PARTE TERZA

18

Sulle prime gli era sembrato che la gabbia fosse vuota, ma quando si voltò e vide qualcosa che si muoveva verso di lui dall’angolo opposto, atteggiò le labbra a sorriso. Aveva un compagno di sventura, e il non essere solo era già di per sé un sollievo. Però il sorriso gli si gelò sulle labbra, quando vide che l’essere era una donna: una donna nuda, con una gran massa di capelli castani che le scendevano fino alla vita in una cascata di riccioli. E l’espressione della ragazza era tutt’altro che amichevole. Come se non bastasse, stava arrivando di corsa e brandiva una punta di lancia grossa e acuminata.

Eric parò il colpo con gesto meccanico. La ragazza indietreggiò sorpresa, ma si riprese immediatamente e ripartì alla carica. Questa volta, la punta aguzza sfiorò la gola di Eric. Ma i riflessi pronti e il lungo addestramento lo salvarono ancora una volta. Riavutosi dallo sbalordimento iniziale, nel suo cervello si affollava una ridda di domande: chi era quella ragazza? come mai era armata? com’era possibile che una donna combattesse come un guerriero? e perché lo assaliva con tanta determinata ferocia?

Era chiaro che voleva ucciderlo e che non aveva nessuna intenzione di cedere prima di avere raggiunto lo scopo. Aveva gli occhi socchiusi, le labbra serrate, un’espressione decisa, e vibrava l’arma pronta a gettarsi su di lui, a colpirlo in un punto scoperto.

Come poteva farla smettere? Non poteva contrattaccare. Non aveva la minima intenzione di ferirla o ucciderla, anche se gli sarebbe stato facilissimo riuscirci. Ma era una donna, e in lui erano ancora troppo radicate le antiche tradizioni secondo cui una donna in età da generare era sacra e intoccabile. Un guerriero che avesse toccato con un’arma una donna sarebbe stato dichiarato Fuorilegge, anche se fosse stato il capo. Perciò Eric si limitava a difendersi alla meglio. Erano tutti e due sudati e ansimanti, e per un pelo la lancia della ragazza non lo ferì a un occhio.

«C’è mancato poco!» mormorò Eric.

La ragazza si fermò di botto, fissandolo con gli occhi sbarrati.

«Cos’hai detto!» ansimò. «Tu hai detto qualche cosa…»

Eric la fissò a sua volta, chiedendosi sé per caso non fosse pazza. Forse lui poteva approfittare di un momento di distrazione per cercare di disarmarla. Per prendere tempo, ma senza perdere d’occhio la lancia, rispose: «Sì, ho parlato. E allora?»

Lei abbassò il braccio e arretrò di qualche passo. «Ma, allora, sai parlare.»

«Ci mancherebbe altro» disse Eric, seccato. «Per cosa mi prendi, per un Selvaggio?»

Per tutta risposta, la ragazza lasciò andare la lancia, cadde a terra in ginocchio, abbassò la testa, e scoppiò a piangere.

Eric si affrettò a raccogliere la lancia e la scagliò lontano, insieme alle sue. Poi si avvicinò alla ragazza che continuava a piangere, scossa da singhiozzi convulsi. La osservò perplesso, anche perché sapeva che quelli erano singhiozzi di sollievo, non di dolore o di paura.

Decise di aspettare. Adesso che era disarmata, lui non aveva più niente da temere e poteva permettersi il lusso di essere paziente. Si augurò, tuttavia, che smettesse presto di piangere e che non fosse pazza come l’aveva giudicata. Non era una bella prospettiva l’idea di vivere chiuso in gabbia con una matta.

Finalmente lei rialzò la testa, asciugandosi la faccia con un braccio. Poi si distese, con le mani intrecciate dietro la nuca e rivolse ad Eric un sorriso invitante. Il giovane si sentì più confuso che mai.

«Sai che era proprio quello che credevo?» furono le prime parole della ragazza.

«Cosa credevi?»

«Che tu fossi un Selvaggio!»

«Io?» disse Eric, più sorpreso che mai.

«Sì, proprio tu. E non ero la sola a crederlo.»

Eric tornò a guardarsi intorno, ma oltre a loro due nella gabbia non c’era nessuno. Indubbiamente la ragazza era proprio matta.

Ma lei, che aveva seguito la direzione del suo sguardo, si mise a ridere e disse: «No, non parlo di altri uomini. Alludo a lui, a quello che ti ha portato qui» e alzò l’indice verso l’alto.

Eric alzò gli occhi e vide che il Titanico che l’aveva trasportato fin lì teneva la testa china sopra la gabbia e li guardava, con gli occhi purpurei fissi e i tentacoli rosa immobili.

«Ma perché… perché doveva credere che fossi un Selvaggio? E tu…»

Eric si sentiva profondamente offeso. Essere scambiato per gli abominevoli mitici Selvaggi, era proprio il colmo! Le storie di orde d’esseri semiumani caduti così in basso nella scala evolutiva da non sapere più nemmeno parlare, pelosi, feroci, dediti alle stragi e al cannibalismo, servivano a spaventare e a tenere buoni i bambini nei cunicoli. Ma sebbene tutti parlassero di loro con paura e orrore, nessuno, nemmeno i più vecchi guerrieri, li aveva mai incontrati, e i Selvaggi erano diventati creature da leggenda. Si diceva che vivessero in un mondo lontano, chiamato «Esterno», in realtà, di loro si sapeva ben poco. Servivano come minaccia e spauracchio, e quando un guerriero aveva commesso un’azione particolarmente vergognosa, l’insulto peggiore che gli si poteva rivolgere era quello di chiamarlo Selvaggio. E adesso, quella ragazza… Con quale diritto gli parlava così?

«In primo luogo» proseguì la ragazza, «ho creduto che tu fossi un Selvaggio perché così credeva anche lui» e tornò a indicare il Titanico. «Ne ha già portati qui dentro due, prima di te, uno per volta e per fortuna sono riuscita a ucciderli subito, prima che si riavessero dalla sorpresa e potessero passare al contrattacco.»

«Ma allora… i Selvaggi esistono davvero?»

«Come? Non ne hai mai visti? Per Aaron, ma da dove vieni?»

«Appartengo a una tribù dei cunicoli di superficie» rispose, evitando di dire Umanità perché ricordava con quanto disprezzo avessero considerato questa definizione gli Stranieri! «Una tribù molto piccola. Non credo che tu l’abbia mai sentita nominare.»

«Già… una tribù dei cunicoli di superficie» ripeté la ragazza. «Si capisce da come sei pettinato. A quanto pare, basta che uno porti i capelli sciolti perché i Titanici lo credano un Selvaggio. Inoltre, devono avere capito che sono una femmina, e siccome ho i capelli lunghi e sciolti, insistono a mettere nella mia gabbia dei Selvaggi nell’evidente speranza che ci accoppiamo. Ecco perché, quando ti ho visto arrivare, con tutti quei capelli che ti svolazzavano sulle spalle, mi sono detta: Rachel, ci siamo di nuovo, e siccome non ho voglia di diventare né la compagna né un boccone prelibato per qualche Selvaggio, non ho perso tempo e ho preso la lancia. Se fossi stata un po’ più calma, avrei notato le lance, la bisaccia, il perizoma, e ti avrei giudicato altrimenti.»

«Ti chiami Rachel? Io sono Eric, Eric l’Occhio.»

Lei si alzò in piedi e gli porse la mano. «Sì, sono Rachel, Rachel la Figlia-di-Ester. Sono contenta di avere qualcuno con cui parlare… Vieni dai cunicoli di superficie, eh? Capisco allora perché tu non hai mai visto i Selvaggi. Non arrivano mai fin lassù. È troppo lontano dall’Esterno. Ma la mia gente deve combattere spesso contro di loro. E i Titanici ne hanno catturati molti, per i loro esperimenti. Pare che abbiano messo trappole dappertutto nell’Esterno. Ehi, guarda!»

Eric seguì la direzione del suo sguardo: il Titanico che l’aveva trasportato lì scosse più volte la testa, con aria soddisfatta, e poi si allontanò.

«Ah, Ah!» rise Rachel. «È contento di avere finalmente trovato un compagno di mio gradimento.»

«Come fai a saperlo?» chiese Eric.

«In primo luogo non ti ho ammazzato, poi, ha visto che ci siamo scambiati una stretta di mano e deve averlo considerato un gesto amichevole. Anzi, siccome i Titanici sanno ben poco di noi, come noi sappiamo ben poco di loro, forse pensa che il gesto di stringerci la mano significhi amore, passione.»

Eric diventò rosso. Non aveva mai sentito una donna parlare in quel modo. Si affrettò a cambiare discorso.

«Appartieni alla Gente di Aaron, non è vero?» chiese.

Lei lo guardò sorpresa. «Come fai a…? Ma già, poco fa ho esclamato “per Aaron”! Che sciocca!»

«E poi l’ho intuito anche dal tuo nome. Nella gabbia dove stavo prima c’era uno che apparteneva alla gente di Aaron e si chiamava Jonathan Danielson: Jonathan-figlio-di-Daniel.»

«Jonathan? È vivo?» chiese lei con apprensione, afferandogli un braccio.

«È morto poco prima che venissi trasportato qui. Ha detto che anche un altro dei suoi compagni, uno solo, era stato preso vivo, un certo Saul Davidson. Ma poi è stato vivisezionato.»

Rachel chiuse gli occhi inorridita. «Oh… Saul era mio cugino. Ci volevamo bene. Col permesso di Aaron, ci saremmo sposati al ritorno dalla spedizione.»

«Mi dispiace» mormorò Eric carezzando la mano che gli stringeva il braccio. «E purtroppo non è tutto. Danielson mi ha detto che un Titanico ha ucciso tutti gli altri membri della spedizione, con una sola zampata.»

«Non è vero» ribatté Rachel. «Facevo parte anch’io della spedizione e so di certo che almeno tre sono stati catturati e sottoposti a esperimenti. Jonathan non era un buon capo: troppo scolastico, poco pratico. Nelle situazioni di emergenza perdeva la testa. Non ha mai visto quello che è successo agli altri perché era accecato dal panico.»

Sospirò, scosse la testa e tacque a lungo pensosa. Poi si riprese e sorrise a Eric. «Scusami» disse. «Ormai non ha più importanza. Vieni, voglio mostrarti qualcosa che forse ci potrà servire.»

Prese Eric per mano e lo portò nell’angolo della gabbia, dov’era disteso un gran pezzo di stoffa, e su quella stoffa erano cucite, vicine l’una all’altra, numerosissime tasche da cui sporgevano oggetti strani e sconosciuti. Sebbene più ampia, ricordava a Eric la tunica di Jonathan Danielson.

«È tuo?» chiese.

«Sì, mio. È il mio mantello. Vedi, al centro c’è un buco da cui faccio passare la testa, e la stoffa mi ricade tutt’intorno. È impermeabile.»

«Impermeabile?»

«Sì. A prova d’acqua. Vuol dir che l’acqua ci scorre sopra ma non si bagna. L’ho indossato nelle spedizioni all’Esterno, dove l’acqua cade dal tetto. Inoltre è una specie di laboratorio portatile. Vedi quanti utensili? Questo per esempio.» Così dicendo, estrasse da una delle tasche una sbarra piegata che lei distese in tutta la lunghezza. All’estremità, uscivano dei fili connessi a due piccoli cilindri. «Questo congegno era lo scopo della nostra spedizione» spiegò. «L’ha creato un gruppo di scienziate della Società Femminile, con l’idea che potesse servire a neutralizzare le corde verdi. Come saprai, quelle corde funzionano secondo il principio dell’affinità protoplasmatica.»

Eric annuì con aria saputa. «Così come le porte dei Titanici funzionano secondo il principio inverso: incompatibilità protoplasmatica» disse.

«Esatto» disse Rachel. «Proprio così. Bene, neutralizzare l’affinità protoplasmatica è un problema che la mia gente ha cercato di risolvere per molto tempo, ma invano. Finalmente, abbiamo costruito questo congegno, e siamo partiti, io, che sono una scienziata, e tredici uomini, per scorta e protezione, allo scopo di provare se funziona o meno. E funziona, altroché se funziona! Anche troppo bene. Siamo riusciti ad arrivare fin qui nel laboratorio, senza alcun danno. Appena entrati abbiamo visto un Titanico e mi sono subito offerta di provare il neutralizzatore. Il Titanico appena mi ha visto ha calato la corda e io l’ho toccata col neutralizzatore… Tac, la corda è ricaduta floscia, perdendo di colpo le proprietà adesive. Benone dunque. Viva la scienza, applausi su tutta la linea, eccetera. Per quello che mi riguardava, la missione era compiuta, e non vedevo l’ora di tornare a casa, anche perché, sia detto fra noi, il territorio titanico non è quello che si dice un posto di villeggiatura. Stavo tornandomene dai miei tutta soddisfatta, lasciando il Titanico con un palmo di naso a esaminare la sua corda inservibile, quando, chissà perché, a Jonathan Danielson è venuta l’idea brillante.»

«Ha pensato di portare a casa la corda come un trofeo?» disse Eric. «Se è così, non posso criticarlo. Qualunque guerriero l’avrebbe fatto. No, non posso criticarlo.»

«Ma io, sì. Stai a sentire. In primo luogo, nei nostri progetti c’era solo la riuscita dell’esperimento. Niente battaglia, niente ridicoli trofei. Stavo dunque tornandomene verso il muro, quando vedo quegli stupidi partire di corsa. Cosa potevo fare? Nonostante tutta la mia scienza, sono soltanto una donna, e chi comanda sono gli uomini anche se… Beh, lasciamo perdere. Dunque, ecco che mi vedo passare davanti al galoppo Jonathan Danielson, seguito dagli altri, quelli che dovevano proteggermi. E tutti correvano con aria molto virile ed eroica. Io mi sono fermata e sono rimasta a guardare. La corda che avevo neutralizzato era ancora là dov’era caduta, e il Titanico la stava esaminando, stupito, perché certo non capiva come la sua corda avesse smesso improvvisamente di funzionare. I miei eroi pensavano certo di non avere niente da temere. Il Titanico non aveva altre corde, e si era mai visto un Titanico afferrare uomini senza corde? I tentacoli servono solo per lavori di fino. Ma io li guardai, e vidi che erano della lunghezza e del colore sbagliati.»

