CAPITOLO XV

Naturalmente non mi fu possibile accettare una simile offerta. A parte le ovvie difficoltà relative alla consacrazione, spero di sapere qual è il mio umile posto nella vita. E poi, a questo stadio delle cose, erano tutte chiacchiere e basta. Avevamo troppo da fare per offrire a Dio qualcosa più di una Messa di Ringraziamento.

Lasciammo liberi quasi tutti i Wersgorix che avevamo ricatturato, e Sir Roger trasmise attraverso un potente telecomunicatore un proclama a Tharixan, col quale ordinò ad ogni grande proprietario terriero di quelle zone che ancora non erano state devastate, di venire a rendere atto di sottomissione e portare via con sé molti di coloro che erano rimasti senza casa.

La lezione che aveva impartito era stata così severa che, nei giorni seguenti, fu tutto un susseguirsi di musi azzurri venuti a rendere omaggio. Io dovetti occuparmi di loro e dimenticai perfino cosa fosse il sonno. Per la maggior parte, però, si trattava di gente molto mansueta. Invero questa razza aveva regnato suprema tra le stelle per tanto di quel tempo, che ormai solo i suoi soldati avevano occasione di acquisire un virile sprezzo della morte. Dopo di loro seguirono i borghesi ed i piccoli proprietari terrieri, i quali del resto erano così abituati ad avere sopra di loro un governo onnipotente che non si sognarono mai neppure di pensare possibile una rivolta.

In questo periodo, Sir Roger rivolse la maggior parte della propria attenzione all’addestramento dei suoi uomini nelle attività del forte. Poiché le macchine del castello erano semplicissime da manovrare, come in effetti la maggior parte delle macchine wersgoriane, in breve fu in grado di disporre alla difesa di Darova donne, bambini, servi e vecchi, i quali adesso sarebbero stati in grado, almeno per un certo tempo, di opporre resistenza a qualsiasi attacco. Coloro che invece si dimostrarono assolutamente incapaci di affrontare la diabolica arte della difesa, che consisteva nel leggere misuratori, premere pulsanti e girare manopole, li trasferì a distanza di sicurezza su un’isola lontana perché si occupassero del bestiame.

Quando finalmente la nostra vecchia Ansby, trapiantata su quel lontano pianeta, fu in grado di difendersi, il Barone raccolse nuovamente i suoi uomini per condurre un’altra spedizione nei cieli. A me espose la sua idea in anticipo: fino a quel momento ero ancora l’unico a parlare con scorrevolezza la lingua wersgoriana sebbene Branithar, con l’assistenza di Padre Simon, stesse già istruendo rapidamente altra gente.

«Finora ce la siamo cavata molto bene, Fratello Parvus,» mi dichiarò Sir Roger, «ma da soli non riusciremo mai a respingere l’armata che i Wersgorix stanno raccogliendo contro di noi. Ormai spero che tu abbia imparato a fondo la loro scrittura e la loro numerologia, almeno abbastanza da poter sorvegliare un Navigatore locale perché non ci porti dove non vogliamo andare.»

«In effetti ho studiato un poco i princìpi delle loro mappe stellari, Milord,» gli risposi, «sebbene in verità essi non impieghino delle vere e proprie carte ma solo colonne di numeri. Inoltre, a bordo delle astronavi, i Wersgorix non hanno timonieri umani, perché istruiscono un pilota artificiale all’inizio del viaggio e poi è questo homunculus che manovra tutto il vascello.»

«Questo purtroppo lo sapevo bene!», grugnì Sir Roger. «È stato appunto così che Branithar ci ha ingannati la prima volta portandoci qui! Un cane pericoloso, ma troppo utile per ucciderlo. Sono ben felice di non averlo a bordo in questo viaggio; anche se non mi sento affatto tranquillo a lasciarlo a Darova…»

«Ma dove siete diretto, Milord?», lo interruppi.

«Oh, sì, il mio viaggio.» Si strofinò con le nocche gli occhi arrossati per la stanchezza. «Ci sono altri popoli oltre i Wersgorix. Nazioni stellari di rango inferiore che temono il giorno in cui questi demoni azzurri decideranno di eliminarle. Andrò a cercare alleati.»

Era una mossa assolutamente ovvia, ma esitai.

«Bè?», fece Sir Roger. «Che ti rode adesso?»

«Se queste nazioni non sono ancora scese in guerra,» osservai debolmente, «perché l’arrivo di pochi selvaggi arretrati come noi dovrebbe spingerle a farlo?»

«Adesso fai attenzione, Fratello Parvus!», sbottò Sir Roger. «Sono stufo di sentirti piagnucolare su quanto siamo ignoranti e deboli. Noi conosciamo la vera Fede, no? Inoltre, e questo potrebbe essere ancora più importante, mentre le macchine da guerra cambiano nel corso dei secoli, rivalità ed intrighi qui non mi sembrano più raffinati di quelli che conoscevamo a casa nostra. Non è detto solo perché usiamo armi diverse, noi siamo dei selvaggi.»

Non potevo davvero confutare le sue argomentazioni, dal momento che questa era la nostra unica speranza di ritornare un giorno sulla Terra, a meno di metterci a cercarla con un volo a casaccio.

Le migliori astronavi erano quelle che si erano rifugiate nelle caverne sotterranee di Darova; le stavamo allestendo, quando il sole venne oscurato da un vascello ancora più grande e, mentre incombeva su di noi come un’enorme nube temporalesca, quella nave sconosciuta seminò il panico tra la nostra gente. In quel momento arrivò Sir Owain di Montbelle con un ingegnere wersgoriano a rimorchio, mi ordinò di seguirlo per fare da interprete, e ci trascinò davanti a un telecomunicatore. Poi, mentre se ne stava in disparte, fuori dal raggio d’azione dello schermo, con la spada sguainata in pugno, Sir Owain costrinse il prigioniero a parlare col Capitano della nave.

Questo era un vascello commerciale che faceva scalo regolare su questo pianeta. La vista di Ganturath e Stularax trasformate in crateri vetrificati avevano inorridito l’equipaggio. Ci sarebbe stato facile distruggere quell’astronave, ma Sir Owain si servì della sua marionetta wersgoriana per informare il Capitano che c’era stata un’incursione dallo spazio, respinta alla fine dalla guarnigione di Dorova, e che doveva atterrare immediatamente. Il Capitano obbedì e, quando i portali esterni della nave si aprirono, Sir Owain guidò a bordo un manipolo di armati che la catturò senza difficoltà.

Per questa sua impresa, il giovane Cavaliere fu osannato notte e giorno. La sua figura aitante e pittoresca risaltava in mezzo a tutti ed era sempre pronta a pronunciare una battuta scherzosa o a rivolgere una galanteria. Sir Roger, che lavorava senza tregua, divenne ancora più truce. Gli uomini ora lo temevano e forse anche un po’ lo odiavano, perché non li risparmiava minimamente nelle fatiche. Sir Owain offriva di fronte a lui un costrasto assoluto, come un Oberon contro un orso. Metà delle donne ormai dovevano essere innamorate di lui, anche se il Cavaliere aveva sempre pronta una canzone solo per Lady Catherine.

Il bottino preso alla gigantesca nave era ingente e soprattutto c’erano molte tonnellate di cereali. Provammo a darli al nostro bestiame sull’isola, che si stava smagrendo con quella detestabile erba azzurrina, e vedemmo che lo accettavano come se fosse la miglior avena inglese.

Quando Sir Roger lo venne a sapere, esclamò:

«Da qualunque parte provengano, quello è il primo pianeta che dovremo conquistare.»

Mi feci il Segno della Croce e scappai via.

Ma non c’era davvero tempo da perdere. Non era un segreto che Huruga aveva inviato astronavi a Wersgorixan immediatamente dopo la seconda battaglia di Ganturath; è vero che ci avrebbe messo un po’ di tempo per raggiungere quel lontano pianeta e che l’Imperatore avrebbe avuto bisogno di altro tempo per raccogliere una flotta nei suoi dominii sparsi dappertutto, e che poi altro tempo sarebbe occorso alla flotta per venire da noi: ma i giorni volavano ormai troppo in fretta.

A capo della guarigione di Dorava, composta da donne, bambini vecchi e servi, Sir Roger mise la moglie. Mi dicono che l’abitudine che hanno i nostri cronisti di inventare i discorsi delle grandi persone di cui scrivono le biografie, sia cosa che non fa onore ad uno studioso, ma io quei due non li conoscevo solo superficialmente dal loro aspetto altezzoso, ma anche (sia pure a tratti, perché si tradiva solo timidamente) dalla loro anima. Me li raffiguro ancora con assoluta chiarezza, mentre si trovavano in una stanza isolata di quel castello alieno.


Lady Catherine ha appeso al muro le sue tappezzerie ed ha steso dei tappeti sul pavimento, lasciando le pareti abbuiate e dando la preferenza ai candelabri, affinché quel luogo sembri più familiare. Indossa abiti da cerimonia, mentre il marito saluta i bambini. La piccola Matilda piange apertamente, Robert trattiene le lacrime, più o meno, finché non si è ritirato e non ha chiuso dietro di sé la porta, perché anche lui è un Tourneville.

Sir Roger si raddrizza lentamente. Per mancanza di tempo ha smesso di sbarbarsi, e la barba si arriccia come trucioli di ferro sul suo viso coperto di cicatrici. I suoi occhi grigi appaiono spenti, e c’è un muscolo della sua guancia che continua a vibrare. Dal momento che qui l’acqua calda scorre liberamente dai tubi, si è fatto il bagno; ma indossa il suo vecchio giustacuore di rozza pelle e le brache rammendate. Il budriere della sua grande spada scricchiola mentre lui avanza verso la moglie.

«È ora», dice un po’ goffo. «Devo andare.»

«Sì.»

La schiena di lei è liscia e dritta.

«Io credo…» Il Barone si schiarisce la gola. «Io credo che voi abbiate imparato tutto quanto possa servirvi.» E, visto che lei non risponde, aggiunge: «Ricordate che è assolutamente importante far sì che coloro che studiano la lingua wersgoriana continuino ad applicarsi con costanza. Altrimenti saremo come dei sordomuti tra i nostri nemici. Ma non fidatevi mai dei prigionieri. Ognuno di loro deve avere sempre al fianco due nostri armigeri.»

«Sarà fatto.»

Lei annuisce. È senza cuffia e la luce delle candele scivola sulle sue trecce eburnee.

«Vi segnalo che i maiali non hanno necessità dei nuovi cereali che diamo agli altri animali.»

«Questo è davvero importante! E assicuratevi anche di tenere sempre ben rifornita questa fortezza. Coloro tra i nostri che si sono nutriti coi cibi locali sono ancora in buona salute, per cui potere compiere requisizioni nei granai wersgoriani.»

Il silenzio incombe su di loro, pesante.

«Bene», dice il Barone. «Devo partire».

«Che Dio sia con voi, mio Signore.»

Sir Roger rimane immobile per un momento e studia attentamente il tono della voce di lei.

«Catherine…»

«Sì, mio Signore?»

«Vi ho fatto torto,» si costringe a dire, «e quel che è peggio, vi ho trascurato».

Le mani di lei si tendono avanti come animate da volontà propria e le palme ruvide di lui vi si chiudono sopra.

«Chiunque può errare di tanto in tanto», sussurra lei.

Sir Roger osa fissare il suo sguardo in quegli occhi azzurri:

«Mi volete dare un pegno?», chiede.

«Con l’augurio che ritorniate sano e salvo…»

Lui le fa scivolare le mani attorno alla vita, l’attira vicina e grida giosioso:

«E raggiunga la mia vittoria finale! Datemi un vostro pegno e io vi deporrò ai piedi questo impero!»

Lady Catherine si divincola. Ha una smorfia d’orrore sulle labbra.

«Quando, quando comincerete a cercare la nostra Terra?»

«Che onore c’è tornare di soppiatto a casa, lasciando alle nostre spalle infinite stelle nemiche?»

Si sente l’orgoglio nelle sue parole.

«Che Iddio mi aiuti!», sussurra lei e fugge via.

Lui rimane immobile finché lo scalpiccio dei piedi di lei non è svanito in fondo al freddo corridoio, poi si volta e torna dai suoi uomini.


Avremmo potuto ammassarci tutti a bordo di una sola delle grandi navi, ma pensammo fosse meglio sparpagliarci a bordo di una ventina di esse. Queste erano state ridipinte, con le vernici wersgoriane, da un ragazzo che aveva certa abilità nell’araldica, e adesso risplendevano tutte di porpora e oro, con le insegne dei de Tourneville ed i leopardi inglesi impressi sull’Ammiraglia.

Tharixan rimase lontano dietro di noi, e ci avventurammo in quel folle viaggio dentro e fuori di uno spazio che non era più quello semplicemente euclideo a tre dimensioni, grazie a quella che i Wersgorix definivano «guida iperluce». Le stelle tornano a fiammeggiare su ogni lato e ci divertimmo a battezzare le nuove costellazioni… il Cavaliere, l’Aratore, la Balestra, ed altre ancora, comprese alcune che non sarebbe bene mettere per iscritto.

Il viaggio non durò a lungo, solo qualche giorno terrestre, da quanto potemmo giudicare dai nostri orologi. Servì tuttavia a farci riposare, così che, quando entrammo nel sistema planetario di Bodavant, eravamo irrequieti come mastini.

Ormai sappiamo che ci sono soli di molti colori e dimensioni, tutti mescolati fra di loro. I Wersgorix, come gli umani, davano la preferenza ai piccoli soli gialli. Bodavant, invece, era più rosso e più freddo. Solo uno dei suoi pianeti era abitabile e, se anche questo di nome Boda avesse potuto essere colonizzato dagli uomini o Wersgorix, per loro sarebbe stato troppo scuro e gelido; quindi i nostri nemici non si erano preoccupati di sottomettere i nativi Jair, ma si erano semplicemente limitati ad impedir loro di fondare nuove colonie oltre quelle già fondate, ed a costringerli ad accettare dei trattati commerciali assolutamente sfavorevoli.

Il pianeta stava sospeso tra le stelle come un immenso scudo chiazzato e ragginoso e, quando le navi da guerra indigene ci contattarono, arrestammo obbedienti la nostra flottiglia. O meglio, cessammo di accelerare e ci tuffammo nello spazio in un’orbita iperbolica subluce, seguiti dalle navi jariane. Ma tutti questi problemi di navigazione celeste mi danno il mal di capo, e preferisco lasciarli agli astrologi ed agli angeli.

Sir Roger invitò l’Ammiraglio jariano a salire a bordo della nostra Ammiraglia, ed io feci da interprete, servendomi naturalmente della lingua wersgoriana. Ma mi limiterò a rendere il succo della conversazione e non il tedioso scambio di frasi faticose che in effetti avvenne.

Avevamo approntato il ricevimento con una certa imponenza per far colpo sui nostri visitatori. Nel corridoio che portava dal portale al refettorio erano state schierate due file di armigeri. Gli arceri avevano rammendato brache e farsetti, avevano infilato delle piume nei cappelli, ed avevano appoggiato gli archi a terra davanti a sé. I comuni armigeri, invece, avevano lustrato gli elmi e le cotte di maglia, ed avevano formato un arco di picche. Più oltre, là dove il passaggio diventava più alto ed ampio, risplendevano venti cavalieri lucenti nelle loro armature complete, in groppa ai loro destrieri, con stendardi e scudi blasonati, piumaggi e lance. Sull’ultima porta, il Mastro di Caccia di Sir Roger li attendeva con un falco sul polso ed un branco di mastini ai piedi.

Le trombe squillarono, i tamburi rullarono, i cavalli si impennarono, i cani ansimarono, e tutti insieme facemmo tremare la nave al grido tonante di:

«Dio e San Giorgio per la felice Inghilterra! Hurrà!»

I Jair parvero piuttosto spaventati, ma continuarono a venire avanti fino ad entrare nel refettorio, alle cui pareti erano state appese le più splendide stoffe provenienti dai nostri bottini. All’estremità della lunga tavola, su un trono affrettatamente costruito dai nostri carpentieri, e circondato da alabardieri e balestrieri, era assiso Sir Roger che per l’occasione aveva indossato vesti ricamate.

Quando i Jair entrarono, il Barone sollevò una coppa d’oro wersgoriana e brindò alla loro salute con birra inglese. In effetti avrebbe voluto usare del vino, ma Padre Simon aveva deciso di riservare quest’ultimo solo per la Santa Comunione, sottolineando il fatto che tanto quei Demoni alieni non si sarebbero accorti della differenza.

«Wâes hâeil!», declamò Sir Roger, una frase inglese che gli piaceva pronunciare perfino quando parlava in francese, lingua a lui più usuale.

I Jair esitarono finché un paggio li tolse dall’imbarazzo indicando loro dove sedere con un cerimoniale che assomigliava a quello della Corte Reale. Poi io recitai un Rosario e chiesi a Dio la benedizione sulla conferenza.

Questo, lo confesso, non fu fatto per motivi puramente religiosi. Noi eravamo già venuti a sapere infatti, che i Jair si servivano di certe formule verbali per invocare i poteri nascosti del corpo e della mente; ora, se per caso loro erano così stupidi da scambiare il mio armonico latino per una versione ancora più impressionante della stessa cosa, non era proprio colpa nostra, vi pare?

«Benvenuto, Milord!», disse Sir Roger.

Anche lui appariva molto riposato e c’era attorno a lui una punta di diavoleria. Solo coloro che lo conoscevano molto bene, avrebbero potuto immaginare il vuoto che vi albergava dentro.

«Invoco il vostro perdono per il modo poco acconcio con cui sono entrato nel vostro regno, ma le notizie che reco non possono proprio aspettare.»

L’Ammiraglio jariano si chinò verso di lui, teso in volto. Era un essere leggermente più alto di un uomo, sebbene più agile e aggraziato, con una morbida pelliccia grigia sul corpo ed un collare di piume bianche attorno alla testa. Sul viso portava baffi felini, ed aveva enormi occhi violetti, ma per il resto aveva un aspetto umano. Ovvero appariva umano, come possono apparirlo i volti in un trittico dipinto da un artista non troppo abile. Indosso aveva abiti aderenti di una stoffa bruna con le insegne del suo grado.

Ma, di fronte allo splendore che avevamo noi, lui ed i suoi colleghi apparivano davvero ben scialbi. Il suo nome, come scoprimmo dopo, era Beljad sor Van e, come ci aspettavamo, colui che era a capo della difesa interplanetaria aveva anche un’alta posizione nel governo di quel pianeta.

«Non sospettavamo davvero che i Wersgorix si fidassero a tal punto di un’altra razza da amarla e farne un’alleata!», osservò l’alieno.

Sir Roger scoppiò in una risata.

«Non direi proprio, Nobile Signore! Io arrivo a Tharixan che ho appena conquistata. E impieghiamo astronavi catturate ai Wersgorix per incrementare la nostra flotta.»

Beljad si rizzò a sedere di scatto. I peli della sua pelliccia vibrarono per l’eccitazione.

«Allora siete anche voi un’altra razza che conosce il volo stellare?», gridò.

«Noi siamo Inglesi!», rispose Sir Roger, sfuggendo così alla domanda. Non desiderava infatti mentire a potenziali alleati più del necessrio perché se poi avessero scoperto la verità, avrebbero potuto mostrarsi risentiti.

«I nostri Signori hanno possedimenti estesi all’estero, come l’Ulster, il Leinster, la Normandia… ma non voglio annoiarvi con un elenco di nomi.»

Io ero stato l’unico a notare che in effetti non aveva affermato che quelle Contee e Ducati fossero dei pianeti.

«Per farla breve, la nostra è una civiltà di origini antichissime, i nostri documenti scritti risalgono infatti a più di cinquemila anni fa.» Per quel calcolo si servì con la miglior approssimazione possibile dell’equivalente wersgoriano; e chi potrebbe negare che le Sacre Scritture si dipanano con assoluta precisione dal tempo di Adamo?

Beljad rimase però, meno impressionato, di quanto ci aspettassimo.

«I Wersgorix vantano solo duemila anni di storia chiaramente identificata, dal momento che la loro civiltà si è ricostruita dopo l’ultima guerra che li aveva completamente distrutti,» disse, «ma noi Jair possediamo una cronologia perfettamente documentata degli ultimi ottomila anni.»

«Da quanto tempo praticate il volo spaziale?», chiese Sir Roger.

«Da circa due secoli.»

«Ah. I nostri primi esperimenti in questo campo risalgono a… quanto tempo fa diresti, Fratello Parvus?»

«A circa tremilanciquecento anni fa, in un luogo chiamato Babele», risposi.

Beljad quasi si strangolò. Sir Roger continuò come se niente fosse.

«Questo universo è tanto grande che il Regno Inglese in espansione non è venuto a contatto col regno wersgoriano, anch’esso in espansione, che in tempi molto recenti. Solo che loro non si sono resi conto dei nostri veri poteri e ci hanno attaccati proditoriamente. Ma sapete anche voi quanto siano malvagi. Noi invece siamo una razza assolutamente pacifica.»

Dai nostri prigionieri, che ne avevano parlato in tono sprezzante, avevamo saputo che la Repubblica Jairiana deplorava la guerra e non aveva mai colonizzato un pianeta che già era abitato da una popolazione indigena.

Sir Roger congiunse le mani e sollevò gli occhi al cielo.

«Invero,» osservò, «uno dei nostri comandamenti fondamentali dice "Non uccidere". Ma ci è sembrato un crimine ancora maggiore permettere che una potenza così crudele e pericolosa come quella wersgoriana fosse lasciata libera di devastare contrade inermi.»

«Uhm!» Beljad si strofinò la fronte pelosa. «Dove si trova questa vostra Inghilterra?»

«Suvvia,» replicò Sir Roger in tono sornione, «non vi aspettate che lo riveliamo a degli estranei, sia pure di nobilissima stirpe, finché non avremo raggiunto un certo accordo. Neanche i Wersgorix la conoscono, perché abbiamo catturato la loro astronave esplorativa. Questa mia spedizione nel loro territorio ha lo scopo di punirli e di raccogliere informazioni. Come vi ho già detto, abbiamo catturato Tharixan subendo delle perdite leggerissime, ma non è costume del nostro Monarca intervenire negli affari riguardanti altre specie intelligenti, senza prima consultarle per sapere quali sono i loro veri desideri. Vi giuro che Re Edoardo III non si è mai sognato di farlo. Io, insomma, preferirei avere dalla mia parte voi Jair ed altre nazioni che abbiano sofferto per mano dei Wersgorix, in modo da condurre una crociata per umiliarli. E voi acquisterete così il diritto di partecipare ad una giusta ed equa divisione del loro Impero con noi.»

«E voi, capo di un unico corpo di spedizione militare, avete i poteri per intraprendere negoziati in questo senso?», chiese Beljad, piuttosto dubbioso.

«Signore, io non sono un nobiluccio di basso rango.» rispose il Barone irrigidendosi notevolmente. «I miei ascendenti equivalgono ai più alti del vostro reame. Un mio antenato, di nome Noè, è stato un tempo Ammiraglio delle flotte combinate del mio pianeta.»

«È tutto così improvviso!», rispose Beljad, incerto. «È un evento che non si è mai verificato prima. Noi non possiamo… io non posso prendere decisioni… prima bisogna discuterne e…»

«Certamente!» Il mio Signore alzò la voce fino a far risuonare tutto il salone. «Ma non indugiate troppo, Nobili Signori. Io vi offro la possibilità di contribuire alla distruzione delle barbarie wersgoriane, di cui l’Inghilterra non può più tollerare l’esistenza. Se voi condividerete con noi il fardello della guerra, dividerete poi anche i frutti della vittoria. In caso contrario, gli Inglesi saranno costretti ad occupare l’intero Impero Wersgoriano, perché qualcuno dovrà pur mantenere l’ordine. Perciò io vi dico, unitevi a noi sotto la mia guida ed hurrà per la vittoria!»

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