LIBRO PRIMO Ambra

1

Mina seppellì la sua regina sotto una montagna.

La regina aveva innalzato quella montagna, l’aveva modellata, conformata, sollevata con le sue mani immortali. E adesso giaceva sotto quella montagna.

La montagna sarebbe morta. Erosa dai venti, assalita dalle gocce di pioggia, lentamente, col tempo, secolo dopo secolo, la magnifica montagna creata da Takhisis si sarebbe sbriciolata diventando polvere, si sarebbe mescolata e perduta fra le ceneri della sua defunta creatrice. L’ignominia finale. L’ultima, amara ironia.

«La pagheranno», promise solennemente Mina, guardando il sole tramontare dietro la montagna, osservandone l’ombra furtiva sulla vallata. «La pagheranno: tutti coloro che hanno avuto parte in questo, mortali e immortali. Gliela farei pagare io, se non fossi tanto stanca. Tanto stanca.»

Si svegliò stanca; ammesso di poter usare il termine «svegliarsi», poiché Mina non dormiva mai veramente. Trascorreva la notte in un assopimento inquieto nel quale rimaneva conscia di ogni spostamento del vento, ogni grugnito o grido di animale, ogni attenuazione della luce lunare o del tremolio delle stelle. Il sonno le lambiva i piedi, le increspature le inumidivano le dita. Ogni volta che le onde del sonno, silenziose e calme, riposanti e pacifiche, incominciavano a portarla via, Mina sobbalzava e tornava alla veglia ansimando, come stesse annegando, e il sonno si allontanava.

Mina trascorreva le ore di luce a sorvegliare il luogo di sepoltura della Regina delle Tenebre. Non si allontanava mai molto da quella tomba sotto la montagna, anche se Galdar la infastidiva continuamente per indurla ad andarsene, almeno per un po’.

«Vai a fare una passeggiata tra gli alberi», la pregava il minotauro, «o a fare un bagno nel lago o ad arrampicarti sui dirupi per vedere l’alba».

Mina non poteva andarsene. Aveva una paura terribile che qualcuno di Ansalon trovasse quel luogo sacro, e se questo fosse successo gli allocchi sarebbero venuti a guardare quel corpo e a punzecchiarlo e a ridacchiare e a sorridere con aria furba. I cercatori di tesori e i saccheggiatori sarebbero venuti a strappare via i gioielli e a rimuovere gli oggetti sacri. I nemici di Takhisis sarebbero venuti a trionfare su di lei. Sarebbero venuti i suoi fedeli, disperati e ansiosi di vedere esaudite le loro preghiere, per cercare di riportarla in vita.

Questa sarebbe stata la cosa peggiore, arguì Mina. Takhisis, una regina che aveva governato sul cielo e sull’Abisso, incatenata per sempre alle suppliche piagnucolose di coloro che non avevano fatto nulla per salvarla dalla morte, tranne torcersi le mani e gemere: «Che ne sarà di me?».

Giorno dopo giorno, Mina percorreva a grandi passi l’ingresso della tomba sotto la montagna dove aveva collocato il corpo della regina morta. Aveva lavorato sodo, per settimane, forse per mesi (non aveva il senso del tempo) per nascondere il fatto che vi fosse un ingresso, piantandovi davanti alberi, cespugli e fiori selvatici, facendoli crescere in modo da ricoprirlo.

Galdar l’aveva aiutata in quell’impresa, e anche gli dèi, anche se lei non era consapevole del loro aiuto e l’avrebbe disdegnato se ne fosse stata a conoscenza.

Gli dèi, che avevano giudicato Takhisis, Regina delle Tenebre, e l’avevano riconosciuta colpevole di aver violato il giuramento immortale che tutti loro avevano prestato all’inizio del tempo, sapevano bene, al pari di Mina, che cosa sarebbe successo se i mortali avessero scoperto l’ubicazione del luogo di riposo della Regina delle Tenebre. Gli alberi che erano piantine quando li aveva piantati Mina crebbero in un mese fino a tre metri di altezza. Il sottobosco e i cespugli di rovo spuntarono da un giorno all’altro. Un vento ululante che non smetteva mai di soffiare rese liscia la superficie del dirupo, cosicché non rimase visibile alcuna traccia dell’ingresso della tomba.

Nemmeno Mina riusciva più a trovare l’ingresso, per lo meno da sveglia. Lo vedeva sempre nei sogni. Adesso non le rimaneva più nulla da fare tranne sorvegliarlo contro chiunque, mortale o immortale. Diffidava perfino di Galdar, poiché lui era stato fra i responsabili della caduta della regina. A Mina non piaceva il modo in cui il minotauro la sollecitava sempre ad andarsene. Sospettava che lui attendesse il suo allontanamento e poi facesse irruzione nella tomba.

«Mina», le giurò ripetutamente Galdar, «io non ho idea di dove sia l’ingresso della tomba. Non riuscirei nemmeno a trovare questa montagna se me ne andassi, poiché il sole non sorge mai due volte nello stesso punto!» Fece un gesto verso l’orizzonte. «Gli dèi stessi lo nascondono. L’est è ovest un giorno e l’ovest è est un altro giorno. Ecco perché puoi andartene tranquilla, Mina. Quando te ne andrai, non troverai mai la via del ritorno. Potrai andare avanti con la tua vita.»

Mina nel suo cuore sapeva che era vero. Lo sapeva e lo bramava e ne era terrorizzata.

«Takhisis era la mia vita», disse Mina rispondendo a Galdar. «Quando mi guardavo allo specchio, il volto che vedevo era il suo. Quando parlavo, la voce che udivo era la sua. Adesso non c’è più, e quando mi guardo allo specchio non vedo nessun volto. Quando parlo, vi è soltanto silenzio. Chi sono io, Galdar?»

«Tu sei Mina», rispose lui.

«E chi è Mina?» domandò lei.

Galdar non poté che scrutarla, smarrito.

Ripetevano spesso questa conversazione, quasi ogni giorno. La ripeterono di nuovo quella mattina. Stavolta però la risposta di Galdar fu diversa. Ci aveva pensato su a lungo e quando lei disse: «Chi è Mina?» lui rispose tranquillamente: «Goldmoon sapeva chi eri, Mina. Nei suoi occhi tu vedevi te stessa. Non vedevi Takhisis».

Mina ci pensò su.

Ripercorrendo la sua vita, la vide divisa in tre parti. La prima era l’infanzia. Quegli anni non erano altro che una macchia di colore, pittura fresca che qualcuno aveva spalmato con una spugna umida e gocciolante.

La seconda era costituita da Goldmoon e dalla Cittadella della Luce.

Mina non aveva alcun ricordo del naufragio o di essere stata scagliata fuori bordo o di qualunque cosa le fosse successa. Infatti la sua memoria (e la sua vita) era incominciata quando lei aveva aperto gli occhi trovandosi, fradicia e satura d’acqua, distesa sulla sabbia, e aveva alzato lo sguardo su un gruppo di persone che si erano radunate attorno a lei, persone che le parlavano con compassione amorevole.

Le domandarono che cosa le fosse successo.

Lei non lo sapeva.

Le chiesero come si chiamasse.

Non sapeva neanche quello.

Alla fine avrebbero dedotto che lei era la sopravvissuta di un naufragio, anche se non era stata data per dispersa nessuna nave. I suoi genitori furono ritenuti dispersi in mare. Quella teoria sembrò molto probabile, poiché nessuno venne mai a cercare Mina.

Dissero che non era insolito che lei non ricordasse nulla del suo passato, poiché aveva subito un grave colpo alla testa, cosa che spesso spiegava una perdita di memoria.

La condussero in un luogo che chiamavano Cittadella della Luce, un posto meraviglioso fatto di calore e radiosità e serenità. Ripensando a quell’epoca, Mina non rammentava mai un cielo grigio in associazione con la Cittadella, anche se sapeva che dovevano esserci state giornate di vento e di tempesta. Per lei, il lungo periodo trascorso lì, dai nove ai quattordici anni di età, furono illuminati dal sole che balenava sulle mura di cristallo della Cittadella. Illuminati dal sorriso della donna che giunse a esserle cara quanto una madre: la fondatrice della Cittadella, Goldmoon.

Raccontarono a Mina che Goldmoon era un’eroina, una persona famosa in tutto Ansalon. Il suo nome veniva pronunciato con affetto e rispetto in ogni parte di quel continente. A Mina non importava nulla di tutto ciò. A lei importava soltanto che, quando Goldmoon le parlava, le parlava con dolce gentilezza e con affetto. Per quanto fosse una persona indaffarata, Goldmoon non era mai troppo indaffarata per rispondere alle domande di Mina, e Mina adorava fare domande.

Goldmoon era vecchia quando Mina la conobbe, vecchia come una montagna, pensava la ragazza. Goldmoon aveva i capelli bianchi, il volto segnato da profondo dolore e gioia ancora più profonda, segni di lutto e di sofferenza, segni di scoperte e di speranze. Aveva gli occhi giovani come la risata, giovani come le lacrime e... Galdar aveva ragione. Ripensando a quell’epoca, Mina si vedeva negli occhi di Goldmoon.

Vedeva una ragazza che cresceva troppo in fretta, goffa e sgraziata, con i lunghi capelli rossi e occhi color ambra. Ogni sera Goldmoon le spazzolava i capelli rossi tanto folti e lussureggianti, e rispondeva a tutte le domande che Mina aveva preparato durante la giornata. Quando i capelli erano spazzolati e intrecciati e Mina era pronta per andare a dormire, Goldmoon la prendeva in braccio e le narrava storie degli dèi perduti.

Alcune storie erano tenebrose, poiché vi erano dèi che governavano le passioni oscure presenti nel cuore di ogni uomo. Vi erano dèi della luce in opposizione agli dèi delle tenebre. Dèi che governavano tutto ciò che era buono e nobile nell’umanità. Gli dèi delle tenebre lottavano perennemente per conquistare il predominio sull’umanità. Gli dèi della luce operavano incessantemente per contrastarli. Gli dèi neutrali reggevano la bilancia dell’equilibrio. L’intera umanità era situata nel mezzo, e ciascun uomo era libero di scegliere il proprio destino, poiché senza libertà gli uomini sarebbero morti, come muore l’uccello in gabbia, e il mondo avrebbe cessato di esistere.

Goldmoon si divertiva a raccontare storie a Mina, ma Mina capiva che le storie facevano intristire la madre adottiva, poiché gli dèi se n’erano andati e l’uomo era rimasto solo a lottare come meglio poteva. Goldmoon si era costruita una vita per sé senza gli dèi, ma ne sentiva la mancanza e più di ogni altra cosa bramava il loro ritorno.

«Quando sarò grande», diceva spesso Mina a Goldmoon, «andrò nel mondo e troverò gli dèi e li riporterò da te».

«Ah, bambina», rispondeva Goldmoon col sorriso che le faceva brillare gli occhi, «la tua ricerca non dovrebbe portarti più lontano di qui». Metteva la mano sul cuore di Mina. «Perché se gli dèi se ne sono andati, il loro ricordo nasce in ognuno di noi; ricordi di amore eterno e pazienza infinita e perdono definitivo.»

Mina non capiva. Lei non aveva ricordi di nulla dalla nascita. Ripensando al passato, non vedeva niente tranne vuoto e oscurità. Ogni sera, mentre era distesa da sola nel buio della sua camera, recitava la stessa preghiera.

«Lo so che siete là fuori da qualche parte. Fatemi essere quella che vi trova. Sarò la vostra fedele servitrice. Lo giuro! Fatemi essere quella che vi farà conoscere al mondo.»

Una sera, quando Mina aveva quattordici anni, recitò la stessa preghiera, la recitò in maniera fervente e seria come aveva fatto nella primissima sera in cui l’avesse mai recitata. E quella sera giunse una risposta.

Una voce le parlò dall’oscurità.

«Sono qui, Mina. Se ti dico come trovarmi, verrai da me?»

Mina si tirò su a sedere impaziente sul letto. «Chi sei? Come ti chiami?»

«Sono Takhisis, ma tu lo dimenticherai. Per te io non ho nome. Non mi serve alcun nome, poiché io sono sola nell’universo, il solo dio, l’unico dio.»

«Allora ti chiamerò l’Unico Dio», disse Mina. Balzando fuori dal letto, si vestì in fretta e si preparò per il viaggio. «Vado a dire alla mamma dove sto andando...»

«Mamma», ribatté Takhisis con disdegno e collera. «Tu non hai una mamma. Tua mamma è morta.»

«Lo so», disse Mina, esitando, «ma Goldmoon è diventata mia mamma. Mi è cara più di chiunque, e io devo dirle che sto partendo, altrimenti quando scoprirà che me ne sono andata si preoccuperà».

La voce della dea cambiò, non era più incollerita ma sussurrava dolcemente. «Non devi dirglielo, altrimenti rovinerai la sorpresa. La nostra sorpresa, tua e mia. Infatti verrà il giorno in cui tu tornerai a dire a Goldmoon che hai trovato l’Unico Dio, sovrano del mondo.»

«Ma perché non posso dirglielo adesso?» domandò Mina.

«Perché non mi hai ancora trovata», rispose severamente Takhisis. «Non sono nemmeno sicura che tu ne sia degna. Devi dimostrarti all’altezza. A me serve una discepola coraggiosa e forte, che non si lasci scoraggiare dagli infedeli né traviare dai pessimisti, che affronti il dolore e il tormento senza tirarsi indietro. Tutto questo dovrai dimostrarmelo. Ne hai il coraggio, Mina?»

Mina tremò, terrorizzata. Non pensava di averne il coraggio. Voleva tornare nel suo letto, ma poi pensò a Goldmoon e a quale sorpresa meravigliosa sarebbe stata. Immaginò la gioia di Goldmoon quando avesse visto Mina tornare da lei portando con sé un dio.

Mina si mise la mano sul cuore. «Ne ho il coraggio, Unico Dio. Lo farò per la mia mamma adottiva.»

«Così mi piace», disse Takhisis e rise come se Mina avesse detto qualcosa di buffo.

Così ebbe inizio la terza parte della vita di Mina, e se la prima era una macchia indistinta e la seconda era luce, la terza fu ombra. Agendo agli ordini dell’Unico Dio, Mina fuggì dalla Cittadella della Luce. Andò a cercare una nave al porto e salì a bordo. La nave non aveva equipaggio. Mina era l’unica persona a bordo, eppure il timone ruotava, le vele si issavano e si ammainavano; tutte le manovre venivano eseguite da mani invisibili.

La nave viaggiò sulle onde del tempo e trasportò Mina in un luogo che a lei parve di conoscere da sempre ma di avere appena scoperto. In questo luogo Mina osservò per la prima volta il volto della Regina delle Tenebre, che era bellissima e terribile, e Mina si inchinò e la adorò.

Takhisis sottopose Mina a una prova dopo l’altra, a un’impresa dopo l’altra. Mina le superò tutte. Conobbe il dolore simile al dolore del morire, e non urlò. Conobbe il dolore simile al dolore del parto, e non si tirò indietro.

Poi giunse il giorno in cui Takhisis disse a Mina: «Sono contenta di te. Sei la mia eletta. Adesso è il momento che tu torni nel mondo e prepari la popolazione al mio ritorno».

«Tornai nel mondo», disse Mina a Galdar, «nella notte della grande tempesta. Ti incontrai quella notte. Eseguii su di te il mio primo miracolo. Ti restituii il braccio».

Galdar le rivolse un’occhiata eloquente, e lei arrossì e si affrettò a soggiungere: «Voglio dire... l’Unico Dio ti restituì il braccio».

«Chiamala con il suo nome», disse aspramente Galdar. «Chiamala Takhisis.»

Involontariamente si guardò il moncone che era tutto quanto gli rimanesse del braccio con cui reggeva la spada. Quando ebbe scoperto il vero nome dell’Unico Dio, il dio che gli aveva restituito il braccio perduto, Galdar aveva pregato il suo dio Sargonnas di toglierglielo di nuovo.

«Io non volevo essere suo schiavo», mormorò, ma Mina non lo udì.

Stava pensando all’orgoglio, all’arroganza e all’ambizione. Stava pensando al desiderio di potere e a chi fosse stato veramente responsabile della caduta della Regina delle Tenebre.

«Colpa mia», disse a bassa voce. «Adesso posso ammetterlo. Sono stata io ad annientarla. Non gli dèi. Nemmeno quel disgraziato dio-elfo Valthonis, o come si fa chiamare. L’ho uccisa io. L’ho tradita io.»

«Mina, no!» ribatté Galdar, alterato. «Tu eri sua schiava al pari di tutti noi. Lei ti ha usata, ti ha manipolata...»

Mina alzò gli occhi d’ambra per incrociare quelli di lui. «Così credevi tu. Così credevano tutti. Io sola conoscevo la verità. La conoscevo io e la conosceva anche la mia Regina. Io ho radunato un esercito di morti. Ho combattuto e ucciso due draghi poderosi. Ho sconfitto gli elfi e li ho tenuti sotto il tallone dei miei stivali. Ho sconfitto i Cavalieri di Solamnia e li ho visti scappare via da me come cani bastonati. Ho fatto dei Cavalieri delle Tenebre una potenza da temere e da rispettare.»

«E tutto in nome di Takhisis», concluse Galdar. Il minotauro si grattò la pelliccia sulle mascelle e si strofinò il muso. Appariva a disagio.

«Volevo che fosse in nome mio», disse Mina. «Lei lo sapeva. Mi vedeva nel cuore ed è per questo che mi avrebbe annientata.»

«Ed è per questo che tu gliel’avresti permesso», sentenziò Galdar.

Mina sospirò e chinò il capo. Sedette sul terreno duro, tirando su le gambe e stringendo le ginocchia con le braccia. Indossava gli abiti che portava quel giorno fatidico in cui era morta la sua Regina, gli indumenti semplici indossati sotto l’armatura di Cavaliere delle Tenebre: camicia e calzoni alla zuava. Adesso erano laceri e consunti, schiariti dal sole fino a un grigio indistinto. L’unico colore brillante rimasto era il sangue rosso della regina che era morta fra le braccia di Mina.

Galdar scrollò il capo munito di corna e si tirò su a sedere dritto sul macigno che stava usando per sedile, un macigno che negli ultimi mesi aveva reso lucido a forza di consumarlo.

«Tutto questo ormai è finito, Mina. È ora che tu vada avanti. C’è ancora tanto da fare nel mondo e vi è un mondo nuovo in cui farlo. I Cavalieri delle Tenebre sono allo sbando, disorganizzati. Hanno bisogno di un comandante forte che li rimetta in riga.»

«Non mi seguirebbero», disse Mina.

Galdar aprì la bocca per protestare, poi la richiuse.

Mina alzò lo sguardo su di lui e vide che conosceva la verità quanto lei. I Cavalieri delle Tenebre non l’avrebbero mai più accettata come comandante. Erano stati diffidenti verso di lei fin da principio: una ragazza di diciassette anni, che a malapena distingueva un’estremità dall’altra della spada, che non aveva mai visto una battaglia, tanto meno aveva guidato degli uomini in combattimento.

I miracoli da lei operati li avevano conquistati. Come disse lei a quel disgraziato principe elfo, gli uomini amavano il dio che vedevano in lei, non amavano lei, e quando quel dio fu spodestato e Mina perse il suo potere di operare miracoli, i cavalieri andarono incontro a una sconfitta disastrosa. Non solo, ma ritenevano che lei alla fine li avesse abbandonati, li avesse lasciati ad affrontare la morte da soli. Non l’avrebbero mai più seguita, e lei non poteva fargliene una colpa.

E nemmeno voleva essere comandante di uomini. Non voleva tornare nel mondo. Era troppo stanca. Voleva soltanto dormire. Si appoggiò contro le ossa della montagna, dove la sua regina giaceva nel suo sonno eterno, e chiuse gli occhi.

Doveva essersi assopita, poiché si svegliò trovando Galdar accovacciato accanto a lei, che la supplicava seriamente.

«... devi abbandonare questa prigione, Mina! Ti sei punita abbastanza. Devi perdonarti, Mina. Quello che è accaduto a Takhisis è stato colpa sua. Non tua. Non devi sentirti in colpa. Lei ti avrebbe uccisa! Tu lo sai. Si sarebbe impadronita del tuo corpo, ti avrebbe divorato l’anima! Quell’elfo ti ha fatto un favore a ucciderla.»

Mina alzò la testa. Il suo sguardo fece interrompere Galdar, gli bloccò le parole sulle labbra e sospinse il minotauro all’indietro sui talloni come se lei gli avesse dato un colpo.

«Mi dispiace, Mina. Non volevo. Vieni con me», la sollecitò Galdar.

Mina tese la mano, gli diede una pacca sull’unico braccio che gli rimaneva. «Vai, Galdar. Lo so che il tuo dio ti sta importunando, chiedendo che tu ti unisca a lui nella conquista di Silvanesti.»

Mina sorrise debolmente davanti all’improvviso imbarazzo di Galdar.

«Ho origliato le tue preghiere a Sargonnas, amico mio», gli confidò. «Vai a combattere per il tuo dio. Quando ritornerai, mi racconterai tutto ciò che sta succedendo nel mondo.»

«Se me ne vado da questa valle maledetta, non potrò mai più ritornare. Tu lo sai, Mina», ribatté Galdar. «Ci penseranno gli dèi. Faranno sì che nessuno mai...»

Le parole gli si congelarono sulla lingua. Già mentre le pronunciava si rivelavano false. Girò lo sguardo verso la vallata, si strofinò gli occhi, guardò di nuovo.

«Devo avere delle visioni.» Guardò in direzione del sole socchiudendo gli occhi.

«Che c’è adesso?» domandò stancamente Mina. Lei non guardava.

«Sta arrivando qualcuno», riferì lui, «che percorre il fondo della vallata. Ma non può essere».

«Può essere, Galdar», disse Mina, seguendo ora lo sguardo di lui. «Sta arrivando qualcuno.»

Un uomo avanzava a passi lunghi e decisi sul fondo della valle deserta, spoglia e spazzata dal vento. Era alto e si muoveva con una grazia imponente. Lunghi capelli scuri gli svolazzavano dietro le spalle. Il corpo tremolava nelle ondate di calore che si sollevavano dalla superficie della roccia ricoperta di sabbia.

