I Cacciatori si svegliarono non molto tempo dopo che Arthur e i suoi salvatori erano giunti dall’altra parte del fiume.
«Guarda qui. Le manette sono ancora chiuse. Solide come prima.»
«Già. Hanno usato un incantesimo per farci addormentare e un altro per liberare il ragazzo dai ferri… Non sanno che, una volta sulla pista giusta, noi Cacciatori non molliamo mai la presa?»
Se aveste potuto vederli, vi sareste detti che la fuga di Arthur Stuart li aveva resi felici. Il fatto è che quei ragazzi non chiedevano di meglio che un bell’inseguimento, un’occasione per dimostrare a tutti che liberarsi di un Cacciatore era semplicemente impossibile. E se prima di mettere le mani sul fuggiasco capitava di piazzare una manciata di pallettoni in pancia a qualcuno, be’, non era così che andava il mondo? Il Cacciatore era come un cane sulle tracce di un cervo ferito. Niente poteva fermarlo.
I due seguirono la pista di Arthur Stuart attraverso la foresta finché non sbucarono sulla riva del fiume. Solo in quel momento la loro espressione giuliva lasciò il posto a una sorta di perplessità. Alzarono gli occhi e guardarono di là dal corso d’acqua, in cerca della fiamma vitale di qualcuno che si trovasse in giro a quell’ora di notte, quando ogni persona onesta era al calduccio nel suo letto. Il Cacciatore dai capelli bianchi non era in grado di vedere così lontano, ma il suo compagno disse: «Vedo qualcuno che si muove. E qualcuno che non si muove. Ritroveremo la pista una volta a Hatrack».
Alvin reggeva il vomere fra le mani. Sapeva che avrebbe potuto trasformarlo in oro: in vita sua ne aveva visto una quantità sufficiente da comprenderne il disegno e mostrare ai pezzetti di ferro come avrebbero dovuto disporsi. Però al tempo stesso sapeva che la materia di cui aveva bisogno non era il solito oro. Sarebbe stato troppo morbido, e per di più freddo come una qualsiasi pietra. No, Alvin aveva bisogno di qualcosa di nuovo, non solo di trasformare il ferro in oro come sognavano gli alchimisti, ma di ricavarne un oro vivo, un oro che potesse mantenere la forma e il filo meglio del ferro, meglio dell’acciaio temprato. Un oro vigile, consapevole del mondo che lo circondava… Un vomere capace di riconoscere la terra che avrebbe dovuto solcare.
Un vomere d’oro che sapesse riconoscere un uomo, un vomere di cui un uomo potesse a sua volta avere fiducia, come Po Doggly conosceva Horace Guester e ciascuno dei due si fidava dell’altro. Un vomere che per avanzare non avesse bisogno di buoi, né di zavorra per affondare nel terreno. Un vomere che sapesse distinguere la terra buona da quella cattiva. Un tipo d’oro di cui il mondo non avesse mai visto l’uguale, proprio come non aveva mai visto niente di simile al filo sottilissimo che Alvin aveva gettato fra se stesso e Arthur Stuart.
Perciò Alvin s’inginocchiò, tenendo ben fermo nella propria mente il disegno dell’oro. «Diventa così» sussurrò al ferro.
Allora sentì gli atomi accorrere da ogni parte per unirsi a quelli che si trovavano già nel vomere e insieme a essi formare particelle molto più pesanti di quelle del ferro, allineate in maniera diversa, finché non si conformarono al disegno che Alvin stava loro mostrando nella propria mente.
Tra le mani ora aveva un vomere d’oro. Alvin lo strofinò con la punta delle dita. Oro, sì, giallo e lucente al bagliore della forgia, ma pur sempre morto e freddo. Come avrebbe potuto insegnargli a essere vivo? Non mostrandogli il disegno della propria carne… Non era di quel genere di vita che il vomere aveva bisogno. Si dovevano destare alla vita gli atomi che lo componevano, mostrare loro che cos’erano in confronto a ciò che avrebbero potuto essere. Accendere in essi la fiamma della vita.
La fiamma della vita. Alvin sollevò il vomere d’oro — adesso molto più pesante — e, sebbene il calore del fuoco che si andava abbassando fosse pur sempre quasi insopportabile, lo posò tra i carboni ardenti della forgia.
I due Cacciatori erano di nuovo in sella, e percorrevano tranquillamente la strada verso Hatrack, frugando con la loro seconda vista in ogni casa, baracca o capanna, sollevando davanti a sé il contrassegno per confrontarlo con le fiamme vitali che scorgevano all’interno. Ma non ne trovarono nessuna che corrispondesse. Passando davanti alla fucina si accorsero che all’interno ardeva una fiamma vitale, ma non apparteneva al piccolo mulatto fuggiasco. Doveva essere il giovane apprendista che aveva fabbricato le manette.
«Avrei voglia di ammazzarlo» mormorò il Cacciatore dai capelli neri. «Sono sicuro che è stato lui a gettare l’incantesimo sulle manette…»
«Ne avrai tutto il tempo quando avremo trovato il carboncino» disse il Cacciatore dai capelli bianchi.
Nel vecchio deposito sulla sorgente videro ardere due fiamme vitali, ma nessuna delle due corrispondeva ai frammenti racchiusi nel contrassegno, per cui i Cacciatori proseguirono il loro cammino.
Il fuoco era penetrato profondamente nell’oro, ma questo aveva semplicemente incominciato a fondere. No, così non andava: il vomere aveva bisogno di vita, non della morte del metallo sotto l’azione del fuoco. Alvin tenne ferma nella mente la forma del vomere e la mostrò a ogni particella di metallo; silenziosamente gridò a ogni atomo: «Non è sufficiente che siate allineati nelle piccole forme dell’oro… Dovete mantenere questa forma più grande, senza curarvi del fuoco, senza curarvi di qualsiasi altra forza possa cercare di comprimervi, strapparvi, sciogliervi o danneggiarvi!»
Alvin sentì che l’oro l’aveva udito. Nel vomere percepì un movimento, un movimento che andava in senso contrario al lento defluire dell’oro liquefatto. Ma non era abbastanza forte, non era abbastanza sicuro. Senza pensare, Alvin tese le mani tra le fiamme e le posò sul metallo, mostrandogli la forma dell’aratro, gridandogli in cuor suo: «Così! Diventa così! Questo è ciò che sei!» Ah, il dolore che provava era straziante, tuttavia Alvin sapeva che per le sue mani quello era il posto giusto in cui trovarsi, perché il Creatore è parte di ciò che crea. Gli atomi lo udirono e si ricombinarono in maniere cui Alvin non avrebbe mai pensato, ma il risultato fu che l’oro adesso era in grado di sopportare il calore del fuoco senza sciogliersi, senza perdere la propria forma. Era fatta; l’oro non era vivo, almeno non nel modo in cui Alvin avrebbe voluto, eppure poteva resistere senza fondersi al fuoco della forgia. Quell’oro era diventato qualcosa di più dell’oro. Era oro che sapeva di essere un vomere e voleva restare tale.
