SECONDA PARTE LA MACCHINA

«L’Onnipotente Conferenziere, mettendo in mostra i principi della scienza nella struttura dell’universo, ha invitato l’uomo allo studio e all’imitazione. E’ come se Egli avesse detto agli abitanti di questo globo che chiamiamo nostro: ‘Ho creato una terra perché sia di dimora all’uomo, e ho reso visibili i cicli stellati per insegnargli la scienza e le arti. Egli può ora provvedere al suo personale benessere e imparare dalla mia munificenza cosmica a essere magnanimo con il suo prossimo.»

THOMAS PAINE, L’età della ragione (1794)

10 PRECESSIONE DEGLI EQUINOZI

«Credendo che gli dei esistano, inganniamo noi stessi con sogni inconsistenti e menzogne, mentre l’incurante sorte e i mutamenti controllano da soli il mondo» EURIPIDE, Ecuba Era strano il modo in cui era andata la cosa. Ellie si era immaginata che Palmer Joss sarebbe venuto all’Argus, avrebbe guardato il segnale che veniva raccolto dai radiotelescopi, e avrebbe osservato attentamente l’enorme stanza piena di nastri magnetici e di dischi su cui i dati dei molti mesi precedenti erano stati memorizzati. Avrebbe posto alcune domande di carattere scientifico e quindi esaminato, nella loro molteplicità di zeri e di unità, alcune delle risme del tabulato uscito dall’elaboratore che presentavano l’ancor incomprensibile Messaggio. Non aveva previsto di passare ore intere a discutere di filosofia e di teologia. Ma Joss si era rifiutato di venire all’Argus. Non era un nastro magnetico che voleva esaminare, egli disse, era il carattere umano. Peter Valerian sarebbe stato l’ideale per questa discussione: semplice, capace di comunicare con chiarezza, protetto da una genuina fede cristiana che lo impegnava quotidianamente. Ma la Presidente aveva evidentemente posto il veto all’idea; aveva voluto un piccolo incontro e aveva esplicitamente chiesto che fosse Ellie a intervenire. Joss aveva insistito che il colloquio avesse luogo lì, all’Istituto e Museo della Ricerca Scientifica Biblica a Modesto, in California. Lo sguardo di Ellie, dopo essersi posato per un attimo su der Heer, si rivolse alla parete di vetro che divideva la biblioteca dall’area espositiva. Appena fuori c’era un calco di gesso ricavato da un’arenaria del Red River di orme di dinosauri frammiste a quelle di un bipede in sandali, che stava a dimostrare, così diceva la didascalia, che l’Uomo e il Dinosauro erano stati contemporanei, almeno nel Texas. Nel mesozoico dovevano esserci stati anche i calzolai. La conclusione cui si giungeva nella didascalia era che l’evoluzione fosse un’impostura. L’opinione di molti paleontologi che l’arenaria fosse un falso non veniva citata, come aveva osservato Ellie due ore prima. Quelle orme facevano parte di una vasta esposizione intitolata «L’errore di Darwin». Sulla sinistra vi era un pendolo di Foucault, a riprova dell’asserzione scientifica, quest’ultima evidentemente incontestata, che la Terra gira. Sulla destra, Ellie poteva vedere parte di un’imponente unità olografica di Matsushita sul podio di un piccolo teatro, da cui le immagini tridimensionali dei più importanti teologi potevano comunicare direttamente con i fedeli.

Chi stava comunicando con lei in maniera ancor più diretta in quel momento era il reverendo Billy Jo Rankin. Aveva appreso solo all’ultimo istante che Joss aveva invitato Rankin e ne era rimasta sorpresa. C’erano state continue dispute teologiche tra loro, se l’Avvento fosse imminente, se il giorno del Giudizio fosse un inevitabile accompagnamento dell’Avvento, e sul ruolo dei miracoli nel sacerdozio, tra le altre cose. Ma recentemente erano arrivati a una riconciliazione ampiamente pubblicizzata, fatta, era stato detto, per il bene comune della comunità fondamentalista americana. I segni di un riavvicinamento tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica stavano influenzando anche l’arbitrato delle controversie. Tenere la riunione in quel luogo era forse parte del prezzo che Palmer Joss aveva dovuto pagare per la riconciliazione. Probabilmente, Rankin aveva considerato che gli oggetti in mostra avrebbero dato un reale supporto alla sua posizione, se ci fosse stata qualche questione scientifica in discussione. Al momento, dopo due ore di animata conversazione, Rankin stava ancora ricorrendo a una serie altalenante di rimproveri severi e di suppliche imploranti. Il suo abito aveva un taglio impeccabile, le sue unghie appena uscite dalle mani di una manicure, e il suo sorriso raggiante contrastavano con l’aria sciupata, confusa e più sbattuta di Joss che, con appena l’ombra di un sorriso sul volto, teneva gli occhi socchiusi e il capo piegato in un atteggiamento che richiamava da vicino quello della preghiera. Non aveva avuto molto da dire. Le osservazioni di Rankin fino a quel momento — tranne che per la tirata sull’Estasi, suppose Ellie — erano dottrinalmente indistinguibili dai discorsi televisivi di Joss. «Voi scienziati siete così riservati,» stava dicendo Rankin. «Vi piace nascondere la vostra fiaccola sotto il moggio. Dai titoli non si riuscirebbe mai a immaginare il contenuto dei vostri scritti. La prima opera di Einstein sulla teoria della relatività era intitolata L’elettrodinamica dei corpi in movimento. Non c’era la formula E=mc2 sul frontespizio. Nossignore. ‘L’elettrodinamica dei corpi in movimento’. Presumo che se Dio apparisse a un intero branco di scienziati, forse a una di quelle grandi riunioni dell’Associazione, ci scriverebbero su qualcosa e lo intitolerebbero, probabilmente ‘La combustione spontanea dendritoforme nell’aria’. Avrebbero un mucchio di equazioni; parlerebbero di ‘economia di ipotesi’; ma non direbbero mai una parola di Dio. Vedete, voi scienziati siete troppo scettici.»

Da un suo cenno laterale del capo, Ellie dedusse che anche der Heer era incluso in tale valutazione.

«Voi mettete in dubbio ogni cosa, o cercate di farlo. Non avete mai sentito ‘Accontentati, non pretendere troppo’, o ‘Se non si è rotto, non aggiustarlo’. Volete sempre controllare se una cosa sia, come dite, ‘vera’. E ‘vero’ significa solo dati empirici, sensibili, cose che potete vedere e toccare. Non c’è spazio per l’ispirazione o la rivelazione nel vostro mondo. Fondamentalmente rifiutate quasi tutto ciò che riguarda la religione. Io diffido degli scienziati perché gli scienziati diffidano di tutto.»

Suo malgrado, Ellie pensò che Rankin avesse esposto bene le proprie ragioni. Ed era ritenuto lo stupido fra i moderni videoevangelisti. No, non stupido, si corresse; egli era l’unico che considerava i suoi parrocchiani stupidi. Per quanto lei ne sapeva, poteva essere certamente molto acuto. Doveva rispondergli? Sia der Heer che il personale del museo stavano registrando la discussione, e benché si fosse stabilito che le registrazioni non sarebbero state divulgate, Ellie si preoccupava di poter procurare delle difficoltà al progetto o alla Presidente se avesse manifestato la sua opinione. Ma le osservazioni di Rankin si erano fatte sempre più offensive e non c’erano stati interventi né da parte di der Heer né da quella di Joss. «Suppongo che lei voglia un replica,» si lasciò sfuggire Ellie. «Non c’è una posizione scientifica ‘ufficiale’ per nessuno di questi problemi, e non pretendo di parlare a nome di tutti gli scienziati o del Progetto Argus. Ma posso fare qualche commento, se le va.» Rankin annuì energicamente, con un sorriso di incoraggiamento. Joss aspettava soltanto, con aria fiacca.

«Voglio che lei capisca che non sto attaccando la fede di nessuno. Per quanto mi riguarda, lei ha diritto a tutte le dottrine che vuole, anche se sbagliate in modo dimostrabile. E molte delle cose che lei va dicendo, e che il reverendo Joss ha detto — ho visto la sua conversazione televisiva alcune settimane fa — non possono essere confutate seduta stante. Ci vuole un po’ di impegno. Ma lasci che cerchi di spiegare perché penso siano inverosimili.» Finora, lei pensò, sono stata la personificazione della misuratezza. «Le da fastidio lo scetticismo scientifico. Ma la ragione per cui si è sviluppato è che il mondo è complicato. E’ misterioso. La prima idea che si fa ciascuno di noi non è necessariamente quella giusta. Perciò gli uomini possono ingannarsi. Anche gli scienziati. Tutti i generi di dottrine socialmente odiose sono stati appoggiati una volta o l’altra, da scienziati, notissimi scienziati, famosissimi scienziati. E, naturalmente, da politici. E da rispettati capi religiosi. Lo schiavismo, per esempio, o il razzismo nazista. Gli scienziati commettono errori, i teologi commettono errori, tutti commettono errori. Fa parte dell’essere umano. Lo dite voi stessi: ‘Errare è umano.’

Allora, il modo per evitare gli errori, o almeno ridurre la possibilità di commetterne, è di essere scettici. Si mettono alla prova le idee, si controllano secondo rigorosi standard di evidenza. Non credo esista una verità generalmente accettata come tale. Ma quando si consente che le diverse opinioni si scontrino, quando ogni scettico può attuare il suo esperimento personale per controllare qualche opinione, allora la verità tende a emergere. Questa è la linea di condotta seguita in tutta la storia della scienza. Non sarà un procedimento perfetto, ma è il solo che sembri funzionare.

Ora, quando guardo la religione, vedo molte opinioni contrastanti. Per esempio, i cristiani pensano che l’universo abbia un numero finito di anni. Dalle esposizioni là fuori risulta chiaro che alcuni cristiani (ed ebrei e musulmani) ritengono che l’universo abbia solo seimila anni. Gli indù d’altro canto — e ci sono moltissimi indù nel mondo — sono convinti che l’universo sia infinitamente antico, con un numero infinito di creazioni e distruzioni ulteriori nel corso della sua storia. Ora, non possono avere entrambi ragione. O l’universo ha un certo numero di anni o è infinitamente antico. I vostri amici là fuori» — Ellie indicò oltre la porta a vetri parecchi operai del museo che si soffermavano vicino all’Errore di Darwin’ — «dovrebbero contestare gli indù. Sembra che Dio abbia detto loro qualcosa di diverso da quello che ha detto a voi. Ma c’è la tendenza a riferirsi soltanto a se stessi.»

Ellie si chiese se non fosse stata un po’ troppo dura. «Le più importanti religioni della Terra si contraddicono a vicenda riguardo a molti punti. Non possono essere tutte perfette. E se fossero tutte sbagliate? E una possibilità, sapete. Ci si deve preoccupare della verità, esatto? Ebbene il modo per vagliare tutte le diverse opinioni è l’essere scettici. Riguardo alle vostre convinzioni religiose non sono più scettica di quanto lo sia riguardo a ogni nuova idea scientifica di cui vengo a conoscenza. Ma nella prassi della mia professione, sono definite ipotesi, non ispirazione e neppure rivelazione.»

Joss ora si agitava un po’, ma fu Rankin a rispondere. «Le rivelazioni, le predizioni confermate da Dio nel Vecchio e Nuovo Testamento sono una moltitudine. La venuta del Salvatore è profetizzata in Isaia 53, in Zaccaria 14, nei Primi Paralipomeni 17. Che Egli sarebbe nato a Betlemme era stato predetto in Michea 5. Che sarebbe disceso dalla stirpe di Davide era stato annunciato in Matteo 1 e…»

«In Luca. Ma ciò dovrebbe rappresentare un motivo di imbarazzo per voi, non l’avverarsi di una profezia. Matteo e Luca attribuiscono a Gesù delle genealogie totalmente diverse. E peggio ancora, essi tracciano la discendenza da Davide a Giuseppe, non da Davide a Maria. O non credete in Dio Padre?»

Rankin proseguì senza scomporsi. Forse non l’aveva capita: «… il Ministero e la Passione di Cristo sono predetti in Isaia 52 e 53 e nel salmo 22. Che Egli sarebbe stato tradito per trenta pezzi d’argento è detto esplicitamente in Zaccaria 11. Se voi scienziati siete onesti, non potete ignorare l’evidenza del compimento della profezia. E la Bibbia parla al nostro tempo. Israele e gli Arabi, Gog e Magog; l’America e la Russia, la guerra nucleare — si trova tutto nella Bibbia. Chiunque dotato di un pizzico di intelligenza può vederlo. Non c’è bisogno di essere un professore di qualche illustre college.»

«Il vostro guaio,» ribattè Ellie, «è la mancanza di immaginazione. Queste profezie sono — quasi tutte — vaghe, ambigue, imprecise, aperte all’inganno. Ammettono un’infinità di possibili interpretazioni. Tentate di ignorare persino le profezie chiare, inequivocabili, venute direttamente dal vertice, come la promessa di Gesù che il Regno di Dio si sarebbe instaurato durante la vita di qualcuno di coloro che lo stavano ad ascoltare. E non ditemi che il Regno di Dio è dentro di me. Il suo uditorio lo intese proprio alla lettera. Voi citate soltanto i passi che vi sembra si siano avverati e ignorate il resto. E non dimenticate che c’è un ardente desiderio di vedere compiersi la profezia.

Ma immaginate che il vostro tipo di dio — onnipotente, onni-scente, pietoso — avesse davvero voluto lasciare una testimonianza per le future generazioni, per rendere inequivocabile la sua esistenza ai remoti discendenti di Mosé. E’ facile, banale. Solo alcune enigmatiche frasi e qualche severo comandamento da tramandare immutati…»

Joss si protese in avanti quasi impercettibilmente. «Come…?»

«Come ‘Il Sole è una stella’. Oppure ‘Marte è un mondo rossastro con deserti e vulcani come il Sinai’. O ‘Un corpo in movimento tende a restare in movimento’. O — lasciatemi vedere» — in fretta scarabocchiò alcuni numeri su un blocco — «La Terra pesa un milione di un milione di un milione di un milione di volte più di un bambino.’ O — riconosco che voi due sembrate avere qualche difficoltà con la relatività speciale, ma viene confermata ogni giorno abitualmente negli acceleratori di particelle e nei raggi cosmici — che ne dite di ‘Non ci sono sistemi di riferimento privilegiati’? O addirittura ‘Non viaggerai più veloce della luce’. Qualcosa che non avrebbero potuto assolutamente conoscere tremila anni fa.»

«Che altro?» Joss chiese.

«Beh, ce n’è un numero indefinito — o almeno una per ogni principio di fisica. Vediamo… ‘Calore e luce si celano nel più piccolo ciottolo.’ O anche ‘Il modo della Terra è come un due, ma il modo della magnetite è come un tre’. Sto cercando di suggerire che la forza di gravita segue una legge dell’universo del quadrato della distanza, mentre la forza di un dipolo magnetico segue una legge dell’universo del cubo della distanza. O in biologia» — Ellie indicò der Heer, che sembrava aver fatto voto di silenzio — «che ne dite di ‘Due funi intrecciate sono il segreto della vita’?»

«Questa è interessante,» disse Joss. «Lei sta parlando, naturalmente, del DNA. Ma lei conosce la verga dei medici, il simbolo della medicina? I dottori dell’esercito lo portano all’occhiello. Si chiama caduceo. Reca due serpenti simmetricamente intrecciati. E’ una doppia elica perfetta. Fin dai tempi antichi è stato il simbolo della conservazione della vita. Non è esattamente questo il tipo di collegamento che lei stava suggerendo?»

«Beh, pensavo fosse una spirale, non un’elica. Ma se ci sono abbastanza simboli e abbastanza profezie e abbastanza miti e tradizioni folcloristiche, alla fine alcuni di loro si adatteranno a qualche conoscenza scientifica corrente per puro caso. Ma non ne posso essere sicura. Forse lei ha ragione. Forse il caduceo è un messaggio di Dio. Naturalmente, non è un simbolo cristiano, o un simbolo di una delle più importanti religioni attuali. Non credo che lei intendesse dire che gli dei parlavano soltanto agli antichi Greci. Ciò che sto dicendo è che, se Dio voleva inviarci un messaggio, e gli antichi scritti fossero stati l’unico mezzo che egli pensasse di impiegare a tale scopo, avrebbe potuto fare un lavoro migliore. Che bisogno poi c’era di limitarsi agli scritti? Perché non c’è un crocifisso gigante in orbita attorno alla terra? Perché la superficie della Luna non è coperta dai Dieci Comandamenti? Perché Dio dovrebbe essere così chiaro nella Bibbia e così oscuro nel mondo?» Joss evidentemente era pronto a ribattere già da alcune frasi, con un’inattesa espressione di autentico piacere sul volto, ma il flusso di parole di Ellie stava aumentando di velocità e forse egli aveva ritenuto ineducato interromperla.

«Inoltre, perché avrebbe dovuto abbandonarci? Aveva l’abitudine di chiacchierare con patriarchi e profeti ogni secondo martedì del mese, stando alle vostre convinzioni. E’ onnipotente, voi dite, e onnisciente. Perciò non è un grande sforzo da parte sua ricordarci direttamente, senza ambiguità, i suoi desideri almeno alcune volte in ogni generazione. Dunque, come si spiega, signori? Perché non lo vediamo con chiarezza, cristallina?»

«Noi lo vediamo.» Rankin mise un’enorme enfasi in questa frase. «Egli è dovunque intorno a noi. Le nostre preghiere vengono esaudite. Decine di milioni di persone in questo paese sono rinate e sono state testimoni della gloriosa grazia di Dio. La Bibbia ci parla oggi con la stessa chiarezza con cui lo faceva ai tempi di Mosé e di Gesù.»

«Oh, finitela! Sapete quello che voglio dire. Dove sono i roveti ardenti, i pilastri di fuoco, la voce tonante che ci dice ‘Io sono colui che sono’ dal cielo? Perché Dio dovrebbe manifestarsi in modi tanto misteriosi e discutibili quando potrebbe rendere la sua presenza completamente chiara e palese?»

«Ma una voce dal cielo è proprio quello che dite di aver trovato.» Joss fece questo commento mentre Ellie prendeva fiato, fissandola negli occhi.

Rankin prese la palla al balzo. «Giustissimo. Proprio quello che stavo per dire. Abramo e Mosé non avevano radio o telescopi. Non avrebbero certo potuto ascoltare l’Onnipotente in modulazione di frequenza. Forse oggi Dio ci parla in nuovi modi e ci permette di avere una nuova conoscenza. O forse non si tratta di Dio…»

«Sì, Satana. Ho già sentito dei discorsi in proposito. Sembra pazzesco. Lasciatelo da parte per un momento, se siete d’accordo. Voi pensate forse che il Messaggio sia la Voce di Dio, del vostro Dio. Dov’è che Dio, nella vostra religione, risponde a una preghiera rimandandola indietro?»

«Io non chiamerei preghiera un telegiornale nazista,» disse Joss. «Lei dice che è per attrarre la nostra attenzione.»

«Allora perché pensate che Dio abbia scelto di parlare agli scienziati? Perché non ai predicatori come voi?»

«Dio mi parla continuamente.» L’indice di Rankin battè sonoramente contro lo sterno. «E al reverendo Joss qui presente. Dio mi ha detto che una rivelazione è imminente. Se la fine del mondo è vicina, l’Estasi ci avvolgerà, il giudizio dei peccatori, l’ascesa al cielo degli eletti…»

«Le ha detto che stava per fare quell’annuncio nello spettro delle radiofrequenze? La sua conversazione con Dio è registrata da qualche parte in modo che possiamo verificare se sia realmente avvenuta? O abbiamo soltanto la sua asserzione? Perché Dio avrebbe scelto di rivolgersi ai radioastronomi e non agli uomini e alle donne di chiesa? Non pensa che sia un po’ strano che il primo messaggio di Dio in duemila anni o più sia in numeri primi… e Adolf Hitler alle olimpiadi del 1936? Il suo Dio deve proprio avere un bel senso dell’umorismo.»

«Il mio Dio può avere tutti i sensi che vuole.»

Der Heer si era chiaramente spaventato per la prima comparsa di vero rancore. «Uh, forse potrei rammentare a noi tutti ciò che si spera di concludere in questo incontro,» cominciò a dire.

Ecco Ken con i suoi modi accomodanti, pensò Ellie. Su certi punti è coraggioso, ma soprattutto quando non ha nessuna responsabilità d’azione. E’ un bravo parlatore… in privato. Ma riguardo alla politica scientifica, e specialmente quando rappresenta la Presidente, diventa molto compiacente, pronto a scendere a compromessi con il Diavolo in persona. Si sorprese. Il linguaggio teologico stava contagiandola. «Questa è un’altra faccenda.» Ellie interruppe il corso dei suoi pensieri e quello di der Heer. «Se quel segnale viene da Dio, perché proviene da un solo punto del cielo — in prossimità di una stella poco distante dalla Terra e particolarmente luminosa? Perché non proviene nel contempo da tutto il cielo, come la radiazione cosmica di fondo del corpo nero? — Venendo da una sola stella, sembra un segnale di un’altra civiltà. Venendo da ogni dove, somiglerebbe molto di più a un segnale del vostro Dio.»

«Dio può far giungere un segnale dal buco del culo dell’Orsa Minore se vuole.» Il volto di Rankin si stava imporporando. «Mi scusi, ma lei mi ha fatto arrabbiare. Dio può fare qualsiasi cosa.»

«Tutto quello che lei non capisce, signor Rankin, lo attribuisce a Dio.

Dio per lei è dove si spazzano via tutti i misteri del mondo, tutte le sfide alla nostra intelligenza. Lei spegne semplicemente il suo cervello e dice che l’ha fatto Dio.»

«Signora, non sono venuto qui per farmi insultare…»

«Venuto qui? Io credevo che lei vivesse qui.»

«Signora…» Rankin stava per dire qualcosa, poi ci ripensò. Inspirò profondamente e proseguì. «Questo è un paese cristiano e i cristiani hanno una conoscenza autentica di questo punto, una responsabilità sacra di assicurare che la sacra parola di Dio sia capita…»

«Io sono una cristiana e lei non parla per me. E’ rimasto prigioniero di una sorta di mania religiosa da quinto secolo. Nel frattempo c’è stato il Rinascimento, c’è stato l’Illuminismo. E lei dov’è stato?»

Sia Joss che der Heer stavano per cadere dalle loro sedie. «Per favore,» implorò Ken, guardando Ellie negli occhi. «Se non ci atteniamo di più all’ordine del giorno, non vedo come si possa portare a termine ciò che ci ha chiesto la Presidente.»

«Ebbene, voi volevate ‘un franco scambio di vedute’.»

«E’ quasi mezzogiorno,» osservò Joss. «Perché non facciamo un piccolo intervallo per il pranzo?»

Fuori della sala per le conferenze della biblioteca, appoggiandosi alla ringhiera che circondava il pendolo di Foucault, Ellie cominciò a confabulare con der Heer.

«Mi piacerebbe picchiarlo quel presuntuoso, saccente, bacchettone, bigotto…»

«Ma perché Ellie? L’ignoranza e l’errore non sono dolorosi abbastanza?»

«Sì, se tenesse la bocca chiusa. Ma sta corrompendo milioni di persone.»

«Tesoro, lui pensa lo stesso di te.»

Quando lei e der Heer ritornarono dal pranzo, Ellie si accorse immediatamente che Rankin appariva pacato, mentre Joss, che fu il primo a prendere la parola, sembrava di buon umore, certamente più cordiale del dovuto.

«Dottor Arroway,» cominciò, «posso capire che lei sia impaziente di mostrarci le sue scoperte, e che lei non sia venuta qui per una disputa teologica. Ma la prego, sia paziente con noi solo per un altro po’. Lei ha una lingua tagliente. Non riesco a ricordare l’ultima volta che il fratello Rankin si è tanto scaldato per questioni di fede. Devono essere anni.»

Diede un’occhiata fugace al suo collega, che stava facendo scarabocchi, con un’aria apparentemente distratta, su un blocco giallo di carta legale con il colletto sbottonato e la cravatta allentata. «Sono rimasto colpito da una o due cose che lei ha detto stamattina. Lei si è definita una cristiana. Posso chiederle in quale senso sia una cristiana?»

«Sa, questo non era un requisito richiesto dal lavoro quando ho accettato la direzione del Progetto Argus,» disse Ellie con leggerezza. «Io sono una cristiana nel senso che trovo Gesù Cristo un’ammirevole figura storica. Ritengo che il sermone della montagna sia una delle più grandi dichiarazioni etiche e uno dei migliori discorsi della storia. Penso che ‘Amate i vostri nemici’ possa addirittura essere la soluzione azzardata al problema della guerra nucleare. Vorrei che fosse vivo oggi. Sarebbe un gran bene per tutti gli abitanti del pianeta. Ma credo che Gesù fosse soltanto un uomo. Un grand’uomo, un uomo coraggioso, un uomo che aveva compreso a fondo verità impopolari. Ma non credo fosse Dio o il figlio di Dio o il pronipote di Dio.»

«Lei non vuoi credere in Dio.» Joss lo disse come una semplice constatazione. «Lei si immagina di poter essere una cristiana senza credere in Dio. Lasci che le chieda esplicitamente: lei crede in Dio?»

«La domanda ha una struttura particolare. Se dico di no, significa che sono convinta che Dio non esiste, o che non sono convinta che Dio esiste? Sono due asserzioni molto diverse.»

«Vediamo se sono così diverse, dottor Arroway. Posso chiamarla ‘dottore’? Lei crede nel rasoio di Occam, non è vero? Se lei ha due spiegazioni differenti della stessa esperienza, ma ugualmente valide, sceglie la più semplice. L’intera storia della scienza lo conferma, lei dice. Ora, se lei ha seri dubbi sull’esistenza di un Dio — dubbi sufficienti a renderla riluttante ad abbandonarsi alla Fede — deve essere in grado di immaginare un mondo senza Dio: un mondo che si realizza senza Dio, un mondo che vive la sua vita quotidiana senza Dio, un mondo in cui la gente muore senza Dio. Nessuna punizione. Nessuna ricompensa. Tutti i santi e i profeti, tutti i fedeli vissuti sulla Terra… sarebbero stati, a suo parere, degli stupidi. O gente che si è autoingannata, direbbe probabilmente. Sarebbe un mondo in cui non esisterebbe alcuna buona ragione di vivere, voglio dire nessuno scopo. Tutto si ridurrebbe soltanto a complicate collisioni di atomi, giusto? Compresi gli atomi che si trovano all’interno degli esseri umani.

Per me sarebbe un mondo odioso e disumano. Non vorrei certo viverci. Ma se lei può immaginare un mondo simile, perché esitare? Perché stare in una posizione intermedia? Se lei crede già a tutto ciò, non è molto più semplice dire che non c’è nessun Dio? Non è fedele al rasoio di Occam. Io credo che lei stia dicendo delle sciocchezze. Come può uno scienziato decisamente scrupoloso essere un agnostico se lei può addirittura immaginare un mondo senza Dio? Non dovrebbe solo essere atea?»

«Pensavo che lei volesse dimostrare che Dio è l’ipotesi più semplice,» disse Ellie, «ma questo è un argomento di gran lunga migliore. Se si trattasse soltanto di una faccenda da discutere scientificamente, sarei d’accordo con lei, reverendo Joss. La scienza si occupa essenzialmente dell’esame e della correzione delle ipotesi. Se le leggi di natura spiegano tutti i fatti che ci si presentano senza interventi soprannaturali, o anche se solo lo fanno bene quanto l’ipotesi di Dio, allora, per il momento, mi definirei un’atea. In seguito, se si scoprisse anche un solo elemento di discordanza, recederei dall’ateismo. Noi siamo perfettamente in grado di scoprire se c’è qualcosa che non va nelle leggi di natura. La ragione per cui non mi definisco un’atea è perché questa non è principalmente una questione scientifica. Si tratta di una questione religiosa e di una questione politica. La natura sperimentale dell’ipotesi scientifica non si estende a questi campi. Lei non parla di Dio come di un’ipotesi. Lei pensa di essersi accaparrato la verità, quindi io le faccio notare che possono esserle sfuggite una cosa o due. Ma se lei me lo chiede, sono felice di dirglielo: non posso essere sicura di avere ragione.»

«Ho sempre pensato che un agostico fosse un ateo senza il coraggio delle sue convinzioni.»

«Potrebbe dire altrettanto bene che un agnostico è una persona profondamente religiosa con almeno una rozza conoscenza della fallibilità umana. Quando dico di essere un’agnostica, voglio significare soltanto che non c’è l’evidenza. Non c’è una prova inconfutabile che Dio esiste — almeno la vostra specie di Dio — e non c’è una prova inconfutabile che non esista. Poiché più della metà della popolazione della Terra non è ebrea o cristiana o musulmana, direi che non ci siano argomenti irrefutabili e irresistibili per la vostra specie di dio. Altrimenti, tutti sulla Terra sarebbero stati convertiti. Ripeto, se il vostro Dio avesse voluto convincerci, avrebbe potuto fare un lavoro migliore. Guardi com’è chiara l’autenticità del Messaggio. Lo stanno raccogliendo in tutto il mondo. I radiotelescopi stanno ronzando in paesi con differenti storie, differenti lingue, differenti politiche, differenti religioni. Ognuno di essi sta ricevendo lo stesso tipo di dati dalla stessa regione del cielo, alle stesse frequenze con la stessa modulazione di polarizzazione. I musulmani, gli indù, i cristiani e gli atei stanno ricevendo tutti lo stesso messaggio. Ogni scettico può collegarsi a un radiotelescopio — non c’è bisogno che sia molto grande — e ottenere gli identici dati.»

«Lei non sta suggerendo che il messaggio radio venga da Dio,» intervenne Rankin.

«Niente affatto. Solo che la civiltà su Vega — con poteri infinitamente inferiori a quelli che voi attribuite al vostro Dio — è stata in grado di rendere le cose chiarissime. Se il vostro Dio avesse voluto parlarci tramite gli improbabili mezzi della trasmissione orale o degli scritti antichi di migliaia di anni, avrebbe dovuto farlo in modo tale da non lasciare spazio ai dibattiti sulla sua esistenza.»

Si arrestò, ma né Joss né Rankin si misero a parlare, così lei cercò di nuovo di indirizzare la conversazione sui dati.

«Perché non sospendiamo il giudizio finché non faremo qualche ulteriore progresso nella decifrazione del Messaggio? Gradireste vedere alcuni dei dati?»

Questa volta assentirono e abbastanza volentieri, si sarebbe detto. Ma lei poteva produrre soltanto risme di zeri e di unità, né edificanti né ispirate. Illustrò con cura la presunta numerazione delle pagine del Messaggio e parlò della speranza che si aveva di ricevere un manuale, una sorta di sillabario. Per un tacito accordo lei e der Heer non dissero nulla dell’opinione sovietica che il Messaggio fosse il progetto per una macchina. Si trattava soltanto di una supposizione e non era stata ancora discussa pubblicamente dai Russi. Come spinta da un ripensamento, Ellie diede una sommaria descrizione anche di Vega, della sua massa, della temperatura superficiale, del suo colore, della distanza dalla Terra, della sua età, e dell’anello di detriti che le ruotavano attorno scoperto dal satellite astronomico all’infrarosso nel 1983. «Ma oltre a essere una delle più luminose stelle del cielo, ha qualcos’altro di speciale?» voleva sapere Joss. «O qualcosa che la |t colleghi alla Terra?»

«Beh, in termini di caratteristiche stellari, non ci vedo niente di particolare. Ma c’è un fatto fortuito: Vega era la stella polare circa dodicimila anni fa, e lo sarà di nuovo fra circa quattordicimila anni.»

«Pensavo che la stella polare fosse la stella Alfa dell’Orsa minore.» Rankin, che stava ancora scarabocchiando, disse ciò al suo blocco di carta.

«Lo è, per alcune migliaia di anni. Ma non per sempre. La Terra è come una trottola in movimento. Il suo asse descrive lentamente un doppio cono avente per vertice il centro della sfera i terrestre.» Ellie cercò di dimostrare la cosa servendosi della sua matita come asse terrestre. «Il fenomeno è definito precessione degli equinozi.»

«Scoperto da Ipparco di Rodi,» aggiunse Joss. «Nel secondo I secolo avanti Cristo.» Sembrò sorprendente che ne fosse a cono-; scenza. «Esatto. Allora,» lei proseguì, «una freccia sulla retta centro della Terra-polo Nord punta in direzione della stella che chiamiamo polare, nella costellazione del Piccolo Carro, o Orsa minore. Mi pare che lei abbia fatto riferimento a questa costellazione anche prima del pranzo, signor Rankin. Dal momento che l’asse terrestre compie un lento movimento di precessione, esso punta in diverse direzioni del cielo, non verso la stella polare, e in 26.000 anni circa la regione del cielo verso cui punta il polo nord descrive un cerchio completo. Il polo nord adesso punta molto vicino alla stella polare, abbastanza per essere di utilità alla navigazione. Dodicimila anni fa, per caso, puntava in direzione di Vega. Ma non c’è una connessione fisica. La distribuzione delle stelle nella Via Lattea non ha nulla a che vedere con il fatto che l’asse di rotazione terrestre è inclinato di ventitré gradi e mezzo.»

«Allora, se risaliamo a dodicimila anni fa siamo attorno al 10.000 avanti Cristo, quando la civiltà stava proprio prendendo l’avvio. Non è vero?» chiese Joss.

«A meno che lei non creda che la Terra sia stata creata nel 4004 avanti Gisto.»

«No, noi non lo crediamo, vero fratello Rankin? Solo non pensiamo che l’età della Terra sia conosciuta con la stessa precisione sostenuta da voi scienziati. Sulla questione dell’età della Terra, siamo, come lei direbbe, agnostici.» Sorrise nella maniera più accattivante. «Allora, se le genti stavano navigando diecimila anni fa, veleggiando per il Mediterraneo o per il Golfo Persico, Vega sarebbe stata la loro guida?»

«Si era ancora nell’ultima glaciazione. Probabilmente un po’ presto per navigare. Ma i cacciatori che attraversavano il braccio di terra di Bering diretti nel Nord America compivano la loro migrazione in quell’epoca. Deve essere sembrato un dono straordinario —

provvidenziale se volete — che una stella così brillante si trovasse esattamente al nord. Scommetterei che moltissimi uomini siano stati debitori della loro vita a una simile coincidenza.»

«Benissimo, è una cosa del più grande interesse.»

«Non voglio che pensiate che abbia usato la parola ‘provvidenziale’ se non in senso metaforico.»

«Non lo penserei mai, mia cara.»

Joss ormai stava facendo segno che il pomeriggio volgeva al termine e non sembrava dispiaciuto. Ma c’erano ancora alcuni punti, a quanto pareva, sull’ordine del giorno di Rankin.

«Mi meraviglia che lei non creda che sia stata la Divina Provvidenza a far sì che Vega fosse la stella polare. La mia fede è così salda che non ho bisogno di prove, ma ogni volta che si presenta un fatto nuovo, questo non fa semplicemente che confermare la mia fede.»

«Bene allora, suppongo che non stesse ad ascoltare molto attentamente ciò che dicevo stamattina. Mi irrita l’idea che si stia partecipando a una sorta di gara di fede, e che lei sia il favorito. Per quanto ne so, lei non ha mai messo alla prova la sua fede. E’ disposto a dare la vita per la sua fede? Io sono disposta a farlo per la mia. Ecco, dia un’occhiata fuori da quella finestra. C’è un grande pendolo di Foucault là fuori. La massa oscillante deve pesare cinquecento libbre. La mia fede dice che l’ampiezza di un pendolo libero — per quanto si discosti oscillando dalla posizione verticale — non può mai aumentare. Può solo diminuire. Sono pronta ad andare là fuori, a collocare il peso davanti al mio naso, a lasciarlo andare, a farlo oscillare avanti e indietro nella mia direzione. Se le mie convinzioni sono errate, mi beccherò sul viso un colpo di cinquecento libbre. Andiamo. Vuole che saggi la mia fede?»

«Veramente non è necessario. Le credo,» ribattè Joss. Rankin, tuttavia, sembrava interessato. Stava immaginando, lei suppose, che aspetto avrebbe avuto dopo una simile sberla. «Ma lei sarebbe disposto,» proseguì Ellie, «a stare più vicino di un piede allo stesso pendolo e a pregare Dio di abbreviare l’oscillazione? Che succederebbe se risultasse che si è sbagliato completamente, che ciò che lei va insegnando non è affatto la volontà di Dio? Forse è opera del Diavolo. Forse è una pura invenzione umana. Come può esserne davvero sicuro?»

«Fede, ispirazione, rivelazione, timore reverenziale,» rispose Rankin. «Non giudichi gli altri in base alla sua personale e limitata esperienza. Il solo fatto che lei abbia rifiutato il Signore non impedisce che altri ne riconoscano la gloria.»

«Guardi, noi tutti abbiamo sete di prodigi. E’ una caratteristica profondamente umana. La scienza e la religione ne sono entrambe permeate. Ciò che sto dicendo è che non si devono inventare storie, che non si deve esagerare. Ci sono meraviglie e timori reverenziali a sufficienza nel mondo reale. La natura è molto più brava di noi a inventare meraviglie.»

«Forse noi siamo tutti viandanti sulla strada della verità,» replicò Joss.

Su questa nota di speranza, der Heer intervenne abilmente e tra saluti improntati a una cordialità affettata, si prepararono ad andarsene. Lei si chiese se si fosse portato a termine qualcosa di utile. Valerian sarebbe stato molto più efficace e molto meno provocatorio, pensò Ellie, Rimpianse di non essere riuscita a controllarsi meglio. «E’ stata una giornata interessantissima, dottor Arroway, e gliene sono grato.» Joss sembrava di nuovo un po’ distante, cerimonioso ma turbato. Comunque, le strinse la mano calorosamente. Sulla strada che portava all’auto governativa in attesa, accanto a un’esposizione in cui si sprecavano gli ologrammi sull’Errata teoria dell’universo in espansione», un cartello diceva: «Il nostro Dio è vivo e vegeto. Ci dispiace che il vostro non lo sia altrettanto.» Ellie disse sottovoce a der Heer: «Mi rincresce se ho reso il tuo compito più difficile.»

«Oh no, Ellie. Sei stata brava.»

«Quel Joss è un uomo molto affascinante. Non credo di aver fatto molto per convertirlo. Ma devo dirtelo, è quasi riuscito a convertire me.»

Stava scherzando, naturalmente.

11 L’ASSOCIAZIONE MONDIALE PER IL MESSAGGIO

«Il mondo è quasi tutto spartito, e quel che ne resta è oggetto di divisioni ulteriori, conquiste e colonizzazioni. E pensare che ci sono le stelle visibili di notte sul nostro capo, quei vasti mondi che non potremo mai raggiungere. Vorrei annettere i pianeti se potessi; ci penso spesso. Mi rende triste vederli così chiari e tuttavia così lontani.»

CECIL RHODES, Ultime volontà e testamento (1902)

Dal loro tavolo accanto alla finestra Ellie poteva vedere la pioggia torrenziale flagellare la strada. Un passante bagnato fradicio, con il bavero rialzato, si avventurava frettoloso in quel diluvio. Il proprietario del ristorante aveva arrotolato il tendone a strisce sulle ceste di ostriche, separate a seconda della grandezza e della qualità, che costituivano la specialità della casa. All’interno del locale, il famoso «Chez Dieux» in cui si riuniva la gente di teatro, Ellie si sentiva calda e protetta. Poiché era stato previsto bel tempo, non aveva con sé né impermeabile né ombrello.

Vaygay, anche lui in tenuta leggera, introdusse un nuovo argomento: «Amica mia, Meera è una ecdisiaste: questo è il termine preciso, sì? Quando lavora nel tuo paese, si esibisce per gruppi di professionisti a congressi e a convenzioni. Meera dice che quando si toglie i vestiti per uomini della classe operaia — a raduni sindacali o simili — quelli diventano sfrenati, urlano suggerimenti volgari e tentano di salire in palcoscenico. Ma quando da esattamente lo stesso spettacolo per dottori o avvocati, quelli restano seduti immobili. A dire il vero, lei dice, alcuni di loro, si leccano le labbra. Il mio interrogativo è: gli avvocati sono più sani dei metallurgici?»

Che Vaygay avesse svariate conoscenze femminili era stato sempre evidente. I suoi approcci con le donne erano così diretti e stravaganti — esclusa lei stessa per una ragione che la lusingava e l’irritava nello stesso tempo — che potevano sempre dire no senza imbarazzo. Molte dicevano di sì. Ma l’accenno a Meera giungeva un po’ inaspettato. Avevano trascorso la mattinata in un ultimo raffronto di note e interpretazioni dei nuovi dati. La trasmissione ininterrotta del Messaggio aveva raggiunto un nuovo importante stadio. Da Vega venivano trasmessi dei diagrammi col sistema delle telefoto usato dai giornali. Ogni immagine era originata da una schiera di impulsi. La quantità di minuscoli punti bianchi e neri che costituivano la foto era il prodotto di due numeri primi. Di nuovo i numeri primi facevano parte della trasmissione. C’era una lunga serie di tali diagrammi, uno di seguito all’altro, e non interfogliati con il testo. Era come una sezione di brillanti illustrazioni inserita in un libro. Dopo la trasmissione della lunga sequenza di diagrammi, l’oscuro testo continuava. Stando almeno ad alcuni dei diagrammi sembrava ovvio che Vaygay e Arkhan-gelskij avessero avuto ragione, che il Messaggio fosse almeno in parte una serie di istruzioni, di progetti per la costruzione di una macchina. Il suo scopo era ignoto. Durante la sessione plenaria dell’Associazione Mondiale per il Messaggio, che si sarebbe tenuta l’indomani all’Eliseo, lei e Vaygay avrebbero presentato per la prima volta alcuni dei dettagli ai rappresentanti delle altre nazioni facenti parte dell’Associazione. Ma la voce dell’ipotesi della macchina si era sparsa sommessamente. Durante il pranzo, Ellie aveva riassunto il suo incontro con Rankin e Joss. Vaygay era stato attento, ma non aveva posto alcuna domanda. Era come se lei avesse confessato qualche indecente predilezione personale e forse ciò aveva scatenato in lui una sequenza di associazioni di idee.

«Tu hai un’amica che si chiama Meera che fa la spogliarellista? Su palcoscenici internazionali?»

«Da quando Wolfgang Pauli ha scoperto il principio di esclusione mentre assisteva a uno spettacolo delle Folies-Bergère, ho sentito il dovere professionale, come fisico, di visitare Parigi il più sovente possibile. Considero la cosa come un mio omaggio a Pauli. Ma non riesco mai a convincere i funzionari del mio paese ad approvare dei viaggi a questo solo scopo. Di solito devo fare anche un po’ di fisica prosaica. Ma nei posti in cui ho incontrato Meera sono uno studente istintivo in attesa dell’intuizione che consenta una scoperta.»

Bruscamente il suo tono di voce passò dal fiorito al realistico. «Meera dice che i professionisti americani sono sessualmente repressi e tormentati da dubbi e sensi di colpa.»

«Davvero. E che dice Meera dei professionisti russi?»

«Ah, di quella categoria conosce solo me. Perciò, naturalmente, ha una buona opinione. Credo che preferirei stare con Meera domani.»

«Ma tutti i tuoi amici saranno all’incontro dell’Associazione,» disse lei allegramente.

«Sì, sono felice che tu ci sia,» ribattè Vaygay cupamente. «Che cosa ti sta preoccupando, Vaygay?»

