CAPITOLO VII

Il tambureggiare sordo dei tuberi rovesciati sul carretto di Ultman svegliò Forzon all’alba. Si strinse la te§ta che gli scoppiava e gemette: «Ma è proprio necessario?»

«Devo fare tutto ciò che sembra naturale» disse Ultman, con nefando buon umore. «Un negoziante di prodotti agricoli che si è appena portato a casa merce fresca, non può incrociare le braccia e aspettare che il suo prodotto cominci a marcire per smerciarlo. Io devo visitare i miei migliori clienti questa mattina stessa.»

Forzon si voltò dall’altra parte, risentito, e si coprì le orecchie. Ultman caricò il carrettino, affumicò la stanza mal ventilata facendosi scaldare un boccale di cril, e infine, dopo un brusco consiglio a Forzon di non mettere fuori il naso fino al suo ritorno, si avviò cigolando su per la rampa e uscì.

Forzon non aveva alcuna intenzione di farsi vedere fuori. Forse più tardi avrebbe meditato sul principio per cui non si poteva modificare d’un filo il normale programma di un agente della Squadra B, neppure per riguardo a un sovrintendente con i postumi di una sbornia; ma per il momento si contentò di avvolgersi in un manto di silenzio e cercare di dormire. Si assopì pensando che l’entrata nascosta della galleria di soccorso era solo a un braccio di distanza e che tuttavia non avrebbe assolutamente avuto il tempo di usarla in caso di necessità. Non c’erano serrature alla porta e se i ruff del re fossero arrivati improvvisamente per catturarlo, lo avrebbero preso prima ancora che fosse del tutto sveglio. Anche se, per miracolo, avesse raggiunto la galleria, non sapeva dove rifugiarsi una volta arrivato in fondo.

Quando si svegliò, Ultman era già di ritorno, con una polpetta di carne ben calda, il mal di testa era sparito, e il giorno, anche negli abissi della cantina di Ultman, si annunciava molto più brillante.

«Ho delle notizie» disse Ultman esultante. «Il re ha ordinato una festa per questa sera.»

«Che tipo di festa?»

«Uno spettacolo pubblico. Balli, danze, musica… tutto, Ogni cittadino maschio che possiede di che pagarsi il biglietto è il benvenuto. Il re chiama gli artisti migliori, il pubblico si diverte, e presumo che Sua Maestà ne tragga un discreto beneficio. Desiderate andarci?»

«Non vorrei mancare per tutto l’oro del mondo» disse Forzon, serio.

«Va bene, andremo. Mentre voi mangiate, io vi do qualche consiglio su come comportarsi per le vie di Kurra.»

«Avete già visto tutti i vostri migliori clienti?»

«Ne ho visti parecchi» disse Ultman con un sorriso. «È il segreto della riuscita, in questo ramo. Se il più delle volte voi fate la cosa che tutti si aspettano da voi, la gente penserà che lo facciate sempre.»

Trascorsero il pomeriggio passeggiando per le strade coperte di Kurra, curiosando nelle botteghe ogni volta che Forzon vi scovava qualcosa d’interessante. Non comprarono nulla, ma quando Forzon rimase affascinato alla vista di un boccale d’argento magnificamente cesellato, Ultman si mise con entusiasmo a mercanteggiare con l’argentiere, prima di formulare un prezzo in argento grezzo, poi in monete d’argento, poi in monete di rame; infine quando la trattativa pareva a buon punto, propose un certo peso di tuberi se l’argentiere li avesse accettati in luogo di denaro. I passanti si fermavano, felici di ascoltare la discussione o per unirsi alle trattative, e improvvisamente si creò una specie di asta, con i passanti che facevano salire il prezzo che Ultman era riuscito con lunghe, astute negoziazioni, a mantenere basso. Il boccale fu acquistato da uno straniero ben vestito che fece soltanto un’offerta, l’ultima.

L’argentiere esibì allora un altro boccale, ma Forzon lo ritenne inferiore al primo e se ne andarono.

«Quelle sono le cose di cui vi intendete, non è vero?» disse Ultman.

Di giorno per le strade di Kurra potevano conversare in galattico con relativa sicurezza. Con il rumore dei carri e carretti che cigolavano tutt’intorno, le grida dei venditori ambulanti, le discussioni degli acquirenti, non v’era pericolo di essere uditi da altri. Facevano già fatica a capirsi l’un l’altro. Ultman disse serio: «Vi piacerebbe gestire un negozio come quello?»