Alvin staccò le mani dal vomere e vide che le fiamme ancora gli danzavano sulla pelle, a tratti carbonizzata al punto da staccarsi dall’osso. In silenzio tuffò le mani nel mastello dell’acqua e udì lo sfrigolio del fuoco che si spegneva sulla sua stessa carne. Poi, prima che il dolore lo investisse in tutta la sua violenza, si accinse a guarirsi, spogliandosi della pelle bruciata e facendone crescere di nuova.
Ritto in piedi, indebolito dallo sforzo che il suo corpo doveva sostenere per rigenerare la pelle delle mani, fissava il vomere d’oro tra le fiamme balenanti della forgia. Il vomere se ne stava lì, conosceva la propria forma e non la mutava, però questo non bastava a renderlo vivo. Doveva sapere perché viveva. Doveva sapere quale fosse il suo fine, per poter agire in modo da raggiungerlo. Questo e non altro era creare, capì finalmente Alvin; questo era ciò che Pettirosso gli aveva detto tre anni prima. Creare non aveva niente a che fare col mestiere del fabbro, del falegname o di chiunque altro si sforzasse di tagliare, piegare e fondere le cose per costringerle ad assumere una forma nuova e diversa. Creare era qualcosa di più sottile e potente: era fare in modo che le cose volessero diventare diverse, volessero assumere una nuova forma, così che fossero le cose stesse a trasformarsi sino ad assumere la forma desiderata. In fondo era qualcosa che Alvin faceva da anni senza rendersene conto. Quando credeva di trovare nella roccia fessure invisibili, in realtà era lui stesso a creare quelle fessure; immaginando il punto in cui desiderava che si trovassero e mostrandolo agli atomi all’interno dei frammenti che costituivano i pezzi di roccia, insegnava loro a desiderare la forma che egli stesso aveva loro mostrato.
Ora, con quel vomere, aveva fatto la stessa cosa, non casualmente bensì deliberatamente; aveva insegnato all’oro a diventare qualcosa di più forte, a conservare la propria forma in maniera più tenace di qualsiasi cosa egli avesse creato fino a quel momento. Ma come insegnare all’oro qualcosa di più, insegnargli ad agire, a muoversi in modi finora sconosciuti?
In qualche angolo della mente, tuttavia, sapeva che il vero problema non era il vomere d’oro. Il vero problema era la Città di Cristallo, e i blocchi da costruzione in quel caso non sarebbero stati semplicemente gli atomi di un vomere di metallo. Gli atomi di una città sono gli uomini e le donne che vi abitano, e gli esseri umani non credono alla forma che viene loro mostrata con la semplice fede degli atomi, non la comprendono con tanta immediata chiarezza e, quando agiscono, le loro azioni non sono altrettanto pure. Ma se riesco a insegnare a quest’oro a essere un vomere vivo, pensò Alvin, allora forse posso creare una Città di Cristallo fatta di uomini e donne; forse posso trovare esseri umani puri come gli atomi d’oro, capaci di comprendere la forma della Città di Cristallo e di amarla come l’ho amata io quando l’ho vista salendo all’interno della tromba d’aria insieme a Tenska-Tawa. Allora non solo manterranno la forma, ma la faranno anche agire, trasformeranno la Città di Cristallo in una creatura vivente molto più grande e potente di ciascuno di noi che ne saremo gli atomi.
Il Creatore è colui che è parte di ciò che crea.
Alvin corse al mantice e ravvivò il fuoco finché il letto di carboni non fu talmente caldo che qualsiasi altro fabbro sarebbe corso all’aperto in attesa che il fuoco si abbassasse. Ma Alvin no. Si avvicinò alla forgia e con un rapido movimento si gettò in mezzo alle fiamme. Sentì che i vestiti prendevano fuoco cadendogli di dosso, eppure non vi prestò alcuna attenzione. Si rannicchiò sul vomere e poi cominciò a guarirsi, non un pezzo alla volta, non un poco alla volta, ma dicendo al suo corpo, tutto insieme: «Resta vivo! Fai entrare nel vomere il fuoco che ti sta bruciando!»
E nello stesso tempo disse al vomere: «Fa’ come il mio corpo! Vivi! Impara da ogni frammento della mia carne viva che ogni parte ha uno scopo, e vive per realizzarlo! Non posso mostrarti la forma che devi assumere, o come fare ad assumerla, perché non la conosco. Ma posso mostrarti che cosa significa essere vivi, con il dolore che strazia il mio corpo, con il modo in cui esso cura se stesso, con lo sforzo accanito di restare in vita. Sii così! Qualunque sacrificio questo ti richieda, per quanto duro ti sia imparare, questo sei tu, sii come me!»
Scosso da un tremito convulso sul letto di carboni ardenti, ad Alvin parve che trascorresse un tempo lunghissimo, mentre il suo corpo lottava con il calore, trovando il modo d’incanalarlo come le rive di un fiume ne incanalano l’acqua, riversandolo nell’aratro come in un oceano d’oro infuocato. E, all’interno del vomere, gli atomi lottavano per fare ciò che Alvin chiedeva, volevano obbedirgli ma non sapevano come. Il suo richiamo tuttavia era potente, troppo potente per non essere ascoltato; e gli atomi non si limitarono a udirlo. Era come se comprendessero che ciò che egli voleva da loro era un bene. Gli atomi si fidavano di lui, desideravano diventare il vomere vivente che egli aveva sognato, e così in un milione d’istanti così brevi che in confronto un secondo pareva un’eternità, tentarono questo, tentarono quello, finché da qualche parte all’interno del vomere d’oro si creò un nuovo disegno che seppe di essere vivo esattamente come Alvin voleva; e in un unico istante quel disegno si diffuse in tutto il vomere, e il vomere prese vita.
Vita. Alvin lo sentì muoversi all’interno della curva del suo corpo mentre il vomere s’insinuava nei carboni del fuoco cercando di fenderli e solcarli come il suolo di un campo. E poiché era suolo sterile, un suolo da cui non sarebbe potuta nascere nessuna forma di vita, l’aratro subito ne uscì, scivolando verso l’esterno, allontanandosi verso il bordo della forgia. Si mosse perché aveva deciso di essere altrove, e subito aveva messo in atto la propria decisione; quando raggiunse il bordo della forgia, si ribaltò cadendo sul pavimento della fucina.
Straziato dal dolore, Alvin rotolò fuori dal fuoco cadendo a sua volta, e anch’egli giacque premendo il viso sulla fresca terra battuta del pavimento. Ora che il fuoco non lo circondava più, il suo corpo riuscì ad avvantaggiarsi sulla morte della pelle, curandosi come Alvin gli aveva insegnato a fare, senza che egli avesse bisogno di spiegargli che cosa fare, senza istruzioni di sorta. Diventa te stesso, così Alvin gli aveva ordinato, e la sigla racchiusa in ogni frammento vivente obbedì al disegno in essa contenuto, finché il suo corpo non fu nuovamente integro e perfetto, senza la minima traccia di bruciature o di callosità.
Ciò che Alvin non poté cancellare fu il ricordo della sofferenza, o la debolezza per tutta l’energia che il suo corpo aveva profuso. Ma non se ne curò. Debole com’era, in cuor suo era felice, perché il vomere che giaceva accanto a lui sul pavimento di terra battuta era fatto d’oro vivente, non perché egli l’avesse creato così, ma perché gli aveva insegnato a crearsi da solo.