Ci mise molto prima di rispondere, e cominciò con una leggera ma inconsueta esitazione. «Forse non preoccupazioni. Forse soltanto inquietudini… Che accadrà se il Messaggio è davvero il progetto di una macchina? Costruiamo la macchina? Chi la costruisce? Tutti insieme? L’Associazione? Le Nazioni Unite? Alcuni stati in competizione? Che succederà se i costi saranno enormi? Chi paga? Perché dovrebbero volerlo fare? Che accadrà se non funziona? La costruzione della macchina potrebbe danneggiare economicamente alcune nazioni? Potrebbe danneggiarle in qualche altro modo?» Senza interrompere il suo profluvio di interrogativi, Lunacarskij vuotò il resto del vino nei loro bicchieri. «Anche se il Messaggio ricomincia da capo e anche se riusciamo a decifrarlo completamente, come sarebbe la qualità della traduzione? Conosci l’opinione di Cervantes? Lui diceva che leggere una traduzione è come esaminare il retro di un arazzo. Forse non è possibile tradurre il Messaggio perfettamente. Allora, non potremmo costruire la macchina perfettamente. Inoltre, siamo davvero sicuri di essere in possesso di tutti i dati? Forse ci sono informazioni essenziali su qualche altra frequenza che non abbiamo ancora scoperto. Sai Ellie, pensavo che si dovrebbe andare molto cauti nella costruzione della macchina. Ma può darsi che domani alcuni dei partecipanti ai lavori ne richiedano l’immediata realizzazione: intendo dire subito dopo aver ricevuto il sillabario e decodificato il Messaggio, presupponendo che ci si riesca. Che cosa proporrà la delegazione americana?»

«Non lo so,» rispose lei lentamente. Ma ricordò che poco dopo che il materiale diagrammatico era stato ricevuto, der Heer aveva cominciato a chiedere se fosse probabile che la macchina rientrasse nelle possibilità economiche e tecnologiche della Terra. Lo potè rassicurare ben poco in proposito. Si rammentò di nuovo come fosse apparso preoccupato Ken nelle ultime settimane, talvolta addirittura nervoso. Le sue responsabilità in questa faccenda erano, naturalmente…

«Il dottor der Heer e il signor Kitz sono scesi nel tuo hotel?»

«No, sono ospiti dell’Ambasciata.»

Era sempre così. A causa della natura dell’economia sovietica e della sentita necessità di acquistare tecnologie militari invece di generi di consumo con la loro limitata valuta pregiata, i russi avevano poco denaro a disposizione quando visitavano l’Occidente. Erano obbligati a soggiornare in alberghi di seconda o terza categoria, e persino in camere d’affitto, mentre i loro colleghi occidentali vivevano in un relativo lusso. Era una continua causa di imbarazzo per gli scienziati di entrambi i paesi. Pagare il conto per quel pasto relativamente semplice sarebbe stato facile per Ellie ma gravoso per Vaygay, nonostante la sua posizione relativamente elevata nella gerarchia scientifica sovietica. Adesso, Vaygay a che cosa stava… «Vaygay, vai diritto al punto. Che cosa intendi dire? Credi che Ken e Mike Kitz stiano agendo con troppa fretta?»

«‘Diritto’. Una parola interessante; non a destra, né a sinistra, ma progressivamente in avanti. Mi preoccupa il fatto che nei prossimi giorni assisteremo a una prematura discussione sulla costruzione di qualcosa che non abbiamo nessun diritto di costruire. I politici ritengono che noi sappiamo tutto. In realtà, non sappiamo quasi niente. Una situazione simile può essere pericolosa.» Alla fine le fu chiaro che Vaygay si stava assumendo una personale responsabilità per aver prospettato la natura del Messaggio. Se avesse condotto a qualche catastrofe, si angustiava che potesse essere colpa sua. Aveva pure motivi meno personali, naturalmente. «Vuoi che parli con Ken?»

«Se pensi che sia conveniente. Hai frequenti opportunità di parlargli, vero?» Lo disse con noncuranza.

«Vaygay, non saresti geloso, vero? Credo che ti sia accorto dei miei sentimenti per Ken prima di me. Quando sei ritornato al-l’Argus. Io e Ken siamo stati più o meno insieme durante gli ultimi due mesi. Hai quache riserva da fare?»

«Oh no, Ellie. Non sono tuo padre, né un amante geloso. Per te desidero soltanto una grande felicità. E’ solo che vedo tante spiacevoli possibilità.» Ma non si dilungò oltre.

Ritornarono alle loro interpretazioni preliminari di alcuni diagrammi, che avevano finito col ricoprire il tavolo. Nel contempo, discussero anche un po’ di politica: del dibattito in America sulle Direttive di Mandela per risolvere la crisi in Sud Africa, e della crescente guerra verbale tra l’Unione Sovietica e la Repubblica Democratica Tedesca. Come sempre, Arroway e Lu-nacarskij si divertivano a parlar male della politica estera dei loro rispettivi paesi. Era di gran lunga più interessante che sparlare della politica estera dell’altrui nazione, cosa che sarebbe stata ugualmente facile da farsi. Durante la loro rituale disputa sulla divisione del conto, Ellie si accorse che l’acquazzone si era trasformato in una pioggia leggera. Ormai, la notizia del Messaggio proveniente da Vega aveva raggiunto ogni angolo e recesso del pianeta Terra. Persone che non sapevano nulla di radiotelescopi e non avevano mai sentito parlare di un numero primo, vennero a conoscenza di una storia bizzarra che riguardava una voce dalle stelle, e stràni esseri — non esattamente uomini, ma neppure dei — che erano stati scoperti nel cielo notturno. Non erano originari della Terra. La stella che era la loro dimora poteva essere vista facilmente anche in una nottata di plenilunio. In mezzo alla frenesia di commenti settari che non accennava a placarsi, c’era anche — in tutto il mondo appariva ora evidente — un senso di meraviglia e persino di timore reverenziale. Qualcosa di sconvolgente, qualcosa di quasi miracoloso stava avvenendo. L’aria era piena di possibilità, aleggiava un senso di nuovo inizio. «L’umanità è stata promossa alla scuola superiore,» aveva scritto l’editorialista di un giornale americano.

C’erano altri esseri intelligenti nell’universo. Si poteva comunicare con loro. Erano probabilmente più vecchi di noi, forse più saggi. Ci stavano mandando volumi di complesse informazioni. C’era una diffusa attesa di un’imminente rivelazione secolare. Allora gli specialisti di ogni materia cominciarono a preoccuparsi. I matematici si preoccupavano delle scoperte elementari che potevano esser loro sfuggite. I capi religiosi si preoccupavano che i valori spirituali di Vega, per quanto alieni, potessero trovare presto dei proseliti, specialmente fra i giovani ignoranti. Gli astronomi si preoccupavano che ci potessero essere dei principi fondamentali riguardanti le stelle vicine su cui si fossero sbagliati. I politici e i capi di governo si preoccupavano che qualche altro sistema di governo, completamente diverso da quelli vigenti, potesse essere ammirato da una civiltà superiore. Qualunque cosa gli abitanti di Vega conoscessero non era stata influenzata da istituzioni, storia o biologia umane. Che sarebbe accaduto se gran parte di ciò che riteniamo vero fosse stato un equivoco, un caso speciale, un errore di logica? Gli esperti cominciarono ansiosamente a ricontrollare i fondamenti delle loro materie.

Oltre a questa ristretta inquietudine professionale, c’era la formidabile, crescente percezione di una nuova avventura per il genere umano, di una svolta, di un’irruzione in una nuova età: un simbolismo potentemente amplificato dalPawicinarsi del terzo millennio. C’erano ancora dei conflitti politici, alcuni dei quali — come la persistente crisi sudafricana — piuttosto seri. Ma c’era anche un notevole declino in molte parti del mondo di retorica sciovinista e di puerile nazionalismo autocelebratore. C’era la sensazione che l’umana specie, bilioni di minuscoli esseri sparsi per il mondo, avesse avuto in dono un’opportunità senza precedenti, ma anche un grave pericolo comune. A molti sembrava assurdo che gli stati in lotta continuassero le loro mortali contese quando si trovavano di fronte a una civiltà non umana di ben più grandi possibilità. C’era un soffio di speranza nell’aria. Alcuni ne avevano perso l’abitudine e la scambiarono per qualcos’altro: confusione, forse, o vigliaccheria. Per decenni, dopo il 1945, la riserva mondiale di armi strategiche nucleari era costantemente aumentata. I leader cambiavano, i sistemi di armi cambiavano, la strategia cambiava, ma il numero delle armi strategiche cresceva soltanto. Venne il tempo in cui ce n’erano più di 25.000 sul pianeta, dieci per ogni metropoli. La tecnologia stava velocemente evolvendosi, incentivando l’ottica del primato militare, l’essere i primi a colpire o, così veniva detto, a contrattaccare. Soltanto un così colossale pericolo poteva annientare una così colossale stupidità, alimentata da tanti leader in tante nazioni per tanto tempo. Ma alla fine il mondo rinsavì, almeno sino a un certo punto, e fu firmato un accordo tra Stati Uniti, Unione Sovietica, Gran Bretagna, Francia e Cina. Non si prefiggeva di liberare il mondo dalle armi nucleari. Pochi si aspettavano che trascinasse qualche Utopia sulla sua scia. Ma gli americani e i russi si impegnarono a ridurre i loro arsenali strategici a mille armi nucleari ciascuno. I particolari vennero attentamente vagliati affinchè nessuna delle due superpotenze si trovasse in posizione di svantaggio nelle varie fasi delle operazioni di disarmo. La Gran Bretagna, la Francia e la Cina si trovarono d’accordo nel cominciare a ridurre i loro arsenali una volta che le superpotenze fossero scese sotto le 3.200 unità. Vennero firmati gli Accordi di Hiroshima, tra l’esultanza generale, vicino alla famosa placca commemorativa per le vittime della prima città cancellata da un’arma nucleare: «Riposate in pace e che non accada mai più.» Ogni giorno gli elementi fissionabili asportati da un egual numero di testate americane e russe venivano consegnati a una base speciale diretta da tecnici statunitensi e russi. Il plutonio veniva estratto, registrato, sigillato e trasportato da squadre di entrambi i paesi in centrali nucleari dove veniva consumato e convertito in elettricità.

Questo piano, chiamato Gayler dal nome di un ammiraglio americano, venne salutato ovunque come il non plus ultra per trasformare le spade in vomeri. Poiché ogni nazione possedeva ancora un potenziale bellico devastante, anche i militari alla fine ne furono soddisfatti. I generali, come chiunque altro, non desideravano certo la morte dei loro figli, e la guerra nucleare è la negazione delle virtù militari convenzionali: è difficile trovare un gran valore nel premere un bottone. La cerimonia del primo disinnesco — trasmessa in diretta e replicata molte volte — ebbe come protagonisti alcuni tecnici americani e russi in camice bianco che spingevano due di quegli oggetti metallici di color grigio scuro, ognuno grande come un divano e variamente decorati con stelle e strisce, falci e martelli. La trasmissione fu vista da una percentuale altissima della popolazione mondiale. I telegiornali serali informavano con regolarità sul numero delle armi strategiche che erano state disinnescate da entrambe le parti e sul numero di quelle che dovevano essere ancora smontate. Di lì a poco più di due decenni, anche tale notizia avrebbe raggiunto Vega. Negli anni seguenti, il disarmo continuò, quasi senza intoppi. Da principio venne consegnato il sovrappiù degli arsenali, con un modesto cambiamento nella dottrina strategica; ma ora le riduzioni cominciavano a farsi sentire e i sistemi di armi più destabilizzanti venivano smantellati. Era qualcosa che gli esperti avevano definito impossibile e dichiarato «contrario alla natura umana». Ma una sentenza di morte, come aveva osservato Samuel Johnson, riesce a far concentrare la mente in maniera prodigiosa. Negli ultimi sei mesi, il disarmo nucleare da parte degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica aveva compiuto nuovi e più importanti passi in avanti, con la decisione di dare il via a controlli regolari effettuati da squadre di tecnici di entrambe le nazioni che dovevano agire l’una sul territorio dell’altra, nonostante la disapprovazione e la preoccupazione manifestate pubblicamente dagli staff militari di entrambi i paesi. Le Nazioni Unite si trovarono a mediare, con risultati inaspettatamente positivi, alcuni contrasti internazionali, giungendo alla risoluzione delle guerre di confine Cile-Argentina e Irak-Iran. Corse anche voce, non del tutto priva di fondamento, di un trattato di non aggressione stipulato tra la NATO e il Patto di Varsavia. I delegati che giungevano alla prima sessione plenaria dell’Associazione Mondiale per il Messaggio erano inclini a una cordialità che non trovava paragoni negli ultimi decenni.

Ogni nazione, in possesso anche soltanto di frammenti del Messaggio, era rappresentata da inviati scientifici e politici; un numero sorprendente di paesi inviò pure delle rappresentative militari. In alcuni casi, le delegazioni nazionali erano guidate dai ministri degli esteri o addirittura dai capi di stato. La delegazione del Regno Unito includeva il visconte di Boxforth, lord del Sigillo Privato, una carica onorifica che Ellie trovava personalmente comica. La delegazione sovietica era capeggiata da B. Ya. Abukhimov, presidente dell’Accademia Sovietica delle Scienze, con Gotsridze, il ministro dell’Industria semipesante, e Arkhangelskij che rivestivano ruoli significativi. La Presidente degli Stati Uniti aveva insistito perché fosse der Heer a capeggiare la delegazione americana, sebbene questa includesse il Sottosegretario di Stato Elmo Honicutt e Michael Kitz, tra gli altri, per il Dipartimento della Difesa.

Una grande e complessa carta in proiezione equiareale mostrava la disposizione dei radiotelescopi sul pianeta, comprese le navi russe per l’intercettazione. Ellie diede un’occhiata alla sala delle conferenze ultimata da poco, vicina agli uffici e alla residenza del presidente francese. Al secondo anno del suo mandato settennale, questi stava facendo ogni sforzo per garantire il successo dell’incontro. Una moltitudine di facce, di bandiere, di abiti nazionali veniva riflessa dai lunghi tavoli di mogano lucido e dalle pareti ricoperte di specchi. Riconobbe alcuni dei politici e dei militari, ma in ogni delegazione sembrava esserci almeno uno scienziato o un ingegnere che le erano familiari: Annunziata e lan Broderick per l’Australia; Fedirka per la Cecoslovacchia; Braude, Crebillon e Boileau per la Francia; Kumar Chandrapurana e Devi Sukhavati per l’India; Hironaga e Matsui per il Giappone… Ellie riflette sul forte background tecnologico più che radioastronomico di molti dei delegati, specialmente dei giapponesi. L’idea che la costruzione di una grande macchina potesse essere sull’ordine del giorno di quell’incontro aveva motivato dei cambiamenti dell’ultimo minuto nella composizione delle delegazioni. Ellie riconobbe anche l’italiano Malatesta; Badenbaugh, un fisico che si era dato alla politica, Clegg, e il venerando sir Arthur Chatos che stavano chiacchierando dietro una di quelle bandierine inglesi che si possono trovare sui tavoli dei ristoranti nelle località turistiche europee; lo spagnolo Jaime Ortiz; Prebula della Svizzera, fatto strano, dal momento che la confederazione elvetica non possedeva, per quanto lei ne sapeva, neppure un radiotelescopio; Bao, che era riuscito brillantemente a mettere insieme la schiera di radiotelescopi cinesi; Wintergaden della Svezia. C’erano delegazioni sorprendentemente numerose dell’Arabia Saudita, del Pakistan e dell’Irak; e, naturalmente, i russi, tra cui Nadya Rozhdestvenskaya e Genrikh Arkhangelskij che stavano condividendo un momento di genuina ilarità.

Ellie cercò con lo sguardo Lunacarskij e finalmente lo individuò tra la delegazione cinese. Stava stringendo la mano a Yu Renqiong, il direttore del radio osservatorio di Beijing. Le venne in mente che i due uomini erano stati amici e colleghi durante il periodo della cooperazione cino-sovietica. Ma le ostilità tra le loro due nazioni avevano posto fine a ogni contatto tra di loro, e le restrizioni cinesi sui viaggi all’estero dei loro più importanti scienziati erano ancora severe quasi quanto le limitazioni sovietiche. Si rese conto di essere testimone del loro primo incontro dopo quasi venticinque anni. «Chi è quel vecchio cinese cui Vaygay sta stringendo la mano?» Questo era, per Kitz, un tentativo di essere cordiale. Aveva fatto piccole avances di questo tipo negli ultimissimi giorni: un’evoluzione che secondo lei non prometteva nulla di buono. «E’ Yu, il direttore dell’osservatorio di Beijing.»

«Pensavo che quei due si odiassero a morte.»

«Michael,» disse lei, «il mondo è migliore e peggiore di quel che lei possa immaginare.»

«Può probabilmente battermi sul ‘migliore’,» replicò lui, «ma non può essere alla mia altezza sul ‘peggiore’.» Dopo il discorso di benvenuto del presidente francese (che, inaspettatamente rimase ad ascoltare le presentazioni di apertura) e una discussione sulla procedura e sull’ordine del giorno di der Heer e Abukhimov in vesti di copresidenti della conferenza, Ellie e Vaygay insieme riassunsero i dati. Fecero quelle che erano ormai le presentazioni tipo — non troppo tecniche, per la presenza di politici e di militari — del funzionamento e del lavoro dei radiotelescopi, della distribuzione delle stelle vicine nello spazio, e della storia del palinsesto del Messaggio. La loro presentazione in tandem si concluse con uno studio, che apparve sui monitor davanti a ogni delegazione, del materiale diagrammatico ricevuto di recente. Ellie fu scrupolosa nel mostrare come la modulazione di polarizzazione fosse stata convertita in una sequenza di zeri e di unità, come gli zeri e le unità si combinassero insieme a formare un’immagine e come nella maggior parte dei casi essi non avessero la benché minima idea di ciò che l’immagine poteva significare. I punti dei dati si raggruppavano sugli schermi degli elaboratori. Poteva vedere i volti illuminati di bianco, di giallo intenso e di verde dai monitor nella sala che era stata adesso parzialmente oscurata. I diagrammi mostravano intricate reti ramificate; forme biologiche dalle protuberanze quasi indecenti; un dodecaedro regolare perfettamente formato. Una lunga serie di pagine era stata riunita in una costruzione tridimensionale elaboratamente dettagliata, che ruotava lentamente. Ogni enigmatico oggetto era accompagnato da una didascalia incomprensibile.

Vaygay sottolineò le incertezze con un’insistenza addirittura maggiore della sua. Tuttavia, egli riteneva, con una certa sicurezza ormai, che il Messaggio fosse un manuale per la costruzione di una macchina. Tralasciò di dire che l’idea che il Messaggio fosse un progetto era stata originariamente sua e di Arkhangelskij ed Ellie colse l’opportunità di riparare alla sua trascuratezza. Negli ultimi mesi Ellie aveva parlato dell’argomento a sufficienza per sapere che il pubblico scientifico e comune restava spesso affascinato dai dettagli della decifrazione del Messaggio, e stuzzicato dal concetto di sillabario che doveva ancora essere dì-mostrato. Ma era impreparata alla reazione di questo pubblico che si sarebbe detto serio ed equilibrato. Lei e Vaygay avevano fatto le loro presentazioni in perfetta armonia. Quand’ebbero finito, ci fu un prolungato scroscio di applausi. I russi e le delegazioni dell’Europa orientale applaudirono all’unisono, con una frequenza di circa due o tre battimani ogni battito cardiaco. Gli americani e molti altri applaudirono separatamente, e i loro battimani non sincronizzati erano simili a un turbine di rumore bianco che si sprigionasse dai presenti. Travolta da un inconsueto tipo di gioia, non riuscì a non pensare alle differenze di carattere nazionale: gli americani individualisti, e i russi impegnati in uno sforzo collettivo. Inoltre, si ricordò come gli americani quando si trovano in un assembramento cerchino di stare il più lontano possibile dai loro simili, mentre i russi hanno la tendenza a restare più vicini che possono. Entrambi gli stili di applausi, con una chiara predilezione per quello americano, le facevano piacere. Per un attimo soltanto si autorizzò a pensare al suo patrigno. E a suo padre.

Dopo la pausa del pranzo, ci fu una serie di altre presentazioni sulla raccolta dei dati e la loro interpretazione. David Drumlin procedette a un esame straordinariamente accurato e competente di un’analisi statistica cui aveva sottoposto di recente tutte le precedenti pagine del Messaggio che si riferivano ai nuovi diagrammi numerati. Egli dimostrò che il Messaggio conteneva non solo un progetto per la costruzione di una macchina ma anche le descrizioni dei disegni e i metodi di realizzazione dei suoi componenti e subcomponenti. In alcuni casi, egli pensava, c’erano descrizioni di industrie totalmente nuove, non ancora conosciute sulla Terra. Ellie, a bocca aperta, puntò il dito contro Drumlin, chiedendo con lo sguardo a Valerian se ne avesse saputo qualcosa. Con le labbra contratte, Valerian alzò le spalle e girò le palme delle mani in su. Ellie passò in rassegna i volti degli altri delegati per leggervi un qualche segno di emozione, ma poteva scoprirvi soprattutto tracce di stanchezza; l’osticità del materiale tecnico e la necessità, prima o poi, di prendere delle decisioni politiche stavano già producendo una certa tensione sui partecipanti. Dopo la seduta, Ellie si complimentò con Drumlin per l’interpretazione data ma gli chiese anche perché fino a quel momento non ne avesse sentito parlare. Egli rispose prima di allontanarsi: «Oh, non pensavo che fosse abbastanza importante per venire a scomodarti. Si tratta di piccolezze di cui mi sono occupato mentre tu eri via a consultare quei fanatici religiosi.» Se Drumlin fosse stato il relatore della sua tesi, lei avrebbe dovuto ancora conseguire il suo dottorato in fisica, pensò. Non era mai riuscito ad accettarla del tutto. Non avrebbero mai condiviso un rapporto cordiale da college. Sospirando, si chiese se Ken fosse stato a conoscenza del nuovo lavoro di Drumlin. Ma come co-presidente della conferenza, der Heer era seduto con il suo collega sovietico su una pedana rialzata di fronte ai posti per. i delegati disposti a ferro di cavallo. Era, come lo era stato per settimane, quasi inaccessibile. Drumlin non era obbligato a discutere le sue scoperte con lei, naturalmente; sapeva che entrambi erano stati troppo assorbiti dal lavoro recentemente. Ma quando parlava con lui, perché era sempre accomodante, e polemica solo nei casi estremi? Una parte di lei evidentemente sentiva che il conferimento del suo dottorato e l’opportunità di continuare nella sua scienza erano ancora future possibilità riposte saldamente nelle mani di Drumlin. La mattina del secondo giorno, fu data la parola a un delegato sovietico, che le era sconosciuto. «Stefan Alexeivic Baruda», diceva la scheda biografica sullo schermo del suo elaboratore, «direttore dell’Istituto per gli studi per la pace, dell’Accademia Sovietica delle Scienze, Mosca; membro del Comitato centrale del Partito comunista dell’URSS.»

«Adesso cominciamo a giocare duro,» sentì dire da Michael Kitz a Elmo Honicutt del Dipartimento di Stato.

Baruda era un uomo vivace, che indossava un abito da uomo d’affari occidentale, dal taglio elegante, forse italiano, all’ultima moda. Il suo inglese era scorrevole e quasi privo di accento. Era nato in una delle repubbliche baltiche, ed era piuttosto giovane per essere alla testa di un’organizzazione così importante — costituita per studiare le implicazioni a lunga scadenza per la politica strategica di riduzione delle armi nucleari — ed era un esempio di primo piano della new wave nella leadership sovietica.

«Siamo franchi,» stava dicendo Baruda. «Ci stanno inviando un Messaggio dalle profondità dello spazio. La maggior parte delle informazioni sono state raccolte dall’Unione Sovietica e da-j gli Stati Uniti. Parti essenziali sono state captate anche da altri paesi, che sono rappresentati tutti a questa conferenza. Ciascuna: nazione — l’Unione Sovietica, per esempio — potrebbe aver attesa che il Messaggio si ripetesse parecchie volte, come noi tutti speriamo che avvenga, ed entrare in possesso in tal modo dei molti pezzi mancanti. Ma la cosa avrebbe richiesto degli anni, forse decenni, e noi siamo un po’ impazienti. Perciò noi tutti abbiamo condiviso i dati.

Ogni nazione — l’Unione Sovietica, per esempio — potrebbe collocare in orbita attorno alla Terra grandi radiotelescopi con sensibili ricevitori funzionanti sulle frequenze del Messaggio. Anche gli americani potrebbero farlo. Forse pure il Giappone, o la Francia o l’Agenzia spaziale europea. Allora ogni nazione da sola potrebbe venire in possesso di tutti i dati, perché nello spazio un radiotelescopio può puntare su Vega continuamente. Ma questo potrebbe essere giudicato un atto ostile. Non è un segreto che gli Stati Uniti o l’Unione Sovietica sarebbero in grado di abbattere tali satelliti. Perciò, forse anche per questa ragione, tutti noiAabbiamo condiviso i dati.

E meglio cooperare. I nostri scienziati desiderano scambiare non solo i dati che hanno raccolto, ma anche le loro speculazioni, le loro congetture, i loro… sogni. Voi scienziati siete tutti simili a questo riguardo. Io non sono uno scienziato. La mia specializzazione è il governo. Perciò so che anche le nazioni si assomigliano. Ogni nazione è cauta. Ogni nazione è sospettosa. Nessuno di noi concederebbe un vantaggio a un potenziale avversario se potessimo evitarlo. E allora ci sono state due opinioni — forse di più, ma almeno due — una che consiglia lo scambio di tutti i dati, e un’altra che consiglia ogni nazione di cercare di ottenere un vantaggio sulle altre. ‘Potete star sicuri che l’altra parte sta cercando qualche vantaggio’, si dice. Avviene lo stesso nella maggior parte dei paesi. Gli scienziati hanno avuto la meglio in questo dibattito. Così, per esempio, la maggior parte dei dati — voglio sottolineare il fatto che non sono tutti — acquisiti dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica sono stati scambiati. La maggior parte dei dati provenienti da tutti gli altri paesi sono stati scambiati in tutto il mondo. Siamo felici di aver preso questa decisione.»

Ellie sussurrò a Kitz: «Questo non mi sembra ‘giocar duro’.»

«Resti sintonizzata,» le sussurrò di rimando.

«Ma ci sono altri tipi di pericoli. Noi vorremmo ora sottoporne uno all’attenzione dell’Associazione.» Il tono di Baruda le fece venire in mente quello di Vaygay durante il pranzo di alcuni giorni prima.

Qual era l’idea che ronzava in testa ai russi?

«Abbiamo ascoltato l’accademico Lunacarskij, il dottor Arroway e altri scienziati affermare concordemente che stiamo ricevendo le istruzioni per costruire una macchina complessa. Supponiamo che, come ognuno sembra aspettarsi, la fine del Messaggio arrivi; che il Messaggio riparta dall’inizio, e che noi riceviamo l’introduzione o — il termine inglese è ‘sillabario’? — il sillabario che ci consenta di leggere il Messaggio. Supponiamo anche che si continui a cooperare in pieno, noi tutti. Ci scambiamo tutti i dati, tutte le fantasie, tutti i sogni.

Ora, gli esseri di Vega non ci stanno inviando queste istruzioni per il loro divertimento. Vogliono che noi costruiamo una macchina. Forse vogliono dirci a che cosa dovrebbe servire la macchina. Forse no. Ma anche se lo faranno, perché dovremmo credere loro? Lascio galoppare la mia fantasia, svelo il mio sogno, che non è un bel sogno. Che accadrebbe se questa macchina fosse un cavallo di Troia? Costruiamo la macchina spendendo una fortuna, la mettiamo in funzione e improvvisamente ne esce un’armata di invasori. O che accadrebbe se si trattasse di una macchina da Giudizio Universale? La costruiamo, la facciamo funzionare, e la Terra scoppia. Forse questo è il loro modo di sopprimere le civiltà che stanno appena emergendo nel cosmo. Non costerebbe loro molto; pagano solo per un telegramma, e la civiltà, che ha appena cominciato a progredire, ubbidientemente distrugge se stessa.

Quello che sto per chiedervi è solo un suggerimento, un argomento del giorno. Lo sottopongo alla vostra considerazione. Intendo che sia costruttivo. Su questo punto, tutti dividiamo lo stesso pianeta, tutti abbiamo gli stessi interessi. Non c’è dubbio che sarò troppo schietto. Ecco la mia domanda: non sarebbe meglio bruciare i dati e distruggere i radiolescopi?»

Ne seguì una grande confusione. Molte delegazioni chiesero simultaneamente che venisse data loro la parola. Invece, i co-presidenti della conferenza sembravano soprattutto impegnati a rammentare ai delegati che le sedute non dovevano essere registrate in alcun modo. Non si doveva concedere nessuna intervista ai giornali. Ci sarebbero stati dei comunicati stampa quotidiani, concordati dai co-presidenti della conferenza e dai capi delle delegazioni. Anche gli aspetti procedurali della discussione dovevano restare entro quelle pareti.

Parecchi delegati chiesero chiarimenti alla presidenza. «Se Baruda ha ragione a proposito di un cavallo di Troia o di una macchina da Giudizio Universale,» gridò un delegato olandese, «non è nostro dovere informare il pubblico?» Ma non gli era stata data la parola e il suo microfono non era stato attivato. Passarono ad altre, più urgenti, questioni.

Ellie aveva pestato in fretta i tasti del terminale dell’elaboratore di servizio che aveva davanti, per essere una delle prime a poter prendere la parola. Scoprì di essere stata messa in lista per seconda, dopo Sukhavati e prima di un delegato cinese. Ellie conosceva superficialmente Devi Sukhavati. Era una donna maestosa sui quarantacinque anni, pettinata all’occidentale, con sandali a tacco alto e un magnifico sari di seta. Dopo essere stata medico, era diventata uno dei principali esperti indiani in biologia molecolare e ora divideva il suo tempo tra il King’s College di Cambridge e il Tata Institute di Bombay. Era una delle poche persone del suo paese a far parte della Royal Society di Londra e si diceva che fosse ben piazzata politicamente. Si erano incontrate l’ultima volta alcuni anni prima, a un simposio internazionale a Tokyo, prima che la ricezione del Messaggio avesse eliminato gli inevitabili punti interrogativi nei titoli di alcuni dei loro articoli scientifici. Ellie aveva sentito una reciproca affinità tra loro, dovuta solo in parte al fatto che erano tra le poche donne partecipanti a congressi scientifici sulla vita extraterrestre.

«Devo ammettere che l’accademico Baruda ha sollevato una questione importante e delicata,» cominciò a dire Sukhavati, «e sarebbe assurdo scartare l’eventualità del cavallo di Troia senza pensarci due volte. Tenuto conto di gran parte della storia recente, è un’idea che sorge spontanea e mi sorprende che ci sia voluto tanto perché venisse presa in considerazione. Tuttavia, vorrei mettere in guardia da tali paure. E’ improbabile al massimo che gli esseri su un pianeta della stella Vega siano esattamente al nostro livello di progresso tecnologico. Anche sul nostro pianeta, le culture non si evolvono a ranghi serrati. Alcune cominciano prima, altre dopo. Riconosco che alcune culture possono mettersi in pari almeno dal punto di vista tecnologico. Quando c’erano civiltà progredite e raffinate in India, in Cina, in Irak e in Egitto, c’erano, nel migliore dei casi, nomadi dell’età del ferro in Europa e in Russia e culture dell’età della pietra in America.

Ma i divari tecnologici saranno di gran lunga più grandi nelle presenti circostanze. Gli extraterrestri sono probabilmente molto più avanti di noi, certamente più di alcune centinaia di anni: torse migliaia, o addirittura milioni. Ora, io vi domando di confrontare ciò con il ritmo dell’avanzamento tecnologico umano dell’ultimo secolo. Sono cresciuta in un piccolo villaggio dell’India meridionale. Ai tempi di mia nonna la macchina per cucire a pedale era una meraviglia della tecnica. Di che cosa potrebbero essere capaci degli esseri che sono migliaia di anni avanti di noi? O milioni? Come ha detto una volta un filosofo nella nostra parte del mondo: ‘I prodotti di una civiltà extraterrestre sufficientemente avanzata sarebbero indistinguibili dalla magia’.

Noi non possiamo costituire assolutamente una minaccia per loro. Non hanno nulla da temere da parte nostra, e sarà così per moltissimo tempo. Non si tratta di un confronto tra Greci e Troiani, che erano sullo stesso livello. Questo non è un film di fantascienza in cui creature originarie di differenti pianeti combattono con armi simili. Se desiderano distruggerci, lo possono certamente fare con o senza la nostra eco…»

«Ma a quale prezzo?» l’interruppe qualcuno dalla sala. «Non capite? Questo è il punto. Baruda dice che le nostre trasmissioni televisive costituiscono per loro il segnale che è venuto il momento di distruggerci, e il Messaggio ne è il mezzo. Le spedizioni punitive sono costose. Il Messaggio è economico.» Ellie non riuscì a individuare chi avesse fatto questo intervento.

Sembrava fosse qualcuno della delegazione britannica. Le sue osservazioni non erano state amplificate dal sistema audio perché ancora una volta la Presidenza non aveva concesso la parola all’oratore. Ma l’acustica nella sala delle conferenze era abbastanza buona perché lo si fosse potuto udire perfettamente. Der Heer, alla Presidenza, cercava di mantenere l’ordine. Abukhimov si piegò in avanti e sussurrò qualcosa a un assistente. «Lei pensa che ci sia un pericolo nel costruire la macchina,» Sukhavati ribattè. «Io penso che ci sia un pericolo nel non costruire la macchina. Mi vergognerei del nostro pianeta se voltassimo le spalle al futuro. I suoi antenati» — Devi puntò un dito in dirczione del suo interlocutore — «non erano così pavidi quando salparono per la prima volta per l’India o per l’America.»

Questo convegno promette di riservare molte sorprese, pensò Ellie, benché dubitasse che Clive o Raleigh potessero essere gli esempi più appropriati per la decisione che si doveva prendere in quell’occasione. Forse Sukhavati stava soltanto punzecchiando gli inglesi per i passati misfatti coloniali. Ellie attendeva che si accendesse la luce verde sulla sua consolle per indicare che il suo microfono era in funzione.

«Signor Presidente.» Con questo tono formale e pubblico, che le era venuto quasi spontaneo, Ellie si rivolse a der Heer, che non era riuscita quasi a vedere negli ultimi giorni. Avevano organizzato di trascorrere assieme il pomeriggio dell’indomani durante una pausa dei lavori e si chiedeva leggermente ansiosa di che cosa avrebbero parlato. Ahi, preoccupazione fuori luogo, pensò. «Signor Presidente, credo che si possa fare un po’ di luce su queste due questioni: il cavallo di Troia e la macchina del Giudizio Universale. Avevo l’intenzione di discuterne domattina, ma sembra proprio che sia pertinente parlarne adesso.» Ellie battè sulla sua consolle i numeri di codice per alcune delle sue diapositive. La grande sala dalle pareti ricoperte di specchi si oscurò. «Il dottor Lunacarskij e io siamo convinti che queste siano differenti proiezioni della stessa configurazione tridimensionale. Ieri, abbiamo mostrato l’intera configurazione in una rotazione simulata dall’elaboratore. Noi riteniamo, benché non ne possiamo essere sicuri, che questo sia l’aspetto dell’interno della macchina. Fino a ora, non c’è nessuna chiara indicazione di scala. Forse è larga un chilometro, forse è submicroscopica. Ma notate questi cinque oggetti posti a intervalli regolari attorno all’orlo della principale camera interna, entro il dodecaedro. Ecco un primo piano di uno di essi. Sono le uniche cose presenti nella camera che abbiano un aspetto riconoscibile.

Sembra essere una comune poltrona superimbottita, perfettamente configurata per un essere umano. E’ molto improbabile che creature extraterrestri, evolutesi su un altro mondo completamente diverso, ci somiglino abbastanza per condividere le nostre preferenze in fatto di arredamento da stanza di soggiorno. Ecco, guardate questo primo piano. Assomiglia a qualcosa che si trovava nel ripostiglio di mia madre quando ero adolescente.»

Infatti sembrava quasi che avesse delle fodere a fiori. Si sentì un po’ in colpa. Aveva trascurato di telefonare a sua madre prima di partire per l’Europa, e, a dire la verità, l’aveva chiamata soltanto una o due volte da quando il Messaggio era stato ricevuto. Ellie, come puoi? Si mosse un rimprovero.

Guardò di nuovo i disegni fatti dall’elaboratore. La simmetria delle facce pentagonali del dodecaedro si rifletteva nelle cinque poltrone interne, ognuna posta di fronte a una superficie pentagonale. «Perciò, è nostra opinione — del dottor Lunacarskij e mia — che le cinque poltrone siano destinate a noi, agli uomini. Questo significherebbe che la camera interna della macchina è larga solamente pochi metri, e che l’esterno forse dieci o venti metri. La tecnologia è indubbiamente formidabile, ma non pensiamo di stare parlando di costruire qualcosa delle dimensioni di una città. O della stessa complessità di una portaerei. Possiamo benissimo essere in grado di costruire la macchina, se lavoriamo tutti insieme. Quello che sto cercando di far capire è che non si collocano delle poltrone all’interno di una bomba. Io non credo si tratti di una Macchina del Giudizio Universale o di un cavallo di Troia. Sono d’accordo con quanto detto dal dottor Sukhavati, o forse solo sottinteso; l’idea che si tratti di un cavallo di Troia è un’indicazione implicita di quanta strada si debba ancora percorrere.» Di nuovo ci fu una violenta interruzione. Ma questa volta der Heer non fece nulla per porvi fine; anzi, accese il microfono del contestatore. Era lo stesso delegato che aveva interrotto Sukhavati pochi minuti prima, Philip Bedenbaugh del Regno Unito, un ministro del Partito Laburista dell’instabile coalizione governativa. «… semplicemente non capisce qual è la nostra preoccupazione. Se fosse letteralmente un cavallo di legno, non saremmo tentati di portare il congegno alieno entro le porte della città. Abbiamo letto il nostro Omero. Ma ricopriamolo con un po’ di stoffa colorata e i nostri sospetti vengono dissipati. Perché? Perché veniamo lusingati. O sedotti. C’è la prospettiva di un’avventura storica. C’è la promessa di nuove tecnologie. C’è l’idea di essere accettati da — come dirlo? — esseri più grandi. Ma io affermo, a dispetto di tutte le nobili fantasie che i radioastronomi possano nutrire, che se c’è anche una minima possibilità che la macchina sia un mezzo di distruzione, non dovrebbe essere costruita. Meglio, come ha proposto il delegato sovietico, bruciare i nastri con i dati e considerare la costruzione di radiotelescopi un delitto capitale.»

La seduta stava facendosi turbolenta. Una gran quantità di delegati si stavano mettendo in lista elettronicamente per avere l’autorizzazione a parlare. La confusione crebbe fino a diventare un rombo continuo che fece venire in mente a Ellie gli anni di ascolto delle scariche statiche radioastronomiche. Non sembrava che si sarebbe giunti prontamente a un accordo e i co-presidenti erano chiaramente incapaci di tenere a freno i delegati.

Quando il delegato cinese si alzò in piedi per prendere la parola, i dati che lo riguardavano tardavano ad apparire sullo schermo di Ellie che si guardò intorno in cerca di aiuto. Non sapeva neppure chi fosse quell’uomo. Nguyen «Bobby» Bui, un membro del National Security Council ora assegnato a der Heer, si chinò su lei e disse: «Il suo nome è Xi Qiaomu, scritto ics i, pronunciato sci. Grosso personaggio. Nato al tempo della Lunga Marcia. Volontario in Corea quando era ancora adolescente. Funzionario governativo, soprattutto politico. Silurato subito durante la Rivoluzione culturale. Ora membro del Comitato centrale. Molto influente. Recentemente, è stato sui giornali. Dirige anche gli scavi archeologici cinesi.»

Xi Qiaomu era un uomo alto, dalle spalle larghe, sulla sessantina. Le rughe che aveva in viso lo facevano sembrare più vecchio, ma il suo portamento e il suo fisico gli conferivano un aspetto quasi giovanile. Indossava la giacca abbottonata sino al colletto di prammatica per i leader politici cinesi come lo erano i vestiti a tre pezzi per i leader governativi americani, fatta eccezione, naturalmente, per la Presidente. I dati relativi a Xi erano arrivati adesso sulla sua consolle e si ricordò di aver letto un lungo articolo su Xi Qiaomu in una delle videoriviste.

«Se siamo spaventati,» stava dicendo, «non faremo nulla. Questo ritarderà un po’ i loro piani. Ma ricordate, sanno che siamo qui. La nostra televisione arriva al loro pianeta. Ogni giorno sono costretti ad averci in mente. Avete guardato i nostri programmi televisivi? Non ci dimenticheranno. Se non facciamo nulla e se si preoccupano di noi, verranno da noi, macchina o non macchina. Non possiamo nasconderei da loro. Se fossimo rimasti tranquilli, non dovremmo fronteggiare questo problema. Se avessimo soltanto la televisione via cavo e nessun grande radar militare, allora forse non saprebbero nulla di noi. Ma adesso è troppo tardi. Non possiamo tornare indietro. Il nostro destino è segnato.

Se avete seriamente paura che questa macchina possa distruggere la Terra, non costruitela sulla Terra. Costruitela da qualche altra parte. Allora, se è una Macchina da Giudizio Universale e fa saltare per aria un mondo… non si tratterà del nostro. Ma ciò sarà molto costoso, probabilmente troppo costoso. O se non siamo così spaventati, costruiamola in qualche remoto deserto. Si potrebbe avere una terribile esplosione nella zona desertica di Takopi nella provincia di Xinjing senza provocare la morte di nessuno. E se non abbiamo affatto paura, possiamo costruirla a Washington. O a Mosca. O a Beijing. O in questa bella città. Nell’antica Cina, Vega e le due stelle vicine erano chiamate Chih Neu. Che significa la giovane donna con il filatoio. E’ un simbolo augurale, una macchina per fare nuove vesti alla popolazione della Terra.

Abbiamo ricevuto un invito. Un invito molto inconsueto. Forse si tratta di andare a un banchetto. La Terra non è mai stata invitata a un banchetto, prima d’ora. Sarebbe da maleducati rifiutare.

12 L’ISOMERO UNO-DELTA

«Contemplare le stelle mi fa sempre fantasticare, come fantastico di solito sui punti neri che rappresentano città e villaggi su una carta geografica. Perché, mi chiedo, i punti luminosi del cielo non dovrebbero essere accessibili come i punti neri sulla carta della Francia?»

VINCENT VAN GOGH

Era uno splendido pomeriggio d’autunno, così eccezionalmente caldo che Devi Sukhavati non si era portata dietro il soprabito. Lei ed Ellie passeggiavano lungo gli affollati Champs-Elysées in dirczione di Piace de la Concorde. Come a Londra, Manhattan e solo alcune altre città del pianeta, la diversità etnica non aveva alcun rilievo. Due donne che camminavano insieme, una in gonna e giacchetta di lana, l’altra in sari, erano un fatto comunissimo. Davanti a un tabaccheria c’era una lunga, ordinata e poliglotta fila di persone attirate dalla prima settimana di vendita legalizzata di sigarette confezionate con la canapa indiana, provenienti dagli Stati Uniti. Per la legge francese, non potevano essere vendute ai minori di diciott’anni. Molte persone della coda erano individui di mezz’età o più vecchi. Alcuni avrebbero potuto essere algerini o marocchini naturalizzati francesi. Varietà particolarmente forti di cannabis indica venivano coltivate soprattutto in California e nell’Oregon per l’esportazione. Lì si esaltava una nuova e apprezzata qualità di canapa che per di più era stata fatta crescere alla luce ultravioletta che aveva il potere di convertire alcuni dei cannabinoidi inerti nell’isomero uno-delta. Era chiamata «Baciata dal Sole». La confezione, pubblicizzata da un cartello alto un metro e mezzo che si trovava in vetrina, recava questo slogan in francese: «Vi verrà dedotto dalla vostra quota di Paradiso».