«Non credo.»

«Allora guardatevi intorno e vedete un po’ cos’è che vi interessa. Dovrete avere varie occupazioni.»

«Varie…

«Certo. Se succede un patatrac, ciò vi lascia acqua da correre.»

«Come si fa ad avere simultaneamente varie occupazioni?»

«Ci s’arriva programmando bene le cose. Io compero tuberi e li porto in giro per rivenderli, ma faccio anche il cameriere in una taverna, all’altro capo della città. Qualche volta dormo lì due o tre notti, faccio quel che l’oste mi ordina di fare, accetto quel che mi dà. L’importante è di essere conosciuto in quel luogo, e a qualsiasi momento io ci vada, sono sempre il benvenuto. Inoltre, un paio di agenti della Squadra B che sono in affari, mi hanno iscritto nei libri quale loro aiutante; di tanto in tanto faccio una capatina, e i loro clienti mi conoscono. Naturalmente ho un’identità diversa per ognuno di questi posti.»

«Voialtri prevedete tutto.»

Ultman sorrise apertamente. «Come dice Leblanc, ogni volta che un agente della Squadra B prova un sentimento di sicurezza, vuol dire che è in pericolo.»

«Fino a che punto io sono al sicuro, nella veste di vostro aiutante?»

«Non troppo sicuro. I negozianti di prodotti agricoli in genere non hanno assistenti e mentre i contadini non faranno caso, la prima volta, al fatto che viaggiate con me (possono pensare che andiate nella mia stessa direzione) la cosa desterebbe curiosità se accadesse una seconda volta. Nessuno s’interessa al fatto che condividiate la mia cantina qui a Kurra, ma se vi fate vedere in giro a lungo senza che si capisca di che cosa vivete, alcuni dei miei vicini cominceranno a farsi delle domande, e qui a Kurra se qualcuno si fa domande non ci vuol molto perché i ruff del re comincino anche loro a farsi delle domande.»

«Non credo che vi sia un museo di belle arti in cerca di un conservatore, non è vero?»

Ultman ebbe un risolino. «Non credo.»

«Finora non ho visto nulla in giro che mi piaccia fare, ma cercherò meglio. Beviamo qualcosa.»

Ultman disse con serietà. «Nessun Kurriano per bene si permette di bere prima del tramonto. Non a Kurra. Non in pubblico, comunque. Le taverne non aprono mai finché non è scuro abbastanza per giustificare l’accensione di una torcia.»

«E anche questa è una delle savie leggi di Re Rovva?» chiese Forzon, con tono irritato di chi ha voglia di un bicchiere.

«Fa stare i cittadini sobriamente al lavoro.»

«E risparmia al re il costo dell’illuminazione stradale. Mi rimangio tutto ciò che ho detto. I Kurriani hanno ampio motivo per ribellarsi, e più presto accadrà, meglio sarà.»

Andarono fino al centro della città dove si ergeva il palazzo reale, un massiccio castello di pietra a forma di fungo, nel bel mezzo di una vasta piazza. Al di sopra dell’ingresso principale sventolava lo striscione con le grandi lettere dipinte, che annunciava l’imminente festival. Quando tornarono sul tardi alla cantina di Ultman, qualcuno vi aveva lasciato un pacco. Era il boccale di argento cesellato.

Forzon disse spaventato: «Non ditemi che la persona che lo ha acquistato era…»

«Squadra B. Naturalmente. Non si addice a dei mercanti ambulanti come noi, comperare cose del genere, e quello ha pensato che voi ci teneste molto. È ammesso che un ambulante cerchi di contrattare; ma, se dà inizio ad un’asta, è prudente si ritiri in buon ordine, specialmente se ci sono in giro, come c’erano, i ruff del re. Potrebbero pensare: perché mai un mercante ambulante possiede tanti denari? E non è neppure prudente che questo oggetto resti in giro qui. Andiamo al festival, lo porteremo da Lweyn e gli diremo di tenerlo nascosto fin quando non vi sarete trovato un’abitazione.»


All’imbrunire si misero in fila e, con accompagnamento di monetine sonanti, passarono sotto speciali porte delle mura cittadine ed entrarono nell’anfiteatro reale. Le lunghe file a curva dei gradini di pietra erano state costruite sul fianco ripido di una depressione naturale. Nel centro di una specie di arena, in basso, c’era un chiosco a forma di fungo, con molte aperture.

