PARTE II Il ladro

4. Escono la notte

Ladri? Ah, che brutta parola… Pensateli invece come apprendisti re. Sembrate sconvolto, persino polemico. Bene, allora, considerateli come la specie più onesta di mercanti.

Oglar il Re dei ladri, nella commedia anonima Cocci e Spade.

Anno del Topo Urlante

Era solo un altro dell’infinita serie di giorni caldi e umidi d’inizio estate dell’Anno della Fiamma Nera. Gli abitanti di Hastarl avevano iniziato a coricarsi più o meno svestiti, sui balconi e sui tetti terrazzati, dopo il calar del sole, nella speranza di una brezza che regalasse loro qualche fugace istante di sollievo.

Ciò giovava sia al piacere sia agli affari… al piacere più prevedibile e a un affare in particolare.

«Ah», esclamò a bassa voce Farl, sporgendosi per sbirciare dalla fessura della finestra. «Ecco che ricomincia lo spettacolo della carne».

«Quando hai finito di sbavare», replicò secco il giovane magro dal naso adunco alle sue spalle, «tieni la fune mentre scendo».

«Sarà già l’alba, direi», fu la risposta.

«E allora tieni la fune ora, guarderai dopo». Elminster diede un’occhiata sopra la testa del suo compagno e scrutò attorno a sé con aria professionale. «Ah, guarda là che bel tatuaggio… come farà a vederselo con la pancia che si ritrova, lo sanno solo gli dei».

Farl ridacchiò. «Pensa anche a che cosa deve aver sentito quando se l’è fatto fare». Sussultò facendo un gesto esagerato con la mano e aggiunse: «Ma dovresti guardare le ragazze, El, non gli uomini!»

«Ah, devo ancora imparare a distinguerli. E ho qualche difficoltà a farlo», rispose tranquillamente Elminster. Poi, ciò che stavano attendendo accadde: un grande banco di nubi coprì la luna. Senza altre parole, lui scivolò attraverso la finestra stretta, con una mano sull’imbracatura di corda, e scomparve.

Farl sistemò il cursore della corda di cuoio levigato saldamente sul davanzale, e con una forza sorprendente rallentò il passaggio della fune che vi scorreva attraverso con un movimento lieve e continuo, finché uno strattone violento non gli indicò di fermarsi. Infilò un pugnale in uno dei buchi della ruota dalla quale si srotolava la fune, poi si sporse a guardare la finestra.

Direttamente sotto di lui, nel vuoto sottostante, all’altezza della camera superiore della torre, Elminster stava sospeso tranquillamente fuori dalla finestra, con una mano, quella con la fasciatura ricoperta di torta di miele appiccicosa, appoggiata al muro; e si stava mantenendo di lato dalla finestra, fuori dalla vista degli occupanti. Scrutò dentro per ciò che sembrò essere un istante interminabile, poi sollevò la mano a mo’ di segnale, senza neanche alzare la testa.

Farl gli calò gli attrezzi con ulteriori funi.

Sospeso nella vivificante brezza notturna, Elminster li afferrò: due lunghi bastoni di legno terminanti con una gruccia, le cui estremità erano dotate di palline di colla appiccicosa. Da un bastone sporgeva una punta laterale a uncino, imbottita.

El utilizzò delicatamente tale punta per aprire completamente i battenti, poi ritrasse i bastoni e attese pazientemente. Da dentro non giungeva alcun rumore e, poco dopo, si allungò nuovamente. Fece scivolare dentro un bastone finché non si agganciò al davanzale. Poi bilanciò il peso e si spinse in avanti, tastando delicatamente all’interno della stanza. Quando lo ritrasse, una gemma brillava all’estremità appiccicosa. Ritrasse allora il bastone fino a raggiungere la punta con la mano, lo lasciò penzolare dalla fune mentre infilava la gemma nella borsa tubolare di tela robusta, che portava al collo, poi infilò di nuovo il bastone nella stanza, lentamente… delicatamente… silenziosamente.

Ripeté tre volte l’operazione. Farl vide il giovane sotto di lui asciugarsi le mani sudate sui calzoni di pelle scura e impolverata e poi protendersi nuovamente. Trattenne il fiato, sapendo che cosa significasse quel gesto: Eladar il Tenebroso stava per tentare qualcosa di particolarmente imprudente. Farl recitò una preghiera a Maschera, il dio dei ladri.

El infilò di nuovo i bastoni nella camera da letto, facendoli scivolare lentamente sul corpo nudo, addormentato della giovane moglie del mercante, a pochi centimetri dalle morbide curve della sua carne e, giunto all’altezza della gola, li arrestò. Portava un nastro scuro intorno al collo… e appeso a esso un pettorale di smeraldi, sui quali spiccava un ragno di filo metallico nero dal corpo costituito da un unico grande rubino.

Elminster guardò i gioielli sollevarsi e abbassarsi delicatamente a ogni respiro della donna. Se era come quelli che già aveva visto, il ragno poteva essere sganciato per essere indossato da solo come spilla da mantello.

Un lieve tocco, un movimento per assicurarsi che si fosse attaccato… Ecco fatto, lo sollevò lentamente e, facendo attenzione a non solleticare il naso della ragazza, ritrasse il bastone con grande abilità e pazienza.

Quando ripose il gioiello nella borsa e strattonò la fune affinché Farl lo tirasse su, sentì che il ragno emanava ancora il calore del respiro della donna. Elminster annusò il profumo muschiato di cui era impregnato, sospirò silenziosamente, e per un attimo si domandò come dovessero essere le donne…

«Con questi potremo darci all’ozio per almeno due mesi», esclamò Farl, con gli occhi luccicanti nella debole luce del loro tugurio.

«Sì», ribatté Elminster, «ed essere notati nel giro di tre giorni. A chi pensi di poter vendere il ragno in questa città? Dovremo aspettare che un mercante discreto, uno che abbia qualcosa da nascondere e che sappia che noi ne siamo al corrente, lasci la città, e venderglielo prima che parta. No; venderemo l’anello con lo smeraldo questa notte, prima che si sparga la voce; non vi è alcun segno che indichi la sua appartenenza. Poi resteremo tranquilli e ci faremo assumere per un po’ come scaricatori o fattorini».

Farl lo fissò per un momento, la bocca aperta in segno di protesta, ma poi sorrise e annuì. «Hai ragione, come sempre, Eladar. Sei astuto come un gatto randagio».

El si strinse nelle spalle. «Sono ancora vivo, se è questo che intendi. Andiamo a scoprire qualche locale in cui servano da bere a due giovani con la gola secca e le tasche vuote».

Farl rise, infilò nuovamente la sacca nel blocco di pietra incavato, si arrampicò su per le pietre scabrose del camino in rovina e spinse il blocco per tutta la lunghezza del suo braccio, nello spazio buio e vuoto fra il pavimento e il soffitto. Ritraendo il braccio dal buco col bordo scheggiato, ripose il topo morto, ciondolante, mezzo mangiato, che usavano per scoraggiare gli intrusi e ridiscese sul pavimento.

La stanza scura sul retro della bottega del calzolaio puzzava di gabinetto per l’uso occasionale che ne facevano gatti, cani, ubriachi e gente di strada. Il calzolaio era morto di febbre della lingua nera all’inizio della primavera, e la gente sana non si sarebbe sognata di far visita a quel luogo per almeno una stagione. Poi il locale sarebbe stato affumicato per eliminare i vapori della malattia e infine demolito; per quell’epoca i due amici avrebbero trovato un nascondiglio migliore fra i pinnacoli ornamentali delle case per bene, nelle vicinanze delle mura settentrionali di Hastarl. Avevano adocchiato una residenza alta, il cui tetto sfoggiava grondoni sogghignanti scolpiti nella roccia; se fossero riusciti a decapitarne uno e a svuotarlo senza che gli occupanti della grande casa sottostante se ne accorgessero, avrebbero avuto un posto ideale. Rimaneva però il «se».

I due giovani si scambiarono un cenno d’intesa, poi Farl guardò dal foro d’osservazione e poco dopo invitò Elminster a procedere; il giovane uscì con indifferenza nel passaggio esterno stretto e scuro, e scivolò via nella notte. Farl lo seguì, il pugnale in mano, in caso di bisogno. Trascorse qualche istante prima che i ratti osassero uscire allo scoperto per afferrare la fetta di formaggio ammuffito che i due ladri avevano premurosamente avanzato.

Il Bacio della Fanciulla era un locale chiassoso e frequentato da persone decisamente per bene… volgarità, schiaffi e pizzicotti, notti di piacere, beffe e lanci di monete, e tanta birra. Farl e Eladar portarono i boccali nel loro angolo buio preferito, poco lontano dal banco, dal quale potevano vedere chi entrava, ma essere visti soltanto da occhi avvezzi all’oscurità e molto determinati.

Naturalmente, il loro posto era già occupato da ragazze di cui conoscevano bene i nomi, ma solo quelli, data la mancanza persistente di denaro. Era troppo presto per gli affari, pertanto le ragazze si limitavano a bere e a frizionarsi col profumo l’incavo delle ginocchia e le pieghe dei gomiti, e sulle panche vi era ancora posto per sedersi.

«Che ne dite di qualche bacio di prima serata?» domandò Ashanda disinteressata, esaminandosi le unghie. Sapeva già la risposta ancor prima di sentirla. Silenzio assoluto dal tizio con i capelli neri ribelli e il naso adunco, e da Farl…

«No. A noi piace solo guardare». Detto ciò, le lanciò un’occhiatina maliziosa da sopra il boccale.

Stando allo scherzo, la donna lo ricambiò con uno sguardo civettuolo, batté le palpebre e si portò delicatamente le dita alla bocca, fingendo un’espressione scioccata, e poi rispose: «E molti di loro vogliono un pubblico plaudente, quindi va bene. Vedi solo di spostarti e lasciarmi spazio sulle panche quando ce ne sarà bisogno, altrimenti ti farò assaggiare il mio dito affilato!»

L’avevano vista infilzare il suo stivale a punta di pugnale negli stinchi di molti uomini, e una volta nelle viscere di un marinaio, che non aveva saputo dosare la sua forza bruta ed era finito sul pavimento della taverna con le budella di fuori. Entrambi i ladri annuirono rapidamente mentre le altre ragazze ridacchiavano scioccamente.

Farl strizzò l’occhio a una di loro e la giovane si protese per picchiettargli il ginocchio. Chinandosi, sfiorò il braccio di El col suo corpetto di seta, fresco e liscio. Il ragazzo spostò bruscamente il boccale, sentendo improvvisamente crescere l’eccitazione dentro di lui.

Budaera vide il suo rapido movimento e voltò la testa per sorridergli. Il suo profumo, che sapeva di rose, e non era tanto forte come gli intrugli puzzolenti che usavano solitamente le donne, raggiunse le sue narici. Elminster rabbrividì.

«Ogni volta che avrai dei soldi, tesoro», gli sussurrò con voce roca. Elminster fece appena in tempo a portarsi il dorso della mano al naso. Poi starnutì tanto forte che fece traboccare la birra dal bicchiere, e per poco non spinse accidentalmente la donna sul pavimento.

L’angolo dove erano seduti risuonò di fischi e schiamazzi. Budaera gli lanciò un’occhiataccia, che si trasformò quasi subito in un’espressione addolorata quando vide che il disagio e le scuse farfugliate del giovane erano sincere. Gli diede dei colpetti sul ginocchio ed esclamò: «Suvvia. È solo questione di migliorare la tecnica… e quella te la posso insegnare».

«Se puoi permetterti le sue lezioni», schiamazzò una delle ragazze e attorno a loro si udirono risate. El si asciugò gli occhi lacrimanti con il dorso della manica e fece un cenno di ringraziamento a Budaera, ma lei si era già voltata e stava chiedendo a una collega da dove veniva quello smalto ramato e quanto fosse costato.

Farl fece scorrere le dita tra i capelli sopra l’orecchio e abbassò la mano per fissare compiaciuto la moneta d’argento comparsa fra le sue dita, come se non ne avesse mai vista una. «Guarda questa», esclamò rivolto a Elminster. «Magari ce n’è un’altra!»

C’era. Le sollevò trionfante ed esclamò: «Sono pronto, Budaera, e ben disposto, e vedo che non hai clienti al mo…»

«Per due pezzi d’argento», ribatté la ragazza con un tono piatto e freddo, «quello è il prezzo per come sono adesso, “tesoruccio”». Le ragazze scoppiarono a ridere; uomini con enormi caraffe di birra gelata in mano si avvicinarono per vedere che cosa si stessero perdendo.

Farl sembrava mortificato. «Credo non ci sia altro qui dietro, ma non mi sono pettinato stamattina…». Con sguardo speranzoso fece scivolare nuovamente la mano tra i capelli, poi scrollò la testa.

«No». Una delle ragazze emise un suono di finto dispiacere, ma egli sollevò la mano. «Aspetta un momento, aspetta un momento… non ho ancora controllato tutti i peli, vero?» Assunse un’espressione maliziosa e allungò la mano nella camicia scura per grattarsi l’ascella; le sue dita frugarono avidamente e poi si fermarono. Aggrottò la fronte, estrasse una manciata di pidocchi immaginari, o almeno era ciò che sperava El, e li esaminò con sguardo critico. Poi fece finta di mangiarseli, si leccò accuratamente le dita e, quand’ebbe terminato, introdusse nuovamente la mano nella camicia, cercando nell’altra ascella.

Quasi immediatamente spalancò gli occhi con sguardo incredulo e, lentamente, estrasse una moneta d’oro! La annusò, fece una smorfia di finto disgusto, poi la sollevò con una risata di trionfo. «Visto?»

«Bene», affermò Budaera con soddisfazione, chinandosi ancora in avanti, «quella vale più di uno starnuto. Ne hai un’altra?».

Farl sembrò ferito. «Ma quanto sporche credi che siano le mie ascelle?»

Nell’angolo risuonarono risate schiette e sonore; le donne erano divertite. El osservava impassibile, solo un angolo della bocca sollevato, mentre Budaera si chinava in avanti fin quasi a sfiorare con la lingua l’orecchio di Farl e sospirava: «Se ci aggiungi due pezzi d’argento, potrei fare un’eccezione per un povero… solo per questa volta…».

«Solo per altri due pezzi d’argento», esclamò Farl con dignità elaborata, «potrei essere costretto ad accettare la tua generosa offerta, brava donna. Ora, se qualcuno tra voi fosse tanto buono da prestarmi la misera somma di… ah, due pezzi d’argento?»

Ci furono sbuffi e gesti volgari dalle panche accanto a lui; Elminster estrasse una mano; e quando la voltò due monete d’argento erano attaccate al suo palmo.

Piuttosto dubbioso, Farl si chinò e le staccò, una dopo l’altra. Elminster aveva usato solo una piccola quantità di gomma su entrambe; e quando Farl le porse a Budaera con uno svolazzo, erano ormai pulite.

Budaera fece cenno di darle prima quella d’oro. Ottenutala, infilò la mano sotto un’ascella e fece sparire la moneta nel sacchettino di sicurezza profumato che gran parte di loro portava in quel punto. Poi prese i pezzi d’argento, li rigirò brevemente con dita esperte, li sollevò e li baciò tenendo gli occhi su Farl. «Allora siamo d’accordo, amore mio».

Si chinò in avanti, gli occhi improvvisamente pieni di mistero e, come un serpente silenzioso e attento, Elminster scivolò fuori dalla panca accanto a Farl per far loro spazio. Budaera lo ringraziò silenziosamente, poi portò il suo corpo agile nel posto libero e si mise al lavoro.

Elminster si allontanò, scuotendo il boccale con piccoli movimenti circolari per sentire quanta birra fosse avanzata, e improvvisamente si irrigidì. Un esile dito lo stava accarezzando, più delicatamente che mai. Guardò in basso e trattenne il respiro. La chiamavano Shandathe «l’Ombra» per i suoi movimenti silenziosi. El e Farl erano convinti che fosse un’abile ladra o, se non era tale, si rivelava però esperta quanto loro nel nascondersi. I suoi grandi occhi neri si sollevarono oltre la fibbia della sua cintura e il giovane sentì il bisogno di deglutire, la gola improvvisamente secca.

«Monete da prestare, Eladar il Tenebroso? Hai… monete da spendere?» la sua voce era rauca, i suoi occhi affamati…

Elminster emise un lieve suono di gola e affondò la mano nella manica, il cui polsino era imbottito di pezzi d’oro. «Una o due», rispose con voce tremula.

Gli occhi della ragazza danzarono. «Una o due, mio signore? Sono sicura d’aver sentito tre o quattro… sì, quattro monete d’oro. Una per ogni piacere che ti darò». Gli leccò la mano, il tocco più vellutato mai sentito prima. El tremò.

Poi venne spostato rudemente di lato. Voltandosi, si trovò di fronte il freddo ghigno di una corpulenta guardia del corpo in uniforme. L’uomo sollevò dei guanti borchiati in segno d’avvertimento ed El vide un’altra guardia dietro di lui. In mezzo a loro, al centro di un anello di luce proveniente da una piccola lampada ad olio sostenuta sopra di lui su un palo incurvato da un servitore stanco, vi era un uomo basso, dallo sguardo imbronciato in abiti di seta arancione come il fuoco. I capelli rossicci ricadevano in riccioli molli sulle spalle della sua camicia di seta, aperta sul suo petto glabro, in mezzo al quale spiccava un pezzo d’oro grande quanto il pugno di un uomo: una testa di leone, dal ghigno freddo e interminabile, pendeva da una pesante catena d’oro. Anelli con numerose gemme e metalli luccicavano sulle sue dita, due o tre per dito, El notò con disgusto, e tutti veri.

Farl ed El si scambiarono alcuni sguardi oltre il viso scioccato di Budaera, poi l’uomo portò la sua barchetta, adornata con avorio traforato e lamine d’oro tanto da sembrare la polena di un barcone da divertimento molto decadente del Calishite, proprio davanti al viso di Shandathe.

«Troppo impegnata, mia cara?» biascicò, poi schioccò le dita. Il servo con la lampada gli porse un borsellino e l’uomo rovesciò pigramente una decina di pezzi d’oro lungo la veste di Shandathe. «O hai tempo per un uomo vero… con oro vero da spendere?»

«Quanti anni vuole trascorrere con me il mio signore?» sospirò in risposta Shandathe, sollevando le mani in segno di benvenuto. L’uomo abbozzò un ghigno a denti stretti e fece cenno alle sue guardie del corpo. Queste allungarono le loro brutali mani borchiate per liberare l’angolo, ignorando le improvvise grida di protesta delle altre signore.

Una afferrò le caviglie di Budaera e la trascinò via da Farl facendola cadere duramente per terra. La donna gridò dal dolore e Farl, alzandosi dalla panca, si sentì invaso da una rabbia improvvisa.

«Chi cavolo pensi di essere ad Hastarl?», domandò rivolgendosi all’uomo profumato. La guardia allungò una mano minacciosa verso di lui, e Farl schioccò le dita come aveva fatto prima il suo padrone, facendo apparire come per magia un pugnale scintillante. L’agitò davanti agli occhi della guardia in segno d’ammonimento, e l’uomo esitò.

