PARTE PRIMA Ali della notte

1

Roum è una città costruita su sette colli. Si dice che sia stata capitale dell’umanità in uno dei primissimi Cicli. Non sapevo niente di tutto ciò, perché io appartenevo alla Corporazione delle Vedette, non a quella dei Ricordatori; ma quando la città mi si parò davanti la prima volta, dal lato sud, al crepuscolo, capii subito che in tempi antichi doveva aver avuto un’importanza immensa. Anche adesso era una possente città, di parecchie migliaia d’anime.

Le sue torri angolose si stagliavano nettamente contro il cielo crepuscolare. Le luci scintillavano, invitanti. Alla mia sinistra, il cielo era incandescente, per l’ultimo sprazzo di sole. Nastri di vapore color porpora, azzurri e violetti, fluttuavano, intrecciandosi gli uni sugli altri nella danza crepuscolare che precede l’oscurità. Alla mia destra, le tenebre erano già calate.

Cercai con lo sguardo i sette colli: non riuscii a vederli, ma compresi ugualmente che quella era la Roum maestosa a cui conducono tutte le strade, e provai profondo rispetto e riverenza per le opere dei nostri antenati.

Sostammo sul ciglio di quella via lunga e diritta, e alzammo nuovamente gli occhi alla città. — È bella — dissi. — Troveremo un impiego, là.

Accanto a me, Avluela batté le ali di trina. — E cibo? — domandò con la sua voce flautata. — E ricovero? E vino?

— Anche questi — dissi. — Tutto.

— Da quanto tempo camminiamo, Vedetta?

— Da due giorni e tre notti.

— Se avessimo potuto volare, avrei fatto molto più in fretta.

— Tu, sì — dissi io. — Ci avresti lasciati indietro e non ci avresti rivisti mai più. È questo che vuoi?

Lei mi si avvicinò, carezzò la stoffa ruvida della mia manica e mi si strofinò addosso, come una gattina in amore. Le sue ali si spiegarono come due lembi di tulle finissimo, attraverso cui potevo vedere il tramonto e le luci della sera, soffuse, distorte, come per magia. Percepii la fragranza dei suoi capelli color della notte, la cinsi col braccio e strinsi a me il suo corpo snello, da adolescente.

— Lo sai che io desidero restare con te, per sempre — disse lei. — Per sempre!

— Sì, Avluela.

— Saremo felici a Roum?

— Saremo felici — dissi, e la lasciai.

— Entriamo subito nella città?

— Meglio aspettare Gormon — dissi. — Sarà presto di ritorno dalla sua esplorazione. — Non volevo confessarle la mia stanchezza. Era soltanto una bambina di diciassette estati: che ne sapeva, lei, della stanchezza e dell’età? E io ero vecchio: non come Roum, ma vecchio la mia parte.

— Mentre aspettiamo — domandò Avluela — posso volare?

— Sì, vola.

Mi accoccolai accanto al mio carrello e riscaldai le mani contro il generatore pulsante, mentre Avluela si preparava a volare. Prima di tutto si liberò degli indumenti, perché le sue ali erano deboli e non potevano sopportare tutta quella zavorra. Agilmente, senza far rumore, si sfilò le scarpette leggere che aveva ai piedi, sgusciò fuori dalla giubba purpurea e dai soffici gambali di pelliccia. La luce morente, a ovest, avvolse la sua figuretta snella. Come tutti gli Alati, lei non aveva tessuto corporeo superfluo: i seni erano appena accennati, le natiche piatte, le cosce tanto sottili da lasciare uno spazio di vari centimetri tra l’una e l’altra, quando stava ritta a piedi uniti. Chissà se pesava più di quaranta chili? Ne dubito. Guardandola, mi sentii come al solito ingombrante e legato alla terra: un essere fatto di vile carne. Eppure, neanch’io sono corpulento.

Avluela s’inginocchiò a lato della strada, le nocche puntate a terra, il capo ripiegato tra le ginocchia, e pronunciò le parole segrete che pronunciano gli Alati. Mi voltava le spalle. A un tratto, le sue ali impalpabili presero a battere piene di vita e si spiegarono, avvolgendola come in un mantello sferzato dalla brezza. Non ero mai riuscito a capire come potessero, ali simili, sollevare una forma pur tanto leggera. Non erano ali di falco, ma di farfalla, venate e trasparenti, segnate qua e là da macchie di pigmento color ebano, turchese o scarlatto; un legamento robusto le fissava a due muscoli sotto le scapole. E poi, Avluela non aveva lo sterno carenato e i grossi fasci muscolari caratteristici di tutti i volatori. Oh, lo so che gli Alati non si servono soltanto dei muscoli, per innalzarsi, e che nel loro mistero sono adombrate discipline mistiche. Tuttavia, io, che ero delle Vedette, ero sempre un po’ scettico di fronte alle Corporazioni più fantastiche della mia.

Avluela terminò la sua invocazione. Si alzò, prese brezza e si sollevò di parecchi centimetri, restando sospesa fra cielo e terra, mentre le ali battevano frenetiche. Non era ancora buio, e quelle di Avluela erano solo ali della notte. Di giorno non avrebbe potuto volare, perché la terribile pressione del vento solare l’avrebbe gettata a terra. Ora, tra il crepuscolo e le tenebre, non era ancora il momento migliore per innalzarsi. Negli ultimi bagliori di luce, la vidi puntare verso est. Anche le sue braccia battevano, come ali. Il visetto affilato era serio e contratto per lo sforzo della concentrazione, e le labbra sottili mormoravano le parole della sua Corporazione. Il suo corpo si piegò, poi si raddrizzò di scatto: si trovò sospesa orizzontalmente, la faccia volta verso terra e le ali che battevano contro il cielo. Su, Avluela! Su!

E in breve fu su, conquistando con la sola forza di volontà quell’ultimo vestigio di luce che ancora brillava.

Seguii compiaciuto la figuretta nuda, nella crescente oscurità. La vedevo chiaramente, perché gli occhi di una Vedetta sono acuti. Era a diversi metri di altezza, ora, e le sue ali, completamente aperte, mi nascondevano parzialmente la vista delle torri di Roum. Salutò con la mano. Le gettai un bacio e offrii parole d’amore. Le Vedette non possono sposarsi, né generare, ma Avluela era come una figlia per me, e mi inorgoglivo del suo volo. Viaggiavamo insieme da un anno, ormai, da quando ci eravamo incontrati in Agupt, ed era come se ci fossimo conosciuti da sempre. Da lei attingevo nuova forza. Non so che cosa lei attingesse da me. Sicurezza? Sapienza? La continuità del passato? Speravo soltanto che mi amasse come io l’amavo.

Ora era lontana: guizzava, si impennava, si tuffava, piroettava, danzava. La sua chioma nera fluttuava nell’aria. Il suo corpo sembrava soltanto un’appendice senza importanza di quelle due immense ali, che scintillavano lucenti e pulsanti, nella notte. Si innalzò ancora, facendomi sentire anche più pesante, poi, come un razzo affusolato, guizzò via, in direzione di Roum. Intravidi i suoi piedi, la punta delle sue ali, poi più nulla.

Sospirai e infilai le mani nelle mie maniche larghe, per tenerle calde. Come mai sentivo un freddo invernale, mentre quella ragazzina poteva spaziare, gioiosamente nuda, nei cieli?

Era la dodicesima ora, su venti, e dovevo iniziare ancora una volta il mio turno di Vigilanza. Mi avvicinai al carrello, aprii le mie cassette e preparai gli strumenti. Il vetro di alcuni quadranti era ingiallito e sciupato, gli aghi degli indicatori avevano perduto fosforescenza, macchie di acqua marina deturpavano i sostegni degli apparecchi, fin da quando i pirati mi avevano assalito nell’Oceano Terrestre; ma le leve, consunte e incrinate, rispondevano docilmente al mio tocco, mentre io compivo i preliminari. Prima bisogna pregare per ottenere una mente pura e percettiva; poi si crea l’affinità con i propri strumenti; infine si compie la Vigilanza vera e propria, frugando i cieli stellati alla ricerca del nemico dell’uomo. Questa è l’unica mia abilità, la mia arte. Strinsi forte maniglie e manopole, scacciai ogni distrazione dalla mia mente e mi preparai a diventare un’estensione del mio stipo pieno di strumenti.

Avevo appena oltrepassato la soglia per entrare nella prima fase della Vigilanza, quando una voce risuonò alle mie spalle: — Olà, Vedetta, come va?

Mi piegai contro il carrello. Si prova una pena fisica a essere strappati così bruscamente al proprio lavoro. Per un attimo, mi sentii il cuore come dilaniato da invisibili artigli. La mia faccia divenne di fiamma; gli occhi non riuscivano a mettere a fuoco gli oggetti; la saliva mi si asciugò in gola. Appena possibile, presi misure protettive per ridurre quel salasso metabolico e mi staccai dagli strumenti. Cercando di nascondere il tremito, mi voltai. Gormon, il terzo componente della nostra piccola comitiva, era tornato e se ne stava sfrontatamente accanto a me. Rideva, divertito dal mio sgomento, ma non potevo infuriarmi contro di lui. Non si può mostrarsi incolleriti verso una persona senza Corporazione, qualunque sia la sua colpa.

A denti stretti, con grande sforzo, dissi: — Avete speso bene il vostro tempo?

— Benissimo. Dov’è Avluela?

Indicai il cielo. Gormon annuì.

— Che cosa avete scoperto? — gli domandai.

— Che questa città è senz’altro Roum.

— Non c’è mai stato dubbio che lo fosse.

— Per me, sì. Ma ora ho le prove.

— Davvero?

— Nella mia ipertasca. Guardate.

Dalle pieghe della tunica estrasse l’ipertasca, e, posatala sul terreno accanto a me, ne sciolse l’estremità e ci infilò una mano. Brontolando, cominciò a trarne fuori qualcosa di pesante, di pietra bianca: una lunga colonnina di marmo, scanalata, butterata dal tempo.

— Viene da un tempio di Roum imperiale! — disse trionfante.

— Non dovevate prenderla.

— Aspettate! — gridò lui. E infilò di nuovo la mano nell’ipertasca. Ne tolse una manciata di placche di metallo, circolari, e le sparse tintinnanti ai miei piedi. — Monete! Denaro! Guardate, Vedetta. La faccia dei Cesari!

— Di chi?

— Di antichi governanti. Non conoscete la storia dei Cicli passati?

Lo guardai incuriosito. — Dite di non appartenere a nessuna Corporazione, Gormon. Non sarete mica un Ricordatore che cerca di nascondermi la sua identità?

— Guardatemi bene in faccia, Vedetta. Potrei appartenere a una qualsiasi Corporazione? Potrebbe, un Diverso?

— È vero — dissi osservando la sua pelle spessa e dorata, gli occhi dalle pupille rosse, la bocca tagliuzzata. Gormon era stato svezzato con farmaci teratogeni. Era un mostro, bello, nel suo genere, ma sempre un mostro: un Diverso, escluso dalle leggi e dalle abitudini dell’uomo nel Terzo Ciclo di civiltà. E non esiste una Corporazione di Diversi.

— C’è dell’altro — disse Gormon. Le ipertasche hanno una capacità inesauribile: all’occorrenza, un mondo intero avrebbe trovato posto nella sua sacca grinzosa, color grigio gabbiano, senza alterarne le modeste dimensioni. Gormon ne tolse pezzi di macchinari, bobine di lettura, un oggetto angolare di metallo bruno, che doveva essere un utensile antico, tre quadrati di vetro scintillante, cinque strisce di carta, sì, proprio di carta!, e una moltitudine di altre reliquie del passato. — Vedete? Passeggiata fruttuosa, no? — disse. — E non un bottino raccolto a caso. Ogni pezzo è registrato, etichettato: strato, età presumibile, posizione in situ. Qui ci sono diecimila anni di Roum.

— Ma potevate appropriarvi di queste cose? — domandai, dubbioso.

— E perché no? Chi ne sentirà la mancanza? Chi si preoccupa ancora del passato in questo ciclo?

— I Ricordatori.

— Non hanno bisogno di oggetti solidi, per svolgere il loro lavoro.

— Ma perché vi interessano tanto queste cose?

— Il passato mi interessa, Vedetta. Anche se non appartengo a nessuna Corporazione, ho degli interessi culturali. Secondo voi, un mostro non può amare il sapere?

— Certo, certo. Cercate quello che vi pare. Realizzate voi stesso a modo vostro! Questa è Roum. All’alba entreremo; spero di trovare un impiego, là dentro.

— Non sarà facile.

— E perché?

— Ci sono molte Vedette, a Roum. Non c’è bisogno della vostra opera.

— Chiederò aiuto al Principe di Roum — dissi.

— Il Principe di Roum è un uomo duro, freddo e crudele.

— Come fate a saperlo?

Gormon si strinse nelle spalle. — Lo so. — Poi cominciò a riporre il bottino nell’ipertasca. — Tentate pure con lui, Vedetta. Che altra possibilità avete?

— Nessuna — dissi. Gormon rise, ma io no.

Si occupò solo più del suo bottino rubacchiato all’antichità. Mi aveva notevolmente depresso, con le sue parole. Sembrava così sicuro di sé, in un mondo gravido d’incertezza, quel tipo senza Corporazione, quel mostro mutato, quell’uomo dall’aspetto disumano… Come poteva essere così freddo, indifferente? Viveva senza preoccuparsi del pericolo incombente e si pigliava gioco di chi ammetteva di avere paura. Viaggiava con noi da dieci giorni, ormai, da quando lo avevamo incontrato nell’antica città ai piedi del vulcano, a sud, presso la riva del mare. Non ero stato io a proporgli di unirsi a noi. Si era invitato da solo; e, alla preghiera di Avluela, avevo accettato. Le strade sono scure e fredde in questa stagione, e infestate da ogni specie di bestie feroci; è naturale che un vecchio e una ragazza, soli, siano disposti ad accettare la compagnia di un tipo nerboruto come Gormon. Però, in certi momenti avrei preferito che non fosse mai venuto con noi, e quello era appunto uno di quei momenti.

Tornai lentamente verso la mia attrezzatura.

Lui, fingendo di accorgersene soltanto allora, disse: — Ho interrotto la vostra Vigilanza, Vedetta?

— Sì — risposi mitemente.

— Scusatemi. E ricominciate. Vi lascerò in pace. — E mi scoccò un sorriso così affascinante, con quella sua bocca asimmetrica, che dimenticai l’arroganza delle sue parole.

Toccai le manopole, stabilii i vari contatti, controllai i quadranti. Ma non entrai nello stato di Vigilanza piena, perché sentivo la presenza di Gormon e temevo che mi strappasse di nuovo alla concentrazione in un momento delicato, nonostante la sua promessa. Infine, distolsi gli occhi dagli apparecchi. Gormon stava ritto in fondo alla strada, il collo teso nello sforzo di avvistare Avluela. Nello stesso istante in cui mi voltai, si accorse di me.

— Qualcosa che non va, Vedetta?

— No. Ma non è il momento propizio per il mio lavoro. Aspetterò.

— Ditemi — domandò lui — quando i nemici della Terra verranno per davvero dalle stelle, le vostre macchine ve lo faranno sapere?

— Spero di sì.

— E allora?

— Avvertirò i Difensori.

— E poi, la vostra missione sarà terminata? Non avrete più niente da fare?

— Forse.

— Ma, allora, perché creare un’intera Corporazione di Vedette e non un centro principale, dove si tenga la Vigilanza? Perché un gruppo di Vedette nomadi che vagano senza sosta da un luogo all’altro?

— Più sono i vettori della ricerca, più probabilità esistono che ci si accorga in tempo dell’invasione.