Le vetrine dei negozi lungo il boulevard erano un’orgia di colori. Le due donne comperarono delle castagne da un venditore ambulante e ne assaporarono gioiosamente il gusto e la morbidezza della polpa. Per una qualche ragione, ogni volta che Ellie vedeva un’insegna che pubblicizzava la BNP, la Banque Nationale de Paris, la leggeva come il termine russo birra, con la lettera mediana rovesciata. BIRRA, le insegne — che ai suoi occhi negli ultimi tempi erano state distolte dalle loro consuete e rispettabili funzioni fiduciarie — sembrava la stessero invitando, BIRRA RUSSA. L’assurdità la divertiva e solo con una certa difficoltà poteva convincere la parte del suo cervello preposta alla lettura che quello era l’alfabeto latino e non cirillico. Più avanti, sostarono ammirate davanti all’obelisco di Luxor, un antico monumento a ricordo delle imprese militari di Ramsete II e III che era stato trasportato a Parigi con una forte spesa per diventarvi un moderno monumento a ricordo delle imprese militari di qualcun altro. Decisero di proseguire. Der Heer aveva mandato a monte l’appuntamento, o almeno era come se l’avesse fatto. L’aveva chiamata al telefono la mattina, scusandosi ma non più di tanto. C’erano troppe questioni politiche sollevate alla sessione plenaria. Il Segretario di Stato sarebbe arrivato in volo l’indomani, interrompendo una visita a Cuba. Der Heer dunque era occupatissimo e sperava che Ellie avesse capito. Lei capì. Si detestava perché andava a letto con lui. Per evitare un pomeriggio solitario, aveva chiamato Devi Sukhavati. «In sanscrito, uno dei termini per dire ‘vittorioso’ è ‘abhijit’. E’ come veniva chiamata Vega nell’antica India. Abhijit. Fu sotto l’influsso di Vega che le divinità indù, gli eroi della nostra cultura, sottomisero gli asura, gli dei del male. Ellie, mi sta ascoltando?… Ora, è una cosa curiosa. Anche in Persia ci sono gli asura, ma in Persia gli asura erano gli dei del bene. Alla fine spuntarono delle religioni in cui il dio principale, il dio della luce, il dio Sole, veniva chiamato Ahura-Mazda. Gli zoroastriani, ad esempio, e i mitraisti. Ahura, Asura, è lo stesso nome. Ci sono ancora degli zoroastriani al giorno d’oggi, e i mitraisti fecero piuttosto paura ai primi cristiani. In India, le Devis sono dee del bene. In Persia, le Devis diventano dee del male. Alcuni studiosi ritengono che sia da qui che in definitiva trae origine la parola inglese ‘devii’. La simmetria è completa. Tutto ciò è probabilmente un vago ricordo dell’invasione ariana che spinse i Dravida, i miei antenati, verso il sud. Dunque, a seconda di dove si vive, di qua o di là dal Kirthar Range, Vega appoggia il Bene o il Male.»

Questa storia vivace era stata offerta come un dono da Devi, che chiaramente aveva avuto notizia delle avventure religiose di Ellie in California due settimane prima. Ellie gliene era riconoscente. Ma le fece venire in mente che non aveva neppure menzionato a Joss la possibilità che il Messaggio fosse il progetto per una macchina di impiego sconosciuto. Certo egli sarebbe venuto a conoscenza di tutto ciò abbastanza presto attraverso i mass-me-dia. Avrebbe dovuto davvero, si disse severamente, fare una chiamata intercontinentale per spiegargli i nuovi sviluppi. Ma si diceva che Joss fosse in ritiro. Non aveva concesso nessuna dichiarazione pubblica dopo il loro incontro a Modesto. Rankin, in una conferenza stampa, annunciò che, nonostante potessero esserci dei pericoli, non si opponeva a lasciar ricevere agli scienziati l’intero Messaggio. Ma la traduzione era un’altra faccenda. Controlli periodici da parte di tutte le componenti sociali erano indispensabili, egli disse, specialmente da parte di quelle cui spettava la salvaguardia dei valori spirituali e morali.

Si stavano ora avvicinando ai giardini delle Tuileries, dove si dispiegavano i colori trionfanti dell’autunno. Degli uomini anziani dall’aspetto fragile — secondo Ellie del sud-est asiatico — stavano discutendo animatamente. I cancelli neri di ghisa erano ravvivati da palloncini multicolori in vendita. Al centro di una vasca c’era un’Anfitrite di marmo. Attorno a essa, stavano solcando l’acqua delle barchette a vela spinte da un’esuberante folla di ragazzini, aspiranti Magellani. Un pesce gatto all’improvviso balzò dall’acqua, facendo affondare la barchetta ammiraglia, e i bambini ammutolirono, colpiti da quell’apparizione del tutto inaspettata. Il Sole stava per tramontare ed Ellie rabbrividì.

Si avvicinarono all’Orangerie, in una sezione della quale c’era una speciale mostra, così il manifesto annunciava, di «Immagini marziane». I veicoli robotizzati dell’impresa spaziale franco-russoamericana su Marte avevano prodotto una spettacolare messe di fotografie a colori, alcune delle quali — come le immagini scattate dal Voyager dall’esterno del sistema solare attorno al 1980 — andavano al di là del loro mero scopo scientifico e divenivano arte. Il manifesto mostrava un paesaggio fotografato sul vasto altipiano Elysium. In primo piano c’era una piramide a tre facce, liscia, fortemente erosa, con un cratere di impatto vicino alla base. Era stata prodotta da milioni di anni di tempeste di sabbia sollevate dai forti venti marziani, avevano detto i geologi planetari. Un secondo veicolo, destinato a una zona chiamata Cydonia, sull’altra faccia di Marte, era finito in una duna mobile, e i suoi controllori a Pasadena erano stati fino a quel momento incapaci di rispondere alle sue disperate invocazioni di aiuto.

Ellie si ritrovò a considerare attentamente l’aspetto di Sukhavati: i suoi grandi occhi neri, il suo portamento eretto, il magnifico sari.

Pensò di non avere la stessa grazia. Di solito era capace di partecipare a una conversazione pur pensando contemporaneamente ad altri argomenti. Ma quel giorno aveva delle difficoltà a seguire una sola linea di pensiero, figurarsi due. Mentre stavano discutendo la validità delle varie opinioni riguardo all’eventuale costruzione della Macchina, nella sua immaginazione ritornò alla visione suggeritale da Devi dell’invasione ariana dell’India 3500 anni prima: una guerra tra due popolazioni, ognuna delle quali rivendicava la vittoria, ognuna delle quali esagerava patriotticamente le narrazioni storiche. Alla fine, la storia si trasformava in una guerra di dei. La nostra parte, naturalmente è buona. La parte avversa, naturalmente, è cattiva. Ellie immaginò il Diavolo dell’Occidente, con la barbetta caprina, con la coda lanceolata, con il piede fesso nella sua lenta, graduale evoluzione durata migliaia di anni da un antecendente indù che, per quanto ne sapeva, aveva la testa di un elefante ed era dipinto di blu.

«Il cavallo di Troia di Baruda forse non è un’idea del tutto insensata,» concluse Ellie. «Ma non vedo quale altra scelta possa esserci, come ha affermato Xi. Loro possono essere qui in una ventina d’anni, se vogliono.»

Arrivarono a un arco monumentale in stile romano sormontato da una statua di Napoleone alla guida di una quadriga. Secondo una prospettiva extraterrestre, com’era patetica quella posa eroica dell’imperatore nella sua apoteosi. Si riposarono su una panchina di pietra che si trovava lì accanto, proiettando le loro lunghe ombre su un’aiuola di fiori dai colori della repubblica francese. Ellie moriva dalla voglia di discutere della sua situazione emotiva, ma ciò poteva avere sottintesi politici. Per lo meno, sarebbe stato indiscreto. Non conosceva Sukhavati molto bene e allora preferì incoraggiare la sua compagna a parlare della sua vita personale. Sukhavati acconsentì abbastanza prontamente. Era nata in una famiglia brahmanica ma indigente, con tendenze matriarcali, nello stato meridionale di Tamil Nadu. Famiglie matriarcali erano ancora comuni in tutta l’India del sud. Si era immatricolata all’università indù di Benares. In Inghilterra, in una facoltà di medicina, aveva incontrato Surindar Ghosh e se ne era perdutamente innamorata. Ma Surindar era un intoccabile, di una casta così aborrita che la loro semplice vista veniva ritenuta dai bramini ortodossi contaminante. Gli antenati di Surindar erano stati costretti a condurre un’esistenza notturna, come pipistrelli e gufi. La famiglia di lei minacciò di rinnegarla se si fossero sposati. Suo padre dichiarò che non sarebbe stata più sua figlia se avesse preso in considerazione una tale unione. Se avesse sposato Ghosh, lui avrebbe preso il lutto come se fosse morta. Lei lo sposò comunque. «Eravamo troppo innamorati,» disse. «Non avevo davvero altra scelta.» Entro l’anno morì di setticemia contratta mentre effettuava un’autopsia senza un’adeguata protezione. Invece di farla riconcialiare con la famiglia, la morte di Surindar provocò esattamente l’opposto, e dopo aver conseguito la sua laurea in medicina, Devi decise di restare in Inghilterra. Si scoprì una naturale propensione per la biologia molecolare e la considerò una logica continuazione dei suoi studi medici. Presto scoprì di avere un vero talento in questa disciplina precisa. La conoscenza della duplicazione dell’acido nucleico la condusse a lavorare sull’origine della vita, e ciò a sua volta la condusse a considerare le possibilità di vita su altri pianeti.

«Si potrebbe dire che la mia carriera scientifica è stata una sequenza di libere associazioni. Una cosa ha condotto a un’altra.» Recentemente si era occupata della caratterizzazione della materia organica di Marte, rilevata in alcune zone del pianeta rosso da quelle stesse macchine che avevano scattato le magnifiche foto che avevano appena visto pubblicizzate. Devi non si era mai risposata, benché avesse fatto capire di avere avuto alcuni corteggiatori. Negli ultimi tempi, aveva frequentato uno scienziato a Bombay, che lei descrisse come un «uomo-computer». Proseguendo nella loro passeggiata, si ritrovarono nella Cour Napoleon, il cortile interno del Louvre. Al centro vi era l’entrata a forma di piramide che era stata completata da poco e aveva suscitato aspre polemiche, e in grandi nicchie disposte attorno al cortile erano racchiuse rappresentazioni scultoree degli eroi della civiltà francese. Sul basamento di ogni statua di uomo illustre — notarono che le donne illustri erano scarsamente rappresentate — era indicato il cognome. In qualche caso, le lettere erano state consumate dagli agenti atmosferici, o forse cancellate da qualche passante malevolo. Per una o due statue era difficile ricostruire di che personaggio si trattasse. Su una statua che aveva evidentemente suscitato il più grande risentimento pubblico, restavano soltanto le lettere LTA.

Benché il Sole stesse tramontando e il Louvre restasse aperto fino alle dieci, non vi entrarono, ma invece si misero a «flàner» lungo la Senna, guardando i «bouquinistes» che stavano ormai chiudendo le loro pittoresche scatole di legno. Passeggiarono per un po’, tenendosi sottobraccio alla maniera europea.

Una coppia francese stava camminando alcuni metri davanti a loro tenendo per mano la figlioletta, una bambina di circa quattro anni, cui facevano fare, ogni dieci passi, vola-vola. Nella sua momentanea sospensione in gravita zero, la piccina provava, era evidente, qualcosa di simile all’estasi. I genitori stavano parlando dell’Associazione, cosa tutt’altro che casuale dato che i giornali non avevano riferito altro. L’uomo era favorevole alla costruzione della Macchina; avrebbe potuto creare nuove tecnologie e aumentare l’occupazione in Francia. La donna era più cauta, ma per ragioni che non riusciva facilmente a enunciare. La figlioletta, con le trecce al vento, era del tutto indifferente a quel progetto che veniva dalle stelle e alla sua utilizzazione.

Der Heer, Kitz e Honicutt avevano convocato una riunione all’ambasciata americana nelle prime ore della mattina seguente, per prepararsi all’arrivo del Segretario di Stato che era previsto in serata. L’incontro doveva essere classificato come top-secret e tenuto nella Black Room dell’ambasciata, una stanza elettronicamente isolata dal resto del mondo, che rendeva impossibile anche una sofisticata sorveglianza elettronica. O così si diceva. Ellie pensava che avrebbe potuto esserci una strumentazione avanza-tissima per aggirare quelle misure di sicurezza.

Dopo aver trascorso il pomeriggio con Devi Sukhavati, aveva ricevuto il messaggio al suo hotel e aveva cercato di mettersi in contatto con der Heer, ma era riuscita soltanto a trovare Michael Kitz. Era contraria a una riunione top-secret su quell’argomento, disse; era una questione di principio. Il Messaggio era chiaramente indirizzato all’intero pianeta. Kitz ribattè che non c’erano dati che venissero tenuti all’oscuro del resto del mondo, almeno da parte degli americani; e che la riunione era puramente consultiva, per aiutare gli Stati Uniti nei difficili negoziati procedurali. Fece appello al suo patriottismo, al suo interesse personale, e alla fine invocò di nuovo la Decisione Hadden. «Per quanto ne so si trova ancora nella sua cassaforte non letta. La legga!» raccomandò lui. Ellie cercò, di nuovo invano, di mettersi in contatto con der Heer. Prima si fa vedere dappertutto all’Argus, è come il prezzemolo. Si trasferisce nel tuo appartamento. Sei sicura, per la prima volta dopo anni, di essere innamorata. Un minuto dopo non riesci nemmeno ad averlo al telefono. Decise di partecipare alla riunione, magari solo per vedere in faccia Ken.

Kitz era entusiasta della realizzazione della Macchina, Drum-’lin cautamente favorevole, der Heer e Honicutt almeno apparentemente indifferenti, e Peter Valerian estremamente indeciso. Kitz e Drumlin stavano addirittura parlando del luogo dove costruire la cosa. Solamente i costi di trasporto rendevano l’esecuzione o l’assemblaggio sull’emisfero invisibile della Luna cari in maniera proibitiva, come aveva ventilato Xi.

«Se usiamo un sistema di frenaggio aerodinamico, è più economico inviare un chilogrammo su Phobos o Deimos che sulla faccia invisibile della Luna», intervenne Bobby Bui. «Dove diavolo si trova Fobosodeimos?» voleva sapere Kitz. «Sono le lune di Marte. Stavo parlando di frenatura aerodinamica nell’atmosfera marziana.»

«E quanto tempo ci vuole per raggiungere Phobos o Deimos?» Drumlin chiese girando il cucchiaino nella sua tazza di caffè. «Forse un anno, ma una volta che abbiamo una flotta di veicoli interplanetari da trasporto e la rete di rifornimento è completa…»

«In confronto ai tre giorni per la Luna?» farfugliò Drumlin. «Bui, finiscila di farci perdere tempo.»

«E solo un suggerimento,» protestò lui. «Solo un’ipotesi cui pensare, sai.»

Der Heer sembrava impaziente, turbato. Era chiaramente sotto pressione, evitando a tratti il suo sguardo, e a tratti rivolgendole, così Ellie credette, una muta supplica. Lo prese per un segno promettente. «Se ci si preoccupa di Macchine da Giudizio Universale,» stava dicendo Drumlin, «ci si deve preoccupare delle riserve di energia. Se non ha accesso a un’enorme quantità di energia, non può essere una Macchina da Giudizio Universale. Fino a che le istruzioni non richiederanno un reattore nucleare da gigawatt, non credo che ci si debba preoccupare di Macchine da Giudizio Universale.»

«Ma perché avete tanta fretta di dare il via alla costruzione?» chiese lei a Kitz e a Drumlin che erano seduti l’uno accanto all’altro, divisi soltanto da un vassoio di croissant. Kitz andò con lo sguardo da Honicutt a der Heer prima di rispondere: «Questa è una riunione top-secret,» cominciò. «Tutti noi sappiamo che lei non passerà nulla di ciò che viene detto qui ai suoi amici russi. E’ pressappoco così. Non sappiamo quello che farà la Macchina, ma risulta chiaro dall’analisi di Dave Drumlin che comporta una nuova tecnologia, probabilmente nuove industrie. La costruzione della Macchina avrà per forza un’importanza economica enorme… voglio dire, pensate a quello che potremmo imparare. E potrebbe avere un’importanza militare. Almeno è quello che pensano i russi. Guardate, i russi si trovano in una situazione imbarazzante. C’è un’intera nuova area tecnologica che dovranno dividere con gli Stati Uniti. Forse nel Messaggio ci sono le istruzioni per qualche arma decisiva o per qualche vantaggio economico. Non ne possono essere sicuri. Dovranno mandare in rovina la loro economia tentando. Avete notato come Baruda continuava a far riferimenti al costo effettivo dell’impresa? Se tutto il contenuto del Messaggio sparisse dalla circolazione — rogo dei dati, distruzione dei telescopi — allora i russi potrebbero mantenere la parità militare. Ecco perché sono così cauti. Ed ecco perché, naturalmente, siamo così entusiasti della costruzione della macchina.» Sorrise. Kitz aveva un temperamento freddo e insensibile, pensò Ellie; ma era ben lontano dall’essere stupido. Quando era gelido e distaccato, gli altri lo trovavano sgradevole. Così aveva sviluppato una vernice occasionale di urbana amabilità. A giudizio di Ellie, si trattava di uno strato monomolecolare.

«Ora, lasci che le rivolga una domanda,» egli proseguì. «Ha colto l’osservazione di Baruda a proposito del trattenere alcuni dei dati? Ci sono dei dati mancanti?»

«Solo agli inizi,» rispose Ellie. «Solo durante le primissime settimane, direi. C’erano alcuni buchi nella copertura cinese. C’è ancora una piccola quantità di dati che non sono stati scambiati, da parte di tutti i paesi. Ma non vedo nessun segno di serio incameramento. A ogni modo, raccoglieremo tutti i dati mancanti dopo che il Messaggio ripartirà da capo.»

«Se il messaggio ripartirà da capo,» grugnì Drumlin. Der Heer fece da moderatore in una discussione per la pianificazione di ogni eventualità: che fare una volta ricevuto il sillabario; a quali industrie americane, tedesche e giapponesi rendere noti subito i progetti che lasciavano intravedere i più importanti sviluppi; come individuare gli scienziati e gli ingegneri indispensabili alla costruzione della Macchina, se fosse stata presa la decisione di andare avanti; e come creare il necessario entusiasmo per il progetto nel Congresso e nel popolo americano. Der Heer si affrettò ad aggiungere che quelli sarebbero stati soltanto piani per far fronte a ogni evenienza, che non era stata presa ancora una decisione finale e che senza dubbio le preoccupazioni sovietiche a proposito di un cavallo di Troia erano, almeno in parte, autentiche. Kitz si informò della composizione dell’equipaggio. «Ci stanno chiedendo di sistemare delle persone in cinque poltrone imbottite. Quali persone? Come si deciderà? Dovrà essere probabilmente un equipaggio internazionale. Quanti americani? Quanti russi? Chi altri? Non sappiamo quello che accadrà a quelle cinque persone, una volta che avranno preso posto nelle loro poltrone, ma vogliamo avere gli uomini migliori per la faccenda.» Ellie non raccolse la provocazione ed egli proseguì. «Ora, un problema più gravoso sarà quello di stabilire la ripartizione delle spese, la divisione dei compiti nella fase costruttiva, di decidere chi dovrà assumere la dirczione dell’integrazione globale dei sistemi. Ritengo che si possa cedere su alcuni punti, in cambio di una significativa rappresentanza americana nell’equipaggio.»

«Ma alla fin fine vogliamo mandare i migliori individui possibili,» osservò der Heer, con una certa ovvietà. «Certamente,» replicò Kitz, «ma che cosa intendiamo dire con ‘i migliori’? Gli scienziati? Persone con esperienza militare alle spalle? Con forza fisica e resistenza? Con virtù patriottiche? (Non sono brutte parole, sapete.) E poi» — sollevò lo sguardo da un altro croissant che stava imburrando per lanciare un’occhiata direttamente a Ellie — «c’è la questione del sesso. I sessi, intendo dire. Mandiamo solo uomini? Se mandiamo uomini e donne, non saranno in parità. Ci sono cinque posti, un numero dispari. Tutti i membri dell’equipaggio lavoreranno insieme d’amore e d’accordo? Se andiamo avanti con questo progetto, si dovranno affrontare molti difficili negoziati.»

«Non mi sembra giusto,» disse Ellie. «Qui non si tratta di una carica di ambasciatore che si può comprare con il contributo di una campagna elettorale. Questo è un affare serio. Volete qualche idiota tutto muscoli lassù, qualche ventenne che non sa nulla di come va il mondo — che sa solo percorrere in un tempo rispettabile le cento iarde e obbedire agli ordini? O qualche politicante? Non è certo un viaggio per gente simile.»

«No, lei ha ragione,» disse Kitz sorridendo. «Penso che troveremo delle persone che potranno soddisfare tutti i nostri principi.» Der Heer, con le borse sotto gli occhi che lo facevano sembrare molto più sfatto, aggiornò la riunione. Riuscì a rivolgere a Ellie un piccolo sorriso privato, ma a labbra serrate. Le berline dell’ambasciata erano in attesa per riportarli al palazzo dell’Eliseo. «Vi dirò perché sarebbe meglio mandare dei russi,» stava dicendo Vaygay. «Quando voi americani stavate colonizzando il vostro paese — pionieri, cacciatori, esploratori indiani e via dicendo — non trovavate opposizione, almeno da parte di qualcuno che fosse al vostro livello tecnologico. Avete percorso in lungo e in largo il vostro continente, dall’Atlantico al Pacifico. Dopo un po’, vi aspettavate che tutto sarebbe stato facile. La nostra situazione era diversa. Noi siamo stati conquistati dai Mongoli. La loro strategia equestre era molto superiore alla nostra. Quando ci siamo allargati verso est, lo abbiamo fatto con molta circospezione. Non abbiamo mai attraversato il deserto e immaginato che sarebbe stato facile. Noi siamo più avvezzi di voi alle avversità. Inoltre, gli americani sono abituati a essere in testa tecnologicamente. Noi siamo abituati a riguadagnare il tempo perduto tecnologicamente. Ora, ognuno sulla Terra è un russo — capite? — intendo dire nella nostra posizione storica. La missione ha bisogno di sovietici più che di americani.» Il semplice incontrarsi con lei da solo comportava certi rischi per Vaygay — e anche per lei, come Kitz le aveva rammentato, interrompendo il filo del suo discorso. Talvolta, durante un incontro scientifico in America o in Europa, Vaygay aveva il permesso di trascorrere un pomeriggio con lei. Più spesso era accompagnato da colleghi o da un agente del KGB, che veniva presentato come un interprete, anche quando il suo inglese era nettamente inferiore a quello di Vaygay; o come uno scienziato di questa o quella commissione accademica, anche se la sua conoscenza degli argomenti scientifici spesso risultava superficiale. Vaygay scuoteva il capo quando gli si chiedeva qualcosa di loro. Ma in genere, egli considerava quegli angeli custodi una parte del gioco, il prezzo da pagare quando ti lasciano visitare l’occidente, e più di una volta Ellie credette di scoprire una sfumatura d’affetto nella voce di Vaygay quando parlava al suo angelo. Recarsi in un paese straniero e fingere di essere esperto in una materia che si conosce molto superficialmente doveva essere causa di grande ansietà. Forse, nel profondo del loro cuore, gli angeli custodi detestavano il loro compito quanto lo detestava Vaygay.

Erano allo stesso tavolo davanti alla finestra del ristorante «Chez Dieux». C’era già una precisa sensazione di freddo nell’aria, un presagio d’inverno, e un giovanotto che portava una lunga sciarpa azzurra come sua unica concessione al freddo passò frettoloso accanto alle ceste di ostriche in ghiaccio posate sul marciapiede davanti alla finestra. Dalle continue osservazioni circospette di Lunacarskij, che di solito non si comportava così, Ellie dedusse che ci doveva essere un certo subbuglio nella delegazione sovietica. I russi erano preoccupati che la Macchina potesse in qualche modo avvantaggiare strategicamente gli Stati Uniti nella ormai cinquantennale competizione. Vaygay infatti era rimasto colpito dalla domanda di Baruda sull’opportunità di bruciare i dati e distruggere i radiotelescopi. Non era stato informato in anticipo della posizione di Baruda. I russi avevano rivestito un ruolo della massima importanza nella raccolta del Messaggio, con la più estesa copertura longitudinale rispetto alle altre nazioni, sottolineò Vaygay, e avevano gli unici seri radiotelescopi oceanici. Si aspettavano un ruolo importante in qualunque cosa fosse venuta in seguito. Ellie lo assicurò che, per quanto la riguardava, avrebbero avuto tale ruolo. «Guarda, Vaygay, loro sanno dalle nostre trasmissioni televisive che la Terra ruota, e che ci sono molte diverse nazioni. Il pezzo sulle olimpiadi da solo può averli informati di ciò. Le successive trasmissioni da altre nazioni glielo avranno fatto capire con maggiore precisione. Allora, se sono così bravi come pensiamo, avrebbero potuto sincronizzare la trasmissione con la rotazione terrestre, di modo che una sola nazione ricevesse il Messaggio. Hanno scelto di non fare così. Loro vogliono che il Messaggio venga ricevuto da tutto il pianeta. Si aspettano che la Macchina venga costruita da tutto il pianeta. Questo non può essere un progetto tutto americano o tutto russo. Non è quello che desidera il nostro… committente.»

Ma non era sicura, gli disse, che avrebbe avuto una parte di spicco nelle decisioni sulla realizzazione della Macchina o sulla selezione dell’equipaggio. Sarebbe ritornata negli Stati Uniti l’indomani, soprattutto per occuparsi dei nuovi dati radio delle ultime settimane. Le sedute plenarie dell’Associazione sembravano interminabili e non era stata ancora stabilita una data di chiusura. Vaygay era stato invitato dai suoi a trattenersi almeno ancora un po’. Il ministro degli esteri era appena arrivato e stava guidando ora la delegazione sovietica.

«Ho paura che tutto ciò finisca male,» egli disse. «Ci sono troppe cose che possono andare alla rovescia. Fallimenti tecnologici, fallimenti politici, fallimenti umani. E anche se superassimo tutto ciò, se non avremo una guerra a causa della Macchina, se la costruiremo correttamente e senza farci saltare per aria, ho ancora delle preoccupazioni.»

«In merito a cosa? Che cosa intendi dire?»

«La cosa migliore che può capitare è che finiremo per farci prendere in giro.»

«Da chi?»

«Arroway, non capisci?» Una vena nel collo di Lunacarskij palpitò. «Mi meraviglia che tu non ci arrivi. La Terra è un… ghetto. Sì, un ghetto. Tutti gli esseri umani vi sono intrappolati. Abbiamo sentito vagamente che ci sono grandi città là fuori, oltre le mura del ghetto, con larghi viali popolati da carrozze e da belle donne profumate e impellicciate. Ma le città sono troppo lontane e noi siamo troppo poveri per andarci, anche i più ricchi di noi. A ogni modo, sappiamo che non ci vogliono. E’ questa la ragione per cui ci hanno lasciato in questo patetico villaggetto fin dall’inizio.

E adesso arriva un invito, Come ha detto Xi. Fantastico, elegante. Ci hanno spedito un biglietto pieno di svolazzi e una carrozza vuota. Dovremo mandare cinque paesani e la carrozza li trasporterà a — chi lo sa? — Varsavia. O a Mosca. Forse persino a Parigi. Naturalmente, alcuni sono tentati di andare. Ci saranno sempre persone che subiranno il fascino dell’invito, o che lo riterranno un modo per sfuggire al nostro miserabile villaggio.

E cosa credi che accadrà una volta giunti a destinazione? Pensi che il Granduca ci inviterà a cena? Il Presidente dell’Accademia ci porrà delle interessanti domande sulla vita quotidiana del nostro sudicio paesucolo? Ti immagini che il Vescovo metropolita greco-ortodosso ci impegnerà in una conversazione erudita sulle religioni comparate? No, Arroway. Noi guarderemo con aria sciocca la grande città e loro rideranno di noi nascondendosi educatamente dietro la mano. Ci mostreranno ai curiosi. Più arretrati saremo e meglio si sentiranno, li rassicureremo di più.

E’ un sistema di immigrazione. A intervalli di secoli, cinque di noi ottengono di trascorrere un fine settimana su Vega. Hanno compassione dei provinciali e si accertano che sappiano chi siano i loro superiori.»

13 BABILONIA

«Con i più vili dei compagni, vagavo per le strade di Babilonia…»

AGOSTINO, Confessioni, II, 3

L’unità centrale di elaborazione CRAY 21 all’Argus era stata programmata per confrontare la messe giornaliera di dati provenienti da Vega con le prime registrazioni del Livello 3 del palinsesto. In effetti, una lunga e incomprensibile sequenza di zeri e di unità veniva confrontata automaticamente con un’altra sequenza simile, solo ricevuta prima. Ciò faceva parte di un imponente raffronto statistico di varie sezioni del testo ancora indecifrato. C’erano alcune brevi sequenze di zeri e di unità — «parole» le chiamavano gli analisti fiduciosamente — che venivano ripetute in continuazione. Molte sequenze apparivano soltanto una volta in migliaia di pagine di testo. Questa procedura statistica per giungere alla decodificazione di un messaggio era familiare a Ellie fin dalla scuola superiore. Ma i sottoprogrammi forniti dagli esperti della National Security Agency — resi disponibili solo come risultato di una direttiva presidenziale e anche così muniti di istruzioni per l’autodistruzione se esaminati da vicino — erano brillanti.

Che prodigi di umana inventiva, rifletteva Ellie, erano destinati a leggere la posta dell’avversario! Il confronto globale tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica — ora, senza dubbio, in fase di attenuazione — stava ancora divorando il mondo. Non si trattava soltanto delle risorse finanziarie dedicate all’establishment militare di tutte le nazioni. Ci si stava avvicinando ai due trilioni di dollari l’anno, spesa rovinosa quando c’erano tante altre urgenti necessità umane. Quello che era ancora peggio, ne era perfettamente consapevole, era lo sforzo intellettuale speso nella corsa agli armamenti.

Quasi la metà degli scienziati del pianeta, secondo stime fatte, venivano impiegati da uno o dall’altro dei quasi duecento establishment militari in tutto il mondo. E non costituivano la feccia dei cattedratici di fisica e matematica. Alcuni dei suoi colleghi si consolavano con questo pensiero quando sorgeva il delicato problema di cosa dire a un laureando corteggiato da uno dei laboratori bellici. «Se non fosse stato in gamba, gli avrebbero offerto un posto di assistente a Stanford, per lo meno,» ricordò di aver sentito dire una volta a Drumlin. No, un certo tipo di mente e di carattere era attirato verso le applicazioni militari della scienza e della matematica: quelli che amavano le grandi esplorazioni, per esempio; o quelli poco portati alla battaglia personale che, per vendicare qualche ingiustizia subita a scuola, aspiravano a un comando militare; o accaniti risolutori di enigmi che bruciavano dalla voglia di decifrare i più complessi messaggi conosciuti. Di quando in quando, lo stimolo era politico, risalente a dispute internazionali, a sistemi di immigrazione, a orrori del tempo di guerra, a brutalità della polizia, o a propaganda nazionale da parte di questa o quella nazione decenni prima. Molti di questi scienziati avevano vero talento, Ellie lo sapeva, qualunque riserva potesse avere sulle loro motivazioni. Cercò di immaginare tutto quel talento speso davvero per il benessere della specie e del pianeta.

Si immerse nella lettura degli studi che si erano accumulati durante la sua assenza. Non si stava facendo quasi nessun progresso nella decifrazione del Messaggio, sebbene le analisi statistiche si ammucchiassero ora in una pila di carta alta un metro. Era tutto molto scoraggiante.

Avrebbe desiderato che ci fosse qualcuno, soprattutto un’amica intima, all’Argus, con cui poter sfogare il suo dolore e la sua rabbia per il comportamento di Ken. Ma non c’era, e lei provava riluttanza anche a usare il telefono per questo scopo. Organizzò un fine settimana con la sua compagna di college Becky Ellenbogen ad Austin, ma Becky, le cui valutazioni degli uomini tendevano a essere tra il disgustato e il sarcastico, in questo caso fu sorprendentemente moderata nelle sue critiche.

«E’ il consigliere scientifico della Presidente e questa è solo la più stupefacente scoperta nella storia del mondo. Non essere così dura con lui,» le consigliò Becky. «Tornerà.» Ma Becky era un’altra di quelle che trovavano Ken «affascinante» (lo aveva incontrato una volta all’inaugurazione dell’Osservatorio nazionale del neutrino), e forse era troppo incline ad accondiscendere al potere. Se der Heer aveva trattato Ellie in questa maniera meschina quando era un semplice professore di biologia molecolare da qualche parte, Becky lo avrebbe marinato e infilzato. Al suo ritorno da Parigi, der Heer aveva condotto una regolare campagna di scuse e di devozione. Era stato sotto eccessivo stress, le disse, e sommerso da una serie di responsabilità comprendenti problemi politici difficili e poco conosciuti. La sua posizione di leader della delegazione americana e di co-presidente delle assemblee plenarie avrebbe potuto esser stata indebolita se la sua relazione con Ellie fosse divenuta di dominio pubblico. Kitz era stato insopportabile. Ken aveva trascorso troppe notti consecutive con solo poche ore di sonno. Nell’insieme, a giudizio di Ellie, c’erano state troppe spiegazioni. Ma lasciò che la relazione continuasse. Quando accadde, fu di nuovo Willie, stavolta al secondo turno di notte, ad accorgersene per primo. In seguito, Willie H avrebbe attribuito la velocità della scoperta più ai nuovi microcircuiti integrati Hadden di riconoscimento contestuale che al com-I puter superconduttore e ai programmi NSA. In ogni caso, Vega si era trovata bassa nel cielo un’ora o poco più prima dell’alba I quando il computer fece scattare un debole allarme. Un po’ seccato, Willie depose ciò che stava leggendo — si trattava di un nuovo testo sulla spettroscopia della trasformazione rapida di Fourier — e osservò queste parole che erano apparse sullo schermo: RAPPORTO TESTO PP. 41617-41619: BIT MISMATCH 0/2271 COEFFICIENTE DI CORRELAZIONE 0.99+ Mentre guardava, il 41619 divenne 41620 e poi 41621. Le cifre dopo la sbarretta stavano crescendo in un continuo ronzio. Sia il numero delle pagine che il coefficiente di correlazione, segno dell’improbabilità che la correlazione fosse casuale, crescevano sotto i suoi occhi. Aspettò altre due pagine prima di prendere la linea diretta con l’appartamento di Ellie.

Stava dormendo profondamente e ebbe un attimo di disorientamento. Ma accese in fretta la lampada sul tavolino da notte e dopo un istante diede istruzioni perché si riunisse lo staff direttivo dell’Argus. Disse a Willie che avrebbe trovato lei der Heer che si trovava da qualche parte alla base. La cosa si rivelò non molto difficile. Lo prese per le spalle e lo scosse con una certa energia. «Ken, alzati. Sembra che ci siamo.»

«Cosa?»

«Il Messaggio è ripartito dall’inizio. O almeno è ciò che dice Willie.

10 vado. Perché non aspetti altri dieci minuti così fai finta di essere stato nella tua stanza al BSQ?»

Ellie era quasi alla porta prima che lui le gridasse dietro: «Com’è possibile che si stia tornando da capo? Non abbiamo ancora ricevuto 11 sillabario.»

Sugli schermi scorreva una sequenza appaiata di zeri e di unità, un confronto in tempo reale fra i dati appena ricevuti e quelli facenti parte di una delle prime pagine ricevute all’Argus l’anno precedente.

Il programma avrebbe dovuto cogliere qual-siasi differenza. Fino a quel momento, non ce n’era nessuna. Li rassicurò che non avevano compiuto errori di trascrizione, che non c’era nessun evidente errore di trasmissione, e che se qualche piccola nube interstellare di una certa densità tra Vega e la Terra era in grado di assorbire uno zero o un’unità, era un evento raro. Argus era ormai in comunicazione in tempo reale con decine di altri telescopi che facevano parte dell’Associazione, e la notizia del ritorno ciclico veniva comunicata ai successivi osservatori in direzione ovest, alla California, alle Hawaii, alla «Marshal Nede-lin» che si trovava ora nel Pacifico meridionale, e a Sydney. Se la scoperta fosse stata fatta quando Vega si trovava su uno degli altri telescopi della rete, Argus sarebbe stato informato istantaneamente.

L’assenza del sillabario era una delusione cocente, ma non era la sola sorpresa. I numeri delle pagine del Messaggio erano saltati da 40.000 a 10.000, dove esso era stato scoperto. Evidentemente l’Argus aveva individuato la trasmissione da Vega quasi nel momento in cui era arrivata per la prima volta sulla Terra. Era un segnale notevolmente forte e sarebbe stato captato per-sino da piccoli telescopi omnidirezionali. Ma era una coincidenza sorprendente che la trasmissione fosse giunta sulla Terra nell’istante stesso in cui Argus aveva guardato Vega. Inoltre, che voleva dire che il testo cominciava a pagina 10.000? C’erano 10.000 pagine di testo mancanti? Era un’usanza arretrata della provinciale Terra cominciare a numerare i libri dalla pagina 1? Quei numeri sequenziali si riferivano forse non a indicazioni di pagine, ma a qualcos’altro? O — e questa era la cosa che preoccupava maggiormente Ellie — c’era una qualche differenza fondamentale e inattesa tra la concezione umana delle cose e quella aliena? Se fosse stato così, ciò avrebbe avuto inquietanti implicazioni sulla capacità dell’Associazione di interpretare il Messaggio, sillabario o non sillabario.

Il Messaggio si ripetè esattamente, i vuoti vennero tutti riempiti eppure nessuno riusciva a leggerne una parola. Sembrava improbabile che la civiltà trasmittente, meticolosa in tutto il resto, avesse semplicemente trascurato la necessità di un sillabario. Per lo meno, la trasmissione olimpica e il disegno dell’interno della Macchina sembravano fatti apposta per essere umani. Si sarebbero presi difficilmente tutto quel disturbo di progettare e di trasmettere il Messaggio senza fornire agli uomini un qualche mezzo per leggerlo.

Perciò gli uomini dovevano aver tralasciato qualcosa. Presto si giunse a ritenere concordemente che da qualche parte ci fosse un quarto strato del palinsesto. Ma dove? I diagrammi vennero pubblicati in una serie di otto volumi che furono ben presto ristampati in tutto il mondo. E in tutto il pianeta si cercò di interpretare le immagini. Il dodecaedro e le forme quasi biologiche erano in special modo evocatori. Molti suggerimenti di una certa intelligenza vennero avanzati dal pubblico e attentamente vagliati dall’equipe dell’Argus. Anche molte interpretazioni scervellate venivano date dovunque, specialmente nei settimanali. Sorsero e si svilupparono industrie completamente nuove — senza dubbio non previste da coloro che avevano progettato il Messaggio — rivolte allo sfruttamento dei diagrammi per turlupinare le masse. Fu annunciato l’Ordine mistico e antico del Dodecaedro. La Macchina era un UFO. La Macchina era la Ruota di Ezechiele. Un angelo rivelò il significato del Messaggio e dei diagrammi a un uomo d’affari brasiliano, che diffuse ovunque — da principio a sue spese — quella sua interpretazione. Con tanti enigmatici diagrammi da interpretare, era inevitabile che molte religioni riconoscessero parte della loro iconografia nel Messaggio dalle stelle. Una delle principali sezioni trasversali della Macchina assomigliava a un crisantemo, cosa che suscitò un grande entusiasmo in Giappone. Se ci fosse stata l’immagine di un volto umano in mezzo a tutti i diagrammi, il fervore messianico avrebbe raggiunto il suo apice. Visto come stavano le cose, innumerevoli persone stavano liquidando i loro affari in vista dell’Avvento. La produttività industriale era in ribasso ovunque. Molti avevano regalato tutti i loro averi ai poveri e poi, visto che la fine del mondo sembrava fosse rimandata, si videro costretti a chiedere aiuto a qualche istituzione benefica o allo stato. Poiché donazioni di tale sorta costituivano la parte più cospicua delle risorse di tali istituzioni bene-fiche, alcuni dei filantropi finirono per essere mantenuti dalle loro stesse donazioni. Alcune delegazioni contattarono dei capi di governo per esortarli a far sparire la schistosomiasi o la fame nel mondo prima dell’Avvento; altrimenti non si sarebbe saputo che cosa avrebbe potuto capitare all’umanità. Altri consigliavano, più tranquillamente, che se c’era in vista un decennio di vera pazzia mondiale, ci doveva essere da qualche parte un considerevole vantaggio monetario o nazionale.

Qualcuno disse che non c’era nessun sillabario, che l’intera faccenda aveva il compito di insegnare agli uomini l’umiltà, o di farli impazzire. Ci furono editoriali sulla presunta intelligenza dei terrestri e un certo risentimento nei confronti degli scienziati che, dopo tutto l’appoggio dato loro dai governi, erano venuti meno proprio nel momento del bisogno. O forse gli uomini erano molto più stupidi di quanto avessero pensato gli abitanti di Vega. Forse c’era qualche punto che era stato del tutto ovvio per tutte le precedenti civiltà emergenti contattate in tal modo, qualcosa che nessuno nella storia della Galassia si era mai lasciato sfuggire prima. Alcuni commentatori abbracciarono questa prospettiva di umiliazione cosmica con vero entusiasmo. Era la dimostrazione di quanto avevano continuato a dire della gente. Ellie si rese conto di aver bisogno di aiuto.

Entrarono furtivamente per la porta di Enlil, con una scorta inviata dal Proprietario. I pochi agenti di sicurezza governativi erano nervosi nonostante la protezione supplementare, o forse a causa di essa.

Benché ci fosse ancora qualche raggio di sole, le strade in terra battuta erano illuminate da bracieri, da lampade a olio, e da qualche fiaccola sgocciolante. Due anfore, grandi entrambe abbastanza per contenere un adulto, fiancheggiavano l’entrata di un’azienda che vendeva olio d’oliva al dettaglio. L’insegna era in caratteri cuneiformi. Sul muro di un edificio pubblico adiacente c’era un magnifico bassorilievo rappresentante una caccia al Icone del periodo di Assurbanipal. Mentre si avvicinavano al tempio di Assur, scoppiò una rissa tra la folla, e la scorta fece un’ampia deviazione. Adesso Ellie poteva scorgere benissimo la ziggurat in fondo a un largo viale rischiarato da torce. Era più sorprendente che nelle fotografie. Un bizzarro strumento a fiato fece risuonare degli squilli marziali; passò un cocchio guidato da un auriga in berretto frigio, sollevando nuvole di polvere. Come in qualche miniatura medievale del libro della Genesi, la sommità della ziggurat era avvolta da basse nubi scure. Lasciarono la via di Ishtar e si accostarono alla zigurrat percorrendo una strada laterale. Nell’ascensore privato, la sua scorta premette il bottone per l’ultimissime piano: «Quaranta» c’era scritto. Non cifre, solo la parola. E poi, per non lasciare ombra di dubbio, su un pannello di vetro apparve in lettere fluorescenti la strabiliante indicazione: «Gli Dei».

