III

Dal diario di Isham Storie


ma la mia gestalt dei diciotto anni che mi hanno portato su una rotta d’intercettazione nei confronti del traditore di mio padre non era affatto formulata nel modo pedantesco dei resoconti storici scritti da mio padre. Anzi, si era ridotta a quattro parole:

Dio ti maledica, Carlson!

Ormai era quasi metà pomeriggio. L’effetto dell’eroina stava passando; non avevo molto tempo. Broadway diventava sempre più deprimente via via che camminavo. Avete mai visto un autobus pieno di scheletri… con i piccioni che ci vivono dentro? Il braccio mi faceva un male d’inferno, e nella mia coscia un muscolo aveva appena annunciato che si era stirato… adesso zoppicavo leggermente. Lo zaino si appesantiva ad ogni passo e avevo l’impressione che il tampone di destra lasciasse filtrare qualcosa intorno alla flangia. Non potevo dire di sentirmi in gran forma.

Continuai a camminare verso nord.

Arrivai in Columbus Circle, e d’impulso svoltai in Central Park. Era un’enclave di vita in quel territorio di morte, e non potevo perdermelo… sebbene l’intelletto mi avvertisse che avrei potuto incontrare un doberman che da vent’anni non aveva visto una scatola di cibo per cani.

L’Esodo aveva fatto bene almeno a quel posto… era lussureggiante di vegetazione, adesso che orde di umani non soffocavano più la sua naturale aspirazione a vivere. Olmi e querce si protendevano verso le nubi con lo stesso ottimismo degli aceri e delle betulle intorno a Fresh Start, e l’erba alta era la cosa più verde che avessi visto a New York. Eppure… in certi punti era morta, e arbusti morti erano sparsi qua e là. Forse le prime impressioni m’ingannavano… forse un pezzetto di terra circondato da una enorme cripta di cemento non era un’ecologia vivibile, dopotutto. Ma del resto, forse non lo era neppure Fresh Start.

Mi sentivo di nuovo depresso. Misi in tasca la bomba a mano e sedetti su una panchina del parco, dicendomi che un po’ di riposo avrebbe fatto miracoli per la zoppia. Dopo un po’, alcuni elementi statici del paesaggio si mossero… quel posto era vivo. C’erano gatti, e cani magri e famelici di varie specie, e apparentemente nessuno era abbastanza vecchio per sapere cos’era un uomo. La loro fiducia mi parve incoraggiante… come ho detto, sono un sicario pacifico e socievole.

Mi guardai intorno, chiedendomi perché tanti degli scheletri umani relativamente poco numerosi avevano portato armi la notte dell’Esodo… perché entrare armati in un parco? Poi sentii una specie di colpo di tosse e mi voltai, e per un secondo pazzesco credetti di sapere cos’era.

Un leopardo.

Lo riconobbi dalle illustrazioni sui libri di mio padre; e sapevo cos’era e sapevo cosa poteva fare. Ma il mio sistema dell’adrenalina era stanco di mettermi in pugno il fucile… quindi restai assolutamente immobile e mi concentrai per esalare un odore amichevole. La mia pistola produceva alte temperature, non potenza d’arresto; le bombe a mano non servono a molto contro un bersaglio mobile e io stavo appoggiato all’indietro contro il fucile… ma non era per questo che stavo immobile. Quel giorno avevo imparato che scattare non è la risposta ottimale alla paura.

Perciò guardai meglio e vidi che il leopardo era incredibilmente vecchio, magro e sfregiato da unghiate, più maestoso che temibile. Se in Central Park ci fossero stati animali selvatici in libertà, mio padre me l’avrebbe detto… conosceva il mio percorso. Eppure quel felino sembrava abbastanza vecchio per risalire a tempi anteriori all’Esodo. Sicuramente sapeva che ero un uomo. Immagino che fosse fuggito da uno zoo nella confusione del momento, o forse se l’era tenuto in casa qualche riccone. So che facevano cose del genere, ai Vecchi Tempi. Secondo me un leopardo doveva essere una seccatura più di un’aquila… mio padre ne tenne una per quattro anni, e io non avevo mai avuto tante grane per il pollame come in quel periodo. Mio padre diceva che era il simbolo di qualcosa di grande che era morto, ma io pensavo che fosse una stupidaggine.

Però quel vecchio felino sembrava abbastanza amichevole, a guardarlo. Sembrava patriarcale e saggio, e terribilmente affamato. Presi una decisione rischiosa, senza un motivo riconoscibile. Mi sfilai adagio lo zaino dalle spalle, tirai fuori alcune tavolette nutritive, mi avvicinai di quattro passi al leopardo e mi accosciai, porgendogliele.

