»

Norden innestò una spina e rispose: «Va bene, lo aspettiamo.»


Martin Gibson si sentiva ancora alquanto euforico per aver superato l’ostacolo maggiore: l’ufficiale medico della stazione spaziale numero uno.

La perdita di gravità nel lasciare la stazione e nel passare sull’Ares entro il minuscolo carrello azionato ad aria compressa non gli aveva dato nessun malessere, ma lo spettacolo che si offrì ai suoi occhi appena entrato nella cabina del capitano Norden lo fece restare per un attimo col fiato sospeso. Anche quando ogni forza di gravità era scomparsa, ci si ostinava ugualmente a immaginare una direzione in basso, e sembrava naturale supporre che la superficie cui erano uniti tavolo e seggiole fosse il pavimento. Però i presenti sembravano pensarla diversamente, perché due membri dell’equipaggio penzolavano come stalattiti dal soffitto, mentre altri due si riposavano a mezz’aria agli angoli della stanza. Soltanto il capitano manteneva, secondo le concezioni di Gibson, la posizione giusta. A peggiorare le cose, la rapatura a zero dava a quegli uomini, di solito più che presentabili, una espressione vagamente sinistra, cosicché l’intero quadro offriva l’aspetto di una riunione di famiglia al Castello di Dracula.

«Questo» disse il capitano Norden, percorrendo con lo sguardo la cabina da sinistra a destra «è il mio ufficiale di macchina, tenente Hilton. Questo è il dottor Mackay, il nostro ufficiale di rotta… dottore in fisica, non medico, come quest’altro, il dottor Scott. Il tenente Bradley è il nostro specialista in elettronica, e Jimmy Spencer, che vi è venuto incontro all’uscita dal compartimento stagno, è la nostra riserva, e spera di diventare comandante d’astronave, quando sarà un po’ cresciuto.»

Gibson fissò il piccolo gruppo con una certa sorpresa. Erano così pochi… cinque uomini e un ragazzo! La sua faccia dovette tradire il suo pensiero perché il capitano Norden rise.

«Non siamo in molti, vero?» disse. «Ma non dimenticate che questa nave è pressoché automatica e d’altronde nello spazio non succede mai niente. Quando inizieremo il servizio passeggeri regolare l’equipaggio sarà di trenta uomini.»

Gibson fissò con attenzione quei sei che sarebbero stati i suoi unici compagni nei tre mesi successivi. Il primo impulso (non si fidava mai dei primi impulsi ma se li annotava con cura) fu di sorpresa per il loro aspetto tanto comune, se si lasciavano da parte particolari trascurabili come la loro posizione e la temporanea calvizie.

A un cenno che Gibson non avvertì, gli altri si congedarono lanciandosi con precisione e senza sforzo attraverso il passaggio aperto. Il capitano Norden si rimise a sedere e offrì a Gibson una sigaretta. Lo scrittore l’accettò un po’ incerto.

«Si può fumare?» chiese. «Non c’è pericolo, fumando, di sprecare ossigeno?»

«Succederebbe un ammutinamento se dovessi proibire il fumo per tre mesi consecutivi» disse Norden ridendo. «D’altronde il consumo di ossigeno è trascurabile.»

Gibson pensò che il capitano Norden non si adattava affatto al quadro che lui si era immaginato. Il Comandante di un transatlantico spaziale, secondo la migliore o perlomeno la più popolare tradizione letteraria, avrebbe dovuto essere un veterano coi capelli brizzolati e l’occhio acuto, che avesse passato metà della propria esistenza nell’etere e potesse navigare attraverso il sistema solare a fiuto.

Invece il comandante dell’Ares era certamente sotto i quaranta, e avrebbe potuto benissimo venire scambiato per un dirigente d’industria.

«Dunque, non siete mai stato nello spazio prima d’ora?» chiese Norden, fissando il suo passeggero.

«No, purtroppo. Ho tentato varie volte di salire sulla Luna, ma se non si hanno ragioni di affari è assolutamente impossibile. È un vero peccato che i viaggi spaziali siano ancora così tremendamente cari.»

Norden sorrise e deviò il discorso.