Il signor Hadden l’avrebbe raggiunta di lì a poco. Avrebbe tradito qualcosa da bere per ingannare l’attesa? Considerando la una del posto, Ellie declinò l’offerta. Babilonia si stendeva là fuori sotto i suoi occhi, magnifica, come tutti affermavano concordemente, nella sua ricostruzione di un remoto passato. Durante il giorno, arrivavano alla porta di Ishtar autobus carichi di appassionati di archeologia, rare scolaresche e i partecipanti alle escursioni organizzate dalle agenzie turistiche. I visitatori indossavano vesti approriate al luogo e cominciava il viaggio a ritroso nel tempo. Hadden saggiamente donava tutti i profitti ricavati dalla sua clientela diurna alle istituzioni benefiche di New York City e Long Island. I giri di giorno erano immensamente popolari, in parte perché costituivano un’opportunità rispettabile di dare un’occhiata al posto per coloro che non avevano il coraggio di visitare Babilonia di notte. Al calare delle tenebre, Babilonia si trasformava in un parco di divertimenti per adulti. Per opulenza, dimensioni e fantasia faceva impallidire persino la Reeperbahn di Amburgo. Era di gran lunga la più grande attrazione turistica dell’area metropolitana di New York, con entrate incredibilmente alte. Come Hadden fosse stato in grado di convincere i fondatori di Babilonia e come avesse brigato per potersi infischiare delle varie leggi sulla prostituzione, era ben noto. Dal cuore di Manhattan alla porta di Ishtar c’era solo mezz’ora, di treno. Ellie aveva insistito per servirsi di questo mezzo, nonostante le suppliche degli agenti di sicurezza, e aveva scoperto che quasi un terzo dei passeggeri erano donne. Non c’erano graffiti osceni, il rischio di rapine era ridotto, e il rumore bianco, se paragonato a quello prodotto dalle vetture della sotterranea newyorkese, era inferiore di molto.

Benché Hadden fosse un membro dell’Accademia nazionale di ingegneria, non aveva mai, per quanto ne sapesse Ellie, presenziato a una riunione e lei non l’aveva mai visto di persona. Il suo volto, tuttavia, era divenuto notissimo a milioni di americani, anni prima, in seguito a una campagna dell’Ente Pubblicità contro di lui: «Il Non-Americano» era stata la didascalia sotto a un ritratto poco adulatore di Hadden. Eppure, rimase sorpresa e sconcertata quando, nel mezzo dei suoi pensieri accanto alla parete inclinata di vetro, fu interrotta da una persona piccola e grassa che le faceva dei cenni. «Oh, mi dispiace. Non riesco mai a capire che qualcuno possa avere paura di me.»

La sua voce era sorprendentemente musicale. Infatti, sembrava che parlasse glissando su quinte. Non aveva ritenuto necessario presentarsi e ancora una volta fece un cenno col capo alla porta che aveva lasciata aperta. Era difficile credere che le si volesse far subire un «oltraggio» in quelle circostanze, e senza dire una parola, Ellie passò nella stanza accanto.

Egli la fece avvicinare a un tavolo su cui troneggiava il plastico accuratamente eseguito di una città antica dall’aspetto meno pretenzioso di quello di Babilonia.

«Pompei,» disse a mo’ di spiegazione. «Lo stadio, situato in questo punto, è l’edificio chiave. Con le restrizioni sulla boxe, non abbiamo più dei sani sport sanguinati in America. Cosa invece molto importante. Succhia via un po’ dei veleni dalla circolazione sanguinea nazionale. L’intero complesso è progettato nei minimi particolari, le autorizzazioni sono state rilasciate, e adesso questo non ci voleva.»

«Che cosa?»

«Niente giochi gladiatori. Mi è appena giunta notizia da Sacramento. C’è un progetto di legge allo studio per la messa al bando dei giochi gladiatori in California. Troppo violenti, dicono. Autorizzano un nuovo grattacielo, sanno che perderanno due o tre operai. I sindacati lo sanno, i costruttori lo sanno, ed è solo per fare degli uffici per compagnie petrolifere o per avvocati di Beverly Hills. Certo, noi perderemmo alcuni uomini. Ma siamo indirizzati più al tridente e alla rete che alla daga. Quei legislatori, di priorità non capiscono un accidente.»

Le sorrise con un’espressione da gufo e le offrì un drink, che lei rifiutò di nuovo. «Così lei vuole parlarmi della Macchina, e io voglio parlarle della Macchina. A lei. Vuole sapere dove si trova il sillabario?»

«Stiamo chiedendo aiuto ad alcune persone chiave che possono avere un certo intuito. Pensavamo che con il suo record di inventiva — e poiché il suo microcircuito integrato di riconoscimento contestuale ha svolto un ruolo importante nella scoperta della ripetizione del Messaggio — lei potesse calarsi nei panni degli abitanti di Vega e pensare alla collocazione, secondo lei più appropriata, del sillabario. Sappiamo che lei è molto occupato e mi dispiace di…»

«Oh no. Va bene. E’ vero che sono impegnato. Sto cercando di regolarizzare i miei affari, perché sto per operare un grande cambiamento nella mia vita…»

«In vista del nuovo millennio?» Tentò di immaginarselo mentre regalava ai poveri la S.R. Hadden and Company, l’azienda di mediazioni di Wall Street, la società di ingegneria genetica, la Cibernetica Hadden e Babilonia.

«Non esattamente. No, è stato divertente pensarci. Mi ha fatto piacere essere consultato. Ho guardato i programmi.» Indicò la serie commerciale di otto volumi sparsi in disordine su un tavolo da lavoro. «Ci sono delle cose meravigliose là dentro, ma non aedo che sia là che si celi il sillabario. Non nei programmi. Non so perché lei pensi che il sillabario debba per forza trovarsi nel Messaggio. Forse l’hanno lasciato su Marte o Plutone o nella miriade di comete di Oort, e lo scopriremo fra alcuni secoli. Dunque, sappiamo che c’è questa straordinaria macchina, con i disegni relativi e trentamila pagine di testo esplicativo. Ma non sappiamo se potremo essere in grado di costruire la cosa, una volta messi in condizione di leggerlo. Così, aspettiamo alcuni secoli, miglioriamo la nostra tecnologia, sapendo che prima o poi dovremo essere pronti alla realizzazione della Macchina. L’essere privi del sillabario ci lega alle future generazioni. Agli esseri umani è stato inviato un problema che avrà bisogno di generazioni per essere risolto. Non credo che sia un inconveniente così grave. Potrebbe essere molto salutare. Forse è un errore cercare il sillabario. Forse è meglio non trovarlo.»

«No, io voglio trovare il sillabario immediatamente. Non sappiamo se ci aspetterà per sempre. Se loro attaccano il ricevitore perché non c’è stata risposta, sarebbe molto peggio che se non ci avessero mai chiamato.»

«Beh, forse lei ha una motivazione. Comunque, ho pensato a tutte le eventualità possibili. Le presenterò prima quelle banali, poi una speciale: il sillabario si trova nel Messaggio, ma a una velocità dati molti diversa. Supponiamo che ci sia un altro messaggio a un bit all’ora… potreste scoprirlo?»

«Certamente. Controlliamo d’abitudine la deriva a lungo termine del ricevitore in ogni caso. Ma anche un bit all’ora soltanto fa, vediamo, dieci-ventimila bit al massimo prima che il Messaggio riparta da capo.»

«Perciò ha senso solo se il sillabario è molto più facile del Messaggio. Lei crede che non lo sia. E anch’io credo che non lo sia. Ora, che ne dice di velocità di bit molto più alte? Come fa a sapere che sotto ogni bit del suo Messaggio-Macchina non ci siano milioni di bit del messaggio-sillabario?»

«Perché produrrebbe larghezze di banda mostruose. Lo sapremmo in un istante.»

«Okay, allora c’è un rapido scarico dati di quando in quando. Lo veda come un microfilm. C’è un minuscolo punto di microfilm situato in parti che si ripetono del Messaggio. Sto immaginando una vocina che dice chiaramente: ‘Io sono il sillabario’. Quindi, subito dopo l’annuncio, c’è un punto. E in quel punto ci sono cento milioni di bit, velocissimi. Dovrebbe vedere se avete ricevuto qualche vocina.»

«Mi creda, ce ne saremmo accorti.»

«Okay, che mi dice allora di una modulazione di fase? La usiamo nella telematica dei radar e dei veicoli spaziali, e difficilmente sconvolge lo spettro. Avete collegato un correlatore di fase?»

«No. E’ una buona idea. La esaminerò a fondo.»

«Adesso, l’eventualità speciale è questa: se la Macchina verrà mai realizzata, se i nostri uomini vi prenderanno posto, qualcuno premerà un bottone e allora quei cinque andranno da qualche parte. Non importa dove. Ora, un interessante interrogativo è questo: quei cinque ritorneranno indietro? Forse no. Mi piace l’idea che gli abitanti di Vega abbiano inventato tutta questa progettazione della Macchina perché hanno bisogno di corpi da sottoporre ad autopsia. Per i loro studenti di medicina, o per gli antropologi o per altri. Hanno bisogno di alcuni corpi umani. E’ una grande seccatura venire sulla Terra — si ha bisogno di permessi, di visti di transito dell’autorità — accidenti, il gioco non vale la candela. Ma con un piccolo sforzo, si può inviare sulla Terra un Messaggio e allora i terrestri si sobbarcheranno tutte le noie di spedire cinque corpi. E’ come la raccolta dei francobolli. Avevo l’abitudine di raccogliere francobolli quando ero bambino. Si spediva una lettera a qualcuno in un paese straniero e il più delle volte si riceveva una risposta. Non importava il contenuto della missiva. Tutto quello che si voleva era il francobollo. Dunque, questa è la mia visione: ci sono alcuni filatelici su Vega. Spediscono lettere nello spazio quando ne hanno voglia e i corpi arrivano volando da tutto l’universo. Non le piacerebbe vedere la collezione?»

Le sorrise e proseguì. «Okay, che c’entra questo con il ritrovamento del sillabario? Nulla. E pertinente solo se sbaglio. Se il mio quadro è sbagliato, se i cinque ritorneranno sulla Terra, allora sarebbe di grande aiuto l’aver inventato il volo spaziale. Per quanto intelligenti possano essere, sarà duro far atterrare la Macchina. Troppe cose in movimento. Dio solo sa qual è il sistema di propulsione. Se si termina il viaggio alcuni metri sotto terra, è finita. E che cosa sono alcuni metri in ventisei anni luce? E’ troppo rischioso. Se la Macchina tornerà indietro, dovrà fermarsi nello spazio, in qualche punto vicino alla Terra, ma non sulla Terra o dentro la Terra. Perciò loro devono essere sicuri che noi si sia padroni del volo spaziale, perché i cinque possano essere recuperati nello spazio. Hanno fretta e non riescono a stare tranquilli finché non arriva su Vega un telegiornale serale del 1957. Allora, che fanno? Fanno in modo che parte del Messaggio possa essere individuata solo dallo spazio. Di che parte si tratta? Del sillabario. Se si può scoprire il sillabario, vuoi dire che si è capaci di volare nello spazio e che si può tornare a casa sani e salvi. Quindi, immagino che il sillabario sia stato mandato alla frequenza degli assorbimenti dell’ossigeno nello spettro di microonde, o nell’infrarosso vicino: una parte dello spettro che si può scoprire soltanto quando si è ben fuori dall’atmosfera terrestre…»

«Abbiamo avuto il telescopio Hubble puntato su Vega nell’ultravioletto, nel visibile e nell’infrarosso vicino. Nulla. I russi hanno riparato il loro strumento a onde millimetriche. Non hanno fatto altro che guardare Vega e non hanno scoperto nulla. Ma continueranno a guardare. Altre eventualità?»

«E’ sicura di non voler gradire un drink? Io non bevo, ma tanti lo fanno.» Ellie rifiutò di nuovo. «No, nessun’altra eventualità. Ora tocca a me? Guardi, voglio chiederle qualcosa. Ma non sono bravo a chiedere. Non lo sono mai stato. La mia immagine pubblica è ricca, eccentrica, senza scrupoli: quella di uno che cerca i punti deboli del sistema per poter fare un mucchio di dollari in fretta. E non mi dica che non ci crede anche lei. Tutti ci credono almeno in parte. Lei ha probabilmente già sentito quello che sto per dirle, ma mi conceda dieci minuti e le racconterò com’è cominciato tutto. Voglio che lei sappia qualcosa di me.» Ellie si accomodò, chiedendosi cosa mai avrebbe potuto volere da lei, e spazzò via frivole fantasie che coinvolgessero il tempio di Ishtar, Hadden, e forse un auriga o due in sovrappiù. Anni prima, Hadden aveva inventato un modulo che, quando appariva uno spot pubblicitario in televisione, automaticamente sopprimeva l’audio. All’inizio, non si trattava di un congegno per il riconoscimento contestuale. Controllava semplicemente l’ampiezza del portante: i pubblici tari della TV avevano preso l’abitudine di trasmettere i loro comunicati a un volume più alto e con minore rumore di fondo rispetto ai programmi che costituivano i loro veicoli nominali. La notizia del modulo di Hadden si diffuse oralmente. La gente si sentì sollevata, liberata da un grave fardello, persino felice di essere salvata da quell’ondata pubblicitaria durante le sei-otto ore al giorno che l’americano medio trascorreva davanti al televisore. Prima che ci potesse essere una qualsiasi reazione coordinata da parte dell’industria pubblicitaria televisiva, l’Adnix era diventato incredibilmente popolare. Costrinse i pubblicitari e le reti televisive a nuove scelte di strategia del portatore, che Hadden vanificava con una nuova serie di invenzioni. Qualche volta inventò dei circuiti per sconfiggere strategie che le agenzie e i networks non avevano ancora escogitato. Soleva dire che stava risparmiando loro l’affanno di produrre delle invenzioni che sarebbero costate care ai loro azionisti e che erano, a ogni modo, destinate al fallimento. Quando aumentò il volume delle sue vendite, continuò a ridurre i prezzi. Era una sorta di guerra elettronica. E lui stava vincendo. Cercarono di citarlo in giudizio accusandolo di voler in qualche modo limitare il commercio. Avevano sufficiente forza politica perché venisse respinta la sua mozione per un’assoluzione sommaria, ma insufficiente influenza per vincere davvero il caso. Il processo aveva costretto Hadden ad approfondire i relativi codici legali. Non molto tempo dopo, egli chiese, attraverso una ben nota agenzia di Madison Avenue di cui era diventato un importante socio accomandante, di poter pubblicizzare il suo stesso prodotto sulle TV commerciali. Dopo alcune settimane di polemiche, i suoi spot vennero rifiutati. Egli citò in tribunale tutte e tre le reti e in questo processo fu in grado di dimostrare un complotto per limitazione di commercio. Ricevette un enorme indennizzo che costituì all’epoca, un record per casi di questo tipo, e che contribuì, nel suo piccolo, alla fine delle reti originarie. C’erano sempre state persone cui piaceva la pubblicità, naturalmente, e quelle non avevano nessun bisogno dell’Adnix. Ma erano una minoranza che si andava riducendo sempre più. Hadden si costruì una grossa fortuna sferrando un duro colpo alle trasmissioni pubblicitarie, ma si fece anche molti nemici. I microcircuiti integrati di riconoscimento contestuale facevano la loro comparsa sul mercato e Hadden aveva già pronto il Preachnix, un sottomodulo che poteva essere collegato all’Adnix. Il nuovo congegno avrebbe semplicemente commutato i canali se per caso fosse stato trasmesso un programma religioso. Si potevano preselezionare parole chiave, come «Avvento» o «Estasi» e tagliare grandi fasce nella programmazione disponibile. Il Preachnix riscosse un vastissimo successo in seno a una significativa minoranza di spettatori televisivi che avevano portato anche troppa pazienza. C’era in giro la chiacchiera, solo in parte attendibile, che il prossimo sottomodulo di Hadden si sarebbe chiamato Jivenix e avrebbe agito soltanto sui discorsi pubblici di presidenti e premier. Sviluppando ulterioremente i microcircuiti integrati di riconoscimento contestuale, Hadden si rese conto della possibilità di una loro ben più ampia applicazione — dall’educazione, scienza e medicina, ai servizi segreti militari e allo spionaggio industriale. Fu questa la ragione che portò alla famosa causa «Gli Stati Uniti contro la Cibernetica Hadden». Uno dei microcircuiti integrati di Hadden era stato considerato troppo valido per la vita civile, e su raccomandazione della National Security Agency, gli impianti e il personale qualificato per la produzione più avanzata dei microcircuiti integrati di riconoscimento contestuale furono schedati dal governo. Era semplicemente più importante poter leggere la posta dei russi. Dio solo sapeva, gli dissero, cosa sarebbe potuto accadere se i russi fossero stati in grado di leggere la nostra di posta. Hadden si rifiutò di cooperare al passaggio del controllo e dichiarò solennemente che si sarebbe dedicato ad altri settori possibilmente privi di connessioni con la sicurezza nazionale. Il governo stava nazionalizzando l’industria, disse. Si proclamavano capitalisti, ma al momento opportuno, mostravano il loro volto socialista. Aveva trovato un bisogno pubblico insoddisfatto e usato una nuova tecnologia esistente e legale per consegnare loro quello che volevano. Era capitalismo classico. Ma c’erano molti capitalisti moderati che dicevano che egli si era già spinto troppo oltre con l’Adnix, rappresentando una reale minaccia per il sistema di vita americano. In una severa colonna firmata da V. Petrov, la «Pravda» definiva la cosa un concreto esempio delle contraddizioni del capitalismo. Il «Wall Street Journal» ribatteva, forse un po’ impropriamente, definendo la «Pravda», parola che in russo significa «verità», un concreto esempio delle contraddizioni del comunismo. Hadden sospettò che l’assunzione del controllo da parte dello stato fosse solo un pretesto, che la sua vera colpa fosse stata quella di attaccare la pubblicità e l’evangelismo sul video. Adnix e Preachnix erano l’essenza dell’imprenditorialità capitalistica, sostenne Hadden ripetutamente. Compito del capitalismo era, secondo i presupposti, di fornire alla gente delle alternative.

«Beh, l’assenza di pubblicità è un’alternativa, dissi loro. Ci sono enormi bilanci pubblicitari solo quando non c’è nessuna differenza tra i prodotti. Se i prodotti fossero davvero diversi, la gente comprerebbe quello migliore. La pubblicità insegna alla gente a non fidarsi del proprio giudizio. La pubblicità insegna alla gente a essere stupida. Un paese forte ha bisogno di gente intelligente. Perciò l’Adnix è patriottico. Gli industriali possono impiegare parte dei loro bilanci destinati alla pubblicità per migliorare i loro prodotti. Il consumatore ne trarrà beneficio. Riviste, giornali e pubblicità postale avranno un boom e ciò attenuerà il dispiacere delle agenzie specializzate. Non vedo quale sia il problema.» L’Adnix, molto più delle innumerevoli querele sporte contro le reti commerciali originarie, condusse direttamente alla loro fine. Per un po’ ci fu un piccolo esercito di dirigenti pubblicitari disoccupati, di ex funzionari televisivi in miseria, di teologi al verde che avevano giurato solennemente di vendicarsi di Hadden. E così ci fu un numero sempre crescente di ancor più temibili avversari. Senza alcun dubbio, Ellie pensò, Hadden era un uomo interessante. «Perciò immagino che sia tempo di andare. Ho accumulato tanto denaro che non so più che farmene, mia moglie non riesce a sopportarmi, e ho nemici ovunque. Voglio fare qualcosa di importante, qualcosa di meritevole. Voglio fare qualcosa che mi ricordi alla gente fra centinaia di anni, che susciti la gratitudine dei posteri.»

«Lei vuole…»

«Io voglio costruire la Macchina. Guardi, sono la persona adatta. Ho la più grande competenza di cibernetica, di cibernetica applicata, del settore — superiore a quella di Carnegie-Mellon, superiore a quella del MIT, superiore a quella di Stanford, di Santa Barbara. E se ci si ricava una certezza da questi progetti è che non è lavoro per un costruttore poco aggiornato. E avrete bisogno di qualcosa come l’ingegneria genetica. Non troverete nessuno più addentro in questo campo. E io lo farò a prezzo di costo.»

«Signor Hadden, non dipende certo da me stabilire chi debba costruire la Macchina, se mai arriveremo alla fase realizzativa. Si tratta di una decisione internazionale. Vi sono implicate ragioni politiche di ogni sorta. A Parigi stanno ancora discutendo se costruire la cosa, se e quando si decifrerà il Messaggio.»

«Crede che non lo sappia? Anch’io sto facendo ricorso agli abituali canali delle influenze politiche e della corruzione. Voglio solo che i sostenitori del progetto mettano una buona parola per me per i giusti motivi. Mi capisce? E parlando di sostenitori, lei è riuscita davvero a sconvolgere Palmer Joss e Billy Jo Ran-kin. Non li ho mai visti così agitati da quella volta del pasticcio delle acque di Maria. Rankin va dicendo di essere stato deliberatamente frainteso circa il suo presunto appoggio alla realizzazione della Macchina. Accidenti!» Scosse il capo con ironica costernazione. Sembrava abbastanza verosimile che esistesse una certa personale inimicizia di vecchia data tra quegli attivi predicatori e l’inventore del Preachnix, ed Ellie per qualche ragione si sentì spinta a prender le loro difese. «Sono entrambi molto più intelligenti di quanto lei possa pensare. E Palmer Joss è… beh, c’è qualcosa di autentico in lui. Non_è un impostore.»

«E sicura che non si tratti solo di un’altra bella faccia? Mi scusi, ma è importante che la gente capisca i propri sentimenti al riguardo. E’ troppo grave non capirli. Conosco questi pagliacci. Sotto sotto, quando se ne presenta l’occasione, sono sciacalli. Un mucchio di gente trova la religione attraente, sa, personalmente, sessualmente. Dovrebbe vedere ciò che succede nel tempio di Ishtar.» Ellie represse un brivido di disgusto. «Credo che accetterò quel drink,» disse.

Guardando giù dall’attico, poteva vedere i gradoni della zig-gurat ornati di fiori, artificiali o veri a seconda della stagione. Era una ricostruzione dei giardini pensili di Babilonia, una delle sette meraviglie del mondo antico. Miracolosamente, era stata fatta in modo da non assomigliare troppo a un hotel Hyatt. In basso, potè scorgere una processione di fiaccole che si snodava dalla ziggurat in direzione della porta di Enlil. Era aperta da una specie di portantina sorretta da quattro uomini nerboruti a torso nudo. Non riuscì ad appurare chi o cosa ci fosse dentro.

«E’ una cerimonia in onore di Gilgamesh, uno degli eroi dell’antica cultura sumerica.»

«Sì, ne ho sentito parlare.»

«Era specializzato in immortalità.»

Disse ciò in tono prosaico, a mo’ di spiegazione, e guardò il suo orologio.

«Era sulla cima della ziggurat che i re si recavano a ricevere le istruzioni degli dei. Specialmente da Anu, il dio del cielo. Tra parentesi, ho scoperto come chiamavano Vega: Tiranna, la Vita del Cielo. Buffo, no?»

«E lei ha ricevuto istruzioni?»

«No, sono arrivate da lei, non da me. Ma ci sarà un’altra processione di Gilgamesh alle nove.»

«Temo di non poter rimanere così a lungo. Ma permetta che le chieda qualcosa. Perché Babilonia? E Pompei? Lei è una delle persone più dotate di inventiva che ci siano in circolazione. Lei ha creato parecchie importanti industrie; ha battuto l’industria della pubblicità sullo stesso terreno. D’accordo, lei è stato sconfitto in quell’affare della sicurezza provocato dal microcircuito integrato di riconoscimento contestuale. Ci sono moltissime altre cose che lei potrebbe aver realizzato. Perché… questa?» Lontano, la processione aveva raggiunto il tempio di Assur. «Perché non qualcosa di più… meritevole?» chiese Hadden. «Sto solo tentando di soddisfare quei bisogni della società che il governo trascura o ignora del tutto. E’ capitalismo. E’ legale. Rende felice moltissima gente. E credo sia una valvola di sicurezza per qualcuno di quei pazzi che questa nostra società continua a generare. Ma all’epoca non ci avevo ancora riflettuto. E’ molto semplice. Posso ricordare esattamente quando mi balenò l’idea di Babilonia. Ero a Disneyland, sul battello a ruota del Mississippi con il mio nipotino Jason, che allora poteva avere quattro o cinque anni. Stavo pensando a come fossero stati furbi gli amministratori di Disneyland a eliminare i biglietti individuali per ogni attrazione e a offrire invece un lasciapassare valido un giorno che consentiva l’accesso a tutte. Risparmiavano alcuni salari, quelli dei controllori, per esempio. Ma, fattore molto più importante, la gente era portata a sopravvalutare il suo appetito per i divertimenti. Avrebbero pagato una quota forfettaria per essere ammessi a tutto, e poi si sarebbero accontentati di molto meno.

Ora, accanto a me e a Jason, c’era un ragazzine di otto anni con un’espressione distratta nello sguardo. Tiro a indovinare la sua età. Forse aveva dieci anni. Suo padre gli stava chiedendo delle cose e lui rispondeva a monosillabi. Il bambino stava baloccandosi con la canna di un fucile giocattolo che teneva rivolto in alto sulla sua sedia a sdraio. Il calcio era stretto tra le gambe. Tutto quello che voleva era di essere lasciato solo e di poter carezzare in pace il suo fucile. Dietro a lui, s’innalzavano le torri e le guglie del Regno Magico, e all’improvviso ogni cosa andò a posto. Capisce ciò che sto dicendo?» Si riempì un bicchiere di coca cola dietetica e lo fece tintinnare contro il suo.

«Bevo alla sconfitta dei nemici,» brindò lui giovialmente. «La farò accompagnare fuori per la porta di Ishtar. La processione creerà troppi ingorghi verso la porta di Enlil.»

Entrambe le scorte apparvero come per magia e fu chiaro che la si stava congedando. Desiderava poco trattenersi. «Non dimentichi la modulazione di fase e guardi nelle righe dell’ossigeno. Ma anche se sbaglio riguardo alla collocazione del sillabario, non scordi: sono l’unico in grado di costruire la Macchina.»

I riflettori illuminavano a giorno la porta di Ishtar, decorata da animali azzurri in ceramica vetrificata. Gli archeologi li avevano chiamati dragoni.

14 OSCILLATORE ARMONICO

«Lo scetticismo è la castità dell’intelletto, ed è vergognoso abbandonarlo troppo presto o nelle mani del primo venuto: è cosa nobile conservarlo con freddezza e orgoglio durante una lunga giovinezza, finché alla fine, nella maturità dell’istinto e della discrezione, può essere barattato in tutta sicurezza con fedeltà e gioia.»

GEORGE SANTAYANA, Scetticismo e fede animale, IX

Era in missione di rivolta e sovversione. Il nemico era enormemente più grande e più potente. Ma ne conosceva la debolezza. Poteva assumere il controllo del governo alieno, volgendo le risorse dell’avversario ai propri fini. Ora, con milioni di agenti devoti piazzati…

Lei starnutì e cercò di trovare un fazzoletto di carta pulito nella tasca rigonfia dell’accappatoio presidenziale di spugna. Non era truccata, e le sue labbra screpolate rivelavano macchie di balsamo mentolato. «Il mio medico mi dice che devo rimanere a letto o mi beccherò una polmonite virale. Gli chiedo un antibiotico e lui mi dice che non c’è nessun antibiotico per i virus. Ma come fa a sapere che ho un virus?» Der Heer aprì la bocca per rispondere, ma la Presidente lo bloccò. «No, fa niente. Comincerai a parlarmi del DNA e del riconoscimento dell’ospite e avrò bisogno di tutte le forze che mi restano per ascoltare le tue storie. Se non hai paura del mio virus, prendi una poltrona.»

«Grazie, Presidente. Si tratta del sillabario. Ho qui il rapporto. C’è una lunga sezione tecnica in appendice. Ho pensato che potesse interessarla. In breve, stiamo leggendo e comprendendo davvero la cosa quasi senza difficoltà. E un programma di apprendimento diabolicamente intelligente. Non intendo il ‘diabolicamente’ nel senso letterale della parola, naturalmente. Dovremmo ormai essere in possesso di un vocabolario di tremila termini.»

«Non capisco come ciò sia possibile. Riuscirei a capire come siano in grado di insegnarci i nomi dei loro numeri. Si fa un punto e sotto si scrivono le lettere UNO e così via. O si ha la foto di una stella e ci si scrive sotto STELLA. Ma non vedo come si possa fare per i verbi, per i modi e i tempi.»

«In parte ci riescono con filmati. I filmati sono perfetti per i verbi. Per molte altre cose adoperano i numeri. Persino per le astrazioni; riescono a comunicare delle astrazioni con numeri. Funziona pressappoco così: prima elencano i numeri per noi, e poi introducono qualche nuova parola, parole che noi non capiamo. Ecco, indicherò le loro parole con lettere. Leggiamo qualcosa di simile (le lettere stanno per simboli introdotti dagli alieni)». Egli scrisse:

1A1B2Z 1A2B3Z 1A7B8Z

«Che cos’è secondo lei?»

«Il mio tesserino della scuola superiore? Intendi dire che la A sta per una combinazione di punti e di linee, e che la B sta per una differente combinazione di punti e di linee, e così via?»

«Esattamente. Si sa cosa significano uno o due, ma non si conosce il significato di A e B. Che cosa le dice una sequenza di questo tipo?»

«A significa ‘più’ e B significa ‘uguale’. E’ così?»

«Bene. Ma non comprendiamo ancora il significato di Z, giusto? Adesso sta scrivendo»:

1A2B4Y

«Capisce?»

«Forse. Dammene un altro che termini in Y.» 2000A4000BOY

«Okay, credo di esserci arrivata. Purché non legga gli ultimi tre simboli come una parola, Z significa vero e Y falso.»

«Giusto. Esattamente. Abbastanza bene per una Presidente alle prese con un virus e una crisi sudafricana. Così, con alcune righe di testo ci hanno insegnato quattro parole: più, uguale, vero, falso. Quattro parole piuttosto utili. Poi insegnano la divisione, dividono uno per zero, e ci dicono la parola per infinito. O forse si tratta solo della parola per indeterminato. Oppure dicono: ‘La somma degli angoli interni di un triangolo è pari a due angoli retti.’ Quindi commentano che l’asserzione è vera se lo spazio è piatto, ma falsa se lo spazio è curvo. Così si è arrivati a imparare come si dice ‘se’ e…»

«Non sapevo che lo spazio fosse curvo. Ken, di che diavolo stai parlando? Come può lo spazio essere curvo? No, non importa, non importa. Questo non può avere nulla a che vedere con il problema che abbiamo di fronte.»

«In realtà…»

«Sol Hadden mi dice che era sua l’idea di dove potesse trovarsi il sillabario. Non guardarmi in quel modo strano, der Heer. Io parlo con tutti.»

«Non intendevo dire… ah… Da quel che so, il signor Hadden ha dato alcuni suggerimenti, che erano stati avanzati pure da altri scienziati. Il dottor Arroway li ha controllati e ha trovato la soluzione in uno di essi. Si chiama modulazione di fase o codificazione di fase.»

«Sì. Ma adesso dimmi se è giusto, Ken! Il sillabario è disperso nel Messaggio, vero? Moltissime ripetizioni. E c’era un sillabario anche poco dopo che Arroway captò per la prima volta il segnale.»

«Poco dopo che Arroway scovò il terzo strato del palinsesto, il progetto della Macchina.»

«E molti paesi hanno la tecnologia per leggere il sillabario, vero?»

«Beh, hanno bisogno di un congegno chiamato correlatore di fase. Ma sì. I paesi che contano, a ogni modo.»

«Allora i russi potrebbero aver letto il sillabario un anno fa, giusto? O i cinesi o i giapponesi. Come si fa a sapere che non siano già a metà della costruzione della Macchina?»

«Q ho pensato. Ma Marvin Yang dice che è impossibile. Fotografia spaziale, spionaggio elettronico, gente dell’ambiente, tutto conferma che non c’è nessun segno del grosso impegno costruttivo richiesto per la realizzazione della Macchina. No, siamo tutti rimasti in attesa di un mutamento. Eravamo sedotti dall’idea che il sillabario dovesse giungere all’inizio e non si trovasse disseminato nel Messaggio. E solo quando il Messaggio è ripartito da capo e abbiamo scoperto che non c’era, che abbiamo cominciato a pensare ad altre possibilità. Tutto questo lavoro è stato compiuto in stretta collaborazione con i russi e con tutti gli altri. Non crediamo che qualcuno ci sia passato davanti, ma d’altro canto, tutti hanno il sillabario adesso. Non penso che ci sia nessuna linea di azione unilaterale per noi.»

«Non voglio una linea di azione unilaterale per noi. Voglio solo accertarmi che nessun altro abbia una linea di azione unilaterale. Okay, allora ritorniamo al sillabario. Sai come si dice vero-falso, se-quindi, e che lo spazio è curvo. Ma come si può costruire una Macchina con questa roba?»

«Sa, non credo che questo raffreddore, o qualunque cosa lei si sia buscata, l’abbia messa fuori combattimento per un attimo. Beh, si parte proprio da lì. Per esempio, tracciano per noi un sistema periodico degli elementi, così arrivano a nominare tutti gli elementi chimici, l’atomo, il nucleo, i protoni, i neutroni, gli elettroni. Poi affrontano un po’ di meccanica quantistica, solo per accertarsi che stiamo attenti; ci sono già alcune nuove intuizioni per noi nel materiale propedeutico. Poi, ci si comincia a concentrare sui materiali particolari che sono richiesti per la costruzione. Per esempio, per qualche ragione, abbiamo bisogno di due tonnellate di erbio, così esaminano una tecnica intelligente per estrarlo da rocce comuni.»

Der Heer l’invitò con un gesto della mano a restar calma. «Non mi chieda perché abbiamo bisogno di due tonnellate di erbio. Nessuno ne ha la più pallida idea.»

«Non stavo per chiedertelo. Voglio sapere come vi hanno detto quant’è una tonnellata.»

«L’hanno calcolata per noi sulle masse di Plank. Una massa di Plank è…»

«Non importa, non importa. Si tratta certo di qualcosa che tutti i fisici dell’universo conoscono, vero? E io non ne ho mai sentito parlare. Adesso la questione basilare. Capiamo il sillabario abbastanza da poter cominciare a leggere il Messaggio? Saremo in grado di costruire la cosa oppure no?»

«La risposta sembra essere affermativa. Siamo in possesso del sillabario solo da alcune settimane, ma interi capitoli del Messaggio ci sono già chiari in tutti i dettagli. Dovremmo avere un modello tridimensionale della Macchina per lei in tempo per l’incontro di giovedì per la selezione dell’equipaggio, se sarà in grado di affrontarlo. Finora, non abbiamo idea dell’utilità o del funzionamento della Macchina. E ci sono certi strani componenti chimici organici che non sembra davvero possano far parte di una macchina. Ma quasi tutti sembrano convinti che si possa costruire la cosa.»

«Chi non lo è?»

«Beh, Lunacarskij e i russi. E Billy Jo Rankin, naturalmente. C’è ancora gente che teme che la Macchina possa far saltare per aria il mondo o modificare l’inclinazione dell’asse terrestre, o cose del genere. Ma ciò che ha colpito di più gli scienziati è la precisione delle istruzioni e la molteplicità di spiegazioni per lo stesso argomento.»

«E che dice Eleanor Arroway?»

«Dice che se vogliono eliminarci saranno qui in venticinque anni o poco più e che non c’è nulla che si possa fare in venticinque anni per proteggerci. Sono troppo avanti rispetto a noi. Perciò è favorevole alla realizzazione della Macchina, e, se si è preoccupati dei rischi che può presentare per l’ambiente, suggerisce di costruirla in una località remota. Il professor Drumlin afferma che la si può realizzare anche nel centro di Pasadena, per quel che lo riguarda. Infatti dice che seguirà i lavori della Macchina minuto per minuto, così sarà il primo a partire se ci sarà un’esplosione.»

«Drumlin è il tipo che ha scoperto che si trattava del progetto per una Macchina, vero?»

«Non esattamente, lui…»

«Leggerò tutto il materiale informativo in tempo per l’incontro di giovedì. Hai qualcos’altro per me?»

«Sta seriamente considerando di lasciar costruire la Macchina ad Hadden?»

«Beh, non dipende soltanto da me, come sai. Quel trattato che stanno elaborando a Parigi ci assegna circa un quarto del potere decisionale. I russi ne posseggono un quarto, i cinesi e i giapponesi insieme dispongono di un quarto e il resto del mondo ne ha pure un quarto. Molte nazioni vogliono costruire la Macchina, o almeno parti di essa. Stanno pensando in termini di prestigio, di nuove industrie, di nuove conoscenze. Finché nessuno ci passerà davanti, mi va bene tutto. E’ possibile che Hadden ne ottenga un pezzo. Qual è il problema? Non credi che sia tecnicamente competente?»

«Lo è certamente. Si tratta solo…»

«Se non c’è nient’altro, Ken, ci vediamo giovedì, virus permettendo.» Mentre der Heer stava chiudendo la porta ed entrando nella contigua stanza di soggiorno, si udì un tremendo starnuto presidenziale. Il sergente maggiore di giornata, che stava seduto impettito e rigido su un divano, rimase visibilmente spaventato. La borsa ai suoi piedi era gonfia di codici di autorizzazione per guerra nucleare. Der Heer lo rassicurò con un gesto ripetuto della mano e il militare fece un sorriso di scuse.

«Quella è Vega? E’ quella la responsabile di tanto trambusto?» chiese la Presidente leggermente delusa. I fotoreporter se ne erano finalmente andati e i suoi occhi si erano quasi adattati al buio dopo l’assalto dei flash e dei riflettori televisivi. Le immagini della Presidente che guardava decisa nel telescopio dell’osservatorio navale, apparse su tutti i giornali del giorno dopo, erano, naturalmente, una piccola mistificazione. Non era riuscita a vedere nulla nel telescopio finché i fotografi non si erano allontanati ed era ripiombata l’oscurità. «Perché tremola?»

«E’ la turbolenza dell’aria, Presidente,» spiegò der Heer. «Sacche calde d’aria passano davanti e distorcono l’immagine.»

«E’ come guardare Sey la mattina a colazione quando c’è un tostapane tra noi. Ricordo di aver visto un lato del suo volto ondeggiare,» disse con tono affettuoso, alzando la voce perché il suo consorte, intento a conversare a qualche metro di distanza con il comandante dell’osservatorio, potesse sentire.

«Siii, nessun tostapane sulla tavola della prima colazione, questi giorni,» ribattè amabilmente il marito.

Seymour Lasker, prima del suo ritiro, era un alto funzionario dell’International Ladies Garment Workers Union. Aveva incontrato sua moglie decenni prima, quando lei rappresentava la New York Coat Company, e si erano innamorati durante un laborioso accordo sindacale. Considerando la novità attuale delle loro due posizioni, l’apparente salute del loro rapporto era notevole.

«Posso fare a meno del tostapane, ma non delle colazioni con Sey che purtroppo si vanno facendo sempre più rare da quando è cominciata tutta questa faccenda.» Aggrottò le sopracciglia nella sua direzione, quindi ritornò al monoculare. «Sembra un’ameba blu, tutta… ballonzolante.»

Dopo l’impegnativo incontro per la selezione dell’equipaggio, la Presidente era in uno stato d’animo sereno. Il suo raffreddore se ne era quasi andato.

«Che accadrebbe se non ci fosse turbolenza, Ken? Che cosa vedrei allora?»

«Allora sarebbe proprio come guardare attraverso il telescopio spaziale al di sopra dell’atmosfera terrestre. Lei vedrebbe un punto luminoso fermo, immobile, senza tremolii.»

«Solo la stella? Solo Vega? Nessun pianeta, nessun anello, nessuna stazione per battaglie laser?»

«No, Presidente. Tutto ciò sarebbe troppo piccolo e debole da vedere anche con un potentissimo telescopio.»

«Bene, spero che i tuoi scienziati sappiano quello che stanno facendo,» disse lei sommessamente. «Ci stiamo assumendo una quantità spaventosa di impegni per qualcosa che non abbiamo mai visto.»

Der Heer rimase un po’ stupito. «Ma abbiamo visto trentun-mila pagine di testo, foto, parole, oltre a un enorme sillabario.»

«Per me, non è lo stesso che vedere realmente qualcosa. La cosa è un po’ troppo… deduttiva. Non parlarmi degli scienziati di tutto il mondo che ricevono gli stessi dati. Lo so benissimo. E non dirmi come siano chiare e precise le cianografie per la Macchina. So anche questo. E se noi ci ritiriamo, qualcun altro di certo costruirà la Macchina. Sono a conoscenza di tutte queste cose, ma sono ancora nervosa.»

Il gruppo ripercorse lentamente l’osservatorio navale annesso alla residenza del Vice-Presidente. Accordi preliminari sulla selezione dell’equipaggio erano stati elaborati con cura a Parigi nelle ultime settimane. Gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica avevano discusso per due posti ciascuno nell’equipaggio; in cose del genere erano buoni alleati. Ma il difficile era sostenere tale loro posizione con le altre nazioni dell’Associazione. In quei giorni, era molto più arduo per l’America e la Russia — anche dove erano d’accordo — far capire il loro punto di vista alle altre nazioni del mondo, com’era accaduto in passato.

Ora si sollecitava l’impresa ovunque, come un’attività della specie umana. La definizione «Associazione Mondiale per il Messaggio» stava per essere cambiata in «Associazione Mondiale per la Macchina». Stati in possesso di sezioni del Messaggio cercavano di sfruttare la cosa come un biglietto d’ingresso nell’equipaggio per uno dei loro cittadini. I cinesi avevano tranquillamente sostenuto che entro la metà del secolo seguente sarebbero stati un bilione e mezzo, ma con molti figli unici a causa dell’esperimento cinese di controllo statale delle nascite. Quei bambini, una volta cresciuti, stando alle previsioni, sarebbero stati più intelligenti e più stabili emotivamente dei bambini delle altre nazioni meno soggette a norme di pianificazione familiare. Dato che i cinesi avrebbero rivestito un ruolo di maggior importanza negli affari mondiali del futuro, si meritavano almeno uno dei cinque posti della Macchina. Era un argomento discusso adesso in molte nazioni da funzionari senza nessuna responsabilità per il Messaggio o per la Macchina. L’Europa e il Giappone rinunciarono a una rappresentativa nell’equipaggio in cambio di responsabilità importanti nella costruzione dei componenti della Macchina: ritenevano che sarebbero stati di maggior beneficio economico. Alla fine, un posto venne riservato agli Stati Uniti, uno alla Russia, uno alla Cina, uno all’India e il quinto restò per il momento vacante. Questo fu il risultato di un lungo e difficile negoziato multilaterale, in base a numero di abitanti, potere economico, industriale e militare, attuali allineamenti politici, e persino a considerazioni di ordine storico. Per il quinto posto si candidarono il Brasile e l’Indonesia per la loro popolazione e l’equilibrio geografico; la Svezia si propose come moderatrice in caso di controversie politiche; l’Egitto, l’Irak, il Pakistan e l’Arabia Saudita discussero su basi di equità religiosa. Altri suggerirono che almeno quel quinto posto dovesse essere assegnato in base al merito individuale piuttosto che all’appartenenza nazionale. Per il momento comunque, la decisione fu lasciata in sospeso; sarebbe stato un problema spinoso in seguito. Nelle quattro nazioni prescelte, scienziati, leader nazionali, e altri personaggi erano impegnati nella scelta dei loro candidati. Negli Stati Uniti si tenne una sorta di dibattito nazionale. Nel corso di inchieste e sondaggi d’opinione, capi religiosi, campioni sportivi, astronauti, vincitori di medaglie d’onore del Congresso, scienziati, attori di cinema, la moglie di un presidente precedente, conduttori di special televisivi e annunciatori di notiziari, membri del Congresso, miliardari con velleità politiche, dirigenti di istituzioni, cantanti di musica country e western e di rock-and-roll, rettori di università, e la Miss America in carica vennero tutti appoggiati con vari gradi di entusiasmo.