— Ma in questo modo potrebbe succedere che una singola Vedetta, isolata dalle altre, metta in funzione le sue macchine e non trovi niente, mentre invece l’invasore potrebbe già essere sbarcato…

— Potrebbe succedere; per questo, a ogni turno di Vigilanza, le Vedette sono più di una.

— Secondo me, siete esagerati — rise Gormon. — Credete davvero nella possibilità di un’invasione?

— Ci credo — dissi. — Altrimenti la mia vita sarebbe sprecata.

— E perché gli abitanti delle stelle dovrebbero impossessarsi della Terra? Cosa abbiamo, oltre i resti di antichi imperi? Che se ne farebbero di questa miserabile Roum? Di Perris? Di Jorslem? Città in rovina! Principi idioti! Andiamo, Vedetta, dovete riconoscerlo: l’invasione è un mito, e voi compite gesti senza senso quattro volte al giorno! Non è così?

— Vigilare è la mia arte e la mia scienza. La vostra è schernire. Ognuno di noi ha la propria specialità, Gormon.

— Perdonatemi — disse con finta umiltà. — Andate, allora, e Vigilate.

— Lo farò.

Irritato, tornai al mio stipo di strumenti, deciso a ignorare qualsiasi interruzione, per quanto brutale. Le stelle splendevano: guardai le costellazioni scintillanti e, automaticamente, la mia sensibilità registrò gli innumerevoli mondi. “Iniziamo la Vigilanza” dissi a me stesso. “Facciamo il nostro dovere, in barba agli scherni di quelli che non credono.”

Ed entrai nello stato di piena Vigilanza.

Afferrate le impugnature, mi lasciai investire dall’ondata di energia. La mia mente si innalzò nei cieli, alla ricerca delle entità ostili, nell’estasi indicibile di uno splendore abbagliante. Io, che mai avevo lasciato questo piccolo pianeta, spaziavo nell’immensità tenebrosa del vuoto, scivolando da una stella ardente a un’altra, e vedevo i mondi girare come trottole. Facce sconosciute mi fissavano nel mio vagabondare, alcune senza occhi, altre con molti occhi: tutta la Galassia, così complessa, abitata da innumerevoli specie, diventava accessibile per me. Spiavo, per individuare eventuali concentrazioni di forze avverse. Scrutavo campi di manovra e accampamenti militari. Cercavo, come avevo sempre fatto quattro volte al giorno, per tutta la mia vita, gli invasori annunciati dalle profezie, i conquistatori che, alla fine dei giorni, si sarebbero impadroniti del nostro mondo decrepito.

Non scoprii niente, e quando mi riebbi dalla trance, madido di sudore e completamente estenuato, vidi Avluela che scendeva.

Atterrò, leggera come una piuma. Gormon la chiamò e lei si mise a correre, nuda, il piccolo seno fremente, verso di lui; l’uomo circondò la figuretta minuta con le braccia poderose, e si baciarono, senza passione, gioiosamente. Quando Gormon la lasciò, Avluela si volse a me.

— Roum — disse senza fiato. — Roum!

— L’hai vista?

— Tutta! Migliaia di persone! Luci! Viali! Un mercato! Edifici in rovina, di molti Cicli fa. Oh, Vedetta, è stupenda Roum!

— È stato bello il tuo volo, allora — dissi.

— Come un miracolo!

— Domani entreremo nella città.

— No, no, Vedetta, subito! Stanotte! — esclamò eccitata. — È così vicina! … Guarda!

— Dobbiamo riposare, prima — dissi io. — Per non arrivare stanchi.

— Riposeremo là — replicò Avluela. — Suvvia, riponi i bagagli! Hai già fatto la tua Vigilanza, no?

— Sì, sì.

— E allora andiamo. A Roum! A Roum!

Guardai Gormon con aria supplice. La notte era già scesa: sarebbe stata ora di accamparci e di concederci alcune ore di sonno.

Una volta tanto, Gormon si schierò dalla mia parte. — La Vedetta ha ragione — disse ad Avluela. — Dobbiamo riposare. Entreremo in città all’alba.

Avluela mise il broncio. Sembrava più bambina che mai. Le sue ali si afflosciarono e il suo corpo acerbo si curvò. Chiuse le ali, riducendole a due piccole protuberanze grosse come un pugno, e raccolse gli indumenti sparsi sul terreno. Si rivestì mentre noi preparavamo il campo. Distribuii delle tavolette di cibo, poi ci infilammo nei nostri ricettacoli. Io caddi in un sonno inquieto e sognai Avluela che si stagliava contro la luna decrepita, e Gormon che le volava accanto. Due ore prima dell’alba, mi alzai e compii la prima Vigilanza del nuovo giorno, mentre loro dormivano ancora. Poi li svegliai, e ci avviammo verso la favolosa città imperiale: verso Roum.

2

La luce del mattino era limpida e cruda, come in un mondo giovane, appena creato. La strada era pressoché deserta: la gente non viaggiava volentieri, di quei tempi, a meno che non fosse, come me, nomade di professione. Di quando in quando, ci facevamo da parte per lasciare il passo al cocchio di qualche membro della Corporazione dei Padroni, trainato da una dozzina di neutri inespressivi e aggiogati in fila. Ne passarono quattro, di quei veicoli, nelle prime due ore della giornata, ciascuno accuratamente chiuso e sigillato per nascondere gli altezzosi lineamenti del Padrone allo sguardo della gente comune. Incontrammo anche diversi carri coperti, carichi di prodotti; parecchi velivoli passarono sopra la nostra testa. Tuttavia, avevamo quasi sempre la strada per noi.

Nei dintorni di Roum abbondavano le vestigia dell’antichità: colonne solitarie, i resti di un acquedotto che non trasportava più nulla, da nessuna sorgente a nessun utente, il pronao di un tempio distrutto. Quella era la Roum più antica; ma c’erano anche reliquie di Cicli più recenti; capanne di contadini, cupole di pozzi d’energia e strutture di torri residenziali. Più raramente ci imbattevamo nello scafo bruciacchiato di qualche antico veicolo aereo. Gormon esaminava ogni cosa, e, di tanto in tanto, raccoglieva qualche oggetto. Avluela fissava tutto a occhi spalancati, e non diceva niente. Continuammo a camminare finché le mura della città apparvero alla nostra vista.

Erano di una pietra color azzurro cupo, lucida come porcellana, e si alzavano a un’altezza di circa otto uomini. La nostra strada le attraversava passando sotto un arco i cui cancelli erano spalancati. Mentre ci avvicinavamo a questi, ci venne incontro un uomo incappucciato e mascherato, straordinariamente alto, che indossava il costume scuro caratteristico della Corporazione dei Pellegrini. Non ci si rivolge a una persona simile di propria iniziativa, ma le si presta attenzione soltanto se fa cenno di voler parlare. Il Pellegrino fece un cenno.

— Da dove venite? — domandò attraverso la griglia della maschera.

— Dal sud. Sono vissuto in Agupt per un po’, poi ho attraversato il Ponte di Terra e sono entrato in Talya — risposi.

— Dove siete diretto?

— A Roum. E intendo restarci un poco.

— Come va la Vigilanza?

— Come al solito.

— Avete un luogo dove alloggiare, a Roum? — domandò il Pellegrino.

Io scossi la testa. — Ci affidiamo alla misericordia della Volontà.

— La Volontà non è sempre misericordiosa — disse l’altro, assorto. — E non c’è gran bisogno di Vedette, a Roum. Perché viaggiate con un’Alata?

— Per la compagnia. E perché è giovane e ha bisogno di protezione.

— E l’altro chi è?

— È senza Corporazione: un Diverso.

— Questo lo avevo già capito da solo. Ma perché sta con voi?

— Lui è forte e io son vecchio; perciò viaggiamo insieme. Dove siete diretto, Pellegrino?

— A Jorslem. C’è forse un’altra meta, per uno della mia Corporazione?

Annuii, alzando le spalle.

— Perché non venite a Jorslem con me? — chiese il Pellegrino.

— La mia strada ora volge a nord, e Jorslem è a sud, vicino all’Agupt.

— Siete stato in Agupt e non a Jorslem? — chiese meravigliato.

— Sì. Per me non era ancora giunto il momento di vederla.

— Veniteci ora. Cammineremo insieme, Vedetta. E parleremo del tempo antico e di quello futuro. Io vi assisterò nella Vigilanza, e voi mi assisterete nelle mie comunioni con la Volontà. Siete d’accordo?

La tentazione era forte. Davanti ai miei occhi passò in un lampo la visione di Jorslem, la Dorata, con i suoi edifici sacri e i suoi santuari, il suo luogo di rinnovamento dove i vecchi ringiovaniscono, le sue guglie, i suoi tabernacoli. Benché fossi ligio al dovere, in quel momento desiderai di abbandonare Roum e di seguire il Pellegrino.

— E i miei compagni? — dissi.

— Lasciateli. Io non posso viaggiare con i senza Corporazione e non mi va la compagnia di una femmina. Io e voi soltanto, Vedetta, andremo a Jorslem insieme.

Avluela, che era rimasta in disparte, col viso rabbuiato, durante tutto il colloquio, mi lanciò uno sguardo pieno di terrore.

— Non li abbandonerò — dichiarai.

— Allora, andrò a Jorslem da solo — disse il Pellegrino, e dalla sua veste spuntò una mano ossuta, dalle dita lunghe, bianche, decise. Pieno di riverenza, sfiorai la punta di quelle dita e il Pellegrino disse: — Che la Volontà vi usi misericordia, amico Vedetta. Quando verrete a Jorslem, cercate di me.

E si incamminò lungo la strada, senza aggiungere altro.

— Vi sarebbe piaciuto andare con lui, eh? — disse Gormon.

— Ho preso in considerazione la cosa.

— Che potrebbe offrirvi Jorslem, che non possiate trovare qui? Anche questa è una città santa. Qui potrete riposare un poco. Non siete in grado di camminare ancora.

— Forse avete ragione — convenni. E, raccogliendo le mie ultime forze, mi diressi verso la porta di Roum.

Occhi attenti ci osservavano dalle feritoie. Quando fummo sotto l’arco, una grossa Sentinella dalle guance flaccide ci fermò e domandò che cosa andassimo a fare a Roum. Io rivelai il nome della mia Corporazione e le mie intenzioni, e quella fece una smorfia di disgusto.

— Andate altrove, Vedetta! Vogliamo uomini utili, qui.

— La Vigilanza non è inutile — dissi io, calmo.

— Certo, certo. — L’uomo sbirciò Avluela. — E questa, chi è? Non sono scapoli, i membri della vostra Corporazione?

— È soltanto una compagna di viaggio.

La Sentinella scoppiò a ridere fragorosamente. — Non che sia un gran che. Cos’ha, tredici, quattordici anni? Vieni qui, bambina. Devo perquisirti per il contrabbando. — Le passò le mani sopra rapidamente, rabbuiandosi quando queste toccarono i seni e alzando un sopracciglio, perplesso, quando inciamparono nei due mucchietti delle ali, dietro le spalle. — Cos’è questo? Più di dietro che davanti! Sei un’Alata, tu? Sporco affare, un’Alata che si mette con una vecchia e stupida Vedetta. — Rise di nuovo, e le mise le mani addosso in un modo che fece balzare avanti Gormon, furibondo, gli occhi iniettati di sangue. Lo afferrai in tempo e gli strinsi un polso con tutte le forze, trattenendolo per impedirgli di rovinarci tutt’e tre con un assalto alla Sentinella. Lui si liberò con uno strappo che per poco non mi mandò a gambe levate; poi, all’improvviso si calmò, e, freddo come il ghiaccio, aspettò che il grassone finisse di perquisire Avluela “per contrabbando”.

Infine la Sentinella si rivolse, disgustata, a Gormon e gli domandò: — Che genere di cosa siete, voi?

— Non appartengo a nessuna Corporazione, vostra grazia — rispose lui, brusco. — Sono l’umile e vile prodotto della teratogenesi, e, purtuttavia, un uomo libero che desidera entrare in Roum.

— Credete che abbiamo bisogno di altri mostri, qui?

— Mangio poco e lavoro molto.

— Lavorereste anche di più, se vi facessero neutro.

Gormon lanciò fiamme dagli occhi. Intervenni io: — Dunque, possiamo entrare?

— Un momento. — Infilatasi in testa una cuffia pesante, la Sentinella socchiuse gli occhi e trasmise un messaggio ai serbatoi memoria. La sua faccia si tese nello sforzo, poi si rilassò; subito dopo arrivò la risposta. Dall’espressione di disappunto dell’uomo, era evidente che non esistevano ragioni per rifiutarci l’ingresso in Roum.

— Entrate — disse. — Tutt’e tre. In fretta!

Attraversammo la porta.

— Gli avrei spaccato il muso con un pugno — disse Gormon.

— E vi avrebbero fatto neutro prima di sera. Con un po’ di pazienza, invece, siamo entrati in Roum.

— In che modo la toccava!…

— Prendete un’aria troppo prepotente, con Avluela — dissi. — Non dimenticate che è un’Alata e che non può avere rapporti sessuali con uno che non appartiene a nessuna Corporazione.

Gormon ignorò la mia frecciata. — Non suscita la mia passione più di quanto la suscitiate voi, Vedetta. Ma non mi va di vederla trattare a quel modo. L’avrei ucciso, se non mi aveste trattenuto!

Avluela disse: — Dove alloggeremo, a Roum?

— Prima di tutto andrò alla sede centrale della mia Corporazione — risposi io — e mi immatricolerò all’Ostello delle Vedette. Poi potremmo forse andare alla Loggia degli Alati, per mangiare.

— E infine — disse Gormon, asciutto — ci metteremo alla Cantonata dei senza Corporazione, a chiedere la carità.

— Mi fate pena perché siete un Diverso — gli dissi. — Ma non è bello che vi autocommiseriate. Venite.

Salimmo per un vicolo acciottolato e serpeggiante, allontanandoci dalle porte della città e inoltrandoci nel centro. Ci trovavamo nella zona esterna, una fascia residenziale fatta di case basse e piatte, dominate dalla mole incombente delle installazioni difensive. All’interno stavano le torri scintillanti che avevamo scorto dai campi, la sera avanti, e mille altre cose: i resti dell’antica Roum, religiosamente conservati attraverso più di diecimila anni; il mercato; l’area industriale; il centro delle comunicazioni; i templi della Volontà; i serbatoi memoria; i rifugi per la notte; i bordelli per gli stranieri venuti da altri mondi; gli edifici del governo; le sedi delle varie Corporazioni.

All’angolo, presso un edificio del Secondo Ciclo, dai muri di materiale gommoso, trovai una cuffia pensante pubblica e me la calcai sulla fronte. Subito i miei pensieri guizzarono giù per il condotto finché giunsero all’interfaccia protettiva che dava accesso a un cervello del serbatoio memoria. Trapassai l’interfaccia e vidi il cervello stesso, pallido, rugoso, grigio contro il verde scuro del suo contenitore. Un Ricordatore mi aveva detto che, nei cicli passati, l’uomo costruiva macchine che pensavano per lui, benché quelle macchine fossero terribilmente costose, richiedessero una gran quantità di spazio e bevessero energia a fiumi. Quella non era stata la sola follia dei nostri antenati, né la peggiore; ma perché creare cervelli artificiali, quando la morte ne libera ogni giorno a decine di naturali, di splendidi, da rinchiudere nei serbatoi memoria? Forse non sapevano come servirsene? Non riesco a crederlo.

Dissi al cervello il nome della mia Corporazione e chiesi le coordinate del nostro ostello. Le ricevetti e mi avviai, con Avluela e Gormon, spingendo come il solito il carrello degli strumenti.