Fosse per istinto, per un ricordo o per intuizione, il grosso felino riconobbe la mia intenzione e si avvicinò, senza fretta. Stranamente, più si avvicinava e meno avevo paura, fino a quando mi passò sulla mano le fauci così grandi che avrebbero potuto amputarmela. So che le tavolette alimentari non hanno odore di niente, e tanto meno di cibo, ma lui capì empaticamente che cosa gli offrivo… o forse sentì l’ironia simbolica dei due antichi antagonisti, negro e leopardo, che s’incontravano a New York per dividersi il cibo. Le mangiò tutte, senza scalfirmi le dita. Aveva la lingua sorprendentemente ruvida e raspante, ma non rabbrividii; e non ne avevo motivo. Quando ebbe finito emise un suono che era una via di mezzo tra un tossire e un russare, e mi strusciò la testa contro la gamba.

Era vecchio, ma poderoso; persi l’equilibrio e caddi all’indietro. Atterrai correttamente, certo, ma non mi rialzai. Le forze mi abbandonarono e restai lì a guardare la parte inferiore della panchina.

Per la prima volta da quando ero entrato in New York avevo comunicato con un essere vivente, e avevo ricevuto una risposta: e inspiegabilmente quella scoperta mi aveva tolto le forze. Mi sdraiai sull’erba e attesi che il terreno smettesse di sussultare, sorpreso di constatare quanto ero debole e in quanti posti avevo dolori insopportabili. Dissi alcune parole che mi aveva insegnato Collaci, e questo mi aiutò, ma non abbastanza. L’effetto dell’eroina era passato prima del dovuto, e non ne avevo più.

Sembrava che fosse venuto il momento di farmi una fumata. Discussi con me stesso mentre allungavo le braccia per prendere l’astuccio del pronto soccorso dallo zaino, ma non vedevo alternative. Carlson non era un combattente addestrato, non aveva mai avuto un istruttore come Collaci: avrei potuto farlo fuori anche da drogato. E forse non ce l’avrei fatta a rimettermi in piedi, altrimenti.

Lo spinello che scelsi era sottile come un ago… troppo mi avrebbe fatto più male che bene. Non avevo intenzione di mettermi fuori uso in questa città. L’accesi con l’accendino a bobina e trassi una boccata profonda, e trattenni il fumo nei polmoni il più a lungo possibile. A metà della seconda tirata le foglie che danzavano sopra la mia testa incominciarono a scintillare, e diventò più difficile localizzare la mia stanchezza. Alla terza boccata divenne solo un ricordo, e l’ultima incominciò a sciogliere i dolori come l’acqua calda scioglie la neve. L’analgesico della natura: il dono della terra.

Incominciai a pensare al leopardo, che adesso s’era sdraiato e si lavava le zampe. Era magnifico nella sua decadenza… qualcosa, nei suoi occhi, mi diceva che intendeva vivere in eterno e morire nel tentativo. Era l’unico della sua specie nell’universo, e potevo identificarmi con lui… anch’io mi ero sempre sentito diverso da tutti gli altri.

Eppure… ero della stessa specie di quelli che l’avevano intrappolato, ingabbiato, mostrato ai curiosi, e poi l’avevano abbandonato a morire a mezzo mondo di distanza dalla sua patria. Perché non cercava di uccidermi? Al suo posto mi sarei comportato forse in modo diverso…

Con la chiarezza logica data dalla droga, continuai a riflettere. Un tempo gli antenati del leopardo avevano cercato di uccidere i miei e di mangiarli, eppure non c’era motivo perché io odiassi lui. Ucciderlo non avrebbe aiutato i miei antenati. Uccidere me non avrebbe dato nessuna utilità al leopardo, non gli avrebbe facilitato l’esistenza… se non con un pasto per un giorno, e io gliel’avevo già dato.

E allora, mi chiesi irrequieto, che cosa risolverò uccidendo Carlson? Non potevo rimettere nella bottiglia il Virus Iperosmico, e neppure salvare la vita di quelli che erano ancora vivi. Perché fare tanta strada per uccidere?

Non era un pensiero nuovo, naturalmente. L’interrogativo si era posto tante volte durante il mio addestramento. Collaci pretendeva di discutere di filosofia mentre mi allenava a combattere: affermava che un uomo che non sapeva sostenere una conversazione mentre si batteva per la propria vita non poteva diventare un killer davvero efficiente. Potevi interromperti per riflettere, ma se decideva che stavi semplicemente risparmiando il fiato smetteva di tirare i pugni.

