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Carlsen si svegliò con un senso di spossatezza e di pigrizia. Aveva dormito profondamente, ma al momento del risveglio gli passarono per la mente, veloci come lampi, visioni di incubi spaventosi. La sveglia sul tavolino segnava le nove e trenta. Era venerdì. A quell’ora Jelka doveva aver già portato i bambini al giardino d’infanzia.

Restò disteso per un po’ prima di raccogliere abbastanza energia da premere il pulsante che faceva aprire le finestre a scatto. Qualche minuto dopo sentì aprire e richiudere la porta d’ingresso. Ancora pochi minuti, poi Jelka aprì lentamente la porta della camera da letto, sbirciò dentro, vide che era sveglio ed entrò.

Gli porse il giornale. — C’è un articolo contro il Primo Ministro. E questo è arrivato per espresso. — Prese da un tavolino una busta imbottita e gliela diede. La busta portava l’intestazione dell’Istituto Psicosessuale.

— Ah, sì. Dev’essere il libro di Fallada sui vampiri. Mi aveva promesso di mandarmene una copia. Mi fai un caffè?

— Ti senti bene? — chiese la signora Carlsen. — Sei pallido.

— Mi sento un po’ stanco.

Quando Jelka tornò col caffè e il pane tostato, Carlsen stava già leggendo il dattiloscritto di Fallada. Jelka gli mise un altro libro sul tavolino. — Questo l’ho trovato ieri in biblioteca. Ho pensato che poteva interessarti.

Carlsen lesse il titolo: “Vampirismo psichico”.

— Curioso — disse Carlsen.

— Che cosa?

— Oh, una coincidenza. Questo autore, Ernest von Geijerstam… Fallada ha nominato proprio ieri un certo conte von Geijerstam. — Sfogliò il dattiloscritto di Fallada fino alla bibliografia. — Sì… è proprio lui.

— Hai già letto l’articolo di fondo del “Times”?

— No. Cosa dice?

— Che mandare due vascelli spaziali fra gli asteroidi e farli tornare a mani vuote è un vergognoso spreco di denaro pubblico.

Carlsen era già assorto nella lettura del libro e non rispose. Jelka lo lasciò solo. Quando tornò, mezz’ora dopo, lo trovò che stava ancora leggendo. La caffettiera trasparente era vuota.

— Hai fame? — gli chiese.

— Non ancora. Senti questo: secondo Fallada il conte von Geijerstam era un tipo eccentrico, un po’ svitato. Era uno psicologo, ma nessuno lo prendeva sul serio. Ascolta, c’è un capitolo intitolato “Il paziente che mi insegnò a pensare”. Dice: “Il paziente, che chiameremo Lars V., era un giovane di bell’aspetto, pallidissimo, sui venticinque anni. Negli ultimi sei mesi era stato preso dall’impulso incoercibile di esporre i suoi organi sessuali alle donne, in luoghi pubblici. Poi questa mania aveva fatto posto al desiderio di spogliare i bambini e di morderli a sangue. Non aveva ceduto a questi forti impulsi, ma ha confessato che spesso andava in giro con la lampo dei pantaloni aperta sotto il soprabito. La storia del paziente è questa: i suoi genitori erano entrambi artisti di talento, e Lars aveva mostrato inclinazione per la scultura fin da bambino. Entrato all’accademia d’arte a sedici anni, si era subito distinto fra i migliori. I suoi progressi erano stati eccezionali; e a diciannove anni aveva fatto una mostra personale che ebbe molto successo e che lo rese immediatamente celebre. A questa mostra aveva incontrato Nina von G., figlia di un nobile prussiano. Nina era una ragazza pallida, dall’aria fragile, ma dotata di considerevole forza fisica. Aveva enormi occhi scuri e labbra insolitamente rosse. Nina si era congratulata con Lars e gli aveva detto di avere sempre desiderato essere schiava di un grande artista. Dopo un paio di giorni Lars era innamorato perdutamente di lei. Ma erano passati parecchi mesi prima che Nina gli si concedesse, facendogli così credere di essere vergine. Poi aveva insistito perché recitassero una bizzarra pantomima. Lei si sarebbe sdraiata in una finta bara, vestita solo di una camicia da notte bianca, con gli occhi chiusi e le mani congiunte sul petto. Lars sarebbe dovuto entrare nella stanza furtivamente, fingendo di essere un intruso, e trovare il corpo con tutt’intorno le candele accese. Poi avrebbe dovuto recitare a soggetto, esercitando la sua fantasia, accarezzare il finto cadavere, toglierlo dalla bara, portarlo a letto, e morderlo dalla testa ai piedi. Infine avrebbe dovuto violentarla. Durante tutta questa scena Nina sarebbe rimasta completamente immobile senza dare segno di vita. Era risultato poi che la ragazza non era affatto vergine. Comunque, a questo punto, Lars ne era talmente infatuato che questo particolare non aveva avuto alcuna importanza per lui. Lars e Nina avevano continuato a praticare le loro bizzarre fantasie erotiche. Lui era, di volta in volta, uno stupratore che la violentava in un vicolo buio, o un sadico che l’inseguiva nei boschi, che la legava a un albero e la frustava prima di possederla. Sempre alla fine di queste esperienze, Lars si era sentito spossato. Una volta i due amanti, dopo aver fatto l’amore si erano addormentati nudi all’aperto, avevano dormito per varie ore, ed erano stati svegliati dalla neve che aveva cominciato a cadere.