I Cacciatori perlustrarono la città in lungo e in largo ma non trovarono nulla… Eppure il Cacciatore dai capelli neri non aveva visto scappare nessuno, nemmeno frugando i dintorni della città fino alla massima distanza che un uomo o un cavallo avrebbero potuto percorrere da quando il ragazzo era stato sottratto alla loro custodia. Il piccolo mulatto doveva per forza essere nascosto da qualche parte… Un evento impossibile, eppure non c’era altra spiegazione.
Molto probabilmente si nascondeva negli stessi luoghi in cui aveva vissuto per tutti quegli anni. La locanda, il vecchio deposito, la fucina: tutti luoghi in cui si scorgeva gente sveglia a un’ora del tutto inconsueta. I Cacciatori giunsero fino a breve distanza dalla locanda, quindi legarono i cavalli sul ciglio della strada. Caricati fucili e pistole, proseguirono a piedi. Giunti di fronte alla locanda, la frugarono di nuovo con la loro seconda vista, esaminando tutte le fiamme vitali che conteneva; nessuna di esse corrispondeva al contrassegno.
«La casetta della maestra» disse il Cacciatore dai capelli bianchi. «È lì che l’abbiamo trovato la prima volta.»
Il Cacciatore dai capelli neri rivolse lo sguardo in direzione del pendio. Naturalmente non poteva vedere il vecchio deposito, nascosto dagli alberi, ma ciò che cercava l’avrebbe visto comunque, alberi o non alberi. «Lassù ci sono due persone» disse.
«Allora una potrebbe essere il mulatto» azzardò il Cacciatore dai capelli bianchi.
«Il contrassegno dice di no.» Poi il Cacciatore dai capelli neri sorrise beffardamente. «Una maestra senza marito che vive da sola e riceve un ospite a quest’ora di notte? Lo so io di che compagnia si tratta, e sta’ sicuro che non è un ragazzino.»
«Andiamo a vedere comunque» lo incitò il Cacciatore dai capelli bianchi. «Se hai ragione, dopo che le avremo sfondato la porta non si sognerà nemmeno di reclamare. Non vorrà certo che qualcuno vada a raccontare in giro che cosa stava facendo.»
A quell’idea si fecero una bella risata, dirigendosi al chiar di luna verso la casa della signorina Larner. La loro intenzione, si capisce, era di aprire la porta con un calcio e sbellicarsi dal ridere quando la maestra si sarebbe incollerita e avrebbe cominciato a minacciarli.
La cosa buffa fu che, quando giunsero nei pressi della casetta, quel piano svanì dai loro pensieri come se non fosse mai esistito. Se l’erano completamente dimenticato. I due Cacciatori si limitarono a osservare le fiamme vitali all’interno del vecchio deposito e a confrontarle con il contrassegno.
«Che diavolo stiamo facendo quassù?» chiese il Cacciatore dai capelli bianchi. «Il ragazzo dev’essere per forza alla locanda. Qui non è di sicuro!»
«Lo sai che penso?» disse il Cacciatore dai capelli neri. «Forse l’hanno ammazzato.»
«Sarebbe pura follia. Perché salvarlo, allora?»
«Hai un’altra idea?»
«È alla locanda. Scommetto che quelli là hanno un talismano che non ci permette di vederlo. Ma quando apriremo la porta giusta, lo vedremo in faccia; e allora non ci saranno più talismani che tengano.»
Per un attimo il Cacciatore dai capelli neri pensò… Be’, se possono esistere talismani del genere, perché non guardare anche in casa della maestra? Perché non aprire questa porta?
Ma un istante dopo quel pensiero gli sfuggì di mente e lui lo dimenticò. Nemmeno si rese conto di avere pensato qualcosa. Si limitò a mettersi in cammino di buon passo seguendo il Cacciatore dai capelli bianchi. Il carboncino dev’essere per forza alla locanda, non ci sono altre spiegazioni.
Peggy vide le fiamme vitali dei Cacciatori avvicinarsi al vecchio deposito, ma non ebbe paura. Aveva trascorso tutto quel tempo a esplorare la fiamma vitale di Arthur Stuart, e non vi aveva trovato alcun sentiero in cui egli venisse catturato da quei due. Peggy sapeva che nel futuro di Arthur non mancavano i pericoli, ma quella notte sicuramente nessuno gli avrebbe fatto del male. Perciò non prestò loro particolare attenzione. Seppe quando decisero di andarsene; seppe quando il Cacciatore dai capelli neri pensò di aprire ugualmente quella porta; seppe quando i talismani lo fermarono, ricacciandolo via. Ma nel frattempo continuava a osservare Arthur Stuart, scandagliando i possibili futuri che lo attendevano.
Poi, a un tratto, non poté più mentire a se stessa. Doveva dirlo ad Alvin, doveva raccontargli quel che era successo, nel bene e nel male. Ma come? Come spiegargli che la signorina Larner in realtà era una fiaccola che nella fiamma vitale di Arthur Stuart aveva appena visto sbocciare un milione di possibili futuri? Tenersi tutto dentro, però, era impossibile. Anni prima avrebbe potuto dirlo a Modesty, quando ancora viveva con lei e tra loro non vi era alcun segreto.
Sarebbe stata pura follia scendere alla fucina, ben sapendo che a muoverla era il desiderio di rivelare ad Alvin cose che non avrebbe potuto dirgli senza tradire la propria vera identità. Eppure restare confinata tra quelle quattro pareti, sola con una conoscenza che non poteva spartire con nessuno, l’avrebbe sicuramente fatta impazzire.
Perciò Peggy si alzò, aprì la porta e mosse un passo oltre la soglia. Intorno al vecchio deposito non si scorgeva anima viva. Allora chiuse la porta a chiave; poi scrutò nuovamente nella fiamma vitale di Arthur e vide che nell’immediato il ragazzo non correva alcun pericolo. Sarebbe stato al sicuro. E Peggy avrebbe visto Alvin.
Solo in quel momento guardò nella fiamma vitale di Alvin; solo in quel momento vide la terribile sofferenza che egli aveva patito pochi istanti prima. Perché non se n’era accorta? Perché non l’aveva visto? Alvin aveva appena attraversato la soglia più importante della sua vita; aveva compiuto per la prima volta un vero atto di Creazione, aveva dato alla luce qualcosa di nuovo; e lei non l’aveva visto. Quando Alvin aveva affrontato il Distruttore e lei si trovava nella lontana Dekane, aveva assistito alla sua lotta… E ora, che egli si trovava a non più di tre pertiche di distanza, perché non aveva guardato? Perché non aveva condiviso la sua sofferenza mentre egli si contorceva tra le fiamme della forgia?
Forse era colpa del vecchio deposito. Una volta, quasi diciannove anni prima, il giorno in cui Alvin era venuto al mondo, il deposito sulla sorgente aveva intorpidito il suo dono, cullando il suo sonno finché non era stato quasi troppo tardi. Ma no, era impossibile… L’acqua non attraversava più il pavimento del deposito, e il fuoco della fucina sarebbe stato comunque più potente.
