Henry Kuttner Mimetizzazione

Talman era tutto sudato quando raggiunse il numero 16 di Knobhill Road. Fu con uno sforzo che premette la piastra di chiamata. Vi fu un sordo ronzio mentre le fotoelettriche controllavano e approvavano le sue impronte; infine la porta si aprì e Talman si addentrò nel corridoio in penombra. Guardò dietro di sé, là dove, dietro le colline, le luci dello spazioporto formavano un basso e pulsante alone.

Andò avanti; discese una rampa e si trovò in una stanza comodamente arredata, dove un uomo grasso, dai capelli grigi, sedeva in una poltrona giocherellando con un bicchiere pieno di whisky allungato col seltz. La voce di Talman suonò tesa, quando disse: «Ciao, Brown. Tutto bene?»

Un sogghigno si disegnò sulle guance cadenti di Brown. «Certo», replicò. «E perché no? La polizia non ti sta dando la caccia, vero?»

Talman si sedette e cominciò a prepararsi un drink, scegliendo dal vassoio lì accanto. Il suo volto sottile e sensibile si era incupito.

«Non ci si può mettere a discutere con le proprie ghiandole. In ogni caso, questo è l’effetto che lo spazio fa a me. Sin da quando ho lasciato Venere, aspetto che qualcuno mi si avvicini e mi dica: “La vogliono per interrogarla”».

«Nessuno l’ha fatto».

«Non sapevo cosa avrei trovato qui».

«La polizia non si aspettava che ci dirigessimo sulla Terra», obbiettò Brown, dandosi un’aggiustata ai capelli grigi. «Ed è stata un’idea tua».

«Già. Consulente di psicologia per…»

«… per criminali. Vuoi lasciare?»

«No», ribatté Talman, esplicito. «No, coi profitti che ci sono già in vista. Questa faccenda è grossa».

Brown sogghignò. «Certo che è grossa. Nessuno ha mai organizzato il crimine prima d’oggi in questo modo. Prima di noi, al confronto, non c’era nessun crimine che valesse una cartina di spilli».

«Tuttavia, come ci ritroviamo, adesso? Dobbiamo scappare».

«Fern ha trovato un nascondiglio assolutamente sicuro».

«Dove?»

«Nella Cintura degli Asteroidi. Ma ci serve ancora una cosa».

«Che cosa?»

«Una centrale atomica».

Talman lo fissò sbalordito. Ma vide che Brown non stava scherzando. Un attimo dopo mise giù il bicchiere e lo fissò torvo.

«Ma è impossibile. Una centrale atomica è troppo grossa».

«Già», annuì Brown, «salvo che, questa starà già viaggiando nello spazio, diretta a Callisto».

«Un dirottamento? Non abbiamo abbastanza uomini…»

Talman tirò indietro la testa: «Uh. È fuori dal mio campo…»

«Ci sarà un equipaggio minimo, naturalmente. Ma ci occuperemo noi di loro… e prenderemo il loro posto. Poi, dovremo soltanto staccare il transplant e inserire i comandi manuali. Non è affatto fuori dal tuo campo. Fern e Cunningham possono occuparsi degli aspetti tecnici, ma prima dobbiamo scoprire quanto possa essere pericoloso un transplant».

«Non sono un ingegnere».

Brown proseguì, ignorando l’interruzione. «Il transplant incaricato di questo trasporto su Callisto un tempo era Bart Quentin. Tu lo conoscevi, vero?»

Talman, colto di sorpresa, annuì. «Certo. Anni fa. Prima che…»

«Tu sei pulito, per ciò che riguarda la polizia. Va’ a trovare Quentin. Tiragli fuori tutte le informazioni che puoi. Scopri… Cunningham ti dirà quello che devi scoprire. Dopo saremo in grado di procedere. Spero».

«Non so. Non sono…»

Brown aggrottò le sopracciglia. «Dobbiamo trovare un nascondiglio. Ora è d’importanza vitale. Altrimenti, tanto vale che entriamo nella più vicina stazione di polizia e ci facciamo ammanettare. Siamo stati in gamba, ma adesso… dobbiamo nasconderci. E in fretta».

«Be’… questo l’ho capito. Ma tu sai cos’è veramente un transplant?»

«Un cervello libero. In grado di manovrare congegni artificiali».

«Da un punto di vista strettamente tecnico, sì. Hai mai visto un transplant che fa funzionare una scavatrice? Oppure una draga venusiana? Comandi d’una incredibile complessità che richiederebbero altrimenti una dozzina di uomini?»

«Vuoi dirmi che un transplant è un superuomo?»

«No», replicò Talman, lentamente, «non intendo dir questo. Ma ho idea che sarebbe più sicuro inguaiarsi con dodici uomini che con un solo transplant».

«Be’», riprese Brown, «tu ora andrai a Quebec a trovare Quentin. Ho scoperto che adesso si trova là. Ma prima parla con Cunningham. Studieremo ogni dettaglio. Dobbiamo soprattutto conoscere le capacità di Quentin e i suoi punti vulnerabili. E se è o no telepatico. Tu sei un vecchio amico di Quentin, e sei anche uno psicologo, perciò sei il tipo adatto per questo lavoro».

«Già».

«Dobbiamo impadronirci di quella centrale. Perché dobbiamo nasconderci… subito!»

Talman pensò che con ogni probabilità Brown aveva progettato tutta quella faccenda fin dall’inizio. Quell’uomo grasso era molto furbo; era stato abbastanza intelligente da rendersi conto che dei criminali comuni non avrebbero avuto nessuna possibilità in un mondo altamente tecnico e specializzato. Le forze di polizia potevano fare appello alle più svariate scienze per chiedere aiuto. Le comunicazioni erano ottime e veloci anche da un pianeta all’altro. C’erano congegni d’ogni tipo… L’unica possibilità di commettere con successo un crimine era di farlo in fretta e di darsi subito alla fuga.

Ma un crimine doveva esser progettato con cura. Quando si entra in competizione con un’unità sociale organizzata qual è la società umana, come ogni delinquente fa, è saggio procurarsi un’organizzazione di pari efficacia. Un’anitra non ha nessuna possibilità davanti a un fucile. Un bandito tutto muscoli è condannato al fallimento per lo stesso motivo. Le tracce da lui lasciate verrebbero analizzate con le tecniche più sottili; la chimica, la criminologia e la psicologia lo braccherebbero senza lasciargli scampo; e finirebbe comunque per confessare, senza nessun terzo grado. Per cui…

Così, Cunningham era un ingegnere elettronico. Fern era astrofisico. Talman era un psicologo. Il grosso e biondo Dalquist era un cacciatore, per libera scelta e professione, incredibilmente veloce e preciso con la pistola. Cotton era matematico… e Brown in persona era il coordinatore. La combinazione aveva funzionato alla perfezione per tre mesi, su Venere. Poi, com’era inevitabile, la rete si era chiusa su di loro. Ma la banda era riuscita a scivolar via tra le maglie e a rifugiarsi sulla Terra, pronta a compiere il passo successivo in quel piano dettagliato a lungo raggio. A tutt’oggi Talman non sapeva quale fosse questo piano. Ma poteva facilmente intuirne la sua logica.

Nell’immensa desolazione della cintura degli Asteroidi avrebbero potuto, se necessario, nascondersi per sempre, uscendone per fare un colpo tutte le volte che se ne offriva l’opportunità. Laggiù, al sicuro, avrebbero potuto creare un’organizzazione criminale clandestina, con un’efficiente rete d’informazione, stesa fra i pianeti… Sì, era uno sviluppo inevitabile. Però, si sentiva ugualmente incerto, ed esitante, alla prospettiva di misurare il suo intelletto contro quello di Bart Quentin. Quell’uomo… non era più umano.


Continuò ad esser preoccupato sulla via di Quebec. Per quanto fosse abituato ad affrontare ogni tipo di gente, non poteva fare a meno di sentirsi teso e imbarazzato in previsione dell’incontro con Quentin. Fingere d’ignorare quell’… incidente… sarebbe stato troppo ovvio. Tuttavia… Ricordò che sette anni prima Quentin aveva posseduto un fisico aitante e muscoloso, ed era stato orgoglioso della sua abilità di ballerino. In quanto a Linda, si chiese cosa ne fosse stato. Viste le circostanze, non poteva essere ancora la moglie di Bart Quentin. Oppure si?

Fece passare lo sguardo sul San Lorenzo, una striscia d’argento opaco, che scivolò sotto l’aereo quando questo s’inclinò per l’atterraggio. Piloti robot… un sottile raggio-guida. Soltanto durante le tempeste più violente i piloti umani prendevano i comandi. Nello spazio era una faccenda diversa. C’erano altre funzioni, di enorme complessità, per le quali un cervello umano era inadeguato. A meno che non fosse un cervello d’un tipo molto speciale…

Un cervello come quello di Quentin.

Talman si sfregò la mascella ed ebbe un pallido sorriso, cercando di localizzare la fonte di tutte le sue preoccupazioni. E finalmente colse la risposta. Quent, nella sua nuova incarnazione, possedeva più di cinque sensi? Era forse in grado d’individuare reazioni inavvertibili a un uomo normale? Se era così, Van Talman poteva considerarsi sconfitto ancora prima di cominciare.

Guardò Dan Summers, della Wyoming Engineers, seduto al suo fianco, attraverso il quale aveva preso contatto con Quentin. Summers, un giovanotto biondo, gli occhi circondati da una rete di rughe sottili create dal sole, ebbe un sogghigno d’intesa.

«Nervoso?»

«Forse un po’», annui Talman. «Mi stavo chiedendo quanto possa esser cambiato».

«I risultati sono diversi da caso a caso».

L’aereo, guidato dal raggio, scivolò giù attraverso l’aria tinta dai colori del tramonto, in direzione dell’aeroporto. Le torri illuminate di Quebec si stagliavano all’orizzonte.

«Suppongo che, fisicamente, debbano cambiare per forza. Mentalmente… Lei è uno psicologo, signor Talman. Come si sentirebbe, se…»

«Potrebbero esserci compensazioni».

Summers scoppiò a ridere. «Bell’eufemismo, questo. Compensazioni… diamine, l’immortalità è soltanto una di queste… compensazioni!»

«La considera una benedizione?» chiese Talman.

«Ma si, certamente. Rimarrò all’apice delle sue capacità per chissà quanto tempo. Non soffrirà di nessun deterioramento. I veleni della fatica eliminati automaticamente per irradiazione. Certo, le cellule del cervello non possono rinnovarsi allo stesso modo… diciamo… del tessuto muscolare; ma il cervello di Quent non può venir danneggiato in quella sua robusta custodia, fabbricata apposta. L’arteriosclerosi non rappresenta nessun problema per il tipo speciale di plasma che usiamo… non c’è calcio che si depositi sulle pareti interne delle arterie. La condizione fisica del suo cervello viene controllata in maniera perfetta, e automatica. Le uniche afflizioni di cui Quent potrà mai soffrire sono mentali».

«E la claustrofobia? No. Mi ha detto che possiede lenti con le funzioni degli occhi. Grazie a queste, deve possedere, automaticamente, una sensazione di spazio».

