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Per un ufficiale non è sufficiente essere un uomo capace […] Egli dev’essere un gentiluomo di educazione liberale, modi raffinati, ineccepibile cortesia e dotato del più puro senso personale dell’onore […] Nessun atto meritorio dei subordinati sfuggirà alla sua attenzione, anche se lo ricompenserà con una semplice parola di approvazione. D’altro canto, non dovrà mai chiudere un occhio su alcuna colpa dei subordinati.

E per quanto possano esser veri i principi politici per i quali oggi ci battiamo […] le navi dovranno essere comandate con il più assoluto dispotismo.

Confido di avervi chiarito le nostre gravissime responsabilità […] Dobbiamo fare del nostro meglio con quello che abbiamo.

JOHN PAUL JONES

14 settembre 1775

Estratti da una lettera al Comitato degli insorti dell’Accademia navale


La Rodger Young stava di nuovo tornando alla base per sostituire il materiale mancante: capsule e uomini. Al Jenkins si era conquistato una bella fossa mentre ci copriva le spalle durante un recupero che era costato la vita anche a Padre Migliaccio. Inoltre, anch’io dovevo venire rimpiazzato. Sfoggiavo galloni da sergente nuovi di zecca (come successore di Migliaccio), ma avevo il sospetto che appena sbarcati dall’astronave, quei galloni, perlopiù onorari, li avrebbe avuti Ace. Gelatina mi aveva promosso per infondermi una sensazione di sicurezza mentre aspettavo di iniziare il corso ufficiali.

Ma anche così io ne ero orgoglioso. Al campo d’atterraggio militare uscii dal cancello a testa alta dirigendomi verso l’ufficio per vistare il permesso. Mentre l’impiegato di servizio controllava le mie carte una voce alle mie spalle disse in tono rispettoso: — Scusate, sergente, quella lancia appena atterrata proviene per caso dalla Rodger?

Mi voltai per vedere chi era, notai i galloni sulla manica, registrai che si trattava di un caporale, basso di statura e largo di spalle, senza dubbio uno dei nostri…

— Papà!

Poi il caporale mi strinse fra le braccia. — Juan! Juan! Il mio piccolo Johnnie!

Lo baciai, lo abbracciai e mi misi a piangere. Forse l’impiegato civile alla scrivania dell’ufficio permessi non aveva mai visto due soldati baciarsi. Be’, se mi fossi accorto che storceva il naso, gli avrei impartito una sonora lezione. Ma non mi accorsi proprio di niente: avevo altro a cui pensare. L’impiegato dovette richiamarmi perché stavo dimenticando i documenti.

Intanto ci eravamo soffiati il naso e avevamo finito di dare spettacolo. Dissi: — Papà, cerchiamoci un angolo tranquillo per fare due chiacchiere. Voglio sapere… be’, tutto! — Sospirai profondamente. — Ti credevo morto, papà.

— Ci sono andato vicino un paio di volte, ma me la sono cavata. Però, ragazzo mio… sergente… devo assolutamente informarmi se quella è la mia lancia. Sai…

— Ah, quella. Sì, viene dalla Rodger Young. Ne sono appena…

Parve deluso. — Ma allora devo scattare, subito. Devo presentarmi a bordo. — Poi aggiunse, preoccupato: — Tu tornerai a bordo presto, vero, Juanito? O stai andando in licenza?

— No… — Cercai di riordinare in fretta le idee. Proprio adesso, dovevamo incontrarci! Adesso che abbandonavo l’astronave. — Senti, papà, conosco le istruzioni di quella lancia. Non potrai salire a bordo prima di un’ora. La lancia abborderà l’astronave solo al primo passaggio in orbita, se non dovrà aspettare il prossimo. Prima deve ultimare il carico.

Non sembrava convinto. — Ho l’ordine di presentarmi subito al pilota della prima lancia disponibile.

— Papà! Non c’è bisogno di prendere gli ordini alla lettera. Alla ragazza che pilota quella baracca non importa un corno se sali a bordo subito, o poco prima della partenza. In ogni modo l’altoparlante trasmetterà il segnale di partenza della lancia dieci minuti prima di salpare. Non la perdi, stai tranquillo.

Si lasciò trascinare in un angolo appartato. Mentre ci sedevamo s’informò: — Prenderai anche tu la mia lancia, Juan, o salirai più tardi?

— Ecco… — Mostrai a mio padre le carte che avevo con me: mi parve il modo più semplice di comunicargli la notizia. Navi che scompaiono nella notte, come tante Evangeline, perdiana, che modo di sistemare le cose!

Dopo aver letto i documenti, a mio padre spuntarono le lacrime agli occhi. Mi affrettai a rassicurarlo: — Sai, papà, la mia intenzione è di tornare… non vorrei appartenere a nessun’altra compagnia che non sia quella dei Rompicollo. E ora che ne fai parte anche tu… Capisco che per te è una delusione, ma…

— Non è una delusione, Juan.

— Davvero?

— È orgoglio. Il mio ragazzo sarà un ufficiale. Il mio piccolo Johnny… Certo, sono anche un po’ deluso. Non vedevo l’ora che arrivasse questo giorno. Ma posso aspettare ancora un po’. — Sorrise attraverso le lacrime. — Sei cresciuto, figliolo. Ti sei fatto un vero uomo.

— Credo di sì. Ma, papà, per adesso non sono ancora un ufficiale, e potrei restare lontano dalla Rodger Young solo per pochi giorni. Sai com’è, certe volte ti sbattono fuori in…

— Piantala, giovanotto!

— Eh?

— Ce la farai. Non parlarmi più di “essere sbattuto fuori” e altre sciocchezze. — All’improvviso sorrise. — Questa è la prima volta che mi prendo la soddisfazione di dire a un sergente di stare zitto.

— Farò del mio meglio, papà. E se ce la faccio, inoltrerò domanda per tornare sulla mia vecchia Rodger Young. Però… — e non seppi continuare.

— Sì, lo so. La tua domanda non significherà niente se per caso decidessero di destinarti altrove. Non importa. Se questa mezz’ora è tutto quello che ci resta per stare insieme, cercheremo di cavarne più che si può… e io sono così orgoglioso di te che non sto più nella pelle. Come ti è andata, Johnny?

— Oh, bene, benissimo. — Stavo pensando che tutto sommato non mi era andata male. Papà si sarebbe trovato meglio tra i Rompicollo che in qualsiasi altra compagnia. Erano tutti amici miei, si sarebbero presi cura di lui, avrebbero fatto il possibile per salvargli la vita. Dovevo inviare un messaggio urgente ad Ace. Papà era capacissimo di non dire a nessuno che era il genitore di un loro commilitone. — Papà, da quanto tempo ti sei arruolato?

— Da poco più di un anno.

— E sei già caporale?

Lui sorrise tristemente. — Di questi tempi si fa presto.

Non avevo bisogno di chiedergli che cosa intendesse dire. Incidenti. I vuoti tra i ranghi aumentavano spaventosamente. Non si faceva in tempo ad addestrare soldati per riempirli. Invece dissi: — Sì, ma papà, tu sei… Voglio dire, non sei un po’ avanti negli anni per essere in fanteria? Forse era meglio la Marina, la Logistica o qualche altra…

— Volevo essere nella Fanteria spaziale mobile e ci sono riuscito — disse con enfasi. — E non sono più vecchio di tanti sergenti, anzi! Figliolo, il semplice fatto di avere ventidue anni più di te non significa che devo girare su una sedia a rotelle. E poi, anche l’età ha i suoi vantaggi.

Non aveva tutti i torti. Ricordavo benissimo che il sergente Zim aveva sempre privilegiato gli anziani quando doveva attribuire i galloni. E papà non avrebbe mai tentato di fare il furbo durante l’addestramento come avevo fatto io. Non aveva certo preso frustate, lui. Probabilmente era stato scelto come caporale prima ancora di terminare l’addestramento. L’Esercito ha bisogno di uomini maturi, specie per i gradi intermedi: è un’organizzazione paternalistica.

Non ebbi bisogno di chiedergli perché aveva preferito la Fanteria spaziale mobile, né come mai fosse finito proprio sulla mia nave. Lo sapevo già, e la cosa mi infondeva un immenso senso di felicità, valeva più di qualsiasi lode. E non c’era nemmeno bisogno di chiedergli come mai si era arruolato: sapevo anche quello.

La morte della mamma… Nessuno dei due ne aveva ancora parlato. Era un argomento troppo penoso.

Cambiai discorso bruscamente. — Raccontami. Dimmi dove sei stato, che cos’hai fatto…

— L’addestramento l’ho fatto al campo Saint Martin.

— Come? Non all’Arthur Currie?

— No, in uno nuovo. Ma è la stessa cosa, mi hanno detto. Solo che il corso è accelerato, dura due mesi di meno e si sgobba anche la domenica. Poi ho chiesto di imbarcarmi sulla Rodger Young. Non l’ho ottenuto subito. Sono andato a finire tra i volontari di McSlattery. Un’ottima compagnia.

— Sì, lo so. — Avevano fama di essere gente decisa, pronta a tutto, quasi come i Rompicollo.

— Dovrei dire che era un’ottima compagnia. Ho fatto molti lanci con loro, alcuni dei ragazzi ci hanno lasciato le penne, e dopo un po’ ho ricevuto questi. — Si guardò i galloni. — Ero caporale quando ci hanno lanciato su Sheol…

— C’eri anche tu? Anch’io! — Provai un’emozione intensa. In vita mia, non mi ero mai sentito tanto vicino a mio padre.

— Lo so. O almeno, sapevo che c’era anche la tua compagnia. Io mi trovavo circa ottanta chilometri più a nord, credo. Toccò a noi respingere il contrattacco quando cominciarono a salire dalle viscere della terra come scarafaggi da un immondezzaio. — Si strinse nelle spalle. — Quando la battaglia fu finita, ero un caporale senza uomini. Eravamo rimasti talmente in pochi che la compagnia si è sciolta. Io sono stato mandato qui. Avrei potuto andare con gli orsi di Kodiak, ma ho detto una parolina al sergente delle assegnazioni… e così, sarei pronto a giurarlo, la Rodger Young è tornata alla base con la richiesta per un caporale. Ed eccomi qua.

— Quando ti sei arruolato? — Mi resi conto, appena dette quelle parole, che avevo toccato un brutto tasto. Ma dovevo allontanare il discorso dall’argomento “volontari di McSlattery”: il reduce di una compagnia dissolta ha bisogno di dimenticare.