Forse era stato il Distruttore, venuto a fermarla. Eppure, rivolgendo intorno a sé il proprio sguardo da fiaccola, Peggy non riuscì a scorgere tra i colori del mondo che la circondava una sola ombra insolita, per lo meno non nelle vicinanze. Niente che avesse potuto accecarla.
No, ad accecarla doveva essere stata la natura stessa di ciò che Alvin aveva fatto. Proprio com’era accaduto anni prima, quando Peggy non era riuscita a vedere in che modo era uscito sano e salvo dal confronto col Distruttore, o quella notte stessa quando non lo aveva visto trasformare il piccolo Arthur sulla riva dell’Hio, così non le era stato dato di vedere ciò che lui aveva fatto nella fucina. La creazione che egli aveva compiuto quella notte andava oltre i futuri che il dono di Peggy era in grado di scorgere.
Sarebbe stato sempre così? Sarebbe rimasta sempre accecata quando Alvin vinceva le sue battaglie più importanti? Peggy provò rabbia e paura insieme: a che serve il mio dono, si disse, se mi abbandona proprio quando ne avrei più bisogno?
No. Stavolta non mi sarebbe servito a nulla. Quando Alvin si è gettato tra le fiamme non aveva alcun bisogno di me o della mia seconda vista. Il mio dono non mi ha mai abbandonato quando ne avevo veramente bisogno. In questo caso, è soltanto il mio desiderio a essere rimasto irrealizzato.
Bene. Ora però Alvin ha bisogno di me, pensò Peggy. S’incamminò badando bene a dove metteva i piedi; la luna era bassa sull’orizzonte, le ombre fitte, il sentiero in discesa traditore. Quando svoltò l’angolo della fucina, la luce della forgia che si riversava sull’erba era quasi accecante, di un rosso così violento che l’erba non appariva più verde bensì di un nero lucente.
All’interno della fucina, Alvin giaceva rannicchiato sul pavimento di terra battuta col viso rivolto alla forgia. Il suo respiro era rapido, affannoso. Dormiva? No. Era nudo; a Peggy bastò un istante per rendersi conto che il calore della forgia doveva avergli bruciato i vestiti. Straziato dal dolore com’era, Alvin non se n’era accorto, e adesso non ne serbava alcun ricordo; per questo Peggy non l’aveva visto accadere quando aveva frugato la sua fiamma vitale in cerca di ricordi.
La sua pelle era straordinariamente liscia e pallida. Qualche ora prima, Peggy l’aveva vista abbronzata dal sole e dal calore della forgia. Qualche ora prima, egli aveva avuto mani callose e segnate dalle cicatrici d’innumerevoli piccole scottature, i normali incidenti di chi lavora vicino al fuoco. Ora invece la sua pelle era liscia e intatta come quella di un bambino. Peggy non riuscì a trattenersi; varcò la soglia della fucina, s’inginocchiò accanto a lui, e gli fece scorrere delicatamente la mano sulla schiena, dalla spalla al punto in cui il torace si restringeva sopra le anche. La pelle di Alvin era così morbida da darle l’impressione che le mani le si fossero improvvisamente irruvidite, e che il semplice atto di toccarlo potesse in qualche modo deturparlo.
Alvin trasse un profondo sospiro. Quasi un gemito. Peggy ritirò la mano.
«Alvin» disse. «Stai bene?»
Alvin mosse il braccio; stringeva a sé qualcosa e lo carezzava. Solo in quel momento Peggy lo vide: un riflesso giallo nell’ombra doppiamente fitta del corpo di Alvin e della forgia. Un vomere d’oro.
«È vivo» mormorò Alvin.
Quasi in risposta, Peggy scorse il vomere muoversi fluidamente sotto la mano di Alvin.
Naturalmente non bussarono. A quell’ora di notte? Chi si trovava all’interno avrebbe capito immediatamente che non si trattava di un ospite ritardatario… Potevano essere solo i Cacciatori. Bussare alla porta avrebbe messo immediatamente sull’avviso gli abitanti della locanda, favorendo eventuali tentativi di fuga insieme al ragazzo.
Ma il Cacciatore dai capelli neri non provò nemmeno a sollevare il paletto. Sferrò una violenta pedata e la porta rovinò verso l’interno, portandosi dietro il cardine più alto. Poi, col fucile imbracciato, varcò d’un balzo la soglia perlustrando con lo sguardo la sala comune. Alla fioca luce del fuoco che si andava spegnendo, i due videro che non c’era nessuno.
«Io tengo d’occhio le scale» disse il Cacciatore dai capelli bianchi. «Tu vai a controllare la porta sul retro per vedere se qualcuno cerca di svignarsela da quella parte.»
Il Cacciatore dai capelli neri avanzò in fretta passando davanti alle scale e alla porta di cucina. Giunto all’ultima porta la spalancò. Prima che il battente si richiudesse, il Cacciatore dai capelli bianchi era già arrivato a metà delle scale.
La vecchia Peg uscì carponi da sotto il tavolo di cucina. Nessuno dei due aveva degnato della minima attenzione quella porta. Lei non sapeva di chi si trattasse, naturalmente, ma sperava, sperava che fossero i Cacciatori, tornati indietro di soppiatto perché in qualche modo, per qualche miracolo, Arthur Stuart era riuscito a scappare e loro non riuscivano più a trovarlo. La vecchia Peg si tolse le scarpe e dalla cucina avanzò cautamente sul pavimento della sala comune, verso il caminetto sopra cui Horace teneva appeso un fucile carico. Si alzò in punta di piedi e lo staccò, ma così facendo rovesciò una teiera di latta che, nel corso della serata, qualcuno aveva lasciato a scaldare davanti al fuoco. La teiera rotolò rumorosamente; l’acqua bollente le schizzò sui piedi nudi; la vecchia Peg si lasciò sfuggire un grido soffocato.
Immediatamente udì un rumore di passi sui gradini di legno. Ignorando il dolore, corse ai piedi delle scale, appena in tempo per veder scendere il Cacciatore dai capelli bianchi. L’uomo aveva un fucile puntato verso di lei. Anche se non aveva mai sparato a un essere umano in vita sua, la vecchia Peg non esitò un solo istante. Tirò il grilletto; il fucile le rinculò violentemente contro la pancia, mozzandole il fiato e sbattendola contro il muro accanto alla porta di cucina. Ma lei quasi non se ne accorse. Vide soltanto che il Cacciatore dai capelli bianchi era rimasto immobile, col viso che improvvisamente gli si rilassava fino ad assumere l’espressione stolida del muso di una mucca. Poi sulla camicia gli fiorì una grande macchia rossa, e l’uomo si abbatté all’indietro.
Hai finito di rubare bambini alle loro mamme, pensò la vecchia Peg. Hai finito di trascinare quei poveri Neri verso una vita di fatiche e di frustate. Ti ho ammazzato, Cacciatore, e spero che il Signore se ne rallegri. Ma anche se per questo dovessi andare all’inferno, sono contenta lo stesso.
Era così assorbita a guardarlo da non accorgersi che la porta posteriore era aperta, mantenuta in quella posizione dalla canna del fucile del Cacciatore dai capelli neri, puntata verso di lei.