Eric rammentò quello che gli aveva detto Walter l’Armaiolo.

«Corti e rossastri?»

«Esatto. Ma sai che sei istruito, per essere uno dei cunicoli di superficie?»

«Ecco» disse Eric a disagio, «ho girato parecchio e so tenere le orecchie e gli occhi aperti. Però, so che tentacoli corti e rossi appartengono ai Titanici che scappano quando vedono un uomo.»

«Già, scappano se hanno modo di scappare. Quel Titanico era troppo vicino al muro, rispetto alla sua mole, naturalmente. E gli uomini gli stavano correndo addosso, disposti a semicerchio. Fu preso dal panico, certo, ma non fuggì. Si mise a strillare tanto che credevo di diventare sorda, e vidi Jonathan Danielson fermarsi allibito. Toccò a lui d’essere preso dal panico. Invece di ordinare agli altri di fare subito dietrofront e mettersi al sicuro, si mise a correre qua e là come un matto, strillando anche lui. Gli altri non sapevano più cosa fare. Alcuni seguivano Jonathan, altri rimasero fermi a fissare il Titanico, altri ancora continuarono a correre verso la corda. E allora, improvvisamente, il mostro sollevò una zampa e si mise a scalciare. Lo fece una volta sola, ma bastò perché tutti restassero colpiti, con le conseguenze che sai. Io ero così adirata, spaventata e sbalordita che mi ritrovai sospesa a un’altra corda, prima che potessi pensare a neutralizzarla. Quando ci pensai, era tardi: ero già troppo in alto.»

«Capisco. Non potevi fare diversamente. Se avessi neutralizzato la corda, quando ti stava sollevando, saresti caduta e morta. E poi ti hanno portato qui?»

«Poi i mostri mi hanno portata qui» disse la ragazza. «E adesso, Eric, hanno portato qui anche te. A dividere con me questa gabbia.»

19

Quella ragazza lo metteva decisamente a disagio con la sua disinvoltura. Era così diversa dalle donne della sua tribù. Eric era perplesso e confuso. Una cosa gli risultava chiara: Stranieri e Gente di Aaron, a quanto risultava dalla sua esperienza personale e da quanto gli aveva raccontato adesso Rachel, non valevano niente, come guerrieri. Si lasciavano prendere dal panico, non sapevano comandare, ignoravano la disciplina. D’altro canto, a mano a mano che ci si addentrava nei cunicoli, le tribù si rivelavano, sì meno ardite e coraggiose, però erano più esperte nel fabbricare utensili e altri oggetti, e soprattutto più versate nelle scienze. Guardò Rachel che nel frattempo aveva continuato a osservarlo, e le chiese: «Quel neutralizzatore di cui mi hai parlato, dovrebbe servire a rendere la pariglia ai Titanici?»

«Certamente. Tutto quello che stiamo facendo fa parte di un progetto teso a questo scopo. Senti, sei già sposato?»

«No, non ancora… Ma di che tipo è il tuo progetto? Voglio dire, si basa sulla Scienza ancestrale o su quella titanica?»

La ragazza si strinse nelle spalle, con aria sdegnosa. «Noi di Aaron non abbiamo di queste superstizioni» rispose. «Le abbiamo abbandonate da un pezzo. Il nostro progetto è nuovo di zecca e, soprattutto, è reale. È diverso da tutti quelli di cui puoi avere avuto sentore, ed è anche l’unico che può funzionare… Ma come mai un bel ragazzo come te, un guerriero robusto e giovane, non ha ancora una compagna?»

«Sono guerriero solo da pochissimo tempo. Ho superato da poco la prova dell’iniziazione… Ma se i vostri progetti non si basano sulla Scienza titanica…»

«È solo per questo che non hai ancora una compagna? Perché hai appena superato le prove dell’iniziazione?»

«Ecco…» disse Eric con aria dignitosa, «ci sono anche dei motivi personali che preferirei non discutere. M’interessa sapere in che modo il vostro progetto…»

Lei sorrise scuotendo la testa. «Uomini e donne» osservò. «Due razze diverse. Se non fosse per il problema sessuale, non avremmo proprio niente in comune… Non posso dirti altro del progetto. Anzi, ho già parlato troppo. Voglio invece discutere con te il problema dell’accoppiamento, i pro e i contro, insomma tutti gli aspetti della faccenda. È questo che m’interessa, adesso. Dimmi quali sono gli altri motivi, i motivi personali, Eric.»

«Sono figlio unico» mormorò lui, dopo avere esitato.

«Oh… vuoi dire che non sei nato da un parto plurimo. Tua madre ha avuto un figlio solo… Capisco. Le ragazze della tua tribù temevano che potesse essere un fattore ereditario. Beh, per me non costituisce un problema. C’è altro?»

«No, nient’altro» rispose lui, seccato. «Ma come puoi dire che non è un problema? Cosa può esserci di peggio che non essere capaci di generare molti figli in una sola volta?»

«Oh, ci sono molte cose peggiori, Eric, ma non è il momento di parlarne. Se t’interessa, però, sappi che fra la mia gente i parti plurimi sono alquanto rari. Al massimo, le donne mettono al mondo dei gemelli. Se dài tanta importanza ai parti plurimi, allora apprezzerai i Selvaggi, che mettono al mondo figliate di cinque o sei piccoli alla volta. Credo che questo fenomeno sia in rapporto alla distanza genetica coi nostri avi. O forse è da attribuirsi al maggiore o minore tasso di mortalità infantile. Io, personalmente, preferisco un parto singolo, specie qui, dove non ho nessuno che possa assistermi durante il parto.»

Eric era esterrefatto. «Parto? Qui? Vuoi dire che pensi a… che stai suggerendomi di…»

«Mio caro stallone barbaro, io non penso e non suggerisco. Io propongo. Propongo un’alleanza fra te e me, perché da questo giorno in avanti siamo uniti nel bene e nel male, nella salute e nella malattia. Accetti o non accetti?»

«Ma perché? Non mi avevi mai visto fino a mezz’ora fa, non sai niente di me, apparteniamo a tribù diverse. Senti, Rachel, non è che voglia accampare pretesti, ma… mi pare che tu precipiti un po’ le cose. Se hai un motivo per farlo, spiegamelo, perché io non capisco.»

«Sì, un motivo c’è. Anzi, ce ne sono molti. Sorvoliamo sul fatto che più passa il tempo, più invecchio, e che una ragazza deve pensare al proprio avvenire. Sorvoliamo anche sul fatto che mi piaci, mi sei simpatico e credo che tu sia un bravo ragazzo. Sono tutti buoni motivi, ma non essenziali. Il motivo essenziale» proseguì Rachel, stringendogli una mano, «è che dobbiamo cercare di vivere. Da come si sono comportati finora i Titanici con me, è evidente che hanno capito che sono una femmina. Prima dei Selvaggi, infatti, hanno messo nella mia gabbia anche altri uomini, e ci hanno osservato. Quando hanno visto che non… insomma che ognuno se ne stava per proprio conto, li hanno tolti dalla gabbia. E puoi immaginare come siano finiti quei disgraziati.» Rabbrividì al ricordo. «L’ultimo intuì quello che volevano da noi i Titanici, ma io… io rifiutai. Però, ripensandoci, capii che lui aveva ragione. Poi hanno cominciato con i Selvaggi, e io proprio non potevo accettare per marito un Selvaggio, il quale, magari, avrebbe preferito mangiarmi. Infine hanno portato qui te. Hai visto come ci osservava il Titanico. Se n’è andato soltanto dopo avere constatato che eravamo diventati amici. Dunque, sanno che sono una femmina, e vogliono farmi accoppiare. Ora, Eric, credimi se ti dico che non mi entusiasma l’idea di collaborare alle loro ricerche sulla razza umana, ma accontentandoli forse allontaniamo il pericolo. Se vedono che… che non andiamo d’accordo, magari si stancano e ci sopprimono tutti e due. Se invece…»

Rachel tacque. Eric era dibattuto fra diversi sentimenti, ma quando riacquistò la calma e ci ragionò sopra, non poté non darle ragione. Nella loro situazione, ora come ora, il meglio da fare era accontentare i Titanici. E non poteva lamentarsi. Rachel non solo era una bellissima ragazza, ma era anche intelligente e sapeva molte cose che avrebbero potuto essere utili in avvenire nella lotta contro il comune nemico. D’accordo, niente da ridire. Ma lui era un uomo e un guerriero, e il matrimonio era una cosa seria, da compiersi con la dovuta dignità, secondo le regole tradizionali.

«Girati» disse. «Voglio guardarti.»

Rachel obbedì docilmente, come lui si era aspettato. A qualunque tribù appartenessero, i costumi e le usanze dell’Umanità non differivano, in certe cose. Il Diritto di Esame da parte dell’uomo era uguale ovunque.

Dopo un poco, Eric arretrò di un passo, soddisfatto, le braccia conserte, a indicare che l’esame era terminato.

«Sei soddisfatto?» gli chiese Rachel con un sospiro.

Guardando la sua figura snella, le dolci curve femminili, la faccia sorridente, i lunghi capelli ondulati, Eric rispose dignitosamente, con la formula d’uso: «Sono soddisfatto dell’esame. Mi piaci. Ti voglio per compagna.»

«Bene. Sono contenta. E adesso, io proclamo il Diritto di Invito. Potrai unirti a me, solo quando ti inviterò a farlo.»

«È tuo diritto» disse Eric. «Aspetterò che tu mi inviti. E possa essere presto! E possa essere presto! E possa essere presto!»

La cerimonia era finita. Un po’ imbarazzati, i due giovani rimasero a guardarsi sorridendo. Mancava tutto il contorno d’uso alla cerimonia, ma non era per colpa loro, e non potevano farci niente. Non erano nei cunicoli, circondati dalla loro gente, ma prigionieri in una gabbia, nell’immensa vastità del territorio titanico. Ma le frasi che si erano scambiati erano sufficienti. Il rito era compiuto. Erano marito e moglie.

Rachel rabbrividì e confessò: «Mi sento così nervosa… E tu?»

«Un po’» ammise Eric. «Dopo tutto, non ho mai visto un matrimonio combinato e celebrato così in fretta. Un’ora fa non ci conoscevamo nemmeno. Posso chiederti un favore?» chiese poi con un certo imbarazzo. Non gli risultava che un uomo avesse mai posto a una donna la richiesta che voleva fare lui.

Lei lo guardò arrossendo un po’, poi abbassò gli occhi. «Dimmi» mormorò.

«Ecco… voglio che tu mi insegni» disse lui, tutto d’un fiato.

«Che ti insegni… Cosa?»

«Che tu mi istruisca. Io sono ignorante.» confessò Eric. «Tu mi hai fatto capire di essere una scienziata, appartieni a una tribù che sa molte cose. Insegnami. Dimmi tutto quello che sai dei Titanici, della Storia degli Avi, della Scienza…»

Lei sorrise ancora, gli accarezzò una guancia, e rispose: «Ma certamente, Eric, sarò felice di farlo. Vuoi che cominciamo subito?»

«Sì» disse lui con gli occhi che brillavano. «E prima di ogni altra cosa voglio sapere tutto sul protoplasma.»

20

Eric era un allievo attento, interessato e pronto, che imparava tutto: geografia, astronomia (ma come immaginarsi lo spazio, le stelle, i pianeti?), chimica, fisica, biologia. Imparò che esistevano le piante, e organismi così piccoli che solo con l’aiuto di speciali strumenti erano visibili.

«E tu come fai a saperlo?» chiese a Rachel. «Li hai visti? La tua gente, oltre ai ricordi degli antenati, possiede anche quei cosi, quei micro… micro…»

«Sì, Eric. I microscopi, e le registrazioni di molte, molte cose che i nostri antenati conoscevano, prima che i Titanici si impadronissero della Terra. Altrimenti, come avrei potuto insegnarti tutte queste cose? Disgraziatamente possediamo solo strumenti antiquati, e pochissimo materiale con cui crearne di nuovi. Per esempio, noi possediamo un solo microscopio, un aggeggio rozzo, elementare. Ma ai tempi in cui erano padroni della Terra, i nostri antenati ne possedevano di perfetti, a dozzine, forse a centinaia. Credo che potessero fabbricarli a tre o quattro per volta. No, non credo che siano leggende, Eric. Sono convinta che è la verità, anche se è passato tanto tempo ed è difficile distinguere tra realtà e favole. Non dimenticare che i nostri antenati avevano imparato a viaggiare nello spazio prima che arrivassero i Titanici. Non conoscevano il volo interstellare, come loro, e non avevano ancora colonizzato altri mondi, ma volavano da un pianeta all’altro del loro sistema solare, a bordo di navi altrettanto meravigliose e complesse di quelle con cui sono arrivati qui i Titanici. Per nostra disgrazia, i popoli della Terra non possedevano più di una decina di quelle navi con cui esploravano i pianeti, quando i Titanici sono arrivati dalle stelle con una flotta d’invasione di migliaia di astronavi. Se fossero arrivati cento, o anche soltanto cinquant’anni dopo, forse anche noi avremmo avuto a disposizione una flotta agguerrita e capace di combatterli e di respingerli prima ancora che raggiungessero il sistema solare.»

Eric sorrise, fissando, attraverso il fondo della gabbia, le altre gabbie sospese nell’abbacinante candore, dentro le quali gli uomini prigionieri aspettavano avviliti il loro destino o misuravano a gran passi il pavimento con rabbia impotente.

«L’attacco improvviso…» citò.

«Cosa?»

«Oh, è un versetto del catechismo che ho imparato da bambino. Fa parte della fede degli antenati in cui sono stato allevato. Ricordo che rimasi sconvolto, quando mio zio mi disse che erano tutte chiacchiere vuote. Ma poi imparai ad adattarmi all’idea. Sai, erano proprio chiacchiere prive di senso, imposteci dai nostri anziani allo scopo di impedirci di fare domande e di imparare la verità sul nostro passato. E adesso che mi hai raccontato tante cose, sono allo stesso punto di prima. Gente come la tua, che più di ogni altra tribù dei cunicoli ha conservato ricordi e testimonianze degli antenati, in definitiva non ha altro da dire sul motivo per cui l’Umanità è stata costretta a soccombere davanti all’invasione dei Titanici. “L’attacco improvviso…” E questo mi induce a pensare che forse anche altre cose del catechismo erano vere. Oppure potrebbe essere tutto falso, anche quello che mi hai detto tu.»