— Poco dopo la distruzione di Buenos Aires — rispose lui.

— Capisco.

Rimase in silenzio per alcuni minuti, poi aggiunse sottovoce: — Non sono certo che tu capisca davvero, figliolo.

— Come?

— Non è facile da spiegare. Certo, il fatto di avere perso tua madre ha avuto molta parte in questa decisione. Ma non mi sono arruolato solo per vendicarla. L’ho fatto soprattutto a causa tua…

— Per me?

— Sì, per te, ragazzo mio. Ho sempre capito la tua scelta. Meglio di tua madre. Non biasimarla, ti prego, lei non poteva capire, così come un uccello non può apprezzare il nuoto. Io, invece, intuivo perché ti eri arruolato, anche se mi permetto di dubitare che lo sapessi con chiarezza anche tu, a quell’epoca almeno. Metà della mia rabbia nei tuoi confronti era puro risentimento, perché tu avevi fatto una cosa che anch’io avrei dovuto fare a suo tempo e a cui mi ero sottratto. Ma nemmeno tu sei stato la causa del mio arruolamento. In fondo mi hai semplicemente offerto il pretesto, influenzando casomai indirettamente la scelta dell’arma. — Fece una pausa. — Quando ti sei arruolato, non stavo molto bene. Andavo regolarmente dall’ipnoterapista. Non lo sospettavi, vero? Nel complesso sapevo di essere molto insoddisfatto di me. Quando te ne sei andato me la sono presa con te, ma sapevo che tu non c’entravi per niente, anche il mio terapista era d’accordo. Forse sono stato uno dei primi ad accorgersi che le cose si mettevano male. Ci sono state richieste componenti militari un mese prima che venisse annunciato lo stato d’emergenza. Ci siamo convertiti quasi interamente alla produzione per scopi bellici mentre tu eri ancora al corso di addestramento. E durante quel periodo, mi sono sentito meglio. Lavoravo senza tregua e avevo troppo da fare per consultare il terapista. Poi, mi sono ritrovato più preoccupato che mai. — Sorrise. — Figliolo, ne sai qualcosa dei civili, tu?

— So che non parliamo lo stesso linguaggio. Questo sì.

— Ecco, ben detto. Te la ricordi la signora Ruitman? Finito il corso base, ho avuto alcuni giorni di licenza e sono andato a casa. Ho visto alcuni amici, e tra questi c’era anche lei. Ha chiacchierato un po’, poi mi ha detto: “Allora, davvero vuole partire? Be: se dovesse capitare su Faraway, vada a salutare i miei carissimi amici Regatos”. Io ho cercato di spiegarle, con tutta la delicatezza possibile, che una tale destinazione era decisamente probabile, dato che Faraway era stato occupato dagli aracnidi. Non ha fatto una grinza. Ha detto: “Oh, ma non significa niente, loro sono soltanto dei civili”. — E papà sorrise, con aria cinica.

— Già, ti capisco.

— Ma sto andando troppo avanti. Stavo dicendoti che mi sentivo più che mai sconvolto. La morte di tua madre mi aveva sciolto da tutti i miei impegni. Anche se eravamo stati una coppia molta unita, il fatto di ritrovarmi vedovo mi rendeva libero di fare quello che volevo. E così, affidati gli affari a Morales…

— Il vecchio Morales? Ce la fa ancora?

— Deve farcela. Tanti di noi stanno facendo cose che non credevano affatto di essere in grado di fare. Gli ho ceduto una buona fetta di azioni. Sai com’è, vero, quando si tratta di quattrini… e il resto l’ho diviso in due parti. Metà l’ho regalata alle Figlie della carità, l’altra l’ho depositata in banca per te, per quando vorrai tornare e metterti in affari. Se vorrai. Non ha più tanta importanza, adesso. Ormai ho scoperto che cosa non andava nella mia vita. — S’interruppe, poi aggiunse a voce più bassa: — Dovevo compiere un atto di coraggio. Dovevo dimostrare a me stesso che ero un uomo. Non solamente un animale economico che produce e consuma, ma un uomo vero.

In quel momento, prima che potessi dire qualcosa, gli altoparlanti murali intorno a noi lanciarono il segnale: — Splenda il nome, splenda il nome di Rodger Young! — E una voce di donna aggiunse: — Il personale della Rodger Young prenda posto nella lancia. Ormeggio H. Nove minuti.

Papà scattò in piedi e raccolse il suo zaino. — La mia lancia! Abbi cura di te, figliolo… e passa quegli esami… Altrimenti ti accorgerai che non sei ancora troppo grande per prenderti una sculacciata.

— Farò del mio meglio!

Mi abbracciò in fretta. — Ci vedremo appena sarai di ritorno! — Ed era già scomparso, scattando.


Nell’anticamera dell’ufficio del comandante mi presentai a un sergente che somigliava in modo sorprendente al sergente Ho, braccio mancante compreso. Tuttavia, era privo del suo sorriso cordiale. Dissi: — Il sergente di carriera Juan Rico si presenta al comandante secondo gli ordini ricevuti.

Guardò l’orologio. — La tua lancia è atterrata ventisette minuti fa.

Gli spiegai il motivo del ritardo. Si tirò un labbro e mi guardò con aria pensosa. — Ne ho sentite di giustificazioni — disse — ma questa le supera tutte. Ma davvero tuo padre stava per raggiungere la tua astronave nel momento in cui tu la lasciavi?

— È la pura verità, sergente. Può controllare. Mio padre è il caporale Emilio Rico.

— Non verifichiamo mai le dichiarazioni di un allievo ufficiale. Se in seguito risulta che non ha detto la verità, ci limitiamo a destituirlo. Va bene. Un ragazzo che pur di arrivare in orario non saluta il suo vecchio che parte non vale granché. Non parliamone più.

— Grazie, sergente. Devo andare a rapporto dal comandante, adesso?

— Sei già stato a rapporto. — Fece un segno su un elenco. — Può darsi che tra un mese lui ti mandi a chiamare insieme ad altri dieci o undici. Su questo foglio c’è la stanza a cui sei stato assegnato, e questi sono i tuoi documenti. Puoi toglierti quei galloni. Però conservali, potresti averne bisogno in seguito. Per il momento verrai chiamato signore, non più sergente.

— Sissignore.

— Non chiamarmi signore. D’ora in avanti sarò io a chiamarti così. E forse non ti piacerà.


Non starò a descrivervi la scuola ufficiali. È tale e quale il corso base, e in più ci sono i libri. Al mattino ci comportavamo come soldati semplici, facevamo le stesse cose che avevamo fatto al corso base e in combattimento, prendendoci spaventose lavate di testa dai sergenti.

Nel pomeriggio eravamo cadetti e gentiluomini, e ascoltavamo lezioni e conferenze su un numero incredibile di argomenti: matematica, scienze, galattografia, xenologia, ipnopedia, logistica, strategia, tattica, comunicazioni, leggi militari, toponomastica, armi speciali, psicologia del comando, insomma tutto e poi tutto, da come si cura e si nutre un soldato semplice al perché Serse si trovò nei pasticci. Soprattutto imparavamo l’arte di combattere senza perdere di vista cinquanta uomini, proteggendoli, amandoli, guidandoli, salvandoli, ma guardando bene dal mostrarsi teneri con loro.

Avevamo dei letti, che usavamo troppo poco, camerette, docce e impianti igienici interni. Inoltre, per ogni quattro aspiranti c’era un attendente civile che rifaceva i letti, ripuliva le stanze, lustrava le scarpe, faceva trovare le uniformi stese sul letto e si prodigava per le commissioni. Questo servizio non voleva affatto essere un lusso, e non lo era. Aveva solo lo scopo di concedere a ognuno di noi più tempo per compiere l’impossibile che gli si chiedeva, sollevandolo da quelle incombenze che ogni soldato uscito dal corso di addestramento è già in grado di svolgere alla perfezione. Avrei solo voluto trovarmi tra le mani uno di quei civili convinti che noi viviamo a sbafo per fargli provare un mesetto di corso ufficiali.

Sei giorni lavorerai e farai tutto ciò che potrai,

Il settimo la stessa cosa farai.

Oppure, nella versione della truppa, che finisce così: e la scuderia ripulirai. Ciò mostra da quanti secoli questo genere di cose va avanti. Sì, vorrei proprio poter prendere almeno uno di quei civili che pensano che noi oziamo e fargli frequentare per un mese il corso ufficiali.

Tutte le sere e tutta la domenica studiavamo fino a quando gli occhi ci bruciavano e le orecchie ci dolevano. Poi dormivamo (quando dormivamo) con un ripetitore ipnotico che ronzava sotto il cuscino.

Le canzoni che intonavamo durante le marce rispecchiavano la situazione erano deprimenti: “Non ne voglio sapere dell’Esercito, non ne voglio più sapere!”, “Avrei preferito spingere l’aratro in un qualsiasi momento del passato!”. Oppure: “Non voglio addestrarmi alla guerra, non voglio più!”. E ancora: “Non trasformare mio figlio in un soldato, in lacrime la mamma implora”. Ma il brano preferito in assoluto era il vecchio classico Ufficiali gentiluomini, con il suo coro sulla pecorella smarrita: “Dio ha pietà di quelli come noi!”.

Eppure non ricordo di essermi mai sentito giù di morale. Ero troppo occupato, credo. Qui non c’era più il “nodo psicologico” da superare, come avveniva al corso base, ma imperava l’eterno timore di essere sbattuti fuori. La cosa che più mi teneva in ansia era la mia scarsa preparazione in matematica. Il mio compagno di camera, un coloniale di Hesperus che rispondeva al nome stranamente appropriato di Angelo, stava su notti intere per aiutarmi a studiare.

La maggior parte degli istruttori, specialmente gli ufficiali, erano dei mutilati. Gli unici a possedere braccia, gambe, occhi, orecchie, e via dicendo, erano i sergenti istruttori, e neanche tutti. Colui che ci istruiva nelle operazioni di combattimento, per esempio, sedeva sopra una sedia potenziata, portava un colletto di plastica ed era completamente paralizzato dal collo in giù. Ma la lingua non era paralizzata, gli occhi erano fotografici e il modo feroce in cui sapeva analizzare e criticare quello che vedeva compensava perfettamente i suoi handicap.

Inizialmente mi chiedevo perché quei candidati precoci alla pensione non se ne tornavano una buona volta a casa loro. Poi smisi di pormi simili domande.

