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…Jansky, inaspettatamente, aveva registrato onde radio dalla galassia mentre studiava… le scariche e i rumori di fondo che interferiscono nelle comunicazioni radio. La scoperta di Jansky ha contrassegnato, nel 1932, la prima fruttuosa osservazione di radioastronomia. È davvero strano che sia occorso tanto tempo per capire che onde radio ci giungono da fonti celesti.

J.S. Hey

The Evolution of Radio Astronomy — 1973


A Mosca erano quasi le undici di sera. Una nevicata leggera cadeva dal cielo cupo, plumbeo, e ricopriva sia i monumenti più antichi sia i quartieri residenziali più recenti di una soffice coltre bianca. All’alba, vecchi e donne si sarebbero disposti ai loro posti lungo le strade, a spalare dai marciapiedi la neve che poi gli spazzaneve avrebbero raccolto.

Kirill Markov guardò la sveglia sul comodino.

«Mi fai il solletico» disse la ragazza.

Markov abbassò gli occhi su di lei. Per un attimo, non riuscì a rammentarne il nome. Difficile scrutarne il viso al buio, ma i suoi lunghi capelli biondi riflettevano la luce che filtrava dal lampione fuori. Nadia, ricordò finalmente. È triste, rifletté una parte della sua mente, che quando si dà la caccia a una donna non si riesca a pensare a nient’altro, e che poi diventi così immemorabile dopo averla conquistata.

“Donna!” sbuffò tra sé. “È solo una ragazza.”

«Mi stai facendo il solletico!»

Markov scoprì che era la sua barba a essere sotto accusa e, spostando il mento in cerchio, fece correre l’estremità delle basette attorno al capezzolo del seno destro di lei.

La ragazza rise e gli passò le mani sul collo.

«Ce la fai ancora?» gli chiese.

«In inglese» le rispose Markov, con un sussurro dolce. «Il nostro patto era che avremmo fatto l’amore solo in inglese. È il modo migliore per imparare una lingua.»

Lei strinse le labbra, si concentrò con una smorfia. “Ha un viso molto comune” pensò Markov. “Addirittura insignificante.”

La ragazza, sempre accigliata, disse lentamente in inglese: «Ce la fai a fregarmi un’altra volta?» L’accento era atroce.

Soffocando una risata, Markov disse: «Fottere… Non fregare.»

Lei annuì. «Ce la fai a fottermi un’altra volta?»

«Questo verbo è considerato di cattivo gusto da inglesi e americani, ma non dagli australiani.»

«Fregare?»

«No. Fottere. In genere lo sostituiscono con un eufemismo.»

«Un eufemismo?»

Markov alzò gli occhi al cielo. “Non supererà mai gli esami, anche se va a letto con tutti.” E, mentre le spiegava in russo il significato del termine, aggiunse mentalmente: “A meno che non riesca a fottere il computer”.

«Adesso capisco» disse Nadia, in inglese.

«Bene» disse lui.

«Allora, ce la fai?»

«Cosa dovrei fare?»

«Oh, dai, insomma…»

«Ah!» Quando arrivò a capire che la mente di lei non si era distolta dai suoi obiettivi carnali, Markov ribatté: «Rifare l’amore con te? Volentieri! Con tutta la mia passione più incandescente. Ma non adesso. È ora che tu torni in collegio.»

In russo, lei piagnucolò: «È proprio necessario? Qui è così intimo, e fa così caldo!» Le dita della ragazza tracciarono linee sulle spalle e sulla schiena di lui.

«Tra un po’ non sarà tanto intimo. Mia moglie sta per tornare.»

«Oh, lei!»

Markov sedette sul letto. Era nudo, e la stanza gli parve fredda.

«È mia moglie, cara bambina, e questo appartamento è più suo che mio. Credi che a un semplice professore universitario di lingue darebbero un appartamento così elegante, in una zona tanto bella della città?»

La ragazza si alzò e, nuda, andò in bagno senza aggiungere una parola. Osservandola, Markov notò che aveva cosce e sedere piuttosto abbondanti. Non se n’era accorto, prima di andare a letto.

Con un sospiro, scese dal letto e tolse le lenzuola. Ne aveva sempre pronte due paia diverse: uno per il matrimonio, e uno per le avventure. Sua moglie aveva un olfatto finissimo, e per certe cose era un vero segugio.

Nadia tornò in camera, rimettendosi i pantaloni imbottiti e infilandosi il camiciotto nella cintura.

«Cosa fa, tua moglie, per avere un appartamento così fantastico? Un bagno personale solo per voi due!» Era quasi un rimprovero.

«Lavora al Cremlino» disse Markov. «È segretaria di un commissario.»