Summers disse: «Se dovesse notare qualche cambiamento — oltre alla normale evoluzione mentale di questi sette anni — m’interesserebbe molto. In quanto a me… be’, io sono cresciuto fra i transplant. Non sono conscio dei loro corpi meccanici intercambiabili più di quanto un medico non lo sia, quando pensa ad un amico come ad un fascio di muscoli, vasi sanguigni e nervi. È la facoltà raziocinante che conta, e quella non è. cambiata».

Talman fece, soprappensiero: «Lei è una specie di medico, per i transplant, in ogni caso. Un profano potrebbe avere un altro tipo di reazione. Specialmente se è abituato a vedere… un viso».

«Non sono mai stato conscio di quella mancanza».

«E Quent?»

Summers esitò. «No», disse infine, «sono sicuro di no. Si è adattato benissimo. Il riadattamento alla vita di un transplant dura un anno, e dopo tutto fila liscio come il velluto».

«Ho visto dei transplant al lavoro, su Venere, da lontano. Ma non se ne vedono molti fuori dalla Terra».

«Non abbiamo abbastanza tecnici addestrati. Letteralmente, ci vuole metà di una vita per addestrare un uomo a lavorare sui transplant. Bisogna essere ingegneri elettronici qualificati ancora prima di cominciare». Summers scoppiò a ridere. «Tuttavia le compagnie di assicurazione coprono molte delle spese iniziali».

Talman lo fissò perplesso: «Come mai?»

«Fanno polizze sui rischi da lavoro… l’immortalità. Lavorare nella ricerca atomica è pericoloso, amico mio!»

Uscirono dall’aereo, nell’aria fresca della notte. Mentre si avvicinavano a un tassì in attesa, Talman disse: «Siamo cresciuti insieme, Quentin ed io. Ma il suo incidente è accaduto due anni dopo da quando avevo lasciato la Terra, e non l’ho più rivisto da allora».

«Come transplant? Uhm… Certo, è un appellativo infelice, questo. Qualche idiota incompetente ci ha appiccicato quest’etichetta, mentre avrebbero dovuto essere gli esperti delle relazioni pubbliche a scovare un nome adatto. Per colmo di sfortuna, quell’appellativo ha fatto presa. Col tempo, speriamo di rendere popolari i… transplant. Ma non è ancora possibile. Siamo appena all’inizio. Ne abbiamo soltanto duecentotrenta, adesso. Quelli che hanno avuto successo».

«Molti fallimenti?»

«Non più adesso. Ma quando abbiamo cominciato… È una faccenda complicata, sa? Dalla prima trapanazione del cranio fino all’energizzazione finale e al ricondizionamento, è l’impresa tecnica più difficile, complessa, estenuante, che la mente umana abbia mai elaborato. Conciliare un meccanismo colloidale con una rete di collegamenti elettronici… ma il risultato ne vale la pena».

«Psicologicamente, vuol dire? Be’… Quentin potrà parlarle di questo aspetto. E in quanto all’aspetto tecnologico, lei non ne conosce neanche la metà. Nessuna macchina colloidale complessa come un cervello umano è stata mai costruita… finora. Non è una questione soltanto meccanica. È un miracolo vero e proprio, questa combinazione d’un tessuto vivente intelligente con dei congegni artificiali che rispondono alla perfezione».

«Ma avrà pur sempre dei limiti, quelli della macchina… e del cervello».

«Vedrà. Eccoci arrivati. Ceneremo con Quent…»

Talman sbarrò gli occhi. «Cenare?»

«Già». Gli occhi di Summers mostrarono un’espressione divertita. «No, non mangia trucioli d’acciaio. In effetti…»


Lo shock d’incontrare di nuovo Linda colse Talman di sorpresa. Non si era aspettato di vederla. Non adesso, in quelle condizioni così diverse. Ma lei non era cambiata granché, era sempre la stessa donna piena di calore, amichevole, proprio come la ricordava, anche se adesso era un po’ più vecchia, ma sempre molto graziosa, adorabile. Aveva sempre avuto fascino. Era snella e alta, la sua testa coronata da una bizzarra pettinatura spiraleggiante, color miele ambrato. I suoi occhi castani non avevano la tensione che Talman si era aspettato di trovarvi.

Le strinse una mano. «Non dirlo», esclamò. «So quanto tempo è passato».

«Non conteremo gli anni, Van». Alzò gli occhi a fissarlo, sorridendo. «Riprenderemo dal punto esatto dove c’eravamo interrotti. Con un drink, no?»

«Uno lo berrei volentieri», annuì Summers, «ma devo tornar subito a rapporto al quartier generale. Mi basterà parlare con Quentin solo per un minuto. Dov’è?»

«Là dentro». Linda gl’indicò una porta con un cenno del capo, e tornò a rivolgersi a Talman: «Così, sei stato su Venere? Ti sei sbiancato un bel po’, non c’è che dire. Raccontami com’è andata».

«Si». Prese lo shaker dalle mani di lei e, agitò con cura i Martini. Provava imbarazzo. Linda sollevò le sopracciglia.

«Sì, siamo ancora sposati Bart ed io. Sei sorpreso?»

«Un po’».

«È ancora Bart», lei spiegò, con calma. «Può anche non sembrarlo, sulle prime, ma è proprio l’uomo che ho sposato. Perciò puoi rilassarti, Van».

Verso i Martini. Senza guardarla, disse: «Fintanto che tu sei soddisfatta…»

«So cosa stai pensando. Che è come avere per marito una macchina. Sulle prime… be’, ho superato quella sensazione. Dopo un po’, ci siamo riusciti entrambi. Certo, sulle prime è stato necessario uno sforzo; immagino che anche tu dovrai farlo per adattarti, quando lo vedrai, all’inizio. Ma questo non è importante, te lo garantisco. Lui è… Bart». Spinse un terzo bicchiere verso Talman, e lui la guardò sorpreso.

«Non…»

Linda annui.


Cenarono insieme, tutti e tre. Talman scrutò il cilindro di settanta centimetri per settanta, davanti a lui, adagiato sul tavolo, e cercò di leggervi la personalità e l’intelligenza attraverso le sue doppie lenti. Non poté fare a meno d’immaginarsi Linda nelle vesti d’una sacerdotessa al servizio d’una qualche immagine di divinità aliena, e l’idea lo inquietò. Adesso Linda stava infilando forchettate di gamberetti in salsa in un piccolo scomparto metallico, tirandoli fuori col cucchiaio quando il segnalatore gliel’indicava.

Talman si era aspettato una voce piatta e senza toni, ma il sonovox dava profondità e timbro, tutte le volte che Quentin parlava.

«Quei gamberetti… puoi mangiarli senz’altro, Van. È soltanto l’abitudine che mi fa buttar fuori il cibo dopo averlo avuto per un po’ nell’apposito scomparto. Certo, l’assaggio… ma non ho saliva».

«L’as… l’assaggi».

Quentin scoppiò a ridere. «Senti, Van. Non cercar di fingere che tutto questo è per te del tutto naturale. Dovrai abituartici».

«A me ci è voluto parecchio tempo», interloquì Linda. «Ma dopo un po’ mi sono scoperta a pensare che era proprio il genere di sciocchezza che Bart aveva sempre avuto l’abitudine di fare. Ricordi quella volta che indossasti quell’armatura per la riunione del consiglio d’amministrazione a Chicago?»

«Be’, volevo dimostrare qualcosa», disse Quentin. «Mi sono dimenticato cos’era, ma… stavamo parlando del sapore. Posso gustare questi gamberetti, Van. Certe sfumature mi mancano, è vero. Le sensazioni più delicate per me sono perdute. Ma posso gustare qualcosa di più del dolce, dell’amaro, del salato e dell’acido. Le macchine erano in grado di assaporare diversi gusti già anni or sono».

«Ma non c’è digestione…»

«Ma neanche mal di pancia. Ciò che perdo in raffinatezza del gusto lo guadagno con la libertà dai disordini gastrointestinali».

«E neanche rutti più», commentò Linda. «Grazie a Dio».

«E posso anche parlare a bocca piena», aggiunse Quentin. «Ma non sono il cervello col corpo da supermacchina al quale tu stai pensando dentro di te, vecchio mio. Io non sputo fuori raggi della morte».

Talman sogghignò, a disagio: «Stavo pensando questo?»

«Scommeto di si. Ma…» il timbro della sua voce cambiò. «Non sono super. Sono del tutto umano, dentro, e non credere che a volte non senta la mancanza dei vecchi tempi. Starmene disteso sulla spiaggia a sentire il sole sulla mia pelle… piccole cose del genere. Ballare al ritmo della musica, e…»

«Tesoro», disse Linda.

La voce tornò a cambiare. «Già. Sono quelle piccole cose banali che rendono completa una vita. Ma adesso ho delle compensazioni… fattori paralleli. Reazioni del tutto impossibili da descrivere, poiché sono… diciamo… vibrazioni elettroniche invece dei familiari impulsi neurali. Ho i sensi, ma attraverso organi meccanici. E quando i loro impulsi raggiungono il mio cervello, vengono automaticamente tradotti nei simboli familiari. Oppure…» Esitò. «Non proprio così, adesso».

Linda infilò un pezzo di pesce guarnito nel compartimento del cibo. «Ci diamo arie, vero?»

«No, in verità qualcosa è cambiato… ma non mi sto dando arie, amor mio. È una semplice constatazione. Capisci, Van: quando mi trovai ad essere un transplant, all’inizio, non avevo nessun punto di riferimento se non quelli, convenzionali, che avevo sempre avuto. Ma erano adatti soltanto a un corpo umano. Quando avvertivo l’impulso proveniente da una macchina scavatrice, lo sentivo istintivamente come se avessi il mio piede sull’acceleratore. Adesso, quei vecchi simboli stanno svanendo. Io sento, adesso… in modo più diretto, senza dover tradurre gli impulsi nelle immagini d’un tempo».

«Dovrebbe essere più veloce», commentò Talman.

«Lo è. Non devo più pensare al valore di “pi greco” quando ricevo un segnale “pi greco”. Non devo più scomporre l’equazione nei suoi fattori e risolverla. Comincio a percepire l’equazione, e i suoi valori, in blocco».

«Una sintesi completa con la macchina?».

«Ma non sono un robot. Ciò non influenza l’identità, la quintessenza di ciò che è Bart Quentin». Vi fu un breve silenzio, e Talman colse una rapida occhiata di Linda al cilindro. Poi, Quentin continuò sullo stesso tono: «Ricavo una grande soddisfazione, quando risolvo dei problemi. Per me, è sempre stato così. E adesso, non devo neppure servirmi dell’intermediario della carta e penna: svolgo tutto dentro di me, dall’inizio alla fine. Sono io che colgo, subito, ogni possibile applicazione, e… Van, sono io la macchina!»

«La macchina?»

«Non hai mai notato, quando guidi, o piloti, fino a qual punto finisci per identificarti con la macchina? È un’estensione di te stesso. Io vado un passo più in là. E ne provo una grande soddisfazione. Supponi di poter spingere l’empatia al limite estremo e essere uno dei tuoi pazienti, mentre risolvi il suo problema? È, sì… un’estasi».

Talman fissò Linda che stava versando del Sauterne in una diversa cavità del cilindro. «Ti prendi ancora delle ubriacature?» gli chiese.

Linda rise: «Non di alcool… ma Bart si ubriaca lo stesso, se è per questo!»