«Ehi, giovanotto» disse scherzosamente Rachel tirandogli una ciocca di capelli. «Hai appena un’infarinatura d’istruzione e già parti in quarta con la metafisica.»

«Come? Ho fatto della metafisica?» chiese Eric, felice di avere reinventato da solo una scienza degli avi.

Ma Rachel eluse abilmente la domanda. «Hai molto da imparare, Eric l’Occhio, anche se assorbì le nozioni come una spugna assorbe acqua. Forse tutto quello in cui ti avevano insegnato a credere è vero… sotto un certo aspetto, in determinate circostanze, per determinate persone. Non sarebbero articoli di fede, se non contenessero almeno un nucleo di verità. Come le storie che ci ha tramandato un gruppo di antenati, i quali erano convinti che l’uomo volesse arrivare troppo in alto, e che l’avvento dei Titanici sarebbe stato una specie di punizione, da parte di una forza soprannaturale, per distruggere la nostra civiltà. Secondo loro, i viaggi spaziali e le atomiche furono l’estremo limite, la goccia che fece traboccare il bicchiere, e quando l’uomo arrivò a quel punto, la forza soprannaturale fu costretta ad annientarci. Sai cosa ti dico? Forse avevano ragione.»

«Ma come?»

«Sotto vari aspetti» rispose pazientemente Rachel. «Prendiamo, per esempio, l’aspetto religioso. È possibile che esistesse, e che esista ancora, una forza soprannaturale, capace di giudicare in questo modo. E se consideri quanto minuscola, quanto ridicola sia oggi la nostra razza che si aggira timorosa nelle abitazioni dei Titanici, pare davvero che allora, quando ci credevamo tanto potenti, avessimo presunto un po’ troppo da noi stessi. Se poi mi chiedi perché noi siamo stati ridotti così, e i Titanici invece sono liberi di dominarci, allora non so francamente cosa risponderti. Potrei solo dirti che non lo possiamo capire perché il modo di ragionare di un’entità soprannaturale è superiore alla nostra comprensione.»

Eric l’ascoltava, affascinato dai concetti che le belle labbra di Rachel formulavano. «Quindi» osservò, «non dobbiamo nemmeno pensare che quell’entità sia dalla parte dei Titanici.»

«Forse. Non so. Ma cosa ne sappiamo, noi, dei Titanici? Noi li conosciamo solo nei loro rapporti con la razza umana, ma ignoriamo come si comportano fra loro. Può darsi che siano gentili, generosi, altruisti… Come possiamo saperlo? E anche nei rapporti con noi… possiamo biasimarli del tutto? A quanto mi risulta, non ci considerano nemmeno creature intelligenti, non ci collegano con la civiltà che si era sviluppata sulla Terra e che essi distrussero secoli e secoli fa. Forse pensano che siamo sempre stati così. Ignorano tutto di noi, come noi ignoriamo tutto di loro: come vivono, come si governano, con quale specie di linguaggio comunicano fra loro, se ne hanno uno. E così via…»

«Mi hai parlato del punto di vista religioso» le disse Eric. «Però dicevi che ce ne sono altri.»

«Esatto» confermò Rachel. «Prendiamo, adesso, quello etico, che deriva da un senso di colpa, nascosto ma giustificato.»

«Giustificato? E che specie di colpa?»

«Come dicevo prima, nelle credenze religiose c’è sempre una base reale. L’uomo fu per molto tempo il signore del Creato, Eric, e per tutto quel tempo nutrì un senso di colpa. Lo si capisce dalle religioni e dalla letteratura… In tutte le opere serpeggia questo senso di colpa. Se togli la parte leggendaria e guardi le cose nella loro cruda realtà, non puoi non ammettere che quella sensazione non fosse giustificata. L’uomo che ha fatto schiavi i suoi simili, li ha torturati e umiliati. Ha distrutto le civiltà di altri popoli, ha demolito i loro templi e le loro scuole per sostituirli coi suoi. E anche nei rapporti privati, le cose non andavano meglio: c’erano donne che facevano soffrire uomini, e uomini che facevano soffrire donne, sia materialmente sia moralmente. Genitori che maltrattavano i figli e viceversa. E l’uomo si comportava così coi suoi simili, bada. Ed era definito Homo sapiens. Come si sarà comportato con razze simili, ma non identiche alla sua, più deboli e meno intelligenti? Sappiamo cosa fece all’uomo di Neanderthal. Quanti altri ne giacciono nelle tombe sconosciute della civiltà antropologica?»

«Ma l’uomo è un animale, Rachel! Ha il dovere di sopravvivere.»

«L’uomo è qualcosa di più di un animale» disse lei. «Il suo dovere è qualcosa di più della semplice sopravvivenza. Se un animale si nutre di un altro animale, e in questo modo ne distrugge la specie, il suo comportamento rimane nel campo della biologia. Ma se un uomo fa la stessa cosa, in senso metaforico, per brama di potere o per capriccio, sa di commettere un delitto. Non importa se ha ragione o torto di pensarla a questo modo, l’importante è che sa di commettere un delitto. E questa constatazione non può essere accantonata con un’alzata di spalle e giustificata con l’evoluzione.»

Eric si staccò dalla parete e si mise a camminare avanti e indietro, aprendo e chiudendo i pugni.

Infine si fermò e disse: «D’accordo. L’uomo ha ucciso i suoi fratelli nel corso di tutta la sua storia, e le specie affini durante la preistoria. E allora?»

«E allora, esaminiamo ancora più a fondo questo elenco di delitti. Cosa ne dici delle altre specie, delle razze cugine, chiamiamole così? Ti ho parlato degli animali addomesticati dall’uomo: il bue, l’asino, il cavallo, il gatto, il cane, il maiale. Sai che cosa sottintende la parola addomesticare? Castrazione, tanto per dirne una. Ibridizzazione, tanto per dirne un’altra. Vuol dire sottrarre alla madre il latte dei suoi piccoli. Vuol dire scuoiare, scarnificare, e tutto secondo un piano prestabilito di progresso economico. Addestrare gli animali a uccidere i propri simili, cambiarne la forma, per capriccio, come è avvenuto dei cani. Renderli sterili perché la carne fosse più gustosa, com’è avvenuto dei buoi e dei polli, tanto per fare un esempio. Spogliarli della loro personalità, aizzarli, drogarli, per puro divertimento, com’è stato fatto per i cavalli e i tori… Non ridere, Eric. Tu pensi ancora al diritto di sopravvivenza dell’uomo, mentre io sto parlando del suo senso morale, radicato in lui fin dai tempi più remoti. L’uomo ha commesso tutti i delitti che ho elencato prima, e altri ancora, per millenni e millenni e, contemporaneamente discuteva i problemi del bene e del male, della giustizia e dell’ingiustizia, della bontà e della cattiveria. E tutte le giustificazioni che riuscì a trovare per spiegare il proprio operato, come la scienza, la filosofia, la politica, non sono mai servite a cancellare dalla sua coscienza un radicato senso di colpa. Se la sua coscienza fosse stata davvero tranquilla, non credi che non si sarebbe neppure posto quei problemi? E non senti che l’uomo ha accumulato un enorme debito nei confronti dell’Universo in cui vive, e che il conto potrà venirgli presentato, prima o poi, da altre razze, più forti, più intelligenti, e diverse? E che quelle razze si comporteranno con l’uomo nello stesso modo in cui egli si è comportato con i suoi fratelli e con gli animali, da quando è comparso su questo pianeta? E se ti pare giustificato quello che l’uomo fece quando aveva il potere nelle sue mani, allora non è giustificato anche quello che ora sta subendo?»

Rachel tacque, spossata. Eric guardò il suo seno che si alzava e si abbassava nell’ansito del respiro, e poi seguì la direzione del suo sguardo. Ancora una volta si trovò a fissare le file e file di gabbie trasparenti piene di esseri umani, sopra, a lato, sotto di loro: un’infinità di gabbie, a perdita d’occhio nell’accecante luce bianca.

21

Eric continuò a imparare, e fra le altre cose, imparò anche l’amore. E poi imparò quello che c’era da sapere sulla Gente di Aaron.

Trovò l’amore molto bello, dolce, soddisfacente, anche se alcune delicate sfaccettature di questo sentimento gli riuscivano ancora incomprensibili.

Si meravigliava che Rachel Figlia-di-Ester, al confronto della quale lui era poco più di un barbaro ignorante, a mano a mano che i giorni passavano lasciasse sempre più a lui le decisioni su tutti gli argomenti, e per di più si dimostrava felice di farlo e dimostrava nei suoi riguardi l’ammirazione più incondizionata. Pareva che, dopo avere espresso un’unica decisione, quella di darsi a lui, ora considerasse lui superiore in tutto, più abile e più capace. Com’era diversa dalle donne della Società Femminile, così arroganti e presuntuose! E così Rachel era una vera miniera di informazioni; e ne sapeva molto di più di Ottilie o di Rita. Non finiva mai di sorprenderlo, come il giorno che gli aveva detto, lasciandolo a bocca aperta, che i cunicoli nei quali era nato e vissuto non erano altro che gallerie scavate nel materiale isolante con cui i Titanici proteggevano le loro abitazioni dai rigori del clima.

E inoltre, più la osservava, più si accorgeva che Rachel era molto più aggraziata e femminile delle donne dell’Umanità. Aveva una carnagione delicata, i capelli morbidi, le mani piccole con le unghie rosse. A volte si sentiva un vero Selvaggio, nei suoi confronti.

«Se riuscissimo a tornare nei cunicoli» le chiese un giorno, «come credi che mi accoglierebbe la tua gente?»

Rachel gli si accostò e gli accarezzò i capelli. «Perché ti preoccupi, caro? Ti accoglieranno bene, sta’ sicuro. Se non altro perché io sono una scienziata di valore e non vorranno perdermi. E se non volessero te, mi rifiuterei di tornare fra loro. No, non possono rinunciare a me, specie ora, con i progetti contro i Titanici e la mia specialità in materia.»

«Ogni tanto alludi a questi progetti, Rachel» disse lui, prendendola fra le braccia, «ma non mi hai ancora spiegato niente. Non riesco a immaginare come si possa rendere la pariglia ai Titanici in un modo diverso da quelli sognati finora…»

Lei si sciolse bruscamente dall’abbraccio e lo guardò seria.

«Eric, ti ho già detto che non posso parlare» disse. «Nemmeno con te. Non tormentarmi con le domande. È un segreto che coinvolge il futuro del mio popolo. Quando tu sarai dei nostri, lo saprai, e farai parte del Piano.»

«D’accordo, d’accordo» disse Eric, conciliante. «Scusami, e non parliamone più.» Aspettò che lei tornasse a stringersi a lui, ma Rachel non si mosse.

«Vuoi sapere come ti accoglierebbe la mia gente» disse. «Ma prima dobbiamo tornare nei cunicoli. Come?»

«Vuoi dire in che modo possiamo cercare di scappare da qui?»

«Sì, da questa gabbia.»

«Non ho ancora formulato un piano preciso, ma ho qualche idea. E una mi pare buona. Ma bisogna pensarci bene.»

«E allora pensaci, caro» fu la risposta di Rachel. «Però, cerca di fare presto, perché il tempo stringe.»

Si guardarono a lungo, poi lui la prese fra le braccia.

«Non volevo dirtelo» sussurrò lei. «Pensavo… non ne ero certa… Ma adesso sono sicura.»

«Sei incinta?»

Rachel annuì, poi gli prese la faccia fra le mani e lo baciò dolcemente. «Ascolta, caro» mormorò con la guancia appoggiata a quella di lui. «Qualsiasi piano di fuga richiede un certo sforzo fisico. E fra non molto tempo la piccola Rachel sarà molto meno snella e agile di adesso. Non le riuscirà facile arrampicarsi, e se ci sarà da correre andrà molto adagio. Quindi, se dobbiamo agire, è meglio non perdere molto tempo.»

Eric la tenne stretta. «Quei maledetti Titanici!» imprecò. «Il loro maledetto laboratorio! I loro maledetti esperimenti! Non si impadroniranno di mio figlio.»

«Potrebbe essere più di uno» gli fece notare Rachel. «Anche se tu sei stato un singolo, non è detto che io non abbia un parto multiplo.»

«E allora sarebbe assolutamente impossibile fuggire» disse Eric, che aveva riacquistato la calma. «Hai ragione. Bisogna andarcene di qui prima del parto. Molto prima.»

Rachel si staccò dall’abbraccio e quasi parlando solo per sé, disse: «È vero. Una cosa era salvare la vita dando ai Titanici quello che volevano: una coppia da riproduzione. Ma dare loro anche il risultato della riproduzione…»

«Taci, Rachel! Non siamo ancora arrivati a questo. E, soprattutto, non dobbiamo perdere la testa.» Si sentiva un altro ora. Più coraggioso, pronto a tutto. Era davvero un uomo, un guerriero, e l’avrebbe dimostrato. Prese Rachel per mano e la fece sedere accanto a sé. «D’ora in poi» continuò, «dobbiamo sospendere le lezioni e pensare solo al modo di fuggire. Dimmi piuttosto…» E cominciò una serie di domande, dalle cui risposte sperava di ricavare dei dati utili.

«Rachel, spiegami cosa sono tutti gli oggetti che hai nelle tasche della tua tunica, e dimmi a che cosa servono…» E ancora: «Una volta mi hai detto che la tua gente sa com’è fatta questa abitazione dei Titanici. Potresti tracciarne una pianta?» E ancora: «Non sarebbe possibile tagliare qualche pezzetto della tua tunica e poi unire i pezzetti insieme? Mi hai detto che avevi dell’adesivo…» E ancora: «Cara, potresti spiegarmi, in modo semplice e comprensibile, tutto quello che sai dei principi su cui si basavano i mezzi degli Antenati? Automobili, battelli, aeroplani, astronavi…»

Talvolta, queste richieste divertivano Rachel, altre volte la spaventavano, e in generale finivano col lasciarla esausta. «Ma tu non senti mai il bisogno di riposare?» finiva col chiedergli.