Le strade erano piene di gente. Non avevo mai visto una folla simile durante il mio viaggio, neanche nell’Agupt ardente e assonnato. C’erano un’infinità di Pellegrini, segreti e mascherati, e, gomito a gomito con loro, camminavano Ricordatori indaffarati e Mercanti accigliati. Di quando in quando, passava la portantina di un Padrone. Avluela vide un gruppetto di Alati, ma il regolamento della sua Corporazione le vietava di salutarli prima di essersi sottoposta alla purificazione rituale. Devo ammettere con dispiacere che anch’io incontrai molte Vedette e che tutte mi guardarono con disprezzo, senza neppure salutarmi. Notai anche un discreto numero di Difensori e nutrite rappresentanze di Corporazioni minori: Venditori, Servitori, Manufattori, Scribi, Comunicatori e Trasportatori. Naturalmente, uno stuolo di neutri compiva in silenzio i più umili doveri, e numerosi esseri di altri mondi, di ogni tipo e forma, affollavano le strade. Erano in gran parte turisti, probabilmente, ma alcuni erano venuti per combinare qualche misero affare con i poveri, squallidi abitanti della Terra. Notai parecchi Diversi zoppicare tra la folla, e nessuno aveva il portamento altezzoso di Gormon. Lui era unico nel suo genere: gli altri erano chiazzati, pezzati, e asimmetrici, con qualche arto in meno o in più, deformati in mille modi fantasiosi e artistici. Avanzavano furtivi, con gli occhi socchiusi, strascicando i piedi, strisciando; facevano i borsaioli, gli estrattori di cervelli, i venditori ambulanti di organi e di indulgenze, i compratori di luce. E nessuno si teneva ritto come se si considerasse un uomo.

Le indicazioni fornite dal cervello erano esatte, e, in meno di un’ora, arrivammo all’Ostello delle Vedette. Lasciai Gormon e Avluela all’esterno e spinsi dentro il mio bagaglio.

Una dozzina di membri della mia Corporazione oziavano nella sala principale. Mi affrettai a rivolgere loro il saluto d’uso e quelli me lo ritornarono svogliatamente. Erano questi i guardiani dai quali dipendeva la salvezza della Terra? Dei deboli e dei superficiali!

— Dove posso immatricolarmi? — domandai.

— Siete forestiero? Da dove venite?

— L’ultima volta ho firmato in Agupt.

— Dovevate starvene là. Non c’è bisogno di Vedette, qui.

— Dove posso immatricolarmi? — domandai ancora.

Un giovanotto pieno di boria mi indicò uno schermo in fondo al locale. Ci andai, premetti le dita sullo schermo, fui interrogato e diedi le mie generalità. (Una Vedetta può rivelarle solo a un’altra Vedetta, e unicamente tra le mura di un ostello.) Un pannello si aprì di scatto e un uomo dagli occhi sporgenti (con l’emblema di Vedetta sulla guancia destra, e non sulla sinistra, per indicare che rivestiva un’alta carica nella Corporazione) pronunciò il mio nome e disse: — Non sareste dovuto venire a Roum. Siamo in soprannumero.

— Comunque, chiedo ugualmente alloggio e lavoro.

— Un tipo dotato come voi del senso dell’umorismo doveva nascere nella Corporazione dei Clown — disse quello.

— Non ci vedo niente di buffo.

— Nuovi regolamenti, promulgati dalla nostra Corporazione nell’ultima riunione, stabiliscono che un Ostello al completo non è obbligato a dare alloggio a nuovi ospiti. E noi siamo al completo. Addio, amico.

Ero esterrefatto. — Non ho mai sentito un regolamento simile! È incredibile! Non posso credere che una Corporazione neghi asilo a uno dei suoi membri, dolorante e sfinito per il lungo cammino. A un uomo della mia età, che arriva a Roum dall’Agupt, forestiero e affamato, dopo aver attraversato il Ponte di Terra…

— Perché non avete pensato a interpellarci prima?

— Non sapevo che fosse necessario.

— Le nuove disposizioni.

— Che la Volontà incenerisca le nuove disposizioni! — gridai. — Chiedo ricovero! Per uno che Vigila da quando voi non eravate ancor nato, esser scacciato…

— Calma, fratello, calma.

— Avrete certamente un cantuccio per farmi dormire, qualche avanzo per sfamarmi…

Da sdegnato, il mio tono si era fatto supplice, ma l’espressione dell’uomo passò solo dall’indifferenza al disprezzo: — Non abbiamo né posto, né cibo. Sono tempi duri, questi, per la nostra Corporazione, lo sapete bene. Si dice che verrà sciolta completamente, come un lusso, un peso inutile sulle risorse della Volontà. Abbiamo possibilità limitate. Roum ha un’eccedenza di Vedette e le nostre razioni sono misere. Se vi accogliamo, dovremo ridurle ulteriormente.

— Ma dove andrò, allora? Cosa farò?

— Vi consiglio — disse l’altro, in tono conciliante — di affidarvi alla misericordia del Principe di Roum.

3

Appena fuori raccontai tutto a Gormon, che si piegò in due dal ridere, tanto che le striature sulle guance magre divennero rosse come il sangue. — La misericordia… del Principe di Roum… ah, ah, ah! — gridò, soffocando. — La misericordia del Principe di Roum!

— Tutti gli infelici chiedono l’aiuto dei governanti locali — dissi freddamente. — È l’uso.

— Il Principe di Roum non sa neppure cosa sia la misericordia! — replicò lui. — Vi sfamerà con le vostre stesse membra!

— Forse — disse Avluela — potremmo tentare alla Loggia degli Alati. Ci daranno da mangiare.

— A Gormon, no — osservai io. — E noi siamo legati uno all’altro.

— Potremmo portargli fuori il cibo.

— Preferisco tentare col Principe — insistei io. — Prima vediamo in che situazione siamo. Poi cercheremo di arrangiarci in un modo o nell’altro, se sarà necessario.

Lei acconsentì e, tutti insieme, ci avviammo verso il palazzo del Principe di Roum: era un edificio massiccio, con una piazza enorme, delimitata da due grandi ali di colonne. Nella piazza fummo accostati da mendicanti di ogni genere, perfino di altri mondi. Un essere con tentacoli che parevano grosse funi e una faccia rugosa senza naso mi si gettò addosso chiedendo l’elemosina, e Gormon dovette allontanarlo con la forza; un momento dopo, un’altra creatura non meno strana, dalla pelle butterata da piccoli crateri luminescenti e dagli arti guarniti di occhi peduncolati, mi si avvinghiò alle ginocchia supplicandomi in nome della Volontà di aver pietà di lei. — Sono soltanto una povera Vedetta — le dissi indicandole il mio bagaglio — e anch’io son qui per chiedere aiuto. — Ma la creatura continuò a elencare le sue disgrazie con voce debole e lontana, finché io, malgrado l’indignazione di Gormon, lasciai cadere alcune tavolette alimentari nella tasca che aveva sul petto. Poi ci facemmo strada a forza di gomiti fino al palazzo. Sotto il portico, si presentò ai nostri occhi una vista anche più orrenda: un Alato storpio e curvo, le fragili membra rattrappite e deformi, un’ala aperta a metà e seriamente mutilata, l’altra completamente mancante. Subito l’infelice si gettò sopra Avluela; la chiamò con un nome non suo e inondò i suoi gambali con lacrime così copiose che quelli rimasero tutti macchiati e inumiditi. — Accompagnami alla Loggia! — implorò. — Mi hanno cacciato via perché sono storpio, ma se tu mi accompagnerai… — Avluela spiegò che non poteva fare niente e che era straniera. Ma il disgraziato non voleva staccarsi da lei e allora Gormon lo sollevò con delicatezza, quel mucchietto rinsecchito di ossa che era, e lo mise da parte. Salimmo i gradini del portico e subito ci vennero incontro tre neutri che ci chiesero lo scopo della nostra presenza e subito ci affidarono allo sbarramento successivo, costituito da due Classificatori rinsecchiti. Parlando all’unisono, i due ci interrogarono.

— Chiediamo un’udienza — risposi. — Dobbiamo implorare una grazia.

— Per quattro giorni non si concedono udienze — disse il Classificatore di destra. — Aggiungeremo il vostro nome alla lista.

— Ma non sappiamo dove andare a dormire! — proruppe Avluela. — Abbiamo fame! Noi…

La zittii. Intanto Gormon frugava nell’ipertasca. Infine, nella sua mano scintillò qualcosa di lucente: erano pezzi d’oro, il metallo eterno, con impresse sopra facce barbute dal naso aquilino; li aveva trovati fra le rovine. Gettò una moneta al Classificatore che ci aveva sbarrato il passo e questi l’afferrò al volo, passò l’unghia sulla sua superficie lucida e fece scivolare immediatamente la moneta in una piega dell’abito. Il secondo Classificatore aspettava. Sorridendo Gormon lanciò una moneta anche a lui.

— Forse — dissi io — potremo riuscire ad avere un’udienza speciale.

— Forse — disse uno dei due. — Passate.

Così entrammo nella navata principale del palazzo e guardammo lungo la corsia centrale, verso la camera del trono, nell’abside. Lì dentro c’erano altri mendicanti, autorizzati, questi, per concessione ereditaria, che si mescolavano a gruppi di Pellegrini, Comunicatori, Ricordatori, Musici, Scribi e Classificatori. Nell’aria c’era sussurro di preghiere e profumo d’incenso; ogni tanto si udivano vibrazioni di gong sotterranei. Nei cicli passati, quell’edificio era stato il santuario principale di una delle antiche religioni: quella dei Cristani, mi aveva detto Gormon, facendomi sospettare ancora una volta che fosse un Ricordatore mascherato da Diverso. E l’edificio conservava ancora un poco del suo carattere sacro, anche se adesso era la sede del governo secolare di Roum. Ma come fare per vedere il Principe? Alla mia sinistra, scorsi una cappelletta riccamente ornata, in cui stava entrando lentamente una fila di Mercanti e Latifondisti. Sbirciando oltre la fila, vidi tre teschi fissati sopra un apparecchio per interrogazione (un semplice ingresso per serbatoi memoria), e, lì accanto, uno Scriba corpulento. Dissi a Gormon e ad Avluela di attendermi nella navata, e mi misi in coda.

Questa avanzava lentissimamente, e passò più di un’ora prima che potessi raggiungere l’apparecchio. I teschi mi fissavano con le loro occhiaie vuote: dentro il loro cranio sigillato si sentivano gorgogliare e ribollire i liquidi nutritivi necessari alla manutenzione dei cervelli morti, ma ancora funzionanti, i cui miliardi di miliardi di unità sinaptiche costituivano, ora, un dispositivo mnemonico incomparabile. Lo Scriba sembrò stupefatto di vedermi tra quella gente, ma prima che potesse protestare, io dissi: — Io vengo come straniero a invocare la misericordia del Principe. Io e i miei compagni siamo senza ricovero. La mia stessa Corporazione mi ha scacciato. Cosa posso fare? Come posso ottenere una udienza?

— Tornate fra quattro giorni.

— Ho già dormito troppe notti nella strada. Ora devo riposare.

— Un ostello pubblico…

— Ma appartengo a una Corporazione! — protestai. — Gli ostelli pubblici non mi danno ospitalità, perché sanno che la mia Corporazione ne mantiene uno qui, e, d’altra parte, per via di un nuovo regolamento, i miei confratelli si rifiutano di accogliermi… Capite la mia situazione?

Con voce stanca, lo Scriba disse: — Potete inoltrare domanda per un’udienza speciale. Vi sarà negata, ma potete provare.

— Dove?

— Qui. Dichiarate il motivo della richiesta.

Diedi le mie generalità ai teschi, elencai i nomi e lo stato dei miei compagni, e spiegai il mio caso. Tutto questo fu assorbito e trasmesso alle file di cervelli montati in qualche luogo imprecisato nelle viscere della città; quando ebbi finito, lo Scriba disse: — Se la richiesta sarà accolta, ve lo faranno sapere.

— Intanto, dove devo stare?

— Vicino al palazzo.

Capii. Dovevo raggiungere la legione di infelici pigiati nella piazza. Chissà quanti di loro avevano chiesto qualche favore particolare al Principe, ed erano ancora là, dopo mesi e anni, ad aspettare di essere chiamati alla sua presenza, dormendo sulla pietra, elemosinando rifiuti, vivendo di una speranza assurda…

Ma avevo ormai esaurito tutte le mie risorse. Tornai da Gormon e Avluela, esposi la situazione e proposi di darci da fare per trovare un rifugio di fortuna. Gormon, che non apparteneva a nessuna Corporazione, sarebbe stato bene accolto in uno qualsiasi degli squallidi ostelli pubblici riservati ai tipi come lui: Avluela avrebbe probabilmente trovato alloggio alla Loggia degli Alati; soltanto io avrei dovuto dormire per strada, e non per la prima volta. Ma speravo che non saremmo stati obbligati a separarci. Avevo finito per pensare a noi tre come a una famiglia: strano pensiero, quello, per una Vedetta!

Eravamo diretti all’uscita, quando l’orologio mi ricordò che l’ora della Vigilanza era suonata. È un obbligo e un privilegio per me attendere alla Vigilanza in qualsiasi luogo mi trovi, indipendentemente dalle circostanze, quando viene la mia ora. Così mi fermai, aprii lo stipo e attivai l’attrezzatura. Gormon e Avluela stavano ritti accanto a me. Sulle facce di quelli che entravano e uscivano di palazzo scorgevo risolini di scherno e aperta ironia. La Vigilanza non è tenuta in gran conto, perché Vigiliamo da tanto tempo e nessun nemico si è mai fatto vivo. Ma ciascuno ha il proprio dovere da compiere, per quanto comico possa sembrare agli altri: ciò che per molti è un rituale senza senso, per alcuni è lo scopo della vita. Obbligai me stesso a entrare nello stato di Vigilanza: il mondo si sciolse intorno a me e io mi tuffai nei cieli. La gioia ben nota mi risucchiò, e cercai i luoghi conosciuti e quelli che lo erano meno, mentre la mia mente ingigantita balzava da una galassia all’altra con voli vertiginosi. Stava formandosi un esercito? C’erano truppe che si preparavano alla conquista della Terra? Per quattro volte al giorno Vigilavo, e come me gli altri membri della mia Corporazione, ciascuno a un’ora appena diversa, in modo che neppure per un attimo il pianeta restasse senza almeno una mente che Vigilava. Non credo che la nostra vocazione fosse inutile.

Quando mi riebbi, una voce robusta gridava: — Fate largo al Principe di Roum! Largo al Principe di Roum!

Battei le palpebre e trattenni il respiro, cercando di scuotermi dagli ultimi torpori della concentrazione. Un palanchino dorato era emerso dal fondo del palazzo e avanzava lungo la navata nella mia direzione, portato da una falange di neutri. Quattro uomini con i costumi ricamati e le maschere scintillanti della Corporazione dei Padroni fiancheggiavano la portantina, che era preceduta da un trio di Diversi, grossi, tozzi e con le gole modificate in modo da poter imitare il verso delle rane giganti. Avanzavano emettendo un suono dal timbro maestoso, simile a quello della tromba. Mi sembrò molto strano che un Principe accettasse al suo servizio dei Diversi, anche trattandosi di individui particolarmente dotati come quelli.

Ma il mio carrello bloccava il cammino allo splendido corteo e mi affannai a richiuderlo in tutta fretta per toglierlo di mezzo prima che quella valanga di uomini mi travolgesse. Tuttavia, l’età e la paura mi facevano tremare le mani e io non riuscii a sigillare perfettamente le aperture. Mentre mi confondevo e mi agitavo sempre più, i Diversi arrivarono tanto vicini che l’urlo della loro gola divenne assordante. Gormon si precipitò in mio aiuto, ma io gli gridai che nessuno poteva toccare gli strumenti se non apparteneva alla Corporazione, e lo allontanai con una spinta. Un attimo dopo, un’avanguardia di neutri calò su di me e si preparò a scacciarmi con flagelli luccicanti. — In nome della Volontà — gridai — sono una Vedetta!