«E come?»

«Cerca d’indovinarlo», disse Quentin, compiaciuto.

«L’alcool viene assorbito dal sangue, raggiungendo così il cervello… l’equivalente d’una endovenosa, forse?»

«Preferirei mettere il veleno del cobra nel mio sistema circolatorio», replicò il transplant. «Il mio equilibrio metabolico è troppo delicato, è organizzato in modo troppo perfetto per sconvolgerlo introducendo sostanze estranee. No, uso stimoli elettrici… una corrente indotta ad alta frequenza che mi fa volare ai sette cieli».

Talman lo fissò: «Ed è un sostituto?»

«Lo è. Il fumo e le bevande sono degli irritanti, Van. Lo è anche il pensare, per questo! Quando sento il bisogno fisico di far bisboccia, ho un congegno che mi fornisce un’irritazione stimolante… e sono pronto a scommettere che ci ricavo una scossa maggiore di quella che tu proveresti da una dose di mescalina».

«Sta citando Housman», disse Linda. «E, lo sai?, fa le imitazioni degli animali. Col suo controllo tonale, Bart è una meraviglia». Si alzò in piedi. «Se volete scusarmi per un po’, malgrado abbia una cucina automatica, ho sempre dei pulsanti da pigiare».

«Posso aiutarti?» si offri Talman.

«Grazie, no. Rimani qui con Bart. Vuoi che t’innesti le braccia, caro?»

«No», rispose Quentin. «Van può occuparsi della mia dieta liquida. E… affretta i tempi, Linda. Summers ed io dobbiamo tornar subito al lavoro».

«L’astronave è pronta?»

«Quasi».

Linda si fermò un attimo sulla soglia, mordendosi le labbra. «Non mi abituerò mai all’idea che tu sia in grado di manovrare una nave spaziale tutto da solo, soprattutto quella».

«Anche se è destinata a quest’unica missione, ce la farò lo stesso ad arrivare su Callisto».

«Be’… c’è pur sempre un equipaggio, sia pur minimo, no?»

«C’è», confermò Quentin, «ma non serve. Sono le compagnie d’assicurazione che esigono un equipaggio d’emergenza. Summers ha fatto un ottimo lavoro, riuscendo ad attrezzare la nave in sole sei settimane».

«Con qualche gancio e un po’ di gomma americana», osservò Linda. «Spero soltanto che non si sfasci tutto a mezza strada». Uscì, mentre Quentin scoppiava a ridere. Poi ci fu un breve silenzio. E fu allora che, mai come prima, Talman sentì che il suo amico era… si, era cambiato. Poiché si accorse che Quentin lo fissava… e Quentin non era là.

«Brandy, Van», disse la voce. «Versane un po’ nel mio scomparto».

Talman face per obbedire, ma Quentin lo fermò. «Non dalla bottiglia. È passato un bel po’ da quando ho mescolato rum e coca nella mia bocca. Usa l’inalatore. Ecco… così. Bevi anche tu e dimmi come ti senti».

«A proposito di che…?»

«Non lo sai?»

Talman si avvicinò alla finestra e restò lì a fissare il riflesso di tante luci sulle acque del San Lorenzo. «Sette anni, Quent. È difficile abituarsi a te, in questa… forma».

«Non ho perso niente».

«Neppure Linda», disse Talman. «Sei fortunato».

Quentin replicò con calma: «Mi è rimasta vicina. L’incidente, cinque anni fa, mi distrusse. Mi ero lasciato coinvolgere nella ricerca atomica, e c’erano rischi che bisognava correre. Fui straziato, maciullato dall’esplosione. Non credere che Linda ed io non l’avessimo previsto. Conoscevamo i rischi di quel lavoro».

«E tuttavia, tu…»

«Pensavamo che il nostro matrimonio sarebbe durato, anche se… Ma dopo, mi trovai quasi ad insistere perché divorziasse. Ma Linda mi convinse che potevamo ancora provarci. E l’abbiamo fatto».

Talman annui: «Direi di sì».

«Ed è stato questo», proseguì Quentin, con voce sommessa, «che mi ha consentito di andare avanti. Tu sai cosa provavo per Linda. È sempre stata un’equazione pressoché perfetta. Anche se i fattori sono cambiati, abbiamo saputo adattarci». L’improvvisa risata di Quentin fece voltare di scatto Talman. «Non sono un mostro, Van. Cerca di vincere quell’idea!»

«Non l’ho mai pensato», replicò Talman. «Tu sei…»

«Cosa?»

Di nuovo silenzio. Quentin grugnì.

«In cinque anni ho imparato a osservare come la gente reagisce in mia presenza. Dammi un altro po’ di brandy. Immagino ancora di gustarlo col mio palato. È strano come queste associazioni mentali persistano».

Talman versò dell’altro brandy nell’inalatore. «Così, sei convinto di non essere cambiato, se non nell’aspetto fisico».

«E tu m’immagini come un cervello nudo in un cilindro di metallo. Non come il tizio con cui avevi l’abitudine di ubriacarti sulla Terza Strada. Oh, sono cambiato… certo. Ma è un cambiamento che rientra nella normalità. Non c’è niente di alienante nel possedere gambe e braccia metalliche. È soltanto un passo più in là che guidare un’auto o comandare una qualunque macchina. Se fossi davvero quel tipo di supercongegno che tu ti immagini nel tuo subconscio, sarei completamente chiuso in me stesso e passerei la mia intera vita a elaborare e risolvere equazioni cosmiche». Quentin se ne uscì in un’esclamazione volgare. «E se lo facessi, impazzirei. Giacché non sono un superuomo. Sono un tizio normale, un fisico, e ho dovuto abituarmi a un nuovo corpo. Che, naturalmente, ha i suoi inconvenienti».

«Quali, per esempio?»

«I sensi. O la mancanza di essi. Ho contribuito a mettere a punto un bel po’ di apparecchiature compensatorie. Leggo romanzi d’avventure, mi ubriaco di stimolazioni elettriche, e assaporo i cibi, anche se non posso mangiarli. Guardo i programmi televisivi. Cerco per quanto possibile di conservare l’equivalente di tutti i piaceri umani puramente sensori. Serve a creare un equilibrio che è senz’altro indispensabile».

«Parrebbe. Ma funziona?»

«Senti un po’. Possiedo occhi d’una straordinaria sensibilità anche alle minime sfumature cromatiche. Ho delle braccia accessorie che sono delicate al punto da consentirmi di manipolare oggetti di dimensioni microscopiche. Posso disegnare e… sotto pseudonimo, sono un vignettista molto popolare. Lo faccio come attività collaterale. Perché il mio vero lavoro è ancora la fisica. È tuttora un ottimo lavoro. Conosci la sensazione di puro piacere che provi quando hai risolto un problema, di geometria, elettronica o psicologia… un problema, insomma? Adesso risolvo problemi infinitamente più complicati, che oltre ai calcoli in sé esigono reazioni d’una frazione di secondo. Come ad esempio, manovrare da solo una nave spaziale. Altro brandy, per favore. Evapora troppo in fretta, al calore di questa stanza».

«Sei ancora Bart Quentin», dichiarò Talman, «ma sono più convinto di questo quando tengo gli occhi chiusi. Manovrare una nave spaziale…»

«Non ho perso niente di umano», insisté Quentin. «Le emozioni fondamentali non sono cambiate. Non… non è proprio piacevole, per me, che tu te ne stia lì a guardarmi con autentico orrore, ma me ne faccio una ragione. Siamo stati amici per molto tempo, Van. Potresti dimenticartene tu, per primo, e non io».

Talman avvertì all’improvviso una stretta allo stomaco. Ma, nonostante le parole di Quentin, era convinto di avere ormai trovato buona parte delle risposte alle domande per cui era venuto a Quebec. Diventare un transplant non conferiva nessun potere anormale… non c’erano funzioni telepatiche.

Ma c’erano altre domande da fare. Sì, certo.

Versò dell’altro brandy e sorrise al cilindro che luccicava sull’altro lato del tavolo, davanti a lui. Sentiva Linda cantare sommessa in cucina.


La nave spaziale non aveva nessun nome, e per due ragioni. Una, perché avrebbe fatto soltanto quest’unico viaggio a Callisto; l’altra era più strana. Sostanzialmente, non era una nave che trasportava un carico, ma il carico stesso era la nave.

Le centrali atomiche sono delle dinamo che, per quanto grosse, possono essere smontate e imballate pezzo su pezzo e distribuite su dei camion o dei vagoni ferroviari. Sono monoblocchi ciclopici, voluminosi e massicci. Ci vogliono due anni per costruire un generatore atomico, e poi dev’essere portato al punto critico sulla Terra; negli enormi impianti standardizzati di controllo che coprono sette contee della Pennsylvania. Il Dipartimento Pesi e Misure ed Energia possiede una sbarra di metallo in una bacheca di vetro a temperatura rigorosamente costante a Washington: è il metro-standard. Allo stesso modo, in Pennsylvania, c’è, protetto da eccezionali misure di sicurezza, l’unico generatore-standard d’energia atomica di tutto l’intero sistema solare.

Il combustibile nucleare doveva obbedire a un solo requisito: esser filtrato attraverso una griglia metallica dalle maglie del diametro d’un paio di centimetri: una misura arbitraria, che contribuiva, comunque, a dare un minimo di uniformità ai carburanti. Per il resto, qualunque sostanza andava bene per produrre energia atomica.

Poche persone, comunque, accettavano di lavorare con l’energia atomica, qualcosa di troppo violento e pericoloso. I tecnici vi lavoravano a rotazione, per turni brevissimi. E anche così, soltanto la garanzia dell’immortalità sotto forma di transplant impediva che le neurosi sfociassero in aperta pazzia.

La centrale destinata a Callisto era troppo grossa per essere caricata anche nelle navi più grandi di qualunque linea commerciale, ma doveva a tutti i costi esser portata a destinazione. Così, i tecnici avevano costruito una nave intorno alla centrale. Non era proprio un lavoro raffazzonato alla bell’e meglio, ma certo il risultato era insolito. Il profilo era parecchio diverso da quello di ogni altra nave, e ogni esigenza particolare — e se ne erano presentate molte — era stata affrontata e risolta con parecchia ingegnosità, magari in modo tutt’altro che ortodosso. Dal momento che il completo controllo sarebbe stato affidato al transplant Quentin, non si era posta granché cura per gli alloggi del piccolo equipaggio di emergenza. Questi uomini non avrebbero affatto dovuto aggirarsi per l’intera nave, a meno che un guasto non l’avesse reso necessario, e un guasto era quasi impossibile. In pratica il vascello era un’unica entità vivente… ma non del tutto.

Il transplant aveva ogni tipo d’estensioni, collegate ad ogni singolo apparato della grande nave, nelle sue diverse sezioni, per tutte le più svariate funzioni. Gli erano stati staccati tutti gli apparati sensori, tranne la vista e l’udito, poiché Quentin, in quel viaggio, sarebbe stato soltanto il controllo propulsivo della nave… una sorta di superpilota per una nave d’eccezione. Il cilindro col cervello fu portato a bordo da Summers il quale lo inserì… da qualche parte! Quando ebbe finito di collegarlo, la costruzione della nave poté dirsi conclusa.


La nave decollò a mezzanotte in punto per Callisto.