In effetti, pareva che Eric fosse infaticabile. Passeggiava continuamente avanti e indietro per la gabbia, immerso nei suoi pensieri, o si soffermava a esaminare il comportamento dei Titanici che entravano e uscivano dal laboratorio, oppure studiava tutti gli strumenti contenuti nelle tasche della tunica, tentando prove ed esperimenti. All’inizio, Rachel lo aiutava, anche se a volte ignorava lo scopo di quello che lui faceva. Ma col passare del tempo, preferì lasciarlo fare da solo e si limitava a starsene sdraiata seguendolo con gli occhi e rispondendo alle sue domande occasionali. A volte, Eric si irritava con lei per questo contegno in apparenza apatico, poi lo giustificava con le sue condizioni, e questo serviva a spronarlo maggiormente.

Un giorno accadde una cosa inaspettata. Un Titanico si avvicinò alla gabbia, e vi lasciò cadere Roy il Corridore.

Sulle prime, vedendo uno sconosciuto scendere in quella che, dopotutto, era la sua casa, appeso a una corda verde, Eric corse ad armarsi, pronto a far pagare cara allo sconosciuto la sua pur involontaria intrusione. Ma lo riconobbe subito, e gli corse incontro per abbracciarlo.

Il Titanico, visto che i due non si scannavano, si allontanò apparentemente soddisfatto.

Eric aveva parlato a Rachel di Roy, e glielo presentò. Il Corridore rimase enormemente impressionato dal fatto che una donna della Gente di Aaron avesse accettato, e volentieri, di diventare la compagna di Eric. Tuttavia non fece commenti, e cominciò a raccontare quello che era successo nell’altra gabbia, dopo che Eric era stato portato via.

«Dopo la tua scomparsa siamo rimasti tutti disorientati» disse. «Perfino Arthur l’Organizzatore non sapeva più cosa fare. Ogni giorno i Titanici portavano via qualcuno per i loro esperimenti, e i superstiti cominciavano a litigare. Io mi vergognavo di avere ammirato tanto gli Stranieri e di averli imitati anche nell’acconciatura, e ho ricominciato a portare i capelli sciolti, come vedi. Pensavo che, riprendendo l’aspetto di guerriero, forse potevo acquistare un po’ di ascendente, e…»

«Ah, ecco perché ti hanno scelto per portarti qui!» l’interruppe Rachel. «Io, voi, i Selvaggi, portiamo tutti i capelli sciolti. I Titanici non si sono accorti che sono incinta, e hanno voluto darmi un altro compagno.»

Roy la guardò interdetto.

«Ti spiegheremo poi» disse Eric. «Continua a raccontare. In quanti siete rimasti?»

«Pochissimi. Sei, oltre a me. E non tutti sono morti per colpa dei Titanici. Vi ho detto che avevano cominciato a litigare fra loro.»

«Ma perché? Non capisco.»

«Troppo da mangiare. Niente da fare. Niente donne. Ecco perché. Inoltre i Titanici avevano messo nella nostra gabbia un gruppo di sconosciuti, degli strani ometti piccoli, bruni, che non avevamo mai visto e che avevano nomi strani: Ernie Due, Nicky Dieci, e così via. Erano violenti e litigiosi.»

«Li conosco di fama» disse Rachel. «Vivono in un’altra casa dei Titanici, vicino a questa.»

«Cosa?» fece Roy.

Eric gli spiegò che i cunicoli in cui abitavano gli uomini erano delle gallerie scavate nei muri delle abitazioni dei Titanici, poi lo invitò a proseguire.

«Non c’è altro da dire. Solo che non ne potevo più, e quando mi sono sentito afferrare dalla corda verde quasi quasi ero contento. Arthur, Walter, Manny, i migliori di noi, erano già scomparsi da tempo, e io mi sentivo molto solo e infelice.»

«Senti» lo interruppe Eric. «Vorrei sapere cosa ne facevano i Titanici dei morti che trovavano nella vostra gabbia, dopo che avevate combattuto fra di voi.»

Roy rimase sorpreso, tuttavia rispose: «Cosa vuoi che ne facessero? Li portavano via dalla gabbia, con le corde verdi.»

«E i loro averi? Voglio dire, se i morti indossavano qualche indumento, qualche arma, glieli lasciavano?»

«Sì. Non ricordi quando è morto quel tale… quel Danielson, poco dopo il nostro arrivo. L’hanno tolto dalla gabbia con la tunica avvolta intorno alla testa e l’hanno gettato nel foro che è in mezzo al tavolo bianco degli esperimenti. Fanno così cpn tutti i morti.»

«Evidentemente, gli uomini interessano ai Titanici solo da vivi» osservò Rachel. «Ma perché ti interessano queste cose, Eric? Una volta che saremo morti…»

«Una volta che saremo morti, avremo una buona probabilità di restare vivi» fu la risposta sibillina di Eric. «Non scherzo. Roy, sei disposto a fuggire con noi?»

Sulle prime, il Corridore rimase troppo sbalordito per rispondere, poi fece un enfatico cenno di assenso. «Altro che! Conta pure su di me per qualsiasi progetto di fuga, per quanto rischioso possa essere. Che avvenire ci si può aspettare, chiusi in questa gabbia?»

«Il progetto che ho elaborato è molto rischioso. Molte cose possono fallire, ma è l’unico possibile, secondo me. Mettiamoci subito al lavoro.»

Rachel e Roy non se lo fecero dire due volte, e seguendo le sue direttive, si misero all’opera. Instancabile come sempre, Eric non concedeva loro un attimo di respiro. E il lavoro procedeva in fretta. Ma una volta Rachel lo guardò e gli chiese con ansia:

«Mi sembra che tu sia troppo sicuro di molte cose, Eric. Noi ci basiamo su presupposti che possono rivelarsi sbagliati.»

«E allora? Se sbaglio, moriremo… E se restiamo qui?»

Rachel chinò la testa con un sospiro, e si rimise al lavoro.

Un’altra volta fu Roy a protestare. Oramai aveva imparato anche lui molte cose, e non era più così rispettoso come si era dimostrato nei primi momenti.

«Senti, Eric, io non so su cosa sia basata la tua certezza. Perfino Rachel, che è degli Aaron, non ha mai visto cose simili, e quindi come puoi pensare che funzioni?»

«Sì, che le ha viste. Solo che le conosce con un altro nome: il principio di Archimede. E ti ho già detto che ho fatto degli esperimenti, prima del tuo arrivo. Funzioneranno.»

Quando ebbero quasi finito, calcolarono il momento in cui il Titanico sarebbe venuto a portare loro da mangiare e da bere, come faceva tutti i giorni. Era assolutamente indispensabile, infatti, che facessero provvista di viveri e d’acqua, poiché non sapevano per quanto tempo non ne avrebbero trovati.

Rachel, seduta sul pavimento della gabbia, guardava sconsolata i resti della sua tunica, e gli oggetti, o quello che ne restava, contenuti un tempo nelle tasche, sparsi ora qua e là, come rifiuti.

«Quello che realmente mi dispiace» disse «è che tu abbia distrutto il mio neutralizzatore. Quanto lavoro, quanti studi, per crearlo! Ed è stato per sperimentarlo che siamo venuti qui. Ora, il pensiero di tornare dalla mia gente senza quello strumento…»

«Se ci tornerai» le fece osservare Eric, intento a curvare il neutralizzatore che era costituito essenzialmente da un tubo metallico «la cosa più importante che tu possa riferire è che l’apparecchio funziona. Poi, potranno costruirne altri. Adesso ci è molto più utile trasformarlo in un gancio robusto. Posto che tutto il resto funzioni, senza un gancio siamo davvero perduti.»

«Ho pensato» l’interruppe Roy «che sarà meglio che tu me lo leghi al polso. Io sono forte quanto te, tu però sei più svelto e pronto. Quindi sarà meglio che tu pensi all’apertura. Io ti prometto che cercherò di restare agganciato con tutte le mie forze.»

Eric finì di trasformare il neutralizzatore protoplasmatico in un robusto gancio dal lungo manico, poi annuì: «Hai ragione, Roy, qua le mani, e bada bene di non lasciarlo mai andare.» Infilò il manico del gancio fra le mani di Roy che lo afferrò strettamente, poi gli legò i polsi con strisce della tunica di Rachel e prolungò la fasciatura alle braccia e alle spalle, cosicché il gancio finì col diventare quasi parte integrante del corpo di Roy.

Poi legarono se stessi e il loro equipaggiamento ai resti della tunica di Rachel. I due uomini si erano assicurati alla fronte la lampada che avevano portato dai cunicoli. Eric sistemò Rachel fra sé e Roy, legandola prima al Corridore, e poi a se stesso.

«Tienti aggrappata alle spalle di Roy» le disse, «nel caso che le rasce cedano. Io starò aggrappato a tutti e due.»

Quando ebbero finito formavano una specie di grosso bozzolo, a un’estremità del quale c’era Roy, armato di un gancio supplementare per maggior sicurezza. Sentirono il Titanico avvicinarsi.

«Ci siamo» sussurrò Eric. «Fingete di essere morti.»

22

Non vi fu rifornimento di viveri né di acqua, nella gabbia. Invece, vi fu una lunga, insopportabile pausa durante la quale i tre sentirono che il Titanico li stava esaminando.

Avevano convenuto di tenere gli occhi ben chiusi e le membra tese e irrigidite, finché non fossero stati tolti dalla gabbia. Per quello che ne sapevano, la vista del Titanico poteva essere tanto acuta da notare il movimento delle pupille. Poteva anche accorgersi che respiravano, ma quello era un rischio che non c’era modo di evitare.

«O trattenere il respiro più a lungo che si può» aveva consigliato Eric, «e rischiare poi di aspirare una gran boccata d’aria facendo rumore, proprio quando il Titanico ci osserva, o respirare spesso, ma adagio. Fate finta di essere addormentati. Cercate di rilassarvi, e che gli antenati ci aiutino.»

Ma non fu facile, sotto lo sguardo scrutatore del Titanico, mantenere l’immobilità assoluta, tenere le palpebre chiuse e ferme, respirare piano e regolarmente.

Alla fine, sentirono qualcosa muoversi: il freddo viscido in una corda verde li sfiorò, fondendosi con la loro carne. Uno scossone, ed ecco che furono sollevati, con tutti gli oggetti che avevano preparato che si urtavano e sbattevano. Adesso la situazione era ancora più critica. Sentirsi fluttuare per aria, senza niente di solido sotto i piedi, e dover tenere gli occhi chiusi senza potere vedere niente serviva solo ad accrescere il panico. Il peggio di tutto fu quando il Titanico li tenne a lungo sospesi, immobili, evidentemente per esaminarli meglio e più da vicino. Le zaffate puzzolenti del suo alito giungevano fino a loro, provocando ondate di nausea. Eric trattenne a lungo il fiato, irrigidendosi, e si augurò che anche gli altri facessero lo stesso.

Cosa avrebbe deciso, quell’enorme montagna di carne? I Titanici non sanno cosa farsene dei morti aveva detto Rachel una volta, e per quanto loro potevano saperne, era vero. Tutti coloro che morivano o per cause naturali o in seguito agli esperimenti di laboratorio, finivano nel buco in mezzo al gran tavolo bianco… Ma se quel particolare Titanico che si stava occupando di loro si fosse accorto che erano vivi? La buona riuscita della prima parte del progetto di Eric si basava appunto sul fatto che li credesse morti. Ma se si fosse incuriosito, se avesse voluto scoprire le cause della morte? Eric dovette farsi forza per vincere un brivido. Fra le sue braccia, Rachel tremava.

Finalmente il Titanico prese una decisione, e la corda cominciò ad abbassarsi.

Eric decise di arrischiare un’occhiata.

Socchiuse appena le palpebre, e abbassando lo sguardo vide sotto di sé l’enorme distesa bianca del tavolo. Finora, tutto andava bene. Ma il Titanico li avrebbe lasciati cadere subito tutti e tre nel tubo di scarico, o avrebbe voluto prima esaminarli separatamente? Adesso che non poteva tornare più indietro, e nonostante che avesse osservato per settimane il comportamento dei Titanici, Eric temeva di avere agito da idiota. Adesso era sicuro che non ce l’avrebbero fatta mai. Sì, i Titanici si liberavano dei cadaveri, ma, che lui sapesse, non avevano mai avuto a che fare con tre cadaveri legati insieme e carichi di oggetti. Forse era meglio slegarsi adesso, così i rischi sarebbero stati minori…

Stava già per muovere una mano, quando riuscì a dominarsi e a ritrovare la calma. Doveva ricordare che i Titanici ignoravano tutto dei manufatti umani. L’aveva osservato personalmente decine di volte, e anche Rachel, più istruita ed esperta di lui, gli aveva confermato che nessuno aveva mai notato un’eccezione a questa regola. A quanto pareva, i Titanici non vedevano un rapporto fra i manufatti e l’intelligenza, e non solo perché i manufatti èrano diversissimi da quelli titanici. Per i Titanici, gli uomini erano parassiti noiosi e invadenti, che infestavano le loro case, che imbrattavano il loro cibo e lo rubavano, che danneggiavano le loro proprietà. Gli oggetti che questi parassiti indossavano o portavano con sé da un posto all’altro, ai loro occhi dovevano apparire i rifiuti, gli escrementi, gli avanzi di creature appartenenti ai gradini più bassi della scala evolutiva. Per i Titanici, non esistevano rapporti fra questi parassiti e le creature che in origine erano state la razza dominatrice di quel pianeta.

Mentre riacquistava poco alla volta la calma, Eric sentì l’ansito rauco dei suoi due compagni, e intuì che avevano avuto gli stessi pensieri e lo stesso impulso di liberarsi dei legami, per tentare la fuga, ciascuno per conto proprio, appena depositati sul tavolo bianco.

Ricordando le sue responsabilità di capo, sussurrò: «Calma, Rachel. Calma Roy. Va tutto per il meglio. Tenetevi pronti.»

Ecco, la superficie bianca era vicinissima. Eric si sentì contrarre lo stomaco. Cosa sarebbe successo, adesso?… Il Titanico agì come loro avevano previsto. Li lasciò andare. Se erano morti, erano buoni per la fogna.