E come un controcanto antifonale, calma, profonda, risonante, venne la risposta: — Lasciatelo. È una Vedetta.

Tutto si fermò. Il Principe di Roum aveva parlato.

I neutri si ritirarono. I Diversi cessarono la loro musica. I portatori del palanchino deposero al suolo il loro fardello. Tutti quelli che si trovavano nelle navate del palazzo indietreggiarono, tranne Gormon, Avluela e me. Le tende preziose della lettiga si aprirono: due Padroni si precipitarono avanti, trapassando con le mani la barriera sonica, per offrire aiuto al monarca. La barriera si disperse, con un ronzio lamentoso.

Il Principe di Roum apparve.

Era così giovane! Quasi un ragazzo: i capelli folti e scuri, la faccia senza rughe. Ma era nato per governare e, nonostante la sua giovinezza, si rivelava imperioso come tutti i governanti. Le labbra erano sottili e tese; il naso aquilino, tagliente e aggressivo; gli occhi, gelidi, come pozzi senza fondo. Indossava le vesti ingioiellate della Corporazione dei Dominatori; ma incisa sulla sua guancia c’era la doppia croce dei Difensori e, intorno al collo, aveva la sciarpa scura dei Ricordatori. Un Dominatore ha facoltà di entrare in qualsiasi Corporazione desideri, e sarebbe parso strano che il Principe non fosse stato anche Difensore. Tuttavia mi stupì che fosse pure Ricordatore: questa, in genere, non è una Corporazione che attragga gli animi fieri e combattivi.

Mi guardò senza molto interesse e disse: — Avete scelto un posto ben strano, vecchio mio, per Vigilare.

— È l’ora a scegliere il luogo, non io, Sire — risposi. — Mi trovavo qui, e il dovere chiamava. Non potevo sapere che stavate per giungere voi.

— Non avete trovato nemici?

— No, Sire.

Stavo per afferrare il momento propizio e chiedergli aiuto, ma vidi il suo interesse per me svanire a poco a poco, come una povera candela languente. Rimasi lì, ritto, senza il coraggio di rivolgergli la parola ora che più non mi fissava. Il Principe osservò Gormon per alcuni istanti, aggrottando la fronte e pizzicandosi il mento. Poi il suo sguardo cadde su Avluela, e gli occhi brillarono. I muscoli delle mascelle vibrarono, le narici delicate si dilatarono. — Sali, piccola Alata — disse, rivolgendole un cenno. — Sei amica di questa Vedetta?

Lei annuì terrorizzata.

Il Principe allungò una mano e l’afferrò, sollevandola di peso fino al palanchino. Poi, con un sorriso così malvagio da parere la parodia della perfidia, il giovane Dominatore la tirò dentro, attraverso le cortine. Istantaneamente due Padroni ristabilirono la barriera sonica, ma il corteo non si mosse. Io me ne stavo lì, muto; Gormon, accanto a me, pareva impietrito: il suo corpo vigoroso era rigido come una sbarra. Spinsi il mio carrello in un luogo meno esposto; passarono attimi eterni, mentre i cortigiani aspettavano in silenzio, guardando discretamente da un’altra parte.

Infine le cortine si aprirono di nuovo, e Avluela uscì barcollando, pallidissima. Sbatteva rapidamente le palpebre, pareva stordita, e rivoli di sudore le scorrevano giù per le guance. Inciampò, rischiando di cadere, e un neutro l’afferrò prontamente, posandola a terra. Sotto il giacchetto, le sue ali, parzialmente aperte, le davano un aspetto gobbuto; doveva essere sconvolta dall’emozione. Con passi incerti si diresse verso di noi tremante e silenziosa; poi mi lanciò uno sguardo indescrivibile e si gettò fra le braccia di Gormon.

I portatori sollevarono nuovamente il palanchino e il Principe di Roum uscì dal suo palazzo.

Quando se ne fu andato, Avluela balbettò con voce rauca: — Il Principe ci concede ospitalità nella foresteria reale!

4

I servi, naturalmente, non volevano crederci.

Soltanto gli ospiti del Principe venivano alloggiati nella foresteria reale, che si trovava sul retro del palazzo, in un piccolo giardino di felci e di fiordibrine. Generalmente la foresteria era abitata da Padroni e da qualche Dominatore occasionale; a volte, a un Ricordatore di particolare importanza, in viaggio di studio, o a un Difensore di alto rango in visita per discutere un piano strategico, veniva assegnata una cameretta nell’edificio. Ma alloggiare un Alato nella foresteria reale sarebbe parso notevolmente strano; ammettervi una Vedetta, improbabile; accogliervi un Diverso, o in genere una persona non appartenente ad alcuna Corporazione, addirittura impensabile. Perciò quando ci presentammo, i Servitori dapprima sembrarono divertirsi un mondo come per una barzelletta; poi cominciarono a seccarsi e, infine, tentarono di allontanarci con parole sprezzanti. — Andatevene — urlarono infine. — Feccia! Immondezzai!

Allora Avluela disse con voce grave: — Il Principe ci ha concesso di alloggiare qui, e voi non potete proibircelo.

— Via! Via!

Un Servitore dai denti sporgenti tirò fuori un manganello neurale, lo agitò sotto il naso di Gormon e gridò un insulto volgare al suo indirizzo, alludendo alla sua mancanza di Corporazione. Gormon, senza curarsi delle punture dolorose, gli strappò il manganello di mano, e sferrò un calcio nel ventre all’insolente, che si piegò in due, sputando sangue. All’istante, una squadra di neutri scattò allora dall’interno della foresteria e si precipitò addosso a Gormon. Lui agguantò un altro Servitore e lo scagliò addosso a loro, mandandoli tutti a gambe all’aria, in una massa informe. Infine, quelle urla e quelle imprecazioni furiose attirarono l’attenzione di uno Scriba venerando, che comparve sulla porta e, reclamato il silenzio con voce tonante, ci interrogò. — È facile controllare — disse infine, quando Avluela gli ebbe raccontata tutta la faccenda. E, rivolto a uno dei Servitori, ordinò con disprezzo: — Manda un messaggio a un Classificatore. Svelto!

Presto la confusione cessò e fummo fatti entrare. Ci vennero assegnate stanze separate, ma contigue. Non avevo mai visto un lusso simile, e probabilmente non lo vedrò mai più. Le camere erano spaziosissime, e vi si entrava attraverso ingressi telescopici, collegati all’emissione termica dell’ospite, per assicurare un’assoluta indipendenza. Le luci si accendevano a un semplice cenno, poiché, appese a globi assicurati al soffitto o agglomerate in cupolette alle pareti, c’erano spugne di luce-schiava, strappate ai mondi di Splendidia e addestrate, mediante il dolore, a ubbidire ai comandi. Le finestre comparivano o scomparivano, secondo il capriccio dell’occupante. Quando non servivano, erano nascoste da cascate di veli semintelligenti, importati da altri mondi, che non avevano soltanto un effetto decorativo, ma servivano anche da schermi su cui erano in grado di far scorrere scene deliziose, secondo gli schemi richiesti. Le stanze erano anche dotate di cuffie pensanti individuali, collegate alle banche generali della memoria, con condotti supplementari per chiamare Servitori, Scribi, Classificatori e Musici. Naturalmente un membro della mia umile Corporazione non avrebbe mai osato servirsi di altri esseri umani a quel modo, per timore del loro risentimento. Comunque, avevo ben poco bisogno di loro.

Non domandai ad Avluela che cosa fosse accaduto nella lettiga del Principe per procurarci tutte quelle delizie: potevo immaginarmelo. E poteva immaginarlo anche Gormon: l’ira che riusciva a trattenere a malapena rivelava chiaramente l’amore inconfessato per la mia pallida e fragile Alata.

Ci sistemammo. Misi il mio carrello accanto alla finestra, gli drappeggiai intorno i veli, e lo lasciai lì, pronto per il prossimo periodo di Vigilanza. Poi mi lavai e mi ripulii, mentre altre entità inserite nelle pareti cantavano canzoni piene di pace. Più tardi pranzai. Dopo mangiato, Avluela venne da me, rinfrescata e rilassata; mi si sedette accanto e parlammo a lungo delle nostre esperienze. Gormon non si fece vedere per alcune ore: pensai che se ne fosse andato definitivamente, trovando troppo rarefatta l’atmosfera della reggia, e che avesse preferito la compagnia di altri senza Corporazione come lui. Così, al crepuscolo, Avluela e io uscimmo a passeggio nel cortile della foresteria e salimmo poi una scala che conduceva a una terrazza, per vedere le stelle spuntare nel cielo di Roum. Gormon era là! E con lui stava un uomo emaciato e dinoccolato, avvolto nella sciarpa dei Ricordatori; i due parlavano sottovoce.

Gormon mi fece un cenno e disse: — Vedetta, vi voglio presentare il mio nuovo amico.

Il tipo emaciato cincischiò con le dita la sciarpa. — Sono il Ricordatore Basil — bisbigliò con voce sottile: sottile come un affresco staccato dalla sua parete. — Sono venuto da Perris, per indagare sui misteri di Roum. Rimarrò qui molti anni.

— Racconta storie molto interessanti — disse Gormon. È una personalità, nella sua Corporazione. Quando siete arrivati voi, stava descrivendomi le tecniche di cui si servono per svelare il passato. Scavano pozzi attraverso gli strati di depositi del Terzo Ciclo e, con speciali aspiratori, sollevano le molecole di terra, liberando i livelli più antichi.

— Con questo sistema — disse Basil — abbiamo scoperto le catacombe della Roum Imperiale, i detriti del Tempo del Rifiuto, e alcuni libri scritti su lastre di metallo bianco verso la fine del Secondo Ciclo. Tutto materiale che andrà a Perris per essere esaminato, classificato, decifrato; poi lo rispediranno qui. Vi interessa il passato, Vedetta?

— Fino a un certo punto. — Sorrisi. — Questo Diverso, invece, ne sembra affascinato. A volte sospetto che mi nasconda la sua vera identità: non riconoscete, per caso, un Ricordatore, sotto le sue sembianze?

Basil scrutò Gormon, indugiando sui lineamenti bizzarri e la corporatura troppo muscolosa. — Non è un Ricordatore — disse infine. — Ma devo convenire che ha dei notevoli interessi per l’antichità. Mi ha posto diverse domande molto impegnative.

— Per esempio?

— Vorrebbe conoscere l’origine delle Corporazioni; mi ha chiesto il nome del chirurgo genetico che ha plasmato i primi Alati capaci di riprodursi, e gli interessa sapere perché ci sono dei Diversi e se veramente questi sono stati maledetti dalla Volontà.

— E avete saputo rispondere? — chiesi io.

— A qualche domanda soltanto.

— A quella sull’origine delle Corporazioni, per esempio?

— Sì. Sono state create per ristrutturare e dare un senso a una società avvilita dalla sconfitta e dalla distruzione — disse il Ricordatore. — La fine del Secondo Ciclo fu un periodo di transizione. Nessun uomo sapeva più chi fosse e a che cosa tendesse. Il nostro mondo era pieno di abitanti di pianeti stranieri, che ci guardavano dall’alto al basso e ci consideravano esseri senza valore. Era necessario stabilire certi parametri stabili, grazie ai quali un uomo potesse riconoscere il suo valore rispetto a un altro. Così, sorsero le prime Corporazioni: Dominatori, Padroni, Mercanti, Manufattori, Venditori e Servitori. Poi vennero gli Scribi, i Musici, i Clown, e i Trasportatori. Dopo di che si resero necessari i Classificatori, e quindi le Vedette e i Difensori. Quando gli Anni della Magia ci diedero gli Alati e i Diversi, furono aggiunte anche quelle Corporazioni; e poi furono prodotti gli uomini senza Corporazione, i neutri; cosicché…

— Ma i Diversi non hanno Corporazione! — disse Avluela.

Il Ricordatore la guardò per la prima volta. — Chi sei tu, bambina? — domandò.

— Avluela, degli Alati. Viaggio con la Vedetta e con questo Diverso.

— Come ho appena spiegato al Diverso — disse Basil — nell’antichità il suo genere apparteneva a una Corporazione. Essa fu sciolta mille anni fa, per ordine del Consiglio dei Dominatori, in seguito al tentativo, compiuto da una indegna fazione di Diversi, di impadronirsi dei luoghi sacri di Jorslem. Da allora i Diversi sono rimasti senza Corporazione, soltanto un gradino più in su dei neutri nella scala sociale.

— Non lo sapevo — dissi.

— Non siete un Ricordatore, voi — disse Basil. — Siamo noi che abbiamo il compito di svelare il passato.

— Avete ragione.

Gormon disse: — E quante Corporazioni ci sono, oggi?

Interdetto, Basil diede una risposta vaga: — Almeno cento, amico mio. Alcune piccolissime, altre addirittura locali. Io mi interesso soltanto di quelle originarie e di quelle derivate immediatamente. Ciò che è successo negli ultimi anni, riguarda altri. Volete che mi informi?

— No, no — disse Gormon. — Era una semplice curiosità.

— La vostra curiosità è ben forte! — disse il Ricordatore.

— Trovo estremamente affascinante il mondo, e tutto quanto contiene. È forse un delitto?

— No. Ma è strano. Quelli che non appartengono ad alcuna Corporazione, raramente alzano gli occhi al di là del loro orizzonte immediato.

Apparve un Servitore. Con un misto di rispetto e di disprezzo, si inginocchiò davanti ad Avluela e disse: — Il Principe è tornato. Desidera la vostra compagnia a palazzo, adesso.

Un lampo di terrore balenò negli occhi della ragazza, ma rifiutare sarebbe stato inconcepibile. — Devo venire con voi? — disse.

— Sì. Dovete venire vestita e profumata. E il Principe desidera che vi presentiate a lui con le ali aperte.

Avluela annuì e l’uomo la condusse via.

Noi restammo sulla terrazza ancora un poco. Il Ricordatore parlò della Roum antica; io lo ascoltavo e Gormon sbirciava nell’oscurità. Finalmente, Basil si congedò, allontanandosi maestosamente. Pochi momenti dopo, nel cortile sottostante si aprì una porta e apparve Avluela: camminava come una della Corporazione dei Sonnambuli, non degli Alati.

Era nuda sotto un esile velo trasparente, e il suo corpo fragile aveva un pallore spettrale alla luce delle stelle. Le ali erano distese e si agitavano lentamente in tristi movimenti di sistole e diastole. Due Servitori la sostenevano per le braccia; sembrava che spingessero verso il palazzo l’ombra di una donna, non una donna reale.

— Vola, Avluela! Vola! — sussurrò Gormon. — Fuggi, fin che sei in tempo!

Ma lei scomparve in una porta laterale.

Il Diverso mi guardò: — Si è venduta al Principe per procurarci cibo e alloggio.

— Sembra proprio così.

— Potrei radere al suolo questo palazzo!

— L’amate?

— Mi pare evidente.

— Allora, cercate di guarire — consigliai. — Siete un uomo fuori del comune, e tuttavia un’Alata non fa per voi. Specialmente un’Alata che ha diviso il letto con il Principe di Roum.

— Passa dalle mie braccia alle sue.

Ero esterrefatto. — L’avete conosciuta?

— Più di una volta — disse con un sorriso mesto. — Nel momento dell’estasi, le sue ali vibrano come foglie nella tempesta.