A un terzo del percorso verso l’orbita di Marte, sei uomini in tuta spaziale sbucarono in una grande sala che sembrava uscita dall’incubo di un tecnico.

Da un altoparlante alla parete la voce di Quentin chiese: «Cosa stai facendo qui, Van?»

«Oh, bene», disse Brown. «Ci siamo. E adesso facciamo in fretta. Cunningham, tu individua i collegamenti. Dalquist, tienti pronto con la pistola».

«Cosa devo cercare?» domandò il gigante biondo.

Brown lanciò un’occhiata a Talman: «Sei certo che non sia in grado di muoversi?»

«Ne sono certo», confermò Talman, muovendo gli occhi nervosamente. Si sentiva nudo, esposto com’era allo sguardo di Quentin, e questo non gli piaceva.

Cunningham, scarno, rugoso, disse, accigliandosi: «L’unica mobilità è nella propulsione stessa. Ne ero convinto ancora prima che Talman controllasse. Quando un transplant viene innestato per un lavoro, i suoi utensili sono unicamente quelli per il lavoro che deve compiere».

«Bene. Non perdete tempo in chiacchiere. Interrompete il circuito».

Cunningham aguzzò gli occhi attraverso il visore del casco. «Un momento. Questa non è l’attrezzatura standardizzata. È sperimentale… diversa. Devo prima rintracciare… uhm».

Talman, furtivamente, stava cercando d’individuare le lenti dell’organo della vista del transplant, ma non ci riuscì. Sapeva che in qualche punto di quel labirinto di cavi, tubi, griglie, magneti, valvole e ogni altro marchingegno messo su dai tecnici, Quentin teneva lo sguardo puntato su di lui. Anzi, non da un solo punto, ma da parecchi… Quentin doveva avere una visione d’assieme, con occhi distribuiti in modo strategico in tutta la sala.

Ed era davvero grande, quella sala dei controlli. La luce era d’un giallo fosco. Aveva l’aspetto d’una cattedrale aliena, torreggiante, così alta e spoglia, che finiva per ridurre le dimensioni dei sei uomini a quelle di sorci. Sotto i loro piedi, enormi, spoglie piastre metalliche ronzavano e vibravano; sopra di esse, grandi lampade fluorescenti irradiavano quella luce arcana. Sopra le loro teste, lungo le pareti, correva una lunga e stretta piattaforma metallica; alta sei metri da terra, era cinta da una bassa ringhiera. Due scalette ai lati opposti della sala consentivano di salirvi. Un globo azzurro era sospeso in alto, e l’aria, dal vago sentore di cloro, pulsava d’una grande, mormorante energia.

L’altoparlante disse ancora: «Questa è pirateria».

Brown replicò, in tono disinvolto: «La chiami pure così. E si metta tranquillo. Non le faremo del male. Potremo perfino rispedirla sulla Terra, se riusciremo a escogitare un modo sicuro per farlo».

Cunningham stava esaminando una griglia di lucite, stando bene attento a non toccarla. Quentin disse: «Non vale la pena dirottare questo cargo. Non sto trasportando radium, sapete».

«Mi serve una centrale atomica», replicò Brown, asciutto.

«Come avete fatto a salire a bordo?»

Brown sollevò una mano per asciugarsi il sudore dalla fronte, fece una smorfia e non rispose. «Trovato niente, ancora, Cunningham?»

«Dammi tempo. Sono soltanto un tecnico elettronico. Quest’impianto sembra fatto da un pazzo. Fern, viene qui a darmi una mano».

Talman sentì crescere il disagio. Si era accorto che Quentin, dopo il primo commento sorpreso, l’aveva ignorato… Un indefinibile, irrefrenabile impulso lo spinse ad alzare il capo e a fare il nome di Quentin.

«Dunque?» rispose Quentin. «Fai parte della banda?»

«Si».

«E laggiù, a Quebec, sei venuto a strapparmi informazioni. Ad accertarti che fossi innocuo».

Talman parlò, sforzandosi perché la sua voce non tremasse: «Dovevamo esserne certi».

«Capisco. Come avete fatto a salire a bordo? Il radar segnala subito qualunque massa in avvicinamento. Non avreste potuto abbordarmi nello spazio con la vostra nave».

«Non l’abbiamo fatto. Abbiamo eliminato l’equipaggio d’emergenza e ci siamo impadroniti delle loro tute».

«Eliminato?»

Talman girò gli occhi verso Brown. «Che altro potevamo fare? È un gioco troppo grosso, questo, per le mezze misure. Più tardi avrebbero costituito un pericolo per noi, al momento di dare praticamente inizio al nostro piano. Nessuno ne saprà mai niente, salvo noi. E tu».

Talman lanciò un’altra occhiata a Brown. «Quent, credo che farai meglio a passare dalla nostra parte».

L’altoparlante ignorò ogni minaccia implicita in quel suggerimento.

«Perché volete la centrale atomica?»

«Abbiamo scelto un asteroide», spiegò Talman, piegando di nuovo la testa all’indietro scrutando la grande cavità labirintica della nave, che pareva quasi ondeggiare tra foschi vapori velenosi. Si aspettava che Brown l’interrompesse, ma il grassone non parlò. Talman pensò che era stranamente difficile parlare in modo persuasivo con qualcuno di cui non si conosceva l’ubicazione. «L’unico guaio è che su un asteroide non c’è aria. Con la centrale atomica potremo produrcela da noi. E sarebbe un miracolo se qualcuno riuscisse a scoprire il nostro rifugio, nella Cintura degli Asteroidi».

«E poi, cosa? Pirateria?»

Talman non rispose. L’altoparlante disse pensieroso: «Sì, certo, potrebbe uscirne un bel racket. Per un po’, almeno. Quel tanto che basta a metter su un bel gruzzolo. Nessuno si aspetterà niente del genere… Sì, certo. Potreste ricavarne parecchio da questa vostra idea».

«Bene», fece Talman. «E se pensi questo, qual è il successivo passo, secondo logica?»

«Non quello che pensi tu. Non intendo stare al vostro gioco. Non tanto per ragioni morali, ma per motivi di autoconservazione. Per voi, sarei inutile. Soltanto in una civiltà ampia e complessa c’è bisogno di transplant. Per voi, sarei soltanto bagaglio superfluo».

«Se ti dessi la mia parola che…»

«Non sei tu il pezzo grosso», ribatté Quentin. Talman lanciò istintivamente un’altra occhiata interrogativa a Brown. E dall’altoparlante uscì un suono strano, come una risata soffocata.

«D’accordo», disse Talman, scrollando le spalle. «È naturale che tu non sia disposto a decidere subito a nostro favore. Pensaci su. Ricorda che non sei più Bart Quentin… hai certi impedimenti meccanici. Non abbiamo molto tempo, ma possiamo sempre concedertene un po’, diciamo dieci minuti, mentre Cunningham dà un’occhiata in giro. Poi… be’, qui non stiamo giocando a palline, Quent». Strinse le labbra. «Se passerai dalla nostra parte e guiderai la nave secondo i nostri ordini, potremo permetterci di lasciarti vivere. Ma devi decidere in fretta. Cunningham sta per snidarti. E quando avrà preso i comandi…»

«Cosa ti fa sentire tanto sicuro che io possa venir rintracciato?» gli chiese con calma Quentin. «So quanto varrebbe la mia vita una volta che vi avessi fatto atterrare dove volete. No, finirei senz’altro per raggiungere i sei uomini dell’equipaggio che avete liquidato. Vi darò io un’ultimatum».

«Tu… cosa?»

«State buoni e non mettetevi a pasticciare con niente, e vi farò atterrare su un punto isolato di Callisto, dandovi modo di fuggire», disse Quentin. «Se non lo farete, che Dio vi aiuti».

Per la prima volta Brown mostrò d’avere ascoltato quella voce remota. Si voltò verso Talman.

«Sta bluffando?»

Talman annuì lentamente. «Ma certo. È inoffensivo».

«È un bluff», ribadì Cunningham, senza alzare gli occhi dal suo lavoro.

«No», rispose l’altoparlante, sempre calmo, «non sto bluffando. Fai attenzione, tu, con quel pannello. Quei fili sono collegati con la centrale atomica. Se pasticcerai coi contatti, ci farai saltare tutti».

Cunningham fece un balzo all’indietro dal labirinto dei fili che uscivano come tanti serpenti da un pannello di bakelite, davanti a lui. Fern, a qualche passo da lui, si girò a guardarlo col suo viso scuro: «Vacci piano», gli disse. «Dobbiamo esser certi di ciò che stiamo facendo».

«Chiudi il becco», grugnì Cunningham. «Io so quello che faccio. Forse è proprio questo che teme il transplant. Starò molto attento a tenermi lontano dall’impianto atomico, ma…» Fece una pausa per studiare l’intreccio dei cavi. «No. Questi non riguardano l’impianto atomico… credo. Non il circuito principale, in ogni caso. Ora, se io interrompo questo collegamento…» La sua mano guantata si alzò, impugnando una cesoia dal manico isolante.

L’altoparlante disse: «Cunningham… non farlo». Cunningham appoggiò la cesoia al cavo. L’altoparlante sospirò.

«Tu per primo, allora. Ecco!»

Talman sentì la visiera del casco sbattergli dolorosamente contro il naso. L’immensa stanza parve dare un’energica sgroppata, mentre lui barcollava in avanti, incapace di fermarsi. Tutt’intorno a lui vide le figure in tuta spaziale che incespicavano grottesche. Brown perse l’equilibrio e stramazzò in avanti.

Cunningham era stato sbattuto tra i fili, quando la nave aveva decelerato all’improvviso. Adesso era appeso a quel groviglio come una mosca intrappolata in una ragnatela, con le braccia e le gambe, e la testa, che sussultavano e si contorcevano spasmodicamente. La furia di quella diabolica danza aumentò.

«Tiratelo fuori da li!» gridò Dalquist.

«Aspetta!» urlò Fern. «Stacco la corrente…» Ma non sapeva come. Talman, la gola arida, osservò il corpo di Cunningham arcuarsi e contorcersi, scuotendosi tutto, nella spasmodica agonia. All’improvviso vi fu uno scricchiolio d’ossa. E Cunningham continuò a sussultare, ma come un pupazzo di pezza, la testa che ciondolava grottesca.

«Tiratelo giù», sbottò Brown, ma Fern scosse il capo. «Cunningham è morto. E quei cavi sono pericolosi».

«Morto? E come?»

Sotto i baffi sottili le labbra di Fern si schiusero in un sorriso privo di umorismo. «Un tizio in preda a un attacco epilettico può rompersi l’osso del collo».

«Già», annuì Dalquist, chiaramente scosso. «Si è proprio rotto l’osso del collo. Guardate in che modo gli dondola la testa».

«Fatti attraversare da una corrente alternata a venti cicli, e verranno le convulsioni anche a te», ribatté Fern.

«Non possiamo lasciarlo là!»

«Possiamo», disse Brown, corrugando la fronte. «Tenetevi tutti lontani dalle pareti». Infuriato, fissò Talman. «Perché non hai…»

«Ma si, lo so. Ma Cunningham avrebbe dovuto avere il buon senso di tenersi lontano da quei cavi scoperti».