Fin da quando la residenza del Vice-Presidente era stata trasferita nell’area dell’osservatorio navale, i domestici erano stati dei sottufficiali filippini in servizio attivo nella marina statunitense. Nelle loro eleganti giacche blu, su cui spiccavano le parole ricamate in oro «Vice-Presidente degli Stati Uniti», stavano ora servendo il caffè. La maggior parte dei partecipanti a quell’incontro per la selezione dell’equipaggio che si era protratto per tutto il giorno non erano stati invitati a quell’informale riunione serale. Era stato il singolare destino di Seymour Lasker quello di finire primo First Gentleman d’America. Egli portava il suo fardello — i fumetti dei giornali, le battute ironiche, il dileggio per essere arrivato dove nessun uomo era arrivato prima — con tanta disinvoltura e amabilità che alla fine l’America riuscì a perdonargli di aver sposato una donna che aveva avuto l’audacia di immaginare di poter guidare mezzo mondo. Mentre Lasker intratteneva la moglie del VicePresidente e il figlio minorenne che rideva rumorosamente, la Presidente condusse der Heer in una vicina sala di lettura. «Benissimo,» cominciò lei. «Non si deve prendere nessuna decisione ufficiale oggi e non si deve rilasciare nessuna dichiarazione riguardante le nostre deliberazioni. Ma vediamo se è possibile ricapitolare. Non sappiamo ciò che farà quella maledetta Macchina, ma è ragionevole supporre che partirà per Vega. Nessuno ha la benché minima idea di come funzionerà o di quanto tempo impiegherà. Dimmelo ancora, quanto è lontana Vega?»

«Ventisei anni luce, Presidente.»

«E allora, se questa Macchina fosse una sorta di nave spaziale e potesse viaggiare alla velocità della luce — so che non può viaggiare esattamente alla velocità della luce, e non interrompermi — impiegherebbe ventisei anni per giungere a destinazione, ma soltanto in tempo terrestre, giusto der Heer?»

«Sì. Esattamente. Più forse un anno per raggiungere la velocità della luce e un altro anno per decelerare nel sistema di Vega. Ma dal punto di vista dei membri dell’equipaggio, ci vorrà molto meno. Forse solo un paio di anni; dipende dalla velocità, più o meno prossima a quella della luce, del loro viaggio.»

«Per un biologo, der Heer, hai imparato molta astronomia.»

«Grazie, Presidente. Ho cercato di immergermi nella materia.’

Lei lo fissò per un attimo e poi proseguì. «Quindi, purché la Macchina viaggi molto vicina alla velocità della luce, ha poca importanza l’età dei membri dell’equipaggio. Ma se ci vorranno dieci o vent’anni o di più, e dici che è possibile, allora dovremmo avere qualcuno di giovane. Ora, i russi a questo non credono, visto che sono incerti tra Arkhangelskij e Lunacarskij, entrambi sulla sessantina.»

Aveva letto i nomi in maniera piuttosto incerta da una scheda che aveva davanti.

«I cinesi invieranno quasi certamente Xi. Anche lui è sulla sessantina. Perciò, se sono convinta che sappiano quello che stanno facendo, sarei tentata di dire: ‘Che diavolo, mandiamo anche noi un sessantenne.’ «

Drumlin, der Heer lo sapeva, aveva esattamente sessant’anni. «D’altra parte…» ribattè lui.

«Lo so, lo so. La dottoressa indiana; ha una quarantina d’anni… In un certo qual modo, è la cosa più stupida che mi sia mai capitato di sentire. Stiamo scegliendo qualcuno da far partecipare alle olimpiadi e non sappiamo quali siano le gare in programma. Non so perché si stia parlando di inviare degli scienziati. Il Mahatma Gandhi, ecco chi dovremmo mandare. O già che ci siamo, Gesù Cristo. Non dirmi che non sono disponibili, der Heer, lo so.»

«Quando non si sa quali siano le gare da affrontare, si manda un campione di decathlon.»

«E poi si scopre che la gara è di scacchi, o di oratoria, o di scultura e allora l’atleta in questione finisce ultimo. Okay, tu dici che dovrebbe trattarsi di qualcuno che si è occupato della vita extraterrestre e che ha avuto a che fare strettamente con la ricezione e la decifrazione del Messaggio.»

«Almeno una persona del genere sarebbe molto vicina al modo di pensare degli alieni. O almeno al modo di pensare che viene attribuito loro.»

«E quanto alle persone veramente adatte, dici che il campo si restringe a tre.»

Di nuovo consultò le sue note. «Arroway, Drumlin, e… quello che crede di essere un generale romano.»

«Il dottor Valerian, Presidente. Non so se creda di essere un generale romano; è solo il suo nome.»

«Valerian non ha voluto neppure rispondere al questionario del comitato di selezione. Non lo ha fatto per non lasciare la moglie? E’

vero? Non lo sto criticando. Non è uno sciocco. Sa come far funzionare un rapporto di coppia. Non è che sua moglie sia malata o qualcosa di simile?»

«No, per quel che ne so, è in eccellente salute.»

«Bene. Buon per loro. Mandale una nota personale da parte mia, qualcosa su che donna deve essere perché un astronomo arrivi a rinunciare all’universo per lei. Ma usa un bel linguaggio, der Heer.

Sai quello che voglio. E infilaci dentro qualche citazione. Qualche verso, forse. Ma senza esagerare.» Puntò il suo indice contro di lui.

«Quei Valerian possono insegnare qualcosa a noi tutti. Perché non li invitiamo a una cena ufficiale? Il re del Nepal sarà qui tra due settimane. Sarà l’occasione propizia.»

Der Heer stava prendendo appunti furiosamente. Avrebbe dovuto chiamare il segretario per gli appuntamenti della Casa Bianca al suo domicilio una volta finita la riunione, e aveva una telefonata ancora più urgente da fare. Non era stato in grado di avvicinarsi al telefono per ore.

«Allora ci restano Arroway e Drumlin. Lei ha circa vent’anni di meno, ma lui è in una forma fisica perfetta. Va in deltaplano, si lancia con il paracadute, fa immersioni con l’autorespiratore… è uno scienziato brillante, ha contribuito largamente a risolvere il mistero del Messaggio, e passerà momenti piacevoli discorrendo con tutti gli altri anziani. Non ha mai lavorato ad armi nucleari, vero? Non voglio mandare qualcuno che ha avuto a che fare con armi nucleari. Ora, anche Arroway è una brillante scienziata. Ha diretto l’intero Progetto Argus, conosce tutti i particolari del Messaggio, e ha una mente avida di sapere. Tutti dicono che i suoi interessi sono vastissimi. E darebbe un’immagine americana più giovane.» Si interruppe un attimo.

«E lei ti piace, Ken. Niente di male. Piace anche a me. Ma talvolta non riesce a controllarsi. Hai ascoltato attentamente il suo questionario?»

«Penso di sapere a che cosa si sta riferendo, Presidente. Ma il comitato di selezione è andato avanti a interrogarla per quasi otto ore e qualche volta lei si è seccata quando le hanno rivolto domande che considerava stupide. Drumlin è così anche lui. Forse Arroway ha imparato da lui. E’ stata una sua studentessa per un certo periodo, sa.»

«Già, anche Drumlin ha detto qualche sciocchezza. Ecco, dovrebbe essere tutto registrato per noi su questo VCR. Prima c’è il questionario di Arroway, poi quello di Drumlin. Non hai altro che da premere il tasto ‘play’, Ken.»

Sullo schermo televisivo apparve Ellie mentre veniva intervistata nel suo ufficio, all’Argus. Poteva persino distinguere il pezzo di carta ingiallito con la citazione kafkiana. Forse, tutto considerato, Ellie sarebbe stata più felice se avesse ricevuto solo silenzio dalle stelle. Aveva delle rughette attorno alla bocca e le borse sotto gli occhi. C’erano anche due nuove pieghe verticali sulla sua fronte, proprio al di sopra del naso. Ellie sul videotape aveva un aspetto terribilmente stanco, e der Heer provò una stretta al cuore, un senso di colpa. «Che penso del boom demografico mondiale?» stava dicendo Ellie. «Vuole dire se sono favorevole o contraria? Pensa si tratti di una domanda chiave che mi verrà posta su Vega, e lei vuole accertarsi che dia la risposta esatta? Okay. La sovrappopolazione è la ragione per cui sono a favore dell’omosessualità e del celibato ecclesiastico. Il celibato dei preti è un’idea particolarmente buona perché tende a sopprimere ogni propensione ereditaria al fanatismo.» Ellie aspettava la domanda seguente completamente immobile. La Presidente aveva premuto il bottone «pause». «Dunque, ammetto che alcune domande possano non essere state delle più felici», continuò la Presidente. «Ma non volevamo che qualcuno in una posizione così importante, in un progetto con precise implicazioni internazionali, si rivelasse un razzista. Vogliamo che i paesi del terzo mondo, i paesi in via di sviluppo, siano al nostro fianco in questa impresa. Avevamo una buona ragione per porre una domanda del genere. Non trovi che la sua risposta denoti una certa… mancanza di tatto? E’ un po’ presuntuosa, la tua Arroway. Adesso diamo un’occhiata a Drumlin.» Con una farfalla blu a pallini, Drumlin appariva abbronzato e in gran forma. «Sì, so che noi tutti abbiamo delle emozioni,» stava dicendo, «ma teniamo presente con esattezza cosa siano le emozioni. Sono motivazioni per il comportamento adattivo risalenti a un’epoca in cui eravamo troppo stupidi per afferrare le cose. Ma posso capire che, se un branco di iene si dirige verso di me con le zanne in mostra, ci sono guai in vista. Non ho bisogno di alcuni centimetri cubici di adrenalina per arrivare a cogliere la situazione. Posso persino capire che può essere importante per me dare qualche contributo genetico alla prossima generazione. Non ho davvero bisogno di testosterone in circolo per arrivarci. Si è sicuri che un essere extraterrestre, molto avanti rispetto a noi, sarà gravato di emozioni? So che ci sono persone che pensano che io sia troppo freddo, troppo riservato. Ma se si vogliono capire gli extraterrestri, verrò mandato io. Sono molto più simile a loro di chiunque altro si possa trovare.»

«Che scelta!» disse la Presidente. «Una è atea, e l’altro crede già di venire da Vega. Perché dobbiamo mandare degli scienziati? Perché non possiamo mandare qualcuno di… normale? E’ solo una domanda retorica,» aggiunse in fretta. «So perché dobbiamo mandare degli scienziati. Il Messaggio riguarda la scienza ed è scritto in linguaggio scientifico. Sappiamo che la scienza è ciò che ci accomuna con gli esseri di Vega. No, queste sono buone ragioni, Ken. Me ne ricordo.»

«Lei non è atea. E’ agnostica. La sua mente è aperta. Ellie non è prigioniera di dogmi. E’ intelligente, è tenace, e una vera professionista. Ha un sapere vasto e profondo. E’ proprio la persona di cui si ha bisogno in questa circostanza.»

«Ken, mi compiaccio del tuo impegno per appoggiare questo progetto nella sua interezza. Ma c’è una gran paura là fuori. Non credere che non sappia quanto abbiano già dovuto mandar giù gli uomini là fuori. Più di metà delle persone con cui parlo sono convinte che la costruzione di questa cosa non rappresenti un affare per noi. Se non ci sarà nessun dietro-front, vogliono che si mandi qualcuno di assolutamente sicuro. Arroway può essere tutte le cose che dici, ma sicura lei non lo è. Sto subendo un sacco di pressioni da parte del Campidoglio, dei Primigei, del mio stesso comitato nazionale, delle chiese. Presumo che lei abbia fatto colpo su Palmer Joss durante quell’incontro in Califor-nia, ma è riuscita anche a far infuriare Billy Jo Rankin, che mi ha chiamato ieri e mi ha detto: ‘Signora Presidente’ — non riusciva a dissimulare il suo disgusto nel dire ‘Signora’ — ‘Signora Presidente, quella Macchina volerà diritta da Dio o dal Diavolo. In un caso o nell’altro, lei farebbe meglio a mandare un cristiano timorato di Dio.’ Ha cercato di sfruttare la sua relazione con Palmer Joss per influenzare la mia decisione, per Dio. Non credo ci sia alcun dubbio che stesse suggerendo di andare lui stesso. Drumlin sarà molto più accettabile a qualcuno come Rankin di quanto lo possa essere Arroway. Riconosco che Drumlin ha del pesce lesso. Ma è degno di fiducia, patriottico, sano. E’ in possesso di impeccabili credenziali scientifiche. E ci vuole andare. No, deve essere Drumlin. Il meglio che posso offrire è di tenere Arroway come riserva.»

«Glielo posso dire?»

«Arroway non lo deve sapere prima di Drumlin, vero? Ti farò sapere quando si avrà la decisione finale e avremo informato Drumlin… Oh, allegro Ken! Non vuoi che resti con te qui sulla Terra?»

Erano già passate le sei quando Ellie finì di dare istruzioni al «Tiger Team» del Dipartimento di Stato che stava appoggiando i negoziatori americani a Parigi. Der Heer aveva promesso di telefonarle una volta finita la riunione per la selezione dell’equipaggio. Lui voleva che Ellie apprendesse dalla sua voce se era stata prescelta, non da un altro qualsiasi. Lei sapeva di essere stata insufficientemente rispettosa nei riguardi degli esaminatori, e di correre il rischio di venire scartata proprio per quella ragione, oltre a una decina di altre. Comunque, congetturò lei, poteva esserci ancora una possibilità.

C’era un messaggio che l’attendeva in albergo — non un modulo rosa «mentre lei era fuori» compilato dal centralinista dell’hotel, ma una lettera sigillata, senza francobollo, consegnata a mano. Diceva: «Vediamoci al Museo nazionale della Scienza e della Tecnica, alle otto di stasera. Palmer Joss.»

Nessun saluto, nessuna spiegazione, nessun programma e nessuna formula finale di cortesia, pensò. Questo è davvero un uomo di fede. La carta da lettere era quella del suo albergo e non c’era l’indirizzo del mittente. Doveva essere passato nel pomeriggio, probabilmente informato dal Segretario di Stato in persona che Ellie si trovava in città, aspettandosi di trovarcela. Era stata una giornata faticosa, ed era irritata di dover trascorrere un po’ di tempo lontano dalla ricostruzione del Messaggio. Benché una parte di lei fosse riluttante ad andare, fece una doccia, si cambiò, comperò un sacchetto di anacardi e nel giro di quarantacinque minuti era a bordo di un taxi. Mancava circa un’ora alla chiusura e il museo era quasi vuoto. Enormi macchinari scuri erano sistemati in ogni angolo del vasto ingresso. Ecco l’orgoglio dell’industria calzaturiera, tessile e carbonifera del diciannovesimo secolo. Un organo a vapore dell’Esposizione del 1876 stava suonando un pezzo vivace e brioso, composto forse in origine per ottoni, per un gruppo di turisti dell’Africa Occidentale. Joss non si vedeva da nessuna parte. Frenò l’impulso di girare sui suoi tacchi e di andarsene. Se dovessi incontrare Palmer Joss in questo museo, pensò Ellie, e l’unica cosa di cui avessi mai parlato con lui fosse la religione e il Messaggio, dove lo incontreresti? Era un po’ come il problema della selezione di frequenza per il SETI: non hai ancora ricevuto un messaggio da una civiltà progredita e devi decidere su quali frequenze quegli esseri — di cui tu in teoria ignori tutto, persino la loro esistenza — abbiano deciso di trasmettere. Ci deve essere per forza una qualche nozione in comune tra te e loro. Sia tu che loro conoscete certamente qual è il più comune tipo di atomo nell’universo, e la singola frequenza radio alla quale caratteristicamente assorbe ed emette. Era la logica in base alla quale la riga da 1420 megahertz dell’idrogeno atomica neutro era stata inclusa in tutte le prime ricerche del SETI. Quale sarebbe stato l’equivalente qui? Il telefono di Alexander Graham Bell? Il telegrafo di Marconi? — Ah, naturalmente…

«Questo museo possiede un pendolo di Foucault?» chiese Ellie al guardiano.

Il rumore dei suoi tacchi rimbombava sui pavimenti di marmo mentre si avvicinava alla rotonda. Joss si stava sporgendo dalla ringhiera, per guardare una rappresentazione musiva dei punti cardinali. Cerano dei piccoli indicatori verticali per le ore, alcuni diritti, altri evidentemente abbattuti dal pendolo in precedenza durante il giorno. Verso le sette del pomeriggio, qualcuno aveva fermato la sua oscillazione e ora esso pendeva immobile. Erano completamente soli. Lui l’aveva sentita avvicinarsi per un minuto almeno e non aveva detto nulla.

«Ha deciso che la preghiera può fermare un pendolo?» gli disse sorridendo.

«Sarebbe un abuso di fede,» ribattè lui.

«Non ne vedo la ragione. Farebbe un numero incredibile di convertiti. E per Dio è abbastanza facile, e se ricordo bene, lei Gli parla regolarmente… Non è così? Vuole davvero saggiare la mia fede nella fisica degli oscillatori armonici? Okay.»

Una parte di lei era sbalordita che Joss volesse sottoporla a tale test, ma era determinata a esserne all’altezza. Si sfilò la borsetta che portava a tracolla, si tolse le scarpe. Lui saltò con agilità la protezione d’ottone e l’aiutò a scavalcarla. Camminarono e scivolarono lungo il piano inclinato ricoperto di piastrelle, finché

non si trovarono accanto al pendolo. Era verniciato di nero opaco ed Ellie si chiese se fosse d’acciaio o di piombo.

«Dovrà darmi una mano,» lei disse. Riuscì facilmente a circondare con le braccia il pendolo, e insieme lo spostarono finché non fu inclinato di un buon angolo dalla verticale e rasente il suo viso. Joss la stava osservando attentamente. Non le chiese se fosse sicura di quello che faceva, trascurò di avvertirla del rischio di cadere in avanti, non la mise in guardia dall’imprimere al pendolo una componente orizzontale di velocità mentre lo lasciava andare.

Dietro a lei c’era un buon metro o un metro e mezzo di pavimento piano, prima che cominciasse a inclinarsi verso l’alto per diventare un muro circolare. Se restava perfettamente padrona di sé, si disse, l’impresa era uno scherzo.

Lasciò la presa. Il pendolo si allontanò da lei.

Il periodo di un pendolo semplice, pensò un po’ confusa, è 2 pi greco per radice quadrata di 1 fratto g, dove 1 è la lunghezza del filo e g è l’accelerazione di gravita. A causa dell’attrito nel supporto, il pendolo non può mai oscillare più indietro della sua posizione originale. Tutto quello che devo fare, rammentò a se stessa, è di non ondeggiare in avanti.

Vicino alla ringhiera opposta, il pendolo rallentò e arrivò a un punto morto. Ripercorrendo la sua traiettoria in senso contrario, stava muovendosi all’improvviso molto più velocemente di quanto si era aspettata. Mentre il solido si precipitava verso di lei, sembrava aumentare di grandezza in maniera allarmante. Era enorme e quasi su di lei. Rimase senza fiato.

«Sono indietreggiata,» disse Ellie delusa mentre il pendolo si allontanava da lei. «Soltanto di un pelo.»

«No, sono indietreggiata.»

«Lei crede. Lei crede nella scienza. C’è soltanto un’impercettibile ombra di dubbio.»

«No, non si tratta di questo. Era un milione di anni di intelligenza in lotta contro un bilione di anni d’istinto. Ecco perché il suo lavoro è ben più facile del mio.»

«A questo riguardo, le nostre attività sono le stesse. Tocca a me,» disse e in maniera brusca afferrò il pendolo al punto più alto della sua traiettoria.

«Ma non stiamo mettendo alla prova il suo credo nella conservazione dell’energia.»

Egli sorrise e cercò di restare saldo sui suoi piedi. «Che state facendo laggiù?» chiese una voce. «Siete matti?» Un guardiano del museo, intento a controllare scrupolosamente che tutti i visitatori uscissero prima della chiusura, si era imbattuto in quel quadro inverosimile di un uomo, di una donna, di un pozzo e di un pendolo in un angolo peraltro deserto del cavernoso edificio. «Oh, va tutto bene, signor guardiano,» Joss disse allegramente. «Stiamo solo saggiando la nostra fede.»

«Non potete farlo alla Smithsonian Institution,» ribattè il guardiano. «Questo è un museo.»

Ridendo, Joss ed Ellie riportarono il pendolo a una posizione di quasi immobilità e si arrampicarono su per le inclinate pareti piastrellate.

«Deve essere permesso dal Primo Emendamento,» disse lei. «O dal Primo Comandamento,» ribattè Joss. Ellie si infilò le scarpe, si rimise la borsetta a tracolla, e, a testa alta, accompagnò Joss e il guardiano fuori della rotonda. Senza dare le proprie generalità e senza essere riconosciuti, riuscirono a convincerlo a non farli arrestare. Ma vennero scortati fuori del museo da una compatta falange di personale in uniforme, preoccupata forse che Ellie e Joss nella loro prossima?’ mossa potessero salire sull’organo a vapore alla ricerca di un Dio inafferrabile.

La strada era deserta. Camminavano senza dire una parola lungo il Mail. La notte era chiara ed Ellie individuò la costellazione della Lira all’orizzonte.

«La stella lucente lassù. Quella è Vega,» disse.

Egli la contemplò a lungo. «La decifrazione è stata una brillante impresa,» disse alla fine.

«Oh, sciocchezze. E’ stato banale. Si trattava del più facile messaggio cui potesse pensare una civiltà avanzata. Sarebbe stata un’autentica vergogna se non fossimo stati in grado di interpretarlo.»

«Lei non vuole complimenti, ho notato. No, è una di quelle scoperte che cambiano il futuro. Le nostre aspettative per il futuro, a ogni modo. E’ come il fuoco, o la scrittura, o l’agricoltura. O l’Annunciazione.»

Fissò di nuovo Vega. «Se lei potesse avere un posto su quella Macchina, se la potesse ricondurre al suo Mittente, che pensa di poter vedere?»

«L’evoluzione è un processo stocastico. Ci sono veramente troppe possibilità per formulare ragionevoli predizioni sul presumibile aspetto della vita altrove. Se lei avesse visto la Terra prima dell’origine della vita, avrebbe previsto una cavalletta o una giraffa?»

«Conosco la risposta a quella domanda. Probabilmente lei immagina che ce la inventiamo questa roba, che la leggiamo in qualche libro, o la scoviamo in qualche luogo di preghiera. Ma non è così. Io posseggo una sicura, positiva conoscenza derivante dalla mia diretta esperienza. Non posso esprimerla con maggior semplicità di così. Ho visto Dio in faccia.»

Sulla profondità della sua convinzione non sembrava ci fossero dubbi.

«Mi racconti.» E Joss raccontò.

«Okay,» disse Ellie alla fine, «lei era clinicamente morto, poi è ritornato in vita, e ricorda un’ascesa attraverso il buio fino a una luce sfolgorante. Ha visto una radianza con forma umana che ha preso per Dio. Ma non c’era nulla nella sua esperienza che le abbia detto che la radianza avesse creato l’universo o imposto una legge morale. L’esperienza è un’esperienza. Lei ne è rimasto profondamente turbato, commosso, questo è certo. Ma ci sono altre possibili spiegazioni.»

«Quali ad esempio?»

«Beh, la nascita. Nascere è affiorare in una luce vivida dopo aver percorso un tunnel lungo e nero. Non dimentichi quanto è vivida quella luce. Il bambino ha trascorso nove mesi nell’oscurità. La nascita è il primo incontro con la luce. Pensi alla meraviglia e allo stupore che pervadono il bambino al primo contatto con i colori, o con la luce e le ombre o con il volto umano, che è probabilmente preprogrammato a riconoscere. Forse, se si sfiora la morte, l’odometro ritorna a zero per un attimo. Capisce, non insisto su questa spiegazione. E’ solo una delle molte possibilità. Sto suggerendo che lei possa aver male interpretato l’esperienza.»

«Lei non ha visto ciò che ho visto io.»

Guardò in su ancora una volta alla fredda luce azzurrina, tremolante, di Vega e poi si rivolse a Ellie.

«Non si sente mai… sperduta nel suo universo? Come sa quel che deve fare, come comportarsi, se non c’è nessun Dio? E’ solo una questione di obbedire alla legge o di venire arrestati?»

«Lei non si preoccupa di sentirsi sperduto, Palmer. Lei si preoccupa di non essere al centro, di non essere la ragione per cui fu creato l’universo. C’è ordine in abbondanza nel mio universo. Gravitazione, elettromagnetismo, meccanica quantistica, superunificazione, comportano tutti delle leggi. E per quanto riguarda il comportamento, la condotta, perché non possiamo calcolare ciò che è più nel nostro interesse: come specie?»

«E’ una visione affettuosa e nobile del mondo, ne sono certo, e sarei l’ultimo a negare che ci sia della bontà nel cuore umano. Ma quanta crudeltà è stata compiuta quando non c’era amore per Dio?»

«E quanta crudeltà, quando c’era? Savonarola e Torquemada amavano Dio, o così dicevano. La sua religione presume che gli uomini siano bambini e abbiano bisogno di uno spauracchio per comportarsi bene. Si vuole che la gente creda in Dio perché così obbedirà alla legge. Sono i soli mezzi che le vengono in mente: una severa forza di polizia secolare, e la minaccia di punizione da parte di un Dio onniveggente per tutto ciò che possa esser sfuggito alla polizia. Lei sottovaluta gli esseri umani. Palmer, crede che se non ho avuto la sua esperienza religiosa non possa apprezzare la magnificenza del suo dio. Ma è proprio il contrario. L’ascolto e penso: il suo dio è troppo piccolo! Un pianeta miserabile, alcune migliaia di anni: si merita appena l’attenzione di una divinità minore, figuriamoci quella del Creatore dell’universo.»

«Lei mi sta confondendo con un altro predicatore. Quel museo era il territorio di fratello Rankin. Io sono preparato a un universo vecchio bilioni di anni. Dico solo che gli scienziati non l’hanno dimostrato.»

«E io dico che lei non ha capito l’evidenza. Come può far del bene alla gente se il sapere convenzionale, le ‘verità’ religiose sono una menzogna? Quando crederà davvero che la gente possa essere adulta, farà una predica differente.»

Ci fu un breve silenzio, interrotto soltanto dal rimbombare dei loro passi.

«Mi dispiace se sono stata un po’ troppo brusca,» disse lei. «Mi capita di tanto in tanto.»

«Le do la mia parola, dottor Arroway, rifletterò attentamente su ciò che mi ha detto stasera. Lei ha fatto delle domande per le quali dovrei avere le risposte. Ma nello stesso spirito, permetta che le rivolga alcune domande. D’accordo?»

Ellie annuì e Joss proseguì. «Pensi all’aspetto della coscienza, al suo aspetto in questo momento. Somiglia a miliardi di minuscoli atomi che si agitano sul posto? E oltre al meccanismo biologico, dov’è che la scienza può far imparare a un bambino che cosa sia l’amore? Ecco…»

Il suo segnalatore acustico entrò in funzione. Era probabilmente Ken con la notizia che stava aspettando. Se era così, doveva aver avuto una riunione lunghissima. Forse si trattava comunque di una buona nuova. Guardò le lettere e i numeri che si formavano nel cristallo liquido: era il telefono dell’ufficio di Ken. Non c’era nessuna cabina in vista, ma dopo alcuni minuti riuscirono a fermare un taxi.

«Mi dispiace di dovermi accomiatare così alla svelta,» si scusò Ellie. «Ho apprezzato molto la nostra conversazione e penserò seriamente alle sue domande… Voleva rivolgermene un’altra?»

«Sì. Che cosa c’è nei precetti della scienza che impedisca a uno scienziato di fare il male?»

15 LA SBARRA DI ERBIO

«La terra, mi basta, non voglio che le costellazioni siano più vicine, so che stanno benissimo là dove sono, so che bastano a coloro che le abitano.»

WALT WHITMAN, Foglie d’erba, «Canto della strada maestra» (1855)

Ci vollero anni, fu un sogno tecnologico e un incubo diplomatico, ma finalmente si accinsero alla realizzazione della Macchina. Vennero proposti vari neologismi e nomi che richiamavano antichi miti. Ma fin dall’inizio, tutti l’avevano chiamata semplicemente la Macchina e questa divenne la sua designazione ufficiale. I negoziati internazionali, interminabili, complessi e delicati, vennero definiti dagli scrittori occidentali di editoriali come la «politica della Macchina». Quando venne formulata la prima stima attendibile del costo totale, persino i titani dell’industria aerospaziale rimasero senza fiato. L’ammontare finale era di un mezzo trilione di dollari l’anno, per alcuni anni, pari a circa un terzo del bilancio militare totale — nucleare e tradizionale — del pianeta. C’era il timore che la costruzione della Macchina potesse mandare in rovina l’economia mondiale. «Guerra economica da Vega?» si chiedeva l’»Economist» di Londra. I titoli quotidiani del «New York Times» erano, oggettivamente, più bizzarri di ogni altro mai apparso un decennio prima sul «National Enquirer», testata ormai scomparsa. La storia mostrava che nessun medium, veggente, profeta, o indovino, nessuno con dichiarate doti precognitive, nessun astrologo, nessun numerologo, nessun improvvisato autore di previsioni da rotocalco di fine dicembre, aveva predetto il Messaggio o la Macchina: tanto meno Vega, i numeri primi, Adolf Hitler, i giochi olimpici e il resto. Comunque, ci furono molte rivendicazioni da parte di coloro che avevano chiaramente previsto gli eventi, ma avevano negligentemente trascurato di mettere per iscritto le precognizioni. Le predizioni di avvenimenti sorprendenti risultano sempre più precise se non vengono messe sulla carta prima. E’ una di quelle «stranezze» che si ripetono con regolarità nella vita di tutti i giorni. Molte religioni erano in una posizione leggermente diversa: infatti, un’attenta e perspicace lettura delle loro sacre scritture rivelava, a parere di molti, che questi meravigliosi avvenimenti erano stati predetti con chiarezza.

Per altri, la Macchina rappresentava una potenziale fonte di prosperità per l’industria aerospaziale mondiale, che era stata in preoccupante declino da quando erano entrati pienamente in vigore gli Accordi di Hiroshima. Pochissimi nuovi sistemi di armi strategiche erano in fase di sviluppo. Gli habitat spaziali si rivelavano un affare sempre più proficuo, ma compensavano a stento la perdita delle stazioni orbitanti per le battaglie laser e di altri equipaggiamenti di difesa strategica previsti da un’amministrazione precedente. Perciò, alcuni di coloro che si preoccupavano della sicurezza del pianeta in caso di costruzione della Macchina, avrebbero messo da parte i loro scrupoli in previsione delle implicazioni positive per il lavoro, il profitto e la carriera. Alcuni esperti sostenevano che non c’era prospettiva più rosea per le industrie altamente specializzate di una minaccia dallo spazio. Ci sarebbero volute misure d’emergenza, radar di controllo immensamente potenti, eventuali avamposti su Fiutone o nella fascia delle comete di Oort. Nessun discorso sulle disparità militari tra terrestri ed extraterrestri poteva scoraggiare questi visionati. «Anche se non possiamo difenderci da loro,» essi chiedevano, «non volete sapere quando arriveranno?» C’era del profitto in vista e ne potevano sentir l’odore. Stavano costruendo la Macchina, naturalmente, una Macchina da trilioni di dollari; ma la Macchina era solo l’inizio, se giocavano bene le loro carte.

La rielezione della Presidente Lasker era divenuta in realtà un referendum nazionale sull’eventualità di costruire la Macchina. Il suo avversario aveva messo in guardia contro i cavalli di Troia e le Macchine da Giudizio Universale e la prospettiva di un’umiliazione dell’ingegnosità americana di fronte agli alieni che avevano già «inventato ogni cosa». La Presidente si dichiarò fiduciosa che la tecnologia americana avrebbe fatto fronte alla sfida e fece capire, anche se non lo disse veramente, che l’ingegnosità americana alla fine sarebbe riuscita a eguagliare qualsiasi prodotto di Vega. Venne rieletta con un margine di voti rispettabile, ma non certo schiacciante.

Le istruzioni stesse avevano costituito un fattore decisivo. Sia nel sillabario che nel Messaggio nulla era stato lasciato incerto. Talvolta, alcuni stadi intermedi che sembravano del tutto ovvi vennero spiegati e rispiegati — come quando, nell’aritmetica di base, si è dimostrato che se due per tre fa sei, ma anche tre per due fa sei. A ogni fase costruttiva c’erano dei controlli: Terbio prodotto con il procedimento indicato doveva essere puro al 96 %, con una percentuale minima di impurità costituite dalle altre terre rare. Una volta completato il Componente 31 e collocato in una soluzione molare 6 di acido fluoridrico, i rimanenti elementi strutturali dovevano apparire come il diagramma nell’illustrazione allegata. Una volta assemblato il Componente 408, un’applicazione di un campo magnetico trasversale da due megagauss doveva far ruotare il rotore a tanti giri al secondo prima di ritornare a uno stato di immobilità. Se uno qualsiasi di questi test non riusciva, si ricominciava da capo e si rifaceva tutto.

Dopo un po’, ci si abituava ai test e ci si aspettava di essere in grado di superarli. Era una sorta di memorizzazione meccanica. Molti dei componenti minori, eseguiti da speciali fabbriche progettate ex novo seguendo le istruzioni del sillabario, sfidavano la comprensione umana. Era difficile capire perché avrebbero dovuto funzionare. Ma funzionavano. Persino in casi simili, si potevano prevedere applicazioni pratiche delle nuove tecnologie. Di quando in quando, sembrava si presentassero allettanti prospettive per la raffinazione: in metallurgia per esempio, o nei semiconduttori organici. In alcuni casi, venivano fornite parecchie tecnologie alternative per produrre un componente equivalente; gli extraterrestri, evidentemente, non potevano essere sicuri sul procedimento che avrebbe presentato minori difficoltà per la tecnologia terrestre. Quando vennero costruite le prime fabbriche e prodotti i primi prototipi, diminuì il pessimismo riguardo alla capacità umana di riprodurre una tecnologia aliena ricavata da un messaggio scritto in una lingua sconosciuta. C’era la sensazione eccitante di arrivare impreparati a una prova scolastica e di scoprire che si possono ricavare le risposte dall’educazione generale e dal senso comune. Come in tutti gli esami seri, se ne traeva un’esperienza istruttiva. Tutti i primi test vennero superati: Terbio era di adeguata purezza; la sovrastruttura illustrata rimase, dopo che la materia inorganica era stata corrosa dall’acido fluoridrico; il rotore girava come indicato. Il Messaggio lusingava gli scienziati e gli ingegneri, dicevano i criticoni; venivano travolti dal fascino della tecnologia e perdevano di vista i pericoli.

Per la produzione di un componente, era stata specificata una serie particolarmente complessa di reazioni chimiche organiche, e il risultato era stato immerso in una vasca, delle dimensioni di una piscina, contenente un miscuglio di formaldeide e di ammoniaca acquosa. La massa crebbe, si differenziò, assunse caratteri speciali, e poi si arrestò: straordinariamente più complicata di qualsiasi cosa analoga gli uomini sapessero fare. La cosa possedeva una rete intricata di tubicini vuoti, lungo i quali forse doveva circolare un fluido. Era colloidale, polposa, di color rosso scuro. Non proliferò, ma era biologica a sufficienza per atterrire molti. Ripeterono il procedimento e ottennero qualcosa di apparentemente identico. Come il prodotto finale potesse essere notevolmente più complicato delle istruzioni che si erano seguite per realizzarlo era un mistero. La massa organica si accoccolò sulla sua piattaforma e apparentemente non fece nulla. Doveva essere inserita nel dodecaedro, proprio sopra e sotto l’area per l’equipaggio.

Macchine identiche erano in costruzione negli Stati Uniti e nell’Unione Sovietica. Entrambe le nazioni aveva scelto di realizzarle in località piuttosto remote, non tanto per proteggere i centri abitati nel caso si fosse trattato di una Macchina del Giudizio Universale, quanto per rendere difficile l’accesso ai curiosi, ai contestatori, ai mass-media. Negli Stati Uniti, la Macchina veniva costruita nel Wyoming; nell’Unione Sovietica, appena al di là del Caucaso, nella repubblica socialista dell’Uzbekistan. Nuove fabbriche vennero installate vicino ai luoghi di assemblaggio. Quando i componenti potevano essere prodotti da industrie già esistenti, allora la loro realizzazione avveniva un po’ dovunque. Un subappaltatore ottico di Jena, per esempio, produceva e collaudava componenti per la Macchina americana e per quella russa; e per il Giappone, dove ogni componente veniva sistematicamente esaminato per capirne il funzionamento, nei limiti del possibile. I progressi a Hokkaido erano stati lenti. Ci si preoccupava che un componente sottoposto a un test non autorizzato nel Messaggio potesse distruggere una sottile simbiosi dei vari componenti in una Macchina funzionante. Un’importante sottostruttura della macchina era costituita da tre gusci sferici concentrici posizionati secondo assi perpendicolari l’uno all’altro, e progettati per ruotare ad alte velocità. I gusci sferici dovevano avere precisi e intricati disegni tracciati sulla loro superficie. Un guscio che era stato fatto girare alcune volte in un test non autorizzato avrebbe funzionato male una volta assemblato nella Macchina? Invece, un guscio non collaudato avrebbe funzionato perfettamente?

Le industrie Hadden erano il più importante appaltatore americano per la costruzione della Macchina. Sol Hadden aveva insistito perché non si procedesse a nessun collaudo non autorizzato e neppure al montaggio di componenti progettati per un assemblaggio finale nella Macchina. Le istruzioni, secondo i suoi ordini, dovevano essere seguite bit dopo bit, visto che non c’erano lettere vere e proprie nel Messaggio. Esortava i suoi dipendenti a considerarsi negromanti medievali rispettosi al massimo delle parole di una formula magica. Non osassero pronunciar male una sillaba! Questo avveniva, a seconda di quale dottrina, calendaristica o escatologica si accettasse, due anni prima del nuovo millennio. C’erano tante persone che stavano andando in pensione, in serena attesa del Giudizio Universale o dell’Avvento o di entrambi gli eventi, e in alcune industrie gli operai specializzati scarseggiavano. L’impegno di Hadden nel rinnovare le sue maestranze per ottimalizzare la costruzione della Macchina, e nel creare incentivi per i subappaltatori, veniva considerato fino a quel momento un fattore essenziale per il successo americano. Ma anche Hadden era andato in pensione: cosa sorprendente, considerando le ben note vedute dell’inventore del Preachnix. «I chiliasti mi hanno fatto pensare che sono un ateo,» avrebbe affermato. Le decisioni importanti erano ancora nelle sue mani, dicevano i suoi dipendenti. Ma si comunicava con Hadden tramite un veloce telenetting asincrono: i suoi dipendenti lasciavano rapporti sui progressi compiuti, richieste di autorizzazione, e domande per lui in una cassetta cifrata di un popolare servizio di telenetting scientifico. Le sue risposte ritornavano indietro in un’altra cassetta cifrata. Era uno strano procedere, ma sembrava funzionasse. Comunque, una volta superati i primi, più difficili momenti della realizzazione della Macchina, che cominciava davvero a prendere forma, S.R. Hadden si fece sempre meno sentire. I dirigenti dell’Associazione mondiale per la Macchina erano preoccupati, ma dopo quella che fu descritta come una lunga visita al signor Hadden in una località segreta, ripartirono rassicurati. Il suo domicilio era ignoto a chiunque altro.

Le scorte strategiche mondiali scesero sotto le 3200 armi nucleari per la prima volta dalla metà degli anni Cinquanta. I colloqui multilaterali sulle più difficili fasi del disarmo per arrivare a un deterrente nucleare minimo stavano facendo progressi. Col diminuire delle armi da una parte, più pericoloso sarebbe stato il togliere dalla circolazione un piccolo numero di armi dall’altra. E con la rapida diminuzione del numero di vettori, che erano molto più facili da controllare, con l’impiego di nuovi mezzi di verifica automatica del rispetto del trattato, e con nuovi accordi per ispezioni in loco, le prospettive per ulteriori riduzioni sembravano buone. L’andamento della situazione aveva generato una sorta di stimolo intrinseco sia per gli esperti che per l’opinione pubblica. Come capita nella consueta corsa agli armamenti, le due potenze si affannavano a rimanere in condizioni di parità, ma questa volta in fatto di riduzione di armamenti. In termini militari non avevano ancora rinunciato a molto; conservavano ancora la capacità di distruggere la civiltà del pianeta. Tuttavia, nell’ottimismo creato per il futuro, nella speranza infusa nella nuova generazione, questo inizio era già molto. Grazie forse alle imminenti celebrazioni secolari e canoniche previste in tutto il mondo per il nuovo millennio, il numero annuale delle ostilità armate tra nazioni era diminuito ulteriormente. «La Pace di Dio» l’aveva definita il cardinale arcivescovo di Città del Messico. Nel Wyoming e nell’Uzbekistan erano state create nuove industrie e intere città stavano sorgendo dal nulla. La spesa veniva sostenuta soprattutto dalle nazioni industrializzate, naturalmente, ma il costo proporzionale per ogni essere della Terra si aggirava sul centinaio di dollari l’anno. Per un quarto della popolazione terrestre, cento dollari rappresentavano una parte significativa del reddito annuale. Il denaro speso per la Macchina non produceva direttamente beni o servizi, ma l’incentivazione di una nuova tecnologia era considerata un grande affare, anche se la Macchina stessa non avesse mai funzionato. C’erano molti cui sembrava che si fosse andati troppo in fretta, che si sarebbe dovuto capire a fondo ogni stadio del procedimento prima di passare al seguente. Se per la costruzione della Macchina ci fossero volute generazioni, come si sosteneva, che ci sarebbe stato di male? Distribuendo i costi di sviluppo nell’arco di decenni, si sarebbe alleggerito il fardello economico mondiale che si doveva sostenere per la realizzazione della Macchina. Sotto molti aspetti, era un consiglio saggio, ma di difficile attuazione. Come si poteva sviluppare uno soltanto dei componenti della Macchina? In tutto il mondo, scienziati ed esperti delle più svariate discipline erano ansiosi di potersi sbizzarrire sugli aspetti della Macchina che rientravano nelle loro aree di esperienza. C’erano alcuni che temevano che se la Macchina non fosse stata costruita in fretta, non lo sarebbe stata mai. La Presidente americana e il premier sovietico avevano incaricato le loro nazioni della costruzione della Macchina. Questo non era garantito da tutti i loro possibili successori. Così, per ragioni personali perfettamente comprensibili, quelli che controllavano il progetto si auguravano di vederlo portato a termine mentre si trovavano ancora in posizioni direttive. Alcuni sostenevano che c’era un’intrinseca urgenza se si trasmetteva un Messaggio su tante frequenze, così intensamente e così a lungo. Non stavano semplicemente chiedendo all’umanità di costruire la Macchina. Stavano chiedendole di costruirla subito. Si affrettarono i lavori.