“Lars aveva spesso pregato Nina di sposarlo, ma lei aveva sempre rifiutato, spiegandogli che apparteneva già a un altro. Si riferiva a quest’altro chiamandolo il Conte, e diceva che questo Conte le faceva visita una volta alla settimana per bere un bicchierino del suo sangue. Lars aveva avuto così la spiegazione di certi piccoli tagli che aveva visto sulla parte interna dell’avambraccio di Nina. La ragazza gli aveva anche spiegato che durante quei mesi aveva preso energia da lui per essere in grado di soddisfare le richieste del Conte. L’unico modo in cui lei e Lars avrebbero potuto unirsi, gli aveva detto, sarebbe stato quello di giurare completa fedeltà al Conte, e di riconoscersi suoi schiavi. In un impeto di gelosia Lars aveva minacciato di ucciderla. Dopo di che aveva tentato il suicidio ingerendo una forte dose di un potente medicinale. La sua famiglia l’aveva trovato svenuto e l’aveva portato all’ospedale. Era rimasto là per due settimane. Uscitone, si era precipitato dalla ragazza con l’intenzione di dirle che era d’accordo e che avrebbe accettato le sue condizioni. Ma Nina era sparita e nessuno aveva saputo dargli il suo nuovo indirizzo.

“D’allora aveva avuto continui esaurimenti nervosi. Le sue fantasie erotiche avevano preso la forma di sogni durante i quali veniva maltrattato da Nina e dal suo amante, il misterioso Conte. Dopo quelle orge di autoerotismo Lars rimaneva esausto per giorni interi. I suoi genitori erano estremamente preoccupati sia per la sua salute fisica sia per la sua salute mentale. Il suo professore d’accademia l’aveva pregato di tornare a dedicarsi alla scultura. Finalmente Lars decise di venire da me. All’inizio pensai che si trattasse di un caso di neurosi freudiana, causata probabilmente da un senso di colpa per una fissazione materna. Il paziente ammise anche di nutrire desideri incestuosi verso le sorelle. Ma un episodio descrittomi dal giovane mi diede il dubbio che stessi sbagliando diagnosi. Lars mi raccontò che un giorno durante il primo periodo della sua storia d’amore, stava lavorando a una statua nel suo studio, e si sentiva particolarmente pieno di energia. La ragazza era andata a trovarlo, ma lui, assorto nella sua creazione, le aveva chiesto di lasciarlo lavorare. Nina non aveva voluto andarsene, anzi si era spogliata e si era distesa ai suoi piedi riuscendo a eccitarlo. Lui non aveva resistito e l’aveva presa, lì sul pavimento. Poi si erano addormentati abbracciati. Quando si era svegliato, la ragazza giaceva sopra di lui e, secondo le parole di Lars, gli stava succhiando la linfa vitale. Lars disse che aveva provato la netta impressione che lei gli stesse suggendo il sangue. Quando alla fine la ragazza si era alzata, Lars era troppo debole per fare qualsiasi movimento. Lei, al contrario, sembrava godere di una vitalità quasi animalesca, demoniaca. Questo racconto di Lars mi fece pensare a quello che mia madre soleva dire della zia Kristin. Diceva che poteva svuotare i presenti della loro energia vitale semplicemente standosene in poltrona occupata nel suo lavoro a maglia. Quando ero