Ebbi anche il mio momento di gloria quando venne a trovarci la tenente Ibañez, la bella Carmencita dai grandi occhi neri, pilota in corso d’addestramento sulla corvetta Mannerheim. Incredibilmente disinvolta nella divisa bianca della Marina, leggera come un sottile foglio di cellophane, Carmencita fece la sua comparsa mentre la mia classe era allineata per l’ispezione prima del pasto serale. Passò davanti alla fila dei cadetti, provocando un grande sbattere di palpebre, andò dritta dall’ufficiale di servizio e chiese di me con voce alta e squillante.

L’ufficiale di servizio, il capitano Chandar, del quale si diceva che non avesse mai sorriso nemmeno a sua madre, sorrise alla piccola Carmen, gli si trasfigurò il volto e ammise la mia esistenza. Lei lo ringraziò facendo muovere su e giù le lunghissime ciglia nere, gli spiegò che la sua astronave stava per partire e… chiese se le era possibile portarmi a cena.

Così mi trovai in mano un permesso di tre ore del tutto irregolare e assolutamente privo di precedenti. Forse la Marina aveva sviluppato tecniche ipnotiche la cui conoscenza non era ancora stata estesa all’Esercito. Oppure l’arma segreta di Carmencita era assai più antica e decisamente al di fuori della portata dei fanti spaziali. Comunque fosse, non solo beneficiai di tre ore ineguagliabili, ma il mio prestigio presso i compagni di corso salì a un’altezza vertiginosa.

Fu una serata splendida, che valse senza dubbio le due prove non superate del giorno dopo, rattristata dal fatto che entrambi avevamo saputo che Carl era rimasto ucciso quando i ragni avevano distrutto la nostra stazione di ricerche su Plutone. Ma tutti e due avevamo imparato a sopportare e superare traumi come questi.

Una cosa mi colpì. Mentre stavamo mangiando, Carmen si tolse il berretto bianco: i suoi capelli talmente neri da sembrare blu erano scomparsi. Sapevo che molte ragazze della Marina si tagliavano i capelli a zero (non è pratico dover tenere in ordine una lunga chioma a bordo di una nave da guerra, e in particolare un pilota non può rischiare di avere i capelli che se ne vanno da tutte le parti durante le manovre in caduta libera), così come facevo anch’io, per pulizia e per comodità. Ma l’immagine di Carmencita per me era inscindibile dalla folta cascata di neri capelli ondulati.

Quando ci si è abituati, però, la cosa ha un suo fascino. Voglio dire che se una ragazza è bella continua a esserlo anche con la testa rapata. Inoltre, serve a distinguere una ragazza della Marina dalle pollastrelle civili. Insomma, è una specie di distintivo come i teschi d’oro che indicano i lanci di combattimento. In quel modo Carmencita si distingueva dalle altre, ci guadagnava in dignità e per la prima volta divenni consapevole del fatto che era un ufficiale e un combattente, oltre che una ragazza stupenda.

Tornai al campo con gli occhi pieni di stelle e addosso una leggera traccia di profumo. Carmencita mi aveva salutato con un bacio.


L’unica materia del corso della quale ho intenzione di parlarvi è storia e filosofia morale.

Rimasi sorpreso trovandola elencata tra le altre. È una materia che non ha proprio niente a che fare con la strategia e la tattica. Anche l’interrogativo “Perché si combatte?” era stato già sviscerato da ogni allievo ufficiale molto prima di arrivare al corso. Un fante spaziale mobile combatte perché è un fante spaziale mobile.

Conclusi che quel corso doveva essere una ripetizione per quelli di noi (circa un terzo) che avevano frequentato scuole in cui la materia era obbligatoria. Più del venti per cento dei miei compagni non proveniva dalla Terra. (La percentuale di coloniali che presta il servizio militare è molto più alta di quella dei terrestri, ed è un dato che fa pensare.) Del restante ottanta per cento, alcuni venivano dai territori associati e da altri luoghi dove forse storia e filosofia morale non erano insegnate. Così, mi illudevo che almeno quella materia fosse una passeggiata per il sottoscritto, permettendomi di risparmiare tempo da dedicare a qualcosa di più difficile.

Mi sbagliavo, ovviamente. A differenza di quanto accadeva al liceo, in questo caso bisognava ottenere la promozione. E non bastava solo superare un esame. Il corso comprendeva esami, tesine, quiz. Ma non c’erano voti: bastava il parere dell’insegnante. Se l’insegnante esprimeva un parere negativo, il candidato veniva portato davanti a una commissione incaricata di stabilire non solo se poteva diventare ufficiale, ma addirittura se era degno di fare parte dell’Esercito, a prescindere dall’abilità nel maneggio delle armi. La commissione decideva poi se fargli seguire corsi supplementari o sbatterlo fuori e rimandarlo a casa come civile.

Il corso di storia e filosofia morale funziona come una bomba a scoppio ritardato. Ti svegli nel cuore della notte e pensi: “Che cosa diavolo avrà voluto dire?” (l’insegnante, si capisce). La stessa cosa mi era capitata anche quando frequentavo il corso alle superiori e non avevo idea di che cosa stesse parlando il colonnello Dubois. Da ragazzo, ritenevo insensato che il corso afferisse al Dipartimento di scienza. Non aveva nulla a che fare con la fisica o la chimica. Perché non era finito insieme alle altre materie oscure e incerte? L’unica ragione per cui vi prestavo attenzione era che durante le sue ore si sviluppavano dibattiti veramente interessanti.

Avevo capito che il “signor” Dubois aveva cercato di insegnarmi perché combattere solo molto tempo dopo, quando avevo deciso di combattere.

Ma perché dovrei combattere? Non è forse assurdo esporre la mia pelle morbida alla violenza di stranieri ostili? Specialmente visto che la paga che si riceve, a qualsiasi livello, basta a malapena per le piccole spese, gli orari sono impossibili e le condizioni di lavoro ancora peggiori. In fondo, avrei potuto starmene a casa comodamente seduto mentre della faccenda si occupavano idioti che si divertivano con questi giochetti. E poi gli stranieri contro cui combattevamo personalmente non mi avevano fatto nulla di male, finché non avevamo gettato a mare il loro carico di tè. Che genere di follia era mai questa?

Combattere perché ero un fante spaziale mobile? Fratello, stai rispondendo come un cane di Pavlov. Falla finita e inizia a pensare con la tua testa.

Il maggiore Reid, il nostro istruttore, era un cieco che aveva la sconcertante abitudine di fissarti il volto e chiamarti per nome. Quel giorno, stavamo riesaminando i fatti accaduti dopo la guerra tra l’Alleanza russo-anglo-americana e l’Egemonia cinese, cioè dopo il 1987, quando ci arrivò la notizia della distruzione di San Francisco e della Valle di San Joaquin. Ero convinto che Reid avrebbe spostato il discorso sui tragici fatti appena avvenuti. In fin dei conti, ormai perfino i civili dovevano essersi convinti che si trattava di una lotta all’ultimo sangue tra i ragni e noi. Non restava che combattere o soccombere.

Il maggiore Reid, invece, non ne parlò affatto. Chiese a uno di noialtri scimmioni di riassumere il Trattato di Nuova Delhi portando la discussione sul fatto che quell’accordo ignorava la questione dei prigionieri di guerra e, implicitamente, aveva chiuso per sempre la pratica. L’armistizio, in proposito, conduceva a un punto morto: una delle due parti aveva trattenuto i prigionieri, l’altra li aveva liberati. Durante i Disordini, quelli che ci tenevano erano tornati a casa, gli altri si erano eclissati facendo perdere le loro tracce.

La vittima prescelta dal maggiore Reid parlò dei prigionieri non liberati: i sopravvissuti di due divisioni britanniche, più alcune migliaia di civili, catturati soprattutto in Giappone, nelle Filippine e in Russia, e condannati per crimini politici.

— Inoltre — continuò l’allievo — c’erano molti altri prigionieri militari, catturati prima e durante la guerra. Si diceva addirittura che alcuni fossero stati presi durante una guerra precedente e mai più liberati. Il totale dei prigionieri trattenuti non si conobbe mai con certezza. Le fonti migliori lo fanno ammontare a circa sessantacinquemila uomini.

— Perché “migliori”?

— Questa è la stima che riporta il nostro testo, signore.

— La prego di usare un linguaggio più preciso. Secondo lei, il numero esatto era superiore o inferiore ai centomila uomini?

— Ecco… non saprei, signore.

— E nessun altro lo sa. Era superiore al migliaio?

— Probabilmente sì, signore. Anzi, quasi certamente.

— Con assoluta certezza, perché quelli che riuscirono a scappare e a ritrovare la via di casa, furono molti di più, e di quelli conosciamo il numero esatto. Vedo che non ha studiato attentamente. Signor Rico!

Adesso la vittima ero io. — Sì, signore.

— Mille prigionieri non liberati sono un ragione sufficiente per iniziare o riprendere una guerra? Tenga presente che milioni di persone innocenti potrebbero morire, anzi morirebbero di sicuro, nel caso la guerra venisse dichiarata o ripresa.

Non esitai. — Certo, signore! Sono una ragione più che sufficiente.

— “Più che sufficiente.” Benissimo. E un solo prigioniero non liberato dal nemico, è una ragione sufficiente?

Esitai. Conoscevo la risposta della Fanteria spaziale mobile, ma non pensavo affatto che Reid volesse sentirsela ripetere. Mi esortò con voce tagliente: — Andiamo, andiamo, giovanotto! Abbiamo un limite massimo di mille, l’ho invitata a considerare il limite di uno. Ma non si può firmare una cambiale su cui è scritto “una cifra fra una e mille sterline”, e iniziare una guerra è un fatto molto più serio di una semplice questione di soldi. Non sarebbe un crimine mettere in pericolo un paese, anzi due, per salvare un solo uomo? Tanto più che costui potrebbe non meritare il sacrificio? O morire nel frattempo. Migliaia di persone muoiono tutti i giorni per incidenti vari, dunque, perché esitare a sacrificare un uomo? Risponda! Risponda sì, oppure no, sta facendo perdere tempo alla classe.

Mi innervosì. Gli diedi la risposta della Fanteria spaziale mobile — Sì, signore!

— Sì, che cosa?

— Non ha importanza che si tratti di mille persone o di una sola. Si combatte per liberarli.

— Ah! Il numero dei prigionieri dunque è irrilevante. Bene. Ora mi dimostri perché.