«Sono pochi i fili isolati, qua in giro», ringhiò l’uomo grasso. «Avevi detto che il transplant era innocuo».

«Ho detto che non aveva mobilità. E che non era telepate». Talman si rese conto che la sua voce suonava sulla difensiva.

Fern disse: «Non dovrebbe esserci un segnale che suona tutte le volte che una nave accelera o decelera? Dev’essere stato proprio il transplant a interromperlo, per coglierci alla sprovvista».

Alzarono gli occhi alla vasta cavità ronzante, bagnata da quella fosca luce giallastra. Talman si sentì cogliere da un accesso di claustrofobia. Gli parve che le pareti stessero per crollargli addosso… come una gigantesca mano che si stesse chiudendo su di lui.

«Potremmo fracassare le cellule dei suoi occhi», suggerì Brown.

«Trovale». Fern gli indicò l’immenso labirinto dell’impianto.

«Tutto quello che dobbiamo fare è staccare il transplant. Tagliare i suoi collegamenti. Dopo, sarà come morto».

«Per sfortuna», disse Fern, «Cunningham era l’unico ingegnere elettronico fra noi. Io sono soltanto un astrofisico!»

«Non importa. Basterà staccare una spina, e il transplant cesserà di funzionare. Questo possiamo pur farlo!»

L’atmosfera si faceva sempre più tesa. Ma intervenne Cotton, un ometto dagli occhi azzurri, ammiccanti, a riportare la calma:

«La matematica… la geometria… dovrebbero aiutarci. Noi vogliamo localizzare il transplant, e…» Alzò lo sguardo e rimase come pietrificato. «Siamo fuori rotta!» esclamò infine, umettandosi le labbra secche. «Vedete quella spia luminosa?»

Lassù in alto, Talman fissò il grande globo azzurro. Sulla sua scura superficie risplendeva chiaramente un punto rosso. Il transplant sta correndo ai ripari. La Terra è il posto più vicino dove può ricevere aiuto. Ma ci rimane ancora tempo in abbondanza. Non sono il tecnico specializzato che era Cunningham, ma neppure un completo idiota». Non guardò il corpo che continuava a sussultare, appeso ai fili. «Non c’è bisogno di provare ogni collegamento della nave».

«Va bene. Occupatene tu, allora», grugnì Brown.

Impacciato nella sua tuta, Fern raggiunse un’apertura quadrata al centro del pavimento, e scrutò una grata metallica venticinque metri più sotto. «Bene. Laggiù c’è l’alimentatore per il carburante. Nbn c’è bisogno di rintracciare i collegamenti per tutta la nave. Il carburante viene scaricato da quel tubo principale, là sopra. Ora, guardate: tutto ciò che è collegato con l’energia atomica è stato contrassegnato col rosso. Visto?»

Videro. Qua e là, su piastre e pannelli, c’erano enigmatici segni rossi. Altri simboli erano in azzurro, nero e bianco.

«Ora, partiamo da questa premessa», proseguì Fern. «Quanto meno in via provvisoria. Il rosso rappresenta l’energia atomica. L’azzurro… il verde… uhm».

D’un tratto Talman disse: «Qui non vedo niente che assomigli all’involucro del cervello di Quentin».

«Ti aspettavi davvero di vederlo?» gli chiese, sarcastico, l’astrofisico. «Sarà infilato in un buco imbottito da qualche parte. Il cervello umano può sopportare una gravità maggiore che il resto del corpo, ma sette G in ogni caso è il massimo. Il che, incidentalmente, vale anche per noi. Non valeva la pena dare a questa nave la capacità di accelerare di più. In ogni caso il transplant non avrebbe potuto sopportare più di quanto possiamo noi».

«Sette G», fece Brown, pensoso.

«Una simile accelerazione farebbe perdere i sensi anche al transplant. Ma deve restar cosciente, se vuol pilotare l’astronave attraverso l’atmosfera terrestre. Abbiamo tempo in abbondanza».

«Adesso stiamo andando molto lenti», interloquì Dalquist.

Fern lanciò un’occhiata al globo azzurro. «Pare di sì. Lasciate che ci lavori sopra». Srotolò una corda che aveva alla cintura, e si legò saldamente a uno dei pilastri centrali. «Questo ci garantirà da qualunque futuro incidente».

«Non dovrebbe essere così difficile rintracciare un circuito», osservò Brown.

«Di solito no. Ma in questa sala hanno messo tutto: i controlli della centrale atomica, il radar, e perfino anche il lavello della cucina. E tutti questi segni sono soltanto ad uso dei costruttori. Non c’è mai stato nessun progetto standard di questa nave. È un modello unico. Posso trovare il transplant, ma ci vorrà del tempo. Perciò chiudi il becco e lasciami lavorare».

Brown aggrottò la fronte ma non disse niente. La testa calva di Cotton era imperlata di sudore. Dalquist strinse le braccia intorno a un pilastro metallico e attese. Talman alzò di nuovo lo sguardo verso la stretta piattaforma che correva tutt’intorno alle pareti. Il globo azzurro mostrava sempre il punto rosso in lento movimento.

«Quent», chiamò.

«Sì, Van». La voce di Quentin suonò tranquilla e lontana. Brown portò con noncuranza la mano al fulminatore che aveva alla cintura.

«Perché non ti arrendi?»

«Perché non lo fate voi?»

«Non puoi combatterci. Quello di Cunningham è stato un colpo di fortuna. Adesso siamo tutti sul chi vìve… non puoi farci del male. È soltanto una questione di tempo prima che riusciamo a rintracciarti. Non aspettarti pietà quando ti avremo trovato, Quent. Puoi risparmiarci un bel po’ di problemi dicendoci subito dove ti trovi. Siamo disposti a pagare per questo. Ma dopo che ti avremo trovato senza il tuo aiuto, non potrai più venire a patti con noi. Che ne dici?»

Quentin rispose soltanto: «No».

Per qualche minuto vi fu silenzio. Talman stava guardando Fern che, srotolando con estrema cura la corda, stava esaminando il groviglio di cavi ai quali Cunningham era ancora appeso.

Quentin disse: «Non mi troverà mai, laggiù. Sono mimetizzato troppo bene».

«Ma impotente», si affrettò ad aggiungere Talman.

«Anche voi. Chiedilo a Fern. Se pasticcerete coi collegamenti sbagliati, finirete per distruggere la nave. Pensate al vostro problema, Stiamo tornando sulla Terra. Mi sto inserendo su una nuova rotta che ci terminerà a casa. Se vi arrendete subito…»

Brown si intromise: «Le vecchie leggi non sono mai state modificate. La punizione per la pirateria è sempre la morte».

«Da cent’anni non c’è più stato nessun atto di pirateria. Se un caso concreto finisse oggi in tribunale, potrebbe concludersi in modo del tutto diverso».

«La prigione? Il ricondizionamento?» chiese Talman. «Preferirei esser morto».

«Stiamo decelerando!» gridò Dalquist, stringedosi più saldamente al suo pilastro.

Guardando Brown, Talman pensò che l’uomo grasso doveva senz’altro aver capito ciò che lui aveva in mente di fare. Se le conoscenze tecniche fallivano, forse non sarebbe stato così per la psicologia. E Quentin, dopotutto, era un cervello umano.

Per prima cosa, cogli il soggetto impreparato.

«Quent».

Ma Quentin non rispose. Brown fece una smorfia e si voltò a guardare Fern. Il sudore colava giù per la faccia scura del fisico, mentre si concentrava sui circuiti, tracciando diagrammi sul blocco di appunti con la stilografica che portava appeso all’avambraccio.

Dopo un po’, Talman cominciò a provare una sensazione di vertigine. Scosse il capo, rendendosi conto che la nave aveva decelerato fin quasi a zero, e si afferrò più saldamente al pilastro più vicino. Fern imprecò. Cominciava ad aver qualche difficoltà a mantenere il punto d’appoggio.

Poco dopo lo perse del tutto, quando la nave entrò in caduta libera. Cinque figure in tuta spaziale si aggrapparono ad ogni possibile conveniente appiglio. Fern ringhiò: «Questo potrebbe essere un punto morto, ma non aiuta il transplant. Io non posso lavorare senza gravità, ma lui non può tornare sulla Terra senza accelerazione».

L’altoparlante annunciò: «Ho mandato un SOS».

Fern scoppiò a ridere: «Ho studiato la cosa con Cunningham… e tu hai parlato anche troppo con Talman. Con un radar per evitare i meteoriti, non hai bisogno d’una trasmittente. E infatti non ce l’hai». Diede una occhiata ai circuiti che aveva appena finito di esaminare. «Forse mi sto avvicinando troppo alla risposta giusta, eh? È per questo che…»

«Non ci sei neppure vicino», replicò Quentin.

«Ma ugualmente…» Fern si allontanò con un calcio dal pilastro, lasciando scorrere la corda dietro di sé. Fece un cappio intorno al suo polso sinistro e, fluttuando a mezz’aria, si mise a studiare un altro collegamento.

A Brown scivolò la mano sulla liscia superficie della colonna e si trovò a galleggiar libero come un pallone troppo gonfio. Talman si spinse con un calcio verso la piattaforma con la ringhiera. Afferrò la sbarra di metallo con le mani guantate e la scavalcò con una piroetta, come un acrobata, e guardò giù… anche se non era veramente giù… nella sala di comando.

«Credo che fareste meglio ad arrendervi», disse Quentin.

Brown stava fluttuando attraverso la sala per raggiungere Fern. «Mai», disse, e nel medesimo istante quattro G colpirono la nave con la violenza d’un maglio. Non era un’accelerazione in avanti, ma in un’altra direzione calcolata con cura. Fern la scampò, anche a costo di un polso mezzo slogato… ma la corda stretta intorno all’avambraccio lo salvò comunque da un tuffo fatale in mezzo ai fili non isolati.

Talman fu sbattuto giù sulla piattaforma. Poté vedere gli altri che precipitavano con violenza contro superfici dure. Tuttavia Brown non fu fermato dal pavimento metallico.

Si era trovato a galleggiare sopra il foro di alimentazione del combustibile quando l’accelerazione di quattro G era stata applicata di colpo.

Talman vide il suo corpo voluminoso scomparire alla vista dentro l’apertura. Si udì un rumore indescrivibile.

Dalquist, Fern e Cotton lottarono per tirarsi in piedi. Si avvicinarono cauti al foro e guardarono giù.

Talman gridò: «È…?»

Cotton aveva distolto lo sguardo. Dalquist restò dove si trovava, come affascinato pensò Talman, finché non vide le spalle dell’uomo scosse da conati di vomito. Fern sollevò lo sguardo verso la piattaforma.

«È passato attraverso lo schermo filtrante», disse. «È una rete metallica con le maglie larghe un paio di centimetri…»

«L’ha rotta passando?»

«No», replicò Fern, duro. «Non l’ha rotta. L’ha attraversata».

Quattro gravità e una caduta di venticinque metri assommano a qualcosa di terribile. Talman chiuse gli occhi e disse: «Quent!»

«Vi arrendete?»

Fern ringhiò: «Neanche per sogno! La nostra associazione non è così interdipendente. Possiamo farcela anche senza Brown».