«Mi chiamo Jansibal», affermò l’uomo con tono arrogante, aspettandosi evidentemente che tutti i presenti tremassero all’udirlo. «Jansibal Otharr».

Farl alzò le spalle. «Hai mai sentito un saggiatore di profumi da due soldi con quel nome, El?» domandò. Elminster agitò un pugnale sotto il naso della guardia che lo aveva fatto scansare e si liberò dalla sua presa.

«No», rispose tranquillamente, «ma un topo assomiglia a un altro». I presenti rimasero a bocca aperta, e nel locale calò il silenzio. La faccia del bellimbusto divenne scura per la collera, e le sue dita si strinsero attorno ai capelli di Shandathe, inginocchiata di fronte a lui. Poi il volto di Jansibal si contorse in un sorriso sbilenco e nauseante, ed Elminster rabbrividì lievemente. Quell’uomo intendeva ucciderli. Le guardie del corpo si avvicinarono.

«Ciò sembra la sorta di insulto a cui un uomo d’onore», la voce squillante che giunse da dietro sembrò voler sottolineare quell’ultima parola, e Jansibal, riconoscendola, impallidì, in preda alla furia, «può rispondere solo con un duello formale, non certo con una rissa che gli costerebbe almeno due guardie del corpo».

Jansibal e i suoi uomini si voltarono per trovare un altro bellimbusto, elegante quanto il primo, che li guardava con uno sguardo divertito negli occhi. Anch’egli indossava abiti di seta, con draghi striscianti ricamati sulle maniche a sbuffo. Aveva tra le mani un boccale ed era affiancato, da ambo le parti, da uomini in uniforme, con spade sottili, puntate contro i bastoni biforcuti delle guardie del corpo di Jansibal. Cadde il silenzio, e tutti gli avventori della taverna scura allungarono il collo per vedere ciò che stava accadendo.

«Buona sera, Jansibal», esclamò tranquillamente il nuovo venuto, sfregandosi un abbozzo di baffi con il bordo della caraffa. «Laryssa ti ha di nuovo respinto? Diaera non è rimasta soddisfatta della tua… ah, gloria rampante?»

Jansibal ringhiò. «Vattene Thelorn! Non potrai pavoneggiarti per sempre all’ombra di tuo padre!»

«La sua ombra è più lunga di quella del tuo, Janz. Io e i miei uomini siamo entrati per farci una bevuta… ma un puzzo spaventoso ci ha condotti in quest’angolo per vedere chi fosse morto. Devi davvero smettere di spruzzarti addosso quella roba, Janz. Attento che qualche cameriera non svuoti un vaso di piscia dalla finestra per cercare di eliminare la tua puzza!»

«La tua linguaccia ti porterà alla tomba, Selemban!», sbottò Jansibal. «Ora sparisci. O ti farò sfregiare il tuo bel visino da una delle mie guardie con una scheggia di vetro!»

«Oh, davvero, Jansibal. Quale dei tuoi due uomini? Ai miei sei piacerebbe tanto saperlo». Dietro di lui, sbucarono altri due uomini in uniforme, con spade scintillanti nel bagliore della piccola lampada dondolante che il servo tremante teneva ancora sollevata.

«Non accetterò un duello con tutte le tue guardie intorno», rispose Jansibal, rizzandosi impettito. «Conosco la tua inclinazione per le “disgrazie” casuali».

«Mentre sfregi coraggiosamente qualcuno con quella spada intinta nel sonnifero? Non sei stanco di questi inganni, Janz? Non ti senti un verme ogni volta che ricorri a tali sotterfugi? O fanno ormai tanto parte della tua natura che non te ne accorgi nemmeno più?»

«Chiudi la bocca, bugiardo», grugnì Jansibal, «altrimenti…»

«Altrimenti metterai in atto il tuo trucchetto, è così? E, senza dubbio, per sfogare la tua rabbia punzecchierai tutti i ragazzi e le ragazze della taverna. E che cosa farai loro quando cadranno addormentati? Li deruberai, naturalmente… hai delle abitudini tanto dispendiose, Janz… Ho notato che le donne hanno alzato i costi della tua via, Janz…»

Jansibal ringhiò senza pronunciare alcuna parola e si lanciò in avanti. Vi furono un lampo di luce e una nube di scintille quando le spade delle due guardie del corpo più vicine si scontrarono con uno scudo invisibile intorno a Otharr. Questi si fermò improvvisamente quando Thelorn Selemban, muovendosi apparentemente senza fretta, sguainò la spada e la puntò al naso di Jansibal. Alcune piccole luci bianche vorticarono lungo la lama quando il suo incantesimo penetrò lo scudo di Jansibal. Le rispettive guardie del corpo avanzarono minacciose.

«Fermatevi, uomini di Otharr e di Selemban, in nome del re!» esclamò improvvisamente una voce profonda dietro di loro, in direzione del bancone. Gli uomini in uniforme si arrestarono e i loro padroni si irrigidirono; la folla che si era formata intorno a loro si aprì come di fronte a una spada sguainata.

Un uomo dalla barba corta e brizzolata si fece avanti, con un boccale in mano. «Maestro di spada Adarbron», si presentò bruscamente. «Riferirò ai maghi qualsiasi morte o spargimento di sangue si verifichi in questo luogo, quando li vedrò questa notte… E comunicherò loro una vostra eventuale disobbedienza, signori miei. Adesso ordinate ai vostri uomini di uscire di qui, e tornatevene a casa, immediatamente!»

Rimase immobile, lo sguardo severo, e i due bellimbusti videro alcuni uomini alzarsi e portarsi alle sue spalle. Erano soldati in congedo, sicuramente, facce che non mascheravano del tutto la loro allegria. Se quei due spacconi avessero sfidato il maestro di spade, i soldati avrebbero fatto del loro meglio per uccidere o menomare «accidentalmente» entrambi, e nessuna delle guardie del corpo sarebbe uscita viva dalla taverna.

«I miei uomini, comunque, hanno già bevuto abbastanza», affermò tranquillamente Thelorn, ma una vena gli pulsava vicino alla mascella. Evitò di guardare in direzione di Otharr e, rivolgendosi quasi con gentilezza agli uomini intorno a lui esclamò: «Potete andare. Io vi seguirò dopo aver bevuto alla salute di questo eccellente e fedele ufficiale, che sostengo totalmente per l’onore di Athalantar».

«Per l’onore di Athalantar», gli fecero eco una cinquantina di uomini, agitando caraffe e boccali con poco entusiasmo. Impassibile, il maestro di spada osservò gli uomini uscire dal locale. Poi, ignorando il sorriso di Thelorn Selemban, lanciò uno sguardo freddo a Jansibal Otharr, ed esclamò: «Mio signore?»

Burberamente, senza rispondere, Jansibal fece un cenno ai suoi uomini. Poi si voltò nuovamente verso Shandathe, che per paura era ancora inginocchiata nella nicchia, e ribatté freddamente: «Signori miei, ero occupato prima che Selemban mi interrompesse. Se volete scusarmi…»

«Da quella parte», mormorò Elminster, indicandogli la direzione, «è molto più intimo. Sono sicuro che le persone che sedevano qui prima che i vostri scagnozzi li facessero sgombrare, vorrebbero riprendere quello che stavano facendo prima della vostra interruzione, mio signore».

Il bellimbusto ringhiò, promettendogli di ucciderlo con gli occhi, ma il maestro di spada esclamò fermamente: «Segui il consiglio del giovane, Otharr. Sta solo cercando di salvare il buon nome della tua famiglia… e di ricordarti le semplici basi della cortesia».

Otharr non si guardò in giro, ma le sue spalle si irrigidirono, si voltò senza dire parola, affondò le dita nei capelli di Shandathe, che emise un grido e si mise a camminare in ginocchio per evitare di essere trascinata.

Elminster fece un passo avanti, ma il nobile si era già fermato per aprire le tende. «Una luce qui dentro», ordinò bruscamente. Una giovane nell’alcova tolse il panno da una lampada, accese lo stoppino e scomparve frettolosamente.

La cabina privata, normalmente, costava sei falconi d’oro, ma davanti alla furia del nobile e allo sguardo attento del maestro di spada, la giovane non si fermò a discutere il prezzo… e le guardie del corpo che dovevano difendere lei e la sua richiesta restarono vicino ai muri e rimasero in silenzio. Jansibal Otharr osservò il letto imbottito e drappeggiato che quasi riempiva completamente l’alcova, annuì soddisfatto e burberamente indicò a Shandathe il letto. Le tende si chiusero bruscamente dietro a loro.

Farl allungò lentamente una mano sul muro e oscurò la lampada schiacciando in giù lo stoppino. Incrociò gli occhi di una donna oltre le panche, e lei ricambiò lo sguardo, facendo ricadere quella parte di taverna nuovamente nella semioscurità.

Il maestro di spada si voltò, tenendo cautamente Thelorn Selemban al suo fianco. Insieme tornarono al banco.

Farl e El si scambiarono occhiate complici. Con una mano Farl delineò la protuberanza di un seno immaginario, indicò la tenda, poi se stesso, con il pollice. El sbatté le palpebre lentamente, solo una volta, poi indicò la latrina e si toccò il petto; l’amico annuì ed Elminster attraversò la stanza per andare dove poteva liberarsi. In caso di lotte o litigi si sarebbe sentito più a proprio agio.

Era così prima che i maghi arrivassero ad Hastarl? Scivolando e facendosi largo a spallate tra gli avventori ubriachi fino a raggiungere la latrina, El si domandò come era stata quella stessa taverna quando suo nonno sedeva sul Trono del Cervo. Tutti gli uomini potenti erano tanto crudeli come i due nobili che vi avevano quasi ingaggiato un duello? E quanto erano più rispettabili, o più malvagi, di Farl ed Eladar il Tenebroso, due ladri giovani e impudenti?

Chi è più ben visto dagli dei? Un mago, un nobile lezioso, o un ladro? La scelta è dura; i primi due hanno più potere per fare il male, e il ladro almeno è più onesto e chiaro in quello che fa… Hmm… forse non sarebbe stato sicuro porre domande simili a un sacerdote o a un saggio di Hastarl. Nemmeno il fetido canale davanti a lui aveva una risposta pronta e sarebbe stato meglio uscire di lì, prima che Farl facesse qualcosa di avventato. Voleva sapere se stavano per essere ricercati da tutti i soldati della città…

Quando tornò camminando lungo il muro, trovò Farl seduto vicino alla tenda. Questi incrociò lo sguardo di El e poi scivolò silenziosamente dietro di essa, mantenendosi accucciato. El si sedette, notò che la coppia accanto a lui era ben lungi dal notare ciò che facevano gli altri e lo seguì.

I due amici giacevano immobili, fianco a fianco, sul pavimento coperto da un tappeto scuro, mentre i gemiti nell’alcova fiocamente illuminata crescevano e diventavano più incalzanti. Farl avanzò strisciando lentamente mentre i versi amorosi raggiungevano il culmine, e sollevò silenziosamente una mano per afferrare il bicchiere di vino, un omaggio della casa a chi affittava l’alcova, situato nel suo solito posto. Poi, con abile gesto gettò il suo contenuto sullo stoppino della lampada.

L’alcova precipitò in un’improvvisa, tremebonda oscurità. Elminster si alzò dal tappeto come un serpente vendicativo, e, da dietro, mise una mano sulla bocca del bellimbusto, e con l’altra tentò di tramortirlo.

Le mani di Farl erano già sulla bocca dell’Ombra. La ragazza si dimenò e gorgogliò sotto di lui, cercando di prendere fiato per urlare, ma i suoi occhi si spalancarono quando riconobbe l’uomo che stava su di lei e smise di lottare. Elminster vide una delle sue mani sottili smettere di graffiare e sollevarsi per accarezzare la spalla di Farl. Immediatamente dovette tornare a occuparsi del signorotto sotto di lui.

Jansibal era oleoso e profumato, scivoloso tra le mani di Elminster. Non aveva conosciuto tempi duri e ardue battaglie come il giovane di Heldon, ma era più basso e più pesante e la furia alimentava la sua forza. Si gettò di lato, trascinando Elminster con sé e cercò di mordere le dita che lo soffocavano.

Elminster tirò indietro un braccio e, preso il pugnale, colpì duramente la mandibola dell’uomo con l’impugnatura. La testa di Jansibal si spostò di lato e dalla bocca gli uscì sangue misto a saliva. Il bellimbusto emise un lieve grugnito, scosse il capo e si accasciò di traverso sul letto, privo di sensi. Un occhio aperto fissava ciecamente Elminster; soddisfatto, il ragazzo si guardò alle spalle per assicurarsi che nessuno avesse notato l’improvviso buio dietro la tenda o sentito i rumori poco usuali di una notte d’amore. La gente non aveva smesso di fare baccano e i lamenti lievi e improvvisi indicavano che Farl stava pienamente approfittando del generoso pagamento del nobile a Shandathe. Le monete d’oro si erano sparpagliate sul pavimento quando Otharr le aveva strappato il corpetto; El le ignorò per chinarsi sulla coppia intrecciata e staccare delicatamente un orecchino da dove i capelli dell’Ombra si arricciavano intorno all’orecchio.

Shandathe staccò le labbra da quelle di Farl per un tempo sufficiente a sussurrargli un brusco, «Cosa…?»

Elminster si portò un dito alle labbra e mormorò: «Per adescare l’altro; lo rivedrai, te lo prometto».

Tenendolo delicatamente nell’incavo della mano, il giovane uscì dalla tenda senza farsi notare, e si fece largo senza fretta attraverso il locale. Come si era augurato, il maestro di spada e Thelorn erano al bancone, fianco a fianco.

«Senz’altro riconoscerete», stava dicendo l’ufficiale con tono stanco, «che i figli dei maghi devono essere d’esempio affinché la gente li senta vicini e in mezzo a loro, non distanti. La magia e quelli che la esercitano sono molto temuti; se il regno deve essere forte, allora…»

Si interruppe poiché Elminster si intrufolò fra loro, mostrò l’orecchino e mormorò: «Chiedo perdono per l’interruzione, signori, ma mi hanno mandato per una missione d’amore. La signora che Lord Otharr era così ansioso di conoscere, confessa di essere in qualche modo delusa dalla sua… ah, breve prestazione, e spera che un altro uomo importante, come voi, mio signore, sia fatto di materiale più rigido. Mi ha raccomandato di dirvi che è rimasta colpita dalle vostre parole e dal vostro portamento, e che vorrebbe conoscere meglio entrambi».

Thelorn sollevò gli occhi verso Elminster e sogghignò improvvisamente; il maestro di spada scosse il capo, fece roteare gli occhi e se ne andò. Lo sguardo del giovane nobile attraversò la stanza e si posò sulla tenda. Elminster annuì e si diresse a grandi passi verso l’alcova, facendogli strada tra la folla.

Quando raggiunsero la tenda, El lanciò uno sguardo intorno a essa e la tenne leggermente scostata; Thelorn sbirciò dentro.

Un cumulo di vestiti e di lenzuola giaceva lì vicino; più oltre, un moccolo di candela scintillava nell’ombelico della ragazza distesa sul letto, nuda. Aveva il viso semicoperto da un lembo di seta e sorrideva attraverso i capelli lunghi che le velavano la bocca. Quando vide l’uomo incrociò le braccia dietro la testa. «Entrate, mettetevi a vostro agio», mormorò, «mio signore».

Thelorn fece un ampio sorriso e un passo avanti. Quando la tenda si richiuse, Elminster avanzò dietro al nobile, sollevò il manico del suo fedele pugnale e colpì, facendo un saltello per assestare meglio il colpo.

Thelorn si accasciò sull’estremità del letto come un alberello tagliato; Farl saltò fuori dal suo nascondiglio sotto un mucchio di cuscini per spostare i piedi di Shandathe prima che l’uomo vi cadesse sopra.

I due amici si scambiarono un sorriso e si misero rapidamente al lavoro. Evitarono di prendere gli anelli magici, diedero a Shandathe i soldi che le spettavano: glieli lanciarono mentre lei si vestiva in fretta e vennero ricompensati con un bacio appassionato. Era bella come El se l’era immaginata; un’altra notte, magari.

Spogliarono velocemente Selemban, estrassero il corpo incosciente di Jansibal da sotto i drappeggi, e sistemarono i due signorotti nudi in un abbraccio perché gli altri li trovassero. Sostenendo l’Ombra tra di loro come se fosse svenuta, le braccia attorno alle sue spalle, l’aiutarono ad attraversare la stanza, diretti verso l’uscita accanto alla latrina.

Da un angolo scuro, spuntò uno scippatore, ma non appena vide lo sguardo ammonitore di Farl e il pugnale di El, indietreggiò nuovamente. Senza parlare il trio si diresse a nord, verso la casa di Hannibur.

Il vecchio fornaio brizzolato viveva da solo sopra la sua bottega. Il suo volto stagionato, il piede di legno, la lingua aspra e la naturale avarizia lo rendevano poco attraente per le donne di Hastarl. Spesso lanciava i resti di pane invenduto e secco, e talora anche intere pagnotte, fuori dalla porta posteriore ai monelli affamati e fiduciosi che giocavano nella strada. Quella notte il suo russare risuonava debolmente nel vicolo attraverso le imposte chiuse della camera da letto.

«Dove stiamo andando, signori miei?» Shandathe era ancora divertita per lo scherzo, e grata per l’oro extra, ma nella sua voce c’era una nota d’allarme. Aveva sentito delle voci sui suoi due giovani accompagnatori.

«Ti dobbiamo nascondere prima che quelle due bestie si sveglino e mandino le guardie del corpo a prendersi ciò che gli hai negato… ed anche la tua pelle», le sussurrò Farl all’orecchio, abbracciandola.

«Sì, ma dove?», domandò l’Ombra, mettendogli le braccia al collo. Farl indicò la finestra sopra di loro dove si sentiva russare.

Shandathe lo fissò. «Sei impazzito?» sibilò con rabbia improvvisa. «Se pensi che abbia intenz…»

Le mani di Farl scivolarono proprio nei punti giusti quando pressò le sue labbra contro quelle della ragazza. Lei lottò rabbiosamente per un momento, riuscendo a pronunciare mormorii di protesta… e poi si afflosciò. Farl prontamente la passò a Elminster. «Ecco», commentò soddisfatto. Si voltò, e in un attimo eresse una piramide di cassette. Elminster fissò l’amico e poi la ragazza tra le sue braccia. Era morbida e bella, anche se un po’ pesante, e stava già iniziando a muoversi; in un attimo o due, avrebbe ripreso conoscenza… e per quel poco che la conosceva, sapeva che si sarebbe infuriata non poco. Si guardò intorno con circospezione in cerca di un luogo in cui posarla.

«È la notte fortunata di Hannibun», esclamò Farl con un sorriso, mentre scendeva velocemente dalla piramide di cassette. In alto, le imposte erano aperte ora e il russare si era fatto più forte. Indicò Elminster e Shandathe, poi ancora la finestra.

«Naturalmente», El mormorò in risposta, arrampicandosi su per la piramide con l’Ombra a peso morto sulle spalle. Il suo profumo delicato gli solleticava le narici e, ansimando, aggiunse: «Più fortunato di me, questo è certo».