«Il palco reale» sussurrò Ultman.

Si sedettero in alto, nelle ultime file poiché Ultman aveva borbottato che non era prudente trovarsi con troppa gente fra sé e l’uscita, e guardarono il teatro riempirsi di gente. L’oscurità che scendeva lentamente celava perfino le sagome scure dei loro vicini, ma gli spettatori continuavano ad arrivare, a inciampare in cerca di posti a sedere. Finalmente giunsero il re e il suo seguito, in un lungo corteo di fiaccole, e scesero con passo lento e maestoso la rampa che portava al chiosco. Le fiaccole si accesero intorno all’arena circolare e lo spettacolo cominciò.

Forzon, per il momento, concentrava la sua attenzione sul re; ma, da quella distanza, alla luce vacillante delle fiaccole, riusciva solo a distinguere una figura massiccia avvolta in una ampia veste, quando qualcuno del seguito si chinava in avanti. Deluso rivolse la sua attenzione allo spettacolo.

Sulle prime gli sembrò tutto molto caotico. A ogni estremità dell’arena wn artista dipingeva un’immensa tela. Il re avrebbe premiato il dipinto che più gli sarebbe piaciuto, spiegò Ultman. Un poeta recitò la sua ultima poesia. L’acustica del luogo era perfetta; ma Forzon non afferrò la maggior parte delle allusioni. Un gruppo di danzatori avanzò facendo un lungo girotondo per tutta l’arena, muovendosi con passo pesante e molto lento, ma facendo roteare tutto il corpo in fantastiche piroette. Un gruppo di soldati stava in piedi, in formazione compatta. Apparentemente non facevano nulla, ma mentre Forzon li osservava, i ranghi si mossero ed assunsero la forma di un fiore che si apre e comincia a stendere i suoi petali. Il fiore sparì e lentamente si formarono dei disegni geometrici.

Improvvisamente il palcoscenico fu sgombrato da tutti tranne che dai pittori. Un assistente in uniforme portò nell’arena un torril meravigliosamente scolpito e intarsiato, e il pubblico che fino a quel momento aveva osservato un silenzio rispettoso, salutò il musicista con un tuono di applausi scalpitanti.

«Lo chiamano Tor» mormorò Ultman, quando cessò il rumore. «Egli è per così dire un sinonimo del suo strumento. È il migliore suonatore che ci sia ed è relativamente giovane.»

Tor si sedette di fronte al torril e circondò le corde con le sue mani. Forzon lo guardava con attenzione e fece una scoperta: l’altezza del torril era proporzionata alla statura del suonatore, ma la dimensione della cassa armonica sferica era in proporzione alla sua bravura. Quanto maggiore era il globo, tanto più numerose erano le corde che vi si potevano fissare, e quanto più vasta era l’estensione dei toni, tanto maggiore era la maestria che occorreva per suonarlo.

Lo strumento di Tor aveva una sfera enorme e i suoni, che cominciavano dai bassi profondi per arrivare al tremulo timbro delle campanelle, possedevano quella ricca risonanza a confronto della quale gli strumenti più semplici che si udivano nelle taverne sembravano giocattoli. Le sue mani, che non parevano neppure sfiorare le corde, producevano un’incredibile, rapidissima quantità di note. La musica sgorgò gioiosa, poi affondò in un gemito sordo, sussurrò temi di sognante bellezza, e si concluse in un crescendo marziale. Il pubblico si alzò in piedi per applaudire e scalpitare. Forzon lo imitò.

«Non ho mai sentito nulla di simile» confidò a Ultman quando il tumulto cessò.

Tor cominciava a suonare un altro pezzo. L’arpeggiare aggressivo sulle corde cominciava bassissimo e gradualmente si muoveva lungo l’intera gamma dello strumento, per mezzo di temi a spirale. Poi di colpo si fermò, e fu un arresto così brusco che l’orecchio incredulo cercava ancora nel silenzio la voce che taceva.

Tor si alzò e rimase in piedi, fermo, a capo chino, rivolto verso la finestra centrale del chiosco. Una figura in veste sontuosa si sporgeva in avanti; il re, evidentemente, stava parlando, anche se le sue parole non giungevano al pubblico.