Talman sedette sulla piattaforma, tenendosi stretto alla ringhiera, e lasciò che i suoi piedi penzolassero nel vuoto. Fissò il globo azzurro una dozzina di metri alla sua sinistra. Il punto rosso identificava che la nave era immobile.

«Credo che tu non sia più un essere umano, Quent» disse.

«Perché non uso un fulminatore? Adesso ho armi diverse con cui combattere, Van… e sto lottando per la mia vita».

«Possiamo sempre trattare».

Quentin prosegui: «Te l’ho detto, che ti saresti dimenticato della nostra amicizia prima di me. Dovevi sapere che questo dirottamento poteva terminare soltanto con la mia morte. Ma a quanto pare non te ne importava».

«Non mi aspettavo che tu…»

«Già», disse l’altoparlante. «Mi chiedo se saresti stato altrettanto pronto a eseguire il piano se io avessi avuto ancora una forma umana. In quanto all’amicizia… usa gli espedienti che ti suggerisce la tua psicologia, Van. Tu guardi al mio corpo meccanico come a un nemico, una barriera fra te e il vero Bart Quentin. Forse a livello inconscio lo odi, e perciò sei disposto a distruggerlo. Anche se distruggerai me con esso. Non so… Forse stai razionalizzando tutta la faccenda pensando in tal modo di salvarmi da quella cosa che ha eretto la barriera. E ti dimentichi che, in sostanza, io non sono cambiato».

«Un tempo giocavamo a scacchi insieme», fece Talman, «ma non ci mettevamo mica a spaccare le pedine».

«Io sono sotto scacco», replicò Quentin, «e tutto quello che mi rimane per combattere sono i cavalli. Tu hai ancora torri e alfieri. Tu puoi puntare dritto al tuo bersaglio. Ti arrendi?»

«No!» gridò Talman. I suoi occhi fissavano sempre quel punto rosso. Lo vide muoversi con un leggero tremito, e si afferrò con una stretta convulsa alla sbarra metallica. Il suo corpo fu sbalzato fuori dalla ringhiera come su un’altalena, quando la nave schizzò via. Una mano guantata fu strappata dall’appiglio, ma l’altra tenne. Il globo azzurro dondolò violentemente. Talman lanciò una gamba sopra la ringhiera e tornò ad arrampicarsi sul suo precario posatoio. Guardò giù.

Fern era ancora aggrappato al suo cavo di emergenza. Dalquist e il piccolo Cotton stavano slittando lungo il pavimento e si arrestarono con uno schianto contro un pilastro. Qualcuno urlò.

Sudando, Talman si calò cautamente in basso. Ma quando ebbe raggiunto Cotton, vide che era morto. Una ragnatela di crepe sulla visiera del suo casco e i lineamenti contorti e scoloriti gliel’indicarono al di là di ogni dubbio.

«Mi ha sbattuto dritto addosso», deglutì Dalquist. «La sua visiera si è fracassata contro il lato posteriore del mio casco…»

L’atmosfera a base di cloro dell’interno della nave aveva messo fine alla vita di Cotton, orribilmente, ma in pochi attimi. Dalquist, Fern e Talman si fissarono l’un l’altro.

Il gigante biondo disse: «Siamo rimasti in tre. Non mi piace questa storia. Non mi piace affatto».

Fern digrignò i denti. «Così, stiamo ancora sottovalutando quell’affare. D’ora in avanti state ben attaccati ai pilastri. Non muovetevi senza avere un robusto ancoraggio. Tenetevi lontani da qualunque cosa possa causare guai».

«Stiamo sempre tornando verso la Terra», constatò Talman.

«Già». Fern annuì. «Potremmo aprire uno dei boccaporti e uscir fuori nello spazio aperto. Ma poi? Prima avevamo progettato di usare questa nave. Ora dobbiamo farlo».

Dalquist disse: «Se ci arrendessimo…»

«Verremmo giustiziati», tagliò corto Fern. «Abbiamo ancora tempo. Ho rintracciato alcuni dei più importanti circuiti. Ho escluso un bel po’ di collegamenti».

«Pensi ancora di riuscirci?»

«Credo di sì. Ma non lasciate andare i vostri appigli, neppure per un attimo. Troverò la risposta prima che tocchiamo l’atmosfera».

Talman ebbe un suggerimento: «Il cervello emette delle onde riconoscibili. Forse con un indicatore direzionale…»

«Se fossimo in mezzo al deserto di Mojave, funzionerebbe. Non qui. Questa nave è imbottita di correnti e radiazioni d’ogni tipo. Come potremmo mai identificarle una ad una senza un’apparecchiatura adatta?»

«Abbiamo portato alcuni strumenti con noi. E ce ne sono in abbondanza sulle pareti».

«Tutti collegati insieme. Continuerò il lavoro, ma senza correr rischi. Vorrei proprio che Cunningham non fosse morto».

«Quentin non è uno stupido», disse Talman. «Prima ha fatto fuori l’ingegnere elettronico, e poi Brown. E poi ha cercato di eliminare anche te. L’alfiere e la regina».

«Ed io cosa sarei?»

«La torre. E se troverà il modo, liquiderà anche te». Talman si accigliò, cercando di ricordare qualcosa. Poi ci arrivò. Si avvicinò al braccio di Fern, dal quale pendevano ancora la stilo col blocco di appunti, e schermando il foglio col corpo, nel caso in cui qualche cellula fotoelettrica potesse esser sistemata lì intorno, sulle pareti o nel soffitto, scrisse: «Si ubriaca alle alte frequenze. Puoi far qualcosa?»

Fern accartocciò il foglietto, poi lo strappò in piccoli pezzi, con le dita impacciate dai guanti. Strizzò l’occhio a Talman e fece un breve cenno col capo.

«Be’, continuerò a provare», disse ad alta voce, e lasciò scorrere la corda fino al gruppo di strumenti che lui e Cunnigham avevano portato a bordo.

Rimasti soli, Dalquist e Talman, si agganciarono ai pilastri e attesero. Non c’era nient’altro che potessero fare. Talman aveva già riferito di quella faccenda dell’alta frequenza a Fern e a Cunningham, i quali però non avevano visto, allora, nessuna possibilità di sfruttare quell’informazione. Ma adesso, poteva esser questa la risposta, con l’applicazione della psicologia pratica come integrazione della tecnologia.

Talman desiderava ardentemente una sigaretta, ma tutto quello che poteva fare, sudando nella scomoda tuta, era maneggiare un congegno incorporato per inghiottire qualche pastiglia di sare e pochi sorsi d’acqua tiepida. Il cuore gli batteva sempre più affannoso, e provava un sordo dolore alle tempie. La tuta spaziale era scomoda: non era abituato a quella sorta di prigionia personale.

Attraverso il ricevitore incorporato del casco udiva il silenzio ronzante, interrotto dal fruscio degli stivali di Fern che si aggirava lì intorno. Ammiccò davanti al caos di cavi e tubazioni che lo circondava dovunque, e socchiuse gli occhi: quella spietata luce gialla non era destinata alla vista umana, gli provocava piccole, continue pulsazioni nervose in qualche punto delle cavità orbitali. Da qualche parte, dentro quella nave, pensò, e con tutta probabilità in quella stessa sala, c’era Quentin. Ma mimetizzato. E come?

Roba degna della «Lettera rubata» di Poe… oppure no? Quentin non aveva nessun motivo di aspettarsi dei dirottatori. Solo per puro caso il transplant si era trovato protetto da un nascondiglio così efficace. Quello, e la particolare tecnica seguita per costruire quella nave, senza un progetto generale, ma procedendo passo passo, tutt’al più con l’uso d’un regolo calcolatore. Ma, pensò Talman, se fosse stato possibile indurre lo stesso Quentin a rivelare la sua posizione…

E come? Tramite un’irritazione cerebrale indotta? Un’intossicazione?» Fare appello alle cose più basilari. Al sesso, magari? Ma un cervello isolato non era in grado di propagare la specie. L’unico suo istinto era quello della conservazione di se stesso. Talman desiderò aver portato Linda con sé. Allora, avrebbe avuto qualcosa su cui far leva.

Se soltanto Quentin avesse avuto un corpo umano! Non sarebbe stato così difficile trovare la risposta. E non necessariamente con la tortura. Le reazioni muscolari automatiche, la vecchia risorsa dei maghi professionisti, avrebbero potuto guidare lui, Talman, alla meta. Ma, per sfortuna, lo stesso Quentin era la meta… un cervello senza corpo in un cilindro di metallo imbottito e isolato. E un cavo elettrico per colonna vertebrale.

Se Fern fosse riuscito a montare un congegno per irradiare l’alta frequenza, le radiazioni avrebbero indebolito le difese di Quentin; in qualche modo. Ma al momento, il transplant era un avversario molto, molto pericoloso. Ed era perfettamente mimetizzato.

Be’, non perfettamente. Decisamente no. Perché — e Talman se ne rese conto con un’eccitazione improvvisa — Quentin non se ne stava semplicemente seduto, comodo, ignorando i pirati, ma aveva preso la via più veloce per far ritorno alla Terra. Il fatto stesso che ripercorresse la sua rotta invece di proseguire per Callisto, indicava che Quentin voleva chiedere aiuto. E nel frattempo, si sforzava in ogni modo di assassinarli, distraendoli dalla ricerca.

Perché, com’era ovvio, Quentin poteva esser trovato.

Con il tempo.

Cunningham ci sarebbe riuscito. E perfino Fern rappresentava una minaccia per il transplant. Questo significava che Quentin… aveva paura.

Talman risucchiò il proprio respiro. «Quentin», disse, «ho una proposta. Mi stai ascoltando?»

«Si», disse quella voce distante e terribilmente familiare.

«Ho una soluzione per tutti noi. Tu vuoi rimanere in vita. Noi vogliamo questa nave. Giusto?»

«Giusto».

«Supponi che ti sganciassimo col paracadute non appena toccheremo l’atmosfera della Terra. Poi potremo prendere i comandi e puntare di nuovo verso lo spazio. In questo modo…»

«E Bruto è un uomo d’onore», osservò Quentin. «Ma naturalmente non lo era. Non posso più fidarmi di te, Van. Gli psicopatici e i criminali sono troppo amorali. Sono spietati perché pensano che il fine giustifichi i mezzi. Tu sei uno psicologo psicopatico, Van, ed è proprio per questo che non ti prendo in parola su niente».

«Stai correndo un grosso rischio. Se troveremo in tempo il collegamento giusto, non ci sarà più spazio per trattare, lo sai».

«Se».

«La via per la Terra è lunga. Adesso stiamo prendendo le nostre precauzioni. Non puoi più uccidere nessuno di noi. Basterà soltanto che continuiamo a lavorare con metodo fino a quando non ti avremo trovato. Ora… che ne dici?»

Dopo una pausa, Quentin rispose: «Preferisco correre i miei rischi. Conosco i valori tecnologici meglio di quelli umani. Fintanto che dipendo dal mio proprio campo di conoscenza, sarò molto più al sicuro che se tentassi di addentrarmi nella psicologia. Conosco i coefficienti e i coseni, ma non ne so molto sulla macchina colloidale che sta dentro il tuo cranio».

Talman chinò la testa; il sudore gli colò sul naso all’interno della visiera del casco. Ebbe un improvviso attacco di claustrofobia; paura dello spazio troppo stretto della sua tuta, e paura della prigione molto più grande costituita dalla sala e dalla nave stessa.