Arrivato in cima, scavalcò cautamente il davanzale della finestra, mentre Farl teneva ferme braccia e gambe della ragazza per evitare che sbattessero da qualche parte facendo rumore. Shandathe iniziò a muoversi mentre percorrevano il pavimento di legno fino al letto di Hannibur.

Tolsero le coperte di lana rattoppate e la deposero cautamente al fianco del fornaio dormiente. Poi entrambi si allontanarono non riuscendo più a soffocare le risate: il vecchio indossava un abito di taglio audace, ornato di gale, da ragazza impudica. Polpacci pelosi e venati e ginocchia ossute sporgevano dalla seta pura.

El si morse il labbro e si portò barcollante verso la finestra, scuotendo le spalle silenziosamente. Farl riuscì a dominarsi e delicatamente scostò gli indumenti dei due, che si agitarono lievemente. Accarezzò i due corpi e raggiunse la finestra in punta di piedi. El era già a metà piramide.

I due ladri si sorrisero con aria complice e tolsero la cassetta che sosteneva tutte le altre… e la piramide cadde con un baccano che avrebbe svegliato anche un morto. Poi corsero a nascondersi dietro un angolo.

Quando si fermarono a prendere fiato in un cortile a numerosi isolati di distanza, Farl esclamò: «Whew! Una serata fruttuosa. Peccato che non abbia avuto il tempo di svuotare il boccale prima che quel culo da ippopotamo ti infastidisse».

Elminster sogghignò e gli porse l’orecchino di Shandathe. Farl lo guardò e sorrise. «Bene, una ricompensa per il duro lavoro».

Poi, con un sorriso ancora più ampio, gli mise nell’altra mano tre pesanti anelli della catena d’oro di uno dei due signorotti. «L’ho aperta e accorciata di qualche anello», affermò innocentemente. «Il leone era troppo in basso per fare il giusto effetto».

Farl scoppiò in una risata divertita e si abbracciarono, ridacchiando finché Farl non adocchiò un’insegna nei paraggi. «Che ne dici di un boccale?», ansimò.

«Cosa?» gli occhi grigio-blu di Elminster guizzarono pericolosamente. «Ancora?»

Da quella notte Selûne era sorta tre volte sopra le alte torri di Athalgard, e le chiacchiere sui due giovani e sui figli molto intimi dei maghi si erano ormai diffuse in tutta la città. Le guardie del corpo di entrambi si aggiravano furtivamente per le taverne delle zone più povere di Hastarl, cercando ovviamente un giovane dal naso aquilino e dai capelli neri e il suo amico dalla lingua sciolta… pertanto Eladar e Farl avevano ritenuto prudente prendersi una breve vacanza finché i segugi non fossero stati derubati da qualche ladro di strada troppo disperato per essere prudente, e non avessero in tal modo diretto le loro ricerche altrove.

Essere esposti alla vista e agli archi di guardie annoiate sugli spalti merlati di Athalgard faceva sentire entrambi a disagio, perciò avevano iniziato a chiacchierare, rilassarsi e organizzare colpi nell’isolamento del cimitero cintato, dall’altra parte della città: un luogo abbandonato, ricoperto di vegetazione, dove le volte di pietra delle tombe di famiglie benestanti iniziavano a frantumarsi e a crollare tra gli alberi rachitici che vi crescevano in mezzo, ramificandosi in tutte le direzioni.

Personaggi altezzosi e ladri arricchiti, finivano tutti lì… e i loro vanti, le loro trame e le loro monete d’oro non consentivano loro che di comprare pietre tombali sgretolate, incise di bugie sulla loro grandezza e sul loro buon carattere. Magra consolazione, pensò El, per le ossa in rovina giacenti sotto di loro.

All’ombra tranquilla degli alberi, i due amici stavano sdraiati sulla superficie inclinata della tomba di Ansildabar sapendo, senza tuttavia preoccuparsene, che le ossa dell’esploratore, un tempo famoso, giacevano erose ed esposte nel sepolcro saccheggiato. Si passavano un otre di vino, guardando le ombre gettate dal sole che si insinuavano tra tombe sbilenche e mausolei collassati, preannunciando il crepuscolo.

«Stavo pensando», esclamò improvvisamente Farl, allungando la mano per afferrare l’otre.

«Ahi, brutto segno», ribatté Elminster affabilmente, porgendogli l’otre di pelle.

«Hah-ha», rispose Farl, «tra le varie orge selvagge, intendo».

«Ah, mi chiedevo proprio che cosa fossero quelle pause momentanee», commentò Elminster, allungando nuovamente la mano. Farl, che non aveva ancora bevuto, lo guardò offeso facendogli gesto di attendere, poi bevve a lungo. Sospirando di soddisfazione, si pulì la bocca e gli porse il contenitore.

«Ti ricordi quanto mi chiedeva Budaera per una notte d’amore?»

Elminster sogghignò. «Sì. Un prezzo basso… solo per te».

Farl annuì. «Esattamente. Quelle ragazze fanno un sacco di soldi… sarebbe facile, stavo pensando, scoprire dove alcune di loro nascondono il proprio bottino… e servirci mentre dormono o sono indaffarate nelle taverne e nei locali dei ricchi mercanti.»

«No», affermò deciso El, «io non ci sto. Se tosi quelle pecore, lo farai da solo».

Farl lo guardò: «Bene, considera il piano abbandonato. Ma adesso dimmi perché».

Elminster iniziò la discussione: «Non ruberò a chi riesce a mala pena a mangiare, per non parlare di tasse e risparmi».

«Principi?», Farl si impadronì dell’otre quasi vuoto.

«Ne ho sempre avuti. Lo sai». El gli fece segno di tenersi il vino e l’amico felicemente lo terminò.

«Pensavo che volessi uccidere tutti i maghi di Athalantar».

Elminster annuì. «Tutti i signori maghi. Sì, ho fatto un giuramento… lentamente, con i piedi di piombo, mi appresto a compierlo», rispose, fissando oltre il fiume dov’era visibile la pertica di una barca lontana, che si dirigeva verso i moli. «Tuttavia, qualche volta mi domando che cos’altro dovrei fare, come dovrebbe essere la vita».

«Feste con cinghiale arrosto tutte le notti», asserì Farl. «Essere tanto ricco da potermelo permettere e non dover più sentire la lama di un coltello addosso o nascondermi nell’immondizia con le guardie che tastano con le loro alabarde».

«Nient’altro?» domandò El. «Niente… di più elevato?»

«A che pro?», domandò Farl con una nota di disprezzo. «Esistono i sacerdoti per quelle cose, e mi sembra che in Faerûn ce ne siano a sufficienza, e la mia pancia vuota non si stanca mai di dirmi ciò a cui dovrei aspirare». Contento che l’ultima goccia di vino fosse caduta nella sua bocca aperta, abbassò l’otre, l’arrotolò e l’infilò nella cintura. Poi guardò di traverso l’amico.

Eladar il Tenebroso lo fissava accigliato. «Quali dei dovrei venerare?»

Farl scrollò le spalle, sconcertato, e allargò le mani. «Un uomo deve scoprirlo da solo… dovrebbe. Solo gli sciocchi obbediscono al primo sacerdote che incontrano».

El parve divertito. «Che cosa fanno, allora, i sacerdoti?»

Farl alzò le spalle. «Cantano, sbraitano e uccidono chi venera altri dei».

Con il medesimo tono grave Elminster domandò: «A cosa servono allora le fedi?»

Farl sollevò esageratamente le spalle, assumendo un’espressione perplessa, ma gli occhi seri di El rimasero fissi nei suoi e, dopo un momento di silenzio, Farl rispose lentamente: «La gente deve sempre credere che, da qualche parte, ci sia qualcosa di meglio di ciò che ha ora, e che potrebbe un giorno ottenerlo. All’uomo piace appartenere a qualcosa, far parte di un gruppo. Ecco perché la gente frequenta club ed entra nelle congregazioni».

Eladar lo guardò. «E poi si accoltellano alle spalle nei vicoli bui. Per questo si sentono superiori?»

Farl sogghignò: «Esattamente». Guardò una barca fermarsi contro un molo distante e proseguì con indifferenza. «Se continueremo ad affrontare insieme la morte, notte dopo notte, sarebbe probabilmente opportuno che conoscessi questo tuo codice morale. So che al ladrocinio preferisci fare la guardia alle botti, scaricare le barche, e portare pacchi, ma a chi non piacerebbe?»

«Ai pazzi che amano il brivido», rispose seccamente El.

Farl rise. «Lasciami perdere per un attimo, e parla».

Elminster rifletté un momento. «Non ucciderò gente innocente… e non mi piace derubare nessuno fuorché i ricchi mercanti, che sono avidi, antipatici o palesemente disonesti. Oh, e i maghi, naturalmente».

«Li odi proprio, vero?»

Elminster si strinse nelle spalle. «Io… io provo ribrezzo per chi si nasconde dietro la magia e comanda solo perché qualcuno gli ha insegnato a leggere, o perché gli dei gli hanno dato il potere di esercitare la magia, o altro. Dovrebbero usare i loro poteri per aiutarci, non per sottomettere e intimidire».

«Se tu ora fossi Belaur», affermò a bassa voce Farl, «che cosa potresti fare, in nome degli dei, se non obbedire ai maghi?»

El scrollò le spalle. «Per quanto ne so potrebbe essere imprigionato. Non si mostra mai alla plebaglia affinché possa conoscerlo – ai sudditi che dovrebbe servire – quindi come posso saperlo?»

«Hai detto una volta che i tuoi genitori sono stati uccisi da un mago a cavallo di un drago», asserì Farl.

Elminster lo guardò severamente. «Davvero?»

«Eri ubriaco. Io – poco dopo esserci conosciuti – dovevo sapere se potevo fidarmi di te, così ti ho fatto ubriacare. Quella notte al Cerchio di Spade, non facevi altro che ripetere “fuorilegge” e “ucciderò i maghi”».

Elminster fissò fermamente la sommità in rovina di una tomba vicina. «Ogni uomo ha bisogno di un’ossessione», rispose voltando la testa. «Qual è la tua?»

Farl alzò le spalle. «L’eccitazione; se non rischio, non sono vivo».

Elminster annuì, pensando a ciò che era accaduto.

Era stata una giornata fredda, burrascosa, e nelle vie di Hastarl il fango arrivava alle caviglie. El era appena giunto in città e si stava guardando in giro. Aveva imboccato un vicolo cieco, e quando si era girato per tornare sui suoi passi, aveva visto davanti a sé una schiera di uomini sogghignanti, dallo sguardo meschino, che gli bloccavano la strada. La banda era capeggiata da un gigante quasi calvo, corpulento, vestito di pelle logora, con un bastone imbottito in una mano e un sacco di tela grande abbastanza da contenere la testa di Elminster – poiché quello era lo scopo – nell’altra. Gli uomini iniziarono ad avanzare verso di lui.

El indietreggiò, toccando la Spada del Leone e chiedendosi se potesse combattere contro tanti uomini duri in uno spazio tanto limitato e sperare di vincere.

Prese posizione in un angolo, con la spada sguainata, ma essi non rallentarono la loro avanzata decisa e minacciosa. L’uomo pelato alzò il bastone, ovviamente pianificando di fargli cadere di mano la spada mentre gli altri lo atterravano, ma prima che potesse farlo, si udì dall’alto una voce tranquilla.

«Non lo farei se fossi in te, Shildo. È già carne di Hawklyn, marchiata e… non vedi com’è confuso? E sai quello che fa Hawklyn a chi si intromette!»

L’uomo pelato guardò in alto, il volto cattivo. «E chi gli direbbe che l’abbiamo fatto?»

Il giovane mago acquattato sul davanzale sorrise, muovendo la balestra avanti e indietro per minacciarli uno ad uno, e rispose: «Ciò è già stato fatto, zucca pelata. Poco fa Antaerl è volato a riferire. Mi ha lasciato qui a dissuaderti perché ha un vecchio debito con te… e si ricorda che cosa è successo l’ultima volta che una banda di rapitori ha preso l’uomo sbagliato. Non era piacevole, vero Shildo? Ricordi ciò che Undral aveva detto che ti avrebbe fatto se avessi commesso un altro errore sfortunato? Io sì».

Ringhiando, il gigante pelato girò sui talloni e se ne andò impettito, rompendo la riga di scagnozzi e facendo loro segno di accompagnarlo.

Quando non rimase più nessuno, Elminster alzò lo sguardo ed esclamò: «Grazie per avermi salvato. La mia vita è tua, Signor…?»

«Farl è il mio nome e non sono un “signore”. E ne vado orgoglioso».

Farl gli spiegò che «carne» era il nome dato agli zotici, agli schiavi e ad altri sfortunati utilizzati dai signori maghi per gli esperimenti che uccidevano, torcevano, trasformavano o rendevano schiava la mente. Elminster, evidentemente confuso e disorientato era sembrato un ottimo candidato al rapimento o già uno schiavo mentale. «È questo che gli ho fatto credere tu fossi», aggiunse.

«In ogni caso grazie», rispose El ironicamente. «Ma a che scopo?»

«L’ho avvertito che eri di proprietà del mago più potente. Shildo serve un rivale il cui potere non è ancora grande abbastanza per una sfida aperta. E a Shildo è stato categoricamente ordinato di non causare guai in questo momento». Scivolò sul davanzale innevato e aggiunse: «Vuoi mettere via quella spada? Potremmo andare in un luogo più caldo che conosco, dove ci faranno pagare troppo cara una zuppa di tartaruga bollente e toast bruciati… questo, ovviamente, se pagherai tu».

«Con piacere», rispose Elminster, «se mi dici dove posso trovare un letto in questa città e ciò che non devo fare».

«Sicuro», rispose il giovane sorridente, saltando abilmente dalla finestra. «Tu devi imparare e a me piace parlare. E sembra che tu abbia bisogno di un amico, e in questo momento gli amici scarseggiano anche per me… Ehi?»

«Guida tu», suggerì Elminster.

Aveva appreso molto quel giorno, e nei giorni che seguirono, ma non da dove venisse Farl. Il ladro allegro sembrava parte di Hastarl, come se fosse sempre stato lì, e la città riecheggiava dei suoi umori e dei suoi modi. I due si erano piaciuti e insieme avevano rubato più del loro stesso peso in oro e in gemme nel corso della lenta primavera e di gran parte dell’estate lunga e calda.

Meditando su quella città umida governata dai maghi, Elminster si trovò di nuovo sulla pietra inclinata del tetto della tomba, nel calore scemante di una lunga e pigra giornata estiva. Poi si voltò a guardare in faccia l’amico: «Più di una volta hai detto che sapevi che venivo da Heldon».

Farl annuì. «Il modo in cui parli: vieni dall’entroterra, sicuramente, da est. Inoltre… l’inverno in cui Undral si unì ai signori maghi, in città corse voce che per essere accettato da loro aveva cavalcato un drago che poteva comandare. Per ordine di Lord Hawklyn, andò al villaggio di Heldon per uccidere un uomo del luogo e la moglie… e per mostrare loro ciò che poteva fare fece distruggere il villaggio pietra su pietra e bruciò tutto, perfino i cani che fuggivano nei campi».

«Undral», ripeté a bassa voce Elminster.

Farl vide che le mani dell’amico erano intrecciate, bianche e tremanti. Annuì. «Se ti fa star meglio, El, capisco come ti senti».

Il giovane lo guardò con occhi fiammeggianti, di una luce blu acciaio, ma la sua voce giunse con tremenda delicatezza quando gli domandò: «Oh? E come?»

«I maghi hanno ucciso mia madre», rispose Farl con calma.

Elminster lo guardò, il fuoco nei suoi occhi svanì. «Che cosa è successo allora a tuo padre?»

Farl alzò le spalle. «Oh, sta sicuramente molto bene».

Elminster lo fissò con aria interrogativa e Farl abbozzò un sorriso triste. «Infatti probabilmente ora è lassù, su quella torre… e potrebbe possedere una magia che gli permetta di udirci quando userò il suo nome».

Elminster alzò lo sguardo verso la torre e domandò: «Può colpirci con un incantesimo da lassù?»

Farl scrollò le spalle. «Chissà che cosa hanno imparato a fare i maghi? Ma ne dubito, se no vedresti molti uomini cadere a terra in tutta Hastarl. Inoltre, i signori maghi non resisterebbero alla tentazione di provocare i loro nemici prima di sconfiggerli, faccia a faccia.»

«Allora fai il suo nome», lo incalzò deliberatamente Elminster, «e forse scenderà dove lo potrò raggiungere».

«Dopo di me», rispose Farl a bassa voce. «Dopo che gli avrò strappato la lingua alla radice e spezzato tutte le dita per fargli smettere di lanciare incantesimi… solo allora lascerò che tu ti diverta. Deve morire lentamente».

«Allora chi è?»

Farl sollevò metà bocca in un sorriso triste: «Lord Hawklyn, maestro signor mago. Per te il Mago Reale di Athalantar». Voltò quindi la testa per guardare un uccellino che balzava da una colonna rotta all’altra. «Ero illegittimo. Hawklyn fece uccidere mia madre – una cortigiana, amata da molti, dicono – quando apprese della mia nascita».

«Perché vivi ancora… fuori da quella torre?»

Farl tornò con lo sguardo nel passato, senza vedere le tombe davanti a lui. «I suoi uomini massacrarono un bambino… ma quello sbagliato; e qualche altro povero marmocchio. Venni portato via da una donna amica di mia madre… una signora della notte».

Elminster sollevò le sopracciglia. «E mi hai proposto di derubare quelle ragazze?»

Farl alzò le spalle. «Una di loro strangolò la mia madre adottiva per pochi soldi; non ho mai scoperto chi, ma quasi sicuramente una delle donne del Bacio – la sua voce assunse scherzosamente i toni pedanti di un saggio che racconta una storia di grande importanza – la notte in cui i due figli di maghi rivelarono il loro amore a tutta Hastarl».

«Oh, per tutti gli dei», esclamò tranquillamente El, «e io che mi compativo; Farl, tu…»

«Posso dirti di tacere e non dire le sciocchezze lacrimevoli che stavi per dire», lo interruppe serenamente Farl. «Quando la debolezza causata dal mio progressivo rammollimento richiederà il tuo compatimento, Eladar Assassino dei Maghi, te lo farò certamente sapere».

I suoi toni grandiosi fecero ridacchiare l’amico, che domandò: «Che cosa facciamo, ora?»

Farl sogghignò e con un agile movimento balzò in piedi. «Il tempo del riposo è scaduto, torniamo alla guerra. Allora, non mi permetterai di approfittare delle prostitute o della gente innocente… be’, non è un problema grave. Ad Hastarl di gente innocente non ce n’è poi molta, e abbiamo infierito già troppo sui maghi e sulle famiglie altolocate e potenti. E se ci appollaiamo troppo spesso sulla stessa pertica, troveremo ad aspettarci trappole, al posto delle monete. Ci rimangono due obiettivi: i templi…»

«No», esclamò fermamente Elminster. «Nessuna intromissione negli affari degli dei. Non vorrei mai trascorrere il resto di una vita breve e infelice con molti di Quelli Che Sentono Tutto in collera con me, per non parlare del clero».