«Qui a bordo dell’astronave, tutto si chiude quando è notte. Ci pensano gli strumenti a fare tutto mentre noi dormiamo e così non siamo costretti a un continuo servizio di guardia e di osservazione. Ecco uno dei motivi che permette l’impiego di pochi uomini. In questo viaggio, poiché di spazio ce n’è finché se ne vuole, abbiamo ciascuno la nostra cabina separata. La vostra è una normale cabina per passeggeri: la sola che sia in ordine, tra l’altro. Spero che vi troverete bene. Il vostro bagaglio è già tutto a bordo? Quanto vi hanno lasciato portare?»

«Un centinaio di chili. È ancora nel compartimento stagno.»

«Cento chili!» Norden non riuscì a nascondere del tutto la sua sorpresa. Quello doveva aver deciso di emigrare per sempre e di portare con sé tutti i beni di famiglia! Norden aveva l’orrore congenito del vero astronauta per l’eccedenza di peso, ed era convintissimo che Gibson si fosse tirato dietro un sacco di roba inutile.

«Vi farò accompagnare nella vostra cabina da Timmy. Per questo viaggio lui sarà il vostro uomo tutto fare: così si guadagna il passaggio e impara qualche nozione di volo spaziale. Quasi tutti cominciano così, impegnandosi nei viaggi lunari durante le vacanze universitarie. Jimmy è un ragazzo molto in gamba. Ha già superato gli esami del second’anno.»

Ormai Gibson si stava abituando anche all’idea che il suo cameriere di cabina fosse un laureando. Segui Jimmy, che sembrava straordinariamente intimidito dalla sua presenza, verso il reparto passeggeri. Scivolavano come fantasmi lungo i corridoi vivamente illuminati che erano stati dotati di un accorgimento molto semplice ma che aveva contribuito largamente a rendere la vita più confortevole a bordo delle astronavi prive di forza di gravitazione. A pochi centimetri da ciascuna parete girava a velocità costante un nastro mobile munito a intervalli regolari di maniglie. Bastava allungare una mano e aggrapparsi alle maniglie per percorrere, senza il minimo sforzo, lunghi tratti. Occorreva soltanto una certa pratica agli incroci, per passare da una fascia all’altra.

La cabina era piccola, ma geniale nella sua impostazione, e arredata con ottimo gusto. Un gioco ingegnoso di luci e le pareti ricoperte di specchi davano l’illusione che fosse molto più spaziosa di quello che era in realtà, e il letto a perno poteva essere ribaltato durante il giorno, per servire da tavolo. Ben poco restava a ricordare la mancanza di gravitazione.

Gibson trascorse l’ora successiva a sistemare le Sue cose e a giocherellare incuriosito con gli aggeggi e gli interruttori disseminati un po’ ovunque nella cabina. Ma il congegno che gli piacque di più fu uno specchio che, sollecitato in modo misterioso dalla pressione di un pulsante, si trasformava in un boccaporto dal quale si potevano ammirare le stelle. Si chiese come diavolo funzionasse.

Dopo un tempo imprecisato una serie di colpi discreti alla porta della cabina risvegliò bruscamente Gibson dal sonno in cui era sprofondato.

Si vide davanti Jimmy Spencer, un poco ansimante.

«Il capitano vi manda i suoi omaggi, signore, e vi chiede se desiderate assistere alla partenza.»

«Certo!» disse Gibson. «Aspetta che vado a prendere la macchina fotografica.»

Riapparve un attimo dopo con una Leica nuova fiammante che suscitò l’invidia di Jimmy, equipaggiata com’era di lenti, obiettivi ed esposimetro. Nonostante tutti quegli ingombri, riuscirono ugualmente a raggiungere abbastanza in fretta il ponte d’osservazione che correva come una fascia circolare intorno alla fusoliera dell’Ares.

Per la prima volta Gibson poté vedere le stelle in tutto il loro splendore, non più appannate dall’atmosfera o dai vetri scuri, poiché si trovava sul lato notturno dell’astronave e i vetri filtranti erano stati tolti. Contrariamente alla stazione spaziale, l’Ares non girava su un proprio asse ma era mantenuta ferma dal sistema di giroscopi, cosicché le stelle apparivano fisse e immobili nel cielo.

La stazione spaziale numero uno era un complicato giocattolo pulito e lucente che fluttuava nel nulla a pochi metri oltre il finestrino. Non c’era modo di giudicarne la distanza o le dimensioni, poiché la sua sagoma non aveva niente di familiare e il senso della prospettiva sembrava totalmente abolito. Terra e Sole erano entrambi invisibili, nascosti dietro la massa della nave.