bambino mi era sempre sembrato un modo di dire, ma ora mi chiesi se in quelle parole non ci fosse un fondo di verità. Secondo Lars, il suo vampiro lo visitava spesso nei sogni, e gli suggeva la linfa vitale. Gli chiesi allora di restare mio ospite per qualche giorno e cominciai a fare una serie di esperimenti. Ogni sera, prima che andasse a dormire, gli misuravo il campo vitale e gli fotografavo i polpastrelli col sistema Kirlian. Per le prime volte non mostrò alcun segno di esaurimento, e le misurazioni del mattino segnavano un livello leggermente più alto di quelle serali, com’è normale dopo un buon sonno, e le foto indicavano ottimo stato di salute. Poi una notte sognò il suo vampiro, e il mattino seguente il campo di energia vitale risultò notevolmente più basso, e le fotografie sembravano fatte a un uomo malato di consunzione o di una di quelle malattie che minano l’organismo alla base…” — Carlsen alzò lo sguardo sulla moglie. — Che te ne pare? — disse.

Jelka chiese: — Poi cos’è successo?

— Non so. Ho letto solo fin qui. Ma da quello che ho capito, tende a dimostrare che ogni individuo è, in diversa misura, un vampiro d’energia.

Jelka si era seduta vicino alla finestra. — A me sembra un caso evidente di perversione sessuale. Tutta quella storia della bara eccetera… — disse.

Carlsen scosse la testa. Tutto a un tratto aveva l’impressione di aver capito, anzi, di aver sempre saputo. Lentamente disse: — No. È questo che rende il caso interessante. Lei ha cominciato a insinuarsi in lui penetrando la sua sfera affettiva. — Jelka lo guardò sorpresa, talmente era insolito quel linguaggio sulle labbra del marito. — Non capisci? — continuò Carlsen. — Comincia con l’adularlo, dicendogli che è un genio e che lei vuole appartenere a un uomo di genio, in altre parole gli si offre senza condizioni. Poi, scoperte le sue fantasie erotiche, i suoi sogni di violenza carnale, sostituisce se stessa ai sogni, rendendolo completamente dipendente da lei. Da quel momento comincia a sottrargli energia. E poi si arriva alla stretta finale, Quando è certa di averlo reso suo schiavo, Nina gli dice che lui deve sottomettersi totalmente. In altre parole, capovolge la situazione.

Jelka disse: — Conosco anch’io un paio di donne così. — Si alzò. — Be’, continua a leggere. Sono impaziente di sapere com’è andata a finire.

Un quarto d’ora più tardi tornò con il carrello della colazione. — Adesso hai l’aria di stare meglio — disse.

— Infatti mi sento molto meglio. Devo aver dormito troppo profondamente. Che profumo di buone cose!

Jelka raccolse il libro che Carlsen aveva lasciato cadere sul pavimento. — Allora, è riuscito a curarlo? — chiese.

Carlsen rispose, con la bocca piena: — Sì, ma lo racconta in modo poco soddisfacente. Non spiega quale metodo ha seguito. Dice soltanto che il paziente ha cambiato il suo orizzonte sessuale.

Jelka si sedette e si mise a leggere. — Sì, è poco chiaro. Non potresti scrivere all’autore? — Guardò la pagina del frontespizio. — Oh, no, dev’essere già morto. Questo è stato stampato nel duemilaventitré, quasi cinquant’anni fa.