Farl sogghignò. «Me lo aspettavo. Bene allora c’è solo una categoria che non abbiamo toccato: i ricchi mercanti».

Sollevò una mano per prevenire la protesta imminente di Elminster riguardo l’ingiustizia di derubare i bottegai laboriosi e aggiunse velocemente: «Intendo gli usurai che investono nelle stanze sul retro, dietro a porte di sicurezza, lavorando segretamente in gruppi per mantenere alti i prezzi e tramare incidenti per la concorrenza… hai mai notato quante poche compagnie possiedono le barche che attualmente approdano qui? E i depositi? Hmmm? Dobbiamo sapere come agiscono perché, se mai saremo costretti a smettere di rubare dalle tasche di gente che conta poco – e le dita non restano agili per sempre, questo lo sai – dovremo unirci a coloro che siedono pigramente e lasciano che i soldi lavorino per loro».

Elminster aggrottò la fronte, pensieroso. «Un mondo nascosto, mascherato da ciò che molti vedono nelle strade».

«Proprio come il nostro: il regno dei ladri», aggiunse Farl.

«Giusto», disse El con entusiasmo. «Quello sarà il nostro campo di battaglia allora. Che facciamo adesso? Come iniziamo?»

«Questa notte», suggerì Farl, «corrompendo abilmente un uomo che mi deve un vecchio favore, intendo partecipare a una cena a cui non sono mai stato invitato. Lui dovrebbe servire il vino ma lo farò io al suo posto e sentirò ciò che non dovrei sentire. Se ho ragione, udirò piani e accordi di tranquilli commerci dentro e fuori la città per il resto della stagione». Corrugando la fronte, aggiunse: «C’è un problema: tu non puoi venire; non esiste modo in cui tu possa avvicinarti abbastanza da ascoltare senza essere preso; questa gente ha guardie dappertutto. Inoltre, non ho alcuna scusa per farti entrare».

Elminster annuì. «Allora andrò da qualche altra parte. Una serata oziosa, o hai qualche consiglio?»

Farl annuì lentamente col capo. «Sì, ma è molto pericoloso. C’è una certa casa, che tengo sott’occhio da ormai quattro estati; è la casa di tre mercanti spendaccioni che si occupano di scambiare merci e di prestare denaro, ma non sembrano mai alzare un dito per svolgere un vero lavoro. Probabilmente fanno parte di questa catena di investitori. Riesci a fare un sopralluogo senza farti vedere? Dobbiamo sapere dove sono le porte, le vie d’accesso, le stanze importanti e simili… e chissà, magari sentirai per caso qualcosa d’interessante mentre mangiano…»

Elminster annuì. «Conducimi sul posto, ma solo se non ti aspetti grandi notizie quando ci incontreremo l’indomani. Penso che accada solo nei racconti dei menestrelli che le persone si siedano intorno a un tavolo spiegando ciò che già conoscono affinché i ficcanaso capiscano».

Farl annuì. «Intrufolati, guarda dove sono le cose, cerca di scoprire se sta accadendo qualcosa di importante, e poi vattene. Non voglio perderti mentre fai l’eroe, è troppo difficile trovare dei soci degni di fiducia».

«Preferisci un codardo vivo, eh?», domandò Elminster mentre scendevano abilmente dalla tomba e si incamminavano fra le macerie e le piante aggrovigliate verso il ramo su cui si erano arrampicati per entrare.

Farl lo fermò. «Seriamente, El… non ho mai trovato in altri un tale coraggio e una tale onestà. Per di più, in una persona che possiede anche resistenza e destrezza… Ho solo un rimpianto!»

«E cioè?» il volto di El divenne paonazzo.

«Non sei una bella donna».

Elminster rispose con un verso maleducato, poi risero entrambi e si arrampicarono sull’albero per uscire.

«Mi preoccupa solo una faccenda», aggiunse Farl. «Hastarl sta diventando ricca sotto il controllo dei maghi e i ladri giungono numerosi. Stanno sorgendo delle bande, che si allargano sempre di più; tu e io dovremo entrare a farne parte o formarne una per conto nostro se vogliamo sopravvivere. Inoltre, avremo bisogno di più mani di queste quattro, se dobbiamo colpire i mercanti imbroglioni».

«E la tua preoccupazione?»

«Il tradimento».

Quella parola rimase sospesa in un cupo silenzio, mentre saltavano giù dal muro sgretolato in un vicolo pieno di spazzatura, seminando il panico fra i topi. Elminster affermò piano: «Anch’io ho trovato qualcosa di prezioso in te, Farl».

«Un amico più bello di te?»

«Un amico, sì. Lealtà e fiducia… di gran lunga più preziose di tutto l’oro che abbiamo rubato insieme».

«Bel discorso. Mi sono ricordato di avere anche un altro rimpianto», aggiunse gravemente Farl. «Di non aver potuto assistere al momento in cui Shandathe e il vecchio Hannibur si sono svegliati in quella stanza!»

I due furono presi da un riso convulso. «Ho notato», affermò Elminster dopo aver ripreso fiato, «che in città non è corsa voce di quell’incontro».

«Un peccato, sicuramente», rispose Farl. Le braccia dell’uno attorno alle spalle dell’altro, si incamminarono a grandi passi per i vicoli scivolosi, alla conquista di Hastarl.

5. Un mago in catene

Incatenare un mago? Ma come, la promessa del potere e la conoscenza dei segreti (la «magia» se volete), l’avidità, e l’amore – ciò che incatena tutti gli uomini… nonché alcune delle donne più sciocche.

Athaeal di Evermeet Riflessioni di una regina-maga in esilio.

Anno della Fiamma Nera

Il profumo che saliva dalle alte finestre era delizioso, e lo stomaco di Elminster cominciò a brontolare. Si abbarbicò sulla pietra, immobile, in una posizione scomoda a testa in giù, e sperò che nessuno udisse.

Sotto di lui si svolgeva una festa allegra; i bicchieri tintinnavano e gli uomini ridevano e scherzavano tra un discorso serio e l’altro. Era troppo distante per poter udire di che cosa stessero parlando. El terminò il nodo e lo saggiò con uno strattone: teneva. Da quel momento in poi sarebbe stato nelle mani degli dei…

Attese uno scroscio di risa e, quando l’udì, si calò lungo la corda sottile sul balcone sottostante. Per tutto il tragitto sarebbe stato chiaramente visibile a chiunque si fosse premurato di guardare in alto; sudava abbondantemente mentre i suoi stivali si avvicinavano al pavimento del balcone, e quando finalmente toccò terra, poté acquattarsi dietro il parapetto, completamente nascosto alla vista dei commensali. Non si udì alcun grido e, passato qualche secondo, si rilassò sufficientemente da potersi guardare attentamente intorno. Il balcone era sporco e in disuso, pertanto cercò di non sollevare polvere, onde evitare di starnutire o di lasciare tracce che potessero tradirlo.

Poi rivolse la sua attenzione alle chiacchiere degli individui sottostanti, e dopo aver ascoltato poche parole si irrigidì per la paura e la crescente eccitazione. Si portò spontaneamente una mano al petto, dove teneva nascosta la Spada del Leone.

«Mi sono giunte voci, Havilyn, che dubiti dei nostri poteri», affermò una voce fredda e arrogante, creando improvvisamente nella stanza un silenzio carico di tensione, «che ci ritieni capaci solo di spaventare la gente comune affinché obbedisca alla Corona del Cervo, che non saremmo veri maghi e non oseremmo mettere piede fuori dal nostro regno… che i nostri incantesimi sarebbero appariscenti ma servirebbero a ben poco contro i ladri e i concorrenti della notte, lasciando indifesi i nostri investimenti comuni.»

«Non ho mai detto nulla del genere».

«Forse no, ma il tuo tono ora mi dà conferma che credi a quelle voci. No, riponi la tua spada, non intendo farti del male questa notte. Sarebbe inopportuno uccidere un uomo nella sua casa, e da sciocchi sarebbe distruggere una buona alleanza e un sostenitore ricco. Voglio solo che guardi una piccola dimostrazione».

«Che sorta di magia hai intenzione di fare, Hawklyn?», chiese Havilyn con tono circospetto. «Ti avverto che non tutti qui sono protetti da amuleti e scudi come lo sono io – e hanno certo meno ragioni di amarti di quante ne abbia io. Non sarebbe saggio giungere alle armi a questa tavola».

«Non ho piani tanto violenti. Desidero semplicemente mostrarti l’efficacia della mia magia, gettando per te un incantesimo che ho perfezionato recentemente. Un incantesimo che può piegare la volontà di ogni mortale di cui pronunci il nome».

«Di ogni mortale?»

«Di tutti i mortali viventi. Ma prima che nomini vecchi nemici su cui desideri mettere le mani, voglio mostrarti il vero potere della magia che esercitiamo qui ad Hastarl… quella stessa magia che hai sminuito parlando di semplici trucchi e sfere di fuoco, adatti solo a intimorire la gente comune».

Si udì un rumore strano, acuto, quasi metallico. «Prendi questa catena», ordinò la voce fredda di Neldryn Hawklyn, Mago Reale di Athalantar. «Appoggiala per terra e allontanati; molte grazie». Ci fu un tintinnio e poi si udì uno scalpitio leggero e rapido di piedi che indietreggiavano.

Di nuovo il tintinnio e, improvvisamente, dei riverberi di fiamma si misero a danzare sul muro sopra a Elminster. Lui li osservò attentamente e vide che la catena trasparente si sollevava dal pavimento e si attorcigliava, formando lentamente una grande spirale sospesa nell’aria.

Hawklyn parlò nuovamente con la sua voce priva di calore. «Questa è la Catena di Cristallo Vincolante, forgiata a Netheril molto tempo fa. Elfi, gnomi e uomini, tutti la cercarono e, non trovandola, pensarono che fosse andata perduta per sempre. Io l’ho ritrovata; osservate la catena che può imprigionare qualsiasi mago e impedire ogni suo incantesimo. È meravigliosa, vero?»

Si udirono mormorii sommessi e il più potente dei signori della magia continuò: «Chi è il mago più potente di tutta Faerûn, Havilyn?»

«Vuoi che ti risponda che sei tu, suppongo… ma in verità, non lo so. Sei tu l’esperto in magia, non io… quel Mago Pazzo di cui ci è giunta voce, credo…»

«No, pensa più in grande. Non ricordi nulla degli insegnamenti di Mystra?»

«Lei? Hai intenzione di incatenare una dea

«No; un mortale, ho detto, ed è un mortale a cui sto pensando».

«Ora basta con i misteri, parlate», si intromise una voce aspra. «C’è un tempo per le prove di abilità e un tempo per parlar chiaro – e credo sia giunto il momento di farlo».

«Dubiti dei miei poteri?»

«No, signor Mago, credo ne abbiate da vendere. Vorrei solo che la smetteste di esibirvi in giochi di parole arroganti e vi comportaste più come un grande mago che come un ragazzino che tenta di impressionare con il suo talento».

Tali parole terminarono con un grido improvviso di disgusto, a cui seguì un mormorio. Elminster arrischiò una breve occhiata sopra il parapetto, ma subito si riabbassò. Uno dei commensali stava guardando con orrore il suo piatto, dal quale una testa umana lo fissava, senza vederlo.

«Quella è la testa dell’ultimo individuo che ha tentato di rubare dal vostro magazzino, decapitata da una lama magica da me evocata. Ecco, ora non c’è più. Goditi pure il resto della cena, Nalith; era solo un’illusione».

«Penso anch’io che dovresti parlare chiaro, Hawklyn», affermò un’altra voce, più anziana della prima. «Basta con i giochetti».

«Va bene», rispose il mago reale. «Allora guardate, e rimanete in silenzio».

Mormorò parole confuse, poi vi fu un lampo di luce, e si udì un suono stridulo di cristallo infranto.

«Di’ a tutti chi sei». Vi era una nota di freddo trionfo nella voce di Hawklyn.

«Io sono l’Alchimista», rispose una nuova voce, calma ma tremolante, vecchia di anni. I commensali rimasero senza fiato, ed Elminster non poté trattenersi. Quello era il mago che indossava il mantello del potere di Mystra. Il più grande di tutti i maghi. Doveva assolutamente guardare. Lentamente e con molta cautela, sollevò la testa per vedere al di là del parapetto e si irrigidì, colto da un pensiero improvviso: se i maghi controllavano la magia più potente di tutta Faerûn, come poteva sperare di sconfiggerli?

Sotto di lui si estendeva il lungo tavolo del banchetto; tutti gli uomini attorno a esso stavano fissando una figura esile e barbuta con indosso una tunica che se ne stava, avvolta in un’aurea, in posizione eretta, a poca distanza da loro. La spirale formata dalla catena, vuota fino a quel momento, ora girava lentamente attorno a lui, e piccole scintille luminose si rincorrevano tra le sue spire.

«Sai dove ti trovi?», gli domandò freddamente il mago reale.

«Non conosco questa stanza – ma sicuramente in una dimora sontuosa. Mi trovo ad Hastarl, nel Regno del Cervo».

«E che cosa ti avvolge?», chiese Hawklyn protendendosi mentre pronunciava quelle parole impazienti. La luce delle lampade si rifletté sulle rune magiche adorne di gemme, che costellavano le sue vesti nere, ed esse brillarono, catturando gli sguardi dei presenti. Aveva un aspetto sparuto ma pericoloso e, allargando le sue dita lunghe sul tavolo davanti a sé, si alzò lievemente per sfidare il mago nella morsa della catena.

L’Alchimista guardò l’oggetto di cristallo con moderata curiosità, come un uomo che osserva la merce dopo essere entrato pigramente in una bottega dall’aspetto insignificante. Allungò un braccio per toccarlo, ignorando l’improvviso crepitio di scintille incandescenti attorno alla sua mano rugosa, e dopo averla picchiettata pensosamente rispose: «Sembra essere la Catena di Cristallo Vincolante, forgiata molto tempo fa a Netheril, e creduta persa. È proprio quella o si tratta di una catena nuova creata da te?»

«Sono io che faccio le domande», comandò imperiosamente Neldryn, «tu devi solo rispondere, altrimenti userò questa balestra, e Faerûn avrà un nuovo Alchimista». Mentre pronunciava tali parole, una balestra pronta a scoccare il dardo apparve fluttuando da dietro una tenda. I mercanti si scambiarono sguardi stupiti.

«Oh», esclamò tranquillamente il vecchio, «è una sfida, dunque?»

«No, a meno che non sia tu a sfidarmi. Considerala solamente una minaccia che incombe su di te. Obbedisci o muori – la medesima alternativa che ogni re offre ai suoi sudditi».

«La tua terra deve essere molto più barbara di quella a cui sono avvezzo», rispose l’Alchimista con voce secca. «Possibile, Neldryn Hawklyn, che tu abbia trasformato Athalantar in una tirannia di maghi? Ho udito cose su di te e sui tuoi colleghi maghi… e non era nulla di buono».

«Non ne dubito», sogghignò Hawklyn. «Ora tieni a freno la lingua finché non ti chiederò di parlare – o un nuovo Alchimista lo farà al posto tuo».

«Dunque tenti di controllare se e quando parla l’Alchimista?», continuò il vecchio con una nota di tristezza nella voce.

«Certo». La balestra si avvicinò, alzandosi minacciosa sopra la tavola, puntata contro la faccia del vecchio mago.

«Mystra lo vieta», affermò con pacatezza l’Alchimista, «perciò non ho scelta, sono costretto ad accogliere la sfida».

Il suo corpo ribollì improvvisamente formando vapori fluttuanti, per poi dissolversi nel nulla. La catena rimase per un attimo avvolta intorno al vuoto, poi ricadde sul pavimento.

La balestra scattò con un fremito, ma il dardo sfrecciò nel vuoto, rimbalzò contro uno scudo appeso a una parete, per poi terminare la sua corsa contro il muro di pietra.

«Che tutto ciò che è nascosto riappaia!», tuonò il Mago Reale sollevando le braccia al cielo. Quindi fece un balzo indietro; il vecchio si rimaterializzò dal nulla, proprio davanti al suo volto, seduto tranquillamente a mezz’aria, proprio sopra il tavolo.

Cinque o sei incantesimi vennero sferrati quando i maghi, allarmati, intravidero un’occasione adatta a colpire. In mezzo a tutte quelle magie rutilanti i mercanti terrorizzati ribaltarono le sedie nella fretta di allontanarsi dalla tavola. Il cibo schizzò in tutte le direzioni, mentre fiamme voraci, saette luminose e fasci di luce fredda e brumosa tagliarono l’aria, per unirsi in un vortice sibilante nel punto in cui il vecchio era seduto. Ma, pochi istanti prima che il sortilegio letale lo colpisse, questi si era già dileguato… sempreché si fosse trovato realmente dove tutti l’avevano visto.

«Chi di magia malvagia colpisce», esclamò tranquillamente l’Alchimista dal balcone, dove Elminster giaceva terrorizzato per la sua improvvisa apparizione, «di essa, infine, perisce».

Sollevò poi le mani rugose, e, da ogni dito, lanciò un raggio di luce rosso-rubino all’interno della stanza. Tutto ciò che di solido toccarono, evaporò in un istante, senza far rumore. El deglutì nel vedere un paio di gambe senza corpo, e poco più oltre, un mago piagnucolante accasciarsi a terra, quando i suoi piedi in fuga svanirono improvvisamente da sotto il corpo. Tra le urla e il fracasso, i raggi si affievolirono lentamente, lasciando fiamme là, dove avevano colpito il legno o gli arazzi.

Non erano ancora svaniti del tutto che gli uomini nella stanza incominciarono a levitare – corpi interi, o ciò che ne rimaneva, presero a fluttuare lentamente, nonostante la loro riluttanza e gli incantesimi incessanti. Anche la catena si sollevò tintinnante nell’aria, strisciando e arrotolandosi come un serpente gigantesco.

Hawklyn, impaurito e furioso, pronunciò a gran voce un incantesimo, ma il vecchio lo ignorò.

Gli uomini sospesi si fermarono dolcemente all’altezza del balcone, e la catena iniziò a serpeggiare tra loro, scintillante nella luce delle fiamme sottostanti.

A un tratto apparve un lampo e si udì un boato. Elminster si tuffò per salvarsi la pelle, mentre l’incantesimo di Hawklyn riduceva metà del balcone in un ammasso di pietre. Il giovane ladro cercò disperatamente di rimanere aggrappato a quel poco di balcone che rimaneva, mentre il pavimento di pietra crollava sotto e dietro di lui.

Con un tremito, seguito a poca distanza da un forte rombo, gran parte delle piastrelle del balcone distrutto scivolarono nella stanza, in mezzo a una nuvola di polvere. I resti si ammucchiarono intorno a un pilastro inclinato e solitario, che fino a pochi istanti prima aveva sostenuto quella parte di balcone. Disteso scompostamente sulle rovine del balcone, Elminster si voltò di scatto per vedere l’Alchimista sospeso nell’aria, impassibile, circondato da un cerchio di uomini spaventati, che fluttuavano impotenti.

«È tutto qui ciò che sai fare, Hawklyn?» Il vecchio scosse il capo. «Come potevi essere tanto stupido da pensare di potermi sfidare, con quei poteri da quattro soldi?» sospirò, ed Elminster vide che la catena di cristallo si era avvolta intorno al collo di uno degli individui sospesi.