Alvin era così intento a raccontare a Peggy quello che aveva fatto che non si era nemmeno accorto di essere nudo. Peggy allora staccò il grembiule di cuoio appeso a un piolo, ed egli se lo mise per pura forza dell’abitudine, senza nemmeno pensarci. Peggy udiva a malapena le sue parole; tutto ciò che Alvin le diceva lei lo sapeva già, per aver guardato nella sua fiamma vitale. Intanto lo guardava e pensava: ora è un Creatore, in parte grazie a ciò che io stessa gli ho insegnato. Forse il mio compito è finito, forse adesso la mia vita apparterrà soltanto a me… Oppure no, forse questo è solo un inizio, forse adesso posso trattarlo come un uomo, non come un allievo o un pupillo. Alvin sembrava ardere di un fuoco interiore; a ogni passo che faceva, si muoveva anche il vomere d’oro, che tuttavia non si limitava a seguirlo o a metterglisi tra i piedi, ma scivolava su un percorso simile a un’orbita, non tanto vicino da infastidirlo però abbastanza da poter rispondere al suo comando; come una parte del suo stesso corpo, anche se distinta e separata da lui.
«Lo so» disse Peggy. «Capisco. Adesso sei davvero un Creatore.»
«Non solo!» esclamò lui. «È la Città di Cristallo! Ora so come costruirla, signorina Larner. Capite, la città non è composta dalle torri di cristallo che ho visto quella volta, bensì dalla gente che vi abita e, se voglio costruirla, devo trovare le persone adatte, persone sincere e fedeli come questo vomere, persone capaci di condividere il mio sogno al punto da aiutarmi a realizzarlo, per poi proseguire la mia opera anche quando non ci sarò più. Capite, signorina Larner? La Città di Cristallo non è qualcosa che possa essere costruita da un solo Creatore. È una città di Creatori; io debbo cercare persone di ogni tipo, e in qualche modo ricavarne dei Creatori.»
Mentre Alvin parlava, Peggy capì che quello era davvero il compito che lo attendeva fin dalla nascita… ma anche la fatica che gli avrebbe schiantato il cuore. «Sì» disse. «È vero, lo so.» E suo malgrado non riuscì a dirlo come avrebbe potuto fare la signorina Larner, in tono calmo, freddo e distaccato. Lo disse con la propria voce, esprimendo i propri veri sentimenti. Dentro di sé sentiva ardere il fuoco che Alvin vi aveva appiccato.
«Venite con me, signorina Larner» disse Alvin. «Voi sapete tante cose, e siete una maestra straordinaria: ho bisogno del vostro aiuto.»
No, Alvin, non queste parole si disse Peggy. Sì, verrei con te anche solo per questo, ma da te voglio altre parole, quelle che ho tanto bisogno di udire. «Come potrei insegnare ciò che solo tu sai fare?» gli chiese, ostentando una tranquillità che non provava.
«Ma non sarebbe solo per insegnare… Il fatto è che non posso farlo da solo. Quello che ho realizzato stanotte è così difficile, e io ho bisogno che restiate al mio fianco.» Fece un passo nella sua direzione. Il vomere d’oro scivolò sul pavimento verso di lei, dietro di lei; se esso indicava il confine esterno dell’alone che pareva circondare Alvin, Peggy adesso si trovava all’interno di quel cerchio ampio e accogliente.
«E perché hai bisogno di me?» chiese Peggy. Si rifiutò di guardare nella fiamma vitale di Alvin, si rifiutò di vedere se ci fosse qualche possibilità che lui veramente… No, si rifiutò perfino di nominare ciò che avrebbe desiderato, per paura di scoprire che era impossibile, che non sarebbe mai potuto accadere, che per qualche motivo quella notte tutti i sentieri che conducevano in quella direzione si erano irrevocabilmente interrotti. E in quel momento si rese conto che anche per questo era rimasta così assorbita nell’esplorazione dei nuovi futuri di Arthur Stuart; il piccolo mulatto sarebbe stato così vicino ad Alvin che, attraverso gli occhi di Arthur, lei aveva potuto scorgere gran parte dello straordinario e terribile futuro di Alvin, senza bisogno di sapere ciò che avrebbe scoperto guardando nella fiamma vitale dello stesso Alvin: perché la fiamma vitale di Alvin le avrebbe rivelato se e quando, nei suoi molti futuri, ve n’era qualcuno in cui egli l’amava, e la sposava, e offriva quel corpo amato alle braccia di Peggy per dare e ricevere quel dono che solo gli amanti possono scambiarsi.
«Venite con me» la pregò Alvin. «Non riesco nemmeno a immaginare questo viaggio senza di voi, signorina Larner. Io…» Rise di sé. «Non so nemmeno il vostro nome di battesimo, signorina Larner.»
«Margaret» disse lei.
«Posso chiamarvi così? Margaret… Volete venire con me? So che non siete quella che sembrate, ma non m’importa nulla di come siete veramente sotto tutti quei talismani. So soltanto che siete l’unica creatura al mondo che mi conosce per quello che sono, e io…»
Alvin s’interruppe, cercando le parole. E lei restò in attesa, desiderando che egli le pronunciasse.
«Io ti amo» disse Alvin. «Anche se pensi che io sia soltanto un ragazzo.»
Forse Peggy gli avrebbe risposto. Forse gli avrebbe detto di sapere che egli era un uomo, e che lei era l’unica donna che avrebbe saputo amarlo senza adorarlo, l’unica donna che avrebbe potuto veramente stare al suo fianco. Ma, nel silenzio che seguì alle parole di Alvin e prima che Peggy potesse rispondere, si udì echeggiare uno sparo.
Subito Peggy pensò ad Arthur Stuart, ma le ci volle solo un istante per vedere che la sua fiamma vitale era indisturbata; il piccolo mulatto dormiva profondamente nel vecchio deposito. No, quello sparo veniva da più lontano. Peggy inviò la sua vista da fiaccola verso la locanda, e qui trovò la fiamma vitale di un uomo che stava per morire, e quell’uomo guardava una donna che lo guardava a sua volta dai piedi delle scale. Quella donna era sua madre, con un fucile fra le mani.
La fiamma vitale dell’uomo vacillò e si spense. Subito Peggy guardò nella fiamma vitale di sua madre e vide, al di là dei pensieri, delle sensazioni e dei ricordi, un milione di sentieri futuri che si sgretolavano trasformandosi sotto i sui occhi in un unico sentiero, che conduceva verso un unico luogo. Un lampo abbacinante di dolore, e poi più nulla.
«Mamma!» gridò Peggy. «Mamma!»
E poi il futuro si fece presente; la fiamma vitale della vecchia Peggy si era già spenta prima che l’eco del secondo sparo giungesse alla fucina.
Alvin quasi non riusciva a credere a ciò che stava dicendo alla signorina Larner. Fino a quel momento, finché non gliel’aveva detto, non aveva capito quali fossero i suoi veri sentimenti verso di lei. Aveva tanta paura che lei si mettesse a ridere, paura di sentirsi dire che era troppo giovane, che col tempo gli sarebbe passata.