«Viene a prendermi.»

2

La valle era una depressione a forma di scodella scavata nello stesso basamento roccioso che era stato sollevato per formare la montagna. Ricopriva la roccia un sottile strato di sabbia, che era di colore giallo-rossastro. Lì crescevano alcuni cespugli sparsi e irregolari, ma niente alberi. Non crescevano alberi in nessun punto di questa parte di territorio, tranne quegli strani alberi che erano spuntati davanti alla tomba. Un corso d’acqua (blu cobalto sullo sfondo rosso) procedeva a zigzag sul fondo della valle, incidendo la roccia.

La montagna in cui era sepolta la Regina delle Tenebre era bucherellata da grotte, e in due di queste Mina e Galdar avevano dimorato nell’ultimo anno. Durante il giorno il calore del sole si innalzava con ondate tremolanti dal fondovalle. La temperatura calava precipitosamente di notte e si alzava di nuovo fino a livelli insopportabili durante il giorno.

La valle era maledetta dagli dèi. Nessun mortale poteva trovarla. Galdar l’aveva scoperta solo perché aveva pregato giorno e notte Sargonnas affinché gliela facesse trovare, e alla fine il dio aveva acconsentito. Quando Mina aveva portato via il corpo della sua dea dal tempio in cui era morta, Galdar l’aveva seguita. Lui solo conosceva il dolore terribile che lei doveva avere provato. Sperava di poterla aiutare a seppellire per sempre la sua regina. Galdar aveva seguito Mina per un giorno e una notte ma non era mai sembrato in grado di raggiungerla, e poi una mattina, dopo essersi svegliato da un sonno esausto, non l’aveva più trovata.

Immaginava, naturalmente, che gli dèi non volessero fare scoprire ad alcun mortale il luogo di sepoltura della regina Takhisis e che per tale motivo gli avessero celato Mina. Galdar aveva pregato Sargonnas per avere il permesso di andare da Mina, e Sargonnas aveva esaudito la sua preghiera, ma a un prezzo. Il dio aveva trasportato Galdar sul luogo segreto di sepoltura. Galdar e Mina avevano messo a riposo la Regina delle Tenebre sotto la montagna, e poi Galdar aveva trascorso il resto del tempo cercando di persuadere Mina a ritornare nel mondo. In questo Galdar aveva fallito, e adesso il dio premeva su Galdar affinché da parte sua tenesse fede all’accordo. Navi di minotauri arrivavano a Silvanesti, recando truppe e coloni, per fare dell’ex patria degli elfi una terra di minotauri, e rendendo estremamente nervosi gli esseri umani che vivevano nelle altre nazioni di Ansalon.

I Cavalieri di Solamnia, i Cavalieri della Legione d’Acciaio e i formidabili guerrieri barbari delle Pianure della Polvere: tutti questi esseri umani scrutavano con ira crescente l’usurpazione del loro continente da parte dei minotauri. Sargonnas aveva bisogno di un ambasciatore presso queste razze. Aveva bisogno che un minotauro in grado di capire gli esseri umani andasse da loro e li placasse, li convincesse del fatto che i minotauri non avevano progetti di espansione. I minotauri si accontentavano di conquistare e occupare il territorio di un antico nemico. Solamnia e gli altri regni erano al sicuro.

Galdar aveva vissuto tra gli esseri umani e per anni aveva combattuto al loro fianco. Era la figura perfetta per un ambasciatore presso gli esseri umani ed era reso ancora più perfetto dal fatto che gli esseri umani tendevano ad apprezzarlo e a fidarsi di lui. Galdar voleva servire il dio che l’aveva salvato da Takhisis, gli aveva portato via il braccio e gli aveva restituito il rispetto di sé. Sargonnas non era un dio paziente. Aveva chiarito a Galdar che doveva andare adesso o mai più.

Galdar aveva dapprima pensato, con un certo timore, che forse Sargonnas si era stancato di aspettare, al punto che il dio stesse venendo a prendere Galdar.

Una seconda occhiata lo dissuase da quell’idea. Non riusciva a distinguere i tratti di quella persona, che era ancora troppo lontana, ma era di forma umana, non era un minotauro.

Ma a nessun essere umano era consentito percorrere quella valle. Nessun mortale, a parte loro due, aveva il permesso di entrarci.

Il pelo attorno al collo di Galdar si rizzò. La pelliccia sulla schiena e sulle braccia gli si increspò con un brivido inquietante. «Non mi piace, Mina. Dovremmo fuggire. Subito. Prima che quell’uomo ci veda.»

«Non è un uomo, Galdar», disse Mina. «È un dio. Viene da noi. O meglio, viene da me.»

Galdar vide la mano di lei portarsi alla cintola, la vide chiudersi sull’impugnatura di un coltello... un coltello che lui riconobbe. Fece per prendere il proprio coltello e scoprì che non c’era.

Lei lo guardò, con un mezzo sorriso. «Ti ho preso il coltello, Galdar. Te l’ho preso di notte.»

A lui non piaceva il modo in cui Mina lo teneva in mano, come fosse stato qualcosa di prezioso per lei.

«Chi è quell’uomo, Mina?» domandò il minotauro, con la voce roca per un timore che lui non sapeva definire. «Che cosa vuole da te?»

«Tu dovresti andartene, Galdar», gli sussurrò lei, tenendo lo sguardo fisso sullo sconosciuto, che si avvicinava. I suoi passi si erano fatti più rapidi. Sembrava impaziente di raggiungere la destinazione. «Non è affar tuo.»

La figura giunse in vista. Era un uomo di età indefinita. Il volto era quello che gli esseri umani consideravano bello: fossetta sul mento, mascella squadrata, naso aquilino, zigomi sporgenti, fronte liscia. Portava i capelli neri lunghi; ciocche lucide gli si arricciavano sulle spalle e gli scendevano sulla schiena. Aveva la pelle tanto pallida da sembrare esangue. Non aveva colore sulle labbra né sulle guance. Aveva gli occhi scuri come la prima notte della creazione. Incassati in profondità fra sopracciglia folte, sembravano ancora più scuri, sempre in ombra.

Era tutto vestito di nero; gli abiti erano sontuosi, il che denotava ricchezza. La casacca di velluto nero gli arrivava alle ginocchia. Stretta alla vita sottile, la casacca era guarnita d’argento sulle maniche e sull’orlo. Portava calzoni alla zuava neri che gli arrivavano subito sotto il ginocchio, guarniti di nastri neri. Aveva calze di seta nere e stivaletti neri con fibbia d’argento. Un pizzo bianco gli ornava la camicia, gli si allargava in gale sul petto e gli sporgeva dalle maniche, ricadendogli languidamente sulle mani. Il suo portamento denotava grazia e sicurezza e consapevolezza della propria potenza.

Galdar rabbrividì. Anche se il calore del sole era intenso, lui non lo sentiva più. Un freddo tanto antico da far sembrare giovane la montagna gli si intrufolò nel midollo delle ossa. Nella sua vita aveva affrontato molti nemici terribili, compreso il drago dominatore Malys, e non era fuggito davanti a nessuno di loro. Adesso non riusciva a trattenersi. Prese a indietreggiare.

«Sargonnas!» Galdar invocò il suo dio. La voce gli si incrinò sul nome, e lui cercò di deglutire per inumidirsi la gola. «Sargonnas, dammi forza. Aiutami a combattere questo nemico temibile...»

La risposta del dio fu uno sbuffo. «Ho sopportato finora la tua fedeltà a questa femmina umana, Galdar, ma la mia pazienza si è esaurita. Abbandonala al suo destino. È ben meritato.»

«Non posso», disse con devozione Galdar, anche se sbiancò alla vista dell’uomo sconosciuto. «Sono legato a lei da giuramento...»

«Ti avverto, Galdar», tuonò Sargonnas. «Non metterti fra Chemosh e la sua preda.»

«Chemosh!» gridò cupamente Galdar.

Chemosh. Signore della Morte. Galdar prese a tremare. Le viscere gli si accapponarono.

Mina sollevò il coltello di Galdar. Il coltello era vecchio e aveva il manico d’osso. Era un taglierino, usato per vari scopi, dal pulire il pesce allo sbudellare i cervi. Galdar teneva la lama affilata, ben tornita. Guardò Mina sollevare il coltello, vide la luce del sole riflessa sul metallo della lama ma non negli occhi di lei. Lo sguardo di Mina era concentrato sul dio.

Mina teneva il coltello nella mano destra. Rovesciandolo, si premette la punta aguzza della lama contro la gola. La fiamma interiore degli occhi d’ambra guizzò brevemente e poi si smorzò. Le labbra le si compressero. La sua presa sul coltello si strinse. Mina chiuse gli occhi e inspirò.

Galdar ruggì e balzò verso di lei. Aveva aspettato troppo. Non poté raggiungerla prima che affondasse la lama nella gola. Lui sperava che il suo ruggito la distraesse prima che Mina potesse uccidersi.

Chemosh sollevò la mano con un gesto negligente, quasi indifferente. Galdar fu sollevato da terra e rimase sospeso in aria, sostenuto dalla mano del dio. Galdar lottò e si dibatté, ma era nella morsa del dio e non vi era via di fuga. Non più che se avesse cercato di fuggire dalla morte stessa.

Chemosh portò il minotauro (che agitava le braccia e ruggiva) via dalla valle, via da Mina, che scompariva in lontananza, facendosi sempre più piccola, riducendosi da un istante all’altro.

Galdar tese la mano per cercare disperatamente di trattenere il tempo e il mondo mentre entrambi gli sfrecciavano accanto rombando... come per trattenerli, trattenere Mina. Lei lo guardò con gli occhi d’ambra e per un breve istante i due si toccarono.

Poi le acque impetuose la strapparono dalla presa di lui. L’urlo di Galdar, di frenetica disperazione, si fece più profondo, divenne un ruggito di sconforto.

Galdar sprofondò sotto le acque alluvionali del tempo e non seppe altro.


Galdar si svegliò sentendo voci e provando paura. Le voci erano profonde e roche e provenivano da molto vicino.

«Mina!» gridò, mettendosi in piedi barcollando e brancolando alla ricerca della spada che severamente si era addestrato a usare con la mano sinistra.

Due minotauri che indossavano l’armatura di battaglia delle legioni balzarono all’indietro a questo suo alzarsi improvviso e fecero per prendere le loro spade.

«Dov’è?» farneticò Galdar, con la bava che gli macchiava le labbra. «Mina! Dov’è? Che le avete fatto?»

«Mina?» I due minotauri lo fissarono meravigliati.

«Non conosciamo nessuno con quel nome», disse uno di loro, con la spada mezza dentro e mezza fuori del fodero.

«Sembra un nome umano», ringhiò il compagno. «Che cos’è? Qualche tua prigioniera? Se è così, deve essere scappata quando tu sei caduto dal dirupo.»

«Oppure ti ha spinto lei», disse il soldato.

«Dirupo?» Adesso era Galdar a meravigliarsi. Guardò verso il punto indicato dal minotauro.

Un dirupo scosceso si innalzava sopra di lui, con la superficie rocciosa a malapena visibile sotto il fitto fogliame. Galdar si guardò attorno e si trovò in mezzo a erba alta sotto i rami ombrosi di un tiglio. Il suo corpo aveva lasciato un incavo profondo nel terriccio morbido e umido.

Lontano da quel deserto cotto dal sole. Lontano dalla montagna.

«Ti abbiamo visto cadere da quella grande altezza», spiegò il minotauro. Infilò la lama di nuovo nel fodero. «Sargonnas deve amarti veramente. Pensavamo fossi morto, perché devi essere precipitato giù dritto per almeno trenta metri. Invece eccoti qui in piedi con appena un bernoccolo in testa.»

Galdar cercò di trovare la montagna, ma gli alberi erano troppo fitti. Non vedeva la linea dell’orizzonte. Abbassò lo sguardo. Chinò la testa e accasciò le spalle.

«Come ti chiami, amico?» domandò l’altro. «E che cosa ci fai in giro per Silvanesti da solo? Quei fetenti di elfi che rimangono ancora da queste parti non osano attaccarci all’aperto, ma sono lesti a tendere imboscate a un minotauro da solo.»

«Mi chiamo Galdar», rispose, sconsolato e abbattuto.

I due soldati trasalirono, si scambiarono occhiate.

«Galdar il monco!» esclamò uno, con gli occhi fissi sul moncherino. «Ehi, allora, il dio non solo vi ha salvato la vita, ma vi ha fatto cadere giusto ai piedi della vostra scorta!» aggiunse l’altro.

«Scorta?» Galdar li osservò circospetto, confuso e diffidente. «Che vuoi dire... scorta?»

«Il comandante Faros ha ricevuto notizia del vostro arrivo, mio signore, e ci ha inviati a ricevervi per far sì che voi raggiungeste sano e salvo il quartier generale. In realtà, ci siamo incontrati ottimamente, sia lode a Sargonnas.»

«È un onore conoscervi, mio signore», soggiunse l’altro soldato, intimorito. «Le vostre imprese con i Cavalieri delle Tenebre sono oggetto di leggenda.»

«Adesso che mi ricordo, c’era una donna di nome Mina. Era al vostro servizio, mio signore, vero? Una funzionaria di basso rango?»

«La caduta deve avervi frastornato, mio signore. Da ciò che sappiamo, questa Mina è morta da tempo, fin da quando Sargonnas sconfisse e mise a morte la regina Takhisis.»

«Che i cani le divorino le ossa», soggiunse arcignamente il soldato.

Galdar si guardò attorno un’ultima volta alla ricerca di qualche segno della montagna, del deserto. Di qualche segno di Mina. Inutile, lo sapeva, eppure non poté trattenersi. Tornò poi a guardare i due minotauri, che lo attendevano con pazienza e lo osservavano (nonostante il moncherino) con rispetto e ammirazione.

«Lode a Sargonnas», disse a bassa voce Galdar e, drizzando le spalle, fece il primo passo verso la sua nuova vita.

3

Preparandosi alla morte, Mina impresse al coltello una spinta decisa.

La Morte la osservò con divertimento.

La lama si trasformò in cera che quasi subito prese a sciogliersi sotto il sole cocente. La cera calda le scivolava tra le dita. Mina la fissò, stupefatta, senza capire. Alzando lo sguardo, incontrò gli occhi del dio.

Le tremarono le gambe. Le forze le vennero meno. Mina cadde in ginocchio, si lasciò cadere la testa fra le mani. Non vedeva più il dio, ma udiva i suoi passi avvicinarsi sempre più. La sua ombra scese su di lei, nascondendo il sole cocente. Mina rabbrividì.

«Lasciatemi morire, mio signore Chemosh», mormorò senza alzare lo sguardo. «Per favore. Voglio soltanto riposare.»

Udì il cigolio degli stivaletti di cuoio, percepì che lui si avvicinava, si inginocchiava accanto a lei. Odorava di mirra, e Mina si rammentò degli oli profumati versati sulle pire funebri per mascherare il fetore della carne che bruciava. Mescolato a quella fragranza muschiata vi era l’odore dolce e lieve di giglio e rosa, avvizzito e fragile come i petali della giovinezza schiacciati fra le pagine del libro della vita. La mano di lui le toccò i capelli, li lisciò. La mano si spostò dai capelli al viso. Il suo tocco era fresco sulla pelle scottata dal sole di Mina.

«Sei esausta, Mina», le disse Chemosh, con l’alito lieve e caldo sulla guancia di lei. «Il sonno è ciò che ti serve. Il sonno, non la morte. Soltanto i poeti confondono le due cose.»

Le accarezzò il viso con la mano, le lisciò i capelli.

«Ma voi siete venuto a prendermi, mio signore», protestò stancamente Mina, rilassandosi al tocco di lui per poi sciogliersi come il coltello di cera. «Voi siete la Morte e siete venuto a prendermi.»

«Sì. Ma non ti voglio morta. Mi servi viva, Mina.» Le labbra di lui le sfiorarono i capelli.

Il tocco del dio sapeva essere umano, se il dio lo desiderava. Il tocco di Chemosh suscitò in Mina struggimenti e sensazioni che lei non aveva mai provato. Virginea nel corpo e nella mente, Mina era stata protetta contro il desiderio dalla sua regina, che non voleva la sua discepola eletta distratta dalle debolezze della carne.

Mina adesso conosceva il desiderio, lo sentiva ardere e animarsi dentro di lei.

Chemosh mise la mano a coppa sul viso di Mina, si mosse lentamente per accarezzarle il collo. Col dito seguì il percorso che avrebbe potuto scegliere la lama del coltello, e Mina lo percepì acuto, freddo e ardente, e rabbrividì per un dolore che era tanto amaro quanto esaltante.

«Sento battere il tuo cuore, Mina», disse Chemosh. «Sento la tua carne calda, il tuo sangue che pulsa.»

Mina non capiva quelle strane sensazioni che il suo tocco suscitava in lei. Il corpo le doleva, ma il dolore era piacevole, e lei non avrebbe mai voluto che tale piacere finisse. Gli si strinse più vicino. Le sue labbra cercarono quelle di lui e Chemosh la baciò, lentamente, delicatamente, un bacio prolungato.

Si staccò da lei, la lasciò andare.

Mina aprì gli occhi. Guardò negli occhi di lui che erano scuri e vuoti come il mare su cui un giorno lei si era svegliata trovandosi sola.

«Che cosa mi farete, mio signore?» gridò, fattasi timorosa.

«Ti darò la vita, Mina», rispose Chemosh, scostandole i capelli dalla fronte con la mano. Il pizzo bianco le sfiorò il viso, il profumo speziato della mirra le riempì le narici. Mina si stese a terra, cedendo al tocco di lui.

«Ma voi siete la Morte», ribatté, confusa.

Chemosh la baciò sulla fronte, sulle guance, sul collo. Le sue labbra si spostarono verso l’incavo della gola.

«È venuto qui da te qualche altro dio, Mina?» domandò. Continuava ad accarezzarla, ma la sua voce era alterata, tagliente.

«Sì, qualcuno sì, mio signore», rispose lei.

«Perché sono venuti?»

«Qualcuno per salvarmi. Qualcuno per castigarmi. Qualcuno per punirmi.»

Rabbrividì. Chemosh la strinse più forte e Mina si sentì rassicurata.

«Hai fatto promesse a qualcuno di loro?» domandò lui. La voce era ancora più tagliente.

«No. Nessuna, mio signore. Lo giuro.»

Lui rimase compiaciuto. «Perché no, Mina?» chiese con un sorriso che gli increspava le labbra.

Mina gli prese la mano, se la mise sul seno, sopra il cuore che batteva. «Volevano la mia fede. Volevano la mia dedizione. Volevano la mia paura.»

«Ebbene?»

«Nessuno di loro voleva me.»

«Io voglio te, Mina», disse Chemosh. Tenne la mano sul seno di lei, sentì il battito del suo cuore farsi più rapido. «Concediti a me. Rendimi padrone di tutte le cose. Rendimi padrone della tua vita.»

Mina rimase in silenzio. Sembrava turbata, si agitava inquieta sotto il tocco di lui.

«Dimmi che cosa c’è nel tuo cuore, Mina», disse Chemosh. «Non mi offendo.»

«L’avete tradita», disse finalmente lei, con tono di accusa.

«È stata Takhisis a tradire noi, Mina», ribatté Chemosh in tono di rimprovero. «Ha tradito anche te.»

«No, mio signore», protestò Mina. «No, mi ha detto la verità.»

«Menzogne, Mina. Tutte menzogne. E tu lo sapevi.»

Mina scrollò il capo e cercò di liberarsi della stretta di lui.

«Tu sapevi che ti aveva mentito», proseguì spietato Chemosh. La tenne inchiodata con la sua stretta, la premette a terra. «Alla fine lo sapevi. Eri contenta che l’elfo l’avesse uccisa.»

Mina sollevò le mani, i suoi occhi d’ambra si alzarono verso il drago. «Maestà, io vi ho sempre amata, adorata. Ho dedicato la vita al vostro servizio e sono pronta a onorare questo impegno. Per colpa mia, voi avete perduto il corpo che avreste abitato. Io vi offro il mio. Prendete la mia vita. Usatemi come vostro veicolo. In questo modo io darò dimostrazione della mia fede!»

La regina Takhisis era bellissima, ma la sua bellezza era minacciosa e terribile a vedersi. Il volto era freddo come le vaste terre desolate e ghiacciate verso sud, dove un uomo perisce in pochi istanti, col respiro che gli si fa ghiaccio nei polmoni. Gli occhi erano le fiamme della pira funebre. Le unghie erano artigli, i capelli erano i capelli lunghi e scarmigliati del cadavere. L’armatura era fuoco nero. Al fianco portava una spada perennemente macchiata di sangue, una spada usata per staccare le anime dai corpi.

Mina gridò, un piagnucolio di dolore e di collera. Lottava nelle grinfie della Morte.

Takhisis fece per prendere il cuore di Mina, intendendo far suo quel cuore. Takhisis fece per prendere l’anima di Mina, intendendo strappargliela via dal corpo e scagliarla nell’oblio. Takhisis fece per colmare il corpo di Mina con la propria essenza immortale.

«Ammettilo, Mina.» Chemosh la tenne forte, la costrinse a guardarlo negli occhi. «Tu speravi che qualcuno le desse il colpo di grazia al posto tuo.»

Il re elfo teneva in mano il frammento spezzato della dragonlance. Scagliò la lancia, la scagliò con la forza della sua angoscia e della sua colpa, la scagliò con la forza della sua paura e del suo amore.

La lancia colpì Takhisis, le si conficcò nel petto.

Lei guardò giù sconvolta vedendo la lancia spuntarle dalla carne. Le sue dita si mossero per toccare il sangue scuro e lucido che scaturiva da quella ferita terribile. Barcollò, fu sul punto di cadere...

«Ho ucciso l’elfo con le mie stesse mani», gridò Mina. «La mia regina è morta fra le mie braccia. Avrei dato...»

Mina interruppe le parole che le si riversavano fuori. Abbassò gli occhi distogliendoli dallo sguardo intenso di Chemosh, voltò la testa.