Tutti i primi sottosistemi erano basati su tecnologie elementari descritte nella prima parte del sillabario. I test prescritti erano stati superati con una certa facilità. Quando vennero collaudati i sottosistemi successivi, più complessi, si notarono occasionali avarie. Ciò successe in entrambe le nazioni, ma con maggior frequenza nell’Unione Sovietica. Dal momento che nessuno sapeva come funzionassero i componenti, era di solito impossibile risalire dal tipo di avaria all’identificazione dell’errore nel processo produttivo. In alcuni casi, i componenti venivano eseguiti simultaneamente da due diverse case, in gara per velocità e accuratezza. Se c’erano due componenti che avessero entrambi superato i collaudi, c’era la tendenza da parte di ciascuna nazione a scegliere il prodotto domestico. Perciò, le Macchine che venivano assemblate nei due paesi non erano perfettamente identi-che. Alla fine, nel Wyoming, arrivò il momento di cominciare l’integrazione dei sistemi, l’assemblaggio dei componenti separati in una Macchina completa. Avrebbe dovuto essere la fase più facile del processo costruttivo. Si prevedeva il completamento entro un anno o due. Alcuni pensavano che l’attivazione della Macchina avrebbe fatto finire il mondo proprio allo scoccare dell’ora prevista. I conigli erano molto più astuti nel Wyoming. O meno. Era difficile capirlo. I fari della Thunderbird avevano illuminato un coniglio vicino alla strada più di una volta, ma l’abitudine di quegli animali di organizzarsi in schiere di centinaia di individui, in apparenza non si era ancora estesa dal New Mexico al Wyoming. Ellie trovava che la situazione lì non fosse molto diversa da quella dell’Argus. C’era un’imponente installazione scientifica circondata da decine di migliala di chilometri quadrati di incantevole paesaggio quasi disabitato. Non stava dirigendo lo spettacolo e non era un membro dell’equipaggio. Ma era lì, sul posto, impegnata in una delle più grandi imprese mai progettate. Certamente, a prescindere da quel che sarebbe successo una volta attivata la Macchina, la scoperta dell’Argus sarebbe stata giudicata una pietra miliare, una svolta nella storia dell’umanità.

Proprio nel momento in cui si sentiva il bisogno di una forza unificante in più, c’era stato quel fulmine a ciel sereno. A cielo nero, si corresse Ellie. Dalla distanza di ventisei anni luce, da 230 trilioni di chilometri. E’ difficile pensare al proprio orgoglio di scozzesi, di slovacchi o di bantù quando si è tutti chiamati indiscriminatamente da una civiltà più avanti di millenni rispetto a quella terrestre. Il divario tra la nazione tecnologicamente più arretrata della Terra e quelle industrializzate era, certamente, molto più ridotto di quello esistente tra le nazioni industrializzate e gli esseri di Vega. All’improvviso, distinzioni che prima erano sembrate insormontabili — razziali, religiose, nazionali, etniche, linguistiche, economiche e culturali — cominciarono a sembrare un po’ meno sostanziali. «Siamo tutti esseri umani.» Era una frase che si udiva spesso in quei giorni. Era sorprendente come, nei decenni precedenti, sentimenti di questa sorta fossero stati espressi con scarsa frequenza, specialmente dai mass-media. Dividiamo lo stesso piccolo pianeta, si diceva, e — quasi — la stessa civiltà globale. Era arduo immaginare che gli extraterrestri potessero prendere in considerazione seriamente una richiesta per un abboccamento preferenziale avanzata da rappresentanti dell’una o dell’altra fazione ideologica. L’esistenza del Messaggio — anche a prescindere dalla sua enigmatica funzione — stava unificando il mondo. Lo si poteva veder accadere sotto i propri occhi.

La prima domanda di sua padre quando aveva saputo che Ellie non era stata prescelta era stata: «Hai pianto?» Sì, aveva pianto. Era del tutto naturale. C’era, naturalmente, una parte di lei che desiderava ardentemente salire a bordo. Ma la scelta di Drumlin era stata ottima, aveva detto alla madre.

I sovietici non avevano ancora scelto tra Lunacarskij e Arkhangelskij; entrambi si allenavano per la missione. Era difficile stabilire quale allenamento potesse essere adatto al di là della miglior comprensione possibile della Macchina da parte loro o di chiunque altro. Alcuni americani mossero l’accusa che si trattasse semplicemente di un tentativo russo di avere due portavoce di grido per la Macchina, ma Ellie pensò che la supposizione fosse meschina. Sia Lunacarskij che Arkhangelskij erano estremamente validi. Si chiese come avrebbero fatto i russi a decidere chi mandare. Lunacarskij si trovava negli Stati Uniti, ma non lì nel Wyoming. Era a Washington con una delegazione russa d’alto livello impegnata in un meeting con il Segretario di Stato e Michael Kitz, da poco promosso a ViceSegretario alla Difesa. Arkhangelskij era ritornato in Uzbekistan. La nuova metropoli che stava crescendo nella solitudine selvaggia del Wyoming era stata battezzata Macchina. La sua gemella sovietica ricevette l’equivalente nome russo, Makhina. Ognuna constava di un complesso di grandi edifici, di servizi, di quartieri residenziali e commerciali e, soprattutto, di fabbriche. Alcune di esse erano semplici, almeno all’esterno. Ma per altre bastava un’occhiata per notarne gli aspetti bizzarri: cupole e minareti, miglia di tubi esterni serpentiformi. Solo le fabbriche giudicate potenzialmente pericolose — quelle che producevano i componenti organici, ad esempio — si trovavano lì nel solitario Wyoming. Le tecnologie che non riservavano misteri erano distribuite un po’ dappertutto. Il punto chiave dell’agglomerato di nuove industrie era rappresentato dall’impianto per l’integrazione dei sistemi, costruito accanto a quella che era stata un tempo Wagonwheel, dove venivano consegnati i componenti ultimati. Talvolta Ellie assisteva all’arrivo di un componente e si rendeva conto di essere stata il primo essere umano ad averlo visto allo stadio di progetto. Quando ogni nuova parte veniva liberata dall’imballaggio, lei si precipitava a ispezionarla. Quando i componenti venivano montati l’uno sull’altro e quando i sottosistemi superavano i collaudi previsti, Ellie provava una sorta di soddisfazione che doveva essere simile all’orgoglio materno. Ellie, Drumlin e Valerian arrivarono per una delle solite riunioni, programmate da tempo; si trattava di un controllo del segnale da Vega che ormai veniva effettuato ovunque. Al loro arrivo, tutti stavano parlando dell’incendio di Babilonia. Era scoppiato durante le prime ore del mattino, forse in un momento in cui il luogo era frequentato soltanto dai suoi più iniqui e degenerati habitués. Gruppetti di assalitori, armati di mortai e di bombe incendiarie, avevano fatto irruzione simultaneamente attraverso le porte di Enlil e di Ishtar. La ziggurat era stata data alle fiamme. C’era una foto di gente in vesti incredibili e succinte che si riversava fuori del tempio di Assur. Stranamente, nessuno era rimasto ucciso, anche se molti avevano riportato varie ferite.

Proprio prima dell’attacco, il «New York Sun», un giornale controllato dai Primigei e che recava un globo infranto da un fulmine sulla sua testata, aveva ricevuto una chiamata telefonica annunciante che l’attacco stava per essere sferrato. Era la punizione ispirata da Dio, aveva dichiarato l’autore della telefonata, messa in atto da coloro che erano nauseati e stanchi di sporcizia e di corruzione in difesa della decenza e della moralità americane. Il presidente della Babilonia Inc. deplorò l’attacco e condannò il presunto complotto criminale, ma — almeno fino a quel momento — non si era sentita una parola da S.R. Hadden, dovunque potesse essere. Dato che si sapeva che Ellie aveva fatto visita ad Hadden a Babilonia, qualcuno del personale volle conoscere la sua reazione in merito. Persino Drumlin si mostrò interessato, benché dalla sua evidente conoscenza della geografia del luogo sembrasse possibile che l’avesse visitato lui stesso più di una volta. Ellie non faticava affatto a immaginarselo in vesti di auriga. Ma forse conosceva Babilonia soltanto da quello che ne aveva letto. I settimanali avevano pubblicato spesso piantine della città del vizio. Finalmente si ritrovò a lavorare. Fondamentalmente, il Messaggio stava continuando sulle stesse frequenze, passabande, costanti di tempo, modulazioni di fase e di polarizzazione; il progetto della Macchina e il sillabario si trovavano ancora sotto i numeri primi e la trasmissione delle olimpiadi. La civiltà del sistema di Vega sembrava piena di zelo, O forse avevano solo dimenticato di spegnere il trasmettitore. Valerian aveva negli occhi un’espressione assente.

«Peter, perché devi guardare il soffitto quando pensi?» Si diceva che Drumlin si fosse addolcito negli ultimi anni, ma, come nel caso di un commento del genere, il suo mutamento non era sempre palese. L’esser stato scelto dalla Presidente degli Stati Uniti per rappresentare la nazione presso gli extraterrestri costituiva, come era solito dire, un grande onore. Il viaggio, raccontava ai suoi amici intimi, sarebbe stato il coronamento della sua vita. La moglie, trasferitasi temporaneamente nel Wyoming e ancora ostinatamente fedele, doveva sopportare le stesse proiezioni di diapositive offerte a nuovi pubblici di scienziati e di tecnici impegnati nella costruzione della Macchina. Poiché la zona era vicina al suo natio Montana, Drumlin ci si recava ogni tanto per brevi soggiorni. Un giorno Ellie lo aveva accompagnato in auto a Missoula. Per la prima volta da quando si conoscevano, lui l’aveva trattata cordialmente per alcune ore consecutive.

«Shhhhhh! Sto pensando,» ribattè Valerian. «E’ una tecnica di soppressione del rumore. Sto tentando di ridurre al minimo le distrazioni nel mio campo visivo, ed ecco che tu rappresenti una distrazione nello spettro audio. Potresti chiedermi perché non mi accontenti di fissare un pezzo di carta bianca. Ma il guaio è che la carta è troppo piccola. Posso scorgere delle cose nella mia visione periferica. A ogni modo, stavo pensando a ciò: perché stiamo ancora ricevendo il messaggio di Hitler, la trasmissione delle olimpiadi? Sono trascorsi anni. Ormai devono aver captato la cerimonia dell’incoronazione inglese. Perché non abbiamo visto qualche primo piano del globo o dello scettro e del manto d’ermellino e non abbiamo sentito una voce intonare ‘… ora incoronato per grazia di Dio come Giorgio VI, re d’Inghilterra e Irlanda del Nord, e imperatore dell’India’?»

«Sei sicuro che Vega si trovasse sull’Inghilterra al momento della trasmissione della cerimonia dell’incoronazione?» chiese Ellie. «Sì, abbiamo controllato a poche settimane di distanza dalla ricezione della trasmissione dei giochi olimpici. E l’intensità era più forte del clip di Hitler. Sono certo che Vega possa aver captato la trasmissione dell’incoronazione. «

«Sei preoccupato che non vogliano farci sapere tutto quello che sanno di noi?» gli chiese Ellie.

«Hanno una gran fretta,» disse Valerian, che talvolta si abbandonava a espressioni sibilline.

«Più probabilmente,» suggerì Ellie, «vogliono continuare a ricordarci che sanno di Hitler.»

«Non è del tutto diverso da ciò che stavo dicendo,» replicò Valerian. «Benissimo. Non perdiamo troppo tempo a Fantasyland,» grugnì Drumlin, che si spazientiva spesso per la speculazione sulle motivazioni extraterrestri. Era una totale perdita di tempo lasciarsi andare alle congetture, soleva dire; lo si sarebbe saputo abbastanza presto. Nel frattempo, egli esortava tutti a concentrarsi sul Messaggio; erano dati complessi, ridondanti, precisi, intelligenti. «Ehi, un po’ di realtà potrebbe mettervi a posto, voi due. Perché non andiamo nell’area di assemblaggio? Credo che stiano procedendo all’integrazione dei sistemi con le sbarre di erbio.» Il disegno geometrico della Macchina era semplice. I dettagli erano estremamente complessi. Le cinque poltrone su cui avrebbero preso posto i membri dell’equipaggio si trovavano a metà del dodecaedro, dove questo sporgeva in fuori di più. Non c’erano locali per mangiare o dormire o per soddisfare altre esigenze corporali, e si doveva rispettare scrupolosamente un limite di peso per l’equipaggio e i suoi effetti personali. In pratica, la limitazione andava a vantaggio di persone di piccola statura. Qualcuno pensò che ciò significasse che la Macchina, una volta attivata, si sarebbe incontrata in fretta con un veicolo spaziale interstellare in prossimità della Terra. L’unica difficoltà in questa ipotesi era data dal fatto che minuziose ricerche radar e ottiche non riuscivano a trovar traccia di una simile astronave. Sembrava poco probabile che gli extraterrestri avessero trascurato le più elementari necessità fisiologiche degli uomini. Forse la Macchina non sarebbe andata in nessun posto. Forse avrebbe fatto qualcosa all’equipaggio. Non c’erano strumenti nell’area dell’equipaggio, nulla con cui manovrare, neppure una chiavetta d’accensione: solo le cinque poltrone, rivolte verso l’interno, in modo da consentire a ogni membro dell’equipaggio di guardare gli altri.

Sopra e sotto l’area per l’equipaggio, nella parte rastremata del dodecaedro, erano collocati gli elementi organici con le loro intricate ed enigmatiche architetture. Sistemate all’interno di tutta questa sezione del dodecaedro, apparentemente a casaccio, c’erano le sbarre di erbio. E attorno al dodecaedro c’erano le tre sfere concentriche, ognuna delle quali rappresentava in certo qual modo una delle tre dimensioni fisiche. In apparenza i gusci sferici erano sospesi magneticamente; o almeno le istruzioni includevano un potente generatore di campo magnetico, e lo spazio tra i gusci sferici e il dodecaedro doveva essere sottovuoto.

Il Messaggio non chiamava per nome nessun componente della Macchina. L’erbio era stato identificato come l’atomo con 68 protoni e 99 neutroni. Anche le varie parti della Macchina erano state descritte numericamente: Componente 31, per esempio. Perciò, i gusci sferici concentrici e rotanti vennero battezzatti benzel dal nome di un tecnico cecoslovacco che sapeva il fatto suo. Gustav Benzel, nel 1870, aveva inventato la giostra. Non si sapeva ancora a che cosa servisse e come funzionasse la Macchina, la sua costruzione richiedeva tecnologie totalmente nuove, ma era fatta di qualcosa, la sua struttura poteva essere diagrammata — disegni tecnici a sezione verticale erano apparsi sui mass-media di tutto il mondo — e la sua forma finale era stata prontamente visualizzata. C’era un permanente ottimismo tecnologico.

Drumlin, Valerian e Arroway dopo essere stati identificati in base alla consueta sequenza di credenziali, impronte del pollice e spettrografie acustiche, furono ammessi al vasto reparto di assemblaggio. Gru a ponte di tre piani stavano piazzando le sbarre di erbio nella matrice organica. Parecchi pannelli pentagonali per l’esterno del dodecaedro erano appesi a un binario sopraelevato. Mentre i russi avevano avuto qualche problema, i sottosistemi americani avevano superato definitivamente tutti i loro collaudi e l’architettura esterna della Macchina stava gradualmente prendendo forma. Sta andando tutto al suo posto, pensò Ellie. Una volta completata, la Macchina sarebbe apparsa all’esterno come una di quelle sfere armillari degli astronomi rinascimentali. Che ne avrebbe pensato Giovanni Keplero?

Il pavimento e le piste circolari situate a varie altezze dell’edificio di assemblaggio erano affollati di tecnici, di funzionari governativi, e di rappresentanti dell’Associazione mondiale per la Macchina. Mentre stavano a guardare, Valerian raccontò che la Presidente si era messa a scrivere a sua moglie, che, facendo valere il suo diritto alla privacy, si rifiutava di svelare il contenuto di quelle prestigiose missive.

La messa in opera delle sbarre era quasi completata e si stava per procedere per la prima volta a un importante collaudo di integrazione dei sistemi. Alcuni pensavano che il prescritto congegno di controllo fosse un telescopio a onde gravitazionali. Appena prima di cominciare il test, i tre girarono attorno a un montante per vedere meglio.

All’improvviso, Drumlin volò per aria. Anche tutto il resto sembrava volare. Le fece venire in mente il tornado che aveva trascinato Dorothy nel regno di Oz. Come in un film al rallentatore, Drumlin volteggiava nella sua direzione, a braccia aperte, e la buttò a terra con violenza. Dopo tutti quegli anni, lei pensò, era quella la sua nozione di avance sessuale? Aveva ancora molto da imparare. Non si appurò mai chi avesse causato l’incidente. Le organizzazioni che rivendicavano pubblicamente la paternità dell’accaduto comprendevano i Primigei, la Fazione dell’Armata Rossa, la Jihad islamica, la Fondazione segreta per l’energia di fusione, i Separatisti Sikh, il Sentiero risplendente, i Khmer verdi, la Rinascita afgana, l’ala radicale delle Madri-contro-la-Macchina, la Chiesa riunificata della Riunificazione, l’Omega 7, i Chiliasti del Giudizio Universale (benché Billy Jo Rankin negasse ogni addebito e affermasse che le ammissioni di colpevolezza erano state sfruttate dagli empi per cercare di screditare Dio), il Broeder-bond, El Catorce de Febrero, l’Armata segreta del Kuomintang. la Lega Zionista, il Partito di Dio e il Fronte di Liberazione sim-bionese risorto da poco. La maggior parte di tali organizzazioni non avevano avuto i mezzi per attuare il sabotaggio; la lunghezza della lista era semplicemente un segno della diffusione dell’opposizione alla Macchina. Il Ku Klux Klan, il Partito Nazista Americano, il Partito Democratico Nazionalsocialista e alcune organizzazioni analoghe si tennero in disparte e non si addossarono alcuna responsabilità. Un’autorevole minoranza dei loro membri credeva che il Messaggio fosse stato inviato da Hitler stesso. Secondo una versione, il dittatore tedesco era stato trasferito al sicuro nello spazio dalla tecnologia missilistica del suo paese nel maggio del 1945, e un bel progresso era stato compiuto nel frattempo dai nazisti. «Non conosco la destinazione della Macchina,» dichiarò la Presidente alcuni mesi dopo, «ma se si trattasse di una meta che avesse anche solo in parte i difetti del nostro pianeta non varrebbe certo la pena di andarci.»

Secondo la ricostruzione della commissione d’inchiesta, una delle sbarre di erbio era stata spaccata da un’esplosione; i due frammenti a forma di cilindro erano stati proiettati in basso da un’altezza di venti metri e avevano anche ricevuto una spinta laterale di notevole potenza. Un muro interno di sostegno era stato investito dallo scoppio ed era crollato sotto l’impatto. Undici persone erano rimaste uccise e quarantotto ferite. Molti pezzi importanti della Macchina erano stati distrutti; e, poiché l’esplosione non era contemplata tra le prove di collaudo prescritte dal Messaggio, l’esplosione potrebbe aver danneggiato dei componenti in apparenza intatti. Visto che non si aveva nessuna idea del funzionamento della cosa, si doveva essere il più possibile attenti durante il processo costruttivo. Nonostante la profusione di organizzazioni che pretendevano di essere credute, i sospetti degli Stati Uniti si appuntarono immediatamente su due dei pochi gruppi che non avevano rivendicato la paternità dell’accaduto: gli extraterrestri e i russi. Discorsi su Macchine del Giudizio Universale riempirono l’aria ancora una volta. Gli extraterrestri avevano progettato la Macchina in modo che esplodesse catastroficamente una volta assemblata, ma fortunatamente, dissero alcuni, si era stati disattenti nell’operazione di assemblaggio ed era scoppiata soltanto una piccola carica, forse il detonatore della Macchina del Giudizio. Costoro esortavano a sospendere i lavori prima che fosse troppo tardi e a sotterrare i componenti superstiti in miniere di salgemma disseminate su estese superfici.

Ma la commissione di inchiesta accertò che il Disastro della Macchina era da imputare piuttosto a cause terrestri. Le sbarre avevano una cavità centrale ellissoidale, di uso sconosciuto, la cui superficie interna era rivestita di un’intricata rete di fili di gadolinio puro. Tale cavità era stata riempita di esplosivo plastico collegato a un timer, elementi che non figuravano nell’Inventario delle parti del Messaggio. La sbarra era stata lavorata, rivestita all’interno, sottoposta al test e sigillata in un impianto della Cibernetica Hadden a Terre Haute nell’Indiana. Il sistema di fili di gadolinio si era rivelato troppo complicato per essere eseguito a mano; si rendevano necessari dei servomeccanismi robotizzati che a loro volta avevano richiesto una fabbrica importante per essere costruiti. La spesa per la creazione della fabbrica fu interamente sostenuta dalla Cibernetica Hadden, ma ci sarebbero state altre, più proficue applicazioni per i suoi prodotti.

Le altre tre sbarre di erbio dello stesso lotto vennero esaminate con cura e non rivelarono esplosivo plastico. (Le maestranze sovietiche e giapponesi avevano effettuato una serie di controlli a distanza prima di avere il coraggio di guardar dentro alle loro sbarre.) Qualcuno aveva infilato abilmente nella cavità una carica compressa e un timer verso la fine della lavorazione a Terre Haute. Una volta uscita dalla fabbrica, questa sbarra — e quelle provenienti da altri lotti — era stata trasportata da un convoglio speciale, e sotto scorta armata, nel Wyoming. La regolazione del-l’esplosione e la natura del sabotaggio fecero pensare a qualcuno addentro nella costruzione della Macchina, a un addetto ai lavori.

Ma l’indagine sembrava a un punto morto, o quasi. C’erano state parecchie decine di persone — tecnici, addetti ai controlli di qualità, ispettori che sigillavano il componente per il trasferimento — che avevano avuto l’opportunità di compiere il sabotaggio, se non i mezzi e le motivazioni. Quelli che non superarono le prove della macchina della verità, avevano alibi di ferro. Nessuno dei sospettati si lasciò sfuggire una confessione in un momento di abbandono nel bar sotto casa. Nessuno cominciò a spendere più di quanto gli consentissero i suoi mezzi. Nessuno crollò sotto interrogatorio. Nonostante i dichiarati sforzi da parte dei corpi speciali di polizia, il mistero rimase insoluto.

I sostenitori della responsabilità sovietica affermavano che il movente dei russi era di impedire agli Stati Uniti di attivare la Macchina per primi. I russi avevano la capacità tecnica per il sabotaggio e, naturalmente, una conoscenza dettagliata dei protocolli per la costruzione della Macchina su entrambe le sponde all’Atlantico. Non appena si verificò il disastro, Anatolij Goldmann, un vecchio studente di Lunacarskij, che faceva da elemento russo di collegamento nel Wyoming, si affrettò a chiamare Mosca e disse loro di smontare tutte le sbarre. A una valutazione superficiale, tale conversazione — che era stata come al solito controllata dalla NSA — sembrava dimostrare l’estraneità dei russi, ma qualcuno sostenne che la chiamata telefonica era stata una finta per stornare i sospetti, e che Goldmann non era stato preavvertito del sabotaggio. L’ipotesi venne accettata da quegli americani che mal tolleravano la recente riduzione di tensioni tra le due superpotenze nucleari. Comprensibilmente, Mosca si offese per quell’insinuazione. Di fatto, i russi nel costruire la loro Macchina stavano incontrando più difficoltà di quanto si sapesse comunemente. Servendosi del Messaggio decifrato, il Ministero dell’Industria semipesante aveva compiuto considerevoli progressi nell’estrazione dei minerali, nella metallurgia, nelle macchine utensili e simili. La nuova microelettronica e la nuova cibernetica erano più difficili, e la maggior parte di quei componenti per la Macchina russa erano prodotti sotto sorveglianza altrove, in Europa e in Giappone. Anche più ardua per l’industria nazionale russa era la chimica organica, gran parte della quale richiedeva tecniche sviluppate nella biologia molecolare.

Un colpo quasi fatale era stato inferto alla genetica russa quando negli anni Trenta Stalin aveva deciso che la moderna genetica mendeliana era ideologicamente sconveniente e aveva dichiarato scientificamente ortodossa la genetica balorda di un agricoltore politicamente raffinato di nome Trofim Lysenko. A due generazioni di brillanti studenti sovietici non era stato impartito quasi nulla dei fondamenti dell’ereditarietà. Adesso, sessant’anni più tardi, la biologia molecolare e l’ingegneria genetica erano relativamente arretrate, e poche importanti scoperte in questi campi erano state effettuate da scienziati russi. Qualcosa di analogo era accaduto, ma senza conseguenze, negli Stati Uniti, dove, per ragioni teologiche, si erano fatti dei tentativi di impedire agli studenti delle scuole governative di apprendere la teoria dell’evoluzione, l’idea centrale della moderna biologia. Il punto era chiaro, poiché l’interpretazione fondamentalistica della Bibbia, secondo un’opinione diffusa, era incompatibile con il processo evoluzionistico. Fortunatamente per la biologia molecolare americana, l’influenza dei fondamentalisti negli Stati Uniti non era pari a quella di Stalin in Russia. Il giudizio dei servizi segreti nazionali preparato per la Presidente sulla faccenda concludeva che non c’era alcuna prova di un’implicazione sovietica nel sabotaggio. Al contrario, poiché i russi avevano, come gli americani, un loro rappresentante nell’equipaggio, avevano forti incentivi a non ostacolare il completamento della Macchina americana. «Se la nostra tecnologia si trova al Livello Tre,» spiegò il capo dei servizi segreti centrali, «e il vostro avversario vi precede al Livello Quattro, siete contenti quando dal cielo appare una tecnologia da Livello Quindici. Purché abbiate uguale accesso a essa e adeguate risorse.» Pochi funzionari del governo americano credettero i russi responsabili del-l’esplosione, e anche la Presidente lo affermò pubblicamente in più di un’occasione. Ma le vecchie convinzioni fanno fatica a morire. «Nessun gruppo di pazzi, anche se ben organizzato, potrà allontanare l’umanità da questo storico traguardo,» dichiarò la Presidente. In pratica, però, adesso era molto più difficile riscuotere un consenso nazionale. Il sabotaggio aveva ridato respiro a ogni obiezione, ragionevole o irragionevole, sollevata in precedenza. Solo la prospettiva del completamento della Macchina da parte dei Sovietici fece sì che si continuasse nel progetto americano. La moglie aveva voluto che il funerale di Drumlin si tenesse in forma strettamente privata, ma in ciò, come in molte altre cose, le sue buone intenzioni vennero vanificate. Fisici, aspiranti membri dell’equipaggio, appassionati di deltaplano, funzionar! governativi, campioni di nuoto subacqueo, radioastronomi, paracadutisti, e la comunità mondiale SETI, tutti volevano presenziare. Per un po’ si pensò di celebrare il servizio funebre nella cattedrale di St. John thè Divine di New York City, poiché era la sola chiesa del paese di capienza adeguata. Ma la moglie di Drumlin riuscì a riportare una piccola vittoria, e la cerimonia venne tenuta all’aperto nella sua città natale di Missoula, nel Montana. Le autorità furono d’accordo poiché Missoula semplificava i problemi di sicurezza.

Benché Valerian non fosse rimasto ferito in maniera grave, i suoi medici lo sconsigliarono di prender parte al funerale; ciò nonostante, egli pronunciò uno degli elogi funebri da una sedia a rotelle. Lo speciale genio di Drumlin consisteva nel sapere quali domande rivolgere, disse Valerian. Si era accostato al problema SETI scetticamente, perché lo scetticismo era alla base della scienza. Una volta chiaro che si stava ricevendo un Messaggio, nessuno si era dedicato con maggiore impegno di lui alla sua decifrazione. Il ViceSegretario alla Difesa, Michael Kitz, in rappresentanza della Presidente, sottolineò le qualità personali di Drumlin: il suo calore, la sua considerazione per i sentimenti degli altri, il suo talento, le sue notevoli doti atletiche. Se non fosse stato per quel tragico e vile evento, Drumlin sarebbe passato alla storia come il primo americano ad aver visitato un’altra stella.

Lei non avrebbe pronunciato nessuna orazione funebre, aveva detto Ellie a der Heer. Non avrebbe concesso nessuna intervista alla stampa. Forse si sarebbe lasciata fotografare — ne capiva l’importanza. Aveva paura di non dire le cose appropriate alla circostanza. Per anni, era stata una sorta di portavoce pubblico per SETI, per l’Argus, e poi per il Messaggio e per la Macchina. Ma questa era una situazione diversa. Aveva bisogno di tempo per riflettere.

A suo parere, Drumlin era morto salvandole la vita. Egli aveva visto l’esplosione prima che gli altri la udissero, si era reso conto fulmineamente che la massa di erbio di parecchie centinaia di chili stava per investirli. Con i suoi pronti riflessi si era slanciato verso di lei e l’aveva ricacciata indietro al riparo del montante. Ellie aveva fatto presente questa possibilità a der Heer che ribattè: «Drumlin stava probabilmente facendo un balzo per salvare se stesso e tu ti trovavi proprio sulla sua traiettoria.» L’osservazione era stata poco gentile; che lui l’avesse fatta anche con l’intento di ingraziarsela? O forse, aveva proseguito der Heer, intuendo il suo scontento, Drumlin era stato lanciato in aria dall’urto dell’erbio contro il piano del ponteggio.

Ma lei ne era assolutamente sicura. Aveva visto tutto. La preoccupazione di Drumlin era stata quella di salvare la sua vita. E c’era riuscito. A parte alcune escoriazioni, Ellie era rimasta tìsicamente illesa. Valerian, che era stato completamente protetto dal montante, aveva avuto entrambe le gambe fratturate da una parete che era crollata. Lei aveva avuto tutte le fortune. Non aveva neppure perso i sensi.

Il suo primo pensiero — non appena si fu resa conto dell’accaduto — non fu per il suo vecchio maestro David Drumlin schiacciato orribilmente davanti ai suoi occhi; non provò nessuno stupore all’idea che Drumlin avesse rinunciato alla sua vita per lei; non considerò i ritardi che l’incidente avrebbe causato all’intero progetto. No, chiaro come il sole, il suo pensiero era stato: «Posso andarci, dovranno mandare me, non c’è nessun altro, ce l’ho fatta.» Si era ripresa in un attimo, ma era troppo tardi. Era stupefatta dal suo coinvolgimento personale, dallo spregevole egotismo che aveva rivelato a se stessa in quel momento di crisi. Non importava se Drumlin poteva aver avuto delle mancanze del genere. Era sgomenta di trovare, anche se per un istante soltanto, dentro di sé, delle linee di condotta così… forti, aggressive, protese al futuro che la rendevano dimentica di ogni cosa tranne che di se stessa. Quello che detestò maggiormente fu l’assoluta indifferenza del suo ego, che non si scusò, non le diede tregua e fece irruzione prepotentemente. Era corrotto, guasto. Sapeva che sarebbe stato impossibile estirparlo con radici e rami. Avrebbe dovuto lavorarci pazientemente, ragionarci, distrailo, forse persino minacciarlo.

Quando gli investigatori giunsero sul luogo della tragedia, fu laconica. «Temo di non potervi dire molto. Noi tre stavamo camminando insieme nell’area dei ponteggi e all’improvviso c’è stata un’esplosione e tutto è volato in aria. Mi dispiace di non potervi aiutare. Vorrei esserne in grado.»

Fece capire ai suoi colleghi che non voleva parlarne, e scomparve nel suo alloggio dove rimase così a lungo che mandarono degli agenti della vigilanza a chiedere sue notizie. Ellie cercava di ricordare ogni piccolo dettaglio dell’incidente, di ricostruire la loro conversazione prima che entrassero nell’area dei ponteggi, l’argomento dei loro discorsi durante il viaggio in auto a Missoula, l’impressione che le aveva fatto Drumlin quando l’aveva incontrato la prima volta all’inizio del suo perfezionamento. A poco a poco, Ellie scoprì che c’era stata una parte di lei che aveva voluto Drumlin morto — anche prima di entrare in competizione per il posto americano sulla Macchina. Ellie lo aveva odiato per averla umiliata davanti agli altri studenti del corso, per essersi opposto all’Argus, per quello che le aveva detto l’istante dopo che il clip hitleriano era stato ricomposto. Gli aveva augurato la morte. E adesso lui era morto. Secondo un certo modo di ragionare, che riconobbe subito come contorto e contraffatto, si credette responsabile.

Si sarebbe trovato lì se non fosse stato per lei? Certo, si disse; qualcun altro avrebbe scoperto il Messaggio e Drumlin sarebbe saltato in aria. Ma lei, forse per la propria carenza scientifica, non aveva provocato un coinvolgimento sempre maggiore di Drumlin nel progetto della Macchina? Un poco alla volta, Ellie esaminò attentamente le possibilità. Se esse erano spiacevoli, le sviscerava con accanimento; vi si nascondeva qualcosa. Pensò agli uomini che per una ragione o per l’altra lei aveva ammirato. Drumlin. Valerian. Der Heer. Hadden… Joss. Jesse… Staugh-ton?… suo padre. «Dottor Arroway?»

Ellie fu grata a quel donnone di mezz’età vestito di blu di averla distolta dalla sua meditazione. Il suo volto aveva qualcosa di familiare. Sulla targhetta di identificazione appuntata sul suo ampio petto c’era scritto: «H. Bork, Goteborg.»

«Dottor Arroway, mi dispiace moltissimo per la sua… per la nostra perdita. David mi aveva raccontato tutto di lei.»

Naturalmente! La leggendaria Helga Bork, la compagna di nuoto di Drumlin in tante noiose proiezioni di diapositive per i perfezionandi.

Ma chi, si chiese per la prima volta, aveva scattato quelle foto?

Avevano invitato un fotografo ad accompagnarli nei loro appuntamenti subacquei?

«Mi aveva detto quanto eravate uniti voi due.»

Che cosa sta tentando di dirmi quella donna? Drumlin le ha insinuato… Gli occhi le si riempirono di lacrime.

«Mi dispiace, dottor Bork, non mi sento molto bene in questo momento.»

A testa bassa, la donna se ne andò in fretta.

C’erano molte persone al funerale che lei desiderava vedere: Vaygay, Arkhangelskij, Gotsridze, Baruda, Yu Xi, Devi, e Abonneda Eda, di cui si diceva con sempre maggior frequenza che sarebbe stato il quinto membro dell’equipaggio… se le nazioni avessero avuto un po’ di buon senso, pensò Ellie, e se ci fosse stata una Macchina finita. Ma la sua forza di resistenza sociale era distrutta e adesso non poteva sopportare lunghi incontri. C’era una cosa che le incuteva il terrore di parlare: quanto di quello che avrebbe potuto dire sarebbe stato per il bene del progetto, e quanto per soddisfare le sue personali esigenze? Gli altri furono sensibili e comprensivi. Lei era stata, dopo tutto, la persona più vicina a Drumlin quando la sbarra di erbio l’aveva colpito e schiacciato.

16 I VENERABILI DI OZONO

«Il Dio che la scienza riconosce deve essere un Dio esclusivamente di leggi universali, un Dio che tratta affari all’ingrosso, non al minuto. Egli non può adattare i suoi procedimenti alla convenienza degli individui.»

WILLIAM JAMES, Le varietà di esperienza religiosa (1902)

Ad alcune centinaia di chilometri di altezza, la Terra riempie a metà il cielo, e la striscia di blu che si stende da Mindanao a Bombay, e che l’occhio abbraccia in un solo sguardo, può spezzare il cuore con la sua bellezza. Ecco la mia patria, si pensa, la mia patria. Quello è il mio mondo. E’ da là che vengo. Tutti quelli che conosco, tutti quelli di cui ho sentito parlare, sono cresciuti laggiù, sotto quell’immutabile e magnifico cielo azzurro.

Si vola in direzione est da orizzonte a orizzonte, da alba ad alba, girando attorno al pianeta in un’ora e mezzo. Dopo un po’, inevitabilmente, lo si conosce bene e si studiano le sue caratteristiche e le sue anomalie. Si può vedere tanto a occhio nudo. La Florida sarà presto di nuovo visibile. Quel sistema tropicale di uragani, che si era visto durante l’ultima orbita mentre turbinava e si spostava velocemente sul mar dei Caraibi, ha raggiunto Fort Lauderdale? Qualche montagna dell’Hindu Kush è priva di neve quest’estate? Si ammirano i banchi color acquamarina del mar dei Coralli. Si guarda la barriera di ghiaccio dell’Antartide occidentale e ci si chiede se il suo scioglimento potrebbe realmente sommergere tutte le città costiere del pianeta.

Con la luce del giorno, però, è difficile scorgere qualche traccia di insediamenti umani. Ma di notte, fatta eccezione per l’aurora boreale, tutto ciò che si vede è dovuto agli uomini. Quella fascia di luce è il Nord America orientale, senza soluzione di continuità da Boston a Washington, una megalopoli di fatto se non di nome. Laggiù bruciano i gas naturali dei campi petroliferi della Libia. Le luci brillanti delle lampare della flottiglia da pesca giapponese si sono spostate verso il Mar Cinese Meridionale. A ogni orbita, la Terra racconta nuove storie. Si può vedere un’eruzione vulcanica nella Kamcatka, una tempesta di sabbia sahariana che si avvicina al Brasile, un’ondata di freddo fuori stagione in Nuova Zelanda. Si arriva a pensare alla Terra come a un organismo, a una cosa vivente.

Ci si comincia a preoccupare di lei, a volerle bene, a pensare al suo interesse. Le frontiere nazionali sono invisibili come lo sono i meridiani della longitudine, o i Tropici del Cancro e del Capricorno. Le frontiere sono arbitrarie. Il pianeta è reale. Il volo spaziale, perciò, è sovvertitore. Se sono abbastanza fortunati da trovarsi in orbita terrestre, la maggior parte degli uomini, dopo una breve riflessione, hanno pensieri simili. Le nazioni che hanno istituito il volo spaziale l’hanno fatto soprattutto per ragioni nazionalistiche; è stata un’ironia della sorte che quasi tutti coloro che sono andati nello spazio abbiano ricevuto una sorprendente visione di una prospettiva soprannazionale, della Terra come di un mondo solo.

Non era difficile immaginare un tempo in cui il patriottismo si sarebbe sentito per quel mondo azzurro, o persino per quei corpi celesti che fanno compagnia alla vicina nana gialla cui gli uomini, una volta ignari che ogni stella fosse un sole, avevano attribuito l’articolo determinativo: il Sole. Era solo da quando molti astronauti erano rimasti nello spazio per lunghi periodi, che avevano consentito loro di riflettere, che il potere della prospettiva planetaria aveva cominciato a farsi sentire. Un numero significativo di questi occupanti di una bassa orbita terrestre finirono per esercitare una certa influenza laggiù sulla Terra.

All’inizio, prima che un essere umano andasse nello spazio, avevano mandato in cielo degli animali. Amebe, moscerini della frutta, topi, cani e scimmie erano diventati arditi veterani dello spazio. Quando divennero possibili voli spaziali di sempre maggior durata, si scoprì qualcosa di sorprendente. Il soggiorno nello spazio non aveva effetti sui microrganismi e scarsi effetti sui moscerini della frutta. Ma per i mammiferi, a quanto pareva, la gravita zero aumentava la durata della vita, del 10 o 20 %. Se si fosse vissuto in condizioni di gravita zero, il corpo avrebbe consumato minor energia combattendo la forza di gravita, le sue cellule si sarebbero ossidate più lentamente e così si sarebbe vissuti più a lungo. Alcuni medici avevano affermato che gli effetti sarebbero stati molto più marcati sugli uomini che sui topi. C’era un profumo di immortalità nell’aria. L’insorgenza di casi di cancro era calata dell’80 % negli animali in orbita rispetto a quelli controllati sulla Terra. La leucemia e i carcinomi linfatici erano scesi del 90 %. C’era anche qualche indizio, forse non ancora significativo statisticamente, che la percentuale di remissioni spontanee di malattie neoplastiche fosse molto più elevata in condizioni di gravita zero. Il chimico tedesco Otto Warburg, mezzo secolo prima, aveva avanzato l’ipotesi che l’ossidazione fosse la causa di molti tumori. Il più basso consumo cellulare di ossigeno in condizioni di assenza di peso sembrò all’improvviso molto seducente. Persone che nei decenni precedenti avrebbero compiuto un pellegrinaggio in Messico per il laetrile, adesso chiedevano un biglietto per lo spazio. Ma il prezzo era esorbitante. Si trattasse di medicina preventiva o clinica, il volo spaziale era per pochi eletti. All’improvviso, somme di denaro fino ad allora inaudite si resero disponibili per investimenti in stazioni civili orbitanti. Negli ultimissimi anni del secondo millennio, c’erano le prime case di riposo all’altezza di alcune centinaia di chilometri. A parte la spesa, c’era un serio inconveniente, naturalmente: progressive modificazioni osteologiche e vascolari rendevano per sempre impossibile il ritorno al campo gravitazionale, alla superficie della Terra. Ma per alcuni dei ricchi anziani, ciò non costituiva un grave impedimento. In cambio di altri dieci anni di vita, erano felici di ritirarsi in cielo e, se mai, di morirvi.

Alcuni, preoccupati, consideravano questa operazione un imprudente investimento della limitata ricchezza del pianeta; c’erano troppi bisogni urgenti e troppe giuste rivendicazioni dei poveri e dei deboli per sprecarla viziando i ricchi e i potenti. Era da sconsiderati, essi dicevano, permettere a una classe elitaria di emigrare nello spazio, mentre le masse sarebbero state lasciate sulla terra, un pianeta affidato a padroni assenti. Altri invece sostenevano che era una benedizione del cielo: i padroni del pianeta si stavano riunendo per partire; non avrebbero fatto più danno lassù che quaggiù. Quasi nessuno previde la conseguenza principale, cioè che le persone che potevano fare maggiormente del bene venissero conquistate da una vigorosa prospettiva planetaria. Nel giro di pochi anni, rimasero pochi nazionalisti in orbita terrestre. Il confronto nucleare globale pone dei reali problemi a coloro che si sentono imperiosamente attratti dall’immortalità. C’erano industriali giapponesi, armatori greci, principi ereditari sauditi, un ex Presidente, un ex segretario generale del Partito, un magnate cinese di dubbia onestà, un boss dell’eroina in pensione. In Occidente, a parte alcuni inviti promozionali, vigeva soltanto un criterio per poter risiedere in orbita terrestre: bastava essere in grado di pagare. Il pensionato russo era diverso; veniva scelta una stazione spaziale e si diceva che l’ex segretario del Partito si trovasse lì per «ricerche gerontologiche». In genere, le masse non nutrivano rancori. Immaginavano che un giorno anche loro ci sarebbero andate. Quelli in orbita terrestre tendevano a essere circospetti, attenti, tranquilli. Le loro famiglie e i loro staff avevano qualità personali analoghe. Gli altri personaggi ricchi e potenti, che si trovavano ancora sulla Terra li tenevano d’occhio con discrezione. Gli orbitanti non rilasciavano dichiarazioni, ma le loro vedute permearono a poco a poco il pensiero di leader di tutto il mondo. Il progressivo disarmo nucleare da parte delle cinque potenze atomiche veniva caldeggiato dai venerabili in orbita. In maniera informale, essi avevano appoggiato la costruzione della Macchina per il suo potenziale unificatore. Talvolta, organizzazioni nazionalistiche scrivevano di una vasta cospirazione in orbita terrestre, di benefattori cadenti che vendevano le loro patrie. Venivano fatti circolare dei libelli che sarebbero dovuti essere le trascrizioni stenografiche di un convegno avvenuto a bordo del «Matusalemme», cui avrebbero preso parte rappresentanti delle altre stazioni spaziali private trasportati lì per l’occasione. Era stata esibita una lista di «azioni da intraprendere» con l’intento di infondere il terrore anche nel cuore del più pietoso patriota. I libelli erano falsi, annunciò «Timesweek», che li definì «I Protocolli dei Venerabili di Ozono».