La ragazza spalancò gli occhi. «Ah, capisco. Per forza la trattano tanto bene.»

Markov annuì, afferrò la vestaglia. «Sì. Nella nostra società progressista, i commissari lavorano così tanto e danno una tale parte della loro vita per il bene del popolo che persino le loro segretarie vivono come… come vivremo tutti, quando il vero comunismo avrà trionfato nel mondo intero.»

Lei annuì, senza notare l’ironia di quelle parole, Markov l’accompagnò nel piccolo soggiorno, fino alla porta sul corridoio.

«È un modo meraviglioso per imparare l’inglese» disse Nadia «ma temo che mi occorreranno molte lezioni.»

Markov le batté sulla spalla. «Vedremo. Nel frattempo, sarebbe una buona idea se tu frequentassi le lezioni e passassi più tempo coi nastri registrati del laboratorio di lingue.»

«Oh, certo» disse lei, sincera. «Grazie, professore.»

Lui si chinò a baciarle le labbra, poi la spinse in fretta oltre la porta, nel corridoio male illuminato.

Chiusa la porta, Markov vi si appoggiò un attimo, “Un caso disperato” si disse. “Hai quarantacinque anni e ti dedichi ancora a questi giochi infantili.”

Poi, però, un sorriso nacque sul suo viso barbuto. “E perché no?” si disse. “È divertente.”

Era alto quasi un metro e ottantacinque, di corporatura magra, con gambe lunghe e braccia che gli penzolavano lungo i fianchi quando camminava. I capelli rossicci cominciavano a scolorirsi, e la barba ruvida era quasi completamente grigia. Però il suo viso non conosceva rughe, era ancora quello di un ragazzo. Gli occhi azzurro chiaro lanciavano faville. E le sue labbra piene sorridevano spesso.

Quando teneva conferenze all’università, la sua voce era forte e chiara; non gli serviva il microfono per farsi udire dalle ultime file. Quando cantava (di solito a festicciole dove la vodka scorreva abbondante), il suo tono baritonale aveva un timbro chiarissimo, senza sbavature.

Si staccò di colpo dalla porta, corse in camera da letto e finì di cambiare le lenzuola. Infilò quelle sporche nella valigetta speciale che teneva dietro lo scrittoio. Una volta alla settimana, le lavava nella lavatrice del seminterrato della casa dello studente, all’università: un ottimo posto per conoscere ragazze che non seguivano il suo corso.

Alla fine si lavò, e si sistemò in salotto nella sua poltrona preferita, davanti alla stufa elettrica. Proprio mentre stava prendendo un tomo voluminoso e infilandosi gli occhiali sentì le chiave di Maria girare nella serratura.

Maria Kirtchatovska Markova era un po’ più anziana del marito. Era originaria di una famiglia di contadini, cosa di cui andava molto fiera. E aveva l’aspetto della contadina: bassa, tozza, occhietti di un castano insignificante, capelli color topo di campagna, corti e schiacciati sulla testa. Non era una bellezza, e non lo era mai stata. E non era nemmeno la segretaria di un commissario.

Quando Markov l’aveva conosciuta, un quarto di secolo prima, lui era studente di linguistica all’università, e lei una guardia dell’Armata Rossa appena congedata. Lei era ambiziosa, lui era un ingegno brillante.

La loro unione si era basata sul reciproco vantaggio. Markov aveva pensato che il matrimonio avrebbe fatto sbocciare l’amore, ed era rimasto stupefatto nello scoprire che non era così. Lei aveva accettato subito di lasciare che lui si dedicasse ai “suoi interessi”, espressione eufemistica che Markov usava per le sue avventure. Maria voleva solo l’intelligenza del marito, da sfruttare per fare carriera in seno al governo.

L’accordo funzionò bene. Maria entrò a far parte del KGB e arrivò, con gli anni, al grado di maggiore. Al momento, lavorava con un gruppo ristretto che si occupava di criptoanalisi, cioè della decodificazione di messaggi segreti. Per quanto ne sapeva Markov, sua moglie non aveva mai arrestato nessuno, mai interrogato un prigioniero, non era mai stata coinvolta nelle torture e negli omicidi di cui si sussurrava quando qualcuno aveva il coraggio di parlare della polizia segreta.

E Markov era professore di linguistica alla stessa università dove aveva studiato. La sua carriera era stata anonima, tranne che per un particolare: il suo interesse per i codici, la criptologia e le lingue esotiche. Di tanto in tanto, aveva scritto qualche articolo sui linguaggi che creature aliene avrebbero potuto usare per entrare in contatto con la razza umana. Aveva anche scritto un libriccino sui possibili linguaggi extraterrestri, e il governo lo aveva addirittura stampato. Non si chiedeva mai se sarebbe arrivato a tanto senza Maria, se non a volte nel cuore della notte, quando lei aveva da fare in ufficio e lui non aveva trovato nessun’altra con cui andare a letto.