Questa non me l’aspettavo. Sapevo che la risposta era giusta, ma non sapevo perché. Lui mi incitava: — Coraggio, signor Rico. Questa è una scienza esatta. Lei ha fatto un’affermazione matematica, ora deve dimostrarla. Qualcuno potrebbe affermare, per analogia, che in base al suo discorso una patata vale lo stesso prezzo, né più, né meno, di un migliaio di patate. Non è così?

— No, signore!

— Perché no? Me lo dimostri.

— Gli uomini non sono patate.

— Molto bene, signor Rico! Credo che il suo cervello stanco sia già stato messo abbastanza a dura prova per oggi. Domani mi porti una prova scritta, in logica simbolica, della sua risposta alla mia domanda. Le suggerirò un piccolo appiglio. Consultate il paragrafo sette del capitolo di oggi. Signor Salomon! In che modo la presente organizzazione politica si evolse dopo i Disordini? E qual è la sua giustificazione morale di tale processo?

Sally se la cavò alla meglio per quanto riguardava la prima parte. Nessuno è in grado di descrivere esattamente come nacque la Federazione terrestre: nacque, ecco tutto. Dopo che tutti i governi erano caduti, alla fine del Ventesimo secolo, qualcosa doveva pur riempire quel vuoto, e in molti casi furono i veterani tornati dal fronte a provvedere. Avevano perso una guerra, molti di loro erano senza lavoro, quasi tutti manifestavano un mero sdegno per i termini del Trattato di Nuova Delhi, e poi sapevano imbracciare le armi. Ma non fu una rivoluzione vera e propria, bensì un processo analogo a quanto era capitato in Russia nel 1917: il vecchio sistema era crollato, qualcuno doveva intervenire.

Il primo caso di cui si aveva notizia, quello di Aberdeen, in Scozia, era emblematico. Alcuni veterani si erano riuniti per garantire la sicurezza e porre fine ai tumulti e ai saccheggi: avevano impiccato alcune persone (compresi due ex combattenti come loro) e costituito un comitato nel quale erano ammessi esclusivamente veterani. Dapprima la cosa era stata puramente arbitraria: quegli uomini si fidavano un po’ solo dei loro pari, e di nessun altro. Poi, nel giro di un paio di generazioni, quella che era nata come una misura di emergenza si era trasformata in pratica costituzionale.

Probabilmente quei veterani scozzesi, essendosi trovati nella necessità di impiccare altri ex combattenti, avevano deciso che non bisognava permettere a nessun profittatore, trafficante, sanguisuga, imboscato, sporco borghese di dire la sua. I civili dovevano limitarsi a fare quello che veniva loro ordinato, mi seguite? A sistemare le cose ci avremmo pensato noi scimmioni. Questa, almeno, è la mia ipotesi. Perché credo che l’avrei pensata allo stesso modo. Gli storici sono concordi nell’affermare che l’antagonismo tra civili e reduci era più intenso di quanto possiamo immaginare oggi.

Sally spiegò la cosa con parole sue. Alla fine il maggiore Reid lo interruppe: — Domani mi porti le sue idee scritte, in non più di tremila parole. Signor Salomon, può dirmi la ragione, una ragione pratica, non teorica o storica, per cui oggi il diritto di voto è limitato ai soli veterani?

— Perché sono uomini scelti, signore. Più in gamba degli altri.

— Assurdo!

— Come, signore?

— È diventato sordo? Ho detto che è una risposta sciocca. Gli ex militari non sono più in gamba dei civili. In molti casi i civili sono molto più intelligenti. Questa era la giustificazione per quel colpo di Stato che venne tentato poco prima del Trattato di Nuova Delhi, la cosiddetta “rivolta degli scienziati”. Figuriamoci! Lasciate che gli intelligentoni si mettano a dirigere le cose e avrete subito l’utopia. Ovviamente, vista la sua follia, è fallito. La ricerca scientifica, infatti, nonostante i benefici sociali che apporta, in sé non è una virtù. Quelli che la praticano possono essere individui così egocentrici da mancare di ogni senso di responsabilità. Le ho dato l’imbeccata, signor Salomon, è capace di raccoglierla?

— Ecco… gli ex militari sono gente disciplinata, signore. Il maggiore Reid si mostrò paziente. — Spiacente, no.

È una bella teoria, ma non è suffragata dai fatti. A noi due non è permesso votare finché rimaniamo in servizio, e non per questo si può sostenere che l’addestramento militare renda un uomo disciplinato solo nel momento in cui va in congedo. Il tasso di criminalità fra i veterani è più o meno lo stesso che fra i civili. E lei dimentica che in tempo di pace la maggior parte dei veterani, proveniendo da servizi ausiliari non combattenti, non è stata sottoposta al vero rigore della disciplina militare. Sono stati solo tormentati, sovraccaricati di lavoro e messi in perìcolo, eppure il loro voto conta.

Il maggiore Reid sorrise. — Caro signor Salomon, le ho rivolto una domanda trabocchetto. La ragione pratica per continuare con il nostro sistema è la stessa che perpetua qualsiasi cosa al mondo: il sistema funziona in modo soddisfacente. E tuttavia vale la pena di sottolineare i particolari. In ogni tempo gli uomini si sono sforzati di dare il voto a quanti fossero in grado di usarlo con saggezza, per il bene di tutti. Un primo tentativo fu la monarchia assoluta, difesa appassionatamente come “diritto divino del re”. Talvolta si ebbero tentativi per scegliere un monarca saggio, invece di rimettersi completamente a Dio. È il caso, per esempio, degli svedesi, che scelsero di farsi governare da un francese, il generale Bernadotte. Ma di Bernadotte non se ne trovano sempre. Gli esempi della storia vanno dalla monarchia assoluta alla completa anarchia. L’umanità ha tentato migliaia di sistemi, e molti di più ne sono stati proposti, alcuni dei quali alquanto insoliti, come il comunismo ante litteram invocato da Platone sotto il fuorviante titolo La repubblica. Ma l’intento è sempre stato moralistico: formare un governo stabile ed equo. Tutti i sistemi tendevano a raggiungere questo scopo limitando il diritto di voto a coloro che si credeva avessero la saggezza necessaria per usarlo appropriatamente. Ripeto, tutti i sistemi, perfino le democrazie, escludevano dal diritto di voto almeno un quarto della popolazione effettiva, per via dell’età, della nascita, dei precedenti criminali e via dicendo.

Il maggiore Reid fece un sorriso cinico. — Non ho mai capito perché un imbecille di trent’anni fosse ritenuto più idoneo al voto di un genio di quindici, ma quella era l’epoca del “diritto divino dell’uomo della strada”. Lasciamo andare, in fondo hanno pagato cara la loro follia. Il diritto di voto è stato soggetto a ogni tipo di regole: luogo di nascita, status sociale, colore della pelle, sesso, censo, istruzione, età, religione eccetera eccetera. Tutti questi sistemi funzionavano, ma nessuno come si deve. Tutti vennero considerati tirannici da qualcuno, e tutti finirono per crollare o per essere spazzati via. Ora noi stiamo sperimentando un ennesimo sistema, che a quanto pare funziona a meraviglia. Molti si lamentano, ma nessuno si ribella, e la libertà personale è massima per tutti, rispetto ai precedenti storici. Le leggi sono poche, le tasse minime, gli standard di vita sono alti in rapporto alla produttività, il crimine raro come mai lo è stato. Perché? Perché i nostri elettori sono più intelligenti di quelli del passato? No, questo l’abbiamo già escluso. Signor Tammany, mi saprebbe dire perché il nostro sistema funziona meglio di quelli usati dai nostri antenati?

Non so dove Clyde Tammany avesse pescato quel nome, secondo me era di origine indiana. Comunque rispose: — Direi che è per l’esiguo numero degli elettori. Sapendo che le decisioni spettano a pochi, ognuno le pondera attentamente. Così credo, almeno.

— Per favore, niente supposizioni. La nostra è una scienza esatta. E quello che lei ha detto è sbagliato. I nobili che governavano in tanti altri sistemi erano una piccola minoranza, perfettamente conscia delle proprie responsabilità. Inoltre, i cittadini con diritto di voto non sono affatto un numero esiguo. Lei sa o dovrebbe sapere che la percentuale di cittadini tra gli adulti va dall’ottanta per cento di Iskander a meno del tre per cento in alcune zone della Terra, eppure i governi sono più o meno uguali ovunque. Gli elettori non sono uomini selezionati con particolari criteri, non possiedono una saggezza speciale, né hanno un talento particolare, e nemmeno vengono addestrati a esercitare il diritto di voto. Dunque, dove sta la differenza? Ipotesi ne abbiamo ascoltate abbastanza, perciò ora vi darò io la definizione esatta. Con il nostro sistema, ogni elettore e ogni governante è un uomo che ha dimostrato, con anni di duro servizio volontario, di considerare il benessere della maggioranza più importante di quello personale. Questa è l’unica differenza pratica con il non elettore. Può mancare di saggezza, può scarseggiare in virtù civiche ma la sua prestazione media è assai migliore di quella di qualsiasi altra classe dirigente della storia. — Il maggiore Reid si interruppe per toccare il quadrante di un vecchio orologio e “leggerne” le lancette. — Il tempo è quasi trascorso e non abbiamo ancora stabilito qual è la ragione morale del nostro successo nel governarci. Ora, il successo continuativo non è mai dovuto al caso. Tenete presente che questa è scienza, e non una conclusione ottimistica. L’universo è quello che è, non quello che noi vorremmo che fosse. Il voto conferisce autorità. È l’autorità suprema, dalla quale derivano tutte le altre, anche la mia di rendervi la vita impossibile una volta al giorno. È forza, se preferite. Il diritto di voto è forza, nuda e cruda, il potere della frusta. L’autorità politica, non importa se esercitata da dieci uomini, o da un milione, o da dieci miliardi, è forza. Tuttavia, questo universo è formato di polarità che si equilibrano. Quale sarebbe il valore reciproco dell’autorità? Signor Rico, risponda lei.

Aveva scelto una domanda alla quale sapevo rispondere. — Responsabilità, signor maggiore.