Mi aggrappai al parapetto della terrazza per non cadere nel cortile sottostante. Le stelle turbinavano sopra la mia testa, la vecchia luna e le sue due nuove compagne lisce saltavano e sobbalzavano. Mi sentivo sconvolto, senza capire la causa della mia emozione. Ero forse adirato con Gormon perché aveva osato violare la legge? Oppure la mia era una manifestazione dei sentimenti pseudopaterni che provavo verso Avluela? O forse la mia era semplicemente invidia nei confronti di Gormon, reo di aver commesso un delitto che sorpassava le mie capacità, anche se non i miei desideri?

Dissi: — Potrebbero bruciarvi il cervello, per quello che avete fatto. Potrebbero strapparvi l’anima. E adesso mi rendete vostro complice.

— Perché? Quel Principe comanda e ottiene… ma ci sono stati altri prima di lui. Dovevo pur dirlo a qualcuno!

— Basta. Basta.

— La vedremo ancora?

— I sovrani si stancano presto delle loro donne. Fra alcuni giorni, forse tra una notte, ce la getterà di nuovo tra le braccia. E, probabilmente, allora dovremo lasciare la foresteria. — Sospirai. — Comunque, l’avremo goduta sempre più di quanto ci sarebbe toccato.

— Dove andrete, allora?

— Resterò a Roum per un altro po’.

— Anche se dovrete dormire per la strada? A quanto pare, le Vedette non sono molto richieste, qui.

— Mi arrangerò — dissi. — Poi, forse, andrò a Perris.

— A imparare dai Ricordatori?

— A vedere quella città. E voi? Che cos’è che vi interessa, a Roum?

— Avluela.

— Non parlate così!

— Come volete — disse lui, e il suo sorriso era amaro. — Ma rimarrò qui finché il Principe non si sarà stancato di lei. Allora sarà tutta mia e troveremo il modo di sopravvivere. Coloro che non hanno Corporazione sono pieni di risorse. Devono esserlo. Vivacchieremo qua e là, e poi verremo con voi a Perris, se sarete ancora disposto a viaggiare con mostri e con Alate fedifraghe!

Mi strinsi nelle spalle. — Parleremo di queste cose quando sarà il momento.

— Eravate mai stato in compagnia di un Diverso, prima?

— Non spesso. E neppure così a lungo come con voi.

— Mi sento onorato. — Tamburellò con le dita sul parapetto, poi soggiunse: — Non scacciatemi. Ho le mie buone ragioni per voler restare con voi.

— Quali?

— Vedere la vostra faccia nel giorno in cui le vostre macchine vi diranno che è iniziata l’invasione della Terra.

Lasciai cadere le braccia, come oppresso da un peso insopportabile. — Dovrete restare a lungo con me, allora.

— Non credete che l’invasione verrà?

— Un giorno. Non ora.

Gormon rise. — Vi sbagliate. È alle porte.

— Non prendetemi in giro.

— Che cosa succede, Vedetta? Avete perso la vostra fede? Lo si sa da mille anni! Un’altra specie è diventata padrona della Terra, l’ha comprata, e un giorno o l’altro verrà a prenderne possesso. Si tratta di una decisione presa alla fine del Secondo Ciclo.

— Lo so, anche se non sono un Ricordatore — dissi. Poi mi volsi verso di lui e pronunciai parole che non avrei mai pensato di poter pronunciare a voce alta: — Da lunghissimo tempo, Diverso, due volte la vostra vita, ascolto le stelle e compio la mia Vigilanza. Tutto ciò che viene ripetuto troppo spesso, finisce per perdere significato. Provate a ripetere il vostro nome diecimila volte, e vedrete che infine sarà soltanto un suono vuoto. Ho Vigilato, e Vigilato coscienziosamente, e a volte, nell’oscurità della notte, penso di averlo fatto per niente, di aver sprecato la mia vita. Vigilare dà un certo piacere, ma forse non ha uno scopo reale.

Gormon mi afferrò il polso, all’improvviso. — La vostra confessione è sconvolgente quanto la mia. Non perdete fiducia, Vedetta. L’invasione sta per venire!

— E come potete saperlo?

— Anche i Diversi hanno le loro abilità.

Quella conversazione mi turbava stranamente. — È penoso non appartenere ad alcuna Corporazione? — domandai.

— Ci si abitua. E poi, si ha una maggiore libertà, che compensa la mancanza di una condizione sociale definita. Per esempio, posso parlare con tutti.

— Lo vedo.

— Mi muovo liberamente. E sono sicuro di trovare sempre da mangiare e da dormire, anche se a volte il cibo è guasto e l’alloggio povero. Le donne si sentono attratte verso di me, in barba a tutte le proibizioni. Forse per questo non sono roso dall’invidia.

— Non desiderate mai di elevarvi al di sopra del vostro rango?

— Mai.

— Forse sareste stato più felice come Ricordatore.

— Sono felice così. Posso avere il godimento di un Ricordatore, senza averne la responsabilità.

— Siete un bel fenomeno! — esclamai. — Vantarsi di essere senza Corporazione!

— Come potrei, altrimenti, sopportare il peso della Volontà? — Guardò verso il palazzo. — Gli umili si innalzano. I potenti cadono. Prendetela come una profezia, Vedetta: quel Principe gagliardo, là dentro, conoscerà un altro aspetto della vita, prima che venga l’estate. Gli strapperò gli occhi per avermi portato via Avluela!

— Parole grosse. Ribollite d’ira, stanotte.

— Prendetela come una profezia.

— Non potete avvicinarvi a lui — dissi. Poi, irritato per aver preso troppo sul serio le sue fantasie, soggiunsi: — E perché biasimarlo? Fa quello che fanno tutti i principi. Biasimate la ragazza che è andata con lui, piuttosto. Si sarebbe potuta rifiutare, avrebbe potuto…

— E perdere le ali. O morire. No, non aveva altra scelta. Ma io sì! — Con un gesto improvviso e terribile, Gormon allungò il pollice e l’indice, dalle unghie ad artiglio, e fece l’atto di affondarli in orbite immaginarie. — Aspettate — disse — e vedrete!

Nel cortile apparvero due Cronomanzieri, sistemarono l’attrezzatura della loro Corporazione e accesero due candele per leggere l’oroscopo del giorno successivo. Un odore dolciastro di fumo mi arrivò alle narici. Non avevo più voglia di parlare con il Diverso, ora.

— Si è fatto tardi — dissi. — Ho bisogno di riposo; e tra poco dovrò Vigilare.

— Vigilate attentamente — disse Gormon.

5

Nella mia camera, quella notte, compii la quarta e ultima Vigilanza di quella lunga giornata, e, per la prima volta in vita mia, riscontrai un’anomalia che non riuscivo a interpretare. Era un’impressione oscura, un insieme di suoni e sapori, la sensazione di essere a contatto con una massa colossale. Preoccupato, rimasi ai miei strumenti più a lungo del solito, ma, al termine della seduta, la mia percezione non era più chiara che all’inizio.

Poi cominciai a pensare quali fossero i miei obblighi.

Fin dall’infanzia, alle Vedette viene insegnato a dare rapidamente l’allarme; e questo deve essere lanciato quando la Vedetta ritiene che il mondo sia in pericolo. Ora ero obbligato ad avvertire i Difensori? Quattro volte nella mia vita era stato dato l’allarme, e sempre si era trattato di un errore, e ogni Vedetta che aveva scatenato un’inutile mobilitazione era stata orribilmente degradata. Una aveva dovuto offrire il suo cervello alle banche della memoria; un’altra era diventata un neutro, per la vergogna; la terza aveva distrutto i suoi strumenti e se ne era andata a vivere con la gente senza Corporazione; e l’ultima, tentando di continuare la professione, aveva scoperto di essere derisa da tutti i colleghi. Non vedevo la ragione di schernire quei poveretti che avevano dato un falso allarme: non era forse meglio avvertire troppo presto che troppo tardi? Comunque, tale era il costume della nostra Corporazione, e io dovevo conformarmi a esso.

Esaminai la mia posizione e conclusi che non avevo ragioni valide per dare l’allarme.

Gormon mi aveva suggestionato con le sue parole, quella sera; forse ero rimasto scosso dai suoi discorsi.

Non potevo dare l’allarme. Non osavo compromettermi per eccesso di zelo. Non mi fidavo della mia sensibilità sovreccitata.

Non diedi l’allarme.

Fremente e frastornato, chiusi il mio stipo e mi lasciai cadere in un sonno pesante.

All’alba saltai giù dal letto e mi precipitai alla finestra, aspettandomi di trovare gli invasori in istrada. Ma tutto era tranquillo. Il cortile era avvolto da un grigiore invernale, e Servitori assonnati spingevano al lavoro neutri completamente passivi. A disagio, iniziai la prima veglia del nuovo giorno, e, con gran sollievo, non provai più la strana sensazione della volta precedente; però sapevo che la mia sensibilità era più acuta durante la notte che di primo mattino.

Mangiai e uscii nel cortile. Gormon e Avluela erano già là. Lei aveva l’aria stanca e depressa, e sembrava sfinita dalla notte passata col Principe, ma io non feci commenti. Gormon, appoggiato sdegnosamente contro un muro decorato con conchiglie luminose, mi disse: — È andata bene la Vigilanza?

— Abbastanza.

— Cosa farete, oggi?

— Me ne andrò in giro per Roum — dissi. — Venite anche voi? Gormon? Avluela?

— Naturalmente — disse lui. Lei annuì lievemente con la testa.

Dopo di che, come un gruppetto di turisti sfaccendati, partimmo tutt’e tre per visitare la splendida città di Roum.

Gormon ci guidò abilmente attraverso le varie epoche, smentendo la sua affermazione di non essere mai stato a Roum prima di allora. Altrettanto bene quanto un Ricordatore, ci spiegava tutto quello che vedeva camminando per le strade tortuose. Qua e là erano sparse le reliquie di migliaia d’anni: dalle cupole dei pozzi d’energia del Secondo Ciclo, al Colosseo, dove uomini incredibilmente primitivi avevano lottato corpo a corpo con gli animali, come bestie della giungla. Dentro la cerchia di quelle mura cadenti, Gormon ci raccontò la crudeltà di quel tempo incredibilmente lontano. — Combattevano nudi — disse — davanti a folle enormi di spettatori. Con le sole mani, gli uomini sfidavano belve chiamate leoni, grossi gatti pelosi dalla testa enorme. E quando finalmente il leone giaceva al suolo nel suo sangue, il vincitore si volgeva al Principe di Roum e gli chiedeva la grazia per il delitto che lo aveva condotto in quell’arena. E se aveva combattuto bene, il Principe faceva un gesto con la mano e l’uomo veniva liberato. — Gormon ci mostrò quel gesto: un pollice teso e alzato parecchie volte sopra la spalla destra. — Ma se l’uomo si era dimostrato un vigliacco, o se il leone era morto in maniera particolarmente nobile, il Principe faceva un altro gesto e l’uomo veniva condannato a essere sbranato da una seconda belva. — Gormon ripeté anche quel gesto: il pugno chiuso con il medio teso, alzato con un brusco, breve scatto.

— Come fate a sapere queste cose? — domandò Avluela. Ma lui finse di non sentire.

Vedemmo la sagoma dei piloni magmatici che erano stati costruiti all’inizio del Terzo Ciclo per trarre energia dal cuore della Terra, e tuttora in funzione, benché macchiati e corrosi. Vedemmo anche il moncone di una macchina climatica del Secondo Ciclo: era ancora una possente colonna, alta almeno venti uomini. E visitammo anche una collina, dove bianche reliquie marmoree della Roum del Primo Ciclo spuntavano come pallidi ciuffi di fiordimorte invernali. Penetrando nella parte interna della città, incontrammo un bastione di amplificatori difensivi, che aspettavano pazienti, pronti a scagliare tutta la potenza della Volontà contro gli invasori. Visitammo anche un mercato, dove visitatori provenienti dalle stelle contrattavano con i contadini l’acquisto di frammenti antichi ritrovati negli scavi. Gormon si mescolò alla folla e fece diversi acquisti. Poi arrivammo a un emporio di vita per viaggiatori venuti da lontano, dove si potevano comprare le cose più disparate, dal quasivita ai cristalli di ghiaccio empatico. Infine pranzammo in una piccola trattoria sulle rive del fiume Tver, dove i tipi che non appartenevano ad alcuna Corporazione venivano serviti senza tante storie. Dietro insistenza di Gormon, ordinammo dei mucchietti di una qualche morbida pasta e bevemmo un vino color giallo acerbo, specialità locali.

Terminato di pranzare, passammo sotto un portico coperto, nelle cui numerose corsie Venditori panciuti vendevano merci giunte dalle stelle, costosi ninnoli dell’Afrik e gli esili prodotti delle Manifatture locali. Di là entrammo in una piazza, con al centro una fontana a forma di barca; dalla parte opposta si alzava una lunga teoria di gradini di pietra, spezzati e sbocconcellati, che conduceva a un’area ingombra di detriti e di erbacce.

Gormon ci fece cenno di seguirlo; tutt’e tre ci arrampicammo faticosamente, attraversammo quella zona desolata, e arrivammo a un sontuoso palazzo, che pareva dell’inizio del Secondo Ciclo, o magari perfino del Primo, e dominava una collina coperta di vegetazione.

— Dicono che questo sia il centro della Terra — dichiarò Gormon. — Anche a Jorslem c’è un luogo che rivendica lo stesso onore. Questo è contrassegnato con un mappamondo.

— Ma come fa ad avere un centro, la Terra, se è una sfera? — domandò Avluela.

Gormon rise. Entrammo. Dentro, nell’oscurità invernale, spiccava un colossale mappamondo ingioiellato e illuminato da una luce interna.

— Ecco qui il vostro pianeta! — disse Gormon con un ampio gesto.

— Oh! — disse Avluela senza fiato. — C’è tutto! Proprio tutto!

L’oggetto era un capolavoro dell’artigianato. Mostrava tutti i contorni e i rilievi naturali: i mari sembravano pozze liquide, i deserti erano così aridi da far venire sete solo a guardarli e le città erano turgide di vita. Osservai i continenti: Eyrop, Afrik, Ais, Stralya. Contemplai la vastità dell’Oceano Terrestre. Attraversai la striscia dorata del Ponte di Terra, che avevo percorso tanto faticosamente a piedi non molto tempo prima. Avluela si precipitò avanti e indicò Roum, Agupt, Jorslem, Perris. Accarezzò le altre montagne a nord dell’Ind, e mormorò: — Ecco, qui sono nata io: dove il ghiaccio vive eternamente, e la montagna tocca le lune. Qui gli Alati hanno il loro regno! — Poi fece scorrere il dito verso ovest, in direzione di Fars e oltre, nel terribile Deserto Arbiano, e ancora oltre, fino in Agupt. — Qui ho volato per la prima volta, di notte, quando divenni donna. Tutte dobbiamo volare, e io sono volata là. Mille volte ho creduto di morire. Qui, proprio qui nel deserto, mentre ero in volo, la gola mi si è riempita di sabbia, le ali mi si sono fatte pesanti e mi hanno costretta a scendere; sono rimasta nuda sulla sabbia ardente, per giorni e giorni, finché un altro Alato mi ha vista, ha avuto compassione di me, e mi ha sollevata tra le sue braccia. Una volta in alto, mi sono tornate le forze e siamo volati insieme verso l’Agupt. Ma lui è morto nel mare. La sua vita si è spezzata, benché fosse giovane e forte; è caduto nell’oceano e io mi sono posata accanto a lui, per stargli vicino. L’acqua era calda anche di notte. Sono andata alla deriva fino al mattino, ho visto le pietre vive che crescevano come alberi nel mare e i pesci variopinti che venivano a mordere la carne del mio compagno che giaceva sull’acqua, con le ali aperte. Allora l’ho spinto verso il fondo, perché riposasse in pace, e sono fuggita verso Agupt, sola, piena di spavento. E là ho incontrato te, Vedetta. — Sorrise con timidezza. — Adesso, Vedetta, mostraci i luoghi della tua gioventù. Faticosamente, perché le ginocchia mi si erano improvvisamente irrigidite, zoppicai fino all’altra faccia del globo. Avluela mi seguì. Gormon, invece, rimase indietro, per niente interessato. Indicai le isole che spuntano in due lunghe strisce dall’Oceano Terrestre, i resti dei Continenti Scomparsi.