Ruotando su se stessi, scesero a velocità vertiginosa verso il foro nero, spalancato sotto di loro. Mentre vi entravano, un suono acuto ruppe il pesante silenzio. Era stato Roy, che, sopraffatto dall’orrore e dalla paura, non era riuscito a trattenere un grido. Eric lo capì e lo giustificò, ma per poco quel grido non costò loro la riuscita del piano. Stavano già scivolando entro la cavità liscia del tubo di scarico, quando la corda verde scese alla loro ricerca, e per un pelo non riuscì a raggiungerli. Eric riuscì a dare una rapida occhiata e vide un tentacolo rosa protendersi oltre l’orlo. Ma subito dopo subirono un urto violento, come se fossero caduti dall’alto sul pavimento della gabbia.

L’acqua pensò Eric, mentre affondavano e la corrente li trascinava via. Trattenne istintivamente il respiro e strinse forte Rachel. Le fasce con cui si erano legati non si erano sciolte. Oltre Rachel, sentiva Roy. Affondavano sempre più, ma se non altro, erano ancora insieme.

Finora, il piano aveva funzionato. Adesso stava a loro agire. In primo luogo, però, bisognava vedere se avrebbe funzionato il sistema di galleggianti che lui aveva escogitato. Con pezzi della tunica impermeabile di Rachel aveva fatto delle specie di otri, riempiti d’aria e sigillati con dell’adesivo trovato in una delle innumerevoli tasche della tunica. Ognuno di loro aveva due di quei rudimentali galleggianti legati alle spalle.

Continuavano ad affondare, ma più lentamente. Quando avrebbero potuto respirare ancora? Giù, giù, sempre più giù e solo acqua intorno a loro. Eric cominciava a sentirsi mancare, gli pareva che gli scoppiasse il cuore… D’un tratto, la qualità dell’acqua cambiò, e anche la loro direzione. Furono letteralmente sparati verso destra in mezzo a un vortice turbinante che li fece roteare a lungo, su e giù, finché, finalmente, risalirono a galla.

Erano in una delle condutture della fogna, e i galleggianti funzionavano: tutti e tre avevano la testa fuori dall’acqua. Eric respirò a fondo, e la fetida aria della fogna gli parve deliziosa. Sentì Rachel e Roy respirare a loro volta, poi Rachel disse: «Ce l’abbiamo fatta, Eric! Ce l’abbiamo fatta!»

Lui non volle avvilirla ricordandole che adessp dovevano superare la terza parte del progetto e che, se non avesse funzionato, tutto quello che avevano ottenuto fino quel momento non, sarebbe servito a niente. Dove sfociava quel tratto di fogna? Neppure Rachel, con tutta la sua scienza, aveva saputo dirglielo.

«Stai bene, Roy?» chiese Eric, urlando per superare il fragore della corrente.

«Benone!» urlò di rimando l’altro. «Tengo il gancio pronto. Avvertimi tu quando sarà il momento.»

Stavano navigando entro un condotto largo circa il doppio dei normali cunicoli, e il soffitto ricurvo distava meno di un braccio dalle loro teste.

Fra poco sarebbe arrivato il momento di decidere, e non sarebbe stata una decisione facile. Sarebbero potuti uscire dalla fogna solo attraverso un tombino. Dando per certo di riuscire ad aprirlo dall’interno, e di questo Rachel si era detta sicura, la scelta era lasciata al caso e alla fortuna. Se ne avessero aperto uno per ritrovarsi in territorio titanico? O se, una volta aperto, si fossero trovati chiusi da pareti di materiale isolante? Comunque, Eric doveva decidere. L’acqua era gelida e loro non erano abituati a restare a lungo nel freddo e nell’umido. La cosa migliore era affidarsi alla fortuna e tentare di forzare il primo tombino che avrebbero incontrato. Ma bisognava avvistarlo in tempo, e con quella corrente non era facile. Eric girò la testa, aguzzando gli occhi per esaminare le pareti del condotto alla luce della lampada legata alla fronte. Laggiù, in fondo, non c’era forse un ribollìo, l’acqua non era più turbinosa, e il colore del soffitto non era leggermente diverso? Socchiuse le palpebre per guardare meglio. Sì, era un tombino.

«Roy!» gridò. «Guarda laggiù. Tentiamo con quello.»

Il raggio della lampada di Roy frugò nel buio, finché non inquadrò il tombino. «Lo vedo. Tenetevi pronti.»

Col coltello che aveva sottratto tanto tempo prima al cadavere di Jonathan Danielson, Eric tagliò i legacci che lo tenevano unito a Rachel, restando aggrappato a lei solo con le braccia.

«Come stai?» le chiese.

«Ho freddo» disse lei con un filo di voce. «Ho freddo e sono stanca. Facciamo presto, Eric, ti prego!»

«Fra poco saremo al sicuro, te lo prometto» rispose Eric, frugando con lo sguardo il soffitto. Il tombino era ormai vicinissimo.

Quando fu sopra di loro, Roy si diede una forte spinta con le gambe e riuscì a sollevarsi a mezzo fuori dall’acqua, tenendo le braccia tese in alto. Con un colpo sicuro riuscì a infilare il gancio nella fessura tra il tombino e il condotto e lo girò. La parte ricurva scivolò, poi si agganciò saldamente all’interno.

«Avanti» ansimò Roy. «Tocca a voi, adesso.»

Rachel era ancora legata a Roy, ma Eric, che doveva contare solo sulle sue forze, per poco non fu trascinato via, tanto era stato brusco l’arresto. Riusciva a stringere il braccio di Rachel ma la sua mano scivolava, scivolava… Con uno sforzo di cui non si sarebbe creduto capace, riuscì a rigirarsi su se stesso e ad abbracciare Rachel, poi, tenendosi saldamente con un braccio alle sue spalle, allungò l’altro verso Roy. Pian piano, scivolando, affondando, risalendo, riuscì a issarsi sulle spalle del compagno. Erano bagnate e scivolose, ma riuscì a sostenersi e ad afferrare con la sinistra il manico del gancio. Poi, aiutandosi col coltello, cominciò a spingere per sollevare il tombino. Sentiva Roy scivolare e ansimare sotto di sé. Purché la lama non si spezzi pregava Eric, continuando a spingere.

Finalmente, la pesante lastra si mosse. Drizzandosi, Eric infilò una mano nella fessura e spinse più forte. La piastra prima scivolò e poi ricadde dalla parte opposta. Sopra di lui, si stendeva l’oscurità di un cunicolo. Era territorio titanico o… Alla luce della lampada Eric vide le note pareti grigie ricurve. Lode agli antenati! Erano usciti in un cunicolo… Senza perdere altro tempo, si issò oltre l’apertura. Poi, sdraiatosi bocconi, allungò le braccia nella cavità e afferrò Roy sotto le ascelle.

Il Corridore e Rachel uscirono facilmente fino a metà corpo, ma poi, non più sostenuti dall’acqua, divennero a un tratto talmente pesanti che Eric temette di non farcela. Per fortuna, Roy lo aiutò: con uno sforzo disperato riuscì a far leva coi gomiti sull’orlo del tombino e si tirò su. Eric, allora, riuscì a estrarli facilmente.

Giacquero a lungo, esausti, sul pavimento del cunicolo.

Ma Eric si riprese presto. Era un capo. E un marito. Sebbene fosse stanchissimo per la tensione e gli sforzi sostenuti, tagliò i legacci che univano ancora Rachel e Roy, e liberò le mani di Roy dal gancio. Poi tornò a occuparsi di Rachel. L’aspetto della sua compagna lo spaventò. Respirava a fatica, aveva un brutto colorito bluastro ed era tutta gelata. Eric prese a massaggiarla vigorosamente, e intanto mormorava: «Rachel, parla… Rachel…»

Non sopportava l’idea di perderla, ora che erano salvi, che il peggio era passato.

Lei socchiuse lentamente le palpebre e mormorò in un soffio: «Sto bene, caro.» Respirò a fondo e si sforzò di sorridere. «Ce l’abbiamo fatto, Eric!»

«Ce l’abbiamo fatta!» ripeté lui, con un sospiro di sollievo, coprendola di baci. Quando fu sicuro che Rachel stava meglio, andò a rimettere a posto il coperchio del tombino, perché era buona norma non lasciare tracce del loro passaggio.

Poi chiamò Roy: «Prendi tu la mia roba» gli disse. «Io porterò Rachel.»

«Ma dove andiamo?» chiese il Corridore, alzandosi faticosamente in piedi. «Non possiamo riposarci un po’ qui?»

«No, perché non sappiamo a che tribù appartenga questo cunicolo. È meglio allontanarsi. Quando saremo in un punto relativamente sicuro, allora potremo riposare.»

Rachel era alquanto pesante, ed Eric non era nelle condizioni migliori. Gli dolevano tutti i muscoli, ma non poteva certo pretendere che lei camminasse dopo tutto quello che aveva passato.

Inoltre, lei si era addormentata, con la testa appoggiata a una spalla di Eric.

Non fecero molta strada. Solo quel tanto sufficiente ad allontanarsi dal tombino. Infatti non potevano sapere se gli abitanti di quel cunicolo non sarebbero andati proprio in quel momento a gettarvi la spazzatura o a seppellire un morto.

Appena furono a distanza di sicurezza, Eric mise giù delicatamente Rachel, che continuava a dormire, e disse a Roy: «Dormiremo qui. Dichiaro quindi che è notte.»

«Ce l’abbiamo fatta» disse Roy, ancora incredulo. «Siamo usciti vivi dal laboratorio, dalla zona dei Titanici, perfino dalle fogne. Siamo vivi, sani e salvi.»

«Però non abbiamo la minima idea di dove ci troviamo» concluse Eric.

23

Quando riaprì gli occhi, Eric rimase un po’ di tempo a pensare, in silenzio, prima di annunciare l’alba. Accarezzò sua moglie, che dormiva sdraiata con la testa appoggiata alla sua spalla. Rachel aveva ancora la faccia segnata dalla stanchezza, ed Eric decise di rimanere lì e di riposare per un’altra giornata.

Ma quando glielo disse, lei non ne volle sapere. «So che cosa temi. Hai paura che abortisca. Eric, se non è successo ieri, non c’è pericolo che succeda più. Noi donne della Gente di Aaron siamo robuste come le femmine delle tribù dei cunicoli di superficie.»

«Ci aspetta un lungo viaggio. Giorni e giorni di cammino, mia cara…»

«Ragione di più per metterci subito in marcia, allora. Abbiamo viveri solo per pochi giorni. E non possiamo sprecare tempo a fare una puntata in territorio titanico per procurarci altro cibo. Sono sicura che starò bene. Se dovessi sentirmi male, ti prometto che ti avvertirò subito. Ti prometto che non farò sforzi superiori alle mie possibilità.»

Roy, che nel frattempo era andato a sedersi vicino a loro, si dichiarò d’accordo con Rachel.

«Non solo sarà un lungo viaggio» fece notare, «ma è molto probabile che ci perderemo, che faremo lunghi giri inutili e false partenze. Hai detto tu stesso, ieri sera, che non sappiamo dove ci troviamo. E sarà ancora più difficile scoprire dove dovremo andare. Quindi, secondo me, faremmo meglio a partire subito.»

Pur sapendo che gli altri due avevano ragione, Eric continuò a discutere a lungo, per dare modo a Rachel di riposare ancora un poco. Disse che, prima di tutto, dovevano fare colazione, e poi riordinare e inventariare i viveri e gli oggetti che avevano con sé e che potevano essere rimasti danneggiati nella lunga immersione. Mandò Roy a riempire le borracce di acqua fresca a una tubatura scoperta nelle vicinanze, e infine disse a Rachel di tirare fuori la carta dei cunicoli, uno dei tanti tesori che la ragazza aveva conservato nelle tasche della sua tunica. Eric la esaminò con minuziosa attenzione, alla ricerca del modo migliore per raggiungere la destinazione che si era prefisso: i cunicoli della Gente di Aaron.

Finalmente ripiegò la carta, si alzò, e diede l’ordine di partenza. Si avviarono in fila indiana, Eric in testa, Roy alla retroguardia, lungo lo stretto budello familiare e rassicurante nonostante tutto, dopo le terribili esperienze trascorse. Ma dove andavano? In effetti, erano completamente smarriti. Si trovavano in una zona sconosciuta e forse pericolosa, ma Eric aveva un’idea. Era o non era un Occhio? Come Occhio, doveva essere in grado di trovare la strada giusta, anche in un posto completamente sconociuto, dove non era mai stato prima.

Quando arrivavano a una biforcazione, si fermava a lungo per esaminare i nuovi cunicoli che si stendevano davanti a loro. Studiava soprattutto il pavimento, per scoprire orme, o tracce di passaggi recenti. Poi decideva la strada da seguire, e gli altri andavano con lui senza discutere.

Più che per certezza, proseguiva in base a sensazioni. Era il pavimento dei cunicoli che attraverso la pianta dei piedi gli faceva sentire la direzione da prendere.

Quando si fermarono per dormire e consumare l’unico pasto sostanzioso della giornata, Eric estrasse la carta e la studiò ancora una volta, minuziosamente. E la stava esaminando ancora, la mattina dopo, quando svegliò Roy e Rachel. Stava imparando a memoria l’intrico dei cunicoli lontani dal punto in cui si trovavano. Notò che gli altri due non capivano il motivo di quello che stava facendo.

«Cosa speri di trovare, Eric?» chiese alla fine Rachel quando, dopo una lunga meditazione, lui li precedette lungo un nuovo cunicolo, e poi, fermatosi improvvisamente, tornò indietro e infilò un altro ramo della biforcazione.

«Sto cercando un pavimento in pendenza» spiegò Eric. «Stranieri e Umanità dicevano che la tua gente abitava nei cunicoli più interni. Tutte le volte che Arthur l’Organizzatore, o Walter l’Armaiolo, parlavano della Gente di Aaron, dicevano di essere “scesi” da loro. Invariabilmente, alludevano a quei viaggi come a delle “discese”. Questo è l’unico indizio che posso seguire, l’unica direzione generica nella quale possiamo andare: giù. Dobbiamo scendere nei cunicoli più profondi. Ma, per arrivarci, bisogna appunto scendere, e quindi il pavimento deve essere in pendenza.»

«Ma se anche riusciamo a scendere» disse Rachel «chi ti dice che troveremo la mia gente? Forse arriveremo in qualche punto allo stesso livello, ma lontano giorni e giorni di marcia dai cunicoli della Gente di Aaron.»