— Mi congratulo. Sia per ragioni pratiche sia per ragioni morali matematicamente verificabili, autorità e responsabilità devono essere uguali, altrimenti avviene uno sbilanciamento, potete esserne certi come del fatto che la corrente scorre fra punti di diverso potenziale. Insediare un’autorità senza responsabilità significa provocare un disastro. Attribuire a qualcuno la responsabilità di qualcosa che non controlla equivale a comportarsi con cieca idiozia. Le democrazie erano instabili perché i loro cittadini non erano responsabili per il modo in cui esercitavano la loro autorità sovrana, tranne che sul piano della storia. Il tributo che dobbiamo versare noi per ottenere il diritto di voto era qualcosa di inconcepibile a quei tempi. Non si faceva niente per stabilire se un elettore era socialmente responsabile nella stessa misura dell’autorità che gli era consentito esercitare. Se votava l’impossibile, succedeva un disastro possibile, e a quel punto volente o nolente era costretto ad assumersi la responsabilità, che distruggeva sia lui sia il suo tempio privo di fondamenta. Considerandolo in modo superficiale, il nostro sistema è solo lievemente diverso: noi non facciamo questione di età, colore, credo, nascita, ricchezza, sesso o ideologia. Chiunque può guadagnarsi l’autorità sovrana grazie a un periodo di servizio militare normalmente breve e non eccessivamente arduo, qualcosa che i nostri antenati, gli uomini delle caverne, avrebbero considerato niente di più di un leggero esercizio fisico. Ma è quella sottile differenza a distinguere un sistema che funziona, in quanto costruito per corrispondere alla realtà, da uno intrinsecamente instabile. Poiché il diritto di voto rappresenta il massimo in fatto di autorità umana, facciamo in modo di assicurarci che colui che lo esercita sia disposto ad accettare il massimo della responsabilità sociale. Chiediamo a chiunque desideri esercitare un controllo sullo Stato di mettere in gioco la propria vita, e di perderla se necessario, per salvare la vita dello Stato. Il massimo della responsabilità che un essere umano può accettare è così equiparato al massimo di autorità che lo stesso essere può esercitare. Tanto mi dà tanto, e siamo a posto.

Poi il maggiore chiese: — Qualcuno saprebbe dirmi perché non è mai avvenuta una rivoluzione contro il nostro sistema? Nonostante ce ne siano state contro tutti i governi che la storia ricordi, e a dispetto, come tutti sappiamo delle lagnanze continue e forti anche tra noi?

Uno dei cadetti più anziani prese la parola: — Maggiore, da noi la rivoluzione è impossibile.

— D’accordo. Ma perché?

— Perché una rivoluzione, una levata di scudi, richiede non solo scontento, ma anche aggressività. Un rivoluzionario deve essere disposto a combattere e a morire, oppure è soltanto uno che chiacchiera a vuoto. Se voi separate i tipi aggressivi e ne fate cani da pastore, il gregge non vi procurerà mai grane.

— La spiegazione è ottima. Con le analogie bisogna andare cauti, ma questa è veramente azzeccata. Domani mi porterete anche una dimostrazione matematica. C’è tempo per un’altra domanda. Fatemela e risponderò. C’è qualcuno tra voi che vuole porla?

— Ecco, maggiore… perché allora non andare fino in fondo, pretendendo che tutti svolgano il servizio militare e che quindi votino?

— Giovanotto, lei può ridarmi la vista?

— Come? No, signore!

— Eppure si accorgerebbe che è molto più facile che instillare la virtù morale, ovvero la responsabilità sociale, in coloro che non la possiedono, non la desiderano e non tollerano di sentirsi gettare addosso un simile fardello. Per questo noi rendiamo così difficile l’arruolamento e così semplici le dimissioni. Un senso di responsabilità sociale che vada al di là della famiglia, o al massimo della tribù, richiede fantasia, devozione, lealtà, tutte le virtù più alte che un uomo deve sviluppare autonomamente. Se gliele imporrete, finirà per rigettarle. Nel passato si faceva così, e… Ma andate in biblioteca a consultare la perizia psichiatrica sui prigionieri che avevano subito il lavaggio del cervello nella cosiddetta Guerra di Corea, risalente al 1950 circa, il Rapporto Meyer, e domani fatemene avere un’analisi. — Toccò l’orologio. — Potete andare.

Il maggiore Reid ci caricava di lavoro, ma il suo corso era molto interessante. Una volta mi capitò una di quelle tesine volte a verificare la padronanza della materia che lui appioppava in modo assolutamente casuale. Io sostenni che le crociate erano state diverse dalla maggior parte delle guerre. Mi venne affidato il compito di dimostrare che guerra e moralità derivano da un’identica matrice genetica.

Ne conseguì l’affermazione secondo cui tutte le guerre nascono da un’esplosione demografica (già, anche le crociate, per quanto occorra approfondire le motivazioni commerciali, il carattere dell’incremento delle nascite e un sacco di altre cose per poterlo dimostrare). Tutte le regole morali hanno come matrice l’istinto di conservazione. Il comportamento morale può essere manifestato solo da chi si eleva al di sopra del livello dell’individuo, come un padre che muore per salvare il figlio. Ma poiché l’espansione demografica nasce anche dalla necessità di sopravvivere, la guerra conseguente alla crescita della popolazione è un portato del medesimo istinto congenito che dà vita a tutte le regole morali adatte agli esseri umani.

E a questo punto viene la seguente domanda: è possibile abolire la guerra (e di conseguenza evitare tutti i mali evidenti che ne derivano), limitando l’espansione demografica con l’elaborazione di un codice morale che fissi i limiti di una popolazione tenendo conto delle risorse naturali?

Senza bisogno di discutere sull’utilità o la moralità della pianificazione delle nascite, basta osservare che quando un popolo limita il proprio incremento demografico viene integrato, assorbito dai popoli in espansione. Nella storia della Terra, alcuni popoli hanno intrapreso un simile percorso, e sono stati assorbiti da altri.

D’altra parte, supponiamo che la specie umana riesca a calibrare mortalità e natalità in modo conveniente rispetto alla densità di popolazione ottimale per i suoi pianeti, e che quindi diventi una razza pacifica. Che cosa succederà?

Presto, molto presto, arriveranno i ragni, elimineranno questa specie che avrà perso ogni interesse alla guerra e noi scompariremo dall’universo. La qual cosa può ancora succedere. Quindi, o ci espandiamo noi e spazziamo via i ragni o si espandono loro e spazzano via noi, perché le specie sono intelligenti e decise e mirano ai medesimi spazi.

Avete un’idea della rapidità con cui un’incontrollata espansione demografica può portarci a sovrappopolare l’universo? La risposta vi sorprenderebbe: un battito di palpebre, in rapporto all’antichità della nostra specie.

Provate a fare i calcoli, è un’espansione a interesse composto.

E qui sorge un’altra domanda: l’uomo ha il diritto di espandersi nell’universo?

L’uomo è quello che è, un animale selvaggio che vuole sopravvivere a tutti i costi, e che (finora) ha avuto la capacità di farlo, a dispetto di tutte le competizioni interne. Se non si accetta questo dato di fatto, ogni affermazione sulla morale, la guerra, la politica eccetera non ha senso.

La morale rigorosa deriva dalla consapevolezza di che cosa è l’uomo. Di che cosa è, non di che cosa la nostra vecchia zia vorrebbe che fosse. In seguito, sarà l’universo a incaricarsi di dirci se l’uomo ha o non ha il diritto di espandersi.

In attesa di saperlo, c’è la Fanteria spaziale mobile, pronta a intervenire in difesa della nostra specie.


Verso la fine del corso ufficiali ciascuno di noi veniva inviato a fare pratica sotto un comandante esperto. Si trattava di una specie di esame preliminare, in base al quale il consiglio degli istruttori poteva anche decidere che un candidato non aveva la stoffa per quel mestiere. Era ammesso fare ricorso, ma non si è mai saputo di qualcuno che abbia intrapreso queste vie. O gli allievi tornavano con l’approvazione, o nessuno li rivedeva più.

Alcuni non tornavano non perché si erano dimostrati inadeguati, ma semplicemente perché erano rimasti uccisi: si andava a fare pratica su astronavi da guerra in missione. Avevamo l’ordine di tenere sempre pronti gli zaini. Un giorno, durante il pranzo, tutti i cadetti della mia compagnia con funzioni di comando furono chiamati contemporaneamente: se ne andarono senza neanche mangiare, e io mi ritrovai responsabile della compagnia. Senz’altro un onore, ma scomodissimo.

Nemmeno due giorni dopo, venivo chiamato anch’io.

Corsi nell’ufficio del comandante, zaino in spalla e felice come non mai. Ne avevo abbastanza di fare le ore piccole a studiare, di sentire gli occhi che mi bruciavano, di restare indietro ugualmente e di fare in classe la figura dell’ignorante. Un paio di settimane nell’allegra compagnia di uno squadrone da combattimento era quello che ci voleva per Johnnie!

M’imbattei in alcuni nuovi arrivati, che trottavano verso la classe in formazione serrata, con quell’aria cupa che ogni aspirante novellino mostra appena si rende conto di avere forse commesso un errore nell’iscriversi al corso. Mi resi conto di canticchiare, e subito ammutolii perché ero giunto a pochi passi dall’ufficio, e il comandante poteva sentirmi.

Nell’ufficio c’erano altri due compagni, i cadetti Hassan e Byrd. Hassan, detto l’Assassino, era il più anziano della nostra classe e aveva l’aria di un pesce fuor d’acqua, mentre Byrd era poco più grande di un passerotto e altrettanto smarrito.

Venimmo introdotti nel sancta sanctorum. Il comandante era sulla sua sedia a rotelle. Non lo vedevamo mai fuori da quella poltrona, salvo durante l’ispezione del sabato e quando venivamo passati in rivista. Credo che camminare gli costasse un’immensa fatica. Ma questo non significava che fosse assente, poteva capitare che mentre stavi lavorando ti giravi trovandoti dietro la sua sedia a rotelle e il colonnello Nielssen che prendeva nota dei tuoi errori.

Non interrompeva mai: c’era l’ordine permanente di non prestargli “attenzione”! Ma era sconcertante. Sembra che ce ne fossero sei di lui.

Il comandante in realtà aveva il grado di generale (sì, proprio quel Nielssen), il grado di colonnello gli era stato attribuito solo temporaneamente, in attesa del suo secondo pensionamento, per consentirgli di essere comandante. Una volta chiesi notizie a questo riguardo a un ufficiale addetto alla contabilità che mi confermò quello che il regolamento sembrava dire: il comandante riceveva solo la paga da colonnello, ma sarebbe tornato a essere pagato come generale il giorno in cui avesse deciso di tornare in pensione.

Be’, come diceva Ace, c’è spazio per tutti, io non riuscivo a immaginare di scegliere di ricevere metà stipendio per il privilegio di svezzare dei cadetti.