Nei giorni immediatamente precedenti al lancio, Ellie cercò di trascorrere un po’ di tempo — spesso subito dopo l’alba — a Cocoa Beach. Si era fatta prestare un appartamento che si affacciava sulla spiaggia. Si portava dietro dei pezzetti di pane e si allenava a lanciarli ai gabbiani dell’Atlantico. I pennuti erano in grado di afferrare i bocconi al volo, con una media di presa, secondo i suoi calcoli, intorno a quella di un bravo battitore di baseball. C’erano momenti in cui venti o trenta gabbiani si libravano in aria a un metro o due appena sulla sua testa. Battevano vigorosamente le ali per rimanere in posizione, con i becchi aperti, in attesa spasmodica della miracolosa apparizione del cibo. Si sfioravano in un movimento apparentemente casuale, ma l’effetto totale era quello di una formazione statica. Ritornando a casa, al limitare della spiaggia, scorse a terra una piccola fronda di palma, perfetta nella sua umiltà. La raccolse e la portò nel suo appartamento, ripulendola dalla sabbia con le dita.

Hadden l’aveva invitata a fargli visita nella sua casa sospesa, nel suo castello spaziale, battezzato «Matusalemme». Ellie potè mettere a conoscenza dell’invito solo il governo, poiché Hadden voleva a tutti i costi evitare la pubblica attenzione. Infatti, non era ancora risaputo che egli avesse stabilito la sua residenza in orbita, che si fosse ritirato in cielo. Tutti i funzionari governativi cui Ellie si rivolse, furono favorevoli alla sua partenza. Il parere di der Heer fu: «Il cambiamento d’aria ti farà bene.» La Presidente si mostrò chiaramente d’accordo, visto che all’improvviso si era reso disponibile un posto sul prossimo lancio di uno shuttle, il vecchio STS «Intrepido». Di solito, i collegamenti con una casa di riposo orbitante erano effettuati da un vettore commerciale. Erano in corso i collaudi finali di volo per un veicolo di lancio molto più grande e non riutilizzabile. Ma la flotta vecchiotta di shuttle era ancora la più usata per le attività spaziali militari e civili del governo americano. «Subiamo solo qualche danno alle piastre isolanti durante la fase del rientro, ma tutto è nuovamente in ordine prima del decollo,» le spiegò uno dei piloti-astronauti.

Oltre a una salute generale buona, non ci volevano speciali requisiti fisici per il volo. I lanci commerciali di solito partivano pieni e ritornavano vuoti. Invece, i voli shuttle erano completi sia all’andata che al ritorno. Prima dell’ultimo atterraggio, avvenuto la settimana prima, l’»Intrepido» si era agganciato con il «Matusalemme» per far rientrare sulla Terra due passeggeri. Riconobbe i loro nomi; uno era un progettista di sistemi propulsivi, l’altro un criobiologo. Ellie si chiese incuriosita che fossero rimasti a fare a bordo del «Matusalemme».

«Vedrà,» il pilota proseguì, «è come cadere a piombo; una sensazione che quasi nessuno trova sgradevole, anzi molti l’adorano.»

Fu così anche per lei. Stretta tra il pilota, due specialisti in missione, un ufficiale taciturno e un impiegato del servizio fiscale interno, Ellie sperimentò un decollo impeccabile e l’euforia della sua prima esperienza in condizioni di gravita zero più duratura del viaggio nell’ascensore ad alta decelerazione al World Trade Center di New York. Un’orbita e mezzo dopo, ebbero il rendezvous con il «Matusalemme». Di lì a due giorni, il convoglio commerciale «Narnia» avrebbe riportato giù Ellie.

Il Castello — Hadden insisteva nel chiamarlo così — ruotava su se stesso lentamente e compiva il moto di rivoluzione in circa novanta minuti, di modo che rivolgeva sempre la stessa faccia alla Terra. Lo studio di Hadden presentava un magnifico panorama sulla paratia rivolta alla Terra: non uno schermo televisivo, ma una vera finestra trasparente. I fotoni che lei stava vedendo erano stati riflessi dalle Ande innevate appena una frazione di secondo prima. Tranne che alle estremità della finestra, dove il percorso inclinato attraverso lo spesso polimero era più lungo, non si notava quasi nessuna distorsione.

C’erano molte persone di sua conoscenza, persino di quelle che si consideravano religiose, che trovavano imbarazzante la sensazione di timore reverenziale. Ma bisognava esser fatti di legno, pensò Ellie, per restare davanti a quella finestra e non provarlo. Avrebbero dovuto mandar su giovani poeti e compositori, artisti, cineasti, e persone profondamente religiose non del tutto schiave di burocrazie settarie. Quell’esperienza secondo lei, avrebbe potuto essere facilmente comunicata alla persona media della Terra. Peccato che non lo si fosse ancora tentato seriamente. La sensazione era… numinosa.

«Ci si abitua,» le disse Hadden, «ma non ci si stanca. Di tanto in tanto è ancora fonte di ispirazione.»

Stava sorseggiando sobriamente una coca-cola dietetica. Ellie aveva rifiutato l’offerta di qualcosa di più forte. L’effetto dell’etanolo in orbita doveva essere notevole, aveva pensato. «Naturalmente, si sente la mancanza di lunghe passeggiate, di nuotate nell’oceano, di visite inattese di vecchi amici. Ma comunque non ne ho mai avute molte di cose del genere. E come vede, gli amici possono passare a farmi visita.»

«Spendendo una fortuna,» ribattè lei.

«C’è una donna che viene a trovare Yamagishi, il mio vicino dell’ala accanto, il secondo martedì di ogni mese, pioggia o bel tempo. Glielo presenterò più tardi. E’ un bel tipo. Criminale di guerra di categoria A, ma solo accusato, capisce, mai condannato.»

«Che cos’è che l’ha attirata qui?» chiese Ellie. «Lei non crede certo che il mondo sia alla fine. Che sta facendo quassù?»

«Mi piace la vista. E ci sono certi vantaggi legali.» Lei lo guardò con aria insoddisfatta. «Sa, qualcuno nella mia posizione — nuove invenzioni, nuove industrie — corre sempre il rischio di infrangere questa o quella legge. Di solito è perché le vecchie leggi non si sono messe al passo con la nuova tecnologia. Si può sprecare un mucchio del proprio tempo in procedimenti penali e questo diminuisce l’efficienza. Mentre tutto ciò» — fece un ampio gesto, che abbracciava il Castello e la Terra — «non appartiene a nessuna nazione. Questo Castello appartiene a me, al mio amico Yamagishi e ad alcuni altri. Non potrebbe mai esserci qualcosa di illegale nel rifornirmi di cibo e dello stretto necessario. Tanto per non correre rischi, stiamo lavorando a sistemi ecologici chiusi. Non c’è nessun trattato di estradizione fra questo Castello e le nazioni laggiù. E’ più… proficuo per me stare quassù. Non voglio che lei pensi che abbia fatto qualcosa di veramente illegale. Ma ci stiamo occupando di tante nuove cose che è intelligente tenere un margine di sicurezza. Per esempio, ci sono persone che credono davvero che abbia sabotato la macchina, quando ho speso un’incredibile quantità del mio stesso denaro cercando di costruirla. E lei sa quello che hanno fatto a Babilonia. I miei investigatori assicurativi pensano possa essersi trattato della stessa gente a Babilonia, come a Terre Haute. Sembra proprio che abbia un’infinità di nemici. Non ne vedo il perché. Credo di aver fatto un mucchio di bene al mio prossimo. Comunque, alla fin fine, è meglio per me starmene quassù.

Dunque, è della Macchina che volevo parlarle. Terribile la catastrofe della sbarra di erbio nel Wyoming. Mi dispiace profondamente per Drumlin. Era un tipo con le palle quadrate. E deve essere stato un grave colpo per lei. Sicura di non volere un drink?» Ma le bastava guardare la Terra e ascoltare. «Se non sono demoralizzato io riguardo alla Macchina,» proseguì Hadden, «non vedo perché dovrebbe esserlo lei. Probabilmente si preoccupa che non possa esserci mai una Macchina americana, che siano in troppi a volerne il fallimento. La Presidente teme la stessa cosa. E le fabbriche che abbiamo costruito, non sono catene di montaggio. Stavamo confezionando dei prodotti fuori serie. Sarà costoso rimpiazzare tutte le parti distrutte. Ma soprattutto lei sta pensando che forse è stata una cattiva idea fin dall’inizio. Forse siamo stati insensati ad andare così in fretta. Perciò, esaminiamo a lungo e con attenzione l’intera faccenda. Anche se lei non la pensa così, la Presidente è d’accordo. Ma se non costruiamo la Macchina presto, temo che non la costruiremo mai. E c’è un’altra cosa: non credo che questo invito sia sempre aperto.»

«E’ curioso che lei dica ciò. E’ proprio quello di cui stavamo parlando Valerian, Drumlin e io prima dell’incidente. Del sabotaggio,» si corresse Ellie. «Prego continui.»

«Vede, le persone religiose — la maggior parte di esse — pensano davvero che questo pianeta sia un esperimento. E’ quello che tramandano le loro fedi. Un dio o l’altro sta sempre brontolando, combinando pasticci con mogli di artigiani, consegnando tavole sulle montagne, comandando di mutilare i figli, dicendo alla gente quali parole possa pronunciare e quali no, costringendo la gente a sentirsi colpevole del proprio piacere e così via. Perché gli dei non possono star tranquilli? Tutto questo intervenire e infastidirsi puzza di incompetenza. Se Dio non voleva che la moglie di Lot si voltasse indietro a guardare, perché non l’aveva creata obbediente, così avrebbe fatto quello che le diceva suo marito? O se non avesse fatto Lot con quella testa di cazzo, forse lei gli avrebbe dato più ascolto. Se Dio è onnipotente e onniscente, perché non ha fatto funzionare l’universo fin da principio così sarebbe venuto fuori come voleva lui? Perché sta continuamente aggiustando le cose e lamentandosi? No, c’è una sola cosa che la Bibbia chiarisce: il suo Dio è un artefice maldestro. Non ci sa fare nella fase progettuale e non ci sa fare nella fase esecutiva. Dovrebbe ritirarsi dagli affari, se ci fosse della concorrenza.

Ecco perché non credo che siamo un esperimento. Potrbbero esserci moltissimi pianeti sperimentali nell’universo, luoghi dove apprendisti dei mettono alla prova le loro capacità. Peccato che Rankin e Joss non siano nati su uno di questi pianeti. Ma su quello» — di nuovo indicò la finestra — «non si trova neppure traccia di un microintervento. Gli dei non ci fanno una visitina per sistemare le cose quando le abbiamo abborracciate. Basta considerare la storia umana per rendersi conto che siamo stati soli.»

«Finora,» disse Ellie. «Deux ex machina? E’ quello che pensa? Lei crede che gli dei abbiano finalmente avuto pietà di noi e ci abbiano mandato la Macchina?»

«Meglio ‘Machina ex deo’, o come diavolo si dice in latino. No, non credo che siamo l’esperimento. Credo che siamo il controllo, il pianeta cui nessuno si è interessato, il luogo dove nessuno è mai intervenuto. Un mondo di calibratura decaduto. O è quello che capita se non intervengono. La Terra è un argomento di lezione per gli apprendisti dei. ‘Se davvero siete dei casinisti,’ si sentono dire, ‘farete qualcosa come la Terra.’ Naturalmente sarebbe uno spreco distruggere un mondo perfettamente riuscito. Così, ci fanno una visitina di quando in quando, caso mai… Forse ogni volta portano con loro gli dei pasticcioni. L’ultima volta che hanno dato un’occhiata, ci stavamo trastullando nelle savane, cercando di superare in corsa le antilopi. ‘Okay, va bene’, dicono. ‘Questi tipi non ci daranno nessun fastidio. Li verremo a trovare fra altri dieci milioni di anni. Ma tanto per non correre rischi, controlliamoli su frequenze radio.’

Ma ecco che un bel giorno c’è un allarme. Un messaggio dalla Terra. ‘Cosa? Hanno già la televisione? Vediamo che stanno facendo.’ Stadio olimpico, bandiere nazionali. Uccello rapace. Adolf Hitler. Migliala di persone osannanti. ‘Oh, oh,’ dicono. Conoscono i segni premonitori. Veloci come un lampo ci dicono: ‘Finitela ragazzi. E’ un pianeta perfetto quello che avete. Ecco, costruite questa Macchina, invece.’ Si preoccupano di noi. Vedono che siamo su una china pericolosa. Pensano che dovremmo affrettarci a correre ai ripari. E la penso anch’io così. Dobbiamo costruire la Macchina.» Ellie sapeva che cosa avrebbe pensato Drumlin di simili argomentazioni. Benché molto di quello che Hadden aveva appena detto fosse in sintonia con il suo pensiero, era veramente stanca di quelle affascinanti e fiduciose speculazioni sui propositi degli alieni. Voleva che il progetto andasse avanti, che la Macchina venisse completata e attivata, che cominciasse il nuovo stadio della storia umana. Diffidava ancora delle proprie motivazioni personali, era ancora cauta anche se veniva citata come un possibile membro dell’equipaggio a bordo di una Macchina completata. Quindi, in fondo, i ritardi nella ripresa della costruzione le tornavano comodi. Le davano tempo per meditare sui suoi problemi. «Ceneremo con Yamagishi. Le piacerà. Ma siamo un po’ preoccupati per lui. Tiene la sua pressione parziale dell’ossigeno così bassa di notte.»

«Che intende dire?»

«Ebbene, più basso è il contenuto di ossigeno nell’aria, più a lungo si vive. Almeno è quanto i dottori ci dicono. Perciò noi tutti stabiliamo la quantità di ossigeno nelle nostre stanze. Durante il giorno, non la si può portare molto al di sotto del 20 %, perché altrimenti non ci si regge in piedi e la funzionalità mentale può essere danneggiata. Ma di notte, quando si dorme, si può abbassare la concentrazione parziale dell’ossigeno. Però è un rischio. La si può abbassare troppo. Yamagishi è sceso al 14 % in questi giorni, perché vuole vivere per sempre. Il risultato è che manca di lucidità fino all’ora di pranzo.»

«Sono sempre stata così durante tutta la mia vita, con il 20 % di ossigeno,» disse Ellie ridendo.

«Adesso sta sperimentando di eliminare la debolezza con droghe psicotrope. Sa, tipo piracetam. Migliorano decisamente la memoria. Non so se rendano davvero più intelligenti, ma è quanto dicono.

Così, Yamagishi sta ingurgitando una quantità incredibile di psicotropi, e non respira abbastanza ossigeno la notte.»

«Allora si comporta da pazzo?»

«Da pazzo? E’ difficile dirlo. Non conosco moltissimi criminali di guerra di categoria A novantaduenni.»

«Ecco perché ogni esperimento ha bisogno di un controllo,» disse Ellie.

Hadden sorrise.

Anche alla sua età avanzata, Yamagishi esibiva il portamento impettito che aveva acquisito durante il suo lungo servizio nell’esercito imperiale. Era un omino completamente calvo, con un paio di baffetti bianchi e un’espressione stereotipata di benevolenza in volto.

«Sono qui per i femori,» spiegò. «So quello che si dice del cancro e della durata della vita. Ma io mi trovo qui per i femori. Alla mia età, le ossa si fratturano facilmente. L’industriale Tsu-kuma è morto per una caduta dal futon sul tatami. Una caduta dal letto, solo cinquanta centimetri, gli è costata la vita. Un mezzo metro. E le sue ossa si sono spezzate. In condizioni di gravita zero, i femori non si rompono.»

Il suo discorso sembrava molto assennato.

Erano stati fatti alcuni compromessi gastronomici, ma la cena era di una sorprendente raffinatezza. Si era sviluppata una piccola tecnologia specializzata per mangiare in assenza di peso. J C’erano coperchi per ogni cosa e i bicchieri per il vino erano provvisti di chiusure da cui sporgevano cannucce. Alimenti come noci o fiocchi di granturco erano proibiti. Yamagishi la invitò a servirsi del caviale. Era una delle poche raffinatezze occidentali, spiegò, il cui prezzo al chilo sulla Terra superasse quello della spedizione nello spazio. La coesione delle uova di storione costituiva una fortunata irregolarità, pensò Ellie, che cercò di immaginare migliaia di uova separate in caduta libera che andavano a oscurare i corridoi di quella casa di riposo orbitante. All’improvviso, ricordò che anche sua madre si trovava in una casa di riposo, infinitamente più modesta di quella. E prendendo come punto di riferimento i Grandi Laghi visibili in quel momento fuori dalla finestra, fu in grado di localizzare con precisione la cittadina di sua madre. Poteva trascorrere due giorni lassù in orbita terrestre chiacchierando con due tipacci miliardari, ma non riusciva a trovare un quarto d’ora per una telefonata a sua madre? Si ripromise di chiamarla non appena fosse atterrata a Cocoa Beach. Una comunicazione dallo spazio avrebbe potuto rappresentare una novità troppo grossa per la casa di riposo per anziani di Janesville, nel Wisconsin.

Yamagishi interruppe il corso dei suoi pensieri per informarla che era l’uomo più vecchio dello spazio. Persino l’ex Vice Premier cinese era più giovane. Si tolse la giacca, si arrotolò la manica destra della camicia, contrasse il bicipite e le chiese di tastargli il muscolo. Passò poi velocemente a illustrarle con abbondanza di particolari le meritorie istituzioni benefiche che avevano ricevuto da lui cospicue donazioni.

Ellie cercò di essere gentile. «E’ molto calmo e tranquillo quassù. Deve trovarlo piacevole il suo ritiro.» Aveva rivolto quella banale osservazione a Yamagishi, ma fu Hadden a rispondere.

«Non è sempre tutto tranquillo. Qualche volta c’è una crisi e siamo costretti a darci da fare.»

«Brillamento solare, estremamente nocivo. Rende sterili,» intervenne Yagamishi.

«Seee, se c’è un brillamento solare di notevole entità segnalato dal telescopio, lo sappiamo circa tre giorni prima che le parti-celle cariche colpiscano il Castello. Allora, i residenti stabili, come Yamagishi-san e io, vanno nel rifugio antitempesta. Molto spartano, molto angusto, ma abbastanza schermato alle radiazioni per servire a qualcosa. C’è un po’ di radiazione secondaria, naturalmente. L’inconveniente sta nel fatto che tutto lo staff non permanente e i visitatori sono costretti a partire entro tre giorni. Questo tipo di emergenza può mettere a dura prova la flotta commerciale. Talvolta dobbiamo ricorrere alla NASA o ai russi per portare in salvo qualcuno. Non si immaginerebbe mai che razza di gente si debba far partire in caso di brillamenti solari: mafiosi, capi di servizi segreti, stalloni e donnine…»

«Perché mai ho l’impressione che il sesso sia ai primi posti sulla lista delle importazioni dalla Terra?» chiese Ellie un po’ riluttante. «Oh, è così, è così. Ci sono tantissime ragioni. La clientela, il luogo. Ma la ragione principale è la gravita zero. In condizioni di gravita zero, a ottantanni si possono fare cose che non si sarebbero mai credute possibili a venti. Dovrebbe prendersi una vacanza quassù, con il suo amichetto. Lo consideri un preciso invito.»

«Novanta,» disse Yamagishi.

«Prego?»

«A novanta si possono fare cose che non si sognavano di fare a venti. E’ quello che sta dicendo Yamagishi-san. Ecco perché tutti vogliono venire quassù.»

Al momento del caffè, Hadden ritornò sull’argomento Macchina. «Yamagishi-san e io siamo in società con alcune altre persone. Lui è il presidente onorario del consiglio di amministrazione delle Industrie Yamagishi, che, come lei sa, sono il principale appaltatore per il collaudo dei componenti della Macchina in corso di allestimento a Hokkaido. Ora provi a immaginare il nostro problema. Le farò un esempio. Ci sono tre grandi gusci sferici, l’uno dentro l’altro. Sono fatti in una lega di niobio, hanno particolari disegni incisi all’esterno, e sono ovviamente destinati a ruotare in tre direzioni ortogonali molto velocemente e in condizioni di vuoto. Si chiamano benzel. Lei è al corrente di tutto, ovviamente. Che accade se si costruisce un modello in scala dei tre benzel e li si fa ruotare molto velocemente? Che succede? Tutti i fisici preparati pensano che non accadrà nulla. Ma, naturalmente, nessuno ha fatto l’esperimento. Questo particolare esperimento. Quindi nessuno lo sa realmente. Supponga che accada qualcosa, una volta attivata l’intera Macchina. Dipende dalla velocità di rotazione? Dipende dalla composizione dei benzel? Dal disegno degli intagli? E’ una questione di scala? Perciò abbiamo costruito queste cose e le abbiamo fatte funzionare: modelli in scala e copie a grandezza naturale. Vogliamo far ruotare la nostra versione dei grandi benzel, quelli che saranno uniti agli altri componenti nelle due Macchine. Nel caso non accada nulla, vorremmo aggiungere componenti addizionali, uno alla volta. Continueremo a inserirli, compiendo un piccolo lavoro di integrazione dei sistemi a ogni fase, finché forse per l’aggiunta di un componente, non l’ultimo, la Macchina farebbe qualcosa di sorprendente. Stiamo soltanto cercando di capire il funzionamento della Macchina. Vede dove voglio arrivare?»

«Intende dire che in Giappone state assemblando una copia identica della Macchina?»

«Beh, non è esattamente un segreto. Stiamo sottoponendo a test i componenti singoli. Nessuno ha detto che possiamo collaudarli soltanto uno alla volta. Perciò ecco quello che Yamagishi-san e io proponiamo: cambiarne il programma degli esperimenti di Hokkaido. Procediamo a una totale integrazione dei sistemi adesso e, se non succede nulla, collauderemo in seguito componente per componente. A ogni modo, il denaro è stato tutto stanziato. Siamo convinti che ci vorranno mesi — forse anni — prima che gli americani possano rimettersi in carreggiata. E non crediamo che i russi siano in grado di ultimare la Macchina in un tempo inferiore. Il Giappone è l’unica possibilità. Non siamo obbligati ad annunciarlo immediatamente. Non dobbiamo prendere una decisione immediata sull’attivazione della Macchina. Stiamo soltanto collaudando i componenti.»

«Ma voi due potete prendere questo tipo di decisione da soli?»

«Oh, rientra sempre in quello che chiamano le nostre specifiche responsabilità. Contiamo di poter arrivare allo stadio in cui si trova la Macchina del Wyoming fra circa sei mesi. Dovremo stare molto più attenti ai sabotaggi, naturalmente. Ma se i componenti sono okay, credo che la Macchina sarà okay: Hokkaido è difficile da raggiungere. Allora, una volta che tutto è controllato e pronto, possiamo chiedere all’Associazione mondiale per la Macchina se sarebbero contenti di provarla. Se l’equipaggio sarà d’accordo, scommetto che l’Associazione darà il nullaosta. Che ne pensi, Yamagishi-san?»

Yamagishi non aveva sentito la domanda. Stava canticchiando «Caduta libera», un recente successo pieno di vivaci particolari sui peccati in orbita terrestre. Non ne conosceva tutte le parole, spiegò quando la domanda venne ripetuta. Impassibile, Hadden proseguì. «Ora, alcuni dei componenti saranno stati fatti ruotare o eliminati o che altro. Ma in ogni caso dovranno superare i test prescritti. Non pensavo che sarebbe bastato a spaventarla. Personalmente, intendo dire.»

«Personalmente? Che cosa le fa pensare che lo sarò? Nessuno mi ha interpellato, in primo luogo, e c’è una quantità di nuovi fattori.»

«Quasi certamente il comitato di selezione glielo chiederà e la Presidente sarà favorevole. Entusiasticamente. Andiamo», disse sogghignando, «non vorrà passare tutta la vita al polo nord?» Sulla regione scandinava e sul Mar del Nord c’erano vaste formazioni nuvolose, e la Manica era coperta da una ragnatela di nebbia.

«Sì, lei ci andrà.» Yamagishi si era alzato e con le mani tese rigidamente lungo i fianchi le fece un profondo inchino.

«A nome dei ventidue milioni di impiegati delle società che io controllo, le dico che è stato un piacere incontrarla.»

Nel cubicolo che le avevano assegnato per la notte, Ellie fece sonni agitati. Il suo giaciglio era collegato elasticamente a due pareti, di modo che se si fosse rigirata in gravita zero non avrebbe sbattuto contro qualcosa. Si svegliò mentre tutti gli altri sembravano essere ancora addormentati e aggrappandosi a una serie di sostegni si portò davanti alla grande finestra. Si trovavano sull’emisfero non illuminato dal Sole. La Terra era immersa nell’oscurità tranne che per una spruzzatina di luci, tentativo coraggioso degli uomini di supplire all’opacità della Terra quando il loro emisfero era dall’altra parte del Sole. Venti minuti dopo, all’alba, Ellie decise che se l’avessero interpellata avrebbe risposto di sì. Hadden le arrivò alle spalle e lei trasalì leggermente. «E’ bellissimo, lo devo ammettere. Sono quassù da anni ed è ancora bellissimo. Si chiederà se non mi da fastidio avere le fiancate di una nave spaziale attorno. Guardi, c’è un’esperienza che finora nessuno ha fatto. Sei in tuta spaziale, non c’è nessun cordone ombelicale, nessuna astronave. Forse il Sole è dietro di te e sei circondato da ogni parte da stelle. Forse la Terra è sotto di te. O forse c’è un altro pianeta. Io mi immagino Saturno. Eccoti fluttuare nello spazio in comunione totale con il cosmo. Le tute spaziali odierne dispongono di riserve sufficienti per ore. L’astronave da cui sei uscito può essersene andata da tempo. Forse devono ripassare a prenderti fra un’ora. Forse no.

Il bello sarebbe se la nave non tornasse indietro. Le tue ultime ore, circondato dallo spazio, dalle stelle e dai mondi. Se avessi una malattia incurabile, o se volessi regalarti solo un ultimo piacere davvero squisito, che potresti trovare di meglio?»

«Dice sul serio? Avrebbe l’intenzione di lanciare sul mercato questo… programma?»

«Beh, è ancora troppo presto per commercializzare la cosa. Forse non è esattamente la maniera giusta di occuparsene. Diciamo solo che sto pensando di dimostrarne la fattibilità.» Ellie decise di non parlare ad Hadden della sua decisione e lui non le chiese nulla. Più tardi, quando il «Narnia» stava cominciando le operazioni di rendez-vous e attraccando al «Matusalemme», Hadden la prese da parte.

«Si diceva che Yamagishi è la persona più vecchia che ci sia quassù. Beh, se si considerano quelli che restano quassù in permanenza — lasciamo da parte lo staff, gli astronauti e le ballerine — io sono la persona più giovane. Ho un interesse legittimo nella soluzione, lo so, ma è una possibilità medica ben definita che la gravita zero mi faccia vivere per secoli. Sono impegnato in un esperimento di immortalità. Non me ne sto certo occupando per potermene vantare. Lo faccio per una ragione pratica. Se stiamo escogitando dei modi per allungare la durata della nostra vita, pensi a ciò che devono aver fatto quelle creature di Vega. Probabilmente sono immortali o quasi. Sono una persona pratica e ho pensato moltissimo all’immortalità. Ci ho pensato probabilmente più a lungo e più seriamente di chiunque altro. E le posso dire una cosa di sicuro sugli immortali: stanno molto attenti. Non lasciano le cose al caso. Hanno investito troppi sforzi per diventare immortali. Non conosco il loro aspetto, non so che possano volere da lei, ma se mai lei arriverà a vederli, questo è l’unico consiglio pratico che ho per lei: qualcosa di sicurissimo secondo lei, sarà considerato da loro un rischio inaccettabile. Se dovrà negoziare lassù, non dimentichi quello che le sto dicendo.»

17 IL SOGNO DELLE FORMICHE

«Il parlare umano è come un bricco fesso su cui battiamo rozzi ritmi per far ballare gli orsi, mentre aspiriamo a far musica che intenerisca le stelle.»

GUSTAVE FLAUBERT, Madame Bovary (1857)

«La teologia popolare… è un coacervo di inconsistenza derivato dall’ignoranza… Gli dei esistono perché la natura stessa ne ha impresso una concezione nelle menti degli uomini.»

CICERONE, De Natura Deorum, 1,16

Ellie era indaffarata a impacchettare appunti, nastri magnetici e una fronda di palma per la spedizione in Giappone, quando ricevette la notizia che sua madre aveva subito un colpo apoplettico. Subito dopo, le venne recapitata una lettera dal corriere del progetto. Veniva da John Staughton ed era priva delle consuete formule cortesi d’apertura:

Tua madre e io parlavamo spesso delle tue mancanze e dei tuoi difetti. Era sempre una conversazione difficile. Quando ti difendevo (e, sebbene tu possa non crederlo, ciò accadeva spesso), lei mi diceva che ero un pezzo di burro nelle tue mani. Quando ti criticavo, mi invitava a impicciarmi dei miei affari.

Ma voglio che tu sappia che la tua riluttanza a farle visita negli ultimi anni, da quando è cominciata la storia di Vega, le ha causato una sofferenza continua. Soleva dire alle sue amiche in quell’orribile casa di cura in cui aveva insistito di entrare che la saresti andata a trovare presto. Lo disse loro per anni. Fantasticava su come avrebbe fatto vedere in giro la sua famosa figlia, fissava nella sua testa l’ordine in cui ti avrebbe presentato le sue decrepite compagne. Probabilmente, non vorrai sentire queste cose, e te le dico con dispiacere. Ma è per il tuo bene. Il tuo comportamento le ha provocato più dolore di qualsiasi altra cosa le sia mai capitata, persino della morte di tuo padre. Puoi essere una persona importante adesso, si trova il tuo ologramma in tutto il mondo, hai a che fare con politici e altre celebrità e così via, ma come essere umano dai tempi della scuola superiore non hai imparato proprio nulla… Con gli occhi pieni di lacrime, Ellie cominciò a spiegazzare la lettera e la sua busta, ma sentì che c’era qualcosa di rigido all’interno, un ologramma parziale ricavato da una vecchia foto bidi-mensionale con una tecnica di extrapolazione computerizzata. Era una foto che non aveva mai visto prima. Sua madre, giovane, piuttosto bella, sorrideva all’obiettivo con un braccio appoggiato con disinvoltura su una spalla del padre di Ellie che appariva mal rasato. Entrambi sembravano raggianti di gioia. Sconvolta dall’angoscia, da un senso di colpa, dalla rabbia nei confronti di Staughton e da un po’ di autocommiserazione, Ellie soppesò l’evidente realtà che non avrebbe mai più rivisto una delle due persone della foto. Sua madre giaceva immobile nel letto. La sua espressione era stranamente neutra, priva com’era di gioia o di rimpianto. Era semplicemente… in attesa. Il suo solo movimento consisteva in un occasionale battere di palpebre. Non era chiaro se potesse udire o capire quello che Ellie stava dicendo. Ellie pensò a schemi di comunicazione, non ne poteva fare a meno; il pensiero sorse spontaneo: un battito per il sì, due battiti per il no.’ O collegare un encefalografo con un tubo a raggio catodico che sua madre potesse vedere e insegnarle a modulare le sue onde beta. Ma si trattava di sua madre, non di Alpha Lyrae, e qui si richiedeva sentimento non algoritmi decodificatori.

Tenne la mano della madre e le parlò per ore. Divagò su sua madre e suo padre, sulla propria infanzia. Rievocò i suoi primi passi tra le lenzuola di bucato, le sue impressioni quando veniva innalzata al cielo. Parlò di John Staughton. Si scusò per molte cose. Pianse un poco.

I capelli di sua madre erano arruffati e lei, trovata una spazzola, glieli ravviò. Esaminò il volto rugoso e riconobbe il proprio. Gli occhi di sua madre, incavati e umidi, guardavano fissi, con un occasionale lampo di vita che sembrava indirizzato a un oggetto a grande distanza.

«So da dove vengo,» le disse Ellie sommessamente. Quasi impercettibilmente, sua madre scosse il capo di qua e di là, come se stesse rimpiangendo tutti quegli anni in cui lei e sua figlia si erano allontanate. Ellie strinse delicatamente la mano della madre e credette che lei rispondesse facendo altrettanto. Le dissero che la vita di sua madre non era in pericolo. Se ci fosse stato qualche mutamento nelle sue condizioni, l’avrebbero chiamata immediatamente nel suo ufficio del Wyoming. Entro alcuni giorni, avrebbero potuto trasferirla dall’ospedale alla casa di cura dove l’assicuravano che le attrezzature mediche erano adeguate.

Staughton sembrava padrone di sé, ma con una profondità di I sentimenti per sua madre che lei non aveva mai supposto. r Avrebbe telefonato spesso, gli disse.

Nell’austera hall di marmo troneggiava, un po’ fuori posto forse, una vera statua, non un ologramma, di una donna nuda in stile prassitelico. Presero un ascensore Otis-Hitachi in cui la seconda lingua era l’inglese invece del braille, e si ritrovò in una specie di stanzone in cui c’era gente che si accalcava attorno a de-Igli elaboratori della parola. Un termine veniva battuto in Hiragana, l’alfabeto fonetico giapponese di cinquantun lettere, e sullo I. schermo appariva il corrispondente ideogramma cinese in Kanji. i C’erano centinaia di migliaia di tali ideogrammi, o caratteri, archiviati nelle memorie dei computer, benché in genere ne bastassero soltanto tre o quattromila per leggere un giornale. Poiché molti caratteri di significato totalmente diverso venivano espressi con lo stesso termine parlato, venivano stampate tutte le possibili traduzioni in Kanji, in ordine di probabilità. L’elaboratore verbale possedeva una procedura parziale contestuale in cui i caratteri candidati venivano anche ordinati secondo la stima fatta dal computer del preteso significato. Raramente si sbagliava. In un linguaggio che fino a poco tempo prima non aveva mai avuto una macchina per scrivere, l’elaboratore verbale stava attuando una rivoluzione delle comunicazioni che non piaceva troppo ai tradizionalisti.

Nella sala delle conferenze, si accomodarono su poltrone basse — un’evidente concessione ai gusti occidentali — attorno a un basso tavolo laccato, e venne servito il tè. Nel campo visivo di Ellie, al di là della finestra, c’era la città di Tokyo. Stava passando molto tempo davanti a finestre, pensò. Il giornale era 1’ «Asahi Shimbun» — il Corriere del Sol Levante — e osservò con interesse che uno dei reporter politici era una donna, caso raro secondo gli standard dei media americani e sovietici. Il Giappone era impegnato in una rivalutazione nazionale del ruolo delle donne. I tradizionali privilegi maschili stavano arrendendosi lentamente in quella che sembrava una guerriglia sottaciuta. Solo il giorno prima, il presidente di una ditta chiamata Nanoelectronics le aveva raccontato con disappunto che non c’era una «ragazza» in tutta Tokyo che sapesse ancora come si annodava un obi. Come nel caso delle cravatte a farfalla con l’elastico, un surrogato facile da indossare aveva conquistato il mercato. Le donne giapponesi avevano di meglio da fare che buttar via mezz’ora al giorno per avvolgersi in metri di stoffa. La giornalista indossava un austero abito da donna d’affari, lungo fino al polpaccio.

Per ragioni di sicurezza, erano vietate le visite di giornalisti nella zona di Hokkaido dove si stava ultimando la Macchina. Invece, quando membri dell’equipaggio o funzionari del progetto si recavano nell’isola principale di Honshu, si sottoponevano regolarmente a una serie di interviste di giornalisti giapponesi e stranieri. Come sempre, le domande erano banali. I reporter di tutto il mondo mostravano quasi lo stesso atteggiamento nei riguardi della Macchina, a parte alcune eccezioni dovute a locali peculiarità. Era contenta che, dopo la «delusione» americana e russa, una Macchina venisse costruita in Giappone? Si sentiva sperduta nell’isola settentrionale di Hokkaido? Era preoccupata perché i componenti della Macchina usati a Hokkaido avevano subito dei collaudi che andavano oltre le rigide disposizioni del Messaggio?

Prima del 1945, quel distretto della città era appartenuto alla Marina imperiale, e infatti, nelle immediate vicinanze Ellie poteva vedere il tetto dell’osservatorio navale, con le sue due cupole argentate in cui alloggiavano telescopi ancora usati per funzioni cronometriche e calendaristiche, scintillanti al sole di mezzogiorno. Perché la Macchina includeva un dodecaedro e i tre gusci sferici chiamati benzel? Sì, i reporters capivano che lei non lo sapeva. Ma che ne pensava? Ellie spiegò che era assurdo avere un’opinione al riguardo in mancanza di evidenza. Quelli insistevano e lei si mise a difendere il diritto all’ambiguità. Se esisteva un pericolo reale, avrebbero mandato dei robot al posto delle persone, come un esperto giapponese in intelligenza artificiale aveva raccomandato? Avrebbe portato con sé effetti personali? Foto di famiglia? Microcomputer? Un coltello dell’esercito svizzero:

Ellie notò due figure che emergevano da una botola sul tetto del vicino osservatorio. I loro volti erano coperti da maschere. Portavano l’armatura grigio-blu imbottita del Giappone medievale. Brandendo bastoni di legno più alti di loro, si fecero un inchino reciproco, rimasero immobili per un attimo, e poi duellarono per la mezz’ora seguente. Le sue risposte ai giornalisti si fecero un po’ formali; era ipnotizzata dallo spettacolo che aveva di fronte. Nessun altro sembrava accorgersene. I bastoni dovevano essere pesanti, perché il combattimento rituale era lento, come se i guerrieri si trovassero sul fondo dell’oceano.

Conosceva il dottor Lunacarskij e la signora Sukhavati da molto prima dell’arrivo del Messaggio? Che pensava del dottor Eda? E del signor Xi? Ne apprezzava le qualità? Sarebbero andati d’accordo loro cinque? Certo si meravigliava di far parte di un gruppo così selezionato.

Quali erano le sue impressioni sulla qualità dei componenti giapponesi? Che poteva dire dell’incontro che i Cinque avevano avuto con l’imperatore Akihito? Le loro discussioni con i capi scintoisti e buddisti rientravano in uno sforzo generale compiuto dal Progetto Macchina per sentire il parere dei personaggi più rappresentativi nel campo religioso prima che la Macchina venisse attivata, o costituivano solo un atto di cortesia nei confronti del Giappone, il paese che li ospitava? Riteneva che il congegno potesse essere un cavallo di Troia o una Macchina del Giudizio? Nelle sue risposte Ellie cercò di essere cortese, concisa e conciliante. L’ufficiale del Progetto Macchina addetto alle pubbliche relazioni, che l’aveva accompagnata, era visibilmente compiaciuto. Di colpo, l’intervista finì. Auguravano a lei e ai suoi colleghi!’, un successo completo, disse l’organizzatore. Aspettavano con impazienza di poterla intervistare al suo ritorno. Speravano che sarebbe venuta spesso in Giappone dopo l’impresa. I suoi ospiti stavano sorridendo e inchinandosi. I guerrieri infagottati erano rientrati nella botola. Le sue guardie del corpo la stavano attendendo con sguardo vigile fuori della sala delle conferenze, la cui porta era stata aperta in quel momento. Mentre usciva, Ellie chiese alla giornalista di quelle apparizioni da Giappone medievale. «Oh sì,» rispose lei. «Sono astronomi della guardia costiera. Si dedicano al kendo quotidianamente all’ora di pranzo. Sono così puntuali che ci può regolare l’orologio.»

Xi era nato durante la Lunga Marcia, e da ragazzo aveva combattuto il Kuomintang durante la rivoluzione. Era stato ufficiale dei servizi segreti in Corea, raggiungendo infine una posizione di autorità nel campo della tecnica strategica cinese. Ma durante la rivoluzione culturale era stato pubblicamente degradato e condannato al confino, sebbene in seguito fosse stato riabilitato con un certo rumore. Uno dei delitti di Xi agli occhi della rivoluzione culturale era stato quello di ammirare qualcuna delle antiche virtù di Confucio, e specialmente un passo del «Grande insegnamento», che per secoli ogni Cinese anche di cultura modestissima aveva conosciuto a memoria. Era da questo passo, aveva detto Sun Yatsen, che aveva tratto ispirazione il suo movimento rivoluzionario nazionalista all’inizio del ventesimo secolo:

Gli antichi che desideravano illustrare virtù preclare nel Regno, per prima cosa davano un buon ordinamento alle loro nazioni. Desiderando dare un buon ordinamento alle loro nazioni, per prima cosa mettevano in ordine le loro famiglie. Desiderando mettere in ordine le loro famiglie, per prima cosa coltivavano le loro persone. Desiderando coltivare le loro persone, per prima cosa correggevano i loro cuori. Desiderando correggere i loro cuori, per prima cosa cercavano di essere sinceri nei loro pensieri. Desiderando essere sinceri nei loro pensieri, per prima cosa estendevano al massimo la loro conoscenza. Tale estensione della conoscenza stava nell’indagine delle cose.

Perciò, credeva Xi, la ricerca della conoscenza era fondamentale per il benessere della Cina. Ma le Guardie Rosse la pensavano diversamente.

Durante la rivoluzione culturale, Xi era stato relegato in una mal ridotta fattoria collettiva nella provincia di Ningxia, vicino alla Grande Muraglia, una regione con una ricca tradizione musulmana, dove, mentre stava arando un terreno, aveva scoperto un elmo di bronzo della dinastia Han, dalla complessa decorazione. Una volta reintegrato nella leadership, Xi rivolse la sua attenzione dalle armi strategiche all’archeologia. La rivoluzione culturale aveva tentato di troncare un’ininterrotta tradizione culturale cinese vecchia di cinquemila anni. La reazione di Xi fu di contribuire a riallacciare i legami con il passato della nazione. Si dedicò con passione crescente allo scavo della necropoli sotterranea di Xian. Era lì che era stata fatta la grande scoperta dell’esercito di terracotta dell’imperatore che aveva dato nome alla Cina. Il suo nome ufficiale era Qin Shi Huangdi, ma attraverso i capricci della traslitterazione si era trasformato in quello notissimo in Occidente di Ch’in. Nel terzo secolo avanti Cristo, Qin unificò il paese, costruì la Grande Muraglia, e decretò magnanimamente che alla sua morte quei modelli in terracotta a grandezza naturale sostituissero i membri del suo seguito — soldati, servi e nobili — che secondo una tradizione antica avrebbero dovuto esser sepolti vivi con il suo cadavere. L’esercito di terracotta era composto di 7500 soldati, quasi una divisione. Ognuno di essi aveva dei tratti somatici ben differenziati. E i tipi fisici erano quelli di tutte le province del paese, un tempo divise e ostili, che l’imperatore era riuscito a trasformare in nazione.

Una vicina tomba racchiudeva il corpo quasi perfettamente conservato della marchesa di Tai, una dama di corte dell’imperatore. La tecnica per conservare i cadaveri — si poteva vedere chiaramente la severa espressione sul volto della donna, perfezionata forse da decenni di lavate di capo ai servi — era di gran lunga superiore a quella dell’antico Egitto.