«Quando saremo laggiù» replicò Eric, «conterò sulla mia buona stella. Sono sempre stato fortunato, io. Inoltre, non dimenticare la tua carta. Vedi, qui, a questo punto, sulla carta…»

S’interruppe bruscamente, sollevando le braccia nel gesto che imponeva il silenzio. Rachel e Roy si fermarono immediatamente, e guardarono avanti.

C’era una sentinella, in fondo al cunicolo. Stava appoggiata con le spalle al muro, era voltata dalla loro parte, e impugnava una lancia la cui asta toccava il pavimento. La luce della lampada che portava legata alla fronte, mandava il suo raggio nella loro direzione.

Ma perché se ne stava lì ferma senza dare l’allarme?

Eric e Roy si affrettarono a impugnare la lancia, ma Rachel mormorò: «È morto. Non capite? Anche se è rimasto in piedi, è morto lo stesso. E da giorni… Si sente dall’odore.»

Rachel aveva ragione. Nonostante la distanza, giungeva a loro l’inconfondibile lezzo di cadavere in putrefazione.

L’uomo era morto all’improvviso, mentre era di sentinella. E non era stato sepolto.

I tre si avvicinarono con cautela. Il morto aveva gli occhi aperti, ma una pellicola grigia si era formata sulle pupille. Anche il corpo era grigio. Sembrava quasi che dai pori gli fosse sgorgato un liquido grigiastro che ora gli ricopriva i bicipiti possenti, la faccia dall’espressione intenta, il robusto torace da guerriero.

Perplesso, Eric guardò a lungo l’uomo. Non riusciva a capire. Le armi, l’equipaggiamento, erano stranieri ma inspiegabilmente familiari.

Oltrepassarono il morto, procedendo in punta di piedi, pronti a partire di corsa e a tornare indietro al minimo accenno di pericolo. Dopo un poco, sbucarono in uno spiazzo nel quale Eric riconobbe un cunicolo centrale, ampio, dal soffitto alto, molto simile a quello della sua tribù.

Là, almeno, avrebbero potuto fermarsi per riprendere fiato e parlare senza pericolo di un attacco.


Il cunicolo era letteralmente pieno, da un capo all’altro, di cadaveri.

Tutti, uomini, donne, bambini, in piedi o seduti, parevano statue messe là a spiegazione delle diverse attività umane. C’era una vecchia intenta a compiere i riti magici della preparazione del cibo. Un guerriero, accovacciato accanto a lei, la fissava come se già pregustasse un pranzo succulento. Una madre teneva sulle ginocchia un bimbo nudo, e con espressione irosa e una mano alzata, pareva sul punto di sculacciarlo. Un giovane, appoggiato al muro, sorrideva a una ragazza che stava passando…

E tutti erano morti, all’improvviso, senza rendersene conto, tutti erano coperti, da capo a piedi, dello stesso liquido grigio.

Vedendoli lì, raccolti tutti insieme, Eric capì perché aveva trovato qualcosa di familiare nella sentinella. Era evidente che quei disgraziati avevano fatto parte di una tribù di superficie. Nonostante alcune differenze e alcuni particolari di secondaria importanza, quella tribù era uguale all’Umanità. I manufatti, semplici e primitivi, erano pressoché uguali, e uguale doveva essere stata la loro vita familiare e sociale.

Ecco lì, seduto su un tumulo e circondato da tre donne, quello che indubbiamente era il capo, grasso e stupido come Franklin, intento a sorvegliare benignamente le attività del suo popolo.

Forse, fra quei morti, c’era stato un giovane che si apprestava a compiere il suo primo Furto…

Rachel si staccò da un cadavere che aveva esaminato attentamente. «So cosa provoca questo sudore grigio» disse. «È uno spray omicida usato dai Titanici. Finora l’avevo visto usare solo per esperimenti di laboratorio. Mai su un’intera tribù.»

«Da quello che ho visto quando eravamo prigionieri» disse Eric, «mi pare che i Titanici facciano di tutto per liberarsi di noi, e che i loro orribili esperimenti servano proprio a questo.»

Rachel annuì, pensosa. «Hai ragione, purtroppo. Eric, dobbiamo cercare di raggiungere al più presto la mia gente. Non tanto per il nostro bene quanto per il loro. Non sanno quello che è successo qui. È urgente.»

«D’accordo, tesoro. Farò del mio meglio. Credi che sia prudente prendere un po’ del cibo che c’è qui? Ci potrebbe essere utile.»

«Lasciami dare un’occhiata. Voi due non toccate quei cadaveri. Potreste stare male.»

Quando lasciarono il grande cunicolo centrale, cimitero di una intera popolazione, Roy rimase a lungo assorto, immerso in un tetro silenzio. Non aveva nemmeno partecipato alla discussione circa l’opportunità o meno di seppellire tutti quei morti, discussione terminata con l’accordo che era materialmente impossibile farlo, oltre che, probabilmente, pericoloso. Eric credeva di sapere cosa stesse passando per la mente di Roy. Prima di mettersi a dormire gli parlò delle affinità che aveva notato fra la tribù dei morti e l’Umanità.

«Pensavo a Franklin, a Ottilie, a Rita» disse. «Chissà se hanno usato su di loro lo spray… se anche loro, adesso, sono là, tutti grigi e morti.»

«L’Umanità è defunta» sentenziò Roy, sdraiandosi sul pavimento. «Comunque, per me è morta. Me ne infischio di Franklin, di Ottilie e di tutti gli altri.» Si rigirò sul fianco e si addormentò.

La mattina dopo, quando Eric si svegliò, vide che Roy se ne stava seduto, con le braccia intorno alle ginocchia, e fissava Rachelcon un’espressione curiosa che lui non riuscì ad analizzare.

Non era solo desiderio, ma qualcosa di più. Forse Roy stava pensando alla sua compagna, rimasta nei cunicoli dell’Umanità? Aveva guardato a lungo Rachel, mentre lei era intenta a esaminare e scegliere il cibo, e forse si era ricordato della moglie che compiva gli stessi gesti…

Comunque fosse, la faccenda piaceva poco a Eric. E quando si avviarono, erano due le cose che lo turbavano. Roy chiudeva la marcia, e quindi aveva sempre davanti a sé Rachel, e questo non poteva che aggravare la situazione, e lui, Eric, marciando in testa alla fila, costituiva un facilissimo bersaglio per un uomo che, roso dall’invidia e dal desiderio, avesse voluto disfarsi di un rivale scomodo.

Pensò di mettere Roy come capofila, ma questo voleva dire cedergli il comando. Inoltre, Roy non era un Occhio, e occorreva un Occhio per trovare la via giusta. Accidenti a Roy! Un senso di antagonismo fra loro era proprio l’ultima cosa che ci voleva. Eric continuava a camminare come se niente fosse, ma stava coi sensi all’erta…

Risultato delle sue preoccupazioni fu che, per un pelo, non portò a morte sicura se stesso e i suoi compagni. Era talmente intento a captare qualsiasi rumore sospetto alle spalle, che non badava, come avrebbe dovuto, a quello che succedeva davanti a lui. Solo quando fu arrivato a un incrocio, si accorse che qualcosa non andava. Gli pareva di avere sentito dei rumori, e per accertarsene sbirciò nella biforcazione di sinistra. Ma dopo una rapida occhiata si affrettò a tirarsi indietro, schermando la lampada. Poi corse da Rachel e Roy, che lo aspettavano a distanza di sicurezza, e sussurrò: «Dobbiamo metterci al sicuro! C’è un branco di Selvaggi che sta venendo da questa parte. Liberatevi delle bisacce. Dobbiamo correre.»

«Lasciate che ci pensi io» disse Roy. «Basterà che voi due restiate qui.»

Prima che avessero il tempo di impedirglielo, aveva spiccato la corsa dirigendosi verso la biforcazione da cui era appena tornato Eric, e senza spegnere la lampada. Guardò a sinistra, irrigidendosi per un momento come se non credesse ai propri occhi. Poi alzò le mani sopra la testa e si mise a urlare come se fosse in preda a un terrore folle.

I Selvaggi lo videro e lo sentirono, e in risposta emisero un ruggito famelico che fece tremare i muri.

Roy voltò a destra, continuando a urlare: un momento dopo il branco dei Selvaggi si lanciò urlando al suo inseguimento.

24

Eric e Rachel rimasero appiattiti contro il muro, stretti l’uno all’altra, timorosi perfino di respirare, mentre l’orda passava a una certa distanza davanti a loro, all’incrocio. Se una sola di quelle orribili creature avesse guardato da quella parte, sarebbe stata la fine.

Ma, con una preda viva in fuga davanti a loro, i Selvaggi non avevano il tempo e l’intelligenza di pensare ad altro. A intervalli alzavano di scatto la testa ed emettevano all’unisono quel loro orribile ruggito famelico. Le note, alte e basse, acute e sorde, rimbombavano di parete in parete; Rachel ed Eric sentivano i muscoli irrigidirsi per la paura. Eric capì che quello era lo scopo principale del grido: atterrire la preda tanto da renderla incapace di muoversi, affinché fosse più facile catturarla. Serviva inoltre a spronare i membri più lenti dell’orda e a indicare loro la direzione da seguire.

Eric non aveva mai visto prima un Selvaggio, ma una sola occhiata gli era stata sufficiente per dirgli che le leggende corrispondevano alla realtà e che le esperienze passate da Rachel nella gabbia, prima del suo arrivo, dovevano essere state davvero tanto orribili da giustificare le sue violente reazioni. I Selvaggi erano esattamente come lei li aveva descritti. Rappresentavano dei perfetti esemplari di un agghiacciante ritorno alle orde dei primati, con in più tutto quello che di orribile ha una folla umana inferocita. I corpi pelosi, le braccia lunghe che sfioravano il suolo, e l’espressione bestiale e feroce, li rendevano ancora più spaventosi dei Titanici. Avendo intravisto nell’orda degli individui più piccoli, bambini o cuccioli, Eric ne dedusse che il branco doveva essere composto di maschi e di femmine. Tuttavia era impossibile distinguere i primi dalle seconde. Per quanto di diversa statura, quegli esseri erano tutti uguali, e tutti pelosi e, così almeno gli era parso, tutti barbuti.

I Selvaggi passarono a una velocità incredibile. Alcuni portavano delle orrende lanterne, costituite da teste mozze di guerrieri sulla cui fronte era legata ancora la lampada. Ma non avevano né armi né indumenti. Correvano in branco, facendo un rumore assordante, emettendo il loro grido pauroso, e lasciando dietro di sé una scia di puzzo insopportabile.

Quando anche l’ultimo Selvaggio fu passato, Rachel e Eric raccolsero la bisaccia di Roy, sorreggendola ciascuno per una cinghia, e si avviarono verso il punto in cui avevano trascorso la notte.

Pensavano che non avevano molte probabilità di rivedere Roy; tuttavia, se fosse riuscito a sfuggire ai suoi inseguitori, sarebbe certamente andato a cercarli là.

Eric si lasciò cadere vicino al muro, e attirò a sé Rachel. Stava all’erta, per udire in tempo qualsiasi rumore che preannunciasse l’arrivo dei Selvaggi, ma la sua mente era confusa e perplessa.

«Non avevo mai visto niente di simile» disse. «Ne avevo sentito parlare, sì, ma non avrei mai creduto… E dire che pensavo… che ero preoccupato sul conto di Roy. Era così sconvolto, così irritabile.»

«È infelice, caro. Più ci avviciniamo alla mia gente, più si rende conto della situazione.»

«Vuoi dire che si rende conto di essere solo un guerriero ignorante? Anch’io ho questo problema, ma cerco di non pensarci.»

«Tu sei mio marito» disse Rachel. «Il marito di Rachel Figlia-di-Ester diventerà automaticamente una personalità di primo piano, fra gli Aaron. E poi, tu non sei più un ignorante» aggiunse con un sorriso radioso. «Ma Roy… Per lui è diverso. Si rende conto di non essere istruito, di non sapere niente, e sa che le qualità fisiche di cui dispone non gli serviranno né per diventare importante né per trovarsi una compagna. Non può non essersene reso conto. Finora sei stato tu a ideare i piani, a decidere. E tu hai anche una compagna. Prova a metterti nei suoi panni. Roy si rende conto di essere pocomeno che inutile, di contare poco o niente.»

«A me pare che ci sia stato molto utile quando siamo fuggiti dai Titanici. Se non ci fosse stato lui ad agganciare la fessura del tombino e a tenere duro finché io non l’ho aperta…»

«È vero. Però, tu non gliel’hai detto. E probabilmente lui ha pensato che chiunque altro al suo posto, avrebbe potuto fare lo stesso. Non si sente necessario. Se ci pensi, Roy non è stato indispensabile in niente di tutto quello che abbiamo fatto.»

Eric non poté non darle ragione, anche se, nonostante tutto, non poteva non apprezzare il contributo di Roy. E adesso che erano rimasti di nuovo soli, cosa avrebbero fatto?… Un rumore di passi che venivano verso di loro lo distolse dai suoi pensieri.

Balzò in piedi, mettendosi davanti a Rachel, e impugnò la punta di lancia. I passi si avvicinavano sempre più. Poco dopo, oltre la svolta del cunicolo, apparve Roy.

«Roy!» esclamarono tutti e due, correndogli incontro a braccia aperte.

Rachel l’abbracciò coprendogli la faccia di baci. Eric continuava a dargli grandi manate sulle spalle, ripetendo: «Sei proprio tu, Corridore! Il nostro bravo Roy!»

Quando finalmente lo lasciarono andare, Roy si guardò intorno e disse: «C’è qualcosa da mangiare? A furia di correre mi è venuta una gran fame.»

Si inginocchiò per aprire la sua bisaccia che Eric e Rachel avevano sistemato insieme alle loro, e ne trasse del cibo che si cacciò in bocca avidamente. Era molto che Eric non lo vedeva così soddisfatto e sicuro di sé.

Lui e Rachel andarono a sederglisi vicino, e chiesero: «Cos’è successo? Racconta.»

«Oh, niente» disse lui, a bocca piena. «Ho continuato a correre tirandomeli dietro per un bel po’, poi li ho seminati. Tutto qui.»

«Sei stato meraviglioso» disse Rachel. «Faranno delle canzoni e nasceranno delle leggende per esaltare le tue imprese.»