L’uomo fu costretto da una forza invisibile, lenta e terribile, a voltare la testa e a guardare il vecchio negli occhi. «Quindi tu sei un mago, Maulygh… da lungo tempo, vedo, e credi di essere troppo intelligente per dimostrarti apertamente ambizioso. Tuttavia, vorresti regnare su ogni cosa, e attendi solo l’occasione giusta per sbaragliare gli altri e conquistare tu stesso il trono. Inoltre hai dei piani; il tuo regno non sarebbe pacifico».

L’Alchimista fece un cenno di congedo con la mano, e gli anelli di cristallo attorno al collo del mago esplosero in schegge tintinnanti. Il corpo senza testa di Maulygh sobbalzò e poi rimase penzoloni, gocciolante. La catena, ora più corta, si avvicinò a un altro uomo.

«Solo un mercante, eh? Othyl Naerimmin, saccheggiatore, contrabbandiere, e commerciante di profumi e birra». La voce tremolante sembrava infondere speranza, ma poi si affievolì in tono amaro di disapprovazione. «Trami avvelenamenti». Un’altra spira della catena scoppiò, lasciando un altro corpo senza testa.

Qualcuno gemette in preda al terrore, quasi soffocando per voler pronunciare freneticamente numerosi incantesimi. L’Alchimista ignorò i lamenti e osservò la catena serpeggiare minacciosa nell’aria verso la prossima vittima. Un uomo, un mercante grasso, dal respiro affannoso e dallo sguardo terrorizzato, venne risparmiato. Fluttuando tranquillamente riguadagnò il pavimento e cadde, non più imprigionato dalla magia. Subito si rimise in piedi e fuggì dalla sala piagnucolando.

L’individuo seguente era un altro mago, che lanciò provocazioni e morì in preda alla rabbia. Una volta decapitato, il suo corpo venne avvolto da raggi purpurei. L’Alchimista li studiò. «Una rete interessante di circostanze fortuite, non pensi, Hawklyn?»

Il Mago Reale pronunciò violentemente una parola che echeggiò e tuonò in tutta la sala, poi vi fu una vampata improvvisa. Elminster si ritirò nell’angolo e nascose la faccia, percependo un’improvvisa ondata di calore. Quando tutto fu terminato, in mezzo al crepitio di pietre che raffreddavano e a ventate d’aria, udirono il vecchio che sospirava.

«Sfere di fuoco… sempre sfere di fuoco. Non sanno creare altro i giovani?»

L’Alchimista se ne stava indenne, sospeso nel vuoto, guardando la catena – ora molto più corta, la superficie crepata e annerita dal fuoco – muoversi verso un altro dei commensali. Questi si rivelò già morto, di paura o per un autoincantesimo, oppure per una scheggia di vetro vagante. Allora la catena proseguì il suo viaggio di morte.

Altre due volte colpì, ma risparmiò un altro mercante, che fuggì singhiozzando e lasciando solo il Mago Reale di Athalantar, sospeso di fronte all’Alchimista. Hawklyn guardò a destra e a sinistra i corpi decapitati e ringhiò impaurito.

«Per essere sincero, ucciderti mi procurerebbe molta soddisfazione», affermò il vecchio. «Tuttavia, sarei ancora più contento se rinunciassi a tutte le tue pretese su questo regno, ora, e se accettassi di servire Mystra sotto il mio controllo».

Hawklyn imprecò, e con mani tremanti cercò di sferrare un ultimo incantesimo. L’Alchimista ascoltò cortesemente e poi scosse il capo, ignorando la bestia che era apparsa dal nulla davanti a lui.

I suoi artigli crudeli trapassarono il corpo del vecchio come fosse un fantasma, e quando gli ultimi anelli della Catena Vincolante esplosero, la bestia svanì. Il pavimento di pietra sottostante s’imbrattò di sangue.

Lasciando i cadaveri sospesi in un macabro schieramento, l’Alchimista si voltò a guardare il giovane rannicchiato che aveva osservato tutta la scena dall’angolo del balcone. Gli occhi del vecchio scintillarono pericolosamente quando incontrarono lo sguardo intimorito di Elminster. «Sei un mago, ragazzo, o un servo del palazzo?»

«Nessuno dei due». Dopo aver distolto a fatica lo sguardo, El saltò giù dal balcone, atterrando duramente sulle pietre insanguinate. Il vecchio mago socchiuse gli occhi e sollevò un dito, al che una parete di fiamme circondò il ladro, che subito si voltò, impugnando una vecchia spada affilata.

La paura alimentò la sua rabbia, e con voce tremante si rivolse al mago sospeso sopra di lui. «Non riuscite a vedere che non sono un mago sputaincantesimi? Non siete migliore di questi stregoni crudeli che governano Athalantar?» Fece ondeggiare la spada verso le fiamme che lo circondavano. «Oppure tutti coloro che esercitano la magia sono tanto presi dal loro potere che diventano tiranni, che si divertono a mutilare, distruggere e incutere paura tra la gente onesta?»

«Non stai con loro?», domandò l’Alchimista, indicando con la mano i corpi silenziosamente sospesi attorno a lui.

«Con loro?», sbottò El. «Io li combatto ogniqualvolta ne ho l’occasione… e spero un giorno di riuscire a distruggerli tutti, affinché gli uomini possano vivere nuovamente liberi e felici nel regno di Athalantar!» Il suo volto si contorse per un pensiero improvviso. «Parlo come un menestrello, vero?», aggiunse con più calma.

L’Alchimista lo osservò pensieroso. «Pensi bene, ragazzo», affermò tranquillamente, «se sopravvivi ai pericoli che comporta parlare in tal modo». Un sorriso improvviso gli illuminò il volto, ed Elminster non poté non ricambiarlo.

Nascosti alla vista di entrambi, un paio di occhi apparvero in un turbinio di puntini luminosi, tra le fiamme che guizzavano intorno alla carcassa rovesciata del tavolo del banchetto. Guardarono il ragazzo e il mago fluttuante, e si fecero pensierosi.

«Potete realmente vedere ciò che gli uomini sono e pensano?», chiese Elminster, pronunciando goffamente la domanda.

«No», rispose l’Alchimista semplicemente. I suoi vecchi occhi castani si fissarono in quelli grigio-azzurri, impassibili, del giovane, mentre il muro di fiamme scoppiettanti si spegneva senza lasciare traccia.

El diede un’occhiata per vedere che cosa fosse accaduto, ma non accennò ad alcun movimento di fuga. In piedi sul pavimento cosparso di frantumi di roccia e di macchie di sangue, volse nuovamente lo sguardo al vecchio mago. «Avete intenzione di farmi esplodere o di lasciarmi andare?»

«Non ho alcun interesse nel distruggere gli individui onesti – tanto meno nell’immischiarmi negli affari di chi non ha nulla a che fare con la magia. Vedo che hai uno sguardo da mago, ragazzo… perché non ti dedichi alla stregoneria?»

Elminster gli lanciò un’occhiata cupa e, con voce sprezzante, sbottò: «Quelle cose non mi interessano, non voglio diventare come quelli che esercitano la magia. Ogni volta che guardo i maghi, vedo serpenti che utilizzano i loro incantesimi per spaventare il popolo – come una frusta che costringe all’obbedienza. Uomini senza cuore, arroganti, che possono togliere la vita», guardò con durezza la distruzione tutt’intorno a lui, al che, gli occhi che osservavano dalle fiamme si abbassarono per non essere notati, «o distruggere una sala in un momento, senza curarsi di ciò che fanno, solo per soddisfare i loro capricci. Lasciatemi fuori da queste storie, signore».

Poi, guardando il volto calmo del vecchio, El fu colto da un’improvvisa paura. Le sue parole erano state forti, e l’Alchimista, dopotutto, era un mago come gli altri. I suoi occhi miti, tuttavia, sembrarono… approvare?

«Coloro che non amano il potere diventano i maghi migliori», rispose l’Alchimista. Poi i suoi occhi sembrarono penetrare profondamente nell’anima del ragazzo, alla ricerca di qualche cosa, e, con una nota di tristezza nella voce, aggiunse, «e coloro che vivono rubando, quasi sempre finiscono per derubare se stessi della vita».

«Rubare non mi arreca alcun piacere», ribatté El. «Lo faccio per mangiare e per combattere i maghi ogniqualvolta mi si presenta l’occasione».

Il vecchio annuì. «È per questo che dovresti ascoltarmi», esclamò. «Altrimenti non avrei sprecato il fiato».

Elminster lo guardò pensieroso, poi si irrigidì all’udire il rumore improvviso e minaccioso di passi rapidi e pesanti echeggiare nel corridoio. Poteva trattarsi di un’unica cosa: soldati di Athalantar.

«Mettetevi in salvo!» sbraitò, senza soffermarsi a pensare quanto fosse ridicolo mettere in guardia l’arcimago più potente al mondo, e si precipitò verso il passaggio a volta più vicino, che non risuonasse di passi.

Gli mancavano pochi passi per raggiungere il corridoio, quando uomini con alabarde e balestre irruppero nella sala, e il mercante ansimante che li guidava puntò un dito verso il mago fluttuante e gridò: «Laggiù!»

Nel tempo in cui la raffica di dardi e le fiamme evocate frettolosamente squarciarono l’aria improvvisamente vuota, sia il ragazzo in fuga sia gli occhi tra le fiamme, che lambivano ciò che rimaneva del tavolo di Havilyn, una volta maestoso, erano scomparsi. Un attimo dopo, i cadaveri fluttuanti si schiantarono sul pavimento di pietra con tonfi sordi, pesanti. I soldati impalliditi indietreggiarono, invocando a gran voce Tempus, affinché li proteggesse, e Tyche, perché li aiutasse.

Elminster imboccò una porta che usciva dalla cucina, ma si trovò in una dispensa senza uscita, allora ritornò freneticamente sui suoi passi e prese l’altra porta, più piccola, pregando silenziosamente Tyche che non si trattasse di un altro vicolo cieco, quando improvvisamente udì la voce furiosa di Havilyn gridare: «Trovate quel ragazzo! Non fa parte della mia servitù!»

Imprecando ad alta voce, Elminster aprì la porta. Sì, proprio da lì erano fuggiti i cuochi terrorizzati. Fece le scale a due gradini per volta finché, su un pianerottolo, numerose alabarde caddero una sopra l’altra davanti a lui, facendo scintille. Soldati rabbiosi tentarono di liberarle dalla ringhiera delle scale e di puntarle verso il basso, ma El aveva già visto un terzo soldato sbarrargli il passaggio soprastante con una balestra carica. Si voltò, scese le scale con un solo balzo, atterrò duramente sulle anche ed entrò rapidamente in una nicchia puzzolente.

Un secondo più tardi, un dardo di balestra sfiorò il muro vicino e andò a finire nelle cucine. Seguì una seconda freccia, che si conficcò nella gola del soldato più avanzato che correva su per le scale.

Elminster non perse tempo a guardare l’uomo gorgogliare e cadere, e scrutò intorno a sé, nella nicchia scura, alla ricerca della porta del retrocucina. Eccola! La spalancò con uno strattone e scivolò nella stanza fetida, in mezzo a un labirinto di assi inclinate, sulle quali veniva lavata la carne, e di secchi pieni di frattaglie, nella speranza che la casa fosse abbastanza vecchia da avere… !

El afferrò il batacchio e sollevò la botola del pozzo dei rifiuti. Poteva udire le acque del Run scorrere nell’oscurità sotto di lui, mentre si calava di piedi per raggiungerle.

Il tuffo fu più alto di quanto non aveva pensato, e l’acqua era gelida. Toccò per un attimo, con i talloni, un fondo lurido, dopodiché iniziò a dimenarsi per risalire in superficie.

Cercando di ignorare i grumi viscidi che galleggiavano con lui nell’oscurità dell’acqua, riemerse ansimando, giusto in tempo per udire un dardo colpire la botola da qualche parte sopra e dietro di lui, seguito dal grido, «le fogne! È sceso di sotto!»

Elminster nuotò nel fiume impetuoso, cercando di non fare rumore. Conoscendo l’avidità dei soldati, temeva che si sarebbero lanciati dietro di lui, o quantomeno, che avrebbero cercato di colpirlo illuminando il tunnel con le torce. Il gelo dell’acqua si insinuò nel suo corpo mentre la corrente lo trasportava lontano.

Finalmente, dopo lungo tempo, l’opportunità di riordinare le idee. Il Mago Reale e almeno tre stregoni erano stati spazzati via in una sola notte, ma la mano di Elminster non aveva preso parte alla loro distruzione. Era rimasto con un pugno di mosche, e non aveva sottratto né un boccone di cibo, né una moneta per ripagare i suoi sforzi.

«Elminster ti ringrazia, Tyche», mormorò nell’oscurità impetuosa. Era riuscito a mantenere la calma in quella stanza di morte, e pensava che ciò fosse una cosa… una cosa che nemmeno i maghi potenti erano riusciti a fare! La prudenza soppresse il grido d’esultanza che improvvisamente gli salì dal profondo, ma fu sufficiente a riscaldarlo, mentre la corrente lo trascinava fuori dall’oscurità, nella debole luce serale, sotto le banchine del porto. Voltò la testa per guardare il profilo scuro delle guglie di Athalgard e abbozzò un sorriso di sfida.

La calda emozione durò finché non uscì dall’acqua e si arrampicò su una banchina in disuso, per poi incamminarsi, intirizzito e gocciolante, verso casa. Se fosse stato Farl, avrebbe riconosciuto gli uomini morti in quella stanza, per poi rubare indisturbato, quella stessa notte, le ricchezze che essi non avrebbero più reclamato, prima che parenti o altri avvoltoi apprendessero dell’assenza degli uomini o del bottino.

«Ma io non sono Farl», esclamò El rivolto alla notte, «e neanche un ladro poi tanto in gamba; piuttosto sono un buon corridore».

A dimostrazione di ciò, superò il soldato che proprio in quel momento voltava l’angolo, alabarda in pugno. La guardia, con un grido di sorpresa, riconobbe il giovane con cui, poco prima, si era quasi scontrato su una scala della casa di Havilyn. L’inseguimento portò i due in una strada ventosa, costeggiata dalle mura dei giardini dei ricchi. Mentre correvano sotto gli alberi sporgenti, un’ombra scura si lasciò penzolare da uno di essi e colpì il soldato in pieno volto con un ciottolo.

L’uomo cadde a terra con uno sferragliamento, e Farl scese agilmente dall’albero chiamando: «Eladar!»

Elminster si voltò alla fine della strada e guardò indietro. Il suo amico se ne stava con le mani sui fianchi e scuoteva il capo.

«Non posso lasciarti solo una sera, vedo», esclamò Farl mentre l’altro giovane si avvicinava col fiato grosso.

Quando lo raggiunse, l’amico era inginocchiato accanto alla guardia, e la stava abilmente perquisendo alla ricerca di portamonete, pugnali, medaglioni e altri oggetti interessanti. «È accaduto qualche cosa di importante», affermò Farl senza alzare lo sguardo. «Havilyn è entrato correndo, senza fiato, e ha detto qualche cosa a Fentarn – e tutti noi siamo stati invitati a uscire dalla casa, scortati dalle guardie – mentre loro sono usciti correndo per recarsi in qualche luogo – correndo, El… non sapevo che mercanti ricchi e potenti ricordassero come si corre…»

«Io ero là quando è accaduta quella cosa importante», esclamò Elminster pacatamente. «È per questo che mi stavano inseguendo».

Farl alzò lo sguardo, gli occhi scintillanti. «Racconta», fu tutto ciò che disse.

«Più tardi», rispose El. «Lascia che ti descriva prima i morti, e una volta che avrai dato loro un nome potremo visitare le loro case».

Farl abbozzò un ghigno crudele. «Penso che faremo proprio come dici, o principe dei ladri». In preda all’eccitazione e nello sforzo di sollevare il corpo del soldato, non notò che Elminster si era irrigidito all’udire la parola «principe».

«Ci siamo allontanati a sufficienza», esclamò Farl con soddisfazione quando furono a distanza di sicurezza dal negozio coperto di assi dov’era nascosto il bottino. «Ora andiamo da qualche parte dove possiamo parlare e non essere visti».

«Di nuovo al cimitero?»

«Va bene… se prima ci assicuriamo che non ci siano amanti».

Così fecero, e lì Elminster raccontò l’accaduto a Farl. L’amico scosse il capo alla descrizione che El fece dell’Alchimista. «Pensavo fosse solo una leggenda», protestò.

«No», rispose l’altro semplicemente, «incuteva timore… ah, ma era magnifico, il modo con cui evitava i loro migliori incantesimi, e la calma con cui giudicava e puniva. Il potere

Farl gli lanciò un’occhiata furtiva. Elminster stava fissando la luna con occhi scintillanti. «Avere un giorno tutto quel potere», mormorò, «e non dover più fuggire dalle guardie!»

«Credevo odiassi i maghi».

«Sì, sì… certamente, quelli malvagi, perlomeno. Ma c’è qualcosa nel modo con cui fanno gli incantesimi, che…»

«Affascina, vero? L’ho provato anch’io». Farl annuì al chiaro di luna. «Ti passerà una volta che avrai provato a maneggiare una bacchetta magica o a ripetere un incantesimo senza che accada mai nulla. Imparerai ad ammirare a distanza e a tenerti lontano, se non vuoi essere ammazzato in un istante. Maledetti maghi». Sbadigliò. «Bene, è ora di andare a dormire… cerchiamoci un riparo sotto Selûne, oppure ci troveranno addormentati da qualche parte quando farà giorno».

«Qui?»

«No, almeno due dei morti hanno le tombe di famiglia proprio qui, e che accadrebbe se i servitori mandati a pulirle fossero tanto paurosi da chiedere una scorta di guardie? No, dobbiamo trovare un altro luogo».

A El venne un’idea improvvisa e sogghignò. «Da Hannibur?»

Farl ricambiò il ghigno. «Il suo russare sveglierebbe un cadavere».

«Esattamente». Risero e si affrettarono per le strade e i viottoli bui della città, evitando le guardie in subbuglio, che si aggiravano senza meta nella notte, alla ricerca di un giovane vestito di nero e di un vecchio mago volante, che nel loro intimo speravano di non trovare.

Mentre la luce soffusa che annuncia l’alba avvolgeva lentamente il fiume e Hastarl, El e Farl si sistemarono sul tetto di Hannibur, domandosi il motivo di tanto silenzio. «Che ne è stato del suo russare?», mormorò Elminster, e l’amico rispose con un’alzata di spalle.

Poi udirono il rumore lieve, segno che il fornaio aveva aperto lo spioncino della porta sul retro. Entrambi alzarono le sopracciglia e si sporsero per guardare lungo la strada, giusto in tempo per vedere Shandathe Llaerin, detta «l’Ombra» per il suo fare silenzioso, forse la donna più bella di tutta Hastarl, incedere leggiadra verso la porta secondaria dell’abitazione di Hannibur. Poi la udirono sussurrare, «Sono qui finalmente, amore».

«Finalmente», brontolò il panettiere mentre apriva guardingo la porta. «Pensavo non venissi più. Vieni nel letto a cui appartieni, svelta».