«Avresti dato la vita per Takhisis? Hai dato la vita, Mina, quella volta che hai combattuto Malys. Takhisis ti ha riportata indietro per le sue ragioni egoistiche. Aveva bisogno di te. Altrimenti ti avrebbe lasciata cadere fra le dita come polvere e cenere. E alla fine ha avuto la temerarietà di incolpare te per la sua rovina.»

Mina gli si afflosciò tra le mani.

«Aveva ragione lei, mio signore.» Da sotto le palpebre le filtrarono lacrime di vergogna. «La sua morte è stata colpa mia.»

Chemosh le scostò il viluppo di capelli rossi per vederle il viso. «E quando è morta, qualcosa in te era contento.»

Mina gemette e distolse il volto da lui. Si lisciò i capelli inumiditi dalle lacrime, si asciugò le lacrime.

«Non è la fedeltà alla tua regina a trattenerti in questa valle. Tu resti qui per via del tuo senso di colpa. Il senso di colpa ti tiene prigioniera. Il senso di colpa è il tuo carceriere. Il senso di colpa ti ha quasi uccisa.»

Chemosh le pose entrambe le mani sul viso, la guardò in profondità negli occhi d’ambra.

«Non hai motivo di sentirti in colpa, Mina. Takhisis si è meritata il suo destino.»

La voce gli si addolcì, gli si placò. «Lei non c’è più, e nemmeno Paladine.»

«Paladine...» mormorò Mina. «Il mio giuramento, vendicare la morte della mia regina... su di lui, sugli elfi...»

«Così farai», le promise Chemosh. «Ma non ancora. Non adesso. Bisogna preparare la via. Ascoltami, Mina, e capiscimi. Quei due grandi dèi adesso non ci sono più. Ne rimane soltanto uno: il loro fratello Gilean, dio del libro, dio del dubbio e dell’indecisione. Rimane lì con la bilancia dell’equilibrio, la luce in una mano, la tenebra nell’altra. In ogni istante di veglia le soppesa per accertarsi che non si spostino.»

Mina alzò lo sguardo verso di lui, incantata. Chemosh aveva smesso di parlarle. Stava parlando a se stesso.

«Un compito inutile», stava dicendo Chemosh scrollando le spalle. «La bilancia si inclinerà. Dovrà inclinarsi, poiché il pantheon adesso è squilibrato. Gilean sa che non può tenere per sempre dritta la bilancia. Vede la propria rovina, e ha paura. Perché io so ciò che lui non sa. Io so che cosa farà inclinare la bilancia. I mortali», disse Chemosh assaporando la parola. «I mortali sono coloro che faranno rovesciare la bilancia. I mortali come te, Mina. I mortali che vengono agli dèi di loro spontanea volontà. I mortali che eseguono i nostri ordini non per paura ma per amore. Quei mortali concederanno il potere ai loro dèi, non il contrario come è stato nelle epoche passate. Ecco perché io non volevo la tua morte, Mina. Ecco perché ti voglio viva.»

Le avvicinò la mano alle labbra. «Servimi, Mina», disse tanto a bassa voce che lei non udì le parole ma le sentì bruciarle la pelle. «Concediti a me. Concedimi la tua fede. La tua devozione. Il tuo amore.»

Mina tremò per la propria audacia, timorosa che lui si incollerisse, eppure stava pensando a ciò che aveva detto lui riguardo al potere dei mortali in questa Era dei Mortali. Vide col pensiero la bilancia d’oro tenuta in mano da Gilean, in equilibrio tanto precario che un unico granello di sabbia l’avrebbe fatta oscillare.

«E se io vi concedo il mio amore, voi che cosa mi darete in cambio?» domandò Mina.

Chemosh non si incollerì per quella domanda. Al contrario, parve compiaciuto.

«Vita eterna, Mina», rispose. «Giovinezza eterna. Bellezza mai sfiorita. Come sei adesso, sarai fra cinquecento anni.»

«È tutto bellissimo, mio signore, ma...» si interruppe.

«Ma a te non interessa niente di tutto questo, vero?»

Mina arrossì. «Mi dispiace, mio signore. Spero che non vi offendiate...»

«No, no. Non scusarti. Tu vuoi da me quello che Takhisis non era disposta a concederti. Molto bene. Ti darò quello che ti interessa: il potere. Il potere sulla vita. Il potere sulla morte.»

Mina sorrise, rilassata fra le mani di lui. «E voi mi amerete?»

«Come ti amo adesso», promise Chemosh.

«Allora io mi concedo a voi, mio signore», disse Mina e chiuse gli occhi sollevando le labbra in attesa del suo bacio.

Ma lui non era del tutto pronto a prenderla con sé. Non ancora. La baciò sulle palpebre, prima una, poi l’altra.

«Adesso dormi, Mina. Dormi profondamente e dormi senza sognare. Quando ti sveglierai, ti desterai a nuova vita, una vita come non l’hai mai conosciuta.»

«Voi sarete con me?» mormorò lei.

«Sempre», promise Chemosh.

4

Gli elfi, scacciati da entrambe le loro antiche patrie, vagano per il mondo, esuli. Alcuni si sono trasferiti nelle città (Palanthas, Sanction, Flotsam, Solace) dove si affollano in abitazioni lugubri e svolgono i lavori che trovano per acquistare cibo per i loro figli, perdendosi nei sogni di gloria del passato. Altri elfi vivono nelle Pianure della Polvere, dove ogni giorno guardano il sole tramontare sulla loro patria lontana, lontana quasi quanto il sole, o così sembra. Non sognano il passato, ma fanno sogni spruzzati di sangue su un futuro di castigo e di vendetta.

I minotauri spingono le loro navi sui mari schiumanti e combattono battaglie fra loro, eppure il sole splende sempre sulle spade che sconfiggono l’antico nemico e sulla scure che abbatte la foresta verde.

Gli esseri umani festeggiano la morte dei draghi dominatori e si preoccupano dei minotauri che finalmente hanno consolidato la loro presenza su Ansalon. Gli esseri umani non se ne preoccupano troppo, però, poiché hanno altri problemi più urgenti: conflitti politici a Solamnia, fuorilegge che minacciano l’Abanasinia, goblin che ascendono al potere nel Qualinesti meridionale, profughi dappertutto.

I draghi emergono dalle loro caverne uscendo in un mondo che un tempo era loro, poi fu perduto e adesso è di nuovo loro. Ma sono guardinghi, prudenti, perfino i migliori fra loro sono sospettosi e diffidenti, soltanto adesso incominciano a capire che quanto era perduto è perduto per sempre.

Gli dèi ritornano nell’Era dei Mortali e sanno che il nome è adatto, poiché saranno i mortali a stabilire se gli dèi avranno o no influenza sul loro creato. Pertanto gli dèi non possono rimanersene a proprio agio nei cieli o nell’Abisso o su qualunque piano immortale, ma vagano nel mondo, cercando fede, amore, preghiere. Facendo promesse.

E mentre avviene tutto questo un pastore se ne sta in piedi su una collina, a osservare il suo cane riportare le pecore all’ovile.

Un kender in un cimitero gioca qualche partita col fantasma di un bambino morto.

Un giovane chierico di Kiri-Jolith accoglie un nuovo convertito.

Un cavaliere della morte ribolle di collera nella sua prigione e cerca una via di fuga.


Mina si destò da un sogno strano che non riusciva a ricordare e si trovò in un’oscurità tanto profonda che la luce delle candele non riusciva a illuminare, come la luce pallida e fredda delle stelle non è in grado di rischiarare la notte. Il suo sonno era stato profondo come l’oscurità. Mina non ricordava l’ultima volta in cui aveva dormito tanto profondamente. Nessun allarme nella notte, nessun vicecomandante a svegliarla con domande che avrebbero potuto aspettare il mattino dopo, niente feriti trasportati su lettighe perché lei li guarisse.

Nessun volto di regina morta.

Mina tornò a distendersi sui morbidi cuscini di piume che la circondavano e scrutò nel buio. Non sapeva dove si trovasse; certamente non aveva dormito sul terreno duro e freddo del deserto. Ma era troppo al caldo, troppo comoda e troppo intorpidita perché le importasse scoprirlo. L’oscurità era calmante e profumata di mirra. Le numerose candele attorno al letto bruciavano con fiamme che non vacillavano. Lei non vedeva niente al di là del letto. Per il momento non le importava. Stava pensando a Chemosh, alle parole che le aveva detto il giorno prima.

Quando è morta, qualcosa in te era contento.

Mina era una guerriera veterana. Dal punto in cui si trovava quel giorno fatidico non avrebbe mai potuto raggiungere l’elfo in tempo per impedirgli di scagliare la lancia contro la dea, la cui punizione per essersi impadronita del mondo era stata la mortalità. Mina non si sentiva in colpa per la morte della regina. Mina si sentiva in colpa per avere (come aveva detto Chemosh) provato gioia per la morte della regina.

Mina aveva ucciso l’elfo. Quasi tutti pensavano che lei l’avesse ucciso per punirlo. Mina sapeva che non era così. L’elfo era innamorato di lei. Aveva visto, con gli occhi dell’amore, che lei gli era grata per ciò che aveva fatto. Lei aveva visto quella consapevolezza negli occhi dell’elfo e per quel peccato lui aveva pagato con la vita.

La sua gioia per la morte della regina fu subito sopraffatta dal dolore e da una sofferenza assai reale. Mina non riusciva a perdonarsi per quell’impulso iniziale di sollievo, per essere stata contenta che la decisione di dare la vita per la sua regina le fosse stata tolta dalle mani.

«Che cosa avrei fatto quando fosse venuta a uccidermi? Avrei combattuto contro di lei? Oppure avrei lasciato che mi uccidesse?»

Ogni notte, distesa sveglia davanti all’ingresso nascosto della tomba della Regina delle Tenebre sulla montagna, Mina si era posta quella domanda.

«Avresti combattuto per la tua vita», rispose Chemosh.

Il dio si avvicinò al letto. L’argento che gli orlava la casacca brillò alla luce delle candele. Il suo volto pallido aveva una luce tutta sua, così come gli occhi scuri. Chemosh prese la mano di Mina, posata sul lenzuolo di batista che le avvolgeva il corpo, e se la portò alle labbra. Il bacio le fece sobbalzare il cuore, le lacerò il respiro.

«Avresti combattuto perché tu sei mortale e hai un forte bisogno di sopravvivere», soggiunse, «una lotta che noi dèi non conosciamo mai».

Parve meditare su questo, poiché Mina percepì che l’attenzione di lui l’abbandonava, si allontanava da lei. Chemosh fissava un’oscurità infinita, eterna e terribile. La fissò a lungo, come cercando risposte, quindi scrollò il capo, alzò le spalle e tornò a guardare Mina con un sorriso.

«E così voi mortali potreste dire», continuò, con un tono in parte canzonatorio, in parte mortalmente serio, «che gli dèi onniscienti non sono poi così onniscienti».

Mina fece per replicare, ma lui non glielo permise. Si chinò, la baciò rapidamente sulle labbra, quindi si allontanò lentamente dal letto e fece un giro attorno alla camera illuminata dalle candele. Lei osservò il suo modo di camminare, forte e autorevole.

«Lo sai dove ti trovi, Mina?» domandò Chemosh, girandosi bruscamente verso di lei.

«No, mio signore», rispose lei con calma. «Non lo so.»

«Ti trovi nella mia dimora.» La guardò attentamente. «Nell’Abisso».

Mina si diede un’occhiata attorno e poi ricondusse lo sguardo verso di lui.

Chemosh la osservava con ammirazione. «Ti svegli e ti trovi da sola nell’Abisso, eppure non sei spaventata.»

«Ho percorso luoghi più bui», replicò Mina.

Chemosh la guardò a lungo, poi annuì capendo. «Le prove di Takhisis non sono per i deboli di cuore.»

Mina gettò da parte le lenzuola di batista. Si alzò dal letto e si mise in piedi davanti a lui. «E le prove di Chemosh?» gli domandò coraggiosamente.

Il dio sorrise. «Ho forse detto che ci sarebbero state delle prove?»

«No, mio signore, ma voi vorrete che io dimostri ciò che valgo. E poi», soggiunse, alzando lo sguardo verso quegli occhi scuri che trattenevano lei, Mina, al loro interno, «io voglio dimostrare ciò che valgo».

Lui la prese fra le braccia e la baciò, a lungo e con ardore. Mina rispose al suo bacio, stringendolo fra le braccia, travolta da una passione che la lasciò debole e tremante quando lui alla fine si staccò da lei.

«Molto bene, Mina», disse Chemosh. «Mi dimostrerai ciò che vali.

Ho un incarico per te, un incarico per cui tu sei particolarmente adatta.»

Mina assaporò il bacio sulle labbra, speziato e inebriante, come il profumo di mirra. Non aveva paura, era perfino impaziente.

«Datemi qualsiasi incarico, mio signore. Lo porterò a termine.»

«Tu hai annientato il cavaliere della morte Lord Soth», cominciò lui.

«No, mio signore, non l’ho annientato io...» Mina esitò, incerta su come proseguire.

Chemosh capì il suo dilemma e lo scacciò con un gesto. «Sì, sì, l’ha annientato Takhisis. Capisco, tu sei stata lo strumento del suo annientamento.»

«Proprio così, mio signore.»

«Lord Soth era un cavaliere della morte, un essere terrificante», proseguì Chemosh, «uno che perfino noi dèi potremmo temere. Tu hai avuto paura nell’affrontarlo, Mina?».

«Nel giro di pochi giorni, Lord Soth, eserciti dei vivi e dei morti assalteranno Sanction. La città cadrà in mio potere.» Le parole di Mina non erano una spacconata. Mina esponeva un fatto, nient’altro. «In quel momento l’Unico Dio opererà un grande miracolo. Entrerà nel mondo come doveva fare da tempo, unirà i regni dei mortali e degli immortali. Una volta presente su entrambi i piani di esistenza, conquisterà il mondo, lo libererà dei parassiti come gli elfi e si insedierà come sovrano di Krynn. Io sarò nominata capitano dell’esercito dei vivi. L’Unico Dio ti offre il comando dell’ esercito dei morti.»

«Me lo "offre"?» celiò Soth.

«Te lo offre», ripeté Mina. «Sì, certo.»

«Allora non si offenderà se io rifiuto l’offerta», disse Soth.

«Non si offenderà», ribatté Mina, «ma sarà profondamente addolorata per la tua ingratitudine, dopo tutto quello che ha fatto per te».

«Tutto quello che ha fatto per me.» Soth sorrise. «Allora è per questo che mi ha condotto qui. Devo essere uno schiavo alla guida di un esercito di schiavi. La mia risposta a questa offerta generosa è no.»

«Non ho avuto paura, mio signore», confermò Mina, «poiché ero armata dell’ira della mia regina. Che cos’era la potenza di lui, in confronto a questa?».

«Oh, non granché», ammise Chemosh. «Niente tranne la capacità di ucciderti con un’unica parola. Avrebbe potuto dire semplicemente "muori" e tu saresti morta. Probabilmente nemmeno Takhisis avrebbe potuto salvarti.»

«Come vi ho detto, mio signore», rispose solennemente Mina, «io ero armata dell’ira della mia regina». Si accigliò leggermente, riflettendo. «Voi non potete desiderare che io affronti Lord Soth. La Regina delle Tenebre lo ha annientato. Vi è forse un altro cavaliere della morte? Uno che vi infastidisce, mio signore?»

«Mi infastidisce?» Chemosh rise. «No, non è un fastidio per me, né per nessun altro su Krynn, se è per questo. Non adesso, per lo meno. Una volta era un fastidio per moltissima gente, in particolare per il defunto Lord Ariakan. Si chiama Ausric Krell. È noto nella storia, credo, come il Traditore».

«Il traditore che causò la morte di Lord Ariakan per mano di Chaos», disse Mina animatamente. «Ho sentito questa storia, mio signore. Tutti i cavalieri ne parlavano. Nessuno sapeva che fine avesse fatto Krell.»

«Nessuno voleva saperlo», disse Chemosh. «Ariakan era figlio di Zeboim, dea del mare, e del signore dei draghi Ariakas. Il padre era morto, ucciso durante la Guerra delle Lance. Zeboim stravedeva per il ragazzo, che era il suo unico figlio. Quando morì per mano del traditore Krell durante la Guerra del Chaos, le lacrime della dea sgorgarono tanto copiosamente che innalzarono il livello dei mari in tutto il mondo, almeno così dicono.

«Ben presto però il fuoco della collera di Zeboim le asciugò le lacrime. Sargonnas, dio della vendetta, è suo padre, e Zeboim è figlia di suo padre. Andò a scovare il disgraziato Krell, lo trascinò fuori dal buco miserevole in cui aveva cercato di nascondersi, e prese a punirlo. Lo torturò per giornate intere, e quando il dolore e il tormento erano troppo per lui e gli scoppiava il cuore, lei lo riportava in vita, lo torturava finché moriva, poi lo riportava indietro, e così fece ripetutamente. Quando alla fine si stancò del divertimento, prese ciò che rimaneva di lui (i suoi resti riempivano un piccolo secchio, mi dicono) e lo trasportò dall’altra parte del Mare di Sirrion settentrionale fino al Bastione della Tempesta, l’isola fortezza costruita per i Cavalieri di Takhisis e donata a Lord Ariakan dalla madre. Lì maledisse Krell, lo trasformò in un cavaliere della morte e lo lasciò a consumare i suoi tristi giorni su quello scoglio abbandonato, circondato dal mare e dalla tempesta che non gli lasciavano mai dimenticare ciò che aveva fatto.

«E lì, da più di trent’anni, Lord Ausric Krell è prigioniero, costretto a vivere eternamente nella fortezza in cui giurò fedeltà e consacrò la vita a Lord Ariakan.»

«Ed è ancora lì? Durante tutti quegli anni gli dèi non c’erano più», affermò Mina, dubitando. «Zeboim non era nel mondo. Non avrebbe potuto impedirgli di andarsene. Perché non l’ha fatto?»

«Krell non è Soth», commentò sarcasticamente Chemosh. «Krell è spregevole e subdolo, ha la nobiltà di una faina, l’onore di un rospo e il cervello di uno scarafaggio. Isolato su quello scoglio, non aveva modo di sapere che Zeboim non era nei pressi a tenerlo d’occhio. I mari sferzavano i dirupi della sua prigione incessantemente come quando lei era lì. Le tempeste tanto diffuse in quella parte del mondo si riversavano sulle pareti della sua prigione. Quando alla fine scoprì di avere perso l’occasione, fu tanto furioso che con un unico pugno fece crollare una piccola torre.»

«E adesso che Zeboim è ritornata, lo sorveglia ancora?»

«Giorno e notte», rispose Chemosh. «Testimonianza dell’amore di una madre.»

«Neanch’io nutro alcun affetto per i traditori, mio signore», disse Mina. «Porterò a termine volentieri qualunque incarico voi mi assegniate riguardo a questo qui.»

«Bene», disse Chemosh. «Voglio che tu lo liberi.»

«Che io lo liberi, mio signore?» ripeté Mina, sbalordita.

«Aiutalo a sottrarsi alla sorveglianza di Zeboim e portalo da me.»

«Ma perché, mio signore? Se lui è proprio come l’avete descritto...»

«Anche peggio. È ambiguo e astuto e scaltro e infido. E tu non devi mai farmi domande, Mina. Puoi rifiutarti di fare questa cosa. Sta a te scegliere, ma non devi domandarmi perché. Le mie ragioni sono mie e basta.»

Chemosh sollevò la mano, con le dita accarezzò la guancia di Mina. «Liberare Krell non sarà un compito facile. È zeppo di pericoli, poiché non soltanto devi affrontare il cavaliere della morte ma devi prima vedertela con la dea vendicatrice. Se ti rifiuterai, lo capirò.»

«Non rifiuto, mio signore», ribadì freddamente Mina. «Farò questo per voi. Dove devo portarlo?»

«Nel mio castello qui nell’Abisso. Questo, per il momento, è il luogo in cui io risiedo.»

«Per il momento, mio signore?» domandò Mina.

Chemosh le prese le mani, se le portò alle labbra. «Un’altra domanda, Mina?»

«Mi dispiace, mio signore», si scusò Mina arrossendo. «È un mio difetto, temo.»

«Ci sforzeremo di correggerlo. Quanto alla tua domanda, a questa non mi dispiace rispondere. A me non piace questa sistemazione. Voglio camminare nel mondo, fra i vivi. Ho progetti di trasloco. Progetti che coinvolgono anche te, Mina.» Le baciò le mani, con baci teneri e prolungati. «Se non mi deluderai.»

«Non vi deluderò, mio signore», promise lei.

«Bene», troncò bruscamente Chemosh e le lasciò cadere le mani. Si girò dall’altra parte. «Fammi sapere se ti serve qualcosa.»

«Mio signore!» lo chiamò Mina, mentre stava per perderlo di vista nell’oscurità. «C’è qualcosa che mi serve: un’arma benedetta o un oggetto magico o un incantesimo intriso di potenza sacra.»

«Una simile arma non ti sarebbe di alcuna utilità contro Zeboim», disse Chemosh. «Lei è un dio, come me, e pertanto è immortale. Devo avvisarti, Mina, che se Zeboim crede anche solo per un attimo che tu sia venuta a salvare Krell ti infliggerà lo stesso tormento che ha inflitto a lui. Nel qual caso, per quanto io possa addolorarmi per la tua perdita, non potrò fare nulla per soccorrerti.»

«Capisco, mio signore», disse Mina tranquillamente. «Pensavo piuttosto al cavaliere della morte, Krell.»

«Tu hai affrontato Soth e sei sopravvissuta per raccontarlo», disse Chemosh alzando le spalle. «Quando Krell scopre che tu sei lì per liberarlo, sarà tutto ansioso di aiutarti.»

«Il problema sarà restare viva abbastanza a lungo da convincerlo di questo, mio signore.»

«Giusto», convenne Chemosh pensosamente. «L’unico divertimento che il povero Krell trova nella sua prigione è massacrare chiunque si trovi ad approdare su quello scoglio. Non essendo troppo intelligente, è il tipo che prima uccide e poi fa domande. Io potrei concederti qualche amuleto o talismano, però...»