Forzon trattenne il respiro, al punto che gli mancò l’aria. Il viso di Ultman nell’ombra era immobile e stupefatto. In un silenzio di tomba, le migliaia di spettatori stavano semplicemente a guardare.

Delle guardie circondarono Tor, lo spogliarono sino alla cintola. Tutto accadde così rapidamente che era già finito prima che Forzon ne avesse potuto capire l’orrore: il balenare della sciabola, l’urlo di dolore, il medico che si prodigava sul moncone sanguinante… Forzon non si accorse di essersi alzato in piedi finché Ultman non lo tirò bruscamente indietro sussurrando freneticamente: «Attento, attento…»

La folla rimase seduta, come ipnotizzata dal proprio silenzio, mentre Tor, col braccio mozzo e fasciato, gli abiti rimessi sulle spalle, usciva barcollando. L’assistente portò via il torril e nel punto dove prima si era alzata una splendida musica, non rimaneva che polvere macchiata di sangue e l’avanzo di un braccio umano. Nessuno osò toccarlo per il resto dello spettacolo, e gli artisti lo evitarono nervosamente.

«Ma perché? Perché?» ripeteva Forzon in un singhiozzo. «Era un grande musicista.»

Ultman gli fece cenno di tacere. «Era…» gli sussurrò duramente.

Vi fuorono poi dei bellissimi canti, dei danzatori perfetti che ballarono sul ritmo di piccoli tamburi, acrobati che si esibirono in strani giochi compreso il lancio di torce accese nell’arena buia, campanelle tintinnanti, suoni profondi del gong, altri canti, altre danze, altre poesie, tutte cose affascinanti, ma sulle quali la mente intorpidita di Forzon rifiutava di fermarsi. Si sentiva male, molto male, voleva andarsene; ma sapeva, anche se nessuno glielo aveva detto, che lasciare la festa del re prima che fosse finita era molto pericoloso.

L’entusiasmo della folla era stato soffocato. Gli attori si muovevano come in preda al terrore. La festa si trascinò con fatica per un’altra ora. Poi il re e il suo seguito finalmente se ne andarono e la folla poté lentamente uscire.

Ultman non parlò finché non ebbero voltato l’angolo di un vicolo coperto, lasciandosi dietro il grosso della folla. «Dicono che succeda spesso» osservò pensoso «ma non mi risulta che fosse mai successo in pubblico, e nemmeno in privato, a una figura popolare come Tor. Il vecchio Rovva deve avere qualcosa che lo disturba. Forse mal di denti. Dicono che l’ultimo suo mal di denti sia costato la metà della real casa.»

L’immagine di quel braccio mozzo scottava nella memoria di Forzon. Disse solo: «Quell’uomo sarebbe stato considerato un grande artista in qualsiasi luogo.»

«Era qualcosa di più. Questi artisti viaggiano molto e Tor era il migliore. Un eroe nazionale, si potrebbe dire. Il re dev’essere impazzito.»

Percorsero tutto un labirinto di viuzze scure e tortuose. Forzon, ammutolito, seguiva Ultman chiedendosi se, da solo, avrebbe ritrovato la strada sino alla sua cantina. C’erano poche taverne in quella parte della città, e l’unica luce che si notava qua e là era la fessura luminosa di una finestra oscurata. Nel buio tutto a Forzon sembrava diverso e fu solo quando ebbero camminato molto più di quanto gli sembrava necessario, che si rese conto che tutto era diverso.

«Stiamo andando da un’altra parte, non è vero?» chiese.

«Sì» rispose Ultman, asciutto.

Giunsero in uno spazio scoperto, formato dall’incrocio di diverse strade. La torcia di una taverna bruciava dalla parte opposta. Ultman trasse Forzon nell’ombra e gli chiese:

«Vedete quella finestra?»

Forzon guardò nel buio, spostandosi in avanti per vedere oltre la curva aggettante dell’edificio. «Non sono sicuro…»

«Di giorno ci sono dei fiori, su quella finestra. Di notte si vede un lume.»

«Non c’è alcun lume» osservò Forzon.

«Appunto.»

Si affrettarono e Forzon si avvide improvvisamente che Ultman guardava ripetutamente dietro di sé. «Abbiamo dei segnali come questo sparsi in tutta Kurr» disse. «Li controlliamo più spesso che possiamo. Questa finestra è la terza, stasera, che dovrebbe essere illuminata e non lo è. Significa che la Squadra B è nei guai.»

«Che cosa facciamo?»

