INTERLUDIO

In parte, una nascita; in parte, un risveglio.

Prima vi fu una consapevolezza di vita, di percezione, molto vicino: e con la consapevolezza venne la fame. La fame crebbe, e lanciò il suo grido silenzioso (un comando, un appello, uno stimolo, un invito) alla mente la cui presenza l’aveva posto in essere. La consapevolezza si ravvivò. Ci fu la reazione: curiosità, piacere, un avvicinarsi. E poi il contatto. Carne. Cellule viventi. Terminazioni nervose… Il momento della consumazione, rapido, crudo, intenso, mentre l’essenza del Possessore entrava nel Posseduto, e lo trovava adatto.

Poi, per qualche tempo, la quiescenza. Per il Possessore, placata la fame immediata, vi fu calma, valutazione, la lenta crescita della memoria. E la scoperta di quel corpo, delle sue parti e delle sue funzioni, di tutto ciò che sarebbe stato necessario per controllarlo. Per il Posseduto, vi fu una specie di morte. Il cuore cessò di battere, i polmoni non aspirarono più, la carne si raffreddò, il sangue smise di scorrere. Ma non si congelò. E le cellule, i milioni di cellule che erano le unità costitutive di quella struttura superba, vivevano ancora. La casa sembrava vuota, ma non lo era. Adesso aveva due occupanti, il padrone e lo schiavo, che la collisione aveva fatto piombare nell’inattività, e che per il momento non funzionavano. Ma erano vivi, in attesa.

E attendevano, anche, di essere lasciati soli. Quando si apprendeva la natura del corpo, si imparava a servirsene, e questo doveva essere fatto senza ostacoli e senza osservatori. Prima i sensi. L’udito… piccoli suoni lontani che salivano dal silenzio… lo scricchiolio del legno vecchio, il rombo sommesso della caldaia, il tonfo soffice della neve che cadeva sulla neve. Il tatto… il ghiaccio liscio e scheggiato, la granulosità più ruvida dove parte della mano toccava il legno, la morbidezza del lenzuolo sul volto. L’olfatto… un leggero odore di muffa, e un altro, più lieve. Tè? Una delle casse di cui era fatta la bara aveva contenuto del tè. Possessore e Posseduto appresero tutto questo insieme, in una comunione silenziosa di domande e di risposte.

La vista… Un’altra fase necessaria, la scoperta dei piccoli muscoli che avrebbero aperto gli occhi, e poi le direttive. Questo era strano. Ancora domanda e risposta. Una pesantezza prima sconosciuta. Poi, il tatto? Qualcosa che stava lì, liscio… metallo? Gli altri muscoli: braccio, polso, dita. La mano si mosse lentamente, si sollevò, tolse le monete, prima da un occhio, poi dall’altro. Ora le palpebre potevano aprirsi. Le lacrime fluirono dai dotti, gli occhi sbatterono, più e più volte. La vista venne lentamente, una chiazza di luce che, quando le dita scostarono il lenzuolo, si risolse nella forma della lampada appesa al soffitto.

Una pausa. Immobilità, un breve sfinimento. Il Posseduto era ancora traumatizzato, e di tanto in tanto tentava una vana resistenza. Non può esserci resistenza, disse il pensiero tranquillo del Possessore. Ma il Possessore era paziente. Li attendeva un lungo periodo di abbinamento. I piccoli fremiti di paura e di diffidenza si sarebbero placati nel fulgore dell’unione.

I movimenti, la volta successiva, furono più precisi. Le sinapsi erano ormai note e ricordate, i muscoli e i tendini eseguivano gli ordini più facilmente, agivano con maggiore destrezza. Il corpo si sollevò, puntellandosi sui gomiti. Si alzò goffamente, uscì dalla bara, sulla tavola, dalla tavola alla sedia, e rimase, ritto, sulle lastre di pietra del pavimento.


Coloro che avevano conosciuto il bambino avrebbero creduto che non fosse cambiato; e fisicamente non c’erano mutamenti, tranne nel metabolismo. Perché i ricordi del Possessore erano di un mondo più freddo e più pesante di quello. Il cuore e i polmoni funzionavano più lentamente, la temperatura corporea si stabilizzò un po’ al di sopra dei settanta gradi Fahrenheit. Era un dono portato dal Possessore: ora l’essere sarebbe vissuto più a lungo, molto più a lungo, e in migliori condizioni di salute. Il Possessore pensò a questo, con serena benevolenza. Si era già affezionato al suo collaboratore, alla sua dimora, al suo schiavo.

Il Possessore ordinò ai muscoli di agire, e i muscoli agirono. Il dominio era completo. Ma i movimenti sarebbero sempre apparsi torpidi, secondo i criteri umani, a causa del Possessore e della sua ereditarietà. La nuova entità che era stata Andy Deeping attraversò la stanza con una lentezza che non era infantile, protese una mano, girò la maniglia e aprì la porta. Uscì nel corridoio e si fermò per un momento a riflettere.

La sopravvivenza comportava la propagazione e l’assimilazione, ma a partire da quel momento non sarebbe potuta essere rapida, annientatrice, sicura. La possessione, per il futuro, doveva venire realizzata per mezzo di ciò che era già Posseduto, e non poteva venir compiuta rapidamente. Era una disgrazia, pensò il Possessore, che il primo fosse stato un bambino, dotato di forza limitata. Il ricorso alla forza era da escludere: doveva servirsi dell’astuzia. La madre… Ma la madre non era sola e gli altri, inevitabilmente, erano nemici. Fino a quando, con il tempo, non fossero sottomessi a loro volta.


Per il momento era necessario allontanarsi da loro, fuggire. In quella casa c’era pericolo, ma fuori ci sarebbe stata la sicurezza e la possibilità di preparare i piani. Il freddo non costituiva un ostacolo, ma il corpo avrebbe avuto bisogno di combustibile.

Ciò che sapeva il Possessore era quanto aveva saputo il bambino; e il bambino, giocando in cantina durante la tempesta di neve, aveva visto la dispensa. Domanda e risposta: questa cosa era nutriente, buona, quest’altra no. Un mezzo per trasportare… c’era un vecchio cesto dietro la porta. Le piccole braccia si protesero e lo tirarono già, lo riempirono con la roba già scelta.

Poi quello che era stato Andy Deeping si diresse, a passo un po’ rigido, verso la porta della cantina, tolse con difficoltà le sbarre di ferro, alzò il paletto, e uscì nella notte buia e gelida.

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