Un giorno non avevamo un argomento particolare da dibattere e io espressi i miei dubbi circa la missione per la quale mi stavo preparando. A cosa servirà uccidere Carlson? chiesi a Collaci. Il Maestro si disimpegnò e si tirò indietro, ansimando un po’, e sfoggiò il suo raro sogghigno da lupo.

— La sopravvivenza ha strane permutazioni, Isham. La vendetta è un attributo unicamente umano… ci è più facile seppellire i nostri morti quando li abbiamo vendicati. Noi abbiamo molti morti. — Scelse uno stuzzicadenti e se lo cacciò in bocca. — E per amore di tuo padre, devi essere tu a farlo… solo se è suo figlio a provvedere all’espiazione il dottor Stone potrà assolvere se stesso. Altrimenti ci andrei io, a uccidere quello stupido bastardo. — E all’improvviso cercò, senza riuscirci, di fratturarmi la clavicola.

E così adesso ero seduto, stanco, affamato, ferito e un po’ intontito, in mezzo a un enorme mausoleo isolano, e mi rivolgevo la domanda che subito dopo avevo rivolto a Collaci mentre cercavo, senza riuscirci, di sfondargli la gabbia toracica: è morale uccidere un uomo?

Dopo tanti mesi, mi sembrò di sentire di nuovo la sua risposta: Forse no, ma qualche volta è necessario.

Con quel pensiero le forze mi tornarono e mi alzai in piedi. I miei pensieri erano viscidi come un sapone bagnato, erano vicini ma sfuggivano alla mia stretta. Ne pescai uno in quel groviglio e me l’avvolsi addosso, furiosamente: ucciderò Wendell Morgan Carlson. Era sufficiente.

Dissi addio al leopardo che era più fortunato di me perché non sarebbe mai stato ossessionato dagli antichi fantasmi, lasciai il parco e continuai lungo Broadway, vigile ed esiziale per quanto sapevo esserlo.


Quando arrivai alla 114a Strada, guardai sopra i tetti, e la vidi: un’esile colonna di fumo a nord-est, verso Amsterdam Avenue. La leggenda e l’intuizione di mio padre non avevano sbagliato. Carlson era rintanato dove s’era sempre sentito più sicuro… nell’utero accademico della Columbia. Sentii un sogghigno schiudermi le labbra. Presto sarebbe finito tutto, e avrei potuto tornare ad essere me stesso… chiunque fossi.

Lasciai lo zaino sotto una station wagon e considerai la mia situazione. Avevo tre proiettili traccianti nella pistola anti-Musky, tre bombe incendiarie agganciate alla cintura, e il fucile con mirino telescopico con il quale intendevo uccidere Carlson. Nel fucile c’era un caricatore con otto proiettili in grado di uccidere un uomo… sette più del necessario. Controllai il funzionamento e misi un proiettile in canna.

Nel mio zaino c’era una piantina dettagliata del Morningside Campus, ma non la tirai fuori… ne avevo una identica nella mente. Anche se io e il Maestro non avevamo condiviso completamente la certezza di mio padre che Carlson fosse alla Columbia, avevo passato ore ed ore studiando le piante del campus che mi dava lui; le avevo studiate scrupolosamente come le carte stradali di New York che mi aveva dato Collaci. Sembrava l’unico contributo diretto che mio padre poteva dare alla mia missione.

A quanto pareva, il suo sforzo aveva portato a un buon risultato.

Mi chiedevo se Carlson mi stava aspettando. Non ero sicuro che il chiasso della macchina che avevo fatto esplodere nella parte bassa della città fosse arrivato fin lì; non sapevo se uno scoppio in una metropoli piena di tubature del gas abbandonate fosse abbastanza insolito per mettere in guardia Carlson. Perciò dovevo presumere che fosse così. Altri uomini erano venuti a New York per liquidare Carlson, come indipendenti, e nessuno era mai tornato.

Adesso la mia mente funzionava con efficienza, senza più confusione. Ero impaziente. Un lampione, investito da una macchina, si appoggiava a un muro come se fosse ubriaco, e per un momento pensai di salire sui tetti, per sfruttare al massimo il fattore sorpresa. Ma i tetti sono territorio dei Musky, e del resto non avevo la forza di arrampicarmi fin lassù.