«Non lo so ancora.»

«La Sovrintendenza Culturale è tutt’altra cosa» borbottò Forzon, e cominciò a guardare i passanti con una certa inquietudine.

Camminarono ancora un po’, tenendosi il più possibile nell’ombra, poi Ultman si fermò sotto la torcia di una taverna mentre si toglieva deliberatamente la cappa e la piegava sul braccio. Un attimo dopo una vecchia megera tutta curva uscì da una porta e andò zoppicando verso di loro. Lanciò un’occhiataccia a Forzon, scambiò alcune frasi pungenti con Ultman, e prima di allontanarsi gli sibilò: «Uragano Tre.»

Sparì oltre l’angolo. Essi presero la direzione opposta e dopo una lunga, estenuante marcia, Ultman guidò Forzon giù per la rampa di una povera taverna. I pochi clienti presenti li guardarono con indifferenza, e decisero di ignorarli. Forzon e Ultman si sedettero al tavolo più remoto e misero sul tavolo le loro monete, e mentre il grasso mescitore riempiva i loro bicchieri mormorò piano: «C’è stata una frana, ma non credo che abbiano preso nessuno».

«Avete bisogno d’aiuto?» rispose Ultman con un soffio.

«Non credo. Il mio gruppo è fuori pericolo, comunque. Bevete le vostre bibite poi andate di sopra. Ora li informo che siete qui. Tutti vi cercavano.»

Ultman, calmo, si versò la birra, Forzon si guardò intorno con apprensione, ma nessuno pareva badare a loro.

«Joe è una gran brava persona» disse Ultman a Forzon. «Bevete un po’ di birra. Anche la vecchia è molto brava. L’avete riconosciuta?»

Forzon riempì il suo boccale, sorseggiò la birra, nascose la sua smorfia mettendosi una mano davanti alla bocca. «No. Perché? Avrei dovuto riconoscerla?»

«Credevo la conosceste. È Ann Cory. Generalmente gira per Kurra sotto le spoglie di una vecchia. È pericoloso, per una ragazza giovane e carina, vivere a Kurra, in prossimità della corte di Re Rovva. Bevete ancora un po’.»

Forzon bevette, chiedendosi se il manuale operativo ERI dicesse qualcosa sulla pazienza: sul fatto di attardarsi davanti a un boccale di birra, in una taverna, mentre la propria vita è in pericolo, solo perché ci si farebbe notare uscendo troppo in fretta! Considerò Ultman con un rispetto del tutto nuovo; al tempo stesso gli sembrava che un solo bicchiere di birra fosse una prova sufficiente di normalità; ma Ultman, dopo averci pensato su, tirò fuori altri soldi, e annunciò di voler bere ancora.

Quando si alzarono, gli occhi di tutti si volsero su di loro, li seguirono sino alla porta, poi si distolsero. L’oste si mosse per riempire un boccale vuoto. Risalirono la rampa ed entrarono senza esitazione nell’edificio, dalla porta d’ingresso, e all’interno un robusto uomo di guardia sorrise loro, strinse la mano a Ultman e indicò il piano di sopra con un cenno del capo. In una stanza al primo piano trovarono un vecchio, impaludato in ampie vesti sbiadite, seduto a un tavolo davanti una borraccia di vino. Scrutò Forzon attentamente con i suoi occhi spalancati, quasi ciechi, acquosi, annebbiati dalla cateratta, e gli disse di accomodarsi.

«Com’è la situazione?» chiese Ultman.

«Il tuo gruppo è bruciato. La tua casa è sorvegliata. Abbiamo bloccato tutte le strade che portano lì, in modo da non lasciarvi avvicinare.»

«Io verifico sempre» disse Ultman asciutto.

Il vecchio alzò le spalle. «Non è per te che ci preoccupavamo. In quanto alla situazione, il comandante sta per arrivare, il che significa che non potrebbe andar peggio.»

«Paul? Viene qui?»

«Con l’aereo» disse piano il vecchio. «E, come sai, Paul Leblanc non verrebbe mai con l’aereo a Kurra né in nessun altro luogo all’interno del continente, se non fosse già troppo tardi perché la cosa importi. C’è una sola spiegazione possibile: il nostro industrioso coordinatore ne avrà combinata ancora una delle sue, e il pianeta è ormai bruciato. L’unica cosa da fare è di sgombrare tutto. Alla svelta.»

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