Quando entrammo, il colonnello Nielssen alzò la testa e ci squadrò. — Buongiorno, signori — disse. — Accomodatevi. — Mi sedetti, ma non stavo affatto comodo. Lui scivolò con la sedia fino a una macchina del caffè e riempì quattro tazze che Hassan lo aiutò a servire. Io non avevo voglia di caffè, ma non si può rifiutare quando a offrire è il comandante.

Nielssen sorseggiò il caffè. — Ho avuto le vostre nomine temporanee, signori — annunciò — e le vostre destinazioni. Ma voglio essere certo che comprendiate qual è la vostra esatta posizione.

Eravamo già stati edotti in proposito. Saremmo stati ufficiali in soprannumero, in prova, cioè, e in via provvisoria. Al ritorno dalla missione saremmo stati ancora cadetti, con la probabilità di essere sbattuti fuori da un momento all’altro dagli ufficiali che ci avrebbero esaminato.

Nel frattempo, avremmo ricoperto la carica di sottotenente provvisorio o facente funzione, un grado tanto necessano quanto i piedi a un pesce, incastrato alla meglio tra il sergente e il sottotenente vero e proprio. È il gradino più basso al quale si può scendere restando però un ufficiale. Se qualcuno saluta per caso un sottotenente provvisorio, vuol proprio dire che c’è poca luce.

— La vostra nomina è di “sottotenente provvisorio” — continuò il colonnello — ma la vostra paga resta la stessa. Continuerete a essere chiamati “signori”, e l’unico cambiamento nell’uniforme sarà costituito da una stelletta sulla spalla, anche più piccola delle insegne di cadetto. — Il colonnello sorrise. — E allora, signori, sapreste dirmi perché siete chiamati “sottotenenti provvisori”?

Me l’ero chiesto anch’io. Perché insignirci di gradi che non erano affatto tali?

Naturalmente conoscevo la risposta scritta sul libro, ma…

— Signor Byrd? — chiese il comandante.

— Ecco… per collocarci lungo la linea di comando, signore.

— Perfetto — il colonnello, si avvicinò a un organigramma appeso su una parete. Si trattava della solita piramide, con tracciata tutta la catena di comando. — Guardate qui. — Indicò una scatola collegata a lui tramite una linea orizzontale, su cui era scritto “assistente del comandante” (signora Kendrick).

— Signori — continuò — avrei grandi problemi a dirigere questo posto senza la signora Kendrick. La sua testa è un archivio ad accesso rapido di tutto ciò che accade qui intorno. — Toccò un dispositivo di controllo sulla sua sedia e parlò nell’aria. — Signora Kendrick, nell’ultima sessione che valutazione ha ricevuto il cadetto Byrd in legge militare?

La sua voce rispose immediatamente: — Novantatré per cento, comandante.

— Grazie. Avete visto? Firmo qualunque cosa, se la signora Kendrick l’ha approvata. Non mi piacerebbe affatto se un comitato investigativo scoprisse quante volte lei firma al posto mio, senza che io neppure mi informi di che cosa si tratti. Mi dica, signor Byrd, se dovessi morire, la signora Kendrick continuerebbe a fare andare avanti le cose?

— Ma… — Byrd sembrava perplesso — suppongo farebbe il necessario per le questioni di ordinaria amministrazione.

— Non farebbe un bel nulla! — tuonò il colonnello. — Finché il colonnello non le avesse detto che cosa fare, a modo suo. È una donna molto intelligente e capisce quello che apparentemente voi non capite, ovvero che non appartiene alla linea di comando e non ha autorità.

Continuò: — La linea di comando non è semplicemente un modo di dire, è qualcosa di reale come uno schiaffo in faccia. Se vi ordinassi di andare a combattere, come cadetti il massimo che potreste fare sarebbe di mettervi agli ordini di qualcun altro. In questa posizione, se il vostro caposquadrone morisse e voi deste un ordine a un soldato, sbagliereste, e il soldato sbaglierebbe a ubbidirvi, anche se l’ordine fosse giusto, sensato e logico. Perché un cadetto, capite bene, non è nella linea di comando. Un cadetto non esiste, militarmente parlando. Non ha un grado, e non è un soldato. È uno studente che diventerà un soldato, un ufficiale o apparterrà a un rango inferiore. È sottoposto alla disciplina dell’Esercito, ma non è ancora nell’Esercito.

Uno zero, un guscio vuoto, ecco che cos’era un cadetto se non era neppure nell’Esercito…

— Colonnello!

— Parla ragazzo! Signor Rico.

Ebbi un fremito ma dovevo dire quel che pensavo: — Ma… se non siamo nell’Esercito, allora non siamo fanti spaziali mobili signore?

Sbatté gli occhi nella mia direzione. — Questo ti preoccupa?

— Io, ecco, non credo che mi piaccia molto, signore — non mi piaceva affatto. Mi sentivo nudo.

— Capisco. — Non sembrava contrariato. — Lascia che sia io a occuparmi degli aspetti legali dello spazio, figliolo.

— Ma…

— È un ordine. Tecnicamente voi non siete fanti spaziali. Ma la Fanteria spaziale mobile non si è dimenticata di voi. La Fanteria spaziale mobile non dimentica mai i suoi uomini, ovunque siano. Se lei morisse in questo istante, sarebbe cremato come secondo tenente Juan Rico, Fanteria spaziale mobile, della… — il colonnello Nielssen si fermò. — Signora Kendrick, qual era la nave del signor Rico?

— La Rodger Young.

— Grazie. — Poi proseguì: — Nella e della Rodger Young, assegnato al gruppo di combattimento mobile Secondo squadrone della Compagnia George, Terzo reggimento, Prima divisione, Fanteria spaziale mobile, i Rompicollo — recitò con soddisfazione, senza consultare nulla dopo che gli era stato ricordato il nome della mia nave. — Una buona squadra, signor Rico, orgogliosa e coraggiosa. Il suo ultimo incarico sarebbe comunicato per le incisioni e così il suo nome verrebbe letto nella Memorial Hall. Noi nominiamo sempre ufficiale un cadetto morto, figliolo, così lo possiamo mandare a casa dai suoi amici.

Sentii un moto di sollievo e nostalgia, tanto che mi scapparono alcune parole.

— … bocca chiusa mentre parlo io o tornerà da dove è venuto. Durante la vostra missione di tirocinio, è necessario che siate nominati ufficiali provvisori. In un lancio di combattimento non c’è posto per gente priva di carica. Combatterete, prenderete e darete ordini. Ordini legali, perché avete un grado e vi sarà assegnato un ruolo ben preciso. Ogni ordine da voi impartito nell’esercizio delle vostre funzioni sarà valido quanto quello del comandante in capo. Per di più — continuò il colonnello — una volta inseriti nella linea di comando, dovrete essere pronti in qualsiasi istante ad assumere un ruolo più elevato. Se vi trovate in un’unità d’assalto composta da un solo squadrone, com’è probabile nel presente stato di cose, e siete vicecomandanti di squadrone proprio nel momento in cui il vostro comandante ci lascia le penne, ne prendete automaticamente il ruolo.

Scosse la testa. — Capito, ragazzi? Proprio comandante, e non facente funzione di comandante. Non si tratta più di un’esercitazione del corso ufficiali. Non sarete più un ufficiale cadetto in prova. D’improvviso, ognuno di voi può trovarsi a essere il “vecchio”, il capo, l’ufficiale di comando, e scoprire con angosciosa sorpresa che altri esseri umani dipendono da voi, unicamente da voi, e aspettano che diciate loro che cosa si deve fare, come bisogna combattere e agire per portare a termine la missione e uscirne vivi. Loro aspettano di sentire la voce ferma del comandante, mentre i secondi passano, e spetta a voi essere quella voce, prendere le decisioni, impartire i giusti ordini, e non solo gli ordini devono essere giusti ma è necessario ostentare un tono calmo, assolutamente non preoccupato. Perché potete stare certi, signori, che il vostro gruppo è nei guai, brutti guai, e una voce stentata, che lasci trapelare un senso di panico potrebbe trasformare il miglior gruppo di combattimento della galassia in una massa allo sbando, in preda all’anarchia, folle di terrore. Questa terribile responsabilità può crollarvi sulle spalle quando meno ve l’aspettate. Dovete agire subito, e ci sarà solo Dio sopra di voi. Non aspettatevi che provveda lui a suggerirvi gli ordini tattici, quello è affar vostro! Tutt’al più potrete invocarlo perché vi aiuti a non fare trasparire il panico, ma di più non dovete chiedergli.

Il colonnello fece una lunga pausa. Io mi ero fatto molto attento, Hassan ascoltava preoccupato e Byrd appariva terribilmente serio e incredibilmente giovane. In cuor mio, avrei voluto trovarmi nuovamente nel locale di lancio della Rodger Young, senza tanti galloni addosso e intento a beccarmi la peggiore piazzata da Gelatina. C’era molto da dire circa i compiti di un vicecomandante di squadrone. Quando ti trovi in certe situazioni, è molto più facile morire che riuscire a usare la testa.

— Quello, signori, sarà il momento della verità — riprese il colonnello. — Purtroppo nella scienza militare non esiste un sistema per distinguere un vero ufficiale da un grottesco fantoccio con stellette luccicanti sulle spalle. L’unico modo è rappresentato dalla prova del fuoco. I veri ufficiali la superano o muoiono coraggiosamente. I fantocci crollano. E a volte nel crollare ci lasciano la vita. In questi casi, però, la vera tragedia è la perdita di altri uomini, soldati validi, graduati capaci, sottufficiali preziosi, ai quali si può imputare unicamente la sfortuna di essere capitati sotto il comando di un incompetente.

“Noi cerchiamo di evitare queste tragedie. La nostra regola prima e inviolabile richiede che ogni aspirante ufficiale sia un soldato addestrato che abbia già ricevuto il battesimo del fuoco, che abbia già effettuato lanci di combattimento. Nel corso della storia, nessun altro Esercito si è attenuto a questa regola, anche se qualche stato l’ha parzialmente adottata. La maggior parte delle famose scuole militari del passato, Saint-Cyr, West Point, Sandhurst, Colorado Springs, non hanno nemmeno tentato di tenerne conto. Quelle scuole accettavano ragazzi civili, li addestravano, li nominavano ufficiali, li spedivano a comandare uomini senza che avessero alcuna esperienza di combattimento, e molto spesso si accorgevano troppo tardi che quei gagliardi ufficialetti altro non erano che dei poltroni, dei pazzi o degli isterici.