El e Farl si scambiarono occhiate compiaciute, e si strinsero le mani con immensa gioia nell’oscurità della notte. Poi, messa da parte l’idea di dormire, si misero ad ascoltare ciò che accadeva di sotto.

Ma si addormentarono dopo pochi istanti.

Il sole caldo svegliò i due ladri, esausti e sporchi, nella tarda mattinata… e una volta svegli, il profumo del pane appena sfornato, proveniente dalla bottega di Hannibur, impedì loro di riprendere a dormire.

Con lo stomaco brontolante, i due sbirciarono cautamente nella camera di sotto. Poterono solo scorgere il gomito di Shandathe pacificamente addormentata.

«Non è giusto che debba dormire mentre noi non possiamo», si lamentò Farl, sfregandosi gli occhi.

«Lasciala stare», ribatté El. «Sicuramente è un sonno meritato. Andiamo.» Scesero prudentemente lungo i davanzali fragili e le travi trasversali del retro del negozio accanto e si incamminarono ai bagni pubblici, dove trovarono numerose persone in fila.

«A che si deve quest’improvviso amore per la pulizia, buon uomo?», domandò Farl a un venditore di salsicce che conosceva di vista.

Questi si accigliò. «Non avete udito? Il Mago Reale e una decina di altri stregoni sono stati uccisi questa notte! La processione funebre inizia a mezzogiorno».

«Uccisi? Chi avrà mai potuto uccidere il Mago Reale?»

«Ah». Il venditore si protese in modo confidenziale, fingendo di non vedere le altre dieci persone che si assembravano o che si sporgevano dalla fila per ascoltare. «Alcuni dicono che sia stato un mago che dormiva in una tomba dagli anni della caduta di Netheril!»

«No», si intromise una donna vicina, «È stato…»

«Altri», continuò l’uomo, alzando la voce per sovrastarla, «affermano che era un povero disgraziato che avevano catturato e stavano per mangiare, vivo, così dicono, per qualche incantesimo malvagio, ma quando si sono seduti al tavolo, lui si è trasformato in un drago e li ha bruciati tutti! C’è poi chi dice sia stato uno di quegli orribili mostri dalla pelle rossa o con un occhio enorme, o quant’altro di peggio!»

«No, no», ripeté la donna, «niente di tutto ciò…»

«Io però penso», la interruppe il venditore di salsicce, scansandola con un gomito e alzando nuovamente la voce, tanto che si udì l’eco dal muro di pietra al di là della via, «penso che la prima storia che ho udito sia quella vera: la loro malvagità è stata punita dalla visita di Mystra in persona

«Sì! È ciò che volevo dire! È proprio quello che è accaduto, ve lo assicuro!» Ora la donna saltellava su e giù per l’eccitazione, e il petto le ballonzolava di qua e di là come una barca in porto mossa dal vento. «Il Mago Reale pensava di conoscere un incantesimo che l’avrebbe fatta inginocchiare ai suoi piedi, in modo da poter usare il suo potere per distruggere tutti i maghi, esclusi i nostri, e conquistare tutte le terre da qui al Grande Mare oltre Elembar! Ma si sbagliava, e lei…»

«Lei li ha trasformati tutti in cinghiali, ha infilato loro uno spiedo nel didietro, e li ha abbrustoliti nel fuoco della terra!» L’allegra voce apparteneva a un uomo che si trovava lì accanto e che puzzava di pesce.

«Noo! Ho sentito che ha staccato le loro teste… e le ha mangiate!», esclamò fieramente un’anziana donna, come se gliel’avesse detto Re Belaur in persona.

«Ah, finiscila. Perché l’avrebbe fatto, sentiamo?» L’uomo che le stava accanto le schiacciò forte il piede.

Questa sobbalzò per il dolore, poi, agitandogli un dito sotto il naso esclamò, «staremo a vedere, signor Io-so-tutto! Aspetta e vedrai: se avranno teste di legno quando sfileranno davanti a noi, o se saranno coperte da lenzuola funebri, allora ho ragione io! E Berdeece Hettir ha sempre ragione, lo sanno tutti qui ad Hastarl! Vedrai!»

Farl ed Elminster si stavano scambiando occhiate divertite, ma sentito ciò il primo sorrise ed esclamò, cambiando voce in modo che suonasse rauca e distante: «Suppongo che non scommettereste dei soldi, eh?»

In un attimo, la via si trasformò in un manicomio di gente urlante, dal volto paonazzo, che alzava le dita per indicare la propria puntata.

«Aspettate un attimo, aspettate un attimo», gridò El e tutti ammutolirono: Eladar il Tenebroso non parlava mai. «Mi addolora vedervi scommettere in questo modo», continuò, guardandosi intorno con aria seria, «perché dopo nascono le discussioni e la gente diventa furiosa con chi non paga. Pertanto, se dovete scommettere – sapete che io non sperpero i miei soldi – scriverò le vostre puntate, e sistemeremo tutto dopo».

Vi fu un gran parlare… e alla fine tutti furono d’accordo. Elminster strappò la manica dalla sua camicia sudicia, si fece dare un po’ d’inchiostro dallo scrivano ambulante, in cambio di una penna che aveva rubato da una finestra una decina di giorni addietro, e che ancora teneva nello stivale, e si mise al lavoro, incidendo le somme con un ago dalla punta dura.

Nella calca, nessuno si accorse che Farl raccoglieva le puntate più alte, rimanendo sempre dalla parte di chi scommetteva per le teste mozzate. Elminster, nel frattempo, si era diretto verso l’inizio della fila, scivolò all’interno del bagno per continuare a ricevere puntate, appese la manica scarabocchiata a un chiodo alto, e si tuffò di testa e completamente vestito nel vecchio mastello per la pigiatura dell’uva, che fungeva da vasca. L’acqua era già grigia di sudiciume, ed El ne uscì altrettanto rapidamente, inseguito dal proprietario furioso. Corsero attorno alla pompa del risciacquo mentre Farl azionava la manovella, bagnando entrambi con acqua un po’ più pulita, al che Elminster lanciò quattro pezzi d’argento all’uomo, corse a recuperare la manica delle scommesse e uscì rapidamente.

«Che gli dei ti fulminino! Oggi costa un pezzo d’oro a testa!», abbaiò l’uomo ai due amici.

El si voltò, disgustato, e lanciò una manciata di pezzi d’argento in direzione del proprietario del bagno. «È un ladro peggiore di noi», borbottò a Farl mentre andavano alla ricerca di un posto sicuro dove nascondere la manica. Non c’era da stupirsi che gli abitanti di Hastarl fossero disposti a pagare oro per vedere l’ultimo viaggio del Mago Reale e di un buon numero dei suoi colleghi.

«O migliore», concluse Farl. In tutta la città giravano chiacchiere su ciò che era accaduto; la gente attorno a loro non parlava d’altro e regnava una sorta di atmosfera di festa. El scosse il capo udendo ridere a squarciagola persino le pattuglie di soldati. «È logico che siano felici», spiegò Farl all’amico perplesso. «Non accade tutte le notti che un servizievole giovane ladro – anche se preferisce dare tutto il credito a un mago misterioso che appare convenientemente dal nulla e altrettanto vantaggiosamente scompare – sconfigga l’uomo più odiato e temuto di tutto Athalantar e molti suoi colleghi… senza menzionare un gruppo di uomini a cui molti bottegai di questa città devono un sacco di soldi. Tu, al loro posto, non lo saresti?»

«Sì, ma non hanno pensato alla possibilità che un mago ancora più crudele si faccia avanti per proclamarsi Mago Reale», ribatté Elminster con pessimismo.

Gli ampi viali lungo il percorso della processione funebre si stavano già riempiendo; chi possedeva abiti eleganti (e un bagno proprio per prepararsi a indossarli) spingeva per ottenere i posti migliori, ignaro della marea di vicini, meno gentili e più poveri, che di lì a poco non avrebbero certo badato a chi pensava di esserseli conquistati. In molte processioni simili un gran numero di persone finiva schiacciato sotto le ruote dei carri, spinto dalla calca urlante.

«Stai pensando a quali case in questo grande giorno potrebbero essere vuote, scricchiolanti per il peso delle monete, mentre tutta Hastarl si riversa nelle strade per veder sfilare i cadaveri?» domandò Farl a bassa voce.

«No», rispose El. «Stavo pensando di scambiare il secchio su cui siede il proprietario dei bagni, prendendo quello che sta riempiendo con i soldi in questo momento, e mettendo al suo posto un secchio pieno di…»

«Letame?», Farl sogghignò. «Troppo rischioso, e poi metà della gente in fila ci vedrebbe».

«Pensi che non sappiano come ci guadagniamo da vivere, Farl? Nemmeno tu puoi essere tanto idiota!», ribatté Elminster.

Farl si drizzò con l’aria di chi è stato ferito nell’orgoglio. «Non si tratta di questo, perdinci… è che abbiamo una reputazione da difendere. Certo, forse tutti sanno che rubiamo, ma nessuno dovrebbe mai vederci mentre lo facciamo. Dovrebbe essere magico, capisci? Come quei maghi che stimi tanto».

El gli lanciò un’occhiata. «Mettiamoci all’opera», esclamò, e andarono a prepararsi per la giornata di lavoro.

In cima alla lista delle case da saccheggiare ve n’era una particolare; si affrettarono perciò a raggiungerla, vestiti con uniformi che servivano a nascondere i sacchi attaccati alla schiena e alla pancia e numerosi pugnali.

Scavalcarono il muro sul retro e si calarono in un grazioso giardino, lo attraversarono come due ombre affamate, e si arrampicarono sull’edera fino a un balcone. Un servo stava dormendo al sole nella stanza attigua, approfittando dell’assenza del padrone di casa.

«È troppo facile», esclamò Farl mentre salivano di corsa le scale verso una porta indorata. Infilò il pugnale nel leone intagliato nel mezzo e attese che i dardi scoccassero a vuoto lungo le scale. «Ma questi idioti non si accorgono che le botteghe che vendono loro trappole per ladri sono gestite dai ladri stessi?»

Affondò la lama in uno degli occhi di vetro del leone, e questo uscì dall’orbita rimanendo appeso all’estremità di un nastro di tessuto. Trovato il filo d’acciaio nell’apertura dietro l’occhio, Farl lo tagliò e spalancò la porta. El guardò le scale alle sue spalle, ma la casa era silenziosa.

La camera da letto era un tripudio di tappezzerie, cuscini e divani rossi e rosa carico. «Mi sembra di essere all’interno di uno stomaco», esclamò Farl mentre attraversavano quel mare rosso.

«O di nuotare in una ferita aperta», ribatté Elminster, avvicinandosi a un portagioielli d’argento.

Non vi aveva ancora posato la mano sopra, che un dardo sfrecciò oltre le sue dita. Farl si voltò, pugnale in mano… e si trovò faccia a faccia con due donne e un uomo che stavano entrando rapidamente da una finestra. Erano tutti vestiti di nero e portavano un sigillo sul petto: una luna e un pugnale incrociati.

«Questo bottino appartiene ai Moonclaw», affermò una delle donne con tono inflessibile e sguardo minaccioso.

«Ah, no», ribatté Farl con disgusto, scagliando il pugnale.

La sua lama volteggiò nell’aria per infilzarsi nella mano di una delle donne, pronta a lanciare un dardo. Questa emise un grido e cadde in ginocchio sul pavimento.

Elminster lanciò un pugnale colpendo volutamente il volto dell’uomo con l’impugnatura, gli lanciò un cuscino e poi venne colto da una rabbia improvvisa. Fece un balzo in avanti e gli sferrò un calcio nelle budella, tanto forte che gli salì un lamento dalla gola quando il piede colpì l’armatura, ma l’uomo che vi stava dentro finì gridando fuori dalla finestra e cadde nel giardino sottostante, agitando inutilmente una garrotta nelle mani.

«Così rumorosi… così poco professionali», mormorò Farl, afferrando il cofanetto. La donna ferita stava fuggendo verso la corda con la quale era entrata, singhiozzando per il dolore e spargendo sangue sui tappeti già rossi. «Ehi, quello è uno dei miei pugnali migliori!» si lamentò il ragazzo, mentre l’altra donna si lanciava su di lui, scagliando un pugnale e agitandone un secondo.

Farl si chinò e sollevò il cofanetto; la lama lo colpì, schizzò verso il soffitto e si conficcò tremolante in un asse del tetto. La donna tentò di raggiungere il portagioielli e di sfregiargli il volto, ma Farl le girò semplicemente intorno, tenendo lo scrigno fra loro, con la testa abbassata fuori tiro, mentre la respingeva con un’estremità della cassetta. La donna scivolò sul tappeto, e fu allora che Farl la colpì duramente sulla testa. Cadde a terra con un tonfo sordo, ed Elminster depose delicatamente la sua compagna sopra di lei, restituendo a Farl il suo pugnale.

Farl ne esaminò la punta insanguinata e la pulì sulla donna. «Morta?»

Elminster scosse il capo. «Dorme, è troppo malconcia per difendersi». Si inginocchiarono entrambi sul portagioie gemmato, agguantando frettolosamente gli oggetti, finché Farl non esclamò, «Basta! Usiamo la loro corda… svignamocela».

Si soffermarono a verificare la tenuta del rampino, e si calarono frettolosamente, Farl per primo. L’altro complice era disteso nell’erba privo di sensi, e un servo sbalordito lo stava osservando. Vedendo la corda ondeggiare, alzò lo sguardo. Poi si mise a urlare e corse via, e dalla finestra i due ladri udirono un grido arrabbiato.

«Che gli dei siano dannati! Speriamo non abbiano balestre!», ringhiò Farl, lasciandosi scivolare lungo la fune, incurante delle mani che bruciavano.

Poi, improvvisamente, il rampino si staccò e precipitarono. Si udirono un tonfo e un lamento quando Farl atterrò. El si irrigidì al pensiero che presto sarebbe caduto addosso al compagno, ma l’amico si era già scansato, perciò tentò di rilassarsi mentre l’erba si avvicinava sempre più rapidamente.

L’atterraggio fu duro. Si alzò, e trasalì; il piede destro gli doleva e accanto a lui giaceva l’uomo a cui aveva sferrato il calcio, la bocca aperta e il volto bianco. Fu colto da una sensazione di nausea, ma mentre si alzava, vide che la mano dell’uomo si muoveva lievemente, come per afferrare un davanzale che non c’era. Elminster e Farl attraversarono di corsa il giardino e scavalcarono rapidamente il muro. Atterrarono sulla strada e si misero a camminare con noncuranza verso l’incrocio più vicino, quando un dardo sorvolò basso il muro e andò a colpire l’alto cancello di legno della casa di fronte a loro.

Farl alzò lo sguardo. «Caspitina, un arciere provetto! Filiamocela!»

Fu così che i due se la batterono poco dignitosamente a gambe levate, e raggiunsero ansimanti la bottega sbarrata con assi per alleggerirsi del bottino e dei vestiti. Poi Farl si batté una mano sulla fronte. «Sono sempre in tanti, devono aver appostato qualcuno!», sibilò. Quindi si voltò e iniziò a correre per dove erano venuti, facendo cenno a El di continuare lungo la strada.

Elminster riprese a fuggire, senza però mettersi a correre, guardandosi di tanto in tanto attorno con circospezione. Aveva già oltrepassato due vie quando Farl saltò giù da un tetto vicino, col fiato grosso, ed esclamò, «Bene… sbarazziamoci della merce e compriamoci qualche panino caldo col burro da Hannibur! Ci siamo meritati un banchetto pomeridiano!»

«E la sentinella?»

«Le ho lanciato un pugnale e l’ho mancata per un soffio… ma si è tanto spaventata che è caduta di schiena dal tetto… e si è spaccata la testa sul bordo di un carro sottostante. Non potrà mai più spiare nessuno». El rabbrividì.

Farl scosse il capo e si incupì. «Non ti avevo avvertito? Hastarl non è più come una volta!»

6. Squallore nel mondo dei ladri

Esiste una città peggiore di quella in cui i ladri dominano le strade notturne: quella in cui i ladri governano giorno e notte.

Urkitbaeran di Calimport, Il libro delle maree nere.

Anno dei Crani Fracassati

Le migliori sete del Calishite compivano di rado il lungo e pericoloso viaggio lungo la costa del Grande Mare, infestata dai pirati e sferzata dalle tempeste, in numero tale da non venire acquistate tutte a Elembar, Uthtower, e Yarlith e da proseguire, sempre sulle chiatte a pertica, fino a Delimbiyr. E ancora più raro era che i mercanti che possedevano tali chiatte si fermassero nella minuscola e provinciale città di Hastarl, dove la stoffa tessuta in casa era l’indumento preferito e un bel fodero di spada era più ammirato di un giustacuore finemente cucito. Non accadeva poi quasi mai che i tessuti del Tashtan, lucenti, ornati di porpora e smeraldi, confezionati nelle città favolose del Seebreeze, nel sud, accompagnassero le sete. La gente si accalcò numerosa sulle banchine. Alcuni mercanti grassi e impettiti non si disturbarono nemmeno a risalire le strade fino alle botteghe, alte e strette, dei maestri sarti, ma vendettero tutta la merce al porto.

Farl ed Elminster decisero saggiamente di non toccare neanche un filo di quel primo carico favoloso. Ne seguì un secondo, ma rinunciarono anche a quello, e guardarono da lontano uno sfortunato artista del furto, della banda dei Moonclaw, mentre veniva sorpreso a rubare le sete, veniva scorticato e appeso alle mura della città.

I maestri sarti non avevano alcuna corporazione, in quanto i maghi non le approvavano. Tuttavia, si riunirono a discutere seriamente del problema davanti a un bicchiere di vino e a un arrosto di cinghiale, alla Driade Danzante, la casa dei banchetti, e giunsero a un accordo di mutuo vantaggio. Una fanciulla che li serviva a tavola e collezionava un po’ troppi pizzicotti per i suoi gusti, riferì a Farl ed Elminster (in cambio di quattro monete d’oro) ciò che era stato deciso. «Soldi spesi bene», giudicò Farl, mentre El rimase zitto come d’abitudine.

Dunque, quella notte senza luna li vide sul tetto di un magazzino sovrastante una banchina, in attesa di udire lo scricchiolio di remi e di intravedere lo scintillio furtivo delle lanterne accese, che avrebbe segnalato ai maestri sarti l’arrivo della spedizione privata, che includeva (così si mormorava) vestiti d’oro e bottoni d’ambra.

Era una notte fresca e ariosa, annunciatrice dell’autunno e di un altro inverno freddo e umido, ma, avvolti nel loro mantello nero, i due non ebbero tempo di avvertire il freddo perché intravidero ben presto il bagliore delle lanterne sull’acqua scura sottostante.

I ladri attesero pazienti in silenzio che le loro vittime caricassero servizievolmente i carri, quattro in tutto, stracarichi di merce, poi si calarono silenziosamente dal loro nascondiglio, evitando le guardie che si muovevano pesantemente intorno ad essi. Fu questione di un attimo: gettarono una pietra nel mucchio di pannelli di metallo arrugginito, accatastati nel vicolo dietro il negozio del pasticcere, e, mentre le teste e le spade si volgevano in quella direzione, si arrampicarono nel quarto carro, dall’altra parte della strada. Poco dopo avrebbero avuto bisogno di un altro diversivo per coprire la loro fuga.