Lasciò in sospeso la frase, esaminò attentamente Mina, mentre si aggiustava con cura il pizzo al polso.

«Però trovare un modo per sconfiggerlo fa parte della mia prova», aggiunse Mina. «Capisco, mio signore.»

«Qualunque altra cosa ti serva, ti basta esprimere il desiderio.»

Diede un’occhiata al letto da cui si era alzata Mina, alle lenzuola spiegazzate, ancora calde del suo corpo. «Pregusto il tuo ritorno sana e salva», le disse e, con un grazioso inchino, se ne andò.

Mina sprofondò nel letto. Aveva capito lo sguardo di lui e percepito la sua promessa, sentendo il contatto delle labbra di lui sulle sue. Il corpo le doleva e le tremava per il desiderio di lui, e Mina dovette concedersi un momento per calmarsi, per costringersi a concentrarsi sull’incarico apparentemente impossibile che lui le aveva assegnato.

«O forse non tanto impossibile», disse Mina. «Per tutto ciò che mi serve, mi basta esprimere il desiderio.»

Era affamatissima. Non rammentava di avere mangiato quando era nella prigione che si era costruita da sola. Presumeva di avere mangiato. Aveva qualche vago ricordo di Galdar che la sollecitava a mangiare, ma non aveva ricordi di sapori od odori e nemmeno sapeva di che cosa si fosse nutrita.

«Mi serve del cibo», dichiarò Mina, soggiungendo, a mo’ di esperimento: «Vorrei bistecca di cervo, stufato d’agnello, una torta rustica, vino speziato...».

Mentre lei parlava, i piatti comparvero davanti a lei, materializzandosi su una tavola su cui era stesa una tovaglia. Da bere c’erano vino e birra e un’acqua limpida, pura e fredda. Le pietanze erano preparate meravigliosamente: tutto ciò che lei avrebbe potuto desiderare. Mentre mangiava, escogitò col pensiero vari piani, scartandone subito alcuni, tenendo quelli che le piacevano, rimuginandoci sopra. Prese qualcosa da uno di essi, lo mise assieme a un’idea di un altro e finalmente mise a punto il tutto. Ripassò l’intero progetto e ne fu soddisfatta.

Con un gesto fece scomparire i cibi e la tavola, il vino e la tovaglia. Mina rimase per un attimo immersa nei pensieri per accertarsi che non le mancasse nulla.

«Voglio la mia armatura», ordinò alla fine. «L’armatura donatami da Takhisis. L’armatura forgiata con la sua gloria nella notte in cui proclamò il suo ritorno nel mondo.»

La luce delle candele balenava dalle profondità del metallo nero lucente. L’armatura che lei aveva indossato per tutta la Guerra delle Anime, l’armatura da Cavaliere di Neraka, contrassegnata dalla mano della sua regina stessa, era distesa per terra ai suoi piedi. Sollevando la corazza, ornata col simbolo di Takhisis (il teschio colpito dal fulmine), Mina si sedette sull’orlo del letto e si mise a lucidare il metallo, usando un angolo del lenzuolo di batista, finché l’armatura non assunse un’intensa lucentezza.

5

Il desiderio espresso da Mina la condusse alla città sovrana di Palanthas, dove fece visita alla Grande Biblioteca. Non indugiò in città una volta conseguito il suo scopo in biblioteca, ma osservò che vi erano in giro numerosi elfi, laceri, magri e impoveriti. Li guardava incrociandoli per la strada e le pareva che pensassero di averla già conosciuta, ma non si ricordassero in quale occasione. Forse in un brutto sogno. Se ne andò da Palanthas ed espresse il desiderio di trovarsi vicino a un piccolo villaggio di pescatori sulle coste settentrionali dell’Abanasinia.

«Siete matta, mia signora», commentò schiettamente il pescatore. Stava in piedi sul molo e osservava Mina caricare provviste su una barchetta. «Se le onde non vi sommergono e non vi fanno a pezzi la barca, il vento vi strapperà via la vela, vi farà rovesciare e vi spingerà sotto. Non ce la farete mai. Rovina di una bella barca.»

«Vi ho pagato il doppio del costo della barca», rintuzzò Mina.

Stivò a poppa un otre di acqua dolce. Procedendo in modo precario mentre l’imbarcazione dondolava con le onde, Mina risalì la scala a pioli fin sul molo. Stava per trasportare giù il secondo otre quando il pescatore la fermò.

«Ecco, signora cavaliere», disse, accigliandosi mentre porgeva la borsa di monete d’acciaio. «Riprendetevi il vostro denaro. Non lo voglio. Non voglio essere coinvolto in questa vostra follia. Avrei sulla coscienza la vostra morte per il resto della mia vita.»

Mina sollevò l’otre e se lo gettò sulle spalle. Superò il pescatore e andò verso la barca, sistemando il secondo otre accanto al primo. Voltandosi per tornare a prendere le provviste, lo vide ancora accigliato, ancora nell’atto di porgere la borsa col denaro. Il pescatore scrollò la borsa, facendo tintinnare le monete.

«Ecco! Prendete!»

Mina gli spinse di lato delicatamente la mano. «Mi avete venduto una barca. Ciò che ne faccio io non è responsabilità vostra.»

«Già, ma lei potrebbe non vederla così», insistette in tono minaccioso il pescatore, con un sinistro cenno del capo verso l’acqua grigioazzurra.

«Lei? Chi è "lei"?» domandò Mina, ridiscendendo nella barca.

Il pescatore si guardò attorno, come temendo di essere udito, quindi si chinò e disse con un sussurro sibilante e timoroso: «Zeboim!».

«La dea del mare.» Mina aveva avvolto in tela cerata delle fettine di carne di manzo salata per tenerle all’asciutto, e le sistemò in una cassa di legno assieme a un sacco impermeabile di gallette. Non portava con sé molto cibo poiché (in un modo o nell’altro) il suo viaggio sarebbe stato breve. Tirò fuori una carta geografica, pure avvolta in tela cerata, e la stivò con cura, essendo quella carta più preziosa del cibo. «Non temete l’ira di Zeboim. Io parto per una missione sacra. Intendo chiedere la benedizione della dea.»

Il pescatore rimase poco convinto. «Il mio sostentamento dipende dal suo favore, signora cavaliere. Riprendetevi il vostro denaro. Se davvero cercherete di attraversare il Mare di Simon fino al Bastione della Tempesta, come affermate, allora lei verrà a cercare me.»

Mina scrollò il capo con un sorriso. «Se siete tanto preoccupato per ciò che potrà pensare Zeboim, portate il denaro al suo tempio e lasciatelo alla dea in offerta. Direi che quella somma possa farvi acquisire un bel po’ di benevolenza da parte sua.»

Il pescatore ci pensò su e, dopo qualche istante trascorso a succhiarsi il labbro inferiore e a contemplare l’acqua ondeggiante, si infilò la borsa di denaro nei calzoni di tela cerata.

«Forse avete ragione, signora cavaliere. Il vecchio Ned ha offerto alla Padrona sei monete d’oro, ciascuna con impressa la testa di un tizio che si faceva chiamare Re-Sacerdote o qualcosa del genere. Il vecchio Ned aveva trovato quelle monete dentro un pesce da lui aperto, e ha pensato che dovessero essere della Padrona. Forse lei li aveva stivati lì per tenerli al sicuro. Lui non pensava che valessero molto, per via che non aveva mai sentito parlare di questo Re-Sacerdote, ma dovevano valere qualcosa perché adesso lui non esce mai col suo peschereccio senza tornare indietro con più merluzzi di quanti si possano contare.»

«Forse la dea farà così anche per voi», osservò Mina.

Stivate le provviste, Mina lasciò la barca e tornò a prendere un ultimo oggetto: la sua armatura.

«Spero di sì», disse il pescatore. «A casa ho sei bocche affamate da nutrire. La pesca non è stata tanto buona ultimamente. È un motivo per cui sono costretto a vendere questa barca qui.» Si strofinò il mento brizzolato. «Forse dividerò il denaro con la dea. Metà a lei, metà a me. Mi sembra equo, vero?»

«Perfettamente equo», ribatté Mina. Tirò fuori l’armatura e la distese sul molo. Il pescatore la scrutò e scrollò il capo.

«Farete meglio a tenerla all’asciutto», suggerì. «L’acqua salata la farà arrugginire ferocemente.»

Mina sollevò la corazza. «Non ho uno scudiero. Mi aiutereste a indossarla?»

Il pescatore la guardò fisso. «Indossare l’armatura? Per andare in barca?»

Mina gli sorrise. L’ambra dei suoi occhi si riversò su di lui, si coagulò attorno a lui. Il pescatore abbassò lo sguardo.

«Se vi rovesciate, andrete a fondo come un nano», la avvertì.

Mina si infilò la corazza dalla testa e tenne le mani in alto, in modo che il pescatore potesse stringere le cinghie di cuoio che la legavano assieme. Abituato ad allacciare i nodi della sua rete, l’uomo portò a termine l’operazione con rapidità e abilità.

«Mi sembrate un uomo buono», commentò Mina.

«Lo sono, mia signora», disse semplicemente il pescatore, «o per lo meno cerco di esserlo».

«Eppure adorate Zeboim, una dea considerata malvagia. Come mai?»

Il pescatore parve a disagio e diede un’altra occhiata verso il mare.

«Non è che sia proprio malvagia, piuttosto è... be’, capricciosa. Bisogna prenderla per il verso giusto. Se se la prende con te, non si sa come va a finire. Ti spinge in mare aperto e poi ti lascia lì senza neanche un alito di vento, in bonaccia, alla deriva sull’acqua finché non muori di sete. Oppure può sollevare un’onda tanto grande da inghiottire una casa, o alimentare venti di tempesta che sbatacchiano un uomo qua e là come fosse un ramoscello. Noi qui siamo gente buona. Quasi tutti adoriamo Mishakal o Kiri-Jolith, ma se si vive presso il mare bisogna sempre stare attenti a rendere omaggio a Zeboim, magari lasciarle un piccolo dono. Giusto per farla contenta.»

«Avete menzionato il culto di altri dèi», osservò Mina. «Qualcuno forse adora Chemosh?»

«Chi?» domandò il pescatore, impegnato nel suo compito.

«Chemosh, Signore della Morte.»

Il pescatore interruppe la sua opera, rifletté per un attimo. «Oh, sì. C’è stato un sacerdote di Chemosh che è venuto qui un mesetto fa per cercare di fare propaganda per quel dio. Sembrava ammuffito. Era vestito tutto di nero e puzzava come un sarcofago aperto. Affermava che la chierica di Mishakal ci mentiva quando ci diceva che la nostra anima sarebbe andata verso la fase successiva del viaggio della vita. Quel tizio ci diceva che il Fiume delle Anime è stato contaminato o qualcosa del genere, che le nostre anime erano intrappolate qui e che soltanto Chemosh poteva liberarci.»

«E che ne è stato di questo sacerdote?»

«Si è sparsa la notizia che lui avrebbe predisposto un altare nel cimitero, promettendo di resuscitare i morti per dimostrarci la potenza del dio. Alcuni di noi ci sono andati, pensando di vedere un bello spettacolo, se non altro. Ma poi è arrivato lo sceriffo, assieme alla chierica di Mishakal, e ha detto al sacerdote di andare a fare le sue cose da qualche altra parte, altrimenti l’avrebbe fatto arrestare per avere disturbato i morti. Il sacerdote non voleva avere guai, immagino, perché ha preso su le sue cose e se n’è andato.»

«E se ha ragione riguardo alle anime?» domandò Mina.

«Mia signora», disse il pescatore, esasperato. «Non mi avete sentito? Ho sei figli a casa e tutti che crescono in fretta come girini e vogliono tre pasti completi al giorno. Non è la mia anima che va in mare a prendere il pesce da vendere al mercato per acquistare cibo per i bambini. Vero?»

«No. Immagino di no», disse Mina.

Il pescatore fece un cenno energico col capo e diede un ultimo strattone deciso alle cinghie. «Se fosse la mia anima ad andare a pesca, mi preoccuperei della mia anima. Ma la mia anima non pesca, e allora non me ne preoccupo.»

«Capisco», annuì pensosamente Mina.

«Voi dite di partire per una missione sacra», s’informò il pescatore. «Quale dio seguite allora?»

«La regina Takhisis», rispose Mina.

«Non è morta?» domandò il pescatore.

Mina non rispose. Ringraziando l’uomo per l’aiuto, discese la scala fino alla barca.

«Non ha senso», disse il pescatore, mentre Mina mollava le cime che legavano la barca al molo. «State sprecando il vostro tempo, il vostro denaro e con ogni probabilità la vostra vita, se andate in missione sacra per una dea che non c’è più, o per lo meno così ci racconta la chierica di Mishakal.»

Mina lo guardò, con un’espressione grave. «La mia missione sacra non è tanto per la dea quanto per l’uomo che istituì i cavalieri dedicati al suo nome. A quanto mi è stato detto, colui che tradì il mio signore mandandolo a morire vive la sua vita miserabile sul Bastione della Tempesta. Io vado a sfidarlo a combattimento per vendicare Lord Ariakan.»

«Ariakan?» Il pescatore ridacchiò. «Mia signora, questo vostro Lord morì quasi quarant’anni fa. Voi quanti anni avete? Diciotto? Diciannove? Non l’avete mai conosciuto!»

«Non l’ho mai conosciuto», convenne Mina, «ma non l’ho mai dimenticato. Né ho dimenticato ciò che gli devo». Si sedette a poppa, prese la barra del timone. «Chiedete la benedizione di Zeboim per me, volete? Ditele che vado a vendicare suo figlio.»

Diresse la barca verso il vento. La vela sbatté per un attimo, poi prese la brezza. Mina girò lo sguardo verso il mare aperto, verso i frangenti, verso la linea sottile e scura di nubi temporalesche che incombevano perennemente all’orizzonte.

«Già, bene, se qualcosa può far felice la Strega del Mare, è proprio questo», osservò il pescatore, guardando la barca sollevarsi all’incontro con la prima ondata.

Un’onda strana colpì il molo, si riversò sul pescatore e lo inzuppò da capo a piedi.

«Sto andando, Padrona!» urlò ai cieli e scappò via più in fretta che poté per offrire metà del suo denaro al grato chierico della dea del mare.


La prima parte del viaggio di Mina fu pacifica. Una forte brezza spingeva la barca a vela sopra le onde, trasportandola sempre più lontano da riva. Mina non aveva paura del mare, il che era strano, considerando che aveva avuto esperienza di una tempesta e di un naufragio. Non aveva però alcun ricordo né dell’una né dell’altro. Si ricordava (e vagamente) soltanto di essere stata cullata dalle onde, dondolata delicatamente, fatta addormentare dalla ninnananna.

Mina era una marinaia esperta, al pari di quasi tutti coloro che vivevano sull’isola di Schallsea, dove era ubicata la Cittadella della Luce. Sebbene Mina non governasse un’imbarcazione da molti anni, le capacità che le servivano le ritornarono. Dirigeva la barca contro le onde, sollevandosi sulla cresta (una sensazione entusiasmante, come si potesse continuare a salire fino al cielo) e poi cadendo giù, scivolando nel solco schiumante dell’onda, con la spuma del mare a spruzzarle il viso. Si leccava le labbra, assaporando il sale. Scrollandosi all’indietro i capelli bagnati, si chinava in avanti, ansiosa di incontrare l’onda successiva. Perse di vista la terra.

Il mare si fece più agitato. Le nubi temporalesche che prima erano state una linea scura all’orizzonte adesso erano una massa plumbea intersecata da fulmini, che si addensava costantemente. Per pochi preziosi istanti Mina fu sola nel mondo, sola con i propri pensieri.

Pensieri che andavano sempre a Chemosh.

Cercò di capire la propria attrazione per lui, di capire perché lei si trovasse là fuori in quella barca fragile, a rischiare la vita per sfidare la potenza della dea del mare, per dimostrare il proprio amore per il Signore della Morte.

Uomini mortali, come quel disgraziato elfo, la adoravano. Galdar le era stato amico, ma perfino lui era in soggezione verso di lei. Chemosh era stato il primo a guardarle dentro, in profondità, a vedere i suoi sogni, i suoi desideri... desideri che lei non aveva mai conosciuto finché il tocco di lui non li aveva destati.

Non aveva mai percepito la propria carne finché lui non l’aveva accarezzata. Non aveva mai udito il proprio cuore battere finché lui non le aveva posato la mano sul seno. Non aveva mai conosciuto la fame finché non lo aveva guardato negli occhi. Mai conosciuto la sete finché non aveva assaporato il bacio di lui.

Un fulmine balenò come un manto splendente nel cielo, abbagliandole gli occhi, strappandola bruscamente ai suoi sogni. Un fuoco azzurro tremolò in cima all’albero. Le onde si fecero più feroci, si schiantarono contro la barca, strappandole di mano la barra del timone. Il vento sferzava tutto attorno a lei. La vela sbatteva e la barca fu sul punto di colare a picco. Mina si tirò verso poppa, col vento che la sferzava e la lacerava, la barca che beccheggiava e rollava al punto che lei doveva lottare per mantenere l’equilibrio.

«Torna indietro», la stava avvertendo il mare. «Torna indietro e ti lascerò vivere.»

La pioggia le spruzzava il viso. Mina digrignò i denti, che masticarono sale. Riuscì ad ammainare la vela, anche se questa combatteva come un essere vivente. Riportandosi a fatica verso poppa, Mina si sedette, prese in mano la barra del timone e puntò la barca nelle fauci della tempesta.

«Per Lord Ariakan!» gridò.

Un’onda, che procedeva trasversalmente rispetto a tutte le altre onde, colpì Mina, scaraventandola fuori della barca e nel mare agitato dalla tempesta. Mina ansimò per respirare, inghiottì acqua e sprofondò sotto le onde. Con i polmoni che le scoppiavano, combatté l’impulso dettato dal panico di agitare le braccia e le gambe nel disperato tentativo di raggiungere la superficie. Scalciò forte, spingendosi su con lunghe e forti bracciate. Un altro calcio, mentre vedeva le stelle, quindi con la testa riemerse in superficie. Si riempì i polmoni di aria benedetta mentre sbatteva rapidamente gli occhi per eliminare l’acqua e cercare di vedere dove si trovasse.

Il peso dell’armatura la trascinò di nuovo giù. La barca era accanto a lei. Mina balzò verso l’imbarcazione, la afferrò prima che l’onda successiva la facesse sprofondare. Rimase aggrappata alla barca, si tenne stretta con tutte le forze, con la paura che adesso il mare facesse rovesciare la barca sopra di lei.

Arrivò un’altra onda, un’onda imponente. Mina pensò che le avrebbe dato il colpo di grazia, riducendo in pezzi la barca. Inspirò quanta più aria poté, decisa a lottare e continuare a lottare. L’onda la colpì, la trasportò in alto oltre la fiancata e la depositò sul fondo della barca.

Ansimante e scossa, Mina rimase distesa sul ponte colmo di acqua marina e sbatté gli occhi, che le pizzicavano per via del sale. Quando riuscì a vedere, scorse un piede (un piede nudo) posato sul ponte molto vicino alla sua testa. Il piede era aggraziato e spuntava da sotto l’orlo di una veste verde e azzurra, che sembrava intessuta in acqua marina.

Esitante, Mina sollevò la testa.

A poppa sedeva una donna, con la mano sulla barra del timone. Il mare infuriava attorno alla barca. Le onde che si riversavano sul ponte inzuppavano Mina, ma non toccavano quella donna. Aveva i capelli bianchi come la spuma del mare, gli occhi grigi come la tempesta, il viso bellissimo come il sogno di un marinaio, l’espressione sempre mutevole, sempre varia, cosicché un momento sorrideva a Mina, come fosse compiaciuta di lei oltre misura, e un momento dopo la guardava come volesse calpestarla con quel piede nudo e aggraziato e sfondarle il cranio.

«Così tu sei Mina», esordì Zeboim. Il labbro le si arricciò. «La cocca di mamma.»

«Ho avuto l’onore di servire Takhisis, vostra madre», disse Mina. Fece per tirarsi su.

«No, non alzarti. Resta in ginocchio. Lo preferisco.»

Mina rimase dov’era, accovacciata sulle ginocchia sul fondo della barca, che rollava e beccheggiava. Era costretta a reggersi forte alla battagliola per evitare di essere scagliata fuori di nuovo. Zeboim sedeva indisturbata, il vento marino a malapena le arruffava la chioma lunga e selvaggia.

«Tu hai servito mia madre.» Zeboim sogghignò. «Quella vacca.» Tornò a guardare Mina. «Lo sai che cosa mi ha fatto? Mi ha rubato il mondo. Ma naturalmente tu lo sapevi. Tu eri in confidenza con mia madre.»

«Non ero...» fece per spiegare Mina. «Non ho mai...»

La dea la ignorò, continuò a parlare, così Mina si zittì.

«Mia madre mi ha rubato il mondo. Mi ha rubato il mare, ha rubato quelli come te», Zeboim lanciò un’occhiata sprezzante a Mina, «i miei adoratori. Quella vacca me li ha portati via tutti e mi ha lasciata nell’oscurità infinita, da sola. Tu non puoi immaginare», disse, e la sua voce cambiò, si fece stridula per il dolore, «il silenzio terribile di un universo vuoto».

«Veramente non sapevo che cosa avesse fatto la dea», disse Mina a bassa voce. «Takhisis non mi disse niente di tutto questo. Non mi disse mai il suo nome. Io la conoscevo come Unico Dio, un dio che era venuto a prendere il posto degli dèi che ci avevano abbandonati.»

«Ah!» Zeboim rise sguaiatamente. Un fulmine balenò lungo l’intero albero, sfrigolando sull’acqua.

«Io ero giovane», continuò umilmente Mina. «Le credevo. Mi dispiace, per quanto mi riguarda, e voglio cercare di fare ammenda. Ecco perché sono qui.»

«In missione verso il Bastione della Tempesta?» Zeboim agitava oziosamente col piede l’acqua che diguazzava sul fondo della barca. «In che modo faresti ammenda?»