«Non esagerare, Rachel. Dopo tutto, non è stata gran cosa per un Corridore come me.»

«Sei un vero Corridore» disse Eric. «Il miglior Corridore di tutti i cunicoli. E dove li hai seminati?»

«Ricordate quel posto dove siamo stati ieri? Dove c’era quella tribù intera di morti avvelenati?»

«Sì.»

«Lì. È lì che li ho portati. Volete mangiare?, ho pensato. E allora, servitevi. Credo proprio che si buscheranno un bel mal di pancia.»


Dopo avere mangiato, esitarono un po’ prima di ripartire. Prendere la direzione nella quale si erano incamminati prima significava forse incontrare altri Selvaggi. Eric doveva trovare un altro cunicolo in discesa, ma che portasse in un’altra direzione.

Per sapere se il terreno era in pendio, aveva escogitato un sistema più semplice di quello seguito fino a quel momento. Aveva appallottolato un po’ di cibo, e a ogni biforcazione lasciava cadere una pallina. Se quella si metteva a rotolare, lui seguiva la sua direzione.

Camminarono per cinque giorni, incontrando altre due tribù sterminate dal misterioso veleno. La situazione era identica: la morte era sopraggiunta inattesa e inavvertita, mentre la gente era intenta alle più svariate occupazioni. Solo la diversità delle acconciature, degli abbigliamenti e dei manufatti rivelarono a Eric che quelle erano tribù di Stranieri. Questo significava che stavano addentrandosi nell’intrico dei cunicoli, verso quelli più in profondità.

In ognuno dei due posti fecero provvista di cibo e acqua, dopo che Rachel ebbe esaminato accuratamente gli uni e l’altra.

«Ecco il frutto della Scienza titanica» disse Roy, mentre si allontanavano da uno di questi cimiteri. «Vi pare che ci sia molto da imparare da una religione simile?»

«A te pare che quella degli Antenati si sia rivelata migliore?» ribatte Rachel. «Non hai mai sentito parlare di Hiroshima, Roy?»

E gli raccontò quell’antica storia.

Quando ebbe finito camminarono per un po’ in silenzio, poi Roy disse: «D’accordo. Sono orribili tutte e due. E allora, dove dobbiamo cercare la risposta?»

«Dobbiamo cercarla in tutt’altra direzione. Aspettate quando saremo arrivati fra la mia gente. E allora vedrete…» S’interruppe. «Cosa c’è, Eric?»

Eric si era fermato all’incrocio di cinque cunicoli. Poi, senza dare spiegazioni, lui tornò fino all’intersezione precedente; punto d’incontro di tre altri cunicoli. A questo punto, estrasse la mappa e, puntando il dito, disse ai compagni: «Ecco qua, non vedete? Credo proprio che ci troviamo a questo punto.» Sorrise a Rachel, prima di fare sfoggio della sua erudizione «Terra cognita, se capite quello che intendo.»

Ma Roy obiettò: «Non potrebbero esserci altri posti dove sono vicine due diramazioni, una di tre e una di cinque cunicoli?»

«No, Roy. Dovresti sapere anche tu che le diramazioni di cinque cunicoli sono rarissime, e rare sono anche quelle di tre. Per lo più, ci sono incroci di due cunicoli che formano così quattro rami. Credo proprio che siamo arrivati. È un bel pezzo che confronto i cunicoli col tracciato della carta, e tutto corrisponde.»

Aveva ragione, e a mano a mano che procedevano, questo divenne sempre più evidente. Dopo un po’ risultò inutile continuare a consultare la carta. Eric sapeva dove andare e trovava sempre la direzione giusta.

Finalmente arrivarono in un corridoio particolarmente lungo, il cui imbocco era sorvegliato da tre uomini, due armati di arco e il terzo di balestra. Erano armi che Rachel aveva descritto quando ancora si trovavano prigionieri nella gabbia, ed Eric le riconobbe subito. Con quelle armi gli appartenenti alla Gente di Aaron si difendevano dagli aggressori. Non le portavano mai con sé, durante le spedizioni, un po’ perché non cadessero in mano a tribù ostili, un po’ per paura che i Titanici, sebbene sempre indifferenti di fronte ai manufatti umani, le notassero a causa delle dimensioni e le ponessero giustamente in rapporto con un certo grado di intelligenza e di civiltà.

Quando i tre si avvicinarono, le guardie incoccarono le frecce.

«Sono Rachel Figlia-di-Ester» gridò la ragazza, fermandosi a distanza di sicurezza. «Vi ricordate di me? Ho preso parte alla spedizione in territorio titanico, capitanata da Jonathan Danielson.»

L’uomo armato di balestra, evidentemente il capo, rispose: «Ti riconosco, vieni pure avanti. Ma se riesci a farti capire da quei due Selvaggi che ti seguono, di’ loro di stare fermi e di alzare le mani.»

«Selvaggi!» disse Roy infuriato. «Chissà loro cosa credono di essere.»

«Stai calmo» consigliò Eric, anche se, nel suo intimo, si sentiva offeso quanto l’amico. Selvaggi! Era peggio di quanto non si fosse aspettato.

Quando raggiunsero il posto di guardia, Rachel indicò un cavo che correva lungo la parete; era un filo del telegrafo, ed Eric lo riconobbe dalle descrizioni che gliene aveva fatte Rachel.

«Mettimi in comunicazione» disse la ragazza all’ufficiale. «Voglio parlare con l’Aaron.»

«L’Aaron? Vorrai dire il capoguardia.»

«No» ribatté lei, imperiosamente. «Voglio parlare proprio con l’Aaron. E tu mi metterai subito in comunicazione, se non vuoi passare guai.»

L’uomo la guardò per un momento interdetto, poi si accostò al filo e prese a tirarlo con una serie di colpi ritmati. Quando ebbe finito, il filo trasmise immediatamente la risposta, battuta da un martelletto su una piccola incudine. Alla fine, Rachel e l’ufficiale annuirono: lei con aria di trionfo, lui inarcando le sopracciglia in atteggiamento di sorpresa e di rispetto.

«Va bene» disse. «Sei collegata. Puoi comunicare per tutto il tempo che vuoi.»

Rachel approfittò del permesso senza farselo ripetere, e quando ebbe terminato di trasmettere, chiamò vicino a sé l’ufficiale perché ascoltasse anche lui la risposta.

«Voi due» disse poi l’uomo a Eric e Roy, in tono meno ostile e sospettoso, «potete abbassare le braccia. Siete liberi. Anzi, l’Aaron ha detto che siete ospiti onorati del nostro popolo, e io sarò la vostra scorta. Se volete qualcosa, non avete che da chiedermelo.»

S’incamminarono, oltrepassando il posto di guardia lasciato alle cure degli altri due uomini.

«Così va meglio» disse Eric a Rachel.

Lei gli prese un braccio stringendolo affettuosamente. «Volevo che tu entrassi nei nostri cunicoli come un uomo libero e rispettato» disse. «Questa è la ragione principale per cui ho insistito di volere parlare con l’Aaron. Ma sono emerse altre ragioni, per cui è risultato che ho fatto molto bene a chiamarlo. La nostra gente non è stata colpita dallo spray, ma sappiamo che è venuto il momento di muoverci.»

«Alludi al progetto?»

«Sì. Entra immediatamente in azione. C’è una nave sul tetto.»

Eric si fermò di botto, colpito da quelle parole. Il tetto doveva essere quello dell’enorme edificio dove abitavano i Titanici; e “nave” non poteva significare altro che “astronave”. Ma com’era possibile che un apparecchio simile, capace di trasportare dozzine e dozzine di Titanici, potesse trovare posto sul tetto di una casa? In ogni caso, l’avrebbe distrutta al momento del decollo. Eric espresse i suoi dubbi a Rachel, che scosse la testa con impazienza.

«I Titanici non usano la propulsione a razzi, come i nostri Antenati» spiegò. Per quel poco che ne sappiamo noi la nave è un misto di battello di salvataggio e di traghetto. Abbiamo fondati motivi per credere che, nei pressi di Plutone, sia ferma un’astronave più grande, la nave-madre nella quale questi battelli prendono posto.

«Ma allora… il progetto…»

Rachel lo baciò. «Io devo andare da questa parte» disse. «Bisogna che vada al Quartier Generale Femminile ad aiutare a preparare molti neutralizzatori, adesso che siamo sicuri che funzionano. Ci vedremo più tardi nel cunicolo dell’Aaron, caro.» Si fermò all’incrocio di un corridoio. «Puoi chiedere all’Aaron tutto quello che vuoi, Eric» aggiunse. «Gli ho spiegato che sei un genio, un eroe, un uomo meravig ioso!»

E si allontanò, prima che lui potesse aprire bocca.

Poco dopo i tre uomini si trovarono davanti a un enorme lastrone che chiudeva completamente il passaggio, da parete a parete e dal pavimento al soffitto. L’ufficiale trasmise la parola d’ordine mediante il filo del telegrafo, che in quel punto entrava nel muro, e il lastrone cominciò a sollevarsi scomparendo entro un’ampia fessura praticata nel soffitto.

Eric e Roy non riuscirono a trattenere un’esclamazione di meraviglia. Com’era progredita la Gente di Aaron!

Il lastrone ridiscese appena loro furono passati dal corridoio in una specie di atrio, al quale facevano capo numerosi cunicoli, ciascuno dei quali era più largo della sala di riunione dell’Umanità. Solo in territorio titanico i due amici avevano visto posti di dimensioni simili.

Centinaia di lampade pendenti dal soffitto illuminavano chiaramente i cunicoli affollati. Affollate erano anche le gallerie che correvano a metà altezza delle pareti. C’era qualcosa, in quella folla, una specie di fretta impaziente, che Eric non poté non notare. Pareva che tutti avessero premura di correre a preparare i bagagli, di presentarsi a gruppi in determinati posti. Chiese all’ufficiale se davvero fosse così.

«Sì» rispose quello. «Ci stiamo preparando fin da quando ero bambino, e adesso la grande ora è suonata. È un po’ come se prima avessimo fatto delle esercitazioni e ora ci preparassimo alla battaglia. Voi, che siete guerrieri, capirete cosa voglio dire.»

«A me dispiacerebbe lasciare una casa comoda e sicura come questa» osservò Roy.

«Non è più sicura. Questo è il plinto. I Titanici stanno avvicinandosi ogni giorno di più a noi, e se restiamo fra non molto ci raggiungeranno. E il progetto… Il progetto dev’essere attuato. Voi tre ci avete portato l’ultima vitale informazione che ci era necessaria.»

Camminarono a lungo prima di arrivare al cunicolo dell’Aaron. Quarido furono ammessi alla sua presenza, l’uomo anziano ma robusto, i cui lunghi capelli bianchi ricadevano sciolti sulle spalle, stava impartendo alcuni ordini a un gruppo di ufficiali.

«Per un po’ dovrebbe bastare» concluse. «Non disturbatemi, a meno che si tratti di cosa molto seria. Al resto penserà Mike Raphaelson. Voglio parlare con l’uomo grazie al quale per noi è finalmente giunto questo giorno.» Così dicendo indicò Eric con un ampio gesto del braccio. Tutti gli ufficiali si voltarono verso il giovane guerriero. Qualcuno aveva l’aria sorpresa, ma tutti gli sorrisero affabilmente.

«E ora, Eric l’Occhio, Eric l’Unico» disse l’Aaron, prendendo un documento dall’ampio tavolo a cui stava seduto «Eric che è riuscito a escogitare un piano per sfuggire dalle gabbie dei Titanici, e unico nella storia dell’Umanità è riuscito ad attuarlo, ascolta la mia domanda: vuoi entrare a fare parte della nostra gente? Certo che lo vuoi» continuò, senza aspettare la risposta di Eric. «Rachel Figlia-di-Ester è la tua compagna, e tu non hai nessuno. Alcuni giorni dopo la partenza verrai sottoposto alle prove di iniziazione per entrare a far parte della Società Maschile. Io ti farò da mallevadore. Da noi, i giovani, per diventare uomini, non devono compiere un Furto, ma un’Impresa. E questa Impresa tu l’hai già compiuta: la fuga dal territorio titanico. Si tratterà quindi di una semplice formalità. Poi non ci saranno né feste né danze ma solo un breve discorso. È uso esporre, per sommi capi, i particolare dell’Impresa, poi ringraziare tutti, e basta. Domande? No, naturalmente, mi pare che sia tutto molto semplice. E adesso, dato che fai ufficialmente parte del nostro popolo, non vedo perché non potrei… Sì, credo che lo farò.»

Mentre si chinava sul tavolo per scarabocchiare un appunto in margine a un documento, Rachel, accompagnata da altre donne, entrò nella sala e andò a mettersi alle spalle dell’Aaron. Tanto lei che le sue compagne indossavano un’ampia e lunghissima tunica-mantello, fornita di numerose tasche piene di svariati utensili.

«Sono pronti i neutralizzatori?» chiese l’Aaron, senza alzare gli occhi dal documento. «Bene, sapete dove dovete andare… via! Rachel, tu naturalmente starai con me, al comando, dovunque questo sarà sistemato. E adesso, dimmi, figliola: pensavo di mettere tuo marito a capo di una sezione… Ti va l’idea? Sono certo di sì. Il comando della sezione quindici è vacante, dato che, come ci hai riferito, Jonathan Danielson è morto. Eric, credi di essere capace di guidare la vita e il destino di duecento persone? Verrà il momento in cui sarai solo, al comando della gente che ti sarà affidata, e dovrai prendere tutte le decisioni necessarie. Naturalmente fruirai dell’assistenza di Rachel. Ti spiegherò tutto, ed entrerai in carica subito dopo la cerimonia dell’iniziazione. Vediamo un po’: ci occorrerà l’approvazione di un Consiglio del Popolo, oltre a quello dei membri della sezione quindici. Nessuna difficoltà, da questo lato. E adesso per…»

«Non credo di esserne in grado» disse Eric, soddisfatto di essere finalmente riuscito a interrompere quel torrente inarrestabile di parole.

L’Aaron rimase sbalordito. Alzò gli occhi dal documento e li fissò su Eric. Evidentemente, non gli capitava spesso di essere interrotto. Era abituato a pensare a voce alta. Gli altri ascoltavano e agivano di conseguenza.