— Qui — dissi indicando la mia isola natale, a ovest. — Sono nato qui.

— Così lontano! — esclamò Avluela.

— Sì, e tanto tempo fa — dissi io. — Ancora nel Secondo Ciclo, qualche volta mi sembra!

— Ma no, è impossibile! — E mi guardò come se davvero potessi avere migliaia di anni.

Sorrisi e le sfiorai la guancia di seta. — Ho detto “mi sembra” — dissi.

— Quando te ne sei andato da casa?

— Quando avevo il doppio della tua età. Prima di tutto sono venuto qui — e indicai il gruppo di isole orientali. — Per dodici anni ho fatto la Vedetta su Palash. Poi la Volontà mi ha portato ad attraversare l’Oceano Terrestre e a trattenermi in Afrik. Sono vissuto per un po’ nei paesi caldi, poi mi sono trasferito in Agupt. E là ho incontrato una piccola Alata… — Tacqui, guardando a lungo le isole che erano state la mia casa, e mi rividi non più vecchio e curvo come ero in quel momento, ma, giovane e robusto, salire le montagne verdi, nuotare nelle fresche acque del mare, e compiere la mia Vigilanza sopra una spiaggia bianca, orlata di spuma.

Rimasi lì, a meditare. Avluela si staccò da me, andò da Gormon e gli disse: — Adesso tocca a voi. Mostrateci da dove venite, Diverso!

Lui si strinse nelle spalle. — Quel posto non si trova, su questo globo.

— Ma è impossibile!

— Ah sì? — disse lui.

Avluela insisté ancora, ma Gormon non cedette; infine, uscimmo di nuovo nella strada, attraverso una porta.

Cominciavo a sentirmi stanco, ma Avluela, avida di cose nuove, voleva divorarsi l’intera città in un pomeriggio. Così ci inoltrammo in un labirinto di vicoli. Attraversammo un quartiere di palazzi scintillanti riservati ai Padroni e ai Mercanti, poi il covo di Servitori e Venditori, che arrivava fino alle catacombe sotterranee, visitammo il luogo di ritrovo di Clown e Musici, e la sede dove la Corporazione dei Sonnambuli offriva i suoi dubbi servizi. Una grassa Sonnambula ci pregò di entrare e comprare la verità che viene attraverso la trance. Avluela avrebbe voluto provare, ma Gormon scosse la testa; io sorrisi e proseguimmo il cammino. Eravamo giunti a un parco, nel centro della città. Lì, gli abitanti di Roum passeggiavano con una vivacità che raramente si vedeva nell’assolato Agupt; ci unimmo a loro.

— Guardate là — gridò Avluela — come luccica!

E indicò l’arco scintillante di una sfera dimensionale che certo racchiudeva qualche preziosa reliquia del passato. Riparandomi gli occhi con la mano, riuscii a distinguere un muro di pietra roso dalle intemperie, e una piccola folla di gente. — È la Bocca della Verità — disse Gormon.

— Che cos’è? — domandò Avluela.

— Venite a vedere.

Una fila di persone aspettava di entrare nella sfera. Ci mettemmo in coda anche noi, e presto fummo sulla soglia, a sbirciare nella regione senza tempo che ci si apriva davanti. Non sapevo perché a quella reliquia fosse stata accordata una protezione tanto particolare, e perciò chiesi schiarimenti a Gormon, che, in materia, doveva saperne quanto un Ricordatore. — Perché questo è il regno della certezza, dove tutto quello che si dice corrisponde perfettamente alla verità — rispose lui.

— Non capisco — disse Avluela.

— È impossibile mentire, qui dentro — disse Gormon. — Riuscite a immaginare una reliquia più meritevole di protezione? — Entrò nel corridoio d’ingresso, tremolando nel varcare la soglia, e io lo seguii. Avluela esitò un istante sulla soglia, come se il vento che soffiava lungo la linea di demarcazione tra il mondo esterno e l’universo in miniatura che ci aveva ingoiati le impedisse di avanzare.

La Bocca della Verità era racchiusa in uno scompartimento interno. La fila di visitatori si allungava verso di essa e un Classificatore controllava l’afflusso al tabernacolo. Passò un po’ di tempo prima che ci permettessero di entrare. Infine, ci trovammo davanti alla testa feroce di un mostro in altorilievo, fissata a un muro antico, segnato dal tempo. Le mascelle del mostro erano spalancate e la bocca aperta mostrava una cavità scura e sinistra. Gormon la osservò con piccoli cenni di approvazione, come se fosse soddisfatto di trovarla proprio come si era aspettato.

— Cosa facciamo, adesso? — domandò Avluela.

Senza esitare, Gormon disse: — Vedetta, mettete la mano destra nella Bocca della Verità.

Lo accontentai, corrugando la fronte.

— Ora — continuò Gormon — uno di noi farà una domanda. Voi dovrete rispondere. Se non direte la verità, la bocca si chiuderà e vi trancerà la mano.

— No! — gridò Avluela.

Fissai, a disagio, le fauci di pietra intorno alla mia mano. Una Vedetta senza una mano è un uomo senza lavoro; durante il Secondo Ciclo, si sarebbero potute acquistare protesi più perfette della mano stessa; ma il Secondo Ciclo era concluso da molto tempo, e ormai tali raffinatezze non esistevano più sulla Terra.

— Com’è possibile una cosa simile? — domandai.

— La Volontà è particolarmente forte, in questo luogo — rispose Gormon — e fa distinzione netta tra verità e menzogna. Dietro a questo muro dormono tre Sonnambuli, attraverso i quali la Volontà parla, e che controllano la Bocca. Avete paura della Volontà, Vedetta?

— Ho paura della mia lingua.

— Siate coraggioso. Nessuno ha mai pronunciato menzogne davanti a questo muro. Nessuno ci ha mai perso una mano.

— Avanti, allora — dissi. — Chi vuol farmi la domanda?

— Io — disse Gormon. — Ditemi, in tutta sincerità, siete certo che una vita spesa a Vigilare sia spesa saggiamente?

Tacqui per un lungo istante, rimuginando i miei pensieri, e tenendo d’occhio la Bocca.

Infine dissi: — Dedicare se stessi alla Vigilanza per il bene del genere umano è forse l’ideale più nobile che un uomo possa servire.

— Attento! — gridò Gormon, allarmato.

— Non ho ancora finito — dissi io.

— Avanti, allora.

— Ma dedicare se stessi alla Vigilanza, se il nemico è puramente immaginario, è follia; e congratularsi con se stessi per aver cercato a lungo un nemico che non compare mai è sciocco e peccaminoso. La mia vita è sprecata.

Le mascelle della Bocca della Verità non ebbero il minimo fremito.

Sfilai la mano e la fissai a lungo, come se fosse appena spuntata dal polso. Mi sentii all’improvviso vecchio di molti cicli. Le pupille dilatate, le mani sulle labbra, Avluela sembrava sconvolta dalle mie parole, che restavano come sospese nell’aria, pietrificate, davanti all’idolo mostruoso.

— Avete parlato onestamente — disse Gormon — anche se non avete avuto pietà per voi stesso. Vi giudicate troppo severamente, Vedetta.

— Ho parlato per salvare la mia mano. Volevate che mentissi?

Lui sorrise. Poi, rivolto ad Avluela, disse: — Tocca a voi.

Visibilmente spaventata, la piccola Alata si avvicinò alla Bocca della Verità. La sua mano minuscola tremava, mentre lei la infilava tra le fauci di pietra. Provai l’impulso di gettarmi su di lei e di strapparla a quel mascherone diabolico.

— Chi la interrogherà? — domandai.

— Io — disse Gormon.

Le ali di Avluela tremavano leggermente, sotto gli indumenti. La sua faccia era impallidita; le narici vibravano, e il labbro superiore era un poco scostato dall’altro. Se ne stava appoggiata al muro, fissando inorridita il braccio che scompariva nella gola del mostro. Fuori, le figure tremolanti degli altri visitatori cominciavano a impazientirsi e, ogni tanto, sbirciavano dentro, un po’ irritate. Ma noi non ce ne curavamo. L’atmosfera, calda e appiccicosa, aveva il sentore di muffa di un pozzo scavato negli strati del Tempo.

Lentamente, Gormon disse: — La notte scorsa avete permesso al Principe di Roum di possedere il vostro corpo. Prima di allora, vi eravate concessa al Diverso Gormon, anche se tali unioni sono proibite dall’uso e dalla legge. E, molto tempo prima, eravate stata la compagna di un Alato, ora morto. Forse avete conosciuto altri uomini, di cui io non so; ma questo, agli effetti della mia domanda, non ha importanza. Ditemi soltanto questo, Avluela: quale dei tre vi ha dato il piacere fisico più grande, quale dei tre ha suscitato in voi le emozioni più profonde, e quale dei tre scegliereste come compagno, se doveste sceglierne uno?

Avrei voluto protestare che le aveva fatto tre domande invece di una, e che questo era sleale. Ma non ebbi il tempo di parlare, perché Avluela gli stava già rispondendo, sicura, la mano profondamente incuneata nella Bocca della Verità: — Il Principe di Roum mi ha dato il piacere fisico più grande che io abbia mai provato; ma è freddo e crudele, e lo disprezzo. Quanto al mio povero Alato… non ho mai amato nessun altro quanto lui; ma era debole, e non vorrei scegliere un debole per compagno. Voi, Gormon, mi sembrate anche ora uno straniero, e sento che non conosco né il vostro corpo, né la vostra anima; eppure, malgrado il baratro che ci divide sia immenso, è con voi che vorrei passare i miei giorni futuri.

E sfilò la mano dalla Bocca della Verità.

— Ben detto! — esclamò Gormon, anche se la precisione di quelle parole l’aveva chiaramente ferito e rallegrato al tempo stesso. — Tutt’a un tratto diventate eloquente, eh? Quando le circostanze lo richiedono. E adesso tocca a me rischiare la mano.

Si avvicinò al mostro. Io dissi: — Avete fatto voi le prime due domande. Volete completare l’opera e fare anche la terza?

— No. — Poi fece un gesto noncurante con la mano libera e aggiunse: — Consultatevi e mettetevi d’accordo su una domanda comune. Coraggio!

Avluela e io confabulammo per qualche istante. Con inaspettata prontezza, lei propose una domanda: e poiché era proprio quella che avrei voluto fare anch’io, accettai subito e le dissi di porla.

— Quando stavamo davanti a quell’enorme mappamondo, Gormon — cominciò la ragazza — vi ho chiesto di mostrarmi il luogo in cui siete nato, e avete detto che non era su quella sfera. Mi è sembrato molto strano. Ora, ditemi: siete veramente quello che dichiarate di essere, un Diverso in giro per il mondo?

— No — rispose lui.

In un certo senso, aveva già risposto alla domanda formulata da Avluela; ma andava da sé che la risposta non era sufficiente; quindi, senza togliere la mano dalla Bocca della Verità, lui continuò: — Non vi ho mostrato il luogo in cui sono nato perché non sono di questo pianeta, ma vengo da una stella che non posso nominare. Non sono un Diverso, nel senso che voi date alla parola, benché, in un certo altro senso, lo sia, in quanto il mio corpo è mascherato, e nel mio mondo io porto una carne diversa. Vivo qui da dieci anni.

— E perché siete venuto sulla Terra? — domandai.

— Sarei obbligato a rispondere a una sola domanda — disse lui, sorridendo, — ma vi darò ugualmente una risposta: sono stato inviato qui come osservatore militare, per preparare la via all’invasione per cui Vigilate da tanto tempo, nella quale avete smesso di credere e che vi travolgerà tra poche ore.

Menzogne! — gridai sdegnato. — Tutte menzogne!

Gormon rise. E levò la mano dalla Bocca della Verità, illeso.

6

Confuso e stordito, fuggii con i miei strumenti da quella sfera luccicante e mi ritrovai in una strada fredda e buia. La notte era scesa con rapidità invernale. Era quasi l’ora nona, e presto avrei dovuto Vigilare ancora.

L’ironia di Gormon mi rimbombava nel cervello. Aveva preparato ogni cosa: ci aveva fatti entrare nella Bocca della Verità, e aveva strappato una confessione di incredulità a me e una d’altro genere ad Avluela. Aveva spietatamente dato informazioni che nessuno gli aveva chiesto, pronunciato parole calcolate apposta per ferirmi nel profondo.

La Bocca della Verità era dunque un inganno? Era possibile che Gormon mentisse e ne uscisse illeso?

Mai, da quando avevo intrapreso la mia missione, avevo Vigilato in ore diverse da quelle assegnatemi. Ma adesso la realtà si sgretolava davanti ai miei occhi: non potevo aspettare l’ora nona. Mi accoccolai nella strada tortuosa, spalancai lo stipo, sistemai l’attrezzatura e mi tuffai come un subacqueo nelle profondità della Vigilanza.

La mia coscienza amplificata si protese verso le stelle.

Deificato, spaziai nell’infinito. Sentii il soffio del vento solare, ma non ero un Alato per essere distrutto dalla sua pressione, e continuai a innalzarmi, oltre la portata delle rabbiose particelle di luce, nell’oscurità, al limitare del regno del sole. Ma, all’improvviso, sentii sopra di me una pressione diversa.

Navi spaziali si avvicinavano.

Non si trattava delle navi di linea che portavano i turisti a visitare il nostro povero mondo. E neanche dei soliti vascelli mercantili, né delle navi cisterna che vanno a raccogliere i vapori interstellari, e neppure di apparecchi per le comunicazioni sulle loro orbite iperboliche.

Erano navi militari, scure, minacciose, sconosciute. Non riuscivo a contarle. Sapevo soltanto che stavano precipitandosi verso la Terra, a una velocità molto superiore a quella della luce, formando innanzi a sé un cono di energia. Ed era quel cono che sentivo, che avevo avvertito la notte prima, e che ora rimbombava nella mia mente attraverso i miei strumenti, ingoiandomi come un cubo di cristallo attraverso il quale giocano e brillano figure prodotte dalla deformazione.

Tutta la vita avevo Vigilato per questo.

Ero stato addestrato ad avvertire quella sensazione. Avevo pregato il cielo che non mi capitasse mai di sperimentarla, e poi, nel mio vuoto interiore, avevo invece sperato il contrario; infine, avevo smesso di crederci. E ora, grazie a Gormon, il Diverso, l’avevo avvertita ugualmente, Vigilando prima del tempo, accovacciato in quella strada roumana, appena fuori dalla Bocca della Verità.

Durante l’addestramento, si insegna alla Vedetta a strapparsi allo stato di Vigilanza, non appena le osservazioni vengano confermate da un accurato controllo, in modo che essa possa lanciare l’allarme. Ubbidiente, eseguii il controllo, passando da un canale all’altro, a un altro ancora, triangolando; ma sempre percepii l’angosciosa sensazione di una forza titanica che stava per rovesciarsi sulla Terra, a velocità inimmaginabili.

O io mi ingannavo, o quella era l’invasione. Ma non riuscivo a scuotermi dalla mia trance, per dare l’allarme.