«Sei limitato, Quent», riprese, con voce troppo alta. «Le tue armi sono limitate. Non puoi regolare la pressione atmosferica, qua dentro, o l’avresti già compressa al punto da schiacciarci».

«Schiacciando nello stesso tempo un bel po’ di equipaggiamento vitale. Inoltre, quelle tute possono sopportare una pressione molto alta».

«Il tuo re è ancora sotto scacco».

«Anche il tuo», replicò Quentin senza scomporsi.

Fern rivolse a Talman una lunga occhiata che conteneva approvazione e una traccia di trionfo. Sotto i goffi guanti, manipolando strumenti delicati, l’allacciamento cominciava a prender forma. Per fortuna era un lavoro di conversione più che di costruzione, altrimenti non vi sarebbe stato tempo a sufficienza.

«Godetevela fin che potete», disse ancora Quentin. «Sto per sbattervi addosso tutte le G che possiamo sopportare».

«Non sento niente», rispose Talman.

«Tutte quelle che possiamo sopportare, non tutte quelle che potrei sviluppare. Procedete pure e divertitevi. Non potete vincere».

«No?»

«Be’… Rifletteteci su. Fintanto che ve ne state attaccati da qualche parte, siete abbastanza al sicuro. Ma se comincerete a muovervi d’attorno, allora potrò distruggervi».

«Il che significa che dovremo muoverci… da qualche parte… per raggiungerti, eh?»

Quentin scoppiò a ridere. «Non ho detto questo. Sono ben mimetizzato. Spegni quell’affare!

L’urlo echeggiò e riecheggiò contro l’alto soffitto, scuotendo l’aria giallastra. Talman sussultò nervosamente. Incontrò lo sguardo di Fern e colse il suo sogghigno.

«Sta avendo effetto», disse Fern. Poi ci fu silenzio per molti minuti.

La nave diede in un balzo improvviso. Ma l’irradiatore di frequenza era saldamente ancorato, e anche gli uomini erano legati ai loro cavi.

«Spegnilo», disse di nuovo Quentin. La sua voce non era del tutto controllata.

«Dove ti trovi?» chiese Talman.

Nessuna risposta.

«Possiamo aspettare, Quent».

«Continuate ad aspettare, allora lo… non vengo distratto da paure personali. È uno dei vantaggi di essere un transplant».

«Ha un alto effetto irritante», mormorò Fern. «E fa subito effetto».

«Suvvia, Quent», riprese Talman, con voce suadente. «Hai ancora l’istinto dell’autoconservazione. Questo non può essere piacevole per te».

«È… troppo piacevole». La voce di Quentin si era fatta ineguale. «Ma non funzionerà. Ho sempre ben sopportato l’alcool».

«Questo non è alcool», replicò Fern. Mosse un comando.

Il transplant scoppiò a ridere; Talman constatò con soddisfazione che stava perdendo il controllo orale. «Non funzionerà, ti dico. Sono troppo furbo per voi».

«Sì?»

«Sì. Non siete degli idioti… nessuno di voi lo é. Fern è un buon tecnico, forse, ma non è bravo abbastanza. Van, ricordi che a Quebec mi avevi chiesto se c’era stato qualche… cambiamento? Ti avevo detto di no. Adesso sto scoprendo che mi sbagliavo».

«Come?»

«L’assenza di distrazione». Quentin parlava troppo; un sintomo d’intossicazione. «Un cervello dentro il corpo non può mai concentrarsi del tutto. È troppo conscio del suo stesso corpo, il quale è un meccanismo imperfetto. Troppo specializzato per essere efficiente. Il sistema respiratorio, circolatorio… tutti interferiscono. L’atto stesso della respirazione è una distrazione. Adesso, il mio corpo è la nave… ma è un meccanismo perfetto. Funziona con assoluta efficienza. E il mio cervello è migliorato in uguale proporzione».

«Superman».

«Superefficiente. Di solito, è la mente migliore che vince agli scacchi, perché prevede tutti i rischi possibili. Io sono in grado di prevedere tutto ciò che potreste fare. E siete per di più molto ostacolati».

«Perché?»

«Siete umani».

Egocentrismo, pensò Talman. Era forse quello il suo tallone d’Achille? I successi finora ottenuti avevano alterato il suo equilibrio psicologico, e l’equivalente elettronico dell’ubriachezza aveva liberato le inibizioni. Era logico. Dopo cinque anni di lavoro di routine, non importa quanto nuovo potesse essere per lui quel lavoro, ecco l’improvvisa modifica alla situazione — quel passaggio dal passivo all’attivo, da essere una pura macchina a trovarsi protagonista — questo poteva essere stato il catalizzatore. L’ego. E un modo di pensare confuso.

Quentin non era un supercervello. Proprio no. Più alto è il quoziente di intelligenza, minore è la necessità di autogiustificazione, diretta o indiretta. E, cosa strana, Talman a questo punto si sentì libero da qualunque scrupolo gli fosse rimasto. Il vero Bart Quentin non si sarebbe mai reso colpevole di schemi di pensiero paranoici.

Così…

Le parole di Quentin erano chiare; non farfugliava. Ma non parlava più con l’ugola, la lingua e le labbra, modulando una colonna d’aria. Tuttavia, il controllo tonale della sua voce era adesso alterato in maniera percettibile, la voce del transplant oscillava da un sussurro a un urlo.

Talman sogghignò. In qualche modo, si sentiva meglio.

«Siamo umani», disse, «ma ancora sobri».

«Sciocchezze. Guarda la spia. Ci stiamo avvicinando alla Terra».

«Piantala, Quent», replicò Talman, stancamente. «Tu stai bluffando, tutti e due sappiamo che stai bluffando. Non puoi resistere a una quantità indefinita d’alta frequenza. Risparmia tempo e arrenditi subito».

«Arrendetevi voi», ribatté Quentin. «Posso vedere tutto ciò che fate. L’intera nave pullula di trappole. Tutto quello che devo fare da quassù e guardare fino a quando non vi avvicinate a una di esse. Sto pianificando il mio gioco in anticipo, ogni mossa è accuratamente elaborata per dare scacco a uno di voi. Non avete una sola possibilità. Una sola possibilità. Una sola possibilità».

Da quassù, pensò Talman. Quassù dove? Ricordò la casuale osservazione di Cotton, sul fatto che la geometria avrebbe potuto essere usata per localizzare il transplant. La geometria e la psicologia. Dividere in due la nave, in quattro, e continuare a sezionare a metà quanto rimaneva…

Non era più necessario. Quassù era la parola-chiave. Talman vi si aggrappo con una frenesia che non trapelò dalla sua faccia. Quassù, c’era da presumere, riduceva a metà l’area che dovevano esplorare. La metà più bassa della nave poteva essere esclusa. Ora doveva dividere in due la sezione più alta, usando il globo celeste come mezzeria.

Il transplant doveva avere, ovviamente, cellule visive disseminate per tutta la nave, ma Talman ritenne che Quentin dovesse pensare a se stesso come ubicato in un punto ben determinato, e non sparso dovunque nello scafo, in corrispondenza di ogni occhio meccanico. Per la mente di un uomo, la testa è il punto in cui egli si trova.

Quindi, anche se Quentin poteva vedere il punto rosso sul globo azzurro, ciò non significava affatto che dovesse per forza trovarsi in un punto della parete dirimpetto alla sfera. Il transplant doveva esser convinto, senza accorgersene, a nominare altri oggetti, là a bordo della nave, così che si potesse scoprire la sua attuale posizione rispetto ad essi… anche se ciò era difficile, poiché, appunto, è la vista che costituisce il miglior riferimento d’una posizione. Questo non creava problemi in un individuo normale, ma con Quentin… la sua vista era distribuita dovunque, poteva veder tutto.

Ma doveva pur esserci un modo per localizzarlo.

Un test associativo, con un’adeguata serie di parole, avrebbe colto lo scopo. Ma ciò implicava la collaborazione dell’altro, e Quentin non era ubriaco fino a questo punto!

Non era possibile valutar niente, sapendo da Quentin ciò che lui poteva vedere… poiché non era necessario che il suo cervello si trovasse vicino a uno dei suoi occhi. Nel transplant, però, doveva esserci un’effettiva, intrinseca percezione del posto in cui in realtà si trovava: la conoscenza che lui - cieco, sordo e muto salvo per i suoi remoti estensori sensoriali — aveva una ben precisa localizzazione. E in che modo, se non attraverso domande non troppo dirette, era possibile fare in modo che Quentin desse la risposta giusta?

Era impossibile, pensò Talman, con una sorta di rabbiosa frustrazione. La rabbia crebbe in lui, gli riempì il viso di sudore, destando in lui un odio ottuso e tenace per Quentin. Tutto questo era colpa di Quentin, il fatto che lui, Talman, fosse imprigionato qui, in quell’odiosa tuta spaziale e in quella immensa trappola mortale che era la nave. Colpa di una macchina…

Sarebbe dipeso, naturalmente, da quanto Quentin era ubriaco. Diede un’occhiata a Fern, interrogò l’uomo con lo sguardo, e in risposta l’uomo girò una manopola, e annuì.

«Dannazione a te», disse Quentin con un bisbiglio.

«Sciocchezze», replicò Talman. «Non hai suggerito, poco fa, di non aver più l’istinto di conservazione?»

«lo… non ho…»

«È vero, no?»

«No», disse Quentin ad alta voce.

«Dimentichi che sono uno psicologo, Quent. Avrei già dovuto vederlo prima. Il libro era spalancato, pronto a farsi leggere… perfino prima che ti incontrassi di nuovo. Quando ho visto Linda».

«Lascia stare Linda!»

Talman ebbe una fugace, nauseante immagine del cervello ebbro e torturato, nascosto in qualche punto, su quelle pareti, un incubo surrealista. «Certo», disse. «Sei tu che non vuoi pensare a lei».

«Stai zitto».

«Non vuoi neppure pensare a te stesso, vero?»

«Cosa stai cercando di fare, Van? Vuoi farmi impazzire?»

«No», replicò Van. «Semplicemente, sono stufo, nauseato e disgustato da tutta questa faccenda. Fingere di essere Bart Quentin, di essere ancora umano… che si debba trattare con te alla pari».

«Non ci saranno trattative…»

«Non è questo che intendevo, e tu lo sai. Mi sono appena reso conto di ciò che sei». Lasciò le parole sospese a mezz’aria. S’immaginò di udire il pesante respiro di Quentin, anche se sapeva che era soltanto un’illusione.

«Per favore, stai zitto, Van», disse Quentin.

«Chi mi sta chiedendo di star zitto?»

«Io».

«Io, chi?»

La nave ebbe un sobbalzo. Talman quasi perse l’equilibrio. La corda legata al pilastro lo salvò. Scoppiò a ridere.

«Mi dispiacerebbe per te, Quentin, se fossi… te. Ma non lo sei».

«Non mi lascio intrappolare dai tuoi espedienti».

«Potrebbe essere un espediente, ma è anche la verità. E te lo sei chiesto tu stesso. Di ciò sono assolutamente certo».

«Chiesto cosa?»