Gibson trasalì al suono improvviso e vicinissimo di una voce disincarnata che uscì da un microfono nascosto.

«Mancano cento secondi al lancio. Tutti ai propri posti, per favore.»

Involontariamente Gibson s’irrigidì e si volse a Jimmy per averne un consiglio, ma prima che potesse formulare una domanda qualsiasi, la sua guida disse in fretta: «Devo tornare al mio posto» e scomparve con un elegante tuffo ad angelo, lasciando Gibson solo con i suoi pensieri.

«Venti secondi alla partenza. Occorreranno circa dieci secondi per acquistare la spinta necessaria…»

«Dieci secondi…»

«Cinque secondi, quattro, tre, due, uno…»

Con estrema dolcezza qualcosa afferrò Gibson e lo fece scivolare lungo il lato curvo della parete traforata del boccaporto verso quello che a un tratto era diventato il pavimento.

Fu difficile rendersi conto del ritorno all’alto e al basso e ancora più difficile collegare la loro ricomparsa con il tuono distante, soffocato, che aveva rotto improvvisamente il silenzio della nave, lontano, nella seconda sfera rappresentante l’altra metà dell’Ares, nel mondo misterioso e proibito di atomi morenti e di macchine automatiche dove nessun uomo poteva entrare e restare vivo, dove si erano scatenate le forze che avevano soggiogato le stelle stesse. Non si ebbe però quel senso di crescente, spietata accelerazione che sempre accompagna il decollo di un razzo a propulsione chimica. L’Ares aveva a disposizione lo spazio senza limiti entro cui manovrare: poteva prendersi tutto il tempo che voleva per uscire dalla sua orbita attuale ed entrare lentamente nella traiettoria iperbolica che l’avrebbe portata su Marte. In ogni caso, la potenza sconfinata della propulsione atomica poteva spostare la sua massa di duemila tonnellate con l’accelerazione di un solo decimo di gravità, o addirittura di un ventesimo, come in quel momento. I congegni a propulsione atomica operavano a temperature talmente alte che era possibile servirsene solo a bassi regimi energetici. Questo era uno dei motivi che rendeva impossibile il loro uso per brevi percorsi. Ma a differenza dei razzi chimici, a limitata autonomia, potevano mantenere il loro impulso per molte ore consecutive.

A Gibson non occorse molto per orientarsi. L’accelerazione della nave era talmente lenta (calcolò che a lui ne venisse un peso effettivo inferiore ai quattro chilogrammi), che i suoi movimenti erano tuttora praticamente illimitati. La stazione spaziale numero uno non si era mossa dalla sua posizione apparente, e lui dovette aspettare quasi un minuto prima di accorgersi che l’Ares stava veramente allontanandosi anche se con estrema lentezza. A un tratto si ricordò della sua macchina fotografica e si diede da fare per riprendere la partenza. Quando ebbe finalmente sistemato (così almeno sperava) il complesso problema della giusta esposizione per fotografare un oggetto piccolo e vividamente illuminato contro uno sfondo nero come inchiostro, la stazione era già a distanza notevole. In meno di dieci minuti diventò un lontano punto luminoso, appena discernibile dalle stelle.

Quando la stazione spaziale numero uno fu totalmente scomparsa Gibson girò sul lato diurno della nave per scattare qualche fotografia della Terra in fase di allontanamento. La prima volta che l’aveva vista gli era apparsa come una mezzaluna sottile e immensa, troppo grande perché l’occhio potesse abbracciarla tutta con un solo sguardo. Adesso, mentre l’osservava, vide che stava lentamente aumentando ancora di dimensioni. L’Ares infatti doveva compiere ancora un giro almeno, prima di staccarsene e partire a spirale verso Marte. Ci sarebbe voluta un’altra ora, prima che la Terra cominciasse sensibilmente a rimpicciolire.

Gibson era ancora al suo posto di osservazione quando, più di un’ora dopo, l’Ares raggiunse finalmente la velocità di fuga che le era necessaria per liberarsi della forza gravitazionale terrestre. Non era possibile dire quando quel momento fosse venuto, perché la Terra continuava a dominare tutto il cielo e dai motori giungeva sempre lo stesso suono rombante lontano e soffocato. Ci sarebbero volute ancora dieci ore di funzionamento continuo prima che il compito dei motori fosse finito e si potesse spegnerli per tutto il resto del viaggio.

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