«Punendo colui che tradì Lord Ariakan», rispose Mina. «Come vedete, io sono un vero cavaliere.» Indicò con un gesto l’armatura nera che indossava, mentre alzava lo sguardo per incrociare arditamente gli occhi della Regina del Mare.

Questo era il momento più difficile, in cui Mina doveva ingannare un dio. Doveva impedire a Zeboim di penetrarle nel cuore e di scoprire la verità. Mina non aveva mai pensato di provare a ingannare Takhisis. Chemosh con una sola occhiata le aveva messo a nudo tutti i segreti dell’anima. Se Zeboim avesse guardato da vicino, fosse scesa in profondità, avrebbe di sicuro visto l’inganno.

Mina incrociò gli occhi della dea, occhi che erano un momento di colore verde scuro, un momento grigi come la burrasca. Zeboim scrutò Mina e apparentemente non vide nulla di interessante, poiché distolse lo sguardo.

«Vendicare mio figlio», disse con disdegno. «Lui era figlio di una dea! Tu non sei altro che una mortale. Oggi sei qui, domani non ci sei più. Non servite a niente, nessuno di voi, tranne ammirare me e lodarmi e offrirmi doni e morire quando a me fa piacere uccidervi. A proposito di morire, ho saputo che facevi domande su Chemosh.»

«È vero.»

«E che interesse hai per lui?» Zeboim guardava adesso da vicino Mina, e negli occhi le tremolava un fuoco azzurro.

«È il dio dei morti viventi», spiegò Mina. «Mi è venuto in mente che potrebbe aiutarmi a sconfiggere Krell...»

Rapida come la sferza del vento, Zeboim assestò a Mina un colpo in faccia con la palma della mano.

«Il suo nome non viene mai pronunciato in mia presenza», sbottò Zeboim e, appoggiandosi alla barra del timone, osservò Mina con un sorriso crudele.

«Mi dispiace, Padrona. Volevo dire il Traditore.» Mina si strofinò via il sangue dalla bocca.

Zeboim rimase in subbuglio per un attimo, poi si calmò. «Molto bene, allora, vai avanti. Ti trovo meno noiosa del previsto.»

«Il Traditore è un cavaliere della morte. Poiché Chemosh è il dio dei morti viventi, pensavo che forse le mie preghiere a lui potrebbero...»

«... potrebbero che cosa? Aiutarti?» Zeboim rise con gioia maligna. «Chemosh è fin troppo indaffarato a correre qua e là per i cieli con il suo retino per farfalle cercando di acchiappare tutte le anime che mia madre gli ha rubato. Non può aiutarti. Io sono l’unica che possa aiutarti. Le tue preghiere arrivano a me.»

«Allora io prego voi, padrona...»

«Penso che dovresti chiamarmi maestà», la corresse Zeboim, giocherellando languidamente con un ricciolo dei lunghi capelli aggrovigliati e osservando il fulmine che danzava sull’albero. «Poiché mia madre non è più con noi, io adesso sono la Regina. Regina del Mare e della Tempesta.»

«Come desiderate, maestà», disse Mina e con riverenza abbassò il capo, un gesto che compiacque Zeboim e consentì a Mina di nascondere gli occhi, di custodire i propri segreti.

«Che cosa vuoi da me, Mina? Se vuoi chiedermi di aiutarti ad annientare il Traditore, non credo che lo farò. Io traggo molto piacere dal vedere quel bastardo crucciarsi e adirarsi sul suo scoglio.»

«Tutto ciò che chiedo», disse umilmente Mina, «è che mi conduciate sana e salva al Bastione della Tempesta. Sarà mio onore e mio privilegio annientare il Traditore».

«A me piace proprio un bel combattimento», spiegò Zeboim con un sospiro. Si arrotolò i capelli attorno al dito e guardò la tempesta che infuriava tutto attorno a lei, senza mai toccarla.

«Molto bene», disse languidamente. «Se tu lo uccidi, io posso sempre riportarlo in vita. E se lui uccide te, cosa che ritengo piuttosto probabile...» Zeboim diede un’occhiata fredda, grigioazzurra, a Mina; «allora io mi sarò vendicata sul tesorino di mamma, il che è la cosa migliore a parte vendicarmi sulla mamma stessa».

«Grazie, maestà», disse Mina.

Non vi fu risposta, solo il rumore del vento che cantava nel sartiame, un suono canzonatorio.

Mina sollevò cautamente la testa e scoprì di essere sola. La dea se n’era andata come non fosse mai stata lì, e per un attimo Mina si domandò se avesse sognato. Si mise la mano sulla mascella dolorante, sul labbro che le pizzicava, e ritrasse le dita macchiate di sangue.

Come per darle una prova ulteriore, il vento cessò bruscamente di ululare attorno a lei. Le nubi temporalesche si diradarono, lacerate da una mano immortale. Le onde si acquietarono, e presto la barca di Mina dondolò su onde lunghe abbastanza dolci da cullare un neonato per addormentarlo. La brezza di mare si ravvivò, soffiando da sud, una brezza che l’avrebbe condotta rapidamente a destinazione.

«Onore e gloria a voi, Zeboim, maestà dei mari!» gridò Mina.

Il sole spuntò fra le nubi, facendo balenare d’oro l’acqua. Mina stava per issare la vela, ma non ce ne fu bisogno. La barca balzò in avanti, procedette sfiorando le onde. Mina afferrò la barra del timone e sorbì l’aria impetuosa, impregnata di salsedine, un passo più vicino a ciò che desiderava il suo cuore.

6

L’isola di Bastione della Tempesta un tempo brulicava di vita. Fortezza e guarnigione dei Cavalieri delle Tenebre di Takhisis, il Bastione della Tempesta aveva ospitato cavalieri, uomini d’arme, servitori, cuochi, scudieri, paggi, istruttori, schiavi. Sul Bastione della Tempesta vi erano stati chierici devoti a Takhisis. Maghi dediti al suo servizio avevano operato lì. Draghi azzurri si erano involati dal promontorio, si erano librati sul mare trasportando sul dorso i loro conduttori. Tutti quanti avevano un unico obiettivo costante: conquistare Ansalon e da lì il mondo.

Avevano quasi vinto.

Ma poi era arrivato Chaos. Poi era arrivato il tradimento.

Il Bastione della Tempesta adesso era la prigione della morte, con un unico prigioniero solitario. Aveva tutto per sé: la possente fortezza, le torri e le piazze d’armi, le scuderie e le cripte del tesoro, i depositi e i magazzini. Lo detestava tutto. Ogni centimetro inzuppato dal mare.

In una grande stanza in cima alla Torre del Teschio, la torre più alta della fortezza chiamata Bastione della Tempesta, Lord Ausric Krell mise le mani (coperte da manopole di cuoio per nasconderne lo stato scarnificato) sul tavolo e vi si appoggiò per alzarsi in piedi. In vita era stato un uomo di bassa statura, pesante e bestiale, e nella morte era un cadavere ambulante di bassa statura, pesante e bestiale. Il cadavere era equipaggiato con l’armatura nera in cui era morto, saldata su di lui dalla maledizione che lo teneva incatenato a questa esistenza.

Davanti a lui, montata su un supporto, vi era una sfera realizzata in opale nero. Krell vi scrutò dentro, con gli occhi diabolici che ardevano di rosso nelle orbite dell’elmo. La sfera racchiudeva nelle sue profondità infuocate l’immagine di una barca a vela, piccola sul vasto oceano. Nella barca, ancora più piccola, vi era un cavaliere che indossava l’armatura disonorata da Krell.

Allontanandosi dalla sfera, Krell si diresse a grandi passi verso la feritoia nella parete di pietra che dava sui mari impetuosi. L’armatura mandava rumori secchi e metallici mentre lui camminava. Krell guardò fuori dall’apertura e per la soddisfazione si strofinò le mani guantate, mormorando: «Era tanto che non veniva qualcuno a giocare».

Doveva prepararsi.

Krell discese a passi pesanti la scala a chiocciola che conduceva alla stanza sulla torre in cui lui era abituato a trascorrere gran parte del tempo a fissare, incollerito e frustrato, la sfera di opale nero chiamata Fiamme delle Tempeste. La sfera magica offriva a Krell l’unica visione del mondo al di là della fortezza, un mondo che lui era convinto di poter dominare se soltanto fosse riuscito a fuggire da quello scoglio maledetto. Krell era stato testimone di gran parte della storia dell’Era dei Mortali grazie a quella sfera magica, un dono di Zeboim all’amato figlio, Lord Ariakan.

Krell aveva scoperto quel potente oggetto magico poco dopo la sua morte e il suo incarceramento, e aveva provato un gusto maligno, pensando che Zeboim l’avesse lasciato lì per errore. Ben presto, però, giunse a capire che faceva parte della sua crudele tortura. Zeboim gli aveva offerto il mezzo per essere testimone del mondo, quindi gli aveva portato via la capacità di farne parte. Lui poteva guardare, ma non toccare.

Trovava la cosa tanto tormentosa che a volte prendeva fra le mani la sfera di opale, pronto a scagliarla fuori dalla finestra sulle rocce sottostanti. Sempre però vinceva quell’impulso sconsiderato e ricollocava la sfera sul supporto a forma di serpente. Un giorno avrebbe trovato un modo per fuggire e allora avrebbe avuto bisogno di essere informato.

Krell dentro la sfera di opale aveva osservato svolgersi la Guerra delle Anime. Aveva guardato con gioia l’ascesa di Mina, pensando che se qualcuno poteva salvarlo sarebbe stata lei con il suo Unico Dio. Krell non aveva idea di chi fosse l’Unico Dio, ma purché potesse combattere Zeboim (che Krell era ancora mezzo convinto fosse appostata da qualche parte) a lui non importava.

Krell vedeva chiaramente dentro la sfera magica le anime intrappolate e sventurate che sguazzavano nel Fiume delle Anime. Cercò perfino di comunicare con loro, sperando di inviare un messaggio a questa Mina, per dirle di venire a salvarlo. Poi Krell, scrutando la sfera di opale, vide ciò che Mina fece al suo collega Lord Soth. Dopo di che non inviò più alcun messaggio.

Più o meno nella stessa epoca scoprì la vera identità dell’Unico Dio, e se Takhisis non era cattiva quanto la figlia, Krell ritenne piuttosto probabile che la Regina delle Tenebre provasse lo stesso rancore, poiché lei stessa era stata piuttosto affezionata ad Ariakan. Prese ad appostarsi nelle ombre della fortezza, non osando mai mostrare all’esterno il proprio volto metallico.

Poi venne la morte di Takhisis e il colpo più crudele di tutti: Krell scoprì che Zeboim era stata assente per tutto questo tempo e che lui avrebbe potuto lasciare quando avesse voluto quel maledetto mucchio di pietra in rovina, senza alcun dio a fermarlo. La sua furia per questa notizia fu tale per cui Krell abbatté una torre piccola e insignificante.

Krell non era mai stato un uomo religioso. Non aveva mai veramente creduto negli dèi, fino a quel momento terrificante in cui aveva scoperto che i chierici dopo tutto avevano ragione: gli dèi esistevano e dimostravano un grande interesse per la vita dei mortali.

Avendo scoperto la religione nel momento in cui Zeboim gli aveva lacerato il ventre, Krell adesso osservò con grande interesse il ritorno degli dèi e la dipartita di Takhisis e di Paladine. La morte di un capo crea un vuoto al vertice. Krell previde una lotta per colmare quel vuoto. Gli venne in mente che poteva offrire i suoi servigi a un rivale di Zeboim in cambio della liberazione dalla sua prigione.

Krell in vita sua non aveva mai detto una preghiera, ma la notte in cui prese questa decisione si chinò, sferragliando, sulle ginocchia ricoperte dall’armatura. Inginocchiato sul freddo pavimento della sua prigione, invocò il nome dell’unico dio che avrebbe potuto avere il cuore di aiutarlo.

«Salvami dal mio tormento e io ti servirò in qualunque modo tu desideri», promise Krell a Chemosh.

Il dio non rispose.

Krell non disperò. Gli dèi erano indaffarati, ascoltavano un mucchio di preghiere. Lui aveva ripetuto quotidianamente la stessa preghiera, ma ancora non aveva ricevuto risposta, e stava incominciando a perdere le speranze. Sargonnas, il padre di Zeboim, stava acquistando potere. Nessun altro dio del pantheon tenebroso sarebbe probabilmente arrivato in soccorso di Krell.

«Adesso questa Mina, questa assassina di cavalieri della morte, sta arrivando per darmi il colpo di grazia», ringhiò Krell. La sua voce crepitava dentro l’armatura vuota facendo un rumore come di ghiaia che rotolasse sul fondo di una pentola di ferro. Krell soggiunse malinconicamente: «Forse dovrei lasciarla fare».

Si trastullò brevemente con l’idea di porre termine al suo tormento con l’oblio, ma rapidamente prese la decisione opposta. La sua vanità era tale per cui lui non poteva sopportare di privare il mondo di Ausric Krell, nemmeno di un Ausric Krell morto.

Inoltre, l’arrivo di questa Mina avrebbe alleviato la monotonia della sua esistenza, seppure per breve tempo.

Krell uscì dalla Torre del Teschio e attraversò la piazza d’armi, che era umida e vischiosa per la perenne spuma del mare, ed entrò nella Torre del Giglio. Questa torre era dedicata ai Cavalieri del Giglio, il reparto armato più potente dei Cavalieri delle Tenebre, del cui augusto ramo Krell era stato membro. I suoi alloggi erano stati in questa torre quando era vivo, e anche se non poteva più trovare riposo nel sonno talvolta ritornava alla sua stanzetta nelle camere superiori e si distendeva sul materasso infestato da parassiti giusto per torturarsi col ricordo di quanto fosse stato bello un tempo il sonno. Quest’oggi non ritornò alla sua stanza ma rimase nelle sale principali al pianterreno, dove Ariakan aveva creato diverse biblioteche piene di libri su ogni argomento marziale, dai saggi sull’arte di cavalcare i draghi ai consigli pratici su come tenere libera dalla ruggine l’armatura.

Krell non era granché come studioso e non aveva mai toccato alcun libro tranne quando aveva utilizzato un volume della Misura per tenere aperta una porta che continuava a sbattere. Krell faceva un diverso uso della biblioteca. Qui intratteneva gli ospiti. O meglio, gli ospiti intrattenevano lui.

Fece rapidi preparativi per ricevere Mina, disponendo tutto nel modo che gli piaceva. Voleva ricevere con stile questa ospite importante, così portò via il cadavere mutilato di un nano, che era stato il suo ultimo visitatore, e lo depositò nel cortile con gli altri.

Portata a termine la sua opera nella Torre del Giglio, Krell affrontò il vento sferzante e la pioggia scrosciante del cortile per ritornare alla Torre del Teschio. Scrutò nella sfera magica e osservò con ansiosa aspettativa l’avanzata della piccola barca a vela, diretta verso una baia riparata dove, nell’epoca gloriosa, approdavano le navi che rifornivano di provviste il Bastione della Tempesta.


Ignara del fatto che Krell la stesse osservando, Mina guardò con interesse il Bastione della Tempesta.

L’isola-fortezza era stata progettata da Ariakan in modo che fosse inespugnabile dal mare. Costruita in marmo nero, la fortezza si ergeva sopra scoscesi dirupi di roccia nera che assomigliavano alle protuberanze spinose e aguzze sul dorso di un drago. I dirupi erano ripidi, impossibili da scalare. L’unico modo per entrare e uscire dal Bastione della Tempesta era in groppa a un drago oppure per nave. Vi era un unico piccolo approdo, costruito in un’insenatura riparata alla base dei dirupi neri.

L’approdo era servito da porto di accesso per alimenti di uomini e bestie, armi e difese, schiavi e prigionieri. Simili approvvigionamenti potevano concepibilmente essere trasportati dai draghi, eliminando la necessità dell’approdo. I draghi però, specialmente gli orgogliosi e capricciosi draghi azzurri preferiti dai cavalieri come cavalcature, si opponevano fortemente ad essere usati come bestie da soma. Se chiedi a un drago azzurro di portare in giro un carico di fieno, può anche staccarti la testa con un morso. Recare provviste via nave era molto più facile. Poiché Ariakan era figlio di Zeboim, gli bastava pregare sua madre per avere un viaggio tranquillo, e le nubi temporalesche si dissipavano, i mari si facevano quieti e dolci.

Mina non sapeva niente dell’arte della guerra quando Takhisis aveva posto la ragazza (di diciassette anni) alla testa dei suoi eserciti. Mina era stata lesta a imparare e Galdar era stato un ottimo maestro. Mina guardò la fortezza e vide la genialità alla base della concezione e del progetto.

L’approdo era facilmente difendibile. L’insenatura era tanto piccola che soltanto una nave per volta poteva entrarvi con sicurezza e soltanto con la bassa marea. Una stretta scalinata intagliata sul fianco del dirupo offriva l’unico mezzo per accedere alla fortezza. Gli scalini erano tanto scivolosi e infidi che venivano poco usati. Per la maggior parte le provviste venivano trascinate su fino alla fortezza mediante un sistema di funi, argani e pulegge.

Mina si domandò, come facevano gli storici, come sarebbe potuto essere diverso il mondo se l’uomo geniale che aveva progettato questa fortezza fosse sopravvissuto alla Guerra del Chaos.

Il vento si smorzò quando Mina entrò nell’insenatura, e fu costretta a remare sull’acqua calma fino all’approdo.

L’insenatura era in ombra, poiché il sole stava calando a occidente, e l’insenatura si trovava sul lato orientale. Mina benedisse l’ombra, poiché sperava di cogliere di sorpresa Krell. La fortezza era enorme. L’approdo, ubicato a un’estremità dell’isola, era lontano dagli alloggi principali. Mina non aveva modo di sapere che Krell, in quel preciso momento, stava osservando ogni sua mossa.

Mina gettò la piccola ancora e assicurò la barca avvolgendo la cima attorno a una sporgenza rocciosa. In un passato lontano, vi era stato un molo di legno, ma da tempo era stato ridotto in frammenti dall’ira di Zeboim. Mina si arrampicò per uscire dalla barca. Guardò in su verso la scala di roccia nera, si accigliò e scrollò il capo.

Stretti e sgrossati, gli scalini serpeggiavano precariamente sul fianco del dirupo ed erano viscidi per le alghe e umidi per la spuma del mare. Come se non bastasse, la scalinata sembrava rosicchiata dai denti della vendicativa Regina del Mare. Molti scalini erano spezzati e incrinati, poiché l’ira di Zeboim era giunta a far tremare il terreno sotto i piedi di Krell.

«Non devo preoccuparmi di affrontare Krell», disse fra sé Mina. «Dubito di arrivare viva in cima alla scalinata.»

Comunque, come aveva detto a Chemosh, lei aveva percorso luoghi più bui. Ma non tanto scivolosi.

Mina tenne addosso la corazza: di acciaio nero, contrassegnata dal teschio colpito dal fulmine. Si legò l’elmo alla cintura di cuoio, poi con rammarico slacciò il resto dell’armatura. Arrampicarsi sarebbe stato già abbastanza pericoloso senza schinieri e bracciali. Portava alla cintola la sua arma preferita: la stella del mattino che aveva usato in battaglia durante la Guerra delle Anime. L’arma non era un oggetto sacro, né era incantata. Sarebbe stata inutile contro un cavaliere della morte. Nessun vero cavaliere sarebbe andato in battaglia disarmato, però, e lei voleva che Krell la vedesse come vero cavaliere di Takhisis. Sperava che la vista improvvisa e sbalorditiva di un suo ex confratello in arrivo senza preavviso sul Bastione della Tempesta rendesse esitante il cavaliere della morte, lo tentasse a conversare con lei, anziché ucciderla subito.

Mina controllò la cima, accertandosi che la barca fosse ben assicurata. Le passò per la mente che Zeboim avrebbe potuto facilmente sfondarle la barca e lasciarla bloccata sul Bastione, imprigionata con un cavaliere della morte. Mina scacciò quel pensiero con un’alzata di spalle. Non era mai stata una che si agitasse o si preoccupasse del futuro, forse perché era stata tanto vicina a una dea, la quale aveva sempre assicurato a Mina che il futuro era sotto controllo.

Avere imparato che perfino gli dèi possono avere torto non aveva modificato la sua concezione della vita. La rovinosa caduta di Takhisis aveva rafforzato in Mina la convinzione che il futuro si distendesse davanti a lei come quella scalinata infida scolpita nella roccia nera. Era meglio vivere la vita al presente. Mina poteva salire un solo scalino per volta.

Rivolgendo in cuor suo una preghiera a Chemosh e recitando ad alta voce una preghiera a Zeboim, Mina incominciò la sua ascesa sui dirupi del Bastione della Tempesta.


Avendo osservato Mina sbarcare nell’insenatura, Krell uscì dalla fortezza vera e propria e si avventurò su un sentiero stretto e tortuoso che procedeva a zigzag fra un’accozzaglia di rocce. Il sentiero conduceva a una vetta sporgente di granito, nota fra i cavalieri che un tempo erano di guarnigione qui col nome di monte Ambizione. Essendo il punto più alto dell’isola, la vetta era isolata, spazzata dal vento e spruzzata dal mare, ed era stata abitudine di Lord Ariakan passeggiare qui la sera, tempo permettendo. Qui si fermava a guardare verso il mare e a formulare i suoi piani per dominare Ansalon. Di qui il nome di monte Ambizione.

Nessuno dei cavalieri veniva qui col proprio comandante se non invitato espressamente. Non vi era onore più grande che essere invitati a scalare il monte Ambizione con Lord Ariakan, condividendone la passeggiata e i pensieri. Krell vi era venuto spesso col suo comandante. Era l’unico luogo che evitasse particolarmente durante la sua prigionia. Non sarebbe venuto qui adesso se non fosse stato per il fatto che questa vetta gli consentiva la migliore vista sull’insenatura e sull’approdo, nonché su quella macchiolina umana che cercava di arrampicarsi su per quella che i cavalieri chiamavano la scala nera.