“Noi, se non altro, non commettiamo errori del genere. Sappiamo che siete bravi soldati, esperti e coraggiosi, provati in battaglia, altrimenti non sareste qui. Sappiamo che la vostra intelligenza e la vostra istruzione partono da minimi soddisfacenti. Basandoci su questi dati, riusciamo a eliminare il maggior numero possibile di aspiranti ufficiali non sufficientemente competenti e a rispedirli nei ranghi prima di guastare dei buoni fanti costringendoli a sforzi che esulano dalle loro possibilità. Il corso ufficiali è molto duro… perché ancora più duro sarà il compito che vi aspetta in seguito. Con questo sistema, dopo un certo periodo di tempo riusciamo a mettere insieme un piccolo gruppo le cui probabilità di riuscita sono ragionevolmente buone. L’unico elemento di giudizio che resta in sospeso è quello che purtroppo non possiamo valutare in questa sede. È quel qualcosa di indefinibile che fa la differenza tra un vero ufficiale e uno che avrebbe tutti i requisiti per esserlo ma non ne ha la vocazione. Per appurarlo dobbiamo mettervi alla prova sul campo. Signori, voi avete raggiunto quest’ultimo stadio. Siete pronti a prestare giuramento?”

Ci fu un istante di silenzio, poi Hassan rispose con fermezza: — Sì, colonnello — e Byrd e io gli facemmo eco.

Il colonnello si accigliò. — Finora vi ho elencato tutte le vostre belle qualità. Siete fisicamente perfetti, mentalmente svegli, addestrati, disciplinati, e in più avete ricevuto il battesimo del fuoco. Siete in tutto e per tutto il prototipo del giovane ufficiale in gamba. — Sbuffò. — Balle! Forse, un giorno, diventerete degli ufficiali. Lo spero, non soltanto perché ci scoccia buttare via denaro, tempo e fatica, ma anche e soprattutto perché rabbrividisco ogni volta che spedisco un pivello semicrudo di semiufficiale come voi in missione di guerra: so benissimo che specie di Frankenstein potrei sguinzagliare al comando di un ottimo gruppo di Fanteria spaziale mobile. Se foste perfettamente consapevoli di quello che ci si aspetta da voi, che vi aspetta, non sareste tanto pronti a dichiararvi disposti al giuramento appena ve lo si chiede. Potreste dimostrarvi un fallimento, e io sarei costretto a farvi riprendere il vostro posto fra la truppa. Quindi farò un altro tentativo. Signor Rico, ha mai pensato a quello che significherebbe per lei essere deferito alla corte marziale per aver perso un reggimento?

Rimasi totalmente imbambolato. — Ecco… No, signore, non ci ho mai pensato. — Essere deferito alla corte marziale è cento volte peggiore per un ufficiale che per un soldato semplice. I crimini che comportano per un soldato la sentenza di espulsione (magari con frustate, ma il più delle volte senza), quando si tratta di un ufficiale vengono puniti con la morte. Molto meglio non essere mai nato!

— Pensateci — continuò il colonnello, severo. — Quando ho avanzato l’ipotesi che il vostro caposquadrone potesse essere ucciso, non ho affatto citato quanto c’è di peggio in fatto di catastrofi militari. Signor Hassan! Qual è il maggior numero di gradi che sia stato saltato a piè pari durante una sola battaglia?

Hassan si fece più serio che mai. — Non ne sono sicuro, signor colonnello. Non c’è stato un caso, durante l’Operazione ragnatela, in cui un maggiore ha dovuto prendere il comando di una brigata, prima del “si salvi chi può”?

— C’è stato, e il nome del maggiore era Fredericks. Ottenne una decorazione e una promozione. Se poi risalite alla Seconda guerra globale, potete trovare un caso in cui un giovane ufficiale di Marina prese il comando di una grossa unità, e non solo combatté, ma trasmise segnali come se l’ammiraglio fosse lui. Venne assolto, anche se nella linea del comando c’erano ufficiali più anziani di lui che non erano stati nemmeno feriti. Circostanze speciali, s’intende, cioè un guasto alle linee di comunicazione. Ma io stavo pensando a un caso in cui ben quattro livelli di comando vennero spazzati via nel giro di sei minuti. Immaginate un po’ il caso di un comandante di squadrone che in un batter d’occhi venga a trovarsi al comando di una brigata. Ne avete mai sentito parlare?

Silenzio assoluto.

— Avvenne durante una delle guerre dell’epoca napoleonica. L’ufficiale del quale voglio parlarvi era il più giovane a bordo di una nave, della Marina di allora, s’intende, quella che andava sull’acqua, e per di più a vela. Il nostro ufficialetto era su per giù come voi, e non aveva ancora ricevuto i gradi. Come voi era sottotenente provvisorio, e non aveva esperienza di battaglia. C’erano ben quattro ufficiali sopra di lui, nella linea di comando. Quando la battaglia iniziò, il comandante rimase ferito. Il ragazzo lo raccolse e lo trasportò fuori dalla linea del fuoco. Tutto qua: soccorse un ufficiale ferito. Però, lo fece senza avere ricevuto l’ordine di abbandonare il suo posto. Mentre lui trasportava via il comandante, gli altri ufficiali morirono tutti e tre. Venne processato per avere disertato il posto di servizio come ufficiale comandante in presenza del nemico. Fu condannato e destituito. Stupito replicai. — Davvero? Solo per questo?

— Perché no? D’accordo, anche noi raccogliamo i feriti. Ma lo facciamo in circostanze diverse da quelle di una battaglia sul mare, e dando ordine a un uomo di andare a raccogliere il compagno. Ma l’assistenza a un ferito non è una scusa buona per abbandonare il combattimento alla presenza del nemico. La famiglia di quel ragazzo tentò per un secolo e mezzo di ottenere la revisione del processo. Inutilmente, si capisce. Restavano dubbi su alcune circostanze, ma era certo che l’ufficiale aveva abbandonato il suo posto durante la battaglia senza che qualcuno gliel’avesse ordinato. D’accordo, era un novellino inesperto, ma gli andò bene se non l’impiccarono. — Il colonnello Nielssen fissò su di me uno sguardo gelido. — Signor Rico, potrebbe un incidente del genere accadere a lei?

Deglutii. — Spero di no, signor colonnello.

— Lasci che le spieghi come potrebbe succedere in questa stessa missione di tirocinio. Immagini di trovarsi in un’azione che impegni diverse astronavi, con un intero reggimento in proiezione. Gli ufficiali si lanciano per primi, naturalmente. La cosa comporta vantaggi e svantaggi, ma dobbiamo farlo per una ragione morale: nessun soldato semplice deve toccare il suolo di un pianeta nemico senza l’assistenza di un ufficiale. Faccia conto che i ragni lo sappiano, ed è possibilissimo. Faccia conto che abbiano architettato un sistema per spazzare via quelli che atterrano per primi, ma non abbastanza efficiente da annientare tutti gli uomini che partecipano al lancio. Ora supponiamo, dato che lei è un ufficiale in soprannumero, che abbia preso posto in una capsula qualsiasi, invece di venire lanciato con la prima ondata. In che condizione si troverebbe a questo punto?

— Ecco, non saprei con precisione, signor colonnello.

— Si troverebbe a ereditare di punto in bianco il comando di tutto il reggimento. Cosa ne fate del vostro comando, signori? Parlate, su, i ragni non aspettano!

— Ecco… — Presi la risposta così come l’avevo letta sul libro e recitai a pappagallo. — Prendo il comando e agisco come le circostanze lo consentono, signor colonnello, in base alla situazione tattica quale mi si presenta.

— Davvero, eh? — brontolò. — E ci lasciate le penne anche voi, perché è tutto quanto ci si può aspettare in un guaio del genere. Ma io spero invece che voi andiate giù immediatamente, urlando ordini a destra e a manca, anche a costo di fornire comandi sballati. Noi non pretendiamo che dei gatti combattano contro i giaguari e vincano, ci aspettiamo solo che facciano del loro meglio, che tentino il tutto per tutto. Sta bene, tutti in piedi. E alzate la mano destra.

Si mise in piedi a sua volta, faticosamente. Trenta secondi dopo eravamo ufficiali provvisori, in prova e in soprannumero.


A questo punto credetti che dopo averci consegnato le nostre belle stellette, ci avrebbe lasciato andare. Le stellette non dovevamo comprarcele di tasca nostra: erano un prestito come lo era la nomina provvisoria che rappresentavano. Invece il colonnello tornò a sedere, si appoggiò allo schienale e assunse un’espressione quasi umana.

— Sentite, ragazzi. Finora vi ho parlato di quanto sarà duro il compito che vi aspetta. Voglio che ve ne preoccupiate in anticipo, ci pensiate su e cerchiate di immaginare che cosa potreste fare per tenere testa a tutte le situazioni difficili che si presentassero sul vostro cammino, tenendo sempre presente come la vostra vita appartenga ai vostri uomini e non a voi, e quindi non potete buttarla via nella stupida ricerca della gloria, o salvarla qualora la situazione richieda che la sacrifichiate. Voglio che vi preoccupiate fino a star male prima di un lancio, in modo che possiate restare calmissimi quando sarete in azione. Il che è impossibile, naturalmente — aggiunse subito. — Però, c’è una valvola di sicurezza. Qual è l’unico fattore che può salvarvi quando il carico si fa troppo pesante? Da chi è rappresentato?

Nessuno rispose.

— Su, coraggio! — disse Nielssen sprezzante. — Non siete mica reclute, no? Signor Hassan!

— Dal sergente di squadrone, signor colonnello — rispose Hassan.

— Ma è logico! Probabilmente è più anziano di voi, ha preso parte a più lanci e conosce i suoi uomini meglio di chiunque. Non essendo gravato da pesanti responsabilità di comando, può trovarsi nella condizione di pensare con maggior chiarezza rispetto a chiunque. Chiedete il suo consiglio. Disponete di un circuito fatto apposta per questo. E non temete che la sua fiducia in voi diminuisca: è lì proprio per essere consultato. Se non lo fate, si convincerà che siete un pazzo, un presuntuoso, e avrà ragione. Però, non siete obbligati a seguire il consiglio che vi darà. Comunque, che usiate le sue idee o che preferiate fare di testa vostra, decidete in fretta e sparate ordini senza perdere tempo. L’unica cosa, l’unica, capito?, che può far nascere il terrore nel cuore di un buon sergente è il fatto di scoprire che sta lavorando per un capo che non sa mostrarsi deciso. Non c’è mai stata collaborazione tanto stretta tra uomini e ufficiali quanto quella che si è instaurata nella nostra Fanteria spaziale mobile, e i sergenti sono il raccordo tra noi e i soldati. Non dimenticatelo mai.