Dallo schermo venne un richiamo. Jelka bloccò il video e si servì solo del ricevitore audio. Dopo un attimo disse: — È Hans Fallada.

— Passamelo.

Sullo schermo comparve la faccia di Fallada. — Buon giorno — disse lo scienziato. — Ricevuto il mio dattiloscritto?

— Sì, grazie. Ho appena cominciato a leggerlo. Ci sono novità?

— Nessuna. Ho parlato adesso con Heseltine. Tutto è tranquillo. Ma oggi pomeriggio alla Camera ci sarà un’interrogazione sull’ordine di far rientrare la “Vega” e la “Jupiter”. Vi ho chiamato per avvertirvi. Se vi piombano addosso i giornalisti, dite che non sapete niente. O limitatevi a un commento vago sull’opportunità di non fare le cose in modo affrettato.

— D’accordo. A proposito, voi l’avete letto tutto il libro di von Geijerstam, “Vampirismo psichico”?

— Sì, tanti anni fa. Perché?

— Sto leggendolo adesso. Sembra che condivida molto delle vostre teorie. Eppure voi non ne date un giudizio positivo.

— Sì, quel testo è un lavoro serio. Ma le sue opere successive sono pura pazzia. L’autore ha finito col sostenere che gran parte delle malattie mentali sono causate dai fantasmi e dai demoni.

— Il primo caso di cui parla, ricordate la storia dello scultore, è affascinante. Sarebbe interessante scoprire com’è riuscito a guarirlo. Averlo guarito significa aver scoperto un sistema di difesa contro il vampirismo.

Fallada annuì, pensoso. — È vero, sarebbe interessante. Von Geijerstam ormai deve essere morto. Però aveva molti studenti e seguaci. Forse l’ambasciata svedese può esserci utile.

Jelka, che stava per uscire, disse: — Perché non ti rivolgi a Fred Armfeldt?

Carlsen disse a Fallada: — Aspettate un momento.

Jelka ripeté: — Fred Armfeldt, quello che si è ubriacato alla festa per il tuo ritorno. È addetto culturale all’ambasciata svedese.

Carlsen fece schioccare le dita. — Certo! Lui potrebbe aiutarci — disse a Fallada. — Un tale dell’ambasciata svedese, che io conosco. Lo chiamo subito.

— Bene — disse Fallada. — Chiamatemi appena scoprite qualcosa. Adesso vi lascio finire la colazione. — Evidentemente aveva notato il vassoio sul letto.

Carlsen fece una bella doccia, si rasò e si vestì, poi chiamò l’ambasciata svedese.

Disse chi era, e chiese di parlare con il signor Fredrick Armfeldt. Un momento dopo era in comunicazione con un giovane perfettamente rasato e con le guance rosa. Era Armfeldt, addirittura entusiasta di ricevere una telefonata del celebre Carlsen. — Oh, Comandante, che piacere! — disse subito. — Posso esservi utile?

Carlsen gli chiese informazioni sul conte von Geijerstam. Armfeldt scosse la testa. Non ne aveva mai sentito parlare. — Avete detto che è un medico? — chiese.

— Psichiatra. È autore di un libro dal titolo “Vampirismo psichico”.

— Oh, in tal caso sarà facile trovarlo nell’elenco degli autori svedesi. Ne ho una copia in biblioteca… Aspettate un momento… — Riapparve subito con un grosso volume. Lo sfogliò mormorando: — Fröding, Garborg… ah, ecco, Geijerstam, (von) Gustav… È lui?

— No, Ernst von.

— Sì, c’è. Ernst von Geijerstam. Psicologo e filosofo. Nato a Norrkòping il due giugno millenovecentottantasette. Studiò all’Università di Lund e all’Università di Vienna… Che altro vi interessa?

— Quando è morto? — chiese Carlsen.

Armfeldt guardò il frontespizio del libro per vederne la data. — Non è morto. Questo è stato stampato l’anno scorso. Vediamo… dovrebbe avere però la bellezza di… novantatré anni.

Cercando di dominare l’entusiasmo, Carlsen domandò: — Non c’è un indirizzo recente?