Ma, invece di rispondergli, la signorina Larner tacque per un istante, e proprio in quell’istante si sentì echeggiare uno sparo. Alvin capì immediatamente che veniva dalla locanda; lo seguì con la sua pulce e scoprì da dove veniva, da un uomo già morto oltre ogni possibilità di guarigione. E poi un istante dopo un altro sparo, e qualcun altro che stava morendo, una donna. Alvin conosceva quel corpo di dentro e di fuori; non era quello di un’estranea. Doveva essere la vecchia Peg.
«Mamma!» esclamò la signorina Larner. «Mamma!»
«È la vecchia Peg Guester!» gridò Alvin.
Vide la signorina Larner aprirsi il collo del vestito, infilarvi dentro una mano, tirarne fuori gli amuleti e strapparseli dal collo, tagliandosi malamente con i lacci ai quali erano appesi. Alvin riuscì a stento a capacitarsi di ciò che vide… Una ragazza poco più vecchia di lui, e bella, anche se in quel momento il suo viso era contorto dallo sgomento e dal terrore.
«È mia madre!» gridò. «Salvala, Alvin!»
Alvin non esitò un istante. Si slanciò fuori dalla fucina, correndo a piedi scalzi sull’erba, sulla strada, senza curarsi delle pietre che gli ferivano la pelle morbida dei piedi. Il grembiule di pelle gli si avvolgeva intorno alle ginocchia, rischiando di farlo inciampare; Alvin lo rimboccò sotto la stringa, di lato, in modo che non gli desse fastidio. Con la sua pulce vide che la vecchia Peg era ormai oltre ogni possibilità di salvezza, ma continuò a correre, perché doveva tentare, pur sapendo bene che era un tentativo senza speranza. E poi la vecchia Peg morì, ma lui continuò a correre, perché non riusciva a sopportare di non precipitarsi nel luogo in cui quella brava donna, quella buona amica, giaceva priva di vita.
Buona amica di Alvin e madre della signorina Larner. L’unica spiegazione possibile era che la signorina Larner fosse allo stesso tempo la piccola fiaccola scappata sette anni prima. Ma se era davvero una fiaccola potente come diceva la gente, perché non aveva previsto ciò che stava per accadere? Perché non aveva guardato nella fiamma vitale di sua madre e non aveva capito che era in pericolo di vita? Era inspiegabile.
Di fronte a sé, sulla strada, vide un uomo. Un uomo che dalla locanda correva verso alcuni cavalli legati agli alberi sul ciglio della strada. Era l’uomo che aveva ammazzato la vecchia Peg, Alvin se ne accorse subito, e tanto gli bastò. Accelerò il passo, correndo più velocemente di quanto avesse mai corso senza attingere forza dal verde canto della foresta. Quando fu a una trentina di braccia dall’uomo, questo lo udì arrivare e si voltò.
«Tu, fabbro!» esclamò il Cacciatore dai capelli neri. «Ben felice di ammazzare anche te!»
In mano aveva una pistola; sparò.
Alvin prese la pallottola nel ventre, tuttavia non se ne curò. Il suo corpo si mise immediatamente all’opera per ricostruire ciò che la pallottola aveva lacerato, ma anche se la ferita fosse stata mortale Alvin non vi avrebbe dato peso alcuno. Non rallentò il passo; si gettò sull’uomo, facendolo rovinare a terra, atterrandogli addosso e scivolando insieme a lui per una decina di piedi sulla polvere della strada. L’uomo lanciò un grido di paura e di dolore. Quel grido fu l’ultimo suono che emise; trascinato dalla propria furia selvaggia, Alvin strinse la testa dell’uomo con tanta forza che gli bastò una rapida spinta dell’altra mano contro il mento per spezzargli di netto l’osso del collo. L’uomo era già morto, eppure Alvin continuò a sferrargli pugni sul viso finché le sue braccia, il torace e il grembiule di pelle non furono completamente imbrattati di sangue e il cranio dell’uomo non fu ridotto in frantumi come una vecchia pentola di coccio.
Poi Alvin si mise in ginocchio a testa bassa, istupidito da quel dispendio di furia e di energie. Dopo qualche istante, si rese conto che la vecchia Peg giaceva ancora sul pavimento della locanda. Alvin sapeva bene che era già morta, ma che cos’altro gli restava da fare? Si tirò lentamente in piedi.
Udì un rumore di zoccoli sulla strada dalla parte della città. A quell’ora di notte a Hatrack degli spari potevano significare solo guai. Sarebbe arrivata gente. Avrebbero trovato il cadavere sulla strada e sarebbero andati alla locanda. Non c’era bisogno che Alvin restasse lì a salutarli.
All’interno della locanda, Peggy era già in ginocchio davanti al corpo di sua madre, singhiozzando e ansimando per la corsa. Alvin poté riconoscerla soltanto dal vestito: l’aveva vista in viso solo una volta e per un istante, su alla fucina. Quando Alvin varcò la soglia, Peggy si voltò. «Dov’eri? Perché non l’hai salvata? Avresti potuto salvarla!»
«Non ci sarei riuscito comunque» disse Alvin. Era un’accusa ingiusta. «Non c’era più tempo.»
«Avresti dovuto guardare! Avresti dovuto capire che cosa stava per accadere!»
Alvin non capiva. «Io non so prevedere il futuro» disse. «Questo è il tuo dono.»
Allora lei scoppiò a piangere, non con gli asciutti singhiozzi di quando Alvin era entrato, ma con profondi, strazianti ululati di dolore. Alvin non sapeva che fare.
Alle sue spalle si aprì una porta.
«Peggy» sussurrò Horace Guester. «Piccola Peggy.»
Peggy alzò lo sguardo sul padre, col viso rigato di lacrime e così contorto e arrossato dal pianto che non si capiva come egli avesse potuto riconoscerla. «Sono stata io!» esclamò. «Non avrei mai dovuto andarmene, papà! Sono stata io a ucciderla!»
Solo allora Horace capì che quello disteso sul pavimento era il corpo di sua moglie. Sotto lo sguardo attonito di Alvin, cominciò a tremare, a gemere, quindi a lanciare grida alte e acute come un cane ferito. Alvin non aveva mai visto tanta sofferenza. Anche mio padre ha gridato in questo modo per la morte di mio fratello Vigor? Anche lui ha pianto così quando ha creduto che Measure e io fossimo stati torturati a morte dai Rossi?
Alvin tese le mani verso Horace, lo afferrò saldamente per le braccia, poi lo guidò verso Peggy, aiutandolo a inginocchiarsi accanto alla figlia, entrambi in lacrime, nessuno dei due in apparenza consapevole della presenza dell’altro. In quel momento entrambi vedevano soltanto il corpo della vecchia Peg disteso scompostamente sul pavimento; Alvin non riuscì nemmeno a immaginare con quale profondità, con quale straziante sofferenza ciascuno dei due si attribuisse l’intera colpa della sua morte.