Il comandante spinse la sua sedia a rotelle vicino a un armadietto sistemato accanto alla sua scrivania che si rivelò un casellario. Ciascuna casella conteneva una scatoletta. Nielssen ne tirò fuori una, l’aprì. — Signor Hassan…

— Signor colonnello?

— Questi gradi furono portati dal capitano Terence O’Kelly durante la sua missione di tirocinio. È contento di portarli?

— Prego? — La voce di Hassan era tremula, e per un attimo pensai che stesse per scoppiare in lacrime. — Signorsì, colonnello!

— Venga qua. — Il colonnello Nielssen gli appuntò le stellette, poi aggiunse: — Le indossi con altrettanto onore, ma le riporti indietro! Mi ha capito?

— Sì, signor colonnello. Farò del mio meglio.

— Ne sono certo. C’è un’aviomobile che la aspetta sul terrazzo, e la sua lancia decolla tra ventotto minuti. Esegua gli ordini ricevuti, signor Hassan!

Hassan salutò e uscì. Il comandante si voltò e prese un’altra scatolina. — Signor Byrd, è superstizioso?

— No, signor colonnello.

— Davvero? Io sì e molto. Ma se non lo è allora non avrà niente in contrario a portare queste stellette. Sono state portate da cinque ufficiali, tutti rimasti uccisi in combattimento.

Birdie esitò solo per un istante. — Niente in contrario, signor colonnello.

— Bene. Infatti questi cinque ufficiali hanno accumulato diciassette decorazioni, dalla Medaglia terrestre al Leone ferito. Venga qui. La stelletta con la doratura rovinata dev’essere sempre portata sulla spalla sinistra, e non tenti di cambiare l’ordine. Faccia in modo, invece, che l’altra non resti segnata alla stessa maniera. A meno che non sia necessario, e questo lo giudicherà lei. Qui c’è un elenco di coloro che le hanno portate. Ha trenta minuti di tempo prima che la sua lancia salpi. Faccia un salto alla Memorial Hall, e si documenti su ognuno di loro.

— Sì, signore.

— Esegua gli ordini, signor Byrd.

Poi si rivolse a me, mi guardò in faccia e chiese: — Ha qualcosa in mente, figliolo? Parli pure.

— Ecco… — Mi decisi. — Signor colonnello, per quel sottotenente, quello che fu processato e destituito. Come potrei trovare qualcosa che parli di lui?

— Giovanotto, non intendevo terrorizzarla, volevo soltanto farla riflettere. La battaglia avvenne nel giugno del 1813. Fu un combattimento vecchio stile tra la statunitense Chesapeake e la britannica Shannon. Cerchi nell’Enciclopedia navale, a bordo della sua astronave deve essercene una copia. — Poi si girò verso l’armadietto che custodiva i gradi. — Signor Rico, ho avuto una lettera da parte di uno dei suoi insegnanti, un ufficiale a riposo. Mi prega di dare a lei le stellette che portò lui quando era sottotenente. Mi dispiace, ma devo dire di no.

— Sì, signore. — Ero felice di sentire che il colonnello Dubois continuava a interessarsi di me, ma molto deluso della risposta del comandante.

— Non posso, figliolo! Assegnai quelle stellette due anni fa e non è stato più possibile riaverle. Hmm… — Prese una scatoletta e mi guardò. — Può inaugurarne un paio nuovo. Non è il metallo che conta. Conta il desiderio del suo insegnante di trasmetterle quelle da lui indossate.

— Sì, signor colonnello.

— Oppure… — mostrò la scatoletta che aveva in mano — può mettersi queste. Sono state portate cinque volte, e gli ultimi quattro candidati che le ricevettero non riuscirono a diventare ufficiali. Niente di disonorevole, intendiamoci, solo quattro casi di sfortuna nera. È disposto a tentare di sfatare questa iattura, e a trasformarle in stellette portafortuna?

Avrei preferito tentare di addomesticare un pescecane. Ma risposi: — Benissimo, signor colonnello, proverò.

— Bravo. — Mi appuntò le stellette. — Grazie, signor Rico. Vede, erano mie. Fui io il primo a indossarle, e sarei lieto di vedermele riconsegnare liberate da questa specie di maleficio, una volta che sarà diventato ufficiale effettivo.

Mi sentii subito alto tre metri. — Proverò, signor colonnello!

— Ci conto. E adesso, esegua gli ordini ricevuti, signore. La stessa aviomobile trasporterà lei e Byrd. Ancora una cosa… I suoi libri di matematica, li ha nello zaino?

— No, signor colonnello.

— Vada a prenderli. L’addetto al peso della sua astronave è già stato avvisato che avrà del bagaglio extra.

Salutai e uscii, scattando. Nominandomi la matematica mi aveva subito ridotto a dimensioni normali.

I libri erano sul mio tavolo da lavoro, legati insieme, con un foglietto di esercizi quotidiani infilato sotto il cinturino di gomma. Ebbi subito l’impressione che il colonnello Nielssen non trascurasse mai niente, ma del resto era una cosa risaputa.


Birdie mi aspettava sul tetto, accanto all’aviomobile. Guardò i miei libri e sorrise. — Poveraccio! Be’, se ci mandano sulla stessa astronave, ti darò qualche ripetizione. Tu, su quale vai?

— Sulla Tours.

— Peccato! Io sulla Moskva.

Salimmo, controllai il pilota automatico, vidi che era stato programmato per lo spazioporto, chiusi la portiera e la vettura partì. Birdie disse ancora: — Poteva andarti anche peggio. Hassan ha dovuto portarsi dietro non solo i libri di matematica, ma anche quelli di altre due materie.

Birdie non aveva parlato per vanterìa quando si era proposto per darmi delle ripetizioni: era un tipo decisamente professionale, ma anche un ottimo soldato.

Invece di studiare matematica, Birdie la insegnava. Ogni giorno si trasformava per un’ora in docente, proprio come Shujumi ci aveva insegnato judo al campo Arthur Currie. La Fanteria spaziale mobile non spreca mai niente: non può permetterselo.

Birdie si era laureato in matematica a diciotto anni, di conseguenza gli erano stati assegnati compiti supplementari come istruttore. Il che non lo salvava dal prendersi le sue buone reprimende durante gli altri corsi.

Non che ne prendesse molte. Birdie possedeva quella rara combinazione di qualità che comprende un’intelligenza brillante, un’ottima educazione e istruzione, molto buon senso e una notevole spina dorsale. Un cadetto con queste doti è considerato un futuro generale. Eravamo tutti convinti che, specie con una guerra in corso, Birdie aveva buone probabilità di trovarsi a trent’anni a comandare una brigata.

Le mie ambizioni, invece, non si spingevano così in alto. — Sarebbe una vergogna — dissi — se Hassan venisse sbattuto fuori. — Ma in cuor mio pensavo che sarebbe stata una vergogna se fossi stato sbattuto fuori io.

— Non c’è pericolo — mi rispose allegramente Birdie. — Riusciranno a farlo arrivare fino in fondo, a costo di chiuderlo in un apparecchio ipnotico e alimentarlo con una sonda. In ogni caso, Hassan potrebbe essere sbattuto fuori e venire promosso ugualmente.

— Che cosa?

— Non lo sapevi? Il grado permanente di Hassan è quello di tenente, di complemento, s’intende. Se agli esami non passa, torna tenente di complemento. Guarda il regolamento e vedrai.

Lo conoscevo, il regolamento. Se mi bocciavano in matematica, sarei tornato sergente il che è sempre meglio che essere preso a pesci in faccia, a pensarci bene. E io restavo sveglio notti intere a pensarci.

Ma qui il caso era diverso. — Aspetta un momento — protestai. — Hassan avrebbe dunque rinunciato al grado di tenente permanente, e sarebbe stato appena nominato sottotenente provvisorio per poter diventare in seguito sottotenente effettivo. È così? Senti, chi è il pazzo tra voi due?

Birdie sorrise. — Siamo abbastanza pazzi tutti e due per essere dei fanti spaziali mobili.

— Io non ci capisco niente.

— Ora ti spiego. Tutto quello che sa, Hassan l’ha imparato nella Fanteria spaziale mobile. Di conseguenza, a che cosa può aspirare? D’accordo, potrebbe guidare un reggimento in battaglia e fare miracoli, ma comandare un’unità combattente è solo una minima parte di quello che un ufficiale deve saper fare, specie un ufficiale superiore. Per condurre una guerra, o anche soltanto per stendere il piano di una singola battaglia e organizzare l’operazione, devi conoscere la teoria dei giochi, l’analisi operazionale, la logica simbolica, la sintesi pessimistica e una quantità di altre cose difficili. Altrimenti, caro mio, uno non va più in là del grado di capitano o maggiore. Hassan sa quello che fa.

— Ah, lo credo! — dissi, sbalordito. — Birdie, il colonnello Nielssen deve saperlo che Hassan è già ufficiale…

— Ah, sì, naturalmente.

— Eppure si è comportato come se lo ignorasse. Ha fatto lo stesso predicozzo a tutti e tre.

— Non proprio. Ti sei accorto che quando il comandante voleva una risposta a una particolare domanda si rivolgeva a Hassan?

Già, Birdie aveva ragione. — Birdie, qual è il tuo grado permanente?

La vettura stava per atterrare, Birdie posò la mano sulla maniglia della portiera e sorrise. — Fante scelto… Io sì che non posso rischiare di farmi sbattere fuori!

— Ma fammi il piacere! Non ti sbattono fuori, va là! — Ero sorpreso, però: Birdie non era nemmeno caporale. Ma un ragazzo in gamba come lui lo spedivano al corso subito dopo il primo lancio, la qual cosa, con una guerra in corso, poteva avvenire solo alcuni mesi dopo il suo diciottesimo compleanno.

Il sorriso di Birdie si allargò. — Vedremo.

— Tu avrai i gradi. Hassan e io dobbiamo preoccuparci, non tu.

— Davvero? E se per esempio riuscissi antipatico alla signora Kendrick, eh?

Aprì la portiera e assunse un’espressione allarmata. — Ehi! Questo è il segnale della mia lancia! Ti saluto!

— Ci vediamo, Birdie.

Ma non ci rivedemmo, e agli esami non c’era. Venne nominato ufficiale due settimane più tardi, e le sue stellette tornarono arricchite della diciottesima decorazione al valore: la Gran croce del leone ferito. Alla memoria.

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