Entrai nel campus da sud-ovest, dall’ingresso della 115a Strada. Come aveva predetto mio padre, il cancello era chiuso… solo l’entrata principale sulla 116a Strada veniva lasciata aperta di notte a quei tempi, ed era notte quando Carlson aveva lanciato la boccetta. Ma la serratura era una semplice Series 10 America che avrebbe fatto ridere il Maestro. Cedette al mio secondo tentativo, e io passai oltre il cancello di ferro senza far rumore… avevo provveduto a ungere i cardini, prima.

Una scalinata portava a un breve passaggio, un mosaico di esagoni grigi fiancheggiato da muri che arrivavano all’altezza della cintura. Il passaggio si snodava tra Furnald e Ferris Booth Halls, e sapevo che si apriva nel grande quadrilatero interno della Columbia. C’erano foglie sparse dappertutto, e alberi d’ogni specie si agitavano nell’energica brezza pomeridiana, in un milione di girandole verdi.

Procedetti rasente al muro di destra fino a quando arrivai a un muro perpendicolare più alto, gli girai intorno e mi trovai davanti alla grande facciata di pietra e di vetri sfondati di Ferris Booth Hall, il centro delle attività studentesche; girai gli occhi verso la Butler Library, che vedevo dal lato ovest. In mezzo c’erano parecchi macchinari da costruzione… uno dei vari gruppi studenteschi che avevano avuto sede in Booth Hall era riuscito a far saltare in aria se stesso e una parte cospicua dell’edificio nel 1983, e la ricostruzione era ancora in corso il Giorno dell’Esodo. Una gru enorme stava davanti all’edificio devastato, circondata da mucchi di mattoni e di tubi, un bulldozer, capannoni, qualche camion, un serbatoio di benzina da mille litri e un paio di roulotte.

Ma i miei occhi guardavano al di là di quella ferraglia convenzionale, verso un congegno curioso, proprio davanti alla Butler Library e seminascosto dalle siepi incolte. Non avrei saputo dire cos’era: sembrava una piovra che facesse l’amore con un banco stereo. Ma evidentemente non quadrava con il paesaggio. Anche la seconda intuizione di mio padre era esatta: Carlson si serviva della Butler Library come della sua base delle operazioni. Dio solo sapeva a cosa serviva quel congegno; ma un uomo senza adenoidi, in una città piena di Musky e di pastori tedeschi affamati non l’avrebbe costruito più lontano da casa di quanto fosse indispensabile. Il posto era quello.

Mi riempii d’aria il petto e i polmoni, e sogghignai fino a che mi fecero male le guance. Impugnai il fucile e mi guardai le mani. Salde come rocce.

Carlson, bastardo assassino, pensai, ci siamo. La razza umana ti ha trovato, e la sua Mano è vicina. Ancora qualche respiro e tu morirai di morte violenta, vecchio, come un gatto innocuo in una vetrina d’un tabaccaio, come un bambino di otto anni su un marciapiedi di Harlem, come una civiltà planetaria che credevi di migliorare. Preparati.

Avanzai.

Wendell Morgan Carlson usci tra i grandi lampioni sfondati che fiancheggiavano l’entrata principale di Butler Hall. Lo vidi chiaramente di profilo: era la faccia che avevo imparato a memoria dal Manifesto e dai disegni di mio padre, riconoscibile nella luce pomeridiana nonostante la barba bianca e i capelli scomposti. Guardò verso di me, rabbrividì e si tirò indietro una frazione di secondo prima del mio sparo.

Deciso a inchiodarlo prima che potesse arraffare un’arma e trincerarsi, abbassai la testa e mi misi a correre in cerca del più grande assassino di tutti i tempi.

E il primo Musky attaccò.

Il terrore mi grandinò nel cervello, scacciando la rabbia, e qualcosa di caldo e intangibile s’incollò alla mia faccia. Urlai, credo, ma riuscii a trattenermi dall’aspirare mentre cadevo e rotolavo, lasciando il fucile e cercando invano di strapparmi quella cosa dalla faccia. L’ultima cosa che vidi prima che i gas invisibili mi offuscassero la vista fu l’enorme gru accanto a me, sulla destra, con il lungo braccio teso verso il cielo come per indicare il Paradiso. Poi il mondo tremolò e sbiadì, e io strappai la pistola dalla fondina. Mirai senza vedere, contrassi spasmodicamente l’indice, e la pistola mi sobbalzò nella mano.

Il colossale serbatoio di benzina fra me e la gru esplose con un whoom e io singhiozzai di sollievo mentre mi alzavo con uno sforzo e mi tuffavo attraverso le fiamme. Le proiezioni del Musky moribondo mi dilaniarono la mente e io rotolai via, bruciandomi i polmoni con un’inspirazione convulsa mentre il Musky esplodeva dietro di me. Mentre andavo a sbattere contro la gru, il mio cervello urlò: I Musky non vanno mai da soli! E prima che mi rendessi conto di quello che facevo mi strappai i tamponi dal naso per localizzare i nemici.