— Sì… Heimskringla, Storavan, Norrland. È una zona di montagne e laghi.

Carlsen scrisse l’indirizzo sul margine del “Times”.

— C’è il numero di telefono?

— No, ma se vi serve potrei forse trovarlo.

— No, non occorre. Avete già fatto fin troppo.

Si scambiarono qualche convenevole, si misero d’accordo per incontrarsi una sera, e si salutarono. Carlsen chiamò subito Fallada. — Ho appena scoperto che von Geijerstam è ancora vivo — disse.

— Davvero? E dove abita?

— A Storavan. Cosa ne dite di mandargli un telegramma? Può darsi che il mio nome non gli torni nuovo, dopo tutta la pubblicità che mi hanno fatto…

Fallada scosse la testa. Disse lentamente: — No, sarà meglio che sia io a mettermi in contatto. Avrei già dovuto farlo molti anni fa. Da parte mia è stata tutta pigrizia colpevole, e una grossa stupidità. Lo sapevo bene che era stato il primo a riconoscere il fenomeno del vampirismo mentale! Mi date l’indirizzo completo per favore?

Carlsen passò il resto della mattinata seduto nel solario a leggere. Voleva leggere per primo il dattiloscritto di Fallada, ma si lasciò invece tentare da “Vampirismo psichico”. Era arrivato quasi a metà quando Jelka rientrò con le due bambine.

Il teleschermo suonava in continuazione: giornalisti che volevano un commento sul richiamo delle navi spaziali. Carlsen rispose a due o tre poi pregò Jelka di dire che lui non c’era.

Alle due, dopo una colazione a base di insalata mista, Carlsen stava giocando coi bambini nella piscina, quando Jelka venne a dirgli che il dottor Fallada era al teleschermo.

Carlsen rientrò e andò a parlare con lo scienziato.

Fallada gli chiese: — Che programma avete per oggi pomeriggio?

— Nessuno, tranne leggere il vostro libro.

— Verreste con me in Svezia?

Carlsen sorrise, con entusiasmo. — Certamente.

— Von Geijerstam ha acconsentito a riceverci. Se prendiamo il volo delle tre e quarantadue saremo a Karlsborg alle sei e trenta.

— Dov’è Karlsborg?

— È una cittadina sull’estremità nord del Golfo di Bothnia. Von Geijerstam ci manderà un aerotassì.

— Cosa devo portare con me?

— Solo il necessario per un paio di giorni. E il libro di von Geijerstam. Vorrei rileggerlo durante il viaggio.

L’elitassì di Carlsen arrivò all’aeroporto all’ultimo momento. Carlsen e Fallada ebbero appena il tempo di scambiare due parole prima di allacciare le cinture di sicurezza a bordo del jet di una linea aerea russa, diretto a Mosca via Stoccolma e S. Pietroburgo.

Nonostante tutto, Carlsen non aveva mai perso completamente il gusto infantile per i viaggi in aereo. Ora, mentre vedeva svanire i prati verdi dell’Inghilterra meridionale, sostituiti dalla distesa argentea del mare, provò un’eccitazione nuova, come se stesse cominciando un’avventura appassionante.

Fallada chiese: — Siete mai stato nel nord della Svezia?

— Non più su di Stoccolma. E voi?

— Ci sono stato per preparare la mia tesi sul fenomeno dei suicidi in quel paese. Ho passato molte settimane nel nord. La gente è cupa e riservata ma il paesaggio è stupendo.

Una hostess arrivò con i cocktail, e tutti e due accettarono un martini. Era un po’ presto per bere, ma Carlsen si sentiva come in vacanza. Chiese a Fallada: — Avete parlato personalmente con von Geijerstam?

— Sì. Una conversazione di un quarto d’ora. È un simpaticissimo vecchio. Quando gli ho parlato dei miei esperimenti si è appassionato come un ragazzo.

— Che cosa gli avete detto degli alieni?

— Niente. Non mi è sembrato prudente parlarne per teleschermo. Gli ho detto semplicemente che sto affrontando il più bizzarro e complesso caso che mi sia mai capitato. Mi ha subito invitato ad andare da lui per raccontargli tutti i particolari. Dev’essere alquanto ricco. Si è offerto di pagarmi le spese di viaggio! Naturalmente gli ho detto che saranno a carico dell’Istituto. A proposito, l’Istituto rimborserà anche le vostre spese. Siete qui infatti in forma ufficiale, come mio assistente.

Carlsen rise. — Cercherò di non deludere la vostra fiducia.

Cambiarono aereo a Stoccolma, passando su un apparecchio più piccolo, delle linee svedesi. Fallada tornò a immergersi nella lettura di “Vampirismo psichico”. Carlsen guardava scorrere in basso la campagna di pini, e infine la tundra chiazzata di neve. Il sole d’aprile era sbiadito, come se i suoi raggi filtrassero attraverso uno strato di ghiaccio.

Il servizio di bordo offrì pesce con biscotti salati, e vodka. Fallada mangiò distrattamente, senza staccare gli occhi dal libro. Leggeva in fretta ma con grande concentrazione. Nelle due ore e mezzo da quando avevano lasciato Londra, aveva letto quasi tre quarti del libro di von Geijerstam.

L’aereo si abbassò tra una fitta distesa di nuvole e planò su isole parzialmente coperte di neve. L’aeroporto di Karlsborg sembrava assurdamente piccolo. C’era solo una torre di controllo, e un piccolo campo d’atterraggio circondato da capanne di tronchi. Sbarcando dall’aereo, Carlsen venne colto di sorpresa dal freddo secco dall’aria.

Il pilota dell’aerotassì andò loro incontro. Non sembrava affatto uno scandinavo. I capelli neri e la faccia tonda ricordavano un esquimese. L’uomo prese i bagagli, e li guidò verso un elicottero a sei posti in attesa su un campo che fiancheggiava l’aeroporto. Pochi minuti dopo sorvolavano a bassa quota prima una campagna coperta di neve e poi una distesa d’acqua.

Carlsen scoprì che il pilota parlava un po’ di norvegese. Era un lappone. Quando Carlsen gli chiese quanto fosse grande Storavan, il pilota lo guardò sorpreso e poi disse: — Circa dieci chilometri.

— Allora è una città molto grande.

— Non è una città, è un lago.

Non disse altro. Il paesaggio cambiò un’altra volta: ora stavano sorvolando montagne coperte di foreste. Di tanto in tanto si vedeva di sfuggita una renna. Fallada continuava la sua lettura.

Finalmente richiuse il libro. — Interessante, ma assolutamente pazzesco.

— Volete dire privo di logica?

— No, non questo. Ma von Geijerstam è convinto che i vampiri siano spiriti maligni.

Carlsen sorrise. — E non è così?

— Avete visto la murena attaccare il polipo. Era uno spirito maligno?

— Ma se questi alieni possono vivere fuori del corpo, non si potrebbe definirli spiriti?

— Non nel senso di von Geijerstam. Lui parla di fantasmi e di demoni.

Carlsen guardò le foreste che scorrevano a una trentina di metri sotto di loro. In un paese come quello non era difficile credere ai fantasmi e ai demoni. Si vedevano piccoli laghi scuri, in cui si rifletteva il cielo trasformandoli in lastre di vetro azzurro. Una cascata, precipitando da una scarpata granitica, sollevava nell’aria una nuvola di vapore bianco. Carlsen udiva il rombo della cascata sopra il rumore dell’aereo. A occidente il cielo stava passando dall’oro al rosso. Era un paesaggio irreale, da favola.

Un quarto d’ora più tardi il pilota indicò davanti a sé.

— Heimskringla — disse.

Videro un lago che si snodava fra le montagne a perdita d’occhio. Più a sud c’era un altro lago le cui acque luccicavano fra gli alberi. Sulla destra si vedeva una cittadina. Carlsen pensò che fosse Heimskringla, ma si rese conto subito che stavano sorpassandola.

Chiese al pilota: — “Var ä Heimskringla?”

Il pilota indicò nuovamente. — “Där” — rispose.

E allora Carlsen vide un’isola in mezzo al lago. Fra i pini si intravedeva un tetto. A mano a mano che si abbassavano si riusciva a distinguere la facciata della casa, grigia, con torrette che la rendevano simile a un castello. Il retro dava sul lago. Davanti c’era un giardino, con sentieri tortuosi che si perdevano fra gli alberi. In una radura sul margine del lago sorgeva una cappella fatta di tronchi.

L’elicottero si posò leggermente sulla ghiaia davanti alla casa. Mentre le eliche rallentavano e poi si fermavano, un uomo uscì dalla casa e andò verso l’aerotassì. Lo seguivano tre ragazze.

— Un simpatico comitato di ricevimento — disse Fallada.

L’uomo che veniva loro incontro era alto e snello, e camminava con passo elastico e sicuro. Fallada disse: — Non può certo essere il conte. È troppo giovane.

Smontati dall’elicottero vennero investiti da un vento freddo che sapeva di neve. L’uomo tese la mano. — Molto onorato di avervi miei ospiti. Sono Ernst von Geijerstam. Siete stati di una cortesia squisita ad affrontare questo viaggio per venire a trovare un povero vecchio.

Carlsen si chiese se stesse scherzando. Anche se i baffi erano grigi e la bella faccia era segnata da rughe, l’uomo non dimostrava più di sessant’anni.

L’effetto giovanile era aumentato da una tenuta perfetta: giacca nera, pantaloni a righe sottili, cravatta bianca a farfalla. Il conte von Geijerstam parlava un inglese perfetto, senza traccia di accento.

Carlsen e Fallada si presentarono. Von Geijerstam si girò a indicare le tre ragazze. — E queste sono tre delle mie allieve: Selma Bengtsson, Anneleise Freytag, Louise Curel.

La signorina Bengtsson, una bionda alta, trattenne la mano di Carlsen un attimo più del necessario. Abituato a riconoscere un certo scintillio nello sguardo degli estranei, Carlsen intuì quello che la bionda avrebbe detto. Selma, infatti, disse: — Vi ho visto in televisione. Voi siete il Comandante della…

— Della “Hermes”, sì — completò Carlsen.

Von Geijerstam disse: — E siete qui in veste di assistente del dottor Fallada. — Lo disse come un dato di fatto, senza ironia.

— È quello che risulterà, quando chiederò il rimborso delle spese — disse Fallada.

— Capisco. — Il conte rivolse poi qualche parola in lettone al pilota. L’uomo salutò e risalì sull’elicottero.

— Gli ho detto di tornare domani pomeriggio, a meno che, naturalmente, decidiate di restare più a lungo… Adesso volete vedere il lago, prima di entrare in casa?

Un servitore in livrea stava già portando dentro i bagagli.

Carlsen disse: — Questo posto è stupendo.

— Stupendo, sì, ma troppo freddo per un vecchio col sangue indebolito dall’età. Andiamo da questa parte? — Li precedette lungo un sentiero coperto di muschio, verso la riva del lago. Il motore dell’elitassì fece aderire le gonne alle gambe delle ragazze. Il sole al tramonto tingeva il lago di rosso.

Mentre Fallada camminava di fianco al conte, Carlsen disse a Selma Bengtsson: — Il conte è molto più giovane di quanto mi aspettavo.

La ragazza disse: — È naturale. Noi lo manteniamo giovane.

Lui la guardò, sorpreso, e tutte e tre le ragazze si misero a ridere. Si fermarono sulla riva ghiaiosa del lago, a guardare le foreste di pini e abeti che incoronavano la sponda opposta. Il sole metteva bagliori rossastri sulle cime degli alberi. Sembravano bagliori d’incendio. Più in alto, il cielo era azzurro cupo.

Von Geijerstam indicò la cappella. — Quella è molto più antica della casa — disse. — Al tempo di Gustavus Vasa c’era un monastero, su quest’isola. La casa è stata costruita sulle fondamenta di quel monastero, fra il millecinquecentonovanta e il novantacinque.

Fallada chiese: — Perché avete scelto di venire ad abitare così a nord?

— A Norrköping si dice che nel Norrland querce, nobili e gamberi non attecchiscono. — Rise. — E da quand’ero bambino che desideravo venire a vivere qui. Questa casa l’ho trovata circa quarant’anni fa, quando sono venuto qui a fare ricerche sul conte Magnus. La sua tomba è dietro la cappella.

— È quel conte Magnus che pare sia stato l’amante della regina Cristina? — domandò Carlsen.

— No, quello era lo zio. Quello di cui parlo ereditò il suo titolo, per quanto fosse solo un nipote.

Camminavano lungo la riva del lago, e la ghiaia scricchiolava sotto i loro passi.

— Quando sono stato qui, ho scoperto che la casa era disabitata da cinquant’anni. Mi hanno detto che era troppo grande e quindi troppo costoso mantenerla, ma la vera ragione era che la gente di Avaviken aveva ancora un sacro terrore del conte. Qui si diceva che fosse un vampiro.

— Era morto da poco?

— No. È morto nella battaglia di Poltava, nel millesettecentonove. Il suo cadavere era stato portato qui, e la sua bara è ancora nel piccolo mausoleo là dietro.

— E il cadavere?

— Nel millesettecentonovanta, il proprietario di questa casa gli conficcò un punteruolo di legno nel cuore, e fece bruciare il corpo su un rogo. Pare che fosse ancora in un ottimo stato di conservazione… — Erano arrivati intanto a un centinaio di metri dalla cappella. — Volete dare un’occhiata al mausoleo?

La ragazza francese, Louise, disse: — Io ho freddo!

— Allora rimandiamo la visita a domattina.

Attraversarono il giardino passando accanto a un laghetto ornamentale. Sulla superficie brillava un sottile strato di ghiaccio. — Qui i frati allevavano le trote — disse il conte.

Carlsen chiese: — Ma voi credete davvero che il conte Magnus fosse un vampiro… nel senso che date voi a questo termine?

Il conte sorrise. — Perché, c’è forse un altro senso? — Fece strada agli ospiti su una scalinata di logori gradini di pietra, ed entrarono nel vasto atrio. — Ma per rispondere alla vostra domanda, sì. E ora credo che vorrete riposare un momento nelle vostre camere. O preferite bere prima qualcosa?

Fallada disse subito: — Prima, bere.

— Bene. Allora andiamo in biblioteca.

Dalla finestra della biblioteca si vedeva il disco rosso del sole sospeso sulla cima delle montagne. Nel camino era acceso il fuoco, e le fiamme si riflettevano sulle molle e l’attizzatoio di rame, e sul dorso degli antichi volumi rilegati in pelle. La ragazza tedesca, Anneleise, fece scorrere il carrello sul grande tappeto. Con le sue guance rosate e le dita grassocce faceva pensare alla cameriera di una birreria. Versò nei bicchieri grappa svedese. Nessuno aveva chiesto se avessero preferenze.

Von Geijerstam disse: — Brindiamo al vostro arrivo, signori. È un onore avere ospiti tanto famosi.

Anche le ragazze bevvero. Carlsen disse: — Se la domanda non è indiscreta… posso chiedere che cosa studiano queste vostre affascinanti allieve?

Il conte sorrise. — Perché non lo chiedete a loro?

Louise Curel, bruna, snella, occhi castani, disse: — Impariamo a guarire i malati.

Carlsen alzò il bicchiere. — Sono certo che i vostri pazienti saranno felicissimi di avervi per infermiere.

La ragazza scosse la testa. — No, non stiamo studiando da infermiere — disse.

— Dottoresse?

— Ecco, pressappoco.

— Vi sentite stanchi? — chiese il conte. Sorpreso dalla domanda inaspettata, Carlsen rispose: — No, per niente.

— Nemmeno un po’ affaticato dal viaggio?

— Forse un po’ affaticato…

Von Geijerstam sorrise alle ragazze. — Volete dare una dimostrazione?

Le ragazze lo guardarono e fecero segno di sì con la testa