Appollaiato fra le rocce, Krell guardò giù oltre il ciglio del dirupo verso Mina. Vedeva la vita pulsare in lei, vedeva il calore della vita illuminarla, come la fiamma di una candela illumina la lanterna. Quella vista gli fece percepire ancor più il freddo della morte, e Krell rivolse a Mina uno sguardo carico di disprezzo e di amara invidia. Avrebbe potuto ucciderla subito. Sarebbe stato facile.

Krell rammentò una passeggiata col suo comandante proprio lungo questa parte delle mura. Discutevano della possibilità di un assalto alla loro fortezza dal mare e valutavano se utilizzare o no gli arcieri per fare fuori i nemici che fossero stati abbastanza audaci o abbastanza stupidi da cercare di salire la scala nera.

«Perché sprecare frecce?» aveva detto Ariakan indicando con un gesto i macigni ammucchiati tutto attorno. «Basta scagliare pietre su di loro.»

I macigni erano di grosse dimensioni. Gli uomini più forti tra i cavalieri avrebbero dovuto impegnarsi a fondo per sollevarli e spingerli oltre le mura. Krell, egli stesso uno di quegli uomini forti incaricato di quel compito, era sempre rimasto deluso dal fatto che nessuno avesse mai tentato un assalto alla fortezza. Si era spesso immaginato il massacro che quei proietti sfreccianti avrebbero creato nel nemico: soldati colpiti dalle pietre che cadevano dalla scala, precipitando, urlanti, verso una morte cruenta e straziante sulle rocce scoscese sottostanti.

Krell fu fortemente tentato di sollevare uno di quei macigni e di scagliarlo su Mina, solo per constatare di prima mano l’annientamento che si era sempre immaginato con passione. Si sforzò di controllarsi. Incontrare a faccia a faccia questa assassina di cavalieri della morte era un’occasione rara, da non sprecare. La pregustava al punto che in effetti imprecò quando vide Mina scivolare e quasi cadere. Se avesse avuto fiato in corpo, l’avrebbe emesso con un sospiro di sollievo quando Mina riuscì a rimettersi in equilibrio e a proseguire l’ascesa lenta e faticosa.


L’aria era fresca, poiché al sole era raramente consentito di fare capolino tra le nubi che incombevano sul Bastione della Tempesta. Lo sforzo e l’improvviso lampo di terrore causato dallo scivolone quasi fatale fecero colare il sudore a Mina lungo il collo e il seno. Il vento che provocava un infinito lamento funebre tra le rocce le asciugò il sudore, facendola rabbrividire. Si era portata i guanti, ma scoprì di non poterli indossare. Più di una volta fu costretta a infilare le dita in fessure e spaccature per issarsi da uno scalino all’altro.

Ogni passo era precario. Alcuni scalini avevano grosse crepe che li attraversavano, e Mina doveva saggiarne ognuno prima di appoggiarci sopra il proprio peso. I muscoli delle gambe ben presto le diedero spasmi e dolori. Le dita le sanguinavano, le mani erano infiammate, le ginocchia sbucciate. Fermandosi per cercare di alleviare il dolore alle gambe, guardò su, sperando di essere vicino alla fine.

Un movimento attirò il suo sguardo. Intravide una testa munita di elmo che la scrutava dalla cima del dirupo. Mina sbatté gli occhi per liberarli della spuma salata, e la testa non c’era più.

Mina non aveva però dubbi su ciò che aveva visto.

La scala sembrava proseguire all’infinito, arrampicandosi fino in cielo, e in cima era in attesa Krell.

Sotto di lei il mare si sollevava su scogli luccicanti, dalle punte aguzze. La spuma turbinava sulle acque gonfie. Mina chiuse gli occhi e si accasciò contro la parete del dirupo. Era affaticata e si trovava appena a metà della scalinata. Sarebbe stata esausta una volta raggiunta la cima, dove avrebbe dovuto affrontare il cavaliere della morte che in qualche modo era stato avvertito del suo arrivo.

«Zeboim», sbottò Mina con un’imprecazione. «Ha avvertito Krell. Che sciocca sono! Tanto orgogliosa di me da pensare di avere ingannato una dea, quando per tutto il tempo è stata la dea a ingannare me. Ma perché avrebbe voluto avvertirlo? Questo è il problema. Perché?»

Mina cercò di risolvere questo enigma. «Mi ha guardata nel cuore e ha visto la verità? Ha visto che venivo a liberare Krell? O è soltanto un suo capriccio? Metterci l’uno contro l’altra per un’ora di divertimento.»

Ripensando alla sua conversazione con la dea, Mina immaginò quest’ultima eventualità. Rifletté sul da farsi e fu allora che le venne in mente una cosa. Aprì gli occhi, tornò a guardare all’insù verso la vetta su cui aveva visto Krell.

«Avrebbe potuto uccidermi se l’avesse voluto», si rese conto. «Creare un incantesimo contro di me o se non altro lanciarmi in testa una roccia. Non l’ha fatto. Attende di affrontarmi. Vuole giocare con me. Stuzzicarmi prima di uccidermi. Krell non è diverso da altri morti viventi. Non è diverso nemmeno dal dio della morte stesso.»

Grazie ai mesi trascorsi a comandare una legione di anime, Mina sapeva che i morti hanno una debolezza: la brama per i vivi.

Qualcosa in Krell si rammentava che cosa volesse dire essere in vita e bramava un’interazione con i vivi. Krell doveva percepire per interposta persona la vita che lui aveva perduto. Odiava i vivi, per cui alla fine l’avrebbe uccisa. Ma Mina poteva stare certa che per lo meno non l’avrebbe uccisa subito, prima che lei avesse avuto occasione di parlargli, di dirgli del suo progetto. Questa deduzione le diede speranza e le sollevò lo spirito, anche se non fece nulla per alleviarle gli spasmi alle gambe né il freddo che le intorpidiva le ossa. L’attendeva un tragitto lungo e pericoloso, e lei doveva essere pronta, fisicamente e mentalmente, a incontrare un nemico mortale al termine del viaggio.

Il nome di Chemosh le giunse caldo alle labbra intorpidite. Percepì la presenza del dio, percepì che lui la stava osservando.

Non pregò per ottenere il suo aiuto. Lui le aveva detto che non ne aveva da offrire, e lei non si sarebbe umiliata a implorarlo. Sussurrò il suo nome, se lo tenne saldo nel cuore perché le desse forza, e mise il piede con prudenza sullo scalino successivo, saggiandolo.

Lo scalino rimase saldo, come il successivo. Avanzando su per la scalinata, Mina teneva gli occhi su dove metteva i piedi, guardando dove procedeva, usando le mani per tastare la via lungo la parete del dirupo. Spostando in avanti le mani, rimase sbalordita nel non sentire nulla, tanto sbalordita che quasi mollò la presa. Una sottile crepa fendeva la parete di roccia.

In equilibrio precario sullo scalino, Mina pose le mani sui due lati della fenditura e scrutò all’interno. La grigia luce del giorno non penetrava lontano nell’oscurità, ma ciò che Mina vide era affascinante: un pavimento liscio, evidentemente costruito dall’uomo, circa un metro più sotto di dove si trovava lei. Non vedeva molto al di là del pavimento, ma ebbe l’impressione di un ampio vano. Annusò l’aria. L’odore le era noto, le ricordava qualcosa.

Un granaio. Lei aveva appena liberato la città di Sanction. I suoi uomini, impegnati a impadronirsi della città, si erano imbattuti in un granaio. Lei era andata a ispezionarlo, e l’odore era questo o molto simile. Nel deposito di Sanction il grano era stato messo di recente e l’odore era intensissimo. Qui l’odore era debole e mescolato a muffa, ma Mina era certa di avere trovato il granaio della fortezza del Bastione della Tempesta.

Quella collocazione aveva senso, poiché era vicina all’approdo dove il grano veniva scaricato dalla nave. Da qualche parte in cima al dirupo doveva esserci un’apertura, uno scivolo da cui riversare il grano. Il granaio sarebbe stato ormai vuoto. Erano quarant’anni che il Bastione era abbandonato. Centinaia di generazioni di ratti avrebbero banchettato con le eventuali scorte lasciate dai cavalieri.

Non che tutto ciò importasse. Ciò che importava era che lei aveva trovato un modo per intrufolarsi nella fortezza, un modo per cogliere di sorpresa Krell.

«Chemosh», sussurrò Mina capendo all’improvviso.

Il nome di lui era stato sulle sue labbra quando aveva trovato la fenditura nella parete. Non aveva chiesto il suo aiuto, ma lui gliel’aveva concesso, e a Mina batté forte il cuore quando si rese conto che lui voleva la riuscita della sua impresa. Mina scrutò la fenditura nella parete. Era stretta, ma lei era snella. Poteva forse infilarsi lì dentro, ma non indossando la corazza. Se la sarebbe dovuta togliere e così sarebbe rimasta priva di armatura quando fosse giunta ad affrontare il cavaliere della morte.

Mina esitò. Guardò su verso la scalinata infinita, in cima alla quale era in attesa Krell. Guardò dentro il granaio: un pavimento liscio e asciutto, una via segreta per entrare nella parte principale del Bastione. Le bastava togliersi la corazza, contrassegnata dal simbolo di Takhisis.

Mina capì. «È questo che mi chiedete», bisbigliò al dio che l’ascoltava. «Volete che io mi tolga l’ultimo vestigio della fede nella dea. Che riponga in voi tutta la mia fede e la mia fiducia.»

In equilibrio precario sulla scala, con le dita fredde che le tremavano, Mina tirò e strattonò le cinghie di cuoio umide che allacciavano la corazza.


Krell si maledisse per essere stato tanto idiota da farsi vedere così. Maledisse anche Mina, domandandosi quale pazza idea fosse passata per la mente della donna da farle guardare in su anziché in giù, da farle guardare direttamente verso di lui.

«Zeboim», mormorò Krell, e maledisse la dea, una maledizione che pronunciava quasi ogni ora di ogni giorno tormentato.

Non poteva più contare di cogliere di sorpresa Mina. Sarebbe stata pronta per lui, e sebbene lui non pensasse veramente che Mina potesse causargli alcun danno, si rammentava del fatto che questa era la donna che aveva superato Lord Soth, uno dei morti viventi più formidabili di tutta la storia di Krynn.

È meglio sopravvalutare il nemico che sottovalutarlo: era stata una massima di Ariakan.

«L’aspetterò in cima alla scala nera», decise Krell. «Sarà esausta, troppo stanca per opporre molta resistenza.»

Non voleva combattere con lei. Voleva catturarla viva. Lui catturava sempre vive le sue prede, se possibile. Un ladro sventurato, attirato al Bastione della Tempesta dalle dicerie sul tesoro abbandonato dai Cavalieri delle Tenebre, era rimasto tanto terrorizzato alla vista di Krell che era caduto morto ai piedi del cavaliere della morte, una grave delusione per Krell.

Lui aveva però fiducia in Mina. Era giovane, forte e coraggiosa. Gli avrebbe garantito una bella contesa. Sarebbe sopravvissuta per giorni.

Krell stava per allontanarsi dal monte Ambizione per tornare alla fortezza quando udì un rumore che gli avrebbe fatto sussultare il cuore se ne avesse avuto uno.

Da sotto giunsero un urlo terrorizzato di donna e il fragore metallico di un’armatura che si schiantava su rocce aguzze.

Krell corse al margine del promontorio, scrutò oltre il ciglio. Imprecò di nuovo e assestò un pugno a un macigno, fendendolo da cima a fondo.

La scala nera era vuota. Alla base del dirupo, quasi invisibile nell’acqua schiumante e ribollente, Krell poteva vedere galleggiare nel mare una corazza nera, ornata con un teschio colpito dal fulmine.

7

Mentre il suo urlo riecheggiava sulla parete del dirupo, Mina osservò l’elmo e la corazza neri urtare le rocce sottostanti e rimbalzare nell’acqua. Con la vista offuscata dalla penombra grigia della tempesta, da quella distanza non vedeva che l’armatura era vuota quando era precipitata giù dalla scalinata, e adesso era ormai invisibile nelle onde sferzanti. Sperava che la vista di Krell non fosse migliore.

Mina inspirò e introdusse a forza il proprio corpo nella fenditura della parete rocciosa. Anche senza corazza ce la fece a malapena, e per un istante spaventoso rimase incastrata. Dimenandosi disperatamente si liberò e si lasciò cadere con leggerezza a terra. Si fermò per riprendere fiato, attese che gli occhi le si abituassero al buio e pensò come era bello posare i piedi su un piano orizzontale e saldo. Era proprio bello sottrarsi al vento freddo e allontanarsi dalla spuma salata.

Mina si asciugò le mani come meglio poté sull’estremità della camicia, strofinandosele per ristabilire la circolazione. Non aveva né armatura né armi. Aveva gettato in mare non soltanto la corazza e l’elmo, ma anche, dopo un attimo di esitazione, la stella del mattino: aveva gettato via la bambina ansiosa e innocente che era andata a cercare gli dèi e li aveva trovati.

Mina aveva creduto in Takhisis, aveva obbedito ai suoi ordini, aveva sopportato le sue punizioni, eseguito i comandi della dea senza discutere. Aveva conservato la sua fede in Takhisis quando tutto aveva incominciato ad andare storto, aveva combattuto il dubbio che la rodeva come i ratti nel grano. Alla fine i suoi dubbi le avevano divorato tutte le provviste, cosicché quando la sua fede sarebbe dovuta essere al massimo della forza, quando lei sarebbe dovuta essere pronta a sacrificarsi per amore della dea, tutto ciò che rimaneva era paglia. Mina allora aveva conosciuto un dispiacere lacerante, dispiacere per la sua perdita, e provò in parte lo stesso dispiacere quando gettò in mare le ultime vestigia della sua fede nell’Unico Dio.

L’innocenza non esisteva più. La fede indiscussa non esisteva più. Così aveva osato domandare a Chemosh: «Che cosa mi darete in cambio?». Anche se gli aveva ormai dato prova di appartenere a lui, non voleva essere il suo fantoccio e danzare al suo comando, e neppure essere la sua schiava e strisciargli ai piedi. Da sola nel buio del Bastione della Tempesta, Mina ascoltò. Non restava in ascolto della voce del dio affinché le dicesse che cosa fare. Ascoltava la propria voce, il proprio consiglio.

L’Era dei Mortali. Forse questo era ciò che intendevano i saggi, ciò che intendeva Chemosh. Una collaborazione fra dio e uomo. Era una premessa interessante.

La fioca luce del giorno grigio filtrava attraverso la fenditura della parete e faceva capolino da altri varchi più piccoli. Quando gli occhi le si abituarono alle ombre, Mina poté vedere gran parte della sala. Era, come lei aveva immaginato, una stanza adibita a deposito, non soltanto di grano ma anche di altre provviste.

A terra vi erano alcune casse e scatole di legno, con i coperchi strappati via e il contenuto riversato fuori. Mina poteva raffigurarsi i cavalieri, nella loro fretta ansiosa di partire dal Bastione della Tempesta per iniziare la conquista di Ansalon, sfondare le casse per vedere che cosa contenessero, accertandosi di non lasciare lì nulla di valore. Mina diede un’occhiata alle scatole mentre le superava, diretta verso una porta con listelli di ferro situata all’estremità della stanza. Notò attrezzi arrugginiti e coperti di polvere, come quelli usati dai fabbri, e alcune pezze di tessuto di lana, ormai ammuffite e mangiate dalle tarme. Da anni si sentivano dicerie secondo cui i cavalieri avevano lasciato lì cumuli di tesori. Le dicerie avevano senso, poiché era improbabile che i cavalieri fossero volati in battaglia a dorso di drago trasportando forzieri di monete d’acciaio. Ma in tal caso il tesoro non era lì. Sotto i passi di Mina, i suoi stivali facevano scricchiolare escrementi essiccati di ratto e noccioli sbocconcellati, tutto quanto rimanesse della potenza dei Cavalieri delle Tenebre di Takhisis.

Mina raccolse una spranga di ferro. Se la porta del granaio fosse stata chiusa a chiave, lei avrebbe avuto bisogno di un attrezzo per forzare la serratura. Sperava di non dover fare ricorso a questo. Krell doveva considerarla morta, uccisa nella caduta dalla scalinata, e lei non voleva fare niente per destare sospetti in lui. Anche se non lo sapeva per certo, immaginava che il cavaliere della morte conservasse la sua potenza di udito e perfino al di sopra del lamento funebre del vento (il piagnucolio della dea addolorata e infuriata) potesse essere in grado di cogliere il rumore di qualcuno che con una spranga di ferro picchiasse contro una serratura di ferro.

Quando Mina raggiunse la porta, pose la mano sulla maniglia e spinse delicatamente. Con suo sollievo la porta si aprì. Non era sorprendente, a pensarci bene. Perché preoccuparsi di chiudere a chiave la porta di un magazzino vuoto?

La porta si apriva su un corridoio, con lo stesso pavimento lastricato in pietra e le pareti sgrossate. Il corridoio era molto più buio del magazzino. Niente fenditure sulle pareti. Lei non aveva fiaccole né alcun modo per accenderne una. Sarebbe dovuta procedere a tentoni.

Mina richiamò dalla memoria la mappa della fortezza che aveva lasciato stivata al sicuro nella barca. Prima di intraprendere questa avventura si era recata nella città di Palanthas per far visita alla famosa biblioteca della città. Lì aveva chiesto a uno degli Esteti una mappa del Bastione della Tempesta. Pensando che lei fosse una sconsiderata cercatrice di tesori, il giovane e serio Esteta aveva cercato in tutti i modi di dissuaderla dal rischiare la vita in un’avventura tanto temeraria. Mina aveva insistito, e in base alle regole della biblioteca, secondo cui tutta la conoscenza era disponibile a chiunque la ricercasse, lui le aveva portato la mappa richiesta, una mappa disegnata dallo stesso Lord Ariakan.

Il granaio non era stato segnato sulla mappa. Ariakan aveva inserito soltanto quelle zone che lui considerava importanti: sale riunioni, caserme, alloggi, ecc. Mina aveva soltanto un’idea molto vaga di dove si trovasse, più che altro basandosi su dove non si trovasse.

L’insenatura era situata sul lato meridionale dell’isola, il che significava che lei era entrata nel granaio da sud e attualmente era rivolta verso est. Poiché il granaio era costruito adiacente alla scalinata, Mina non riteneva probabile che il corridoio si estendesse verso sud, poiché quello era un vicolo cieco. Si diresse pertanto verso nord nell’uscire, chiudendosi alle spalle la porta del granaio.

Non era probabile che Krell scendesse lì sotto, ma se l’avesse fatto non avrebbe trovato la porta aperta, a indicare che qualcuno stava curiosando lì intorno. Ma chiudendo la porta Mina lasciò fuori tutta la fioca luce proveniente dal granaio, finendo nell’oscurità completa. Non vedeva niente davanti a sé né sui due lati. Strascicò i piedi sul pavimento nel tentativo di evitare di incespicare su qualche ostacolo invisibile. Sperò di non dovere procedere a lungo nel buio.

Non aveva fatto molti passi quando notò che il pavimento incominciava a farsi ripido.

«Una rampa», disse fra sé, immaginandosi schiavi che spingevano carriole colme di grano.

Proseguì lungo la rampa e finì dritta contro una porta che prese ad aprirsi quando il suo stivale la colpì. Col cuore in gola, Mina afferrò la porta e la tenne chiusa. Aveva intravisto brevemente ciò che vi era al di là della porta: un cortile, in piena vista. Per quanto ne sapesse lei, Krell poteva essere là fuori in quel cortile, a fare una passeggiata pomeridiana.

Se era pomeriggio. Mina aveva perso la cognizione del tempo, ed era una cosa in più di cui preoccuparsi. Non voleva essere sorpresa da sola con Krell sul Bastione della Tempesta al calar della notte. Aprendo la porta di uno spiraglio, sbirciò fuori.

La piazza d’armi, lastricata di ciottoli, era vuota. Era vasta e Mina la riconobbe dalla mappa. La piazza d’armi si trovava all’ombra di un’alta torre, e adesso Mina sapeva esattamente dove si trovava. A giudicare dalla forma e dall’ubicazione, doveva essere la Torre Centrale, una struttura massiccia che ospitava le principali sale riunioni, le sale da pranzo, gli alloggi dei servitori. Lord Ariakan aveva le sue stanze in quella Torre. Si riteneva vi fosse anche una camera che conduceva direttamente al piano di esistenza in cui dimorava un tempo Takhisis. Non lontano da questa vi era la Torre del Giglio, dove era di stanza il reparto di élite dei Cavalieri del Giglio, e all’estremità opposta della fortezza si ergeva la Torre del Teschio, sede dell’ala arcana dei Cavalieri delle Tenebre. Sparsi fra le tre torri vi erano numerosi fabbricati annessi.

La planimetria bidimensionale che Mina aveva esaminato nella biblioteca di Palanthas non trasmetteva l’immensità della fortezza. Mina non si era resa conto, alla partenza, quanto fosse grande la struttura né quanto terreno occupasse. E non aveva idea di quale edificio abitasse Krell. Scrutando la distesa spazzata dal vento della piazza d’armi, Mina incominciò a domandarsi se fosse stata buona la sua idea di entrare di soppiatto nella fortezza.

«Potrei trascorrere giorni a vagare in questo posto alla ricerca di Krell», si rese conto. «Niente cibo e niente acqua. Senza osare dormire per paura che lui mi uccida.»

Tutto sommato, sarebbe stato meglio per lei sfidare la sorte e affrontare Krell sulla scalinata.

Mina scrollò il capo, si scrollò via i dubbi. «Chemosh mi ha portata qui. Lui non mi abbandonerà.»

Con rinnovata fiducia, Mina diede una spinta alla porta e fece per uscire e attraversare la piazza d’armi.

E lì c’era Krell, che usciva da dietro un muro, proveniente dalla direzione dei dirupi su cui lei l’aveva visto per l’ultima volta.

Mina si immobilizzò, non osando muoversi né respirare.