«Non hai freddo, con quella vestaglia?» chiese Maria, chiudendo la porta e depositando a terra la pesante borsa a tracolla.

«No» disse Markov scrutandola da dietro l’orlo degli occhiali. «Non adesso che tu sei qui.»

Lei ebbe un’espressione imbronciata. «Hai dato altre lezioni ai tuoi studenti?» Anche Maria sapeva usare gli eufemismi.

Markov scrollò le spalle. Non erano affari suoi. E poi, nonostante sapesse tutto, lei si arrabbiava sempre quando ne parlava apertamente. “Che strana donna” rifletté. “Ormai dovrebbe essersi abituata alla situazione. Dopo tutto ha accettato i patti.”

«Perché hai dovuto lavorare fino a quest’ora?» le chiese, senza alzarsi dalla poltrona. Sapeva che Maria non gli avrebbe risposto. Non poteva rispondere. Buona parte del suo lavoro era talmente delicato che non poteva discuterne col marito. Ma in rarissime occasioni, quando giungeva a un punto morto con un codice o una traduzione, gli proponeva il problema. Markov aveva fallito spesso, ma a volte aveva fatto di sua moglie un eroe dell’Unione Sovietica.

Maria affondò nella poltrona più vicina alla stufa elettrica. Pozzanghere di neve che si scioglievano cominciarono a formarsi attorno ai suoi stivali, bagnando l’antico tappeto orientale. La donna guardò la stufa. «Quest’affare non funziona bene» brontolò.

«È il voltaggio, credo» disse Markov. «Avranno abbassato ancora il voltaggio per risparmiare energia.»

«E noi congeliamo.»

«È necessario, immagino.»

Lei lo scrutò, lo soppesò col suo sguardo cinico e circospetto da contadina. Markov capì che sua moglie si stava chiedendo se potesse fidarsi di lui. Leggeva il viso di lei come un sillabario.

«Vuoi davvero sapere perché tutte le sere resto al quartier generale fino a tardi?» gli chiese lentamente Maria.

Lui si inumidì le labbra. «No, se c’è di mezzo qualcosa che non devi dirmi.» E, tornando al libro che aveva in grembo: «Non lasciarti tentare a svelarmi segreti di stato.»

«So di potermi fidare di te… in certe cose.»

Markov si concentrò nella lettura.

«Kirill! Guardami quando ti parlo! Mi serve il tuo aiuto.»

Lui alzò gli occhi.

«Non è mai accaduto niente di simile.»

Era davvero sconvolta. Al di sotto della sua aria diffidente, lui vide sul suo volto qualcosa di molto vicino alla paura.

«Di cosa si tratta?» le chiese, togliendosi gli occhiali.

«Domani devi venire con me al quartier generale. Dovremo sottoporti a controlli rigorosi.»

«Controlli? Perché? Cos’ho fatto?»

Lei scosse la testa, gli occhi chiusi per la stanchezza. «No, niente del genere. Non impaurirti. È solo un normale controllo di sicurezza. Prima di mostrarti i dati, devi avere il nullaosta di sicurezza.»

Adesso il cuore di Markov galoppava, e i palmi delle mani erano sudati. «Quali dati? Se è una faccenda tanto delicata, perché volete coinvolgermi?»

«Per quello stupido libro che hai scritto. Vogliono parlarne con te.»

«Il mio libro sui linguaggi extraterrestri? Ma è stato pubblicato sei anni fa.»

Maria aprì gli occhi e lanciò al marito uno sguardo da gelare le ossa. «Non è mai accaduto niente di simile. Il problema ci è stato sottoposto dall’Accademia delle Scienze.»

«L’Accademia…?»

«Dall’accademico Bulacheff in persona. Il presidente.»

Gli occhiali scivolarono giù dal libro in grembo a Markov, caddero sul tappeto. Lui non accennò a raccoglierli.

«Kir» chiese Maria «sai dove si trova il pianeta Giove? Cos’è?»

«È il pianeta più grande del sistema solare. Molto più grande della Terra. Però è freddo, lontano dal Sole.»

«Stanno arrivando segnali radio da Giove» disse Maria, e chiuse ancora gli occhi, come nel tentativo di soffocare il problema. «Segnali radio. Tu devi dirci se costituiscono un linguaggio.»

«Un linguaggio?» La voce di Markov era stranamente stridula, come quella di un ragazzo spaventato.

«Sì. Questi segnali radio potrebbero essere un linguaggio. Di creature intelligenti. Abbiamo bisogno di te per studiarli.»

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