«Non sei più umano», spiegò Talman, con voce soave. «Sei un oggetto, una macchina. Un congegno. Un pezzo di carne grigia e spugnosa chiuso in una scatola. Credi davvero che potrei abituarmi a te… adesso? Che potrei identificarti col vecchio Quent? Tu che non hai neppure un viso?»

L’altoparlante produsse dei rumori. Parevano meccanici. Poi… «Stai zitto», tornò a dire Quentin, quasi implorante. «So cosa stai cercando di fare».

«E non vuoi guardare in faccia il problema. Soltanto… dovrai guardarlo in faccia, prima o poi, sia che tu ci uccida adesso oppure no. Questa faccenda é… un incidente. Ma i pensieri nel tuo cervello continueranno a crescere, a crescere… e tu continuerai a cambiare, e a cambiare. Sei già cambiato parecchio».

«Sei pazzo», disse Quentin. «Non sono… un mostro».

«È quello che tu speri, eh? Guarda alla cosa con logica. Finora non hai osato farlo, vero?» Talman alzò la mano guantata e cominciò ad enumerare gli argomenti sulla punta delle sue dita. «Stai cercando disperatamente di mantener la presa su qualcosa che ti sta sfuggendo via: l’umanità, l’eredità per la quale eri nato. Ti aggrappi ai simboli, sperando che significhino realta. Perché fingi di mangiare? Perché insisti a farti servire il brandy da un bicchiere? Lo sai che andrebbe altrettanto bene se te lo schizzassero dentro prelevandolo da un bidone di benzina».

«No. No! È una questione d’estetica…»

«Fesserie. Assisti agli spettacoli televisivi. Leggi. Fingi di essere umano al punto di disegnare vignette. Tutte queste finzioni sono soltanto un disperato, impotente aggrapparsi a qualcosa che ti ha già lasciato. Perche senti il bisogno di far bisboccia? Sei disadattato, perché fingi di essere ancora umano, e non lo sei, non più».

«Sono… be’, qualcosa di meglio…».

«Forse… se tu fossi nato macchina. Ma eri umano. Avevi un corpo umano. Avevi occhi, e capelli, e labbra. Questo Linda senz’altro lo ricorda, Quent. Avresti dovuto insistere per il divorzio. Senti, se l’esplosione ti avesse semplicemente mutilato, lei avrebbe potuto prendersi cura di te. Avresti avuto bisogno di lei. Così come stanno le cose, sei un’unità autosufficiente, chiusa in un perfetto involucro. Lei sa fingere bene, lo ammetto. Cerca di non pensare a te come ad un elicottero supercarrozzato… un marchingegno. Un grumo di tessuto cellulare umidiccio. Dev’essere dura per lei. Si ricorda di te com’eri un tempo».

«Mi ama».

«Ha pietà di te», disse Talman, implacabile.

Nella ronzante immobilità la spia rossa strisciava sul globo. Fern si umettò le labbra, facendovi scorrer sopra la lingua in cerchio. Dalquist se ne stava a osservare in silenzio. I suoi occhi erano due fessure sottili.

«Già», disse Talman, «guarda in faccia la cosa. E pensa al futuro. Ci sono compensazioni. Ti senti talmente eccitato quando metti in moto i tuoi ingranaggi, che alla fine perfino dimenticherai che eri umano. Allora sarai più felice, giacché non puoi tenertici aggrappato, Quent. Ti sfugge via. Puoi continuare a fingere per un po’, ma verrà il giorno in cui non avrà più importanza. Sarai pienamente soddisfatto d’essere un meccanismo. Vedrai la bellezza in una macchina, e non in Linda. Forse è già accaduto. Forse Linda sa, che è accaduto. Tu non sei obbligato ad essere onesto con te stesso, non ancora, sai. Tu sei immortale. Ma io non accetterei in dono quel tipo d’immortalità».

«Van…».

«Io sono ancora Van, tu sei una macchina. Procedi pure e uccidici, se vuoi. E se puoi. Poi, torna sulla Terra, e quando vedrai di nuovo Linda, guarda il suo viso. Guardala quando lei non sa che la stai osservando. Puoi farlo facilmente. Infila una cellula fotoelettrica in una lampada, o qualcosa di simile».

«Van… Van!»

Talman lasciò ricadere le mani sui fianchi. «Va bene. Dove sei?»

Il silenzio crebbe, mentre una domanda inaudibile risuonava in quella gialla vastità. La domanda che, forse, aleggiava nella mente di ogni transplant. La domanda… qual era il prezzo da pagare?

Quale prezzo?

La solitudine più totale, la nauseante consapevolezza che i vecchi legami si spezzavano uno ad uno, che al posto di un’umanità calda e viva sarebbe subentrato… un mostro di metallo?

Sì, se l’era chiesto… questo transplant che era stato Bart Quentin. Se lo era chiesto, mentre le macchine enormi ed orgogliose che erano il suo corpo si preparavano a scattare di vita pulsante.

Sto cambiando? Sono ancora Bart Quentin?

Oppure loro… gli umani… mi guardano come… Cosa prova davvero Linda per me, adesso?

Sono un…

Sono un oggetto?

«Sali sulla piattaforma», disse Quentin. La sua voce era stranamente smorta.

Talman fece un rapido gesto. Fern e Dalquist scattarono. Ognuno dei due prese a salire una delle scalette ai lati opposti della sala, ma con cautela, allacciando prudentemente il cavo alla ringhiera.

«Dov’è?» domandò Talman, gentilmente.

«La parete sud… Usate il globo azzurro per orientarvi. Potrete raggiungermi…». La voce venne meno.

«Sì?».

Silenzio. Fern chiese, dall’alto: «È svenuto?».

«Quent!».

«Sì… all’incirca al centro della piattaforma. Ve lo dirò quando sarete arrivati».

«Calma», disse Fern, ammonendo Dalquist. Legò l’estremità del suo cavo alla ringhiera, là sopra, e avanzò piano, scrutando attentamente ogni punto della parete.

Talman si ripulì con un braccio la visiera appannata. Il sudore gli scorreva giù per il viso e i fianchi. Quella fosca luminosità giallastra, l’immobilità ronzante di macchine che avrebbero dovuto produrre un rombo di tuono, gli stuzzicavano i nervi fino a un’intensità insopportabile.

«Qui?» gridò Fern.

«Dov’è, Quent?» chiese Talman. «Dove ti trovi?».

«Van», disse Quentin, con un’orribile, profonda angoscia nella voce, «non puoi pensare davvero a ciò che hai detto. Non puoi. Questo è… devo saperlo. Sto pensando a Linda».

Talman rabbrividì. S’inumidì le labbra.

«Sei una macchina, Quent», disse, con calma. «Sei un meccanismo. Lo sai che non avrei mai tentato d’ucciderti se tu fossi stato ancora Bart Quentin».

E poi, con sconvolgente repentinità, Quentin scoppiò a ridere.

«Ecco che arriva, Fern!» urlò, e gli echi rimbombarono e si scontrarono, spaventosi, su ogni superficie metallica dell’immensa sala. Fern artigliò la ringhiera.

Quello fu un errore fatale. Il cavo che lo teneva legato alla ringhiera si rivelò una trappola… poiché non vide in tempo il pericolo per sganciarsi.

La nave dette un balzo.

Era stato calcolato con meravigliosa precisione. Fern venne sbalzato verso la parete e arrestato dal cavo. Nel medesimo istante il grande globo azzurro descrisse un arco come un pendolo gigantesco, come un enorme schiacciamosche. L’urto fracassò il casco di Fern.

Lo schianto fu assordante in quello spazio chiuso.

Talman si afferrò a un pilastro e tenne gli occhi fissi sul globo azzurro, il quale continuò ad oscillare avanti e indietro diminuendo l’arco man mano l’attrito dell’atmosfera frenava la velocità. C’era del liquido che sgocciolava da esso.

Vide il casco di Dalquist comparire sopra la ringhiera. L’uomo gridò: «Fern!»

Non ci fu risposta.

«Fern! Talman!»

«Sono qui», disse Talman.

«Dove…» Dalquist girò la testa verso la parete. Urlò.

Un balbettio osceno gli sgorgò poi dalla bocca. Afferrò il fulminatore che portava appeso alla cintura, fra gli altri attrezzi.

«Dalquist!» urlò Talman. «Apetta!»

Dalquist non lo senti.

«Farò a pezzi la nave», urlò ancora. «Io…».

Talman sfoderò il suo fulminatore, appoggiò la canna al pilastro e mirò alla testa di Dalquist. Vide il corpo piegarsi sopra la ringhiera, cader giù e schiantarsi sulle piastre del pavimento. Poi rotolò bocconi, e giacque laggiù, producendo suoni nauseanti e penosi.

«Van» disse Quentin.

Talman non rispose.

«Van!»

«Sì?»

«Spegni l’irradiatore di frequenza».

Talman si alzò in piedi, raggiunse con passi incerti il congegno e strappò via i fili. Non si preoccupò di trovare un metodo più semplice.

Dopo un po’, la nave atterrò. La continua vibrazione si spense. Ora, l’oscura, gigantesca sala di comando pareva stranamente vuota.

«Ho aperto un boccaporto», annunciò Quentin. «Denver è circa cinquanta miglia a nord. C’è un autostrada a circa quattro miglia, nella stessa direzione».

Talman si alzò in piedi, guardandosi intorno. Il suo volto era sconvolto dall’emozione.

«Ci hai ingannati», borbottò. «Per tutto il tempo, stavi giocando con noi come il gatto col topo. La mia psicologia…».

«No», fece Quentin. «C’eri quasi riuscito».

«Cosa…».

«Tu non pensi a me come a un meccanismo, in realtà. Hai finto di farlo, ma una piccola questione di semantica mi ha salvato. Quando mi sono reso conto di ciò che avevi detto, sono rinsavito».

«Cosa avevi detto?»

«Già. Che non avresti mai cercato di uccidermi se fossi stato ancora Bart Quentin».

Talman si stava sfilando con faticosa lentezza la tuta spaziale. L’aria fresca e pulita della Terra aveva sostituito l’atmosfera velenosa della nave. Scrollò il capo, stordito.

«Non capisco».

La risata di Quentin echeggiò nella vasta sala, riempiendola di calde vibrazioni umane.

«Una macchina può essere fermata, o distrutta, Van», spiegò. «Ma non può essere… uccisa».

Talman non disse niente. Adesso si era del tutto liberato dell’ingombrante tuta, girandosi con fare esitante verso l’uscita.

Guardò dietro di sé.

«La porta è aperta», ripeté Quentin.

«Mi lasci andare?»

«A Quebec ti avevo detto che ti saresti dimenticato della nostra amicizia prima di me. Meglio far presto, Van, finché c’è ancora tempo. È probabile che Denver abbia già mandato fuori gli elicotteri».

Talman esplorò con una lunga occhiata interrogativa la vasta sala. Da qualche parte, mimetizzato in modo perfetto fra quelle poderose macchine, c’era un piccolo cilindro di metallo nel suo ricettacolo segreto.

Bart Quentin…

Aveva la gola secca. Deglutì, aprì la bocca, e tornò a chiuderla.

Girò sui tacchi e usci. Il rumore ovattato dei suoi passi si spense in distanza.

Solo, nella nave silenziosa, Bart Quentin aspettava i tecnici che avrebbero nuovamente messo a punto il suo corpo per il volo fino a Callisto.

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