Krell la oltrepassò, ad appena due metri di distanza. Se lei fosse uscita dal nascondiglio un istante prima, avrebbe commesso il madornale errore di imbattersi in lui. Il cavaliere della morte era ripugnante a vedersi. Il tormento ardente della sua vita maledetta fiammeggiava di rosso nelle ombre delle fessure per gli occhi del suo elmo a cranio d’ariete. Mina sapeva che se lui si fosse tolto l’elmo sarebbe stato ancora più ripugnante, poiché al di sotto non vi era nulla. Nulla tranne il buco ricavato nell’esistenza in cui vi era stata la sua vita, e quel buco era più nero dell’oscurità dentro una tomba sepolta in una cripta dimenticata.

La sua armatura snodata e sfaccettata, decorata col teschio e col giglio, era macchiata del sangue che Zeboim gli aveva prosciugato nell’arco di molti giorni di tortura. Il sangue luccicava di rosso, fresco come nel giorno in cui l’aveva versato fra urla di dolore. La pioggia sferzante non lavava mai via il sangue. Camminando Krell lasciava impronte insanguinate.

Portava una spada che gli sferragliava al fianco, ma la sua arma più potente era la paura. Avrebbe usato la paura per ridurre lo spirito di Mina a una poltiglia tremante, così come avrebbe usato i pugni per ridurle in poltiglia la carne e le ossa.

La paura che emanava da lui a ondate colpì Mina, che si sgomentò e si fece piccola per il timore. Quando aveva affrontato l’altro cavaliere della morte, Lord Soth, era armata della potenza dell’Unico Dio. Portava in mano l’arma dell’Unico Dio. Soth non aveva potere su di lei. Era stato sepolto sotto le macerie della sua fortezza.

Mina non indossava più un’armatura sacra. Chemosh le aveva chiesto di gettare via l’armatura come prova di fede. Doveva affrontare quel formidabile cavaliere della morte indossando una camicia di lana inzuppata di pioggia che le aderiva umida al corpo snello, sembrando sottolineare il fatto che lei era fatta di carne morbida e tremante e lui era fatto di acciaio e di morte.

La paura la paralizzava. Non riusciva a muoversi, ma rimaneva accovacciata sulla soglia, con lo stomaco che le si stringeva, i muscoli delle gambe che le si contorcevano in spasmi dolorosi. Se Krell avesse voltato la testa, l’avrebbe vista tremante sulla soglia, pusillanime come un nano di fosso. Sarebbe arrivato con furia su di lei e Mina si sarebbe fatta piccola e inerme davanti a lui.

Mina chiuse gli occhi, distolse lo sguardo. La tentazione di fuggire la sopraffaceva, e lei si sforzò di controbatterla.

«Ho percorso da sola la valle maledetta di Neraka», disse digrignando i denti. «Ho sopportato le prove della Regina delle Tenebre. Takhisis mi teneva in pugno, e la sua gloria mi inaridiva la carne, eppure adesso io tremo davanti a questo pezzo di escremento. Io sono forse audace soltanto quando gli dèi mi tengono per mano? È questo il modo per dimostrare a Chemosh di che cosa sono capace?»

Mina aprì gli occhi. Si costrinse a guardare Krell, lo fissò intensamente. Smise di tremare. Gli spasmi muscolari le si alleviarono. Inspirò profondamente due volte e si rilassò.

Krell non l’aveva né vista né udita. Passò oltre, imprecando ad alta voce per avere perduto la preda e agitando il pugno con rabbia impotente. Qualunque tormento avesse predisposto per lei, Krell era dolorosamente deluso per avere perduto questa occasione.

Mentre Krell avanzava a grandi passi per la piazza d’armi, il suo tormento lo colpiva e lo lacerava. Il vento della collera della dea lo sferzava. Krell aveva difficoltà a camminare contro quel vento furioso, pur essendo di costituzione forte e poderosa. Nubi nere ribollivano e si addensavano in alto. Fulmini si abbattevano ai suoi piedi, scagliando all’insù pezzi di roccia e in un’occasione facendo cadere Krell in ginocchio. Il rimbombo del tuono quasi continuo faceva tremare il suolo.

Rimettendosi in piedi barcollando, Krell agitò il pugno verso i cieli. Non stuzzicò però ulteriormente la dea, ma corse verso la Torre del Giglio con un trotterellare goffo, ostacolato dall’armatura.

Mina attese che lui fosse a metà della piazza d’armi, quindi lo seguì. Aveva sperato che la dea si acquietasse alla sua comparsa, che la tempesta si placasse per lei. Le fu presto tolta ogni illusione in proposito. Nel momento in cui mise piede sulla piazza d’armi, una folata di vento la colpì, spingendola giù a quattro zampe. La pioggia lancinante la picchiettava con forza pungente e accecante.

Zeboim, a quanto pareva, non faceva favoritismi.

Per lo meno Krell non fu incline a fermarsi nel mezzo del ciclone per guardarsi alle spalle e vedere se fosse seguito. Stava dirigendosi verso la torre quanto più velocemente potessero condurlo i suoi passi pesanti.

Sollevandosi in piedi, Mina combatté contro la tempesta e lo seguì.


Krell era di malumore. Il cavaliere della morte non era mai realmente di buonumore, ma certi giorni per Krell erano migliori di altri. Certi giorni era fortunato ad avere i vivi attorno a intrattenerlo. Certi giorni, se Zeboim era impegnata altrove, lui poteva percorrere la piazza d’armi e ricevere solo una lieve spruzzata. Proprio oggi, però, la Strega del Mare doveva essersi piazzata direttamente lì sopra.

Adirato e gocciolante, Krell entrò a grandi passi nella biblioteca in cui aveva predisposto tutto in previsione della sua visitatrice, il cui corpo spezzato e sanguinante stava ora offrendo cibo agli squali.

Krell lasciò cadere su una sedia il proprio corpo munito di armatura e fissò imbronciato il tabellone per il gioco e la sedia vuota dall’altra parte. Krell era stufo di giocare a khas contro se stesso.

Krell era un avido giocatore di khas, al pari dei molti Cavalieri di Takhisis. Steel Brightblade una volta aveva scherzato dicendo che la conoscenza del gioco era un requisito per entrare a far parte dell’ordine dei cavalieri, e in ciò non aveva tutti i torti. Ariakan, un ottimo giocatore, riteneva che quel gioco intricato insegnasse a riflettere non solo sui propri stratagemmi ma anche su quelli degli avversari, consentendo di prevedere con molto anticipo le mosse degli oppositori. I buoni giocatori di khas costituivano dei buoni comandanti, o per lo meno così riteneva Ariakan.

Krell e Ariakan avevano trascorso molte ore di contesa sul tabellone del khas. I ricordi di quelle ore gli erano ritornati al gran completo quando Krell aveva ordito l’assassinio del suo comandante. Ariakan aveva sempre battuto Krell a khas.

Il tabellone rotondo del khas con le sue caselle esagonali nere, rosse e bianche si trovava nel suo posto consueto su un supporto in ferro battuto davanti all’enorme caminetto. I pezzi di giaietto nero e giada verde intagliati a mano si guardavano torvi da un lato all’altro del campo di battaglia nero, rosso e bianco. Krell era nel bel mezzo di una partita contro se stesso (in queste contese di solito vinceva), ma aveva rapidamente azzerato la partita per rimettere i pezzi nella posizione di partenza.

Adesso avrebbe dovuto ricominciare. Accigliandosi, allungò la mano guantata, afferrò una pedina e la spostò su una casella adiacente. Lasciò andare la pedina; stava per alzarsi e spostarsi sulla sedia dall’altra parte del tabellone quando cambiò idea. Avrebbe utilizzato un’altra apertura. Allungò la mano per prendere la pedina e stava per modificarne la posizione quando da dietro le sue spalle parlò una voce: una voce vivente.

«Non puoi», disse Mina. «È contro le regole. Hai staccato la mano dal pezzo. Deve restare dove l’hai messo.»

In vita o in morte, Ausric Krell non era mai rimasto tanto sbalordito.

Si girò di scatto per vedere chi avesse parlato. Una femmina snella, vestita con abiti bagnati fradici, dai capelli rossi come la furia di Krell e dagli occhi di ambra dorata, era lì in piedi con una spranga di ferro tra le mani. Era sul punto di portare un colpo con la spranga verso la testa di Krell.

Sbalordito dalla vista di lei viva quando aveva presunto che fosse morta, sconvolto dalla sua temerarietà e dal fatto che non fosse prostrata dal terrore davanti a lui, e colto impreparato dalla rapidità e dalla subitaneità dell’attacco, Krell ebbe il tempo di emettere un ringhio furioso prima che la spranga di ferro gli si schiantasse sull’elmo.

Una fiamma rossa incandescente illuminò le tenebre permanenti in cui viveva Krell, quindi si smorzò.

Le tenebre di Krell si fecero ancora più buie.


Il colpo di Mina, portato con tutta la forza repressa della sua paura e della sua determinazione, staccò l’elmo dal corpo di Krell e lo mandò a rimbalzare sferragliando per la stanza fino a scontrarsi con alcuni dei cadaveri che lui aveva sospinto nell’angolo. L’armatura in cui era stata racchiusa l’energia del morto vivente rimase eretta, seduta sulla sedia, mezzo girata all’indietro, con una mano ancora stesa per prendere il pezzo del khas, l’altra mano sollevata con un movimento inefficace per cercare di fermare l’attacco di Mina.

Mina tenne la spranga in posizione per un altro colpo, osservando con circospezione sia l’elmo a terra sia l’armatura sulla sedia, pronta a colpire se l’elmo avesse vacillato o l’armatura insanguinata si fosse appena contratta.

L’elmo rimase fermo. L’armatura invece si mosse. La si sarebbe potuta esporre in qualche palazzo della nobiltà di Palanthas. Mina stava per emettere un sospiro tremante e abbassare la spranga quando la porta si spalancò alle sue spalle, schiantandosi contro la parete di pietra con un tonfo da far sussultare il cuore. Mina sollevò la spranga e si girò rapidamente per affrontare questo nuovo nemico.

La folata di vento annunciò l’arrivo della dea.

Zeboim sembrava vestita di tempesta, i suoi indumenti morbidi erano in movimento continuo, le volteggiavano attorno come i venti mutevoli quando entrò nella stanza. Mina abbassò la spranga e cadde in ginocchio.

«Dea del Mare e della Tempesta, ho fatto ciò che avevo promesso. Lord Ausric Krell, il cavaliere traditore che vilmente assassinò vostro figlio, è annientato.»

Con la testa china, Mina sbirciò da sotto le ciglia per vedere la reazione della dea. Zeboim superò rapidamente Mina senza degnarla di uno sguardo, tenendo gli occhi verde mare fissi sull’armatura insanguinata e sull’elmo metallico più lontano nell’angolo: tutto quel che rimaneva di Ausric Krell.

Zeboim toccò l’armatura con la punta delle dita, quindi le diede una spinta.

L’armatura crollò. Le manopole di maglia di ferro caddero a terra. La corazza si accasciò lateralmente sulla sedia. Gli schinieri caddero a destra e a sinistra. I due stivali rimasero in piedi, fermi, in posizione. Zeboim andò verso l’elmo. Spinse fuori un piede delicato, impartendo all’elmo una spintarella sdegnosa con le dita del piede. L’elmo a cranio d’ariete dondolò un po’, quindi si fermò. Le orbite vuote, nere come la morte, fissavano il nulla.

Mina rimase in ginocchio, con la testa china, le braccia incrociate sul petto con aria di umile supplica. Il vento che scortava la dea era freddo e pungente, e Mina tremava in maniera irrefrenabile. Controllava la dea con la coda dell’occhio.

«Tu hai fatto questo, verme?» domandò Zeboim. «Da sola?»

«Sì, maestà», rispose umilmente Mina.

«Non ci credo.» Zeboim si guardò rapidamente attorno nella stanza, come fosse certa che dovesse esserci un esercito nascosto tra gli scaffali o un aitante guerriero infilato in un armadio. Non trovando alcunché tranne i ratti, la dea tornò a guardare Mina. «D’altronde eri la cocca di mamma. Deve esserci in te qualcosa di più di quanto appaia in superficie.»

La voce della dea si addolcì, si scaldò alla primavera, un’increspatura di alito sull’acqua inondata dal sole. «Hai scelto un nuovo dio da seguire, bambina?»

Prima lei era stata «verme». Adesso era «bambina». Mina dissimulò il sorriso. Aveva previsto questa domanda e si era preparata la risposta. Tenendo gli occhi bassi, Mina rispose: «La mia devozione e la mia fede vanno a chi è morto».

Zeboim si accigliò, spiaciuta. «Bah! Takhisis non può fare più niente per te. Una fede come la tua andrebbe ricompensata.»

«Io non chiedo alcuna ricompensa», ribatté Mina. «Io cerco soltanto di servire.»

«Sei una bugiarda, bambina, ma una bugiarda tanto divertente che ci passerò sopra.»

Con una fitta di preoccupazione, Mina alzò lo sguardo verso la dea. Zeboim le aveva forse letto nel cuore?

«I meno intelligenti del pantheon potrebbero lasciarsi ingannare dalla tua ostentazione di pietà, ma io no», proseguì sdegnosa Zeboim. «Tutti i mortali vogliono una ricompensa in cambio della loro fede. Nessuno fa mai qualcosa per niente.»

Mina respirò più sollevata.

«Coraggio, bambina», proseguì Zeboim con tono adulatorio, «hai rischiato la vita per annientare questo verme di Krell. Qual è la vera ragione? E non dirmi che l’hai fatto perché il suo tradimento offendeva il tuo fine senso dell’onore».

Mina alzò lo sguardo per incrociare gli occhi grigio-verdi della dea. «Io desidererei effettivamente qualcosa, se non è chiedere troppo, maestà.»

«Mi pareva!» Zeboim era soddisfatta. «Che cosa vuoi, bambina? Una cassa da marinaio piena di smeraldi? Mille fili di perle? Una tua flotta di velieri? O forse il favoloso tesoro dei Cavalieri delle Tenebre nascosto nelle cripte di sotto? Mi sento generosa. Dimmi il tuo desiderio e te lo concederò.»

«L’elmo del cavaliere della morte, mia signora», rispose Mina. «È questo che voglio.»

«Il suo elmo?» ripeté Zeboim, strabiliata. Fece un gesto di disprezzo verso l’elmo che giaceva per terra, accanto alla mano mummificata di una sua vittima. «Quel mucchio di metallo non vale quasi niente. Un circo itinerante potrebbe darti qualche moneta in cambio, ma dubito che anche questo possa essere molto interessato.»

«Nondimeno è ciò che voglio», ribadì Mina. «È il mio desiderio.»

«Prendilo, allora, senza dubbio», acconsentì Zeboim, soggiungendo con un mormorio: «Sciocca ragazzina. Avrei potuto renderti ricca più di quanto tu abbia mai sognato. Non riesco a immaginare che cosa vedesse in te mia madre».

Mina si alzò in piedi. Consapevole dello sguardo infastidito della dea su di lei, oltrepassò il tabellone del khas, l’armatura caduta, le due sedie, fino all’angolo opposto. L’elmo a cranio d’ariete giaceva a terra. Mina diede un’occhiata a Zeboim. Gli occhi sempre cangianti della dea erano diventati grigi come le mura di pietra del Bastione. I venti inquieti le agitavano i capelli e gli abiti.

«Sperava di intrappolarmi», disse fra sé Mina, girandosi dall’altra parte. «Mantenermi in debito con lei colmandomi di ricchezze. Io non ho mentito. La mia devozione e la mia fede vanno a chi è morto, ma non alla morta a cui pensava lei.»

Mina raccolse l’elmo, lo esaminò con curiosità. Le corna d’ariete si arricciavano all’indietro a partire dall’orribile cranio che formava la visiera. Ciascun cavaliere era libero di scegliere il proprio simbolo da usare nel disegno dell’armatura. Mina trovava affascinante che Krell avesse scelto un ariete. Doveva sentire il bisogno di dimostrare qualcosa. Sollevò il pesante elmo e se lo ficcò goffamente sottobraccio. Le punte delle corna e i margini frastagliati d’acciaio le punzecchiavano fastidiosamente la carne.

«Qualcos’altro?» domandò caustica Zeboim. «Forse vorresti uno dei suoi stivali come souvenir?»

«Vi ringrazio, mia signora», disse Mina, fingendo di non notare il sarcasmo. Fece un inchino. «Vi riverisco e vi onoro.»

Zeboim sbuffò. Scrollando il capo, osservò Mina con gli occhi ridotti a fessure. «Se c’è qualcos’altro che desideri, sarò obbligata.»

Mina percepì una trappola. Si interrogò mentalmente, chiedendosi dove volesse arrivare Zeboim.

«Un viaggio tranquillo per lasciare questo scoglio?» suggerì la dea.

Mina si morse il labbro. Forse si era spinta troppo oltre. La dea delle onde poteva facilmente farla annegare.

«Sì, maestà», rispose col tono più umile. «Anche se forse è più di quanto io meriti.»

«Risparmia il tuo servilismo per qualcuno che lo apprezzi», sbottò stizzosa Zeboim. «Comincio a pentirmi di averti concesso il mio favore. Credo che mi mancherà Krell da tormentare.»

«Non mi avete concesso nessun favore, mia signora», disse Mina fra sé, non ad alta voce. Attese in stato di tensione di udire il verdetto della dea. Nemmeno Chemosh poteva proteggerla quando avesse fatto vela sul mare che era dominio di Zeboim.

La dea rivolse a Mina e all’elmo un’ultima occhiata di sdegno e di scherno. Quindi girò sui talloni, uscendo dalla biblioteca. Il vento della sua collera ululò e lacerò Mina, la colpì con forza schiacciante, percuotendola finché lei cadde in ginocchio per evitare i colpi. Mina si accovacciò sul pavimento, con la testa china, tenendo fra le braccia l’elmo, mentre il vento la sferzava.

E poi tutto si calmò. Il vento emise un ultimo sibilo irritato e poi si ridusse a niente.

Mina sospirò profondamente. Questa era la risposta della dea, o per lo meno così sperava lei. Si alzò in piedi troppo rapidamente e barcollò, quasi ricadendo. Gli incontri col cavaliere della morte e con la dea le avevano prosciugato il corpo e lo spirito. Era arsa dalla sete e, sebbene vi fosse acqua piovana in abbondanza raccolta in pozzanghere profonde e ampie quasi quanto laghetti, l’acqua aveva un aspetto oleoso e odorava di sangue. Non l’avrebbe bevuta per tutti i fili di perle del mondo. E doveva ancora ritornare alla scala nera, discendere quegli scalini spezzati e scivolosi fino al punto in cui l’attendeva la sua barchetta, quindi compiere il viaggio per mare, sul petto ondeggiante di una dea irata.

Si incamminò stancamente verso la porta. Per lo meno la tempesta si era placata. La pioggia adesso era un’acquerugiola mormorante. Il vento era calmo, anche se di quando in quando si rafforzava con folate maligne.

«Hai agito bene, Mina», la lodò Chemosh. «Sono soddisfatto.»

Mina sollevò la testa, si guardò attorno, sperando che il dio fosse lì con lei sul Bastione della Tempesta. Non si vedeva da nessuna parte e Mina capì subito di essere stata sciocca a pensare che lui potesse essere arrivato. Zeboim la stava ancora osservando e la presenza di lui avrebbe svelato tutto.

«Sono contenta di avervi compiaciuto, mio signore», mormorò Mina, accalorata dall’ardore della sua lode.

«Zeboim manterrà la sua promessa e calmerà i mari per te. Ti ammira. Ha ancora la speranza di conquistarti.»

«Mai, mio signore», disse con fermezza Mina.

«Io lo so, ma lei no; pertanto non mettere troppo a lungo alla prova la sua pazienza. Hai l’elmo di Krell?»

«Sì, mio signore. Ce l’ho con me, come voi avete ordinato.»

«Tienilo al sicuro.»

«Sì, mio signore.»

«Torna presto fra le mie braccia, Mina», concluse Chemosh.

Mina sentì un contatto sulla guancia: il bacio di lui le sfiorò la pelle. Mina si premette la mano sulla guancia, chiuse gli occhi e si godette il calore. Quando riaprì gli occhi si sentì rinvigorita, come se avesse mangiato e bevuto.

Ricordandosi dell’elmo, strappò via un mantello lacero a uno dei molti cadaveri disseminati nella stanza e lo legò attorno all’elmo, tenendolo in posizione con una cintura di cuoio che prese a un’altra vittima. Portando a spalla l’elmo nel suo fagotto, Mina uscì dalla Torre del Giglio e attraversò la piazza d’armi, dirigendosi verso la scala nera e la sua barchetta.

8

Dal suo punto di osservazione nei cieli, Zeboim osservò la barca di Mina muoversi a scatti sull’acqua del mare scintillante di sole, puntando verso una lingua di costa desolata e circondata da rocce. Dea inquieta, dea crudele, Zeboim avrebbe potuto sollevare un’onda per rovesciare la piccola imbarcazione oppure richiamare un drago marino per divorarla o fare numerose altre cose per tormentare o uccidere quella mortale. Per lei non sarebbe stato niente. Talvolta affondava intere navi colme di anime viventi, inviando passeggeri e marinai a una morte terrificante per annegamento o guardandoli soffrire per giornate di fila, ammassati in minuscole scialuppe di salvataggio fino a morire di sete e di esposizione agli elementi o a essere divorati dagli squali.

Zeboim si deliziava delle loro suppliche disperate. Amava ascoltare le loro invocazioni. Le promettevano qualunque cosa se solo lei avesse risparmiato loro la vita. Talvolta li ignorava, li lasciava morire. Altre volte ascoltava le loro preghiere e li salvava. Le sue azioni non erano basate sul puro capriccio, come spesso dicevano le accuse rivoltele dai mortali e dagli altri dèi. Zeboim era una dea calcolatrice e intelligente, che sapeva recitare per il pubblico.