Poco dopo entrò lo sceriffo. Aveva già trovato il cadavere del Cacciatore dai capelli neri, fuori sulla strada, e non gli era stato necessario molto tempo per capire esattamente che cosa fosse accaduto. Prese Alvin da parte. «È un caso lampante di autodifesa, se mai ne ho visto uno» disse Pauley Wiseman «e per una cosa del genere non mi sognerei di farti passare in prigione neanche tre secondi. Ma devo avvisarti che negli Appalachi la legge non prende tanto alla leggera la morte di un Cacciatore, e il trattato consente loro di venire a prenderti per metterti sotto processo. Quello che voglio dire, ragazzo, è che faresti meglio a far fagotto nel giro di un paio di giorni, o non potrei garantire per la tua sicurezza.»
«Me ne sarei andato comunque» ribatté Alvin.
«Non so come hai fatto» disse Pauley Wiseman «ma scommetto che stanotte hai portato via ai Cacciatori il piccolo mulatto e ora lo nascondi da qualche parte. Te lo dico chiaramente, Alvin, quando te ne vai faresti bene a portare il ragazzo con te. Portalo in Canada. Bada che se rivedo la sua faccia da queste parti, sarò io stesso a rispedirlo al Sud. È stato lui la causa di tutto… Mi viene la nausea a pensare che una brava donna bianca sia morta per colpa di un piccolo mulatto.»
«Sarà meglio che non ripetiate più una cosa del genere di fronte a me, Pauley Wiseman.»
Lo sceriffo si limitò a scrollare la testa, allontanandosi. «Non è naturale» disse. «Perdere la testa per uno scimmiotto come se fosse un essere umano.» Si voltò di nuovo verso Alvin. «Non m’importa che cosa pensi di me, Alvin Smith, ma sto offrendo a te e a quel mulatto una possibilità di restare vivi. Spero che tu abbia il cervello per sfruttarla. E, nel frattempo, faresti bene a ripulirti dal sangue e a trovare qualcosa da metterti addosso.»
Alvin tornò a passo lento sulla strada. Stava arrivando altra gente… però lui non vi fece caso. Solo Mock Berry parve capire che cosa stava accadendo. Condusse Alvin a casa sua: Anga lo lavò da capo a piedi e Mock gli prestò una camicia e un paio di pantaloni. Quando Alvin fece ritorno alla fucina, il cielo a est cominciava a impallidire.
Makepeace era seduto su uno sgabello all’ingresso della fucina, e guardava il vomere d’oro posato sul pavimento davanti alla forgia, nello stesso punto in cui Alvin l’aveva lasciato.
«Non c’è male come saggio finale» commentò.
«Credo di sì» disse Alvin. Si avvicinò al vomere e si chinò a prenderlo. Il vomere balzò letteralmente nelle mani di Alvin — ora non era più così pesante -, comunque, anche se Makepeace aveva notato che si era mosso da solo prima che Alvin lo toccasse, si astenne dal fare commenti.
«Ho un bel po’ di rottami di ferro, là dietro» riprese Makepeace. «Non ti chiedo nemmeno di fare a metà. Basta che me ne lasci una piccola parte, quando li trasformerai in oro.»
«Non trasformerò in oro più niente» disse Alvin.
Makepeace andò su tutte le furie. «Ma questo è oro, idiota che non sei altro! Un vomere così vorrebbe dire non patir più la fame, non dover più lavorare, vivere in una bella casa e non in quella catapecchia! Vorrebbe dire qualche vestito nuovo per Gertie e magari un abito completo per me! Vorrebbe dire che incontrandomi in città la gente mi direbbe ‘buon giorno’ e si toglierebbe il cappello come si fa tra gentiluomini. Vorrebbe dire viaggiare in carrozza come il dottor Physicker, e andare a Dekane o a Carthage o in qualsiasi altro posto senza preoccuparmi della spesa. E tu vieni a raccontarmi che non trasformerai più nulla in oro?»
Alvin sapeva che qualsiasi spiegazione non sarebbe servita a nulla, ma ci provò ugualmente. «Questo non è oro normale, signore. Questo vomere è vivo… Non permetterei a nessuno di fonderlo per trasformarlo in monete. Senza contare che, per quanto ne so, nessuno riuscirebbe a fonderlo neanche volendo. Perciò toglietevi di mezzo e lasciatemi andare.»
«E che te ne farai. Lo userai per arare i campi? Maledetto idiota, insieme potremmo essere i re del mondo!» Ma quando Alvin lo spinse da parte per uscire dalla fucina, Makepeace smise d’implorarlo e passò alle minacce. «Per fare quel vomere d’oro hai usato il mio ferro! Quell’oro appartiene a me! Il saggio finale resta sempre di proprietà del maestro, a meno che non sia lui stesso a donarlo all’apprendista, e io me ne guardo bene! Ladro! Mi stai derubando!»
«Siete stato voi a rubarmi cinque anni di vita, quando sarei già stato pronto da un pezzo a mettermi in strada» ribatté Alvin. «E questo vomere… Be’, a fabbricarlo non ho imparato certo da voi. Questo vomere è vivo, Makepeace Smith. Non appartiene a voi, e non appartiene a me. Appartiene solo a se stesso. Perciò deponiamolo qui, in mezzo a noi, e vediamo chi se lo prenderà.»
Alvin posò il vomere sull’erba davanti a sé. Poi indietreggiò di qualche passo. Makepeace avanzò di un passo verso il vomere. Questo penetrò nel terreno sotto l’erba, quindi cominciò a fendere il suolo dirigendosi verso Alvin e fermandosi ai suoi piedi. Quando Alvin lo raccolse, sentì che era caldo. Capì subito che cosa volesse dire. «Terra buona» disse Alvin. Il vomere gli tremò fra le mani.
Makepeace era come pietrificato, con gli occhi fuori dalle orbite per la paura. «Mio Dio, ragazzo, quel vomere si è mosso!»
«Lo so» disse Alvin.
«Ma chi sei, ragazzo? Il demonio?»
«Non credo» sorrise Alvin. «Anche se può darsi che l’abbia incontrato un paio di volte.»
«Vattene di qui! Prenditi quella cosa e vattene! Non voglio più vedermi intorno la tua faccia!»
«Avete ancora la mia patente di libero artigiano» gli ricordò Alvin. «La voglio.»
Makepeace si frugò in tasca, ne tirò fuori un foglio piegato in quattro e lo gettò sull’erba davanti alla fucina. Poi allargò le braccia, afferrò le porte scorrevoli e le chiuse di scatto come non faceva quasi mai, neanche d’inverno. Chiusi ermeticamente i battenti, li fermò a paletto dall’interno. Povero sciocco. Se avesse voluto veramente entrare nella fucina, Alvin avrebbe potuto sfondarne le pareti senza la minima difficoltà. Il giovane fece qualche passo avanti e si chinò a raccogliere il foglio. Lo aprì e lo lesse… Era stato firmato. Era legale. Alvin era un libero artigiano.
Il sole stava per fare capolino all’orizzonte quando Alvin arrivò alla porta del vecchio deposito. Naturalmente era chiusa a chiave, ma serrature e talismani non potevano certamente fermarlo, soprattutto quando era stato lui stesso a fabbricarli. Aprì la porta ed entrò. Arthur Stuart si mosse nel sonno. Alvin gli toccò la spalla per svegliarlo. Poi s’inginocchiò accanto al letto e raccontò al ragazzo la maggior parte di ciò che era successo durante la notte. Gli mostrò il vomere d’oro facendogli vedere come si muoveva. Arthur rise di gioia. Poi Alvin gli disse che la donna che egli aveva chiamato mamma fin da quando era piccolissimo era morta, uccisa dai Cacciatori, e Arthur pianse a calde lacrime.