«Eric, ragazzo mio» disse, palesemente seccato, «ti prego di non farmi perdere tempo con chiacchiere inutili. Sto occupandomi dell’avvenimento più importante e decisivo del mio popolo, e non posso essere distolto dalle mie occupazioni per occuparmi più a lungo di te e convincerti che puoi fare quello che ti ho detto. Hai dimostrato di essere intelligente e coraggioso, sei stato istruito da Rachel, che è una scienziata di prim’ordine. Se vorrai sapere qualche altra cosa, te la insegnerò io durante il viaggio. E se ti preoccupi per le tue origini, lascia che ti dica una cosa: l’addestramento a cui sei stato sottoposto nei cunicoli di superficie è proprio quello che ci vuole per raggiungere lo scopo ultimo del nostro progetto. Tu sei un Occhio, cosa che mai nessuno di noi…»

«Scusatemi!» tornò a interromperlo Eric. «Ma è proprio per questo che non mi sento in grado. Non volevo discutere sulle mie capacità di comando, ma sul progetto. Lasciate che vi spieghi» si affrettò ad aggiungere, vedendo che il cipiglio dell’Aaron stava facendosi minaccioso. «Non avevo la minima idea su di esso, finché non sono arrivato qui. Pensavo che si trattasse di un nuovo sistema di combattere i Titanici, basato su una combinazione di Scienza titanica e Scienza ancestrale. E quando ho saputo della nave, ho pensato sulle prime che voleste servirvene per distruggere i Titanici con le loro stesse armi… Ammetto di essere stato ingenuo. Invece, ho finalmente capito che voi non avete nessuna intenzione di combattere i Titanici. Vi limitate a scappare.»

Il cipiglio scomparve lentamente e il vecchio annuì come per dire “Oh, ti preoccupi per questo”. Rimase per un po’ soprappensiero, e infine disse: «Cerca di capirmi, Eric. Metti da parte per un momento i tuoi preconcetti. Scienza titanica… Scienza ancestrale. Anche noi ci abbiamo creduto, e a lungo, ma dopo molti studi e considerazioni le abbiamo accantonate moltissimo tempo fa. Il fatto che nel nostro progetto si uniscano tutte e due quelle scienze, è puramente casuale. Siamo giunti alla convinzione che il progetto è l’unico modo valido, grazie al quale l’uomo potrà rendere la pariglia ai Titanici. Noi non fuggiamo, anche se la nostra posizione qui è diventata insostenibile. Noi c’infiltreremo fra loro, là dove essi sono più numerosi, nel loro stesso ambiente, e così potremo molestarli con risultati migliori.»

«Ma come? Come parassiti?» disse Eric, con profonda amarezza. «Come parassiti che guastano, rubano… È questo il destino supremo della nostra razza?»

Un sorriso pieno di compassione comparve sul viso scavato dell’Aaron. «Eric, che cosa credi di essere, tu? Cosa credi di avere imparato in tutti gli anni che sei vissuto nei cunicoli? Credi di potere sovvertire tutto e ricominciare daccapo a piantare cereali o ad allevare bestiame, come i nostri antenati? E anche se fosse possibile, lo vorresti fare?»

Eric aprì la bocca, ma la richiuse subito. Non sapeva cosa ribattere. Non sapeva cosa pensare. Rachel gli fece scivolare una mano nella sua, e lui la strinse disperatamente.

«Ecco perché abbiamo la certezza che il nostro progetto è attuabile, realistico» proseguì l’Aaron. «Il nostro progetto dà per scontato un fatto, Eric: che sulla Terra, ora, nelle enormi case dei Titanici vivono più uomini di quanti ne siano mai esistiti nel corso della storia. E il progetto si rende conto di un’altra cosa, relativa alla storia dell’Umanità.»

Incrociando le braccia, l’Aaron chiuse gli occhi e cominciò a dondolarsi avanti e indietro. La sua voce, quando riprese a parlare, era cantilenante. «L’uomo ha alcune caratteristiche fondamentali in comune col topo e con lo scarafaggio: mangia quasi di tutto, è molto adattabile e riesce a vivere in quasi tutte le condizioni. Può sopravvivere come individuo, ma preferisce riunirsi in gruppo. E se possibile preferisce vivere di quello che altre creature hanno prodotto naturalmente o artificialmente. È quindi inevitabile concludere che è stato designato dalla natura a essere una specie di parassita di categoria superiore, e solo la mancanza di un ospite abbastanza ricco nel suo primitivo ambiente, gli aveva impedito di assumere il ruolo di eterno ospite, costringendolo a vivere, famelico, insoddisfatto e irritabile, delle risorse che riusciva a procurarsi.»

25

Nove giorni dopo, Eric si trovava sulla rampa che portava alla nave spaziale dei Titanici e, alla luce della Luna, controllava, regolandosi su un lungo elenco che aveva in mano, il passaggio dei 192 membri della sezione quindici che gli sfilavano davanti per imbarcarsi.

Non avrebbe mai ritenuto possibile fare compiere con tanta rapidità e precisione un trasferimento così lungo a migliaia di uomini, donne e bambini, cioè a tutta la popolazione degli Aaron. Erano partiti dai cunicoli più profondi, e risalendo lungo una via tortuosa che si snodava a spirale attraverso strati di materiale isolante inserito nei muri dell’edificio, puntavano a un’apertura che dava sul tetto. Non avevano perso un solo componente, per incidenti di viaggio od altro, sebbene fossero passati attraverso il territorio di oltre cento tribù. Uomini armati di tutto punto avevano provveduto alla sicurezza di tutti: uomini d’arme, che si erano anche rivelati esperti diplomatici e avevano saputo stabilire quando era meglio trattare, quando minacciare, quando pagare. Squadre di operai specializzati avevano tenuto in ordine le strade da percorrere, e che erano state scelte da esperti dopo lunghi e accurati studi sulle carte in base al criterio della via più breve e più sicura.

Era stata un’esperienza incredibile, una dimostrazione di coraggio e di disciplina data da tutto un popolo. Ma non bisognava dimenticare che quell’impresa era stata preparata da generazioni, e che ciascuno degli Aaron sapeva da sempre quello che avrebbe dovuto fare.

Nonostante le descrizioni fattegli da Rachel e da altri, Eric non sarebbe mai riuscito a immaginarsi il mondo esterno così com’era veramente. Ma quando si trovò sopra il tetto, nell’abbagliante luce del Sole, capì cosa significasse non avere un tetto, per quanto alto, sopra la testa, e nessuna parete, per quanto lontana, che chiudesse l’orizzonte. In un primo momento aveva dovuto lottare contro un’ondata di panico che gli aveva serrato lo stomaco, e si era fatto forza soltanto per non sfigurare davanti al gruppo di cui aveva il comando. Ma quando si accorse che erano spaventati anche molti dei suoi uomini, i quali dopotutto non erano arditi esploratori ma solo artigiani con le loro famiglie, dimenticò la propria paura e riuscì a infondere coraggio agli altri…

Quel primo giorno non fu certo piacevole. Le notti erano più rassicuranti, perché nascondevano nelle tenebre la vastità degli spazi circostanti. Gli Aaron avevano viaggiato lungo il tetto, quasi sempre di notte, un po’ perché si trovavano più a loro agio, un po’ perché raramente i Titanici uscivano all’aperto dopo il calare del Sole.

Adesso, si stavano imbarcando, ed era notte. La rampa che portava all’astronave era ripida e molto lunga, e loro si affrettavano perché, secondo la tabella di marcia, l’orario della partenza era molto vicino.

Ogni tanto Eric distoglieva per un momento lo sguardo dall’elenco che teneva in mano e dalla fila di passeggeri, e guardava un po’ più su, lungo la rampa dove Rachel e le altre donne manovravano i neutralizzatori per annullare gli effetti di certe corde arancioni disposte a intervalli regolari attraverso la rampa. I Titanici avevano tanta fiducia in quelle corde che avevano lasciato aperto il portello dell’astronave, con la rampa calata. Diversamente dalle corde verdi della sala delle gabbie, quelle corde color arancio respingevano violentemente il protoplasma, e bastava avvicinarsi per essere scagliati lontano con violenza incredibile. Ma, grazie ai neutralizzatori, erano state rese inoffensive.

Roy passò davanti a Eric, agitando una mano per indicare che tutta la sezione era già passata. Eric controllò l’elenco, e cancellò con un trattino l’ultimo nome, quello appunto di Roy. Restavano solo il suo nome e quello di Rachel. Ripiegato l’elenco, se l’infilò sotto il braccio e si avviò, mentre dietro di lui iniziava la sfilata della sezione sedici. Quando passò davanti a Rachel, si fermò un attimo per stringerle una mano.

«Hai l’aria stanca» le disse. «Sei sicura di non affaticarti troppo? Non dimenticare che sei incinta.»

Senza staccare il neutralizzatore dalla corda su cui lo teneva appoggiato, lei si sporse per dargli un bacio. «Ci sono altre cinque donne nelle mie condizioni, sulla rampa. Non te n’eri accorto? Comunque, il mio turno sta per finire. Tra poco ti raggiungerò a bordo.»

All’ingresso della stiva, dove la folla si accalcava ancora in attesa di raggiungere le rispettive destinazioni, un giovane, che portava il bracciale della polizia, gli riferì un messaggio.

«Devi raggiungere l’Aaron al più presto» gli disse. «È insieme agli uomini che hanno l’incarico di praticare un buco nella paratia. Nel frattempo, prenderò io il comando della tua sezione.»

Eric gli porse l’elenco. «Quando arriva mia moglie, dille di raggiungermi, per favore» disse. Poi fece cenno a Roy di seguirlo, e i due amici s’incamminarono nella direzione indicata dal poliziotto. Lungo il tragitto, ogni trenta passi, erano dislocati altri uomini. Tutt’intorno, c’erano enormi recipienti che riempivano la stiva dal pavimento al soffitto. Anche lì, come ovunque in territorio titanico, la luce era abbagliante. I Titanici lasciavano sempre le luci accese, anche quando dormivano.

Eric e Roy arrivarono a destinazione nello stesso momento in cui gli uomini, stanchi e sudati, stavano togliendo il pezzo di paratia che avevano tagliato. Intorno, una folla di curiosi osservava con ansia il progredire dei lavori. L’alba era vicina e tutti lo sapevano.

Anche l’Aaron era stanco e sudato, e aveva gli occhi arrossati. Pareva che stesse per crollare dalla stanchezza. «Eric» disse, «adesso tocca a te. Da questo momento non ci possiamo più basare sulle carte. Là dentro» e indicò il foro praticato nella paratia, «solo un Occhio ci può guidare.»

Eric annuì, si adattò la lampada alla fronte, ed entrò nell’apertura.

Gli bastò una rapida occhiata per assicurarsi che davanti a lui si stendevano gallerie e corridoi simili a quelli a cui erano abituati. Era una fortuna. Sarebbe stato molto spiacevole infatti scoprire che i Titanici usavano un diverso materiale isolante sulle loro astronavi. Ma lì dentro, gli uomini avrebbero potuto vivere comodamente.

Riferì quello che aveva visto, e tutti mandarono un sospiro di sollievo. «Magnifico» commentò per tutti l’Aaron. «Vai avanti. Sai quello che devi cercare. Noi, intanto, allargheremo l’apertura.»

Eric si avviò, seguito da Roy e da un gruppo di giovani agili e robusti.

Sapeva quello che cercava, ma mentre procedeva lungo le gallerie buie e sconosciute, era turbato da qualcosa. Qualcosa che non avrebbe saputo definire. Poi, quando dopo una curva sboccò in uno spiazzo abbastanza ampio per accogliere sia pure senza troppe comodità tutti gli Aaron, capì di che cosa si trattava: l’odore, o meglio, la mancanza di qualsiasi odore.

Quei cunicoli erano vergini. Nessun uomo li aveva mai abitati.

«Questo posto va bene» disse. «Ci accamperemo qui fino al decollo.»

Roy tornò indietro a riferire, e poco dopo cominciarono ad arrivare gli altri. Prima i poliziotti incaricati di stabilire i posti e aiutare la gente a trovarli, poi le diverse sezioni. Rachel arrivò insieme ai componenti della quindici. L’ultimo a giungere fu l’Aaron, portato a braccia da due guardie robuste.

Stavano un po’ stretti ma sufficientemente comodi. Intanto, di lontano, giungeva fino a loro un susseguirsi di tonfi sordi: anche i Titanici stavano salendo a bordo.

L’Aaron impugnò un megafono, se lo portò alla bocca e gridò, con voce rotta dalla stanchezza: «Ascoltatemi, popolo di Aaron. Il nostro progetto è compiuto. Siamo al sicuro entro i cunicoli di un’astronave che sta per partire verso le stelle. Abbiamo a disposizione ingenti quantitativi di viveri e acqua, e possiamo rimanere qui nascosti a lungo, dopo il decollo.» Fece una pausa per riprendere fiato, poi riprese: «Questa, voi lo sapete, è un’astronave da carico, che farà molte fermate, su altri mondi. A ciascuna fermata, una o più sezioni lasceranno la nave e resteranno nascoste al sicuro sul pianeta finché il numero dei loro componenti non sarà considerevolmente aumentato. Dove possono vivere i Titanici, possono vivere anche gli uomini. Quello che mangiano i Titanici, possono mangiarlo anche gli uomini… l’abbiamo imparato sulla Terra, e ci sarà utile saperlo sugli altri mondi.»

Il pavimento cominciò a vibrare, segno che i motori erano stati accesi. La nave ebbe un lungo fremito e si staccò dal tetto.

L’Aaron sollevò le braccia, e tutti caddero in ginocchio.

«L’Universo!» esclamò l’Aaron, estatico. «Mio popolo, d’ora in avanti l’Universo sarà nostro!»

Quando l’accelerazione della nave cessò e tutti poterono ricominciare a muoversi liberamente, Eric e gli altri capo-sezione radunarono i rispettivi gruppi e li guidarono in altrettanti cunicoli, dove sarebbero stati più comodi. Gli uomini prepararono la sistemazione per le famiglie, le donne prepararono il pasto, e i bambini si misero subito a giocare e a correre avanti e indietro.

Era meraviglioso come i bambini si fossero subito adattati all’accelerazione e a quei nuovi cunicoli.

Guardandoli giocare, tutti provarono la sensazione di trovarsi a casa.


FINE
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