I marinai morti non lasciavano doni ai suoi altari né riempivano i cieli con canti di lode per lei. Invece i marinai che sfuggivano alla morte per annegamento non passavano mai davanti a un tempio della Dea del Mare senza fermarsi per lasciare un segno della loro gratitudine. I marinai che temevano l’annegamento le donavano le offerte migliori, sperando di meritarsi la sua considerazione. Per evitare che tutti tornassero da lei, Zeboim doveva annegarne alcuni di quando in quando. Lo stesso valeva per uragani e maremoti, inondazioni e cicloni. L’uomo che vedeva il proprio figlio portato via da un torrente impetuoso urlava il nome di Zeboim e la benediceva o la malediceva, secondo che la mano della dea calasse per tirare fuori il ragazzo o per tenerlo sotto. Benedizioni o maledizioni, erano tutte acqua al suo mulino, poiché nella successiva stagione piovosa quell’uomo sarebbe stato nel tempio della dea, a pregarla di risparmiare la vita degli altri suoi figli.

Quanto a stabilire chi dovesse vivere e chi morire, Zeboim era un po’ capricciosa in proposito. Poteva anche annegare il proprietario di navi che aveva pagato la costruzione del suo nuovo tempio e tenere in vita invece il mozzo che aveva dato in offerta una monetina piegata e soltanto perché costretto dalla madre. Annegava anche i propri sacerdoti, giusto per tenere tutti in allerta.

Riguardo a Mina, la giovane donna affascinava la dea. Certo, Zeboim l’aveva denigrata durante le loro conversazioni. Ma questa era apparenza; Zeboim non dava mai potere a un mortale sembrando favorirne uno rispetto a un altro.

Sebbene Zeboim disprezzasse Takhisis, doveva ammettere che sua madre aveva talento per trovare bravi servitori, e questa Mina era audace e intelligente, coraggiosa e fedele, chiaramente un gioiello fra i mortali. Zeboim voleva che Mina la adorasse, e mentre osservava la barca giungere a un approdo sicuro e Mina allontanarsene, stringendo il fagotto in cui aveva avvolto l’elmo del cavaliere della morte, la dea si trastullò con vari progetti per cercare di conquistarla.

Sembrò che Zeboim avesse avuto un inizio favorevole. Il tempio della Dea del Mare fu il primo luogo in cui Mina andò dopo essere sbarcata, a rendere grazie per il viaggio sicuro. La preghiera di Mina fu cortese e adeguatamente rispettosa, e Zeboim, anche se avrebbe preferito una maggiore umiliazione e magari pure qualche lacrima sentita rimase soddisfatta. Si avvolse di nubi temporalesche e non avendo nulla di più interessante da fare ritornò al Bastione della Tempesta per trascinare via l’anima di Krell dal piano di esistenza immortale, qualunque fosse, in cui si trovava (forse lui immaginava ingenuamente di poterle sfuggire) e ricondurlo nella sua prigione.

Una folata di vento e un lampo annunciarono il suo arrivo nella Torre del Giglio. Zeboim incrociò le braccia sul petto e guardò giù con un sorriso maligno verso l’armatura vuota.

«Senza dubbio la tua anima miserabile sta girando attorno in circolo, cercando una via d’uscita da questa esistenza maledetta, Krell. Forse pensi di sfuggirmi questa volta. Non sarai tanto fortunato. Le mie mani arrivano lontano.» Zeboim fece seguire l’azione alle parole. Stendendo il braccio, infilò la mano nell’armatura.

«Mi basta afferrarti per i peli e trascinarti di nuovo...»

Zeboim ritrasse la mano, la scrutò, aspettandosi di vedere l’anima di Krell, piccola per la paura e gemente, a dimenarsi nel pugno.

Aveva la mano vuota.

Zeboim guardò nel piano di esistenza immortale, alla ricerca dell’anima di Krell.

Il piano era vuoto.

Zeboim diede un colpo con la mano all’armatura metallica, che si disintegrò in frammenti di metallo non più grandi di un granello di polvere. Febbrilmente la dea agitò i frammenti.

L’armatura era vuota. Niente appostato al suo interno che cercasse di sottrarsi all’ira di lei.

Rapida come venti di uragano, Zeboim girò per tutto il Bastione, perlustrando ogni fessura e ogni crepa. Fu tentata di svellere la fortezza, pietra su pietra, ma avrebbe soltanto perso tempo. Capì la verità. L’aveva intuita nel momento in cui aveva toccato quell’armatura vuota. Le ripugnava ammetterlo.

Krell non c’era più. Le era sfuggito.

Zeboim vide Mina in ginocchio, udì le sue parole.

La mia devozione e la mia fede vanno a chi è morto.

«Ah, piccola vacca astuta.» Zeboim imprecò selvaggiamente. «Piccola vacca astuta, cospiratrice, ladra. "La mia fede va a chi è morto". Non intendevi mia madre. Intendevi Chemosh!»

Pronunciò il nome in un empito di furia che fece ribollire e schiumare i mari. I venti di tempesta infuriarono, i fiumi strariparono. L’ira di Zeboim scosse le fondamenta stesse dell’Abisso, dove Chemosh percepì la furia della dea e sorrise.

9

Chemosh percorreva a grandi passi il mondo, attendendo che Mina tornasse da lui. Cercò di interessarsi a ciò che avveniva nel mondo, poiché si stavano svolgendo eventi che avrebbero avuto un effetto sui suoi progetti e sulle sue ambizioni. Osservò con preoccupazione il concentramento di truppe dei minotauri a Silvanesti. Sargonnas si stava preparando ad assumere il comando del pantheon delle Tenebre e non sembrava esserci molto che potesse fermarlo adesso. Chemosh aveva qualche idea in proposito, ma non era ancora pronto a metterla in pratica. Pazienza. Questa era la soluzione. La fretta è cattiva consigliera.

Passò a dare un’occhiata a Mishakal, poiché di recente l’aveva aggiunta all’elenco di dèi che minacciavano la sua ambizione. Non riusciva a crederci, ma quella dea, che un tempo era stata nota per i suoi modi gentili e senza pretese, ultimamente era divenuta piuttosto militante. Incominciava a infastidire seriamente Chemosh, poiché i suoi chierici non si limitavano a sedersi al capezzale dei malati ma molestavano i chierici di lui, abbattendone i templi e uccidendone gli zombie. Certo, a Chemosh non piacevano molto gli zombie, ma erano suoi e ucciderli era un affronto a lui stesso. Presto avrebbe sistemato anche questa cosa. Avrebbe presentato a Mishakal e a quei pietisti dei suoi chierici un mistero tenebroso che avrebbero avuto difficoltà a risolvere, purché Mina dimostrasse di essere tutto quanto lui riteneva e sperava che fosse.

Gli altri dèi non costituivano una grossa minaccia. Kiri-Jolith era concentrato sul ristabilimento del suo culto fra i Cavalieri di Solamnia e altri individui bellicosi. Chislev danzava con gli unicorni nella sua foresta, contenta di avere di nuovo con sé gli alberi. Majere osservava una coccinella arrampicarsi sullo stelo di un dente di leone e si meravigliava per la perfezione dell’insetto e della pianta. Gli dèi della magia erano coinvolti nella loro politica e nei bisticci su che fare riguardo al flagello della stregoneria che aveva risollevato la testa giocosa nel loro mondo ben ordinato. Gli dèi della neutralità se ne andavano qua e là rimanendo saldamente neutrali e non vincolati a niente, per timore che anche un semplice starnuto sconvolgesse il delicato equilibrio in favore di una parte o dell’altra.

Qualcosa l’avrebbe sconvolto e non sarebbe stato uno starnuto. Mina era il peso d’oro in mano al Signore della Morte, il peso d’oro che sarebbe caduto sul piatto della bilancia e l’avrebbe rovesciata completamente.

Chemosh non era stato per nulla certo che Mina riuscisse nell’impresa da lui assegnatale. Sapeva che lei era una mortale straordinaria, ma era mortale e per giunta era umana, una combinazione spesso insoddisfacente. Lui era rimasto piacevolmente sorpreso quando Mina era scesa dalla piccola barca a vela, portando fra le braccia il fagotto con l’elmo. Più che sorpreso, era ammirato. Erano trascorsi millenni dall’ultima volta in cui aveva guardato un mortale con qualcosa di simile all’ammirazione.

Il loro luogo di appuntamento concordato era un antico tempio dedicato al suo culto a una certa distanza dalla costa di Solamnia. Lui l’aspettava lì, attento a mantenersi fuori della visuale, poiché Zeboim avrebbe osservato Mina fintanto che avesse navigato sul mare e forse anche dopo lo sbarco. Pertanto aveva istruito Mina a mantenere Zeboim con la guardia abbassata facendo visita al suo tempio.

Il tempio in cui dovevano incontrarsi era stato un mausoleo, progettato e costruito da una nobile signora addolorata per il suo nobile marito. Il nome della famiglia, scolpito sul lato anteriore del mausoleo, si era eroso, così come il blasone. L’atrio era caduto in rovina. Non ne rimaneva niente tranne le fondamenta, poiché i materiali usati per la costruzione erano stati portati via dagli abitanti del luogo per essere riutilizzati nella ricostruzione di case danneggiate nel Primo Cataclisma. Il mausoleo rimaneva però intatto e in condizioni relativamente buone. Nessuno osava toccarlo, poiché secondo la leggenda si poteva ancora udire il piagnucolio addolorato della vedova in lutto e vedere la sua figura spettrale piangere sulle scale di marmo.

Costruito in marmo nero, il mausoleo era quasi un piccolo palazzo. Quattro guglie riccamente ornate e intagliate si trovavano agli angoli di un tetto a punta aguzza, circondato da una delicata filigrana in ferro battuto. Un portico con colonne alla sommità della famosa scalinata di marmo riparava un’immensa porta di bronzo. All’interno del mausoleo, due file di colonne sottili si ergevano come sentinelle sui due lati dell’enorme tomba di marmo che recava il blasone di famiglia, e tutto attorno alla base era zeppo di altorilievi che descrivevano i momenti insigni della vita di quell’uomo.

La nobildonna aveva costruito all’estremità opposta del mausoleo un altare e l’aveva dedicato a Chemosh. Qui era venuta a pregare ogni giorno il Dio della Morte, giurando di non lasciare mai quel luogo finché lui non le avesse restituito il marito. Poiché l’anima del marito era già passata oltre, Chemosh non fu in grado di esaudire quella preghiera. Tuttavia fece in modo che lei mantenesse la sua promessa solenne. Chemosh era ritornato nel mondo trovando il fantasma di lei ancora lì, ancora piangente sulla scalinata. Aveva dimenticato quanto avesse trovato fastidioso il suo piagnucolio e finalmente la liberò, mandandola a raggiungere suo marito.

Si domandò se non stesse diventando un po’ romantico.

Entrò nel tempio, si guardò attorno. Il mausoleo era ben costruito. Il tetto non perdeva; l’edificio era asciutto, non era né ammuffito né umido. Vi era all’interno un unico cadavere che era rimasto decentemente sepolto. Niente tibie o teschi dispersi a ingombrare quel luogo. I seguaci di Chemosh, non turbati dal fantasma, si erano trasferiti nel mausoleo durante la Guerra delle Lance ed erano rimasti lì finché il furto del mondo non li aveva privati del loro dio. Chemosh rimase compiaciuto nel notare che si era trattato di un gruppo insolitamente ordinato, che faceva le pulizie dopo i riti, per cui non vi era cera di candele sul telo dell’altare, né macchie di sangue per terra, né frammenti d’osso rimasti sulla pedana.

Chemosh trovò indizi del fatto che qualcuno (uno di quei nuovi e fuorviati praticanti di negromanzia oppure qualche predatore di tombe) era stato lì dentro di recente. Qualcuno aveva cercato di strappare via il coperchio della tomba usando un piede di porco. Il coperchio di marmo era estremamente pesante e il tentativo era fallito. Avevano razziato anche il suo altare, portando via un paio di candelieri d’oro e un calice incastonato di rubini, entrambi i quali lui se li ricordava distintamente, poiché teneva conto di tutti i suoi oggetti sacri.

«Ai vecchi tempi nessun ladro avrebbe osato sfidare la mia ira», disse Chemosh, accigliandosi per la collera. «Per via della nostra defunta e non rimpianta Regina, di questi tempi nessuno ha più rispetto per gli dèi. Ma le cose cambieranno. Un giorno, ben presto, quando i mortali pronunceranno il nome di Chemosh, lo pronunceranno con rispetto, con reverenza e con soggezione. Lo pronunceranno con paura.»

«Mio signore Chemosh.» Mina pronunciò il suo nome, ma non con paura. Con amore e reverenza.

Chemosh aprì la porta di bronzo e trovò Mina in piedi sulla scala di marmo. Era bagnata, insudiciata, aveva le mani insanguinate e piene di lividi, era stanca e sul punto di crollare. I suoi occhi d’ambra brillavano alla calda luce rossa di Lunitari. Inchinandosi verso di lui, Mina gli porse l’elmo del cavaliere della morte Ausric Krell.

«Come avete comandato, mio signore», disse.

«Vieni dentro. Lontano da occhi indiscreti.»

Prendendo per mano Mina, Chemosh la trasse dentro il mausoleo e chiuse le grandi porte di bronzo.

«Che mano fredda. Fredda come la morte», le disse, e fu compiaciuto nel vederla sorridere per la sua battutina. «E sei fradicia fino all’osso. Ecco. Ti scalderemo.»

Era ansioso di scoprire se il suo incantesimo avesse funzionato e se fosse davvero riuscito a catturare Krell, ma era preoccupato per Mina, che riusciva a malapena a camminare per via dei brividi. Fece schioccare le dita, e da un braciere sull’altare si levò un fuoco. Mina si avvicinò grata, tendendo le mani verso quel calore.

Il tessuto fradicio della camicia di batista le stava appiccicato al corpo, contornando la pienezza del seno, che era pallido e liscio come il marmo dell’altare. Lui le guardò il seno tremolare per i brividi, sollevarsi e abbassarsi col respiro. Gli occhi di lui si spostarono verso l’incavo della gola, un’ombra di oscurità tentatrice alla luce del fuoco, poi verso il viso, la curva delle labbra, il mento forte, quegli straordinari occhi d’ambra.

Chemosh rimase sorpreso nel sentire il proprio cuore battere più rapido, il respiro arrestarsi. Gli dèi si erano innamorati di mortali prima d’ora; Zeboim era stata fra questi ed era perfino scesa tanto in basso da dare alla luce un figlio semi-mortale. Chemosh non aveva mai capito come si potesse essere attratti dai mortali, con la loro mente limitata e la vita da farfalla, e adesso non capiva se stesso. La sua intenzione era che la seduzione di Mina fosse una questione puramente strumentale, almeno per ciò che riguardava lui. L’avrebbe corteggiata e intrappolata, costretta a legarsi a lui. Adesso era mezzo divertito dalle sue stesse sensazioni di desiderio, e mezzo infastidito. Il desiderio era un’indicazione di debolezza da parte sua. Doveva vincerlo, ritornare all’impegno di diventare re.

Mina si sentì addosso lo sguardo di lui. Si girò per guardarlo e dovette vedergli negli occhi i pensieri, poiché gli sorrise, con l’ambra che si scaldava e si scioglieva.

Chemosh strappò via da lei i pensieri e lo sguardo. Prima il dovere e poi il piacere. Depose l’elmo sull’altare e vi guardò dentro impaziente. Vide, nelle ombre dell’Abisso, l’anima piccola e raggrinzita di Ausric Krell.

Una furiosa folata di vento colpì il mausoleo, sferzò gli alberi e strappò via le foglie dai rami. Il tuono martellò il tempio per la frustrazione. La furia illuminava il cielo notturno e lacrime di collera oscuravano le stelle.

Dentro il mausoleo tutto era caldo e confortevole. Chemosh teneva lo spirito fra il pollice e l’indice e osservava Krell dimenarsi, come un topo afferrato per la coda.

«Giuri di essermi fedele, Krell?» domandò Chemosh.

«Sì, mio signore.» La voce di Krell giungeva da molto lontano, suonava metallica e frenetica. «Lo giuro!»

«E farai tutto ciò che ti chiederò? Obbedirai ai miei ordini senza discutere?»

«Qualunque cosa, mio signore», giurò Krell, «fintanto che mi terrete lontano dalle grinfie della Strega del Mare».

«Allora da questo momento in poi, Ausric Krell», annunciò solennemente Chemosh, lasciando cadere lo spirito sull’altare, «sei mio. Zeboim non ha alcun influsso su di te. Non ha modo di trovarti, poiché tu sei nascosto al sicuro entro la mia oscurità».

Per tutto il tempo fu consapevole del fatto che Mina lo stava osservando, con gli occhi d’ambra spalancati per la soggezione e l’ammirazione. Era compiaciuto di avere fatto impressione su di lei, finché non gli venne in mente che si stava comportando come uno scolaretto, che si mettesse in mostra davanti a una ragazzina ridacchiante.

Fece con la mano un gesto irritato e Ausric Krell, con indosso l’armatura della sua maledizione, fu in piedi davanti all’altare. I suoi occhi rossi, luccicanti come un ammasso di braci, guizzavano qua e là sospettosi, esaminando l’ambiente.

«Niente trucchi, Krell, come vedi», affermò Chemosh, soggiungendo con tono stridulo: «Potresti almeno dire "grazie"».

Krell si chinò su un ginocchio ponderosamente, sferragliando e crepitando.

«Mio signore, vi ringrazio. Vi sono debitore.»

«Sì, certo, Krell. E non dimenticarlo mai.»

«Che cosa comandate, mio signore?»

I pensieri di Chemosh continuavano a vagare verso Mina. Lui cominciava a considerare il cavaliere della morte un fastidio intollerabile.

«Ancora non ho ordini per te», disse Chemosh. «Ho in mente un progetto, in cui tu avrai una parte, ma il momento non è ancora giunto. Hai il permesso di andare.»

«Sì, mio signore.» Krell si inchinò e si avviò verso la porta. A metà strada si fermò e si voltò, confuso. «Andare dove, mio signore?»

«Dove vuoi, Krell», rispose Chemosh con impazienza. Teneva gli occhi su Mina, e quelli della donna erano su di lui.

«Posso andare dovunque?» Krell voleva esserne assolutamente certo. «La dea non può toccarmi?»

«No, ma il dio sì», disse Chemosh, perdendo la pazienza. «Vai dove vuoi, Krell. Combina tutti i disastri che vuoi. Ma non farlo qui.»

«Benissimo, mio signore!» Krell fece un altro inchino. «Allora, mio signore, se non avete più bisogno di me...»

«Vai via, Krell.»

«Attendo la vostra chiamata. Fino ad allora prendo congedo. Arrivederci, mio signore.»

Krell sferragliando e crepitando uscì dal mausoleo. Chemosh sbatté la porta di bronzo alle sue spalle e la sbarrò.

«Pensavo che tu avessi fatto qualcosa di abile nel catturare quel disgraziato, Mina. Adesso capisco che avrei potuto inviare un nano di fosso a prenderlo.» Chemosh le sorrise, per dimostrare che la stava prendendo in giro, e tese le mani.

Mina gli strinse le mani, avvicinandosi a lui. «E quale sarà la mia ricompensa, mio signore?»

Gli occhi d’ambra le luccicavano; i capelli erano una fiamma rossodorata. Le mani si serrarono su quelle di lui, e Chemosh sentì la pelle liscia scivolare sull’osso duro. Udiva lo scrosciare del sangue che le pulsava nelle vene e le vedeva il palpitare della vita nell’incavo del collo. La strinse a sé, godendosi il suo calore, il calore della vita, il calore della mortalità.

«Come potrò servire il mio signore?» domandò Mina.

«Così», rispose lui, e la prese fra le braccia.

Le baciò le labbra. Le baciò l’incavo del collo. Le tolse la camicia dal corpo e, tenendola stretta, le premette le labbra sul seno, sopra il cuore.

Il bacio le bruciò la carne, che prese ad annerirsi sotto quel contatto. Mina urlò. Il corpo le si irrigidì, lei si contorse per il dolore e lottò fra le braccia di lui. Chemosh la tenne stretta, la tenne vicino. E poi, lentamente, si ritrasse.

Mina rabbrividì, sospirò. Aprì gli occhi. Lo guardò, nel profondo degli occhi. Poi, sobbalzando, si guardò il seno.

Il marchio di Chemosh era su di lei, il contorno delle sue labbra, impresso a fuoco nella carne.

«Sei mia, Mina», disse Chemosh.

Il bacio aveva bruciato carne e osso, l’aveva colpita al cuore. Mina sentì agitarsi dentro la potenza che lui le aveva conferito, e si accostò a lui, con le labbra dischiuse, desiderando il suo bacio ripetutamente.

«Sono vostra, mio signore.»

Il desiderio ardeva in lui, e Chemosh non lo mise più in dubbio. L’avrebbe presa, l’avrebbe fatta sua, ma doveva accertarsi che lei capisse.

«Non sarai mia schiava, come eri per Takhisis.»

Chemosh le accarezzò il collo, le passò la mano sull’impronta lasciata dal bacio. La carne era bruciacchiata e incominciava a coprirsi di vesciche dove le labbra di lui l’avevano toccata. Chemosh percorse col dito il contorno del bacio nero.

«Sarai la mia somma sacerdotessa, Mina. Andrai nel mondo e conquisterai seguaci per me, seguaci giovani e forti e bellissimi come te. Io sarò il loro dio, ma tu sarai la loro padrona. Eserciterai potere su di loro, potere assoluto, potere di vita e di morte.»

«Quali stimoli potrò offrire loro, mio signore? Ai giovani non piace pensare alla morte...»

«Offrirai loro un dono da parte mia. Un dono di raro valore, che l’umanità desidera fin dal principio del tempo.»

«Farò tutto ciò che mi chiedete, mio signore, con piacere», disse Mina. Aveva il respiro affannoso.

Chemosh con la mano le scostò all’indietro i capelli rossi. Quei filamenti serici gli si attorcigliarono fra le dita. Mina aveva le labbra calde e impazienti, la carne calda e cedevole al tocco di lui.

Chemosh strinse il corpo contro quello di lei. Mina gli si diede con abbandono appassionato, e lui non si domandò più come un dio potesse trovare piacere fra le braccia di un mortale. Si domandò soltanto perché lui avesse impiegato tanto tempo per scoprirlo.

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