Ma non a lungo. Era troppo piccolo perché il dolore rimanesse in lui più di tanto. «Hai detto che anche lei ne ha ammazzato uno prima di morire?»
«Col fucile di tuo padre.»
«Brava!» disse Arthur Stuart, in tono così adulto che Alvin quasi si mise a ridere.
«L’altro l’ho ammazzato io. Quello che le aveva sparato.»
Arthur tese la mano, prese la destra di Alvin e l’aprì. «L’hai ammazzato con questa mano?»
Alvin annuì.
Arthur gli baciò il palmo.
«L’avrei guarita, se avessi potuto» spiegò Alvin. «Ma è morta troppo in fretta. Anche se fossi stato lì un istante dopo che le avevano sparato, non sarei riuscito a guarirla.»
Arthur Stuart tese le braccia, si aggrappò al collo di Alvin e pianse ancora un po’.
Ci volle un giorno per seppellire la vecchia Peg, là sulla collina accanto alle sue figlie e al fratello di Alvin, Vigor, e alla mamma di Arthur morta che era ancora una bambina. «Un luogo per gente coraggiosa» disse il dottor Physicker, e Alvin capì che aveva ragione, anche se Physicker non sapeva della piccola schiava nera.
Alvin lavò il pavimento e le scale della locanda per ripulirli dalle macchie di sangue, usando il suo dono per togliere il sangue che la liscivia e la sabbia non erano riuscite a rimuovere. Fu l’ultimo dono che poté fare a Horace e a Peggy. A Margaret. Alla signorina Larner.
«Ora devo andare» disse loro. Li aveva trovati seduti in poltrona nella sala comune della locanda, dove per tutto il giorno avevano ricevuto visite di condoglianza. «Porto Arthur dai miei, a Vigor Church. Laggiù sarà al sicuro. E poi riprenderò il cammino.»
«Grazie di tutto» disse Horace. «Sei stato un buon amico. La vecchia Peg ti voleva bene.» Poi scoppiò nuovamente in lacrime.
Alvin gli batté affettuosamente sulla spalla, poi si avvicinò a Peggy, restando in piedi di fronte a lei. «Tutto quello che sono, signorina Larner, lo debbo a voi.»
Lei scosse la testa.
«Tutto quello che vi ho detto lo pensavo davvero. E lo penso ancora.»
Lei scosse nuovamente la testa. Alvin non ne fu sorpreso. Peggy aveva appena perso sua madre, morta prima di sapere che sua figlia era tornata a casa, e Alvin non si aspettava certamente che, dopo un fatto del genere, lei potesse andarsene di casa come se non fosse successo nulla. Qualcuno doveva pur aiutare Horace Guester a mandare avanti la locanda. Era tutto molto logico. Eppure si sentiva trafiggere il cuore, perché adesso più che mai sapeva che era vero… Egli l’amava. Ma Peggy non era fatta per lui. Questo era certo. Una donna come lei, così bella, istruita e fine avrebbe potuto fargli da maestra, questo sì, ma non avrebbe mai potuto amarlo come egli l’amava.
«Bene, allora, penso che sia il momento di salutarci» disse Alvin. Tese la mano, quantunque sapesse che era un po’ sciocco stringere la mano di qualcuno che soffriva come lei in quel momento. Ma avrebbe tanto desiderato prenderla tra le braccia e stringerla forte, come aveva fatto con Arthur Stuart quando il piccolo si era messo a piangere, e una stretta di mano era quanto di più vicino potesse esserci a ciò che desiderava.
Peggy vide il suo gesto, e gli prese la mano. Ma non la scosse come quando ci si saluta; la strinse e basta, la serrò con forza e a lungo. Alvin fu colto di sorpresa. Nei mesi e negli anni a venire, Alvin avrebbe ripensato spesso al calore di quella stretta. Forse significava che anche lei lo amava. O forse voleva dire soltanto che provava per lui l’affetto di una maestra per l’alunno, oppure lo ringraziava per aver vendicato la morte di sua madre… Alvin non aveva modo di saperlo. Eppure continuò a tenersi aggrappato a quel ricordo, nell’eventualità che fosse davvero un pegno del suo amore.
E mentre lei gli teneva la mano in quel modo, Alvin le fece una promessa; gliela fece anche se non sapeva quanto lei l’avrebbe gradita. «Tornerò» disse. «E quello che vi ho detto ieri sera sarà ancora vero.» Poi dovette chiamare a raccolta tutto il suo coraggio per chiamarla col nome che lei gli aveva consentito di usare. «Dio sia con te, Margaret.»
«Dio sia con te, Alvin» mormorò lei.
Poi Alvin andò a cercare Arthur Stuart, che era stato impegnato a sua volta con i saluti, e lo condusse fuori. Insieme andarono al fienile sul retro della locanda, dove Alvin aveva nascosto il vomere d’oro in fondo a un barile di fagioli. Il giovane alzò il coperchio e tese la mano, e il vomere riemerse da solo in uno sfolgorio d’oro. Allora Alvin lo prese, lo avvolse in un pezzo di tela, e poi lo infilò in un sacco che si gettò sulla spalla.
Alvin s’inginocchiò, tendendo la mano come faceva sempre quando voleva che Arthur Stuart gli montasse a cavalluccio. Arthur obbedì, pensando che fosse solo un gioco… Un ragazzo di quell’età non poteva restare triste per più di un paio d’ore alla volta. Così salì d’un balzo sulle spalle di Alvin, ridendo e saltando su e giù.
«Stavolta sarà una bella sgroppata, Arthur Stuart» disse Alvin. «Ce ne andiamo a casa dei miei, a Vigor Church.»
«E ce la facciamo tutta a piedi?»
«Io andrò a piedi. Tu invece andrai a cavallo.»
«Arri!» esclamò Arthur Stuart.
Alvin partì al piccolo trotto, ma in breve già correva a tutta velocità, e senza mai metter piede sulla strada. Puntò direttamente verso l’aperta campagna, traversando campi, saltando staccionate, e infine facendo ingresso nei boschi, che ancora crescevano in vaste chiazze irregolari tra l’Hio e il Wobbish, tra lui e casa sua. Il canto verde era molto più debole di quando i Rossi avevano quei territori tutti per sé. Eppure era ancora abbastanza forte perché Alvin Smith potesse udirlo. Si lasciò trasportare dal ritmo del canto verde, correndo come solo i Rossi sapevano fare. E Arthur Stuart… forse anche lui riusciva a udire un’eco del canto verde, quel tanto che bastò a farlo addormentare lì dove si trovava, sulle spalle di Alvin. Il mondo era scomparso. Solo Alvin, Arthur Stuart, il vomere d’oro… e il mondo intero che cantava intorno a lui. Adesso sono un viaggiatore. E questo è il mio primo viaggio.