Erano passati pochi istanti quando udirono un’imprecazione allarmata a pochi passi dal carro, il nitrito di un cavallo ferito e il rumore stridulo dell’acciaio. «Concorrenza?» sussurrò El all’orecchio dell’amico, e Farl annuì.

«Il nostro diversivo», mormorò, «fornitoci dai Moonclaw, senza dubbio. Aspetta un attimo… quel cavallo significa che hanno almeno un arco. Lasciamo che la battaglia entri nel vivo prima di uscire allo scoperto».

La lotta imperversò e i due compagni si affrettarono a scegliere e riporre il loro bottino. Una volta terminato, sfoderarono i pugnali e tagliarono il saliscendi della porta posteriore del carro per sbirciare cautamente fuori, nella notte.

Una faccia con una spada pronta accanto al carro li stava osservando. Farl balzò in alto per evitare il colpo, atterrò con entrambi i piedi sulla lama, e saltò sul braccio dello spadaccino, affondando il pugnale nel suo volto, prima che l’uomo avesse il tempo di gridare.

Mentre El saltava sui ciottoli accanto a loro, barcollando sotto il peso del bottino, Farl estrasse il pugnale e lo scagliò nel buio, che sembrava brulicare di uomini in fuga e di spade sguainate. Colpì il sopracciglio di una guardia, la quale imprecò, si portò una mano alla testa sanguinante e si mise a correre.

Farl raccolse la lunga spada abbandonata dalla prima vittima e sussurrò: «Coraggio, andiamocene da qui!»

Si diressero a destra, verso una delle strade laterali, abitate da gente troppo rispettabile per vivere in baracche, ma non sufficientemente ricca per avere case circondate da mura. Sfrecciavano pugnali in ogni direzione, ma tra i Moonclaw non vi erano lanciatori abili. Sembrava che le guardie fossero incapaci, codarde, o corrotte: la battaglia era già finita. Tutti gli individui vivi che occupavano ora la strada erano Moonclaw.

Farl ed El non sprecarono il fiato a imprecare. Iniziarono a spostarsi rapidamente da una parte all’altra per scoraggiare l’arciere e si lanciarono ansimanti lungo la strada. Il sibilo atteso di una freccia in cerca di bersaglio giunse alle loro orecchie, accompagnato da un’imprecazione a breve distanza dietro ai due. La freccia stranamente li oltrepassò, Farl corrugò la fronte e guardò indietro. Un membro della banda, che li aveva inseguiti, inciampò mentre si massaggiava una spalla.

«Oseranno… riprovarci?», chiese El ansimando. «Con… la loro gente…»

«Credo di sì», rispose a fatica Farl. «Continua a zigzagare!»

La seconda freccia arrivò mentre, con la testa abbassata, stavano per raggiungere la fine della strada e svoltare in una laterale. Il sibilo si fece più forte, ed entrambi si gettarono a terra, sui ciottoli. La freccia passò bassa sopra di loro, e si spezzò contro le baracche dall’altra parte della strada, proprio mentre una pattuglia di soldati, con le alabarde alzate, sbucava dalla via. Il capitano cercò di scrutare nel buio le due figure distese davanti a lui e ordinò: «Portate qui quella lampada! Sta succedendo qualcosa! Sguainate le sp…»

I Moonclaw avevano, a quanto pare, un secondo arciere. Il suo dardo colpì il bersaglio con un tonfo, e il capitano gorgogliò, si girò, e cadde a terra, strangolato dalla lunga freccia scura che gli trapassava la gola.

Farl ed El balzarono in piedi, mentre le guardie sorprese stavano ancora armeggiando per abbassare le alabarde, e corsero oltre la pattuglia, facendo lo sgambetto all’unica che tentò di bloccar loro la strada.

Il soldato cadde a terra, e Farl si arrampicò su una scala di legno esterna di una bottega, seguito a breve distanza da El. I due raggiunsero il tetto con un semplice balzo, ma questo era scivoloso a causa delle pozzanghere d’acqua piovana: Quello successivo, grazie al cielo, era fatto di paglia, quindi si nascosero nella parte più distante e ripresero fiato.

Si guardarono nell’oscurità, esausti. «Non ci resta altro», esclamò Farl tra un respiro e l’altro, «che formare una nostra banda».

«Che Tyche ci assista», mormorò Elminster.

Farl lo guardò. «Non intendi piuttosto Maschera, il Dio dei ladri?»

«No», rispose El. «Pregavo affinché questa “banda” non ponga termine alla nostra amicizia… o alla nostra vita».

Farl rimase a lungo in silenzio. Poi Elminster lo udì mormorare: «Oh, Lady Tyche, ascoltami…».

«Ah, Naneetha! Quelle mani vellutate…» Farl stava ridendo, ma d’un tratto divenne serio. «Ecco! Ci chiameremo “Mani di Velluto”!»

La piccola stanza risuonò di mormorii e di risate. Era polverosa e maleodorante dopo aver ospitato per decenni pesce salato, ma il proprietario del magazzino era morto, e grazie ai due carri sgangherati che avevano accostato all’imbocco della via, le pattuglie non si sarebbero avvicinate a sufficienza per udirli. La stanza ospitava più di una decina di individui, che tenendosi a cauta distanza tra loro, le armi in pugno, si scrutavano attentamente.

Farl li guardò e sospirò. «So che l’idea non piace a nessuno… ma sapete tutti che se non ci uniamo verremo uccisi, oppure dovremo lasciare Hastarl per tentare la fortuna altrove… in luoghi sconosciuti, dove saremo considerati stranieri sospetti e troveremo bande di ladri locali pronte ad affondare i loro coltelli nelle nostre carni».

«Perché non ci uniamo ai Moonclaw?», esclamò Klaern con voce stridula. Era uno dei fratelli Blaenbar, che stavano seduti vicino a una finestra in modo da poter fare segnali in caso di necessità.

«A che condizioni?», chiese ragionevolmente. «Ogni volta che io o Eladar ci siamo imbattuti in loro, hanno tentato di accoltellarci prima ancora che scambiassimo una sola parola. Senz’altro non si fiderebbero di noi e ci sacrificherebbero senza problemi».

«E c’è di più», si intromise Elminster, attirando su di sé gli sguardi sbalorditi di tutti i presenti. «Mi sono chiesto da dove vengano tutte quelle pelli e i distintivi che portano. Sono costosi, e li hanno indossati fin dall’inizio, prima ancora di raggranellare due soldi. Per non parlare delle armi di buona qualità. Tutto ciò non vi fa pensare a nulla? Non si tratterà di un corpo di guardie privato? Di un esercito che attacca i ladri di Hastarl – noi – ogniqualvolta li incontrano? Sembra opera di qualcuno al servizio di un mago, o del re, o di qualcuno ricco e importante. Quale modo migliore per ripulire la città dai ladri e organizzare “incidenti” per noi, i rivali, se non quello di sguinzagliare per le strade la propria banda?»

Ora tutti annuivano pensosamente. «Questo», esclamò la vecchia e grassa Chaslarla, grattandosi, «spiega la confusione che hanno causato. E anche perché alcune guardie sembrano voltarsi dall’altra parte quando i Moonclaw agiscono: si attengono probabilmente agli ordini».

«Sì», affermò il giovane Rhegaer, mentre giocherellava pigramente con un piccolo coltello, abbarbicato su una botte più alta di lui. Come sempre, era sporchissimo… ma lo era anche la botte, e un individuo che avesse sbirciato nella stanza non l’avrebbe certamente notato, se non fosse stato per lo scintillio della lama.

«Penso che stiate dicendo un sacco di fesserie», sbottò Klaern, «e ne ho abbastanza. Siete un branco di idioti se ascoltate questi due sognatori. Che cos’hanno oltre alla lingua sciolta?» Uscì dal suo angolo per scrutare la stanza, e come un’onda silenziosa i suoi fratelli si precipitarono dietro di lui, formando un muro di carne, solido e minaccioso. «Se ci dev’essere una banda per competere con i Moonclaw, allora io ne sarò a capo. Le “Mani di velluto”! Mentre questi due giovanotti profumati si pavoneggiano e si vantano, io e i miei fratelli vi renderemo ricchi… garantito».

«Oh?», una voce molto profonda risuonò da un angolo scuro. «E in che modo, Blaenbar, ci indurrai a fidarci di voi? Dopo avervi visti fare i prepotenti e i gradassi per le vie della città nelle ultime tre estati, tutto ciò che so di voi è che è saggio non voltarvi le spalle, per non ritrovarsi un coltello affilato nella schiena».

Klaern sogghignò. «Jhardin, tutti ad Hastarl sanno che sei forte come un bue, ma chiunque ti batterebbe in una gara d’astuzia. Che cosa sai di pianificazione, o…»

«Più di qualcosa», grugnì Jhardin. «Dalle mie parti “pianificazione” significa sempre che qualche furbo ha intenzione di ingannarmi».

«Perché non te ne torni a casa, allora?»

«Basta, Klaern», sbottò Farl con sdegno. «È certo che nessuno di noi si può fidare di te. Meglio che te ne vai».

L’uomo dalla criniera rossa si voltò verso di lui. «Hai paura di perdere il controllo di questa piccola banda di Zoccoli di Cavallo, eh? Bene, vediamo un po’… chi è dalla tua parte, qui?»

Elminster fece un silenzioso passo avanti.

«Sì, sì, sappiamo che il tuo amichetto sta con te… e fa anche tutto ciò che gli chiedi».

Mentre Blaenbar si abbandonava a una risata volgare, Jhardin avanzò pesantemente, lo sguardo duro. Rhegaer balzò leggiadramente giù dalla sua botte, e anche Chaslarla fece un passo avanti respirando affannosamente.

Klaern si guardò intorno. «Tassabra?»

La snella figura immersa nell’ombra avanzò lievemente ed esclamò con voce bassa, musicale: «Mi dispiace, Klaern. Anch’io sto dalla parte di Farl».

«Che gli dei vi maledicano, siete degli stupidi!» Klaern sputò sul pavimento, si voltò, e si incamminò impettito verso l’uscita, mentre i suoi fratelli taciturni, Korlar e Othkyn, indietreggiavano guardinghi per proteggere il suo passaggio.

«Pensavo che fosse il tuo amante», mormorò un altro uomo dall’oscurità.

«Stai attento, Larrin!» La voce di Tassabra era irritata. «Quel cinghiale in calore il mio amante? No, era soltanto un giocattolo».

Jhardin guardò Farl, il quale annuì. L’uomo enorme uscì dalla stanza, muovendosi silenziosamente, con una leggiadria sorprendente. Forse gli rimaneva meno tempo da vivere di quanto credesse. Farl fece un passo avanti. «Siamo tutti d’accordo, allora? Le Mani di Velluto iniziano questa sera stessa?»

«Sì», rispose con voce rauca Tarth, che aveva un occhio solo. «Io eseguirò i tuoi ordini».

«Anch’io», esclamò Chaslarla, muovendosi pesantemente, «a patto che non ti trasformi in un capo senza scrupoli, che si crede il vero padrone della città e ci manda in giro ad accoltellare guardie e maghi per tutta la notte».

Vi fu un mormorio di consenso generale. Farl sorrise e si inchinò. «Allora siamo d’accordo. Come primo lavoro insieme, usciamo di qui con le armi pronte, nel caso i Moonclaw ci attendano con le balestre, o abbiano informato una pattuglia su quando e dove aspettarci».

«Posso essere il primo a versare sangue?», domandò Rhegaer impazientemente.

Dietro di lui, si udì la risata sommessa di Tassabra. «Fa’ che il sangue non sia il tuo», esclamò in risposta. L’oscurità nascose lo sguardo che il giovane le lanciò… ma tutti poterono percepirlo, e ridacchiando scesero insieme le scale.

Tutti ad Hastarl sapevano che, quella stessa notte, le nobili famiglie di Athalantar, i Glarmeir e i Trumpettower si erano unite in matrimonio. Peeryst Trumpettower aveva indossato un cappello con lunghe piume e una giubba ricamata d’oro, confezionati apposta per l’occasione, una calzamaglia dal taglio svasato ed eleganti scarpe con la punta arrotolata. Con una spada leggera del padre assicurata alla cintura, sfilò insieme alla sua signora davanti ai templi di Sune, di Lathander, di Helm e di Tyche, prima di completare il rito sotto la spada di Tyr.

Il padre della sposa aveva donato alla coppia felice una statua raffigurante il Cervo di Athalantar impennato, scolpita in un unico enorme diamante, che valeva più di due o tre grandi castelli messi insieme, e aveva, del resto, un peso non indifferente, come ebbe modo di constatare il servo che la portò in giro tutto il giorno su un vassoio munito di cupola di vetro. Sotto pesante scorta, quel dono molto funzionale era stato installato nella camera nuziale, ai piedi del letto, dove, come affermò maliziosamente il vecchio Darrigo Trumpettower, «sarebbe stato in una posizione adatta da contemplare!»

Nanue Glarmeir aveva sfoggiato una meravigliosa tunica color blu cielo, confezionata dagli elfi del lontano Shantel Othreier; sua madre aveva orgogliosamente annunciato che era costata mille pezzi d’oro. Ora giaceva spiegazzata sul pavimento come il resto del «materiale da imballaggio» – come lo aveva definito Peeryst, in preda all’eccitazione – mentre la coppia di sposi novelli si apprestava a brindare con buon vino frizzante e si voltava verso la finestra per sollevare i bicchieri a Selûne, affinché potesse arridere al loro futuro. Il primo raggio di luce pallida era già penetrato dalla finestra e illuminava la statua del cervo, rampante e guardingo sul tavolo ai piedi del letto.

Né lo sposo né la sposa notarono le mani guantate che da sotto il letto si impadronirono svelte delle spille gemmate, che Nanue si era appena tolta facendo ricadere la sua chioma folta sulla schiena elegante (per il piacere mozzafiato di Peeryst). Entrambi, tuttavia, notarono invece l’improvvisa apparizione di un paio di stivali che coprirono la luna e mandarono in frantumi il vetro fine della grande finestra ad arco, seguiti dal loro proprietario: una donna con abiti di pelle nera attillati, un distintivo sul petto e una maschera nera che le copriva gli occhi.

L’aggraziata intrusa sorrise loro dolcemente, estrasse da uno stivale un pugnale dalla lama sottile come un ago, e si avvicinò al cervo. Nel mezzo di tutta quell’eccitazione, nessuno dei tre udì un sospiro esasperato provenire da sotto il letto.

«Urlate anche solo una volta», li avvertì sottovoce, «e assaggerete questa lama».

Prendendo spunto dall’idea, Nanue si mise a gridare, una sola volta. Un urlo lacerante. Frammenti di vetro caddero dal telaio della finestra con un acciottolio tintinnante.

La donna divenne scura in volto e corse attraverso la stanza, il pugnale pronto a colpire. Apparentemente da solo, uno sgabello accanto al letto si levò dal pavimento per colpirla in viso; la donna vacillò, perse l’arma, e cadde pesantemente di lato in un armadio, che lentamente e solennemente le si rovesciò addosso.

Nanue e Peeryst colsero coraggiosamente l’occasione e gridarono all’unisono.

Dabbasso, impellicciati e ingioiellati, i membri più anziani di entrambe le famiglie udirono il fracasso e le urla. Sorrisero maliziosamente e alzarono gli occhi al soffitto, poi brindarono alla salute degli sposi.

«Ah, sì», esclamò Darrigo Trumpettower, mentre lanciava un’occhiata birichina, attraverso il bicchiere, a una fanciulla Glarmeir, che aveva quasi la metà dei suoi anni, e allontanava i suoi baffi ispidi dal bicchiere di vino con uno sbuffo esperto. «Ricordo bene la mia notte di nozze… la prima, almeno; ero sobrio quella volta. Eravamo nell’Anno della Luna Mostruosa, mi ricordo che…»

Una figura scura sbucò da sotto il letto, attraversò furtivamente la stanza e si tuffò dietro l’agrippina sulla quale poco prima Peeryst aveva lanciato con abilità gli stivali. L’intruso fu al sicuro prima che altri due ladri in abiti di pelle rompessero le finestre rimanenti, i cui frammenti si aggiunsero a quelli già presenti sui tappeti di pelliccia folta. Peeryst e Nanue si abbracciarono stretti, ignorando la propria nudità, e mugolarono di paura, aggrappandosi l’una alla schiena dell’altro nel tentativo frenetico di scomparire… ovunque fosse stato possibile!

I due nuovi arrivati indossavano la stessa maschera, le stesse pelli attillate e lo stesso distintivo della prima intrusa. Uno era una donna, l’altro un uomo, ed entrambi stavano scrutando con aria feroce la stanza.

«Dov’è andata a finire?»

«Sssh, Minter… sveglierai tutti».

«Non chiamarmi per nome, maledetta la tua linguaccia!»

Estrassero pugnali dagli stivali e si avvicinarono alla coppia terrorizzata sul letto, che urlava e cercava nascondiglio tra le lenzuola di seta bordate di pelo.

«Zitti, dannazione!», Minter tentò di afferrare un piede, ma invano, riuscì solo a bloccare una caviglia e tirò forte. Peeryst si aggrappò disperatamente alle lenzuola e le tolse di dosso alla moglie, che si inginocchiò sul letto e strillò di nuovo, in modo penetrante. Nella stanza, una statuetta di vetro andò in frantumi, facendo retrarre improvvisamente la mano inguantata che stava per afferrarla da dietro il divano.

Peeryst Trumpettower venne trascinato giù dal letto e ritrovandosi sdraiato ai piedi di Minter, iniziò a mormorare parole confuse, terrorizzato.

Minter gli fu subito addosso, pensando brevemente a quanto fossero ridicoli gli altri uomini nudi, e ringhiò: «Dov’è andata?» Poi passò il coltello sotto al naso dell’uomo per sortire un effetto maggiore.

«C… chi?», strillò Peeryst.

Minter indicò con l’arma la compagna Isparla, che, come un turbine, stava raccogliendo cofanetti gemmati e biancheria di seta dal pavimento e dai tavoli circostanti, e stava gettando il tutto su uno dei lenzuoli finiti sul pavimento. Mentre la guardavano, agguantò il cervo, borbottò sorpresa dal peso della statua, perse l’equilibrio, scivolò sul tappeto e cadde sui gomiti sopra il cumulo di bottino. Gemette di dolore e, nel frattempo lasciò andare il cervo che si rovesciò su un lato, proprio sulla sua mano. Urlò nuovamente, questa volta più forte.

«Un’altra come lei che è entrata prima di noi!», grugnì Minter, indicando la collega.

«S… sotto l’armadio», ansimò Peeryst, puntando il dito verso l’armadio. «Le è caduto addosso».

Minter si voltò e vide un rigagnolo di sangue scuro che fuoriusciva da sotto l’armadio, grande come una carrozza e forse altrettanto pesante. L’uomo rabbrividì. E continuò a farlo mentre cadeva sul pavimento, colpito alla testa con una bottiglia di profumo da una figura sbucata da sotto il letto.