Qin aveva semplificato la scrittura, codificato le leggi, costruito strade, completato la Grande Muraglia, e unificato il paese. Aveva anche fatto confiscare le armi. Se da un lato era accusato di massacri di letterati che avevano criticato la sua politica, e di roghi di libri perché un certo tipo di conoscenza sarebbe stata dannosa, dall’altro gli si doveva dar credito di aver eliminato la corruzione endemica e di aver introdotto la pace e l’ordine. A Xi ciò ricordava la rivoluzione culturale. Immaginava di conciliare queste tendenze conflittuali all’interno di una sola persona. L’arroganza di Qin aveva raggiunto proporzioni sconcertanti; per punire una montagna che lo aveva offeso, ordinò che venisse spogliata della vegetazione e dipinta di rosso, il colore portato dai criminali condannati. Qin era stato grande, ma anche pazzo. Si può unificare una pletora di genti così diverse e litigiose senza essere un po’ pazzi? Si sarebbe pazzi solo a tentare, aveva detto una volta Xi a Ellie ridacchiando. Conquistato sempre più dal fascino di quel luogo, Xi aveva organizzato imponenti campagne di scavo a Xian. A poco a poco si convinse che anche l’imperatore stesso giacesse in attesa, perfettamente conservato, in qualche grande tomba accanto all’armata di terracotta dissotterrata. Nei pressi, secondo antiche cronache, era anche sepolto sotto un grande tumulo un plastico minuzioso della nazione cinese del 210 avanti Cristo, con ogni tempio e pagoda rappresentati nei minimi particolari. I fiumi sarebbero stati fatti di mercurio, solcati dalla chiatta in miniatura dell’imperatore in navigazione eterna nel suo dominio sotterraneo. Quando si scoprì che il terreno a Xian era inquinato da mercurio, l’eccitazione di Xi crebbe.

Xi aveva portato alla luce un’iscrizione dell’epoca che descriveva una grande cupola che l’imperatore aveva commissionato per coprire il suo reame in miniatura, chiamato, come quello vero, il Celeste Impero. Poiché il cinese scritto non era molto cambiato in 2200 anni, egli fu in grado di leggere direttamente il documento, senza l’intervento di un esperto linguista. Un cronista dell’epoca di Qin parlava direttamente a Xi. Per molte notti, Xi si mise a dormire cercando di visualizzare la grande Via Lattea che attraversava la volta del cielo nella tomba a cupola del grande imperatore, e la notte risplendente di comete che erano apparse al momento della sua morte per onorarne la memoria.

La ricerca della tomba di Qin e del suo modello dell’universo aveva tenuto occupato Xi durante l’ultimo decennio. Non l’aveva ancora trovata, ma quel suo sogno aveva acceso la fantasia dei Cinesi. Si diceva di lui: «C’è un bilione di persone in Cina, ma c’è soltanto uno Xi.» In una nazione che andava lentamente aprendosi all’individualità, egli esercitava una benefica influenza. Qin era stato chiaramente ossessionato dall’immortalità. L’uomo che aveva dato il suo nome alla più popolosa nazione della Terra, l’uomo che aveva fatto costruire la più imponente struttura del tempo, temeva evidentemente di essere dimenticato. Perciò volle che venissero innalzate strutture più monumentali; fece conservare o riprodurre per i secoli a venire i corpi e i volti dei suoi cortigiani; fece costruire la sua tomba ancora inviolata e il modello del mondo; e inviò ripetute spedizioni nel Mar Cinese Orientale a cercare l’elisir di lunga vita. Si lamentava amaramente delle spese quando organizzava ogni nuovo viaggio. Una di tali missioni vide impegnate moltissime giunche oceaniche e un equipaggio di tremila persone, giovani di ambo i sessi che non ritornarono mai, travolti da un fato misterioso. L’acqua dell’immortalità era introvabile.

Esattamente cinquant’anni dopo, la risicoltura e la siderurgia apparvero all’improvviso in Giappone: sviluppi che alterarono profondamente l’economia giapponese e crearono una classe di aristocratici guerrieri. Xi dimostrò che il nome giapponese per Giappone rifletteva chiaramente l’origine cinese della cultura giapponese: il paese del Sol Levante. E dove bisognava stare per veder sorgere il Sole sul Giappone? Perciò il nome del quotidiano di cui Ellie aveva da poco visitato la sede era, a parere di Xi, un ricordo della vita e dei tempi dell’imperatore Qin. Ellie pensò che paragonato a Qin, Alessandro il Grande ci faceva la figura di uno scolaro prepotente. Beh, quasi.

Se Qin era stato ossessionato dall’immortalità, Xi era ossessionato da Qin. Ellie gli raccontò della visita fatta a Sol Hadden in orbita terrestre e furono d’accordo che se l’imperatore Qin fosse vissuto alla fine del ventesimo secolo, si sarebbe trovato in orbita terrestre. Ellie presentò Xi ad Hadden mediante il videotelefono e lasciò che parlassero da soli. L’eccellente inglese di Xi si era affinato durante le trattative, in cui aveva avuto un ruolo importante, per il trasferimento della colonia britannica di Hong Kong alla Repubblica Popolare Cinese. Stavano ancora parlando, quando il «Matusalemme» tramontò e furono obbligati a servirsi allora della rete di satelliti per le telecomunicazioni in orbita geosincronica se volevano continuare la loro conversazione. Dovevano essersi trovati d’accordo su molte cose, visto che Hadden poco tempo dopo pretese che l’attivazione della Macchina venisse sincronizzata con il passaggio del «Matusalemme» sul Giappone. Voleva che Hokkaido si trovasse nel fuoco del suo telescopio una volta arrivato il grande momento.

«I buddisti credono in Dio oppure no?» chiese Ellie mentre stavano per recarsi a cena dal Venerabile.

«Sembra che il loro Dio sia così grande che non debba neppure esistere,» replicò seccamente Vaygay.

Mentre sfrecciavano attraverso la campagna, parlarono di Ut-sumi, il venerabile capo del più famoso monastero zen del Giappone. Alcuni anni prima, nel corso delle cerimonie per il cinquantenario della distruzione di Hiroshima, Utsumi aveva pronunciato un discorso che aveva destato l’universale interesse. Era ben inserito nella vita politica giapponese e faceva in qualche modo da consigliere spirituale per il partito in carica, ma trascorreva la maggior parte del suo tempo in attività monastiche e pie. «Anche suo padre era capo di un monastero buddista,» ricordò Sukhavati.

Ellie aggrottò le sopracciglia.

«Non meravigliarti tanto. Il matrimonio era loro concesso, come al clero ortodosso in Russia. Non è vero, Vaygay?»

«Prima della mia epoca,» disse lui, un po’ distrattamente. Il ristorante si trovava in un boschetto di bambù e si chiamava «Ungetsu»: la Luna Annuvolata; e guarda caso c’era davvero una luna velata da nubi nel cielo serale. I loro ospiti giapponesi avevano fatto in modo che non ci fossero altri clienti. Ellie e i suoi compagni si tolsero le scarpe ed entrarono in una piccola sala da pranzo da cui si vedevano fusti ondeggianti di bambù.

Il cranio del Venerabile era rasato, il suo abbigliamento era costituito da una tunica nera e argento. Li salutò in un perfetto inglese colloquiale e il suo cinese come le riferì Xi più tardi, risultò altrettanto passabile. L’ambiente era riposante, la conversazione vivace. Ogni portata era una piccola opera d’arte, un gioiello commestibile. Ellie capì come la nouvelle cuisine traesse le sue origini dalla tradizione gastronomica giapponese. Se ci fosse stata l’usanza di mangiare a occhi bendati, lei si sarebbe sentita appagata. Se, invece, quelle squisitezze fossero state messe in tavola solo per essere ammirate e non per essere mangiate, si sarebbe sentita appagata ugualmente. Sia la vista che il gusto in quella cena procuravano un piacere celestiale.

Ellie era seduta di fronte al Venerabile e accanto a Lunacarskij. Altri chiedevano ragguagli sulla natura — o almeno sul regno di appartenenza — di questo o quel bocconcino. Tra il sushi e le drupe del ginkgo, la conversazione si portò, in un certo qual modo, sulla missione.

«Ma perché comunichiamo?» chiese il Venerabile. «Per scambiare informazioni,» rispose Lunacarskij, che apparentemente dedicava tutta la sua attenzione ai ricalcitranti bastoncini.

«Ma perché desideriamo scambiare informazioni?»

«Perché ci nutriamo di informazioni. Le informazioni sono necessarie alla nostra sopravvivenza. Senza informazioni moriamo.» Lunacarskij era alle prese con una drupa di ginkgo che scivolava via dai suoi bastoncini ogni volta che tentava di portarla alla bocca. Abbassò il capo per incontrare i bastoncini a mezza via. «Io credo,» proseguì il Venerabile, «che si comunichi per amore o per compassione.» Afferrò con le dita una delle sue drupe di ginkgo e se la infilò direttamente in bocca.

«Allora lei pensa,» chiese Ellie, «che la Macchina sia uno strumento di compassione? Lei pensa che non ci sia alcun rischio?»

«Io posso comunicare con un fiore,» proseguì lui a mo’ di risposta. «Posso parlare a una pietra. Non dovreste avere nessuna difficoltà a capire gli esseri — è il termine appropriato? — di un altro mondo.»

«Sono perfettamente preparato a credere che la pietra comunichi con lei,» disse Lunacarskij assaporando la sua drupa di ginkgo. Aveva seguito l’esempio del Venerabile. «Ma mi domando se lei comunichi davvero con la pietra. Come potrebbe convincerci di essere in grado di comunicare con una pietra? Il mondo è pieno di errori. Come fa a sapere che non si sta ingannando?»

«Ah, ecco lo scetticismo scientifico.» Il Venerabile si illuminò di un sorriso che Ellie trovò assolutamente seducente; era un sorriso innocente, quasi fanciullesco.

«Per comunicare con una pietra, lei deve assumere un atteggiamento molto meno… preoccupato. Rifletta meno e parli meno! Quando affermo di comunicare con una pietra, non mi riferisco a parole. I cristiani dicono: ‘In principio era il Verbo.’ Ma io sto parlando di una comunicazione molto più antica, molto più fondamentale di questa.»

«E’ solo il vangelo di san Giovanni che parla del Verbo,» commentò Ellie, pentendosi subito della sua pedanteria. «I precedenti vangeli sinottici non dicono nulla al riguardo. Si tratta in realtà di un’interpolazione dovuta alla filosofia greca. A quale tipo di comunicazione preverbale allude?»

«La sua domanda è fatta di parole. Lei mi chiede di usare delle parole per descrivere ciò che non ha nulla a che vedere con le parole. Vediamo. C’è una storia giapponese intitolata ‘Il sogno delle formiche’. Si svolge ovviamente nel regno delle formiche. E’ una storia lunga e non gliela racconterò adesso. Ma il succo della storia è questo: per capire il linguaggio delle formiche, bisogna diventare una formica.»

«Il linguaggio delle formiche è in realtà un linguaggio chimico,» disse Lunacarskij, lanciando uno sguardo penetrante al monaco. «Esse depositano tracce molecolari specifiche per indicare il percorso che hanno seguito per trovare il cibo. Per capirne il linguaggio mi serve un gascromatografo o uno spettrometro di massa. Non c’è bisogno che diventi una formica.»

«Probabilmente, è il solo modo che conosce per diventare una formica,» replicò il Venerabile con lo sguardo nel vuoto. «Mi dica, perché gli scienziati studiano le tracce lasciate dalle formiche?»

«Beh,» intervenne Ellie, «presumo che un entomologo direbbe che lo si fa per capire le formiche e la loro società. Gli scienziati godono nel capire.»

«E’ solo un altro modo per dire che amano le formiche.» Ellie represse un piccolo brivido.

«Sì, ma quelli che finanziano gli entomologi dicono qualco-s’altro. Dicono che è per controllare il comportamento delle formiche, per costringerle ad abbandonare una casa che hanno infestato, o per capire la biologia del terreno per l’agricoltura. Potrebbe costituire un’alternativa ai pesticidi. Lei direbbe forse che c’è un certo amore per le formiche in ciò,» disse Ellie in tono riflessivo. «Ma è anche nel nostro personale interesse,» disse Lunacarskij. «I pesticidi sono velenosi anche per noi.»

«Ma perché parlate di pesticidi nel mezzo di una cena così squisita?»

sbottò Sukhavati dall’altra parte della tavola.

«Faremo il sogno delle formiche un’altra volta,» disse piano il Venerabile a Ellie, mostrando di nuovo quel suo sorriso perfetto e imperturbato.

Rimessisi le scarpe con l’aiuto di corni lunghi un metro, si diressero alle loro automobili, mentre le cameriere e la proprietaria sorridevano e si inchinavano cerimoniosamente. Ellie e Xi osservarono il Venerabile che prendeva posto in una limousine con alcuni dei loro ospiti giapponesi.

«Gli ho chiesto, visto che poteva parlare con una pietra, se era in grado di comunicare con i morti,» le raccontò Xi. «E che cosa ha detto?»

«Ha detto che con i morti era facile. Le sue difficoltà erano con i vivi.

18 SUPERUNIFICAZIONE

«Un mare in tempesta!

Stesa sopra Sado

la Via Lattea.»

MATSUO BASHO (1644-94), «Haiku»

Forse avevano scelto Hokkaido per il suo carattere di eccezionaiità. Il clima richiesto dalle tecniche costruttive era al di fuori dei consueti standard giapponesi, e l’isola era anche la patria degli Ainu, gli irsuti aborigeni ancora disprezzati da molti Giapponesi. Gli inverni erano rigidi come quelli del Minnesota o del Wyoming. Hokkaido presentava certe difficoltà logistiche, ma era fuori mano in caso di catastrofe, essendo separata tisicamente dalle altre isole giapponesi. Tuttavia non era affatto isolata ora che era stato portato a termine un tunnel di cinquantun chilometri che la collegava con Honshu; si trattava del più lungo tunnel sottomarino del mondo. Hokkaido era sembrata abbastanza sicura per il collaudo dei componenti individuali della Macchina. Ma erano state manifestate alcune perplessità e preoccupazioni riguardo al vero e proprio assemblaggio della Macchina a Hokkaido, che era, come testimoniavano eloquentemente le montagne che circondavano la base, una regione frutto di un recente vulcanismo. Una montagna stava innalzandosi al ritmo di un metro al giorno. Persino i russi — l’isola di Sakhalin distava soltanto quarantatré chilometri, al di là dello stretto di La Pérouse — avevano espresso qualche apprensione a tale riguardo. Ma copeco o rublo faceva poca differenza. Per quel che ne sapevano, anche una Macchina costruita sull’emisfero invisibile della Luna avrebbe potuto far saltare per aria la Terra, una volta attivata. La decisione di costruire la Macchina era il fatto basilare nel valutare i pericoli; il luogo della realizzazione era di secondaria importanza.

Agli inizi di luglio, la Macchina stava ancora una volta prendendo forma. In America era ancora ostacolata da polemiche politiche e settarie; e c’erano problemi tecnici apparentemente seri con la Macchina russa. Ma lì, in una base molto più modesta di quella del Wyoming, le sbarre erano state sistemate e il dodecaedro completato, benché non fosse stato fatto nessun annuncio ufficiale. Gli antichi Pitagorici, che avevano scoperto per primi il dodecaedro, ne avevano dichiarata segreta l’esistenza e avevano fissato pene severe per chi ne avesse parlato. Perciò forse era giusto che quel dodecaedro grande come una casa, ben lontano nel tempo e nello spazio da quello della scuola pitagorica, fosse noto solo ad alcuni. Il direttore giapponese del progetto aveva decretato qualche giorno di riposo per tutti. La città più vicina di una certa grandezza era Obihiro, una graziosa località alla confluenza dei numi Yubetsu e Tokachi. Alcuni andarono a sciare sul monte Asahi ancora innevato; altri a sbarrare sorgenti termali con una diga improvvisata di rocce, riscaldandosi con il decadimento di elementi radioattivi originatisi nell’esplosione di qualche supernova bilioni di anni prima. Alcuni membri del personale si recarono alle corse di Bamba, in cui possenti cavalli da tiro trascinavano pesanti slitte zavorrate su strisce parallele di terreno lavorato.

Ma per festeggiare in maniera degna, i Cinque volarono in elicottero a Sapporo, la più grande città di Hokkaido, situata a meno di duecento chilometri di distanza.

Ebbero la fortuna di arrivare in tempo per il Festival Tana-bata. Il rischio per la sicurezza veniva considerato modesto, perché era la Macchina più che i membri dell’equipaggio a essere essenziale per il successo del progetto. I Cinque non si erano sottoposti a nessun allenamento speciale, a parte un accurato studio del Messaggio, della Macchina e degli strumenti miniaturizzati che si sarebbero portati dietro. In un mondo razionale, non ci sarebbe stata alcuna difficoltà a rimpiazzarli, pensò Ellie, anche se gli impedimenti politici nel selezionare cinque persone gradite a tutti i membri dell’Associazione Mondiale per la Macchina erano stati notevoli. Xi e Vaygay avevano «una questione in sospeso», dissero, che poteva essere risolta solo con abbondanti libagioni di saké. Così Ellie, Devi Sukhavati e Abonneda Eda seguirono i loro ospiti giapponesi che li guidarono lungo una delle strade laterali della Passeggiata Obori, dove c’erano elaborate esposizioni di banderuole e di lanterne di carta, di quadretti di foglie, di tartarughe e di orchi, e di cartelloni interessanti su cui erano rappresentati un giovane e una ragazza in costumi medievali. Tra due edifici era disteso un grande pezzo di tela per vele su cui era stato dipinto un pavone rampante. Ellie guardò Eda nella sua tunica svolazzante di lino ricamato e con l’alto copricapo rigido e Sukhavati che indossava un altro magnifico sari di seta, e fu contenta di trovarsi in loro compagnia. La Macchina giapponese fino a quel momento aveva superato tutti i test prescritti e ci si era accordati su un equipaggio che era non soltanto rappresentativo — anche se in modo imperfetto — della popolazione del pianeta, ma che includeva individui genuini, e non stereotipati, di cinque paesi.

Ognuno di loro era, in un certo senso, un ribelle. Eda, per esempio: il grande fisico, lo scopritore della cosiddetta superunificazione, un’elegante teoria che includeva, come casi speciali, fenomeni fisici che spaziavano dalla gravitazione ai quark. Si trattava di un risultato pari a quelli di Isaac Newton o di Albert Einstein e Eda veniva paragonato a entrambi. Era nato in Nigeria da genitori di fede musulmana, fatto di per sé non inconsueto, ma di una setta islamica non ortodossa chiamata Ah-madiyah, che comprendeva i Sufi. Il sufismo, aveva spiegato dopo la serata con il Venerabile Utsumi, rappresentava per l’Isiam quello che rappresentava lo Zen per il buddismo. L’Ahma-diyah proclamava «una jihad della penna, non della spada».

Nonostante il suo contegno tranquillo, quasi umile, Eda era un fiero oppositore del più convenzionale concetto musulmano di jihad, di guerra santa, ed era favorevole invece al più libero scambio di idee. Per questa ragione, costituiva un serio motivo di imbarazzo per gran parte dell’Islam conservatore, e qualche nazione islamica si era opposta alla sua partecipazione all’impresa. E non erano state le sole. Un negro vincitore di un premio Nobel — definito talvolta la persona più intelligente della Terra — era troppo per quelli che avevano mascherato il loro razzismo come una concessione alle nuove cortesie sociali. Quando Eda aveva fatto visita in prigione a Tyrone Free quattro anni prima, c’era stato un notevole aumento d’orgoglio fra i neri d’America e un nuovo modello da imitare per i giovani. Eda tirava fuori il peggio dai razzisti e il meglio da chiunque altro. «Il tempo necessario per dedicarsi alla fisica è un lusso,» disse a Ellie. «Ci sono molte persone che potrebbero fare le stesse cose che faccio io se avessero la stessa opportunità. Ma se si devono battere le strade alla ricerca di cibo, non resterà abbastanza tempo per la fisica. E’ mio dovere migliorare le condizioni dei giovani scienziati nel mio paese.»

A poco a poco in Nigeria venne considerato come un eroe nazionale, si mise a parlare con sempre maggiore franchezza di corruzione, di un ingiusto significato del termine diritto, dell’importanza della onestà nella scienza e in qualsiasi altro campo, delle notevoli prospettive di grandezza per la nazione nigeriana, che aveva, disse, la stessa popolazione degli Stati Uniti degli anni Venti, ricchezza di risorse e una forza costituita dalle sue molte culture. Se la Nigeria fosse riuscita a superare i suoi problemi, sosteneva Eda, sarebbe stata un faro per il resto del mondo. Mentre cercava tranquillità e isolamento in tutte le altre cose, su questi punti faceva sentire prepotentemente la sua voce. Molti nigeriani — musulmani, cristiani e animisti, i giovani, ma non solo essi — presero sul serio la sua visione.

Tra le molte caratteristiche di Eda, la più straordinaria era forse la modestia. Raramente esprimeva opinioni. Le sue risposte alle domande più dirette erano laconiche. Soltanto nei suoi scritti — o nei suoi discorsi una volta che si era imparato a conoscerlo a fondo — si scorgeva la sua profondità. Tra tutte le ipotesi sul Messaggio e sulla Macchina e sulle conseguenze della sua attivazione, Eda aveva espresso un solo commento: nel Mozambico, si dice che le scimmie non parlino perché sanno che se si lasciano scappare anche una sola parola verrà un uomo che le metterà al lavoro. Con un equipaggio così loquace era strano avere qualcuno taciturno come Eda. Come molti altri, Ellie prestava una particolare attenzione persino alle sue più casuali espressioni. Egli era solito descrivere come un coacervo di «errori pazzeschi» la sua prima versione, solo in parte riuscita, della superunificazione. L’uomo era sulla trentina e decisamente affascinante, come si erano confidate in privato Ellie e Devi. Era anche sposato con una sola donna, che in quel momento si trovava a Lagos con i figli.

Un chiosco di canne di bambù allestito per tali occasioni, era stato adornato di festoni, di migliaia di strisce di carta colorata che quasi 10 sommergevano. Si vedevano giovanotti e ragazze, soprattutto, che contribuivano a far crescere quello strano fogliame.

11 Festival Tanabata è unico in Giappone per la sua celebrazione dell’amore. I fatti della storia principale si trovavano su pannelli dai molti riquadri e venivano rappresentati su un palcoscenico improvvisato all’aperto. Due stelle erano innamorate, ma separate dalla Via Lattea. Solo una volta all’anno, il settimo giorno del settimo mese del calendario lunare, gli amanti riuscivano a incontrarsi: purché non piovesse. Ellie guardò il blu cristallino di quel cielo alpino e augurò agli amanti tanta fortuna. La stella giovanotto, proseguiva la leggenda, era una sorta di cowboy giapponese ed era rappresentata dalla nana A7 Altair. La giovane donna era una tessitrice ed era rappresentata da Vega. A Ellie sembrò strano che Vega dovesse essere al centro di un festival giapponese alcuni mesi prima dell’attivazione della Macchina. Ma se si esaminano varie culture, non sarà difficile trovare interessanti leggende a proposito di ogni stella brillante del cielo. La leggenda era di origine cinese ed Ellie ricordava di averne sentito parlare anni prima da Xi, durante la prima seduta dell’Associazione Mondiale per il Messaggio a Parigi.

Nella maggior parte delle grandi città, il Festival Tanabata stava morendo. I matrimoni organizzati non erano più una consuetudine e il tormento degli amanti separati non faceva più vibrare i cuori come un tempo. Ma in alcune località — Sapporo, Sendai, e qualche altra — il Festival diventava ogni anno più popolare. A Sapporo, esso aveva una speciale risonanza per il disprezzo ancora diffuso nei confronti dei matrimoni tra giapponesi e ainu. C’era sull’isola un’agenzia a conduzione familiare di investigatori che, dietro adeguato compenso, indagavano sui parenti e gli antenati di possibili spose per i figli di famiglie tradizionaliste. Discendere da un ainu era ancora motivo di un sommario rifiuto sociale. Devi, ricordando il suo giovane marito di molti anni prima, era particolarmente sarcastica. Eda senza dubbio aveva sentito una storia o due dello stesso genere ma non parlava. Il Festival Tanabata della città di Sendai nell’isola di Honshu era adesso un pezzo forte alla televisione giapponese per chi poteva vedere raramente la vera Altair o Vega. Ellie si chiedeva se i Vegani avrebbero continuato a trasmettere alla Terra lo stesso Messaggio per sempre. In parte perché la Macchina stava per essere completata in Giappone, le veniva rivolta una considerevole attenzione nel commento televisivo del Festival Tanabata di quell’anno. Ma i Cinque, come venivano adesso talvolta chiamati, non erano stati invitati ad apparire alla televisione giapponese, e la loro presenza lì a Sapporo per il Festival era stata quasi ignorata. Comunque, Eda, Sukhavati e lei erano stati subito riconosciuti ed erano ritornati alla Passeggiata Obori accompagnati dagli applausi cortesi dei passanti. Molti anche si inchinavano. Un altoparlante, all’esterno di un negozio di dischi, diffondeva un pezzo di rock-and-roll che Ellie riconobbe. Si trattava di «Voglio rimbalzare su di te», eseguito dal gruppo negro White Noise. Nel sole del pomeriggio, c’era un vecchio cane dagli occhi cisposi che, al suo avvicinarsi, scodinzolò debolmente.

I commentatori giapponesi parlavano di Machindo, la Linea della Macchina: la prospettiva, che si diffondeva sempre più, della Terra come un pianeta e di tutti gli uomini accomunati da un’uguale posta nel suo futuro. Qualcosa del genere era stato proclamato in alcune religioni, certo non in tutte, i cui praticanti comprensibilmente si risentirono per l’attribuzione di quella visione a una Macchina aliena. Se l’accettazione di una nuova visione della nostra posizione nell’universo rappresenta una conversione religiosa, riflette Ellie, allora una rivoluzione teologica stava investendo la Terra. Persino i chiliasti americani ed europei erano stati influenzati dal Machindo. Ma se la Macchina non avesse funzionato e il Messaggio fosse sparito, quanto sarebbe durata quella visione? Anche se avessimo commesso qualche errore di interpretazione o di costruzione, pensò Ellie, anche se non apprendessimo mai qualcosa di più sui Vegani, il Messaggio stava a dimostrare, al di là di ogni ombra di dubbio, che c’erano altri esseri nell’universo e che erano più avanti di noi. Ciò dovrebbe contribuire a mantenere il pianeta unito per un po’, pensò. Chiese a Eda se avesse mai avuto un’esperienza religiosa sconvolgente. «Sì,» disse lui.

«Quando?» Talvolta lo si doveva incoraggiare a parlare. «Quando ho imparato per la prima volta Euclide. Anche quando ho capito per la prima volta la gravitazione di Newton. E le equazioni di Maxwell e la relatività generale. E durante il mio lavoro sulla superunificazione. Sono stato fortunato abbastanza da aver avuto molte esperienze religiose.»

«No,» replicò Ellie. «Sai ciò che intendo dire. Indipendentemente dalla scienza.»

«Mai,» rispose subito Eda. «Mai indipendentemente dalla scienza.» Le parlò un poco della religione natia. Non si considerava vincolato da tutti i suoi precetti, ma ci si trovava bene. Era convinto che potesse fare un gran bene. Si trattava di una setta relativamente nuova — contemporanea della Scienza cristiana o dei Testimoni di Geova — fondata da Mirza Ghulam Ahmad nel Punjab. Devi sembrava conoscere qualcosa sull’Ahmadiyah, una setta che cercava di far proseliti e aveva riscosso un particolare successo nell’Africa occidentale. Le origini della religione erano avvolte nell’escatologia. Ahmad aveva proclamato di essere il Mandi, il personaggio che, secondo i musulmani, sarebbe apparso alla fine del mondo. Dichiarava anche di essere Cristo redivivo, un’incarnazione di Krishna, e un buruz o riapparizione di Maometto. Il chiliasmo cristiano aveva ora contaminato l’Ahmadiyah e la ricomparsa di Ahmad sarebbe stata imminente, stando ad alcuni dei suoi fedeli. L’anno 2008, in cui si sarebbe celebrato il centenario della morte di Ahmad, veniva dato per favorito per il suo ritorno finale come Mahdi. Il generale fervore messianico, anche se confuso, sembrava crescere ancor di più ed Ellie si dichiarò preoccupata per le tendenze irrazionali del genere umano.

«A un festival dell’amore,» le disse Devi, «non dovresti essere così pessimista.»

A Sapporo c’era stata un’abbondante nevicata e la tradizione locale di eseguire con la neve e con il ghiaccio sculture di animali e figure mitologiche era stata aggiornata. Un immenso dodecaedro era stato minuziosamente intagliato nel ghiaccio e veniva mostrato regolarmente, come una sorta di feticcio, nel corso dei telegiornali serali. Dopo giornate piuttosto calde per la stagione, si potevano vedere gli estemporanei scultori intenti a riparare i danni arrecati alle loro algide opere.

Che l’attivazione della Macchina potesse, in un modo o in un altro, scatenare un’apocalisse totale era un timore espresso con sempre maggiore frequenza. Il Progetto Macchina reagiva rassicurando l’opinione pubblica, i governi, e decidendo di tener segreta la data dell’attivazione. Alcuni scienziati proposero l’atteso evento per il 17 novembre, una sera in cui era prevista la più spettacolare pioggia di meteore del secolo. Un simbolismo adatto, dissero. Ma Valerian sostenne che se la Macchina avesse dovuto lasciare la Terra in quel momento, una nube di detriti cometari avrebbe costituito un ulteriore e inutile rischio. Perciò l’attivazione venne rimandata di alcune settimane, alla fine dell’ultimo mese del millenovecento e qualcosa. Se tale data non era proprio la svolta del millennio, ma un anno prima, vennero comunque programmate solenni celebrazioni da coloro che non si scomodavano a capire le convenzioni del calendario o che desideravano festeggiare l’arrivo del terzo millennio per due volte di seguito.

Sebbene gli extraterrestri non avessero potuto conoscere il peso di ogni membro dell’equipaggio, avevano specificato in dettagli minuziosi la massa di ogni componente della Macchina e la massa totale consentita. Restava ben poco per l’equipaggiamento di progettazione terrestre. Questo fatto, alcuni anni prima, era stato sfruttato come tesi a sostegno di un equipaggio di sole donne, di modo che si potesse aumentare l’equipaggiamento in dotazione; ma il suggerimento era stato respinto come frivolo. Non c’era posto per tute spaziali. Si sperava che i Vegani tenessero presente che gli uomini avevano la tendenza a respirare ossigeno.

Senza praticamente nessun equipaggiamento personale, con le loro differenze culturali e la loro ignota destinazione, i Cinque andavano chiaramente incontro a grandi rischi. La stampa mondiale ne discuteva spesso; i Cinque, invece, mai.

Un assortimento notevole di macchine fotografiche, di spettrometri, di supercomputer a superconduttori, di biblioteche di microfilm veniva proposto con insistenza all’equipaggio. Cosa sensata e insensata al tempo stesso. A bordo della Macchina non c’erano cuccette, cucine o servizi igienici. Avrebbero portato solo un minimo di provviste, sistemate in parte in tasca. Devi avrebbe preso con sé una semplice cassetta di pronto soccorso. Per quanto la riguardava, pensò Ellie, aveva in programma di portarsi dietro solo uno spazzolino da denti e un cambio di biancheria intima. Se possono farmi andare su Vega in poltrona, si disse, saranno probabilmente in grado di provvedere pure al necessario. Se aveva bisogno di una macchina fotografica o di una cinepresa, disse ai funzionari del progetto, non avrebbe dovuto far altro che chiederne una ai Vegani. Era opinione diffusa, apparentemente seria, che i Cinque sarebbero partiti nudi; dato che l’abbigliamento non era stato menzionato, non avrebbe dovuto essere incluso, perché avrebbe potuto in qualche modo disturbare il funzionamento della Macchina. Ellie e Devi, come molti altri, erano divertite e sottolinearono che non c’era nessun divieto di indossare abiti, un’abitudine umana popolare che risultava evidente nella trasmissione dei giochi olimpici. I Vegani sapevano che sulla Terra ci si vestiva, protestarono Xi e Vaygay. Le uniche restrizioni riguardavano la massa totale. Si dovevano lasciare a casa anche i denti finti e gli occhi di vetro? La vinsero loro, in parte a causa della riluttanza di molte nazioni a essere associate a un progetto che culminava in maniera così indecorosa. Ma il dibattito diede origine a battute un po’ audaci tra i giornalisti, i tecnici e i Cinque.

«Per quello,» disse Lunacarskij, «non specificano neppure che debbano andare degli uomini. Forse troverebbero ugualmente accettabili cinque scimpanzè.»

Persino una sola fotografia bidimensionale di una macchina aliena avrebbe potuto essere di inestimabile valore, dissero a Ellie. Figurarsi poi una foto degli stessi alieni. Avrebbe fatto il favore di ripensarci e di portare un apparecchio fotografico con sé? Der Heer, che si trovava ora a Hokkaido con una grossa delegazione americana, la invitò a essere seria. La posta in gioco era troppo alta, disse, per… ma lei lo fulminò con un’occhiata tale che gli impedì di terminare la frase. Dentro di sé, Ellie sapeva bene ciò che avrebbe detto: per tenere un comportamento infantile. Stranamente, der Heer stava agendo come se fosse stato la parte offesa nella loro relazione. Raccontò tutto a Devi, che non le diede ragione come lei si aspettava. Der Heer, disse, era stato «molto dolce». Alla fine, Ellie acconsentì a portar con sé una videocamera ultraminiaturizzata. Nella nota di carico che il progetto esigeva, sotto la voce «Effetti personali», Ellie segnò: «Fronda di palma, 0,811 chilogrammi.» Fu mandato der Heer per farla ragionare. «Sai che c’è uno splendido sistema di ripresa all’infrarosso pesante solo 600 grammi che ti potresti portar dietro. Perché dovresti preferire il ramo di un albero?»

«Una fronda. Si tratta di una fronda di palma. So bene che sei cresciuto a New York, ma dovresti sapere che cos’è una palma. Si trova tutto in Ivanhoe. Non l’hai letto alla scuola superiore? Al tempo delle Crociate, i pellegrini che compivano il lungo viaggio in Terra Santa riportavano indietro una fronda di palma per dimostrare di esserci davvero stati. E’ per tenermi su di morale. Non m’importa quanto possano essere progrediti. La Terra è la mia Terra Santa. Porterò loro una fronda per far vedere da dove vengo.» Der Heer scosse soltanto il capo. Ma quando Ellie espose le sue ragioni a Vaygay, egli disse: «Lo capisco benissimo.» Ellie ricordò le preoccupazioni di Vaygay e la storia che le aveva raccontato a Parigi della carrozza inviata al povero villaggio. Ma questa non era affatto la sua preoccupazione. Si rese conto che la fronda di palma serviva a un altro scopo. Lei aveva bisogno di qualcosa che le ricordasse la Terra. Temeva di esser tentata di non tornare indietro.

Il giorno prima dell’attivazione della Macchina, Ellie ricevette un pacchettino che era stato consegnato a mano al suo appartamento del Wyoming e spedito oltre oceano per corriere. Non c’era l’indirizzo del mittente e, all’interno, non trovò nessun biglietto d’accompagnamento e nessuna firma. Il pacchetto conteneva un medaglione d’oro appeso a una catena. Avrebbe potuto essere usato come un pendolo. Su entrambe le facce era stata incisa un’iscrizione, in carattere minuscoli ma leggibili. Sul recto c’era scritto: Hera, superba regina dalle vesti dorate, comandava Argo, i cui sguardi dardeggiavano il mondo. Sul verso potè leggere:

Questa è la risposta dei difensori di Sparta al comandante dell’esercito romano: ‘Se sei un dio, non farai del male a coloro che non ti hanno mai offeso. Se sei un uomo, fatti avanti: e troverai uomini pari a te.’ E donne. Sapeva chi glielo aveva mandato.

Il giorno seguente, il giorno dell’Attivazione, si fece un sondaggio d’opinione tra i membri più autorevoli dello staff su che cosa sarebbe accaduto. I più pensavano che non sarebbe accaduto nulla, che la Macchina non avrebbe funzionato. Una minoranza era convinta che i Cinque si sarebbero trovati molto presto nel sistema di Vega, conformemente alla teoria della relatività. Altri suggerirono che la Macchina fosse un veicolo per esplorare il sistema solare, il più costoso tiro birbone della storia, un’aula, una macchina del tempo, o una cabina telefonica galattica. Uno scienziato scrisse: «Cinque orribili sostituti con scaglie verdi e denti affilati si materializzeranno lentamente sulle poltrone.» Questa era la risposta che si avvicinava di più all’idea del cavallo di Troia. Un’altra, ma solo una, diceva: «Macchina del Giudizio Universale». Ci fu una specie di cerimonia. Si pronunciarono discorsi, si servirono cibi e bevande. La gente si abbracciava. Qualcuno piangeva sommessamente. Solo pochi si mostravano apertamente scettici. Si poteva percepire che se fosse capitato davvero qualcosa durante l’Attivazione, la reazione sarebbe stata straordinaria. I; Su molti volti si leggeva un presagio di gioia.

Ellie riuscì a telefonare alla casa di cura per salutare sua madre. Ma non ci fu risposta. Sua madre stava recuperando alcune I funzioni motorie del suo lato paralizzato, le disse l’infermiera. Presto sarebbe stata in grado di pronunciare qualche parola. Al termine della telefonata, Ellie si sentiva quasi serena.

I tecnici giapponesi portavano delle bende attorno al capo, come voleva la tradizione quando ci si preparava a uno sforzo mentale, fisico o spirituale, e soprattutto al combattimento. Stampata sulla benda c’era una proiezione convenzionale del planisfero. Nessuna singola nazione occupava una posizione di predominio. Da parte dei vari governi non erano arrivate molte istruzioni. Nessuno era stato invitato a fare il saluto alla bandiera. I leader nazionali inviarono brevi dichiarazioni su videotape. Quella della I Presidente era particolarmente bella, pensò Ellie: «Questo non è un messaggio di istruzioni e non è un addio. E’ solo un arnvederci. Ognuno di voi fa questo viaggio per un bilione di anime. Voi rappresentate tutti i popoli del pianeta Terra. Se sarete trasportati da qualche parte, cercate di imparare ogni cosa, non solo la scienza, per il bene di noi tutti. Voi rappresentate l’intero genere umano, passato, presente e futuro. Qualunque cosa accada, il vostro posto nella storia è assicurato. Voi siete gli eroi del nostro pianeta. Parlate per tutti noi. Siate saggi e… tornate!» Alcune ore più tardi, per la prima volta, essi entrarono nella I-Macchina, in fila indiana, attraverso una piccola camera d’equilibrio. Si accesero delle luci interne nascoste, molto deboli. Persino dopo che la Macchina era stata completata e aveva superato ogni test prescritto, si temeva che i Cinque si mettessero ai loro posti, prematuramente. Qualcuno del personale del progetto si preoccupava che il solo fatto di sedersi potesse indurre la Macchina ad entrare in funzione, anche se i benzel erano immobili. Ma ecco che si trovavano all’interno e fino a quel momento non stava succedendo nulla di straordinario. Finalmente Ellie poteva abbandonarsi, con una certa precauzione a dire il vero, sulla plastica sagomata e imbottita. Lei avrebbe voluto del chintz; delle fodere di chintz sarebbero state perfette per quelle poltrone. Ma scoprì che anche lì era una questione di orgoglio nazionale. La plastica sembrava più moderna, più scientifica, più seria. Conoscendo il vizio del fumo di Vaygay, si era stabilito che non si sarebbero portate sigarette a bordo della Macchina. Lunacarskij aveva imprecato in dieci lingue. Adesso era entrato dopo gli altri, al termine della sua ultima Lucky Strike. Ansimò solo un poco mentre si sedeva accanto a lei. Non si erano trovate cinture di sicurezza nel progetto estratto dal Messaggio, perciò non ce n’era nessuna nella Macchina. Qualcuno del personale aveva sostenuto, però, che era stata una pazzia non avervi provveduto. La Macchina va da qualche parte, Ellie pensò. Era un mezzo di trasporto, un’apertura verso un altro luogo… o verso un altro tempo. Era un treno merci che sfrecciava sferragliando nella notte. Se ci eri salito, ti poteva trasportare lontano dalle soffocanti cittadine provinciali dell’infanzia, alle grandi città di cristallo. Rappresentava la scoperta e la fuga, e la fine della solitudine. Ogni rinvio logistico nella fabbricazione e ogni discussione sull’esatta interpretazione di qualche punto secondario delle istruzioni l’avevano fatta sprofondare nella disperazione. Non era la gloria che andava cercando… non in special modo, non molto… ma una sorta di liberazione. Si sentiva rapita in estasi, si vedeva come un selvaggio delle montagne a bocca aperta davanti alla porta reale di Ishtar dell’antica Babilonia; era Dorothy che vedeva per la prima volta le guglie della Città di Smeraldo a Oz, un ragazzine di un angolo povero di Brooklyn finito nel Corridor of Nations dell’Esposizione Mondiale del 1939, e attratto dal Trylon e dalla Perisphere che si vedevano in lontananza; era Pocahontas che risaliva l’estuario del Tamigi con Londra che le si distendeva davanti da orizzonte a orizzonte. Il suo cuore esultava in anticipo. Avrebbe scoperto, ne era certa, che cos’altro è possibile, che cosa può essere realizzato da altri esseri, grandi esseri — esseri che probabilmente viaggiavano tra le stelle quando gli antenati dell’uomo stavano ancora dondolando tra i rami della foresta in cui il sole penetrava solo a tratti. Drumlin, come molti altri che aveva conosciuto nel corso degli anni, l’aveva definita un’inguaribile romantica; e si chiese ancora perché mai tanti considerassero la cosa un’imbarazzante menomazione. Il suo romanticismo era stato una forza propulsiva nella sua vita e una fonte di delizie. Sostenitrice e professionista della fantasia, stava per andare a trovare il Mago.

Ci fu un comunicato radio: tutto era apparentemente in ordine, per quel che si poteva accertare con la strumentazione che era stata sistemata all’esterno della Macchina. Si attendeva soprattutto l’evacuazione dello spazio tra i benzel e attorno a essi. Un sistema di straordinaria efficacia stava pompando fuori l’aria per ottenere il più alto vuoto mai raggiunto sulla Terra. Ellie controllò due volte lo stivaggio della sua videomicrocamera e diede un colpetto alla fronda di palma. Si erano accese potenti luci all’esterno del dodecaedro. Due dei gusci sferici si erano messi ora a ruotare alla velocità che il Messaggio aveva definito critica. Per quelli che guardavano fuori tutto appariva già confuso. Il terzo benzel si sarebbe messo in azione nel giro di un minuto. Una forte carica elettrica stava sviluppandosi. Una volta che tutti e tre i gusci sferici con gli assi perpendicolari tra loro fossero arrivati alla velocità richiesta, la Macchina sarebbe stata attivata. O almeno così diceva il Messaggio. Il volto di Xi mostrava una fiera determinazione, pensò Ellie; quello di Lunacarskij una calma imposta; gli occhi di Sukhavati erano spalancati; Eda rivelava soltanto un atteggiamento di tranquilla attenzione. Devi colse il suo sguardo e le sorrise. Sentì la mancanza di un figlio. Fu il suo ultimo pensiero prima che le pareti ondeggiassero e diventassero trasparenti e, così sembrò, prima che la Terra si aprisse e la inghiottisse.

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