Fetori immondi annientarono la mia lucidità, odori atroci aggredirono la mia ragione. Ero dilaniato e bombardato e sopraffatto da un lezzo abominevole. L’universo era marcio, e il mondo che vedevo era remoto e irreale. I miei occhi vedevano il campus, ma non mi dicevano nulla del puzzo di putrefazione che vi regnava. Vedevano il cielo, ma non parlavano degli strati maleodoranti di corruzione indescrivibile che lo formavano. Anche tenendo conto dell’effetto serra, era molto peggio di quanto avrebbe dovuto essere dopo vent’anni, come diceva la leggenda. Sentivo odore di escrementi. Sentivo odore di metallo. Sentivo l’odore del più grande carnaio del mondo, con una popolazione di sette milioni d’abitanti, e mi contorcevo sul cemento. I ricordi infantili dell’Esodo esplosero nella mia mente e mi ridussero a un bimbetto urlante. Non potevo sopportarlo, era intollerabile: come avevo potuto attraversare per tutto il giorno, arrogante e ignaro, quel fetido inferno?

E a quel pensiero ricordai perché ero venuto lì, e capii che non potevo raggiungere Izzy nel buio pacifico e fragrante. Non potevo mollare… dovevo uccidere Carlson prima di abbandonarmi alla tenebra. Il coraggio affluì, Dio sa da dove, alimentato dall’odio nero e dalla terribile paura di deludere la mia gente, di deludere mio padre. Mi alzai e aspirai profondamente, attraverso il naso.

Il mondo d’incubo si mise a fuoco e il tempo si arrestò.

C’erano sei Musky che volteggiavano davanti a Butler Hall e cercavano di piegare le brezze alla loro volontà.

Io avevo tre proiettili termici e tre bombe a mano.

Uno dei Musky si fermò e poi virò verso di me. Sparai dall’altezza del fianco, e il Musky divampò e sparì.

Un secondo si inserì in una corrente e arrivò come un treno rapido. Il panico mi dilaniò la mente; risi, presi la mira e il Musky diventò incandescente.

Poi ne arrivarono due insieme, come palloncini al rallentatore. Estrapolai le loro rotte, sganciai due bombe e le armai con i pollici, contai fino a quattro e le scagliai insieme come mi aveva insegnato Collaci, mirando un po’ al di qua del bersaglio. Le bombe toccarono terra in quel punto e rimbalzarono, ognuna verso un Musky. Ma una scoppiò prima dell’altra, uccidendo un Musky ma spostando l’altro, al sicuro. Quello mi passò sibilando accanto all’orecchio mentre mi buttavo a lato.

Tre Musky. Un proiettile, una bomba a mano.

Quello che si era salvato veleggiò intorno alla gru in un ampio arco elegante e si avvicinò veloce, a bassa quota, sollevandosi per investirmi in faccia mentre uno dei suoi fratelli mi attaccava da sinistra. Imprecando, bruciai quest’ultimo e mi buttai a ritroso attraverso un tratto di benzina che fiammeggiava. Il Musky non riuscì a frenarsi in tempo, schizzò improvvisamente verso il cielo ed esplose spettacolosamente. Andai a sbattere con violenza contro un mucchio di grossi tubi e sentii che le mie costole si incrinavano.

Un Musky. Una bomba a mano.

Mentre mi rialzavo barcollando e battendo le mani sul maglione bruciacchiato, Carlson uscì di nuovo da Butler Hall, con uno strano elmetto sui lunghi capelli bianchi.

Non mi curai più dell’ultimo Musky rimasto. Quasi distrattamente lanciai l’ultima bomba a mano nella sua direzione per tenerlo occupato, ma sapevo di avere tutto il tempo che volevo. La morte imminente era solo una questione secondaria. Mi lanciai e rotolai, mi rialzai con il fucile nelle mani e mirai alla O in mezzo alla barba bianca di Carlson. Lo vidi, indistintamente, inserire un cavo del casco nella strana console, ma non aveva importanza; non aveva nessuna importanza. Strinsi l’indice sul grilletto.

E poi qualcosa mi colpì al collo dietro l’orecchio, il mio indice scattò, e la tenebra che aveva atteso pazientemente per tanto tempo mi piombò addosso e cancellò il dolore e l’odio e la stanchezza e… oh, Dio… il lezzo spaventoso.

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