Immerso in un invincibile, affascinante torpore, continuai a sorbire i dati sensoriali per un tempo che mi sembrò infinito. Accarezzavo i miei strumenti, assaporando da essi la totale affermazione di fede che mi davano le mie rilevazioni. Oscuramente, capivo di perdere tempo prezioso, mentre avrei dovuto strapparmi a quella languida carezza del destino per avvertire i Difensori.

E infine uscii di Vigilanza e tornai nel mondo che dovevo proteggere.

Avluela stava accanto a me, sgomenta, terrorizzata, mordendosi le nocche delle dita.

— Vedetta, Vedetta, mi senti? Cosa succede? Cosa sta per capitare?

— L’invasione — dissi. — Quanto ho Vigilato?

— Mezzo minuto. Non so di preciso. Avevi gli occhi chiusi. Ho creduto che fossi morto.

— Gormon ha detto la verità! L’invasione è alle porte. Dov’è lui? Dov’è andato?

— È scomparso mentre uscivamo dalla casa della Bocca — balbettò Avluela. — Vedetta, ho paura. Sento che tutto sta crollando. Devo volare… non posso fermarmi qui a terra, ora!

— Aspetta — dissi cercando di agguantarla per un braccio. — Non andartene subito. Devo dare l’allarme, poi…

Ma lei stava già strappandosi gli indumenti di dosso. Il suo corpo cereo, nudo fino alla vita, biancheggiava nella luce della sera, mentre tutt’intorno a noi la gente continuava ad affannarsi ai propri affari, ignara di quello che stava per accadere. Avrei voluto trattenere Avluela con me, ma non potevo più aspettare a dare l’allarme. Così la lasciai e tornai al mio carrello.

Agendo come in un sogno nato da desideri nutriti troppo a lungo, cercai il pulsante che non avevo mai usato, quello che avrebbe messo istantaneamente all’erta i Difensori di tutto il pianeta.

Era già stato dato, l’allarme? Forse qualche altra Vedetta aveva sentito ciò che avevo sentito io e, meno invischiata dallo stupore e dal dubbio, aveva compiuto l’estremo dovere di una Vedetta?

No, no. Altrimenti avrei sentito l’urlo delle sirene echeggiare dagli altoparlanti orbitanti sopra la città.

Sfiorai il pulsante. Con la coda dell’occhio vidi Avluela, ormai libera da ogni impedimento, inginocchiarsi, pronunciare le parole di rito, e trasmettere forza alle sue tenere ali. Tra un attimo sarebbe stata in alto, fuori della mia portata.

Con un solo gesto rapido e preciso, attivai l’allarme.

Nel medesimo istante, vidi una figura vigorosa venire verso di noi. Era certamente Gormon. Lasciai gli strumenti e cercai di afferrarlo, di tenerlo saldo. Ma non era Gormon. Era uno dei soliti odiosi Servitori. Gridò ad Avluela: — Ehi, calma, bambina. Ripiega le ali. Il Principe di Roum ti vuole alla sua presenza.

E le si avvinghiò alle caviglie. Gli occhi di Avluela lanciarono fiamme, i suoi piccoli seni sussultarono.

— Lasciami! Voglio volare!

— Il Principe di Roum ti manda a chiamare — disse il Servitore, stringendola nelle sue braccia vigorose.

— Il Principe di Roum avrà ben altre distrazioni, questa notte — dissi io. — Non avrà certamente bisogno di lei.

Mentre parlavo, le sirene cominciarono a suonare dal cielo.

Il Servitore lasciò la presa. La sua bocca si aprì due o tre volte inutilmente. Poi fece una delle invocazioni protettive alla Volontà, guardò in alto e disse: — L’allarme! Chi ha dato l’allarme? Tu, vecchia Vedetta?

La gente cominciò a correre nelle strade, come impazzita.

Avluela, libera, mi sfrecciò accanto, a piedi, le ali a metà dischiuse, e fu inghiottita dalla folla urlante. Sopra il suono terrificante delle sirene, rimbombavano i messaggi dei pubblici annunciatori, che davano le istruzioni necessarie per la difesa. Un uomo alto e dinoccolato, con il marchio dei Difensori impresso sulla guancia, mi si avvicinò gesticolando, urlò parole troppo incoerenti perché potessi capire, e corse via lungo la strada. Il mondo pareva in preda alla follia.

Soltanto io restavo calmo. Guardai in cielo, aspettandomi quasi di scorgere le navi nere degli invasori spuntare sopra le torri di Roum. Ma vidi soltanto le luci notturne e i comuni oggetti visibili nella notte: nient’altro.

— Gormon! — chiamai. — Avluela!

Ero solo.

Uno strano senso di vuoto mi avvolse. Avevo dato l’allarme. Gli invasori erano in viaggio. E avevo perso la mia occupazione: non c’era più bisogno di Vedette, ormai. Sfiorai, quasi in una carezza, il carrello che mi era stato compagno inseparabile per tanti anni. Lasciai scorrere le dita sugli strumenti rugginosi e ammaccati. Poi girai la testa e abbandonai tutto, incamminandomi per la strada buia senza il mio solito fardello: un uomo che aveva trovato e perduto nello stesso istante la sua ragione di vita. Intorno a me infuriava il caos.

7

Era inteso che quando per la Terra fosse giunto il momento della battaglia finale, tutte le Corporazioni sarebbero state mobilitate, tranne le Vedette. Per noi che avevamo servito per tanto tempo la difesa, non ci sarebbe stato più posto nella strategia della battaglia; saremmo stati congedati comunicando il vero allarme. Ora era venuto il momento per i Difensori di mostrare le loro capacità. Da mezzo ciclo progettavano ciò che avrebbero fatto in tempo di guerra. Quali piani potevano offrire, ora? Quali attacchi avrebbero sferrato?

Ora non dovevo far altro che tornarmene alla foresteria reale e aspettare la risoluzione della crisi. Inutile pensare di ritrovare Avluela, in quella confusione: mi rimproveravo aspramente di essermela lasciata sfuggire, così, tutta nuda e indifesa in quel caos. Dove sarebbe andata? Chi l’avrebbe protetta?

Un’altra Vedetta, che correva come impazzita spingendo il suo carrello, mi urtò. — Attento! — gridai. L’uomo guardò in su, ansimante, sgomento. — Ma è vero? — disse. — L’allarme?

— Non lo senti?

— Ma è proprio vero?

Gli indicai i suoi strumenti. — Sai come si fa a controllare — dissi.

— Dicono che chi ha dato l’allarme è un ubriaco, un vecchio che hanno cacciato ieri dall’Ostello.

— Può darsi.

— Ma se l’allarme fosse vero?…

— Se lo è, tutti noi possiamo riposare. Buon divertimento, Vedetta!

— Il tuo carrello! Dov’è il tuo carrello? — mi gridò dietro.

Ma io me l’ero già lasciato alle spalle, e mi dirigevo verso il possente obelisco di pietra scolpita, resto dell’antichissima Roum Imperiale.

Su quella colonna erano scolpite immagini antiche: battaglie e vittorie, monarchi stranieri che camminavano incatenati per le strade della città, mentre le aquile trionfali celebravano la gloria degli imperatori. Nella mia strana, nuova calma, rimasi un poco a guardare la reliquia di pietra, ammirandone l’eleganza dei rilievi. D’un tratto vidi una figura correre frenetica verso di me e riconobbi Basil, il Ricordatore. Lo salutai, dicendo: — Arrivate a proposito! Fatemi la cortesia di spiegarmi questi altorilievi. Mi affascinano e mi incuriosiscono.

— Ma siete impazzito? Non sentite l’allarme?

— L’ho dato io, Ricordatore.

— E allora, fuggite! Arrivano gli invasori, bisogna combattere!

— Io no, Basil. Il mio compito è finito. Parlatemi di queste figure, di questi re sconfitti, di questi imperatori battuti. Un uomo della vostra età non può certo combattere…

— Tutti sono mobilitati, adesso.

— Tutti, meno le Vedette — dissi. — Aspettate un attimo. Il passato mi ha sempre attratto. Gormon è scomparso: siate voi la mia guida, in questi cicli perduti.

Il Ricordatore scosse la testa, mi girò intorno e cercò di svignarsela. Io feci un balzo, cercando di afferrarlo per lo scarno braccio e di trattenerlo, ma lui mi scartò bruscamente e riuscii solo ad acchiappare la sua sciarpa nera, che si sciolse e mi restò in mano, mentre il vecchio se la dava a gambe giù per la strada, scomparendo alla mia vista. Mi strinsi nelle spalle e osservai la sciarpa. Era intessuta di lucenti fili metallici, sistemati in disegni complicati, che ingannavano l’occhio: sembrava che ciascun filo scomparisse nella trama del tessuto, solo per ricomparire più in la, in qualche punto impensato, come linee dinastiche che risuscitavano inaspettatamente in città lontane. Era un lavoro superbo. Con gesto noncurante, mi gettai la sciarpa sulle spalle.

Poi m’incamminai.

Le mie gambe, che quasi si erano rifiutate di servirmi poco prima, ora facevano il loro dovere. Come ringiovanito, mi orientai facilmente nel caos della città: arrivai al fiume, lo attraversai e, dall’altra parte del Tver, cercai il Palazzo del Principe. La notte si era fatta più buia, perché quasi tutte le luci erano state spente in base all’ordine di mobilitazione; di quando in quando, un sordo boato avvertiva che sopra la nostra testa era esplosa una bomba fumogena, che liberava nubi di fuliggine nera per difendere la città da varie forme d’osservazione a distanza. C’erano pochi passanti, nelle strade, e le sirene continuavano a urlare. In cima agli edifici le installazioni difensive entravano in azione: udii il caratteristico suono dei repulsori che cominciavano a scaldarsi, e vidi le antenne degli amplificatori allungarsi da una torre all’altra, mentre si collegavano per ottenere una potenza massima. Ora non avevo più dubbi che l’invasione fosse alle porte. I miei strumenti si sarebbero anche potuti sbagliare, tratti in inganno dalla mia confusione interiore, ma non sarebbero mai andati tanto in là da mobilitare tutta la Terra, se il rapporto iniziale non fosse stato confermato dai rilevamenti di centinaia di altri membri della mia Corporazione.

Mentre mi avvicinavo al palazzo, due Ricordatori mi corsero incontro, senza fiato, le sciarpe svolazzanti. Mi gridarono qualcosa che non riuscii a capire; forse una parola d’ordine della loro Corporazione, pensai, ricordandomi che portavo la sciarpa di Basil. Non risposi niente, e quelli allora mi furono addosso e, ripiegando su un linguaggio comprensibile agli uomini comuni, dissero: — Che diavolo fate? Al vostro posto! Dobbiamo osservare, registrare, commentare!

— Vi sbagliate — dissi pacatamente. — Questo è lo scialle del vostro fratello Basil, che me l’ha lasciato in custodia. Non ho niente da fare, adesso.

— Una Vedetta! — gridarono all’unisono. Poi imprecarono, uno alla volta, e scapparono via. Io scoppiai a ridere e mi diressi verso il palazzo.

I cancelli erano spalancati. I neutri che prima presidiavano il portico esterno erano scomparsi, e con loro anche i due Classificatori. Gli infelici che prima affollavano la piazza si erano rifugiati nell’edificio stesso, per cercare riparo. Questo aveva infuriato i mendicanti professionisti, con regolare licenza ereditaria, che stazionavano abitualmente in quella parte dell’edificio e che si erano scagliati contro l’ondata di profughi con una ferocia e una forza insospettate. Vidi storpi che mulinavano le grucce come se fossero clave; ciechi che mandavano a segno colpi con una precisione da lasciare perplessi; umili penitenti che maneggiavano armi di ogni genere, dal pugnale alla pistola sonica. Mantenendomi estraneo a quella mischia vergognosa, mi infilai nei recessi del palazzo, sbirciando nelle cappelle dove vedevo Pellegrini che imploravano le benedizioni della Volontà e Comunicatori che cercavano disperatamente una guida spirituale per prevedere l’esito del prossimo conflitto.

Improvvisamente, si sentirono squilli di trombe e grida di: “Fate largo! Fate largo!”.

Un corteo di robusti Servitori entrò nel palazzo, puntando deciso verso le stanze del Principe, nell’abside. Parecchi di loro tenevano ferma una figuretta che si dibatteva freneticamente, scalciando e mordendo, le ali a metà dischiuse: Avluela! Io la chiamai, ma la mia voce fu coperta dal frastuono generale. Tentai di raggiungerla, ma i Servitori mi spinsero da parte, e il corteo sparì nell’appartamento reale; intravidi un’ultima volta la piccola Alata, fragile e pallida, nella stretta dei suoi guardiani; poi scomparve di nuovo.

Afferrai per il bavero un neutro dalla faccia inespressiva, che vagava, indeciso, sulla scia dei Servitori.

— Quella piccola Alata! Perché l’hanno portata qui?

— Lui… lui… loro…

— Parla!

— Il Principe… la sua donna… il suo cocchio… lui… loro… gli invasori…

Allontanai con una spinta quella creatura idiota e mi precipitai verso l’abside. Un muro di rame, alto più di dieci metri, mi si parò davanti. Mi gettai contro e lo tempestai di pugni. — Avluela! — urlai selvaggiamente. — Av… lu… eia!…

Non fui né scacciato, né ammesso. Fui semplicemente ignorato. Il baccano alle porte occidentali era dilagato ora nella navata e nelle corsie; poiché la marea tempestosa dei mendicanti avanzava nella mia direzione, girai sui tacchi e infilai una delle porte laterali del palazzo.

Mi ritrovai nel cortile che conduceva alla foresteria, in uno stato di passività ansiosa. Una strana elettricità crepitava nell’aria. Immaginai che provenisse da qualche installazione difensiva, una specie di raggio destinato a proteggere la città dall’attacco. Ma, un istante dopo, mi accorsi che preannunciava l’arrivo degli invasori.

Improvvisamente le astronavi splendettero in cielo.

Quando le avevo scorte durante la Vigilanza, mi erano parse nere, contro la tenebra infinita. Ma adesso ardevano come soli. Un nastro di globi duri e lucenti come gioielli adornava il cielo: i globi erano disposti uno accanto all’altro, da est a ovest, in una linea ininterrotta che formava un arco immenso; e quando si materializzarono simultaneamente davanti ai miei occhi, mi sembrò di udire il suono di una invisibile sinfonia che annunciasse l’arrivo dei conquistatori della Terra.

Non so a che altezza si tenessero quelle navi, né quante fossero, e neppure quali caratteristiche avesse la loro struttura. So soltanto che, all’improvviso, furono là, massicce e maestose, e che, se fossi stato un Difensore, la mia anima sarebbe venuta meno, a quella vista.

Poi il cielo fu solcato da strisce di luce variopinte: la battaglia era cominciata. Non potevo comprendere la strategia dei nostri combattenti, e tanto meno quella degli esseri venuti per impossessarsi del nostro pianeta ricco di storia, sì, ma indebolito dal tempo. Con mia somma vergogna, mi sentivo non solo fuori dalla mischia, ma al di sopra di questa, come se quanto stava accadendo non mi riguardasse affatto. Avrei voluto Avluela accanto a me, ma lei era nel Palazzo del Principe di Roum. Perfino Gormon mi sarebbe stato di conforto, ora. Gormon il Diverso. Gormon la spia. Gormon, il mostruoso traditore del nostro mondo.

D’un tratto, voci enormemente amplificate tuonarono: — Fate largo al Principe di Roum! Il Principe di Roum guida i Difensori nella lotta per il mondo dei padri!

Dal palazzo emerse, scintillante, un velivolo in forma di lagrima. Nel metallo lucente della cupola era inserita una lastra trasparente perché il popolo vedesse il monarca e si rincuorasse alla sua presenza. Ai comandi sedeva il Principe di Roum, eretto orgogliosamente, i lineamenti aspri e crudeli irrigiditi in un’incrollabile determinazione; e accanto a lui, vestita come un’imperatrice, vidi la figuretta minuta di Avluela, l’Alata. Sembrava in trance.

Il cocchio reale si innalzò verso l’alto e si perse nella foschia.

Mi sembrò allora che un altro velivolo spuntasse all’improvviso, dietro quello del Principe, e che poi quello del Principe riapparisse, e che tutt’e due vorticassero in giri sempre più stretti, impegnati in battaglia. Ora, nubi di scintille azzurre avvolgevano i combattenti; poi entrambi puntarono verso l’alto e scomparvero lontano, dietro le colline di Roum.

La battaglia infuriava forse su tutto il pianeta, ormai. Anche Perris, la sacra Jorslem, e le sonnolente isole dei Continenti Scomparsi erano in pericolo? Le astronavi volavano ovunque? Non potevo saperlo. Vedevo soltanto quello che accadeva in un piccolo lembo del cielo di Roum, e in modo confuso, incerto, impreciso. In momentanei sprazzi di luce, vidi battaglioni di Alati rovesciarsi nel cielo; poi tornò l’oscurità, come se sulla città fosse stato gettato un sudario di velluto. Sentii le grandi macchine difensive tuonare con esplosioni irregolari dalla sommità delle torri; e poi vidi ancora le astronavi intatte, illese, immobili. Il cortile in cui mi trovavo era deserto; ma di lontano giungevano voci piene di paura, tenui come cinguettii d’uccello. Di quando in quando, un rombo scuoteva la città. Una volta, un plotone di Sonnambuli mi passò davanti. Nella piazza di fronte al palazzo vidi un gruppo di Clown che stendeva una specie di rete scintillante, dall’aspetto militare. In un lampo di luce scorsi un trio di Ricordatori che si alzavano da terra su una zattera antigravitazionale, annotando dettagliatamente tutto quanto succedeva. Mi sembrò, ma non ne ero sicuro, che il veicolo del Principe di Roum stesse tornando, incalzato dal suo inseguitore. — Avluela — sussurrai, mentre i due punti di luce scomparivano alla vista. Le astronavi vomitavano già truppe? Forse colossali colonne di energia erano già spuntate da quelle luci orbitanti e toccavano la superficie terrestre? Perché il Principe si era preso Avluela? Dove era Gormon? Che cosa facevano i nostri Difensori? Perché le navi nemiche non erano state annientate?

Come radicato agli antichi ciottoli del cortile, seguii la battaglia cosmica senza capirci niente, per tutta la notte.

Venne l’alba: pennellate di luce pallida cominciarono ad allungarsi da una torre all’altra. Mi stropicciai gli occhi, pensando che dovevo aver dormito in piedi. “Forse potrei far domanda di entrare nella Corporazione dei Sonnambuli” dissi a me stesso. Mi strinsi addosso la sciarpa del Ricordatore, chiedendomi come mai fosse lì sulle mie spalle: poi ricordai.

Guardai in cielo.

Le navi straniere erano scomparse. Vidi soltanto il familiare cielo del mattino, grigio, con qualche tocco roseo. Poi provai una stretta al cuore, e cercai con gli occhi il mio carrello; ma rammentai subito che non dovevo più Vigilare e mi sentii inutile e vuoto, molto più di quanto non ci si senta a quell’ora.

Era finita, la battaglia?

Il nemico era stato sconfitto?

Le navi degli invasori erano state incenerite e giacevano in rovine fumanti, tutt’intorno a Roum?

Tutto era calmo. Non sentivo più le sinfonie celestiali, ma in quella calma innaturale pulsava un nuovo suono, un rombo come di veicoli a ruote che percorressero le strade della città. E i Musici invisibili suonarono un’ultima nota finale, profonda e risonante, che durò a lungo e s’interruppe bruscamente come se tutte le corde si fossero spezzate insieme.

Dagli altoparlanti una voce tranquilla disse: — Roum è caduta. Roum è caduta.

8

La foresteria reale era abbandonata: neutri e Servitori erano fuggiti; Difensori, Padroni e Dominatori dovevano essere periti onorevolmente in combattimento. Anche Basil, il Ricordatore, era scomparso: e, con lui, tutti i suoi confratelli. Me ne andai in camera mia, mi rinfrescai e mi rifocillai: poi, raccolte le mie poche cose, dissi addio a tutto quel lusso che avevo gustato per un tempo tanto breve. Mi spiaceva di non aver potuto visitare minutamente Roum, ma almeno Gormon era stata una guida eccellente e mi aveva mostrato le cose più importanti.

Ora dovevo andarmene.

Non era prudente restare in una città conquistata. La cuffia pensante della mia camera non rispondeva più alle domande, e così non potevo conoscere la gravità della sconfitta; ma era certo che almeno Roum non si trovava più sotto il controllo degli uomini, e desideravo partire al più presto. Presi in considerazione la possibilità di andare a Jorslem, come mi aveva suggerito il Pellegrino; ma poi scelsi una strada che portava a ovest, verso Perris; quella città non solo era più vicina, ma ospitava anche il quartier generale dei Ricordatori. La mia occupazione ormai era distrutta; ma in quel primo mattino della sconfitta della Terra, sentii all’improvviso uno strano impulso che mi spingeva a offrirmi umilmente ai Ricordatori, per cercare con loro tra i resti del nostro passato glorioso.

A mezzogiorno lasciai la foresteria. Per prima cosa andai al palazzo, che era ancora spalancato. I mendicanti giacevano dappertutto, alcuni drogati, altri addormentati, la maggior parte morti. Dai loro corpi straziati, capii che dovevano essersi uccisi a vicenda, presi dal panico e da una furia frenetica. Un Classificatore dall’aria depressa se ne stava accoccolato presso i tre teschi del dispositivo d’interrogazione, nella cappella. Quando entrai, disse: — Inutile, i cervelli non rispondono.

— Che ne è stato del Principe di Roum?

— Morto. Gli invasori hanno abbattuto il suo velivolo.

— C’era una giovane Alata, con lui. Sapete niente di lei?

— Niente. Sarà morta, suppongo.

— E la città?

— Caduta. Gli invasori sono dovunque.

— Massacri?

— No. Neanche saccheggi — disse il Classificatore. — Sono molto cortesi. Ci hanno “preso in possesso”.

— Soltanto a Roum, o dappertutto?

L’uomo si strinse nelle spalle, e cominciò a dondolarsi ritmicamente avanti e indietro. Lo lasciai e mi inoltrai ancor più nel palazzo. Con mia grande sorpresa, l’appartamento reale era aperto. Entrai e, preso da riverenza per la ricchezza sontuosa dell’arredamento, passai da una stanza all’altra, finché arrivai al letto reale, cui faceva da coltrice la carne di una gigantesca bivalve proveniente da una stella lontana; mentre la conchiglia si dischiudeva per me, sfiorai la superficie infinitamente soffice sulla quale il Principe di Roum era solito giacere, e ricordai che anche Avluela era stata lì. Se fossi stato più giovane, sarei scoppiato in pianto.

Lasciai il palazzo e attraversai lentamente la piazza per iniziare il mio viaggio verso Perris.

Mentre mi allontanavo, intravidi per la prima volta i conquistatori. Un velivolo di forma straniera atterrò al centro della piazza, e ne uscì una decina di persone. Non erano molto diversi dagli uomini: erano alti e vigorosi, larghi di spalle come Gormon, e soltanto la lunghezza esagerata delle braccia rivelava subito la loro origine. La loro pelle era piuttosto strana e, se fossi stato più vicino, avrei probabilmente notato occhi, labbra e narici di forma non umana. Senza curarsi di me, attraversarono la piazza camminando con un’andatura dinoccolata e zoppicante, che mi ricordava irresistibilmente quella di Gormon, ed entrarono nel palazzo. Non sembravano conquistatori.

Turisti, piuttosto. La maestà di Roum esercitava una volta ancora il suo fascino sugli stranieri.

Lasciando i nuovi padroni ai loro svaghi, mi diressi verso la periferia della città. Nella mia anima si era fatto inverno: non sapevo perché. Forse soffrivo per la caduta di Roum? O per la perdita di Avluela? Oppure sentivo la mancanza delle tre Vigilanze che non avevo compiuto, come un tossicomane cui sia stata sottratta la droga?

Era tutto questo insieme di cose che mi dava pena, ma soprattutto l’ultima.

Le strade erano deserte. Probabilmente la paura degli invasori teneva i cittadini tappati in casa. Di quando in quando vedevo passare qualche velivolo straniero, ma nessuno mi molestò. Nel tardo pomeriggio arrivai alla porta occidentale della città. Era aperta e lasciava intravedere il pendio dolce di una collina, ricoperta di alberi dal fogliame verdissimo. Uscii, e, poco più in là, vidi la figura di un Pellegrino che si allontanava lentamente dalla città, strascicando i piedi.

Non ebbi difficoltà a raggiungerlo.

La sua andatura, incerta e irregolare, mi stupì, perché neanche le spesse vesti scure riuscivano a nascondere il vigore e la giovinezza del suo corpo; si teneva eretto, le spalle quadre sul busto dritto e forte; eppure, il passo era incerto ed esitante come quello di un vecchio. Quando gli fui accanto e sbirciai sotto il cappuccio, capii: assicurato alla maschera di bronzo che cela il volto di tutti i Pellegrini, c’era un riverberatore, come quelli portati dai ciechi per evitare gli ostacoli e i mille altri pericoli della strada. Solo allora l’uomo si accorse di me e disse: — Sono un Pellegrino cieco. Vi supplico di non molestarmi.

Ma non era la voce di un Pellegrino, quella. Aveva un tono aspro, forte e imperioso.

— Io non molesto nessuno — risposi. — Sono una Vedetta che ha perso il suo lavoro, la notte scorsa.

— Molta gente ha perso il proprio lavoro, la notte scorsa.

— Certamente nessun Pellegrino.

— No — rispose l’altro. — Nessun Pellegrino.

— Dove siete diretto?

— Mi allontano da Roum.

— Nessuna particolare destinazione?

— No, nessuna. Girerò per il mondo.

— Forse dovremmo girare insieme — dissi io, pensando che porta fortuna viaggiare con un Pellegrino, e che, d’altra parte, senza la mia Alata e il mio Diverso, avrei dovuto proseguire solo. — Io vado a Perris. Volete venirci anche voi?

— Là o altrove, che importa? — disse lui, amaramente. — Sì, andiamo insieme a Perris. Ma che cosa va a fare, là, una Vedetta?

— Una Vedetta non ha più niente da fare in nessun luogo. Vado a Perris per offrirmi ai Ricordatori.

— Capisco — disse lui. — Anch’io appartenevo a quella Corporazione, ma era solo un titolo onorario.

— Ora che la Terra è caduta, voglio sapere di più sui suoi splendori passati.

— Allora, tutta la Terra è caduta, e non solo Roum?

— Credo di sì.

— Capisco — disse il Pellegrino. — Capisco.

Cadde in silenzio, e proseguimmo. Gli offrii il braccio, e lui smise di strascicare i piedi e proseguì con l’andatura elastica e vivace di un giovane. Di tanto in tanto, si lasciava sfuggire un sospiro. O un singhiozzo soffocato? Quando gli feci qualche domanda sul suo Pellegrinaggio, rispose evasivamente o non rispose affatto. A un’ora di cammino da Roum, disse improvvisamente: — Questa maschera mi fa male. Volete aiutarmi a sistemarla?

E, con mia grande sorpresa, se la tolse. Io rimasi di pietra, perché un Pellegrino non può mai mostrare la sua faccia. Si era forse scordato che non ero cieco anch’io?

Mentre la maschera scivolava lentamente, disse ancora: — Non gradirete questa vista.

La griglia di bronzo si abbassò piano e vidi dapprima la fronte, poi due occhi accecati di fresco: due occhiaie vuote, orbate non dal bisturi di un chirurgo, ma forse da due lunghe dita rabbiose; poi un naso regale e, infine, le labbra pallide e tese del Principe di Roum.

— Maestà! — esclamai.

Rivoletti di sangue coagulato solcavano le sue guance e, attorno alle orbite vuote, vi erano tracce di unguento. Lui certo non provava dolore, perché il farmaco l’aveva calmato, ma la pena che ne uscì e che trafisse il mio cuore era acuta, reale.

— Non chiamatemi maestà — disse il Pellegrino. — Aiutatemi a sistemare la maschera. — Le sue mani tremavano, mentre me la porgeva. — Bisogna allargarla, perché mi stringe crudelmente le guance. Ecco… qui.

Mi affrettai ad accontentarlo, per non dover sopportare la vista di quel volto rovinato.

Si rimise la maschera. — Ora sono un Pellegrino — disse piano. — Roum non ha più Principe. Traditemi se volete, Vedetta; oppure accompagnatemi a Perris; e se mai riavrò il potere sarete bene ricompensato.

— Non sono un traditore — gli dissi.

In silenzio, riprendemmo il cammino. Impossibile intavolare un discorso con un personaggio simile: non sarebbe stato allegro, il mio viaggio a Perris. Ma, ormai, ero moralmente impegnato a fargli da guida. Pensai che Gormon aveva mantenuto la parola nei minimi particolari. Pensai ad Avluela e fui sul punto, cento volte, di chiedere al Principe notizie su quanto era accaduto alla sua sposa, all’Alata, nella notte della sconfitta. Ma non domandai nulla.

Il tramonto si avvicinava, ma il sole era ancora di un bel rosso oro, davanti a noi, a ovest. D’un tratto, mi fermai bruscamente, e dalla gola mi uscì un grido strozzato, mentre un’ombra passava sopra la nostra testa.

Alta sopra di noi, spaziava Avluela; la pelle brillava dorata nella luce del tramonto, le ali, gioiosamente spiegate, splendevano tingendosi; dei vari colori dello spettro. Era già a un’altezza di almeno cento uomini, e continuava a innalzarsi. Ai suoi occhi, dovevo sembrare soltanto un puntolino tra gli alberi.

— Cosa c’è? — domandò il Principe. — Che cosa vedete?

— Niente.

— Ditemi che cosa vedete!

Non potevo ingannarlo. — Vedo un’Alata, Maestà. Una fragile fanciulla, molto in alto.

— Allora, è già scesa la notte.

— No. Il sole è ancora alto sull’orizzonte.

— Come può essere? Le sue, sono solamente ali della notte. Il sole la farà cadere a terra.

Esitai. Non potevo spiegargli perché Avluela volasse di giorno, pur avendo solo ali della notte. Non potevo dire al Principe di Roum che, accanto a lei, volava, senz’ali, l’invasore Gormon, muovendosi scioltamente nell’aria, il braccio attorno alle esili spalle della ragazza, sostenendola, rassicurandola, aiutandola a vincere la pressione del vento solare. Non potevo dirgli che la sua nemesi volava, alta al di sopra della sua testa, insieme con l’ultima delle sue spose.

— Be’? — domandò lui. — Come fa a volare di giorno?

— Non so — dissi. — È un mistero anche per me. Ci sono molte cose, oggi, che non so più comprendere.

Il Principe sembrò accettare le mie parole. — Sì, Vedetta. Ci sono molte cose che nessuno di noi sa più comprendere.

E ricadde nel suo silenzio. Ardevo dalla voglia di chiamare Avluela, ma sapevo che non avrebbe potuto né voluto ascoltarmi. Così, continuai a camminare verso il tramonto, verso Perris, guidando il Principe cieco. Sopra di noi Gormon e Avluela si stagliarono nitidamente contro l’ultimo bagliore del giorno; poi salirono in alto, tanto in alto che li persi di vista.

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