Isparla si alzò in piedi, vide la sagoma con la bottiglia rotta in pugno ed esclamò con aria sprezzante: «Velluto! Ancora voi!», poi lanciò il pugnale. La figura lo scansò tuffandosi dietro il letto, e il pugnale sfrecciò innocuamente attraverso la stanza. Poi si udì uno starnuto titanico.

Nanue urlò di nuovo, e la donna in nero le assestò un manrovescio sul volto, mentre tentava di raggiungere l’inafferrabile autore dello starnuto. Nella fretta, inciampò nel cervo e si mise a saltellare e a lamentarsi per il dolore. La statua si rovesciò sull’altro lato e da essa si staccò una scheggia di diamante.

L’individuo misterioso, riparato dietro il letto, stava rannicchiato in preda a starnuti incontrollabili, ma riuscì a lanciare la bottiglia di profumo rotta in faccia alla donna Moonclaw, che lo aveva quasi raggiunto nel suo nascondiglio. Isparla indietreggiò appoggiandosi al letto e Nanue la colpì forte sulla schiena.

La donna mascherata si voltò bruscamente, mostrò i denti, poi si protese, e, a quel punto, la sua faccia sbatté forte contro il vaso da notte di ottone che Peeryst, con mani tremanti, aveva appena sollevato.

Isparla collassò silenziosamente sul letto. Nanue, inginocchiandosi accanto a lei, vide del sangue fuoriuscire dalla bocca della donna e riversarsi sulle lenzuola di seta, al che pensò bene di gridare ancora.

Peeryst vide ciò che aveva fatto e, terrorizzato, lasciò cadere il vaso, che emise un rumore secco quando colpì il cervo e poi un rumore metallico sordo, quando rotolò sul pavimento fino ad arrestarsi. Poi fuggì attraverso la stanza, piagnucolando. Una figura scura sbucò da dietro l’agrippina e si affrettò a intercettarlo.

Peeryst era a pochi passi dalla porta, dietro la quale sarebbe stato in salvo, quando la figura misteriosa gli fu addosso. Cozzarono insieme contro la porta, che si aprì di colpo per l’impatto, e venne subito richiusa dai loro corpi in caduta.

Al piano sottostante, le due famiglie riunite udirono il fracasso, sollevarono le sopracciglia e fecero un altro brindisi.

«Bene», esclamò allegramente Janatha Glarmeir, guardandosi intorno e arrossendo graziosamente, «sembra proprio che… vadano d’accordo, vero?»

«Pare di sì», acconsentì Darrigo Trumpettower con una risata fragorosa, facendole l’occhiolino. «Ricordo che la mia seconda moglie era uguale…»

Elminster si sollevò da sopra la sagoma incosciente del giovane, chiuse la porta col chiavistello e si affrettò a raggiungere Farl che, con gli occhi ancora lacrimanti per il profumo, si stava allontanando vacillante dal letto.

«Dobbiamo andarcene», mormorò, scuotendo Farl per le spalle.

«Dannati Moonclaw», borbottò l’amico. «Arraffa qualcosa per non vanificare questo trambusto».

«Già fatto», rispose El, «e ora filiamocela

L’ultima parola si trasformò in un grido eccitato, quando una nuova coppia di ladri in abiti di pelle entrarono oscillando dalla finestra, appesi ad altre corde di seta.

Atterrarono e si misero a correre con i coltelli in pugno. Elminster afferrò un tavolino di vetro, spargendo statuine in tutte le direzioni, e lo lanciò con forza.

Il suo bersaglio si chinò, e il tavolo finì senza danno fuori dalla finestra, proprio mentre una delle statuette gli cadeva pesantemente sul piede.

El si mise a saltellare e a mugugnare dolorante. Uno dei nuovi intrusi gli si avvicinò brandendo una lama luccicante, mentre l’altro si tuffò per afferrare la donna nuda che strillava sul letto.

Il tavolo cadde nel buio e andò in mille pezzi quando raggiunse il suolo. Alcune schegge tintinnarono sulle finestre della sala da ballo e del salotto. I membri più anziani delle due famiglie, impellicciati e ingioiellati, si voltarono all’udire il rumore e si guardarono con aria interrogativa.

«Non staranno litigando, non è vero?», domandò ansiosamente Janatha Glarmeir, facendosi aria per nascondere le sue guance brucianti. «Certo sembrano fare sul serio».

«No», ruggì Darrigo Trumpettower, «è solo… ciò che chiamano… oh, sì, “preliminari”; sai, il divertimento che precede… una stanza grande per rincorrersi…» Sospirò, con lo sguardo rivolto al soffitto, che improvvisamente venne scosso da un altro colpo, gettando una nuvola di polvere nella stanza sottostante. «Vorrei essere più giovane e mi piacerebbe che Peeryst domandasse aiuto…»

Prontamente si udì un grido debole e tremolante: «Aiuto!»

«Bene», esclamò Darrigo compiaciuto, «e non dite che il ragazzo non assomiglia a quel brigante del suo vecchio zio! Dove sono le scale? Spero di ricordarmi come si fa, dopo tutti questi anni…»

Elminster indietreggiò, trasalendo. L’uomo fece un affondo verso di lui, con la lama scintillante, e poi borbottò sorpreso quando Farl si avvinghiò intorno alla sua gamba. Il ladro cadde come un albero abbattuto, e Farl lo accoltellò alla gola prima che toccasse il pavimento. La statua del cervo, incrinata e un po’ più piccola di prima, schizzò via da sotto il corpo dell’uomo.

Elminster vide ciò che l’amico aveva appena fatto, si voltò e riversò la sua cena su un tappeto di pelliccia tinto di blu, proveniente dal Calimshan.

«Bene, eviteremo di portare con noi quel tappeto», esclamò allegramente Farl, mentre si precipitava dall’altra parte della stanza, dove l’ultima donna Moonclaw stava lottando con la sposa singhiozzante. Proprio in quel momento, la ladra riuscì a mettere le mani sul viso e sulla gola di Nanue, e alzò lo sguardo.

Farl non rallentò, e assestò un pugno sulla maschera della donna, mentre la oltrepassava.

Non aveva nemmeno raggiunto il tappeto che il giovane era già balzato fuori dalla finestra, e una corda ondeggiante scorreva sibilante nelle sue mani guantate, mentre scivolava giù in tutta fretta.

Elminster afferrò un piccolo portagioie da aggiungere alle spille che aveva riposto negli stivali, lo infilò nella camicia per avere le mani libere e seguì Farl. Gridando, Nanue corse dalla parte opposta, verso la porta, davanti alla quale il marito giaceva privo di sensi.

Elminster inciampò nel cervo, imprecò, e raggiunse la finestra rotolando. La statua sgusciò via sulle piastrelle scivolose, non più coperte dai tappeti, stropicciati durante la lotta, e carambolò contro una parete, scagliando schegge di diamante dappertutto.

El si fermò contro il davanzale, invisibile al Moonclaw che entrò oscillando grandiosamente dalla finestra e posò un piede proprio sul principe dei ladri. Immediatamente puntò gli occhi sulla statua, brillante nel chiaro di luna.

«Aha! Il riscatto di un re… mio!», esclamò il ladro, lanciando un pugnale alla donna nuda che stava fuggendo verso la porta. L’arma andò a sbattere contro uno specchio verticale, che roteò sui perni, si inclinò e cadde addosso a Nanue. La ragazza urlò e balzò disperatamente indietro, scivolando impotente sui tappeti. Lo specchio cadde accanto a lei e si frantumò, spargendo schegge sulle piastrelle; Nanue si rotolò alla cieca per terra per evitarle, e rovesciò un tavolino ornamentale stracarico di boccette di profumo. La puzza che emanarono fu incredibile, tanto che persino il ladro, che stava per impadronirsi di ciò che rimaneva del cervo, indietreggiò.

Quell’improvviso movimento lo fece scivolare su un frammento della statua, e così cadde pesantemente sul pavimento, urtando un ritratto appeso alla parete. Roaruld Trumpettower – ritratto con un bicchiere di sangue nella mano alzata e un uccello morto, con le ali flosce, nell’altra – si schiantò con un fragore che scosse la stanza, rimbalzò in avanti e piombò addosso al ladro. Il cervo rotolò nuovamente, mentre si faceva sempre più piccolo.

Nanue singhiozzò per l’odore nauseabondo, mentre si rotolava tra le schegge di vetro e il profumo versato; era inzuppata di una cinquantina di oli segreti e di creme colorate, e le piastrelle erano tanto scivolose che non riusciva a rimettersi in piedi. Alla fine, tra lacrime di frustrazione – e di nausea – si trascinò verso il tappeto più vicino, quello da poco decorato da Elminster. Disgustata, si avviò in direzione di un altro tappeto, in preda a un altro scoppio di lacrime.

Elminster scosse il capo incredulo osservando lo stato di devastazione della stanza, afferrò la corda e si calò nella notte. Dietro di lui si udì un rumore tremendo, quando una mano guantata, con un coltello in pugno, sfondò il cuore di Roaruld Trumpettower, facendo un buco nella tela dell’immenso ritratto, da cui poco dopo emerse il Moonclaw mascherato. Questi scrutò avidamente la stanza in cerca del… eccolo là!

Il cervo giaceva in un limpido fascio di luce lunare, accanto al letto, segnato ormai da numerose incrinature. Il ladro si affrettò a raggiungerlo. «Finalmente mio!»

«No», rispose una voce fredda proveniente dalla finestra. «Quello è mio

Il nuovo intruso lanciò un pugnale, che mancò il bersaglio e andò a conficcarsi vibrando in una scultura a muro in legno.

Il primo ladro sogghignò mentre afferrava la statua, poi, rendendosi conto che l’altro Moonclaw non poteva vedere la sua espressione sotto la maschera, fece un gesto volgare con il cervo. Il secondo ladro ringhiò di rabbia e scagliò un secondo coltello. Questo sfrecciò attraverso la stanza e passò a un palmo dal naso di Nanue. La sposa cambiò nuovamente direzione, gattonò sulle piastrelle e cercò rifugio dietro il divano.

Il ladro con la statua si avviò verso la finestra. «Sta’ indietro!», minacciò agitando il pugnale.

L’altro raccolse uno dei cofanetti di gemme e lo lanciò con tranquillità sulla testa del rivale. L’oggetto colpì il bersaglio, si aprì, e una pioggia di pietre preziose ricadde sul pavimento. Il ladro si accasciò e lasciò andare la statua, che volò verso la finestra.

«No!» Il secondo ladro si precipitò disperatamente dietro di essa, scivolando sulle gemme che ancora rimbalzavano. Allungò le mani il più possibile… e il fiero cervo toccò proprio la punta delle sue dita protese.

L’uomo si avvinghiò disperatamente a esso e scivolò sul pavimento a causa dell’impeto della sua corsa. «Ah! Preso! Mio adorato! Oh, mio adorato cervo!»

Ma le gemme sotto le suole degli stivali lo fecero sbattere duramente contro il basso davanzale della finestra; il ladro tentò inutilmente di riacquistare l’equilibrio, ruzzolò, e con un grido cadde nel buio della notte.

Nanue lo vide scomparire, rabbrividì, e si alzò cautamente in piedi, dirigendosi ancora una volta verso la porta. Doveva assolutamente uscire…

Ma ecco entrare dalla finestra un’altra coppia di ladri in veste nera. «Oh, maledizione!» piagnucolò Nanue, mettendosi a correre verso la porta.

I due osservarono la distruzione e la carneficina e imprecarono orribilmente. Uno di loro fece qualche passo, sollevò la donna mascherata dal letto, se la caricò in spalla e tornò verso la finestra. L’altro si precipitò dietro a Nanue pensando a un possibile riscatto.

La ragazza gridò, e iniziò a scivolare sui tappeti, cercando di non sbattere contro la porta nella fretta e di non cadere sul corpo ricurvo di Peeryst, quando qualcosa di pesante colpì la porta dall’esterno. Il chiavistello girò e si inceppò, e Nanue scivolò impotente contro il muro. Imprecazioni violente echeggiarono nel corridoio, poi la porta fu scossa da un altro colpo tonante. Nanue si spostò di lato, urlando contro il ladro che tentava di afferrarle le gambe recalcitranti.

In quel momento la porta venne divelta e scaraventata verso l’interno della stanza, e il ladro fu scagliato lontano, sui tappeti di pelliccia. Questi però si rialzò in piedi ed estrasse due pugnali scintillanti, con cui minacciò la donna nuda, avanzando minacciosamente. Nanue strillò nuovamente.

Darrigo Trumpettower osservò sbalordito la stanza da letto semidistrutta. Ai suoi piedi giaceva il nipote e, accanto a lui, la sposa terrorizzata si stava trascinando, urlante, verso di lui.

Il vecchio risollevò lo sguardo, i baffoni irti. Un intruso in pelli nere si stava lanciando contro di lui, un pugnale lucente in entrambe le mani. Non vi fu nemmeno il tempo di lanciare un’occhiata a Nanue, la quale – non poté fare a meno di notare – sembrava proprio una moglie graziosa. Fissò nuovamente il ladro e fece un respiro profondo. Era tempo di difendere l’onore dei Trumpettower!

Con un ruggito, il vecchio si lanciò all’interno della stanza. Il ladro sollevò i pugnali per colpire, e Darrigo si lasciò colpire a un braccio senza esitare, poi sferrò un pugno violento alla mandibola dell’intruso. Sempre ruggendo, afferrò l’uomo per la gola prima ancora che cadesse sul pavimento, lo sollevò come faceva con i tacchini e lo trascinò attraverso la stanza, perdendo sangue dalla ferita.

Andò diritto alla finestra frantumata, sollevò il ladro e lo scaraventò nel vuoto buio. Attese di udire il tonfo, annuì soddisfatto, e si preparò ad affrontare un altro ladro.

Nanue decise allora che poteva svenire. Mentre anche il secondo ladro volava nella notte, la sposa confusa si accasciò dolcemente sul petto di Peeryst, e di più non seppe…

Il mattino seguente, in tutta la città si sparse la voce di come il vecchio e spavaldo guerriero Darrigo Trumpettower avesse lottato con una decina di ladri nella stanza nuziale del nipote, mentre la coppia consumava indisturbata la sua unione, e di come lui avesse scaraventato i Moonclaw in uniforme uno per uno dalla finestra, nel giardino di casa.

Farl ed El inarcarono le sopracciglia e brindarono alla notizia. «Sembra che uno di loro abbia preso Isparla e se la sia svignata», affermò Farl, sorseggiando la sua birra densa.

«Quanti ne rimangono?», domandò Elminster con tranquillità.

L’amico si strinse nelle spalle. «Chi lo sa? Solo gli dei e i Moonclaw. Ma hanno perso Waera, Minter, Annathe, Obaerig, di sicuro, e probabilmente anche Irtil. Diciamo che noi siamo molti di più, in particolare dopo la scorsa notte, anche se abbiamo raccolto un bottino limitato».

«Una delle spille si è anche rotta», gli ricordò Elminster.

«Sì, ma abbiamo entrambi i pezzi, non va male», ribatté Farl. «Ora, se noi…»

Si interruppe, corrugò la fronte, e piegò la testa per ascoltare un sussurro concitato dal tavolo vicino, lasciando la mano sul braccio di El per chiedergli di stare zitto. Elminster, che in verità non stava parlando, continuò a rimanere in silenzio.

«Sì, magica! Indubbiamente nascosta dal Re Uthgrael, anni orsono!», stava dicendo un uomo proteso verso l’amico onde evitare di essere udito. «In una stanza segreta, da qualche parte nel castello, dicono!»

Farl ed Elminster si protesero per udire meglio. Un attimo dopo, non ve ne fu più bisogno: un menestrello irruppe nel locale, si recò al tavolo più vicino, e iniziò a cantare la storia con la sua giovane voce squillante ed eccitata.

In verità, si trattava di una leggenda che i menestrelli continuavano a riproporre: in un castello era stato trovato uno scrigno di magiche pietre loun, nascosto probabilmente da Re Uthgrael (o per suo ordine). I maghi non riescono a trovare un accordo per nominare il loro custode e per stabilire il modo con cui usarle. Per decreto del Re Belaur stesso, tali pietre – che brillano e si muovono autonomamente nell’aria, emettendo talora flebili arpeggi – sono esposte, sotto custodia di funzionari e di capi delle guardie di Athalgard, in una sala delle udienze, alla quale nessun mago si potrà avvicinare finché non verrà presa una decisione. Quando lasciarono la taverna, l’allegro menestrello stava declamando sonoramente che lui stesso aveva veduto le pietre, e che tutto ciò era vero!

Farl sorrise: «Sai che è nostro dovere prendere quelle pietre».

Elminster scosse il capo. «Non ti chiameresti Farl, Signore delle Mani di Velluto, se voltassi loro le spalle», rispose seccamente.

Farl ridacchiò.

«Questa volta», esclamò El con fermezza, «dovresti aspettare, lasciare che siano i Moonclaw a far scattare la trappola: ed entrare solamente se trovi un modo sicuro per farlo».

«Trappola?»

«Non senti puzza di maghi in questa storia stupenda? Io sì».

Dopo un attimo, Farl annuì. I loro occhi si incontrarono.

«Perché hai parlato al singolare?», chiese Farl tranquillamente.

«Io ho chiuso con i furti», affermò El lentamente. «Se deciderai di inseguire le pietre magiche, lo farai da solo. Io lascerò Hastarl dopo aver fatto un’ultima cosa».

Farl rimase impietrito, e il suo sguardo si rabbuiò. «Perché?»

«Rubare e uccidere danneggia solo individui contro i quali non ho nulla, ma non i maghi, purtroppo. Hai visto la statua del cervo; mani avide hanno preso ciò che è prezioso e l’hanno rovinato, rotto e reso inutile. Ho imparato tutto ciò che la strada poteva insegnarmi e ne ho abbastanza». Elminster fissò gli occhi stupiti di Farl e aggiunse: «Il tempo passa… e le cose che non ho fatto mi stanno divorando. Devo andarmene».

«Sapevo che stava per accadere», ammise Farl, diventando rosso in volto. «Ti facevi troppi scrupoli. Ma “quest’ultima cosa” che devi fare… non sarà un tradimento, vero?»

Elminster scosse la testa e parlò lentamente e deliberatamente. «Non ho mai avuto un amico più vicino e più sincero di te, Farl, figlio di Hawklyn».

Improvvisamente le loro braccia si strinsero in un abbraccio. Piansero e si diedero vicendevolmente pacche sulla schiena e sulle spalle, in mezzo alla via.

Dopo un momento, Farl esclamò: «Ah, El… che cosa devo fare con te?»

«Mettiti con Tassabra», rispose Elminster, e con occhi scintillanti aggiunse: «A lei potrai mostrare la tua stima in un modo più appagante».

Si allontanarono di un passo l’uno dall’altro… e poi, lentamente, sogghignarono.

«Allora ci separiamo», esclamò Farl, scuotendo il capo. «Metà della nostra ricchezza è tua».

El alzò le spalle. «Prenderò solo ciò che mi occorre per il viaggio».

Farl sospirò. «Io continuerò a rubare… e tu a uccidere i maghi».

«Forse», sussurrò Elminster, «se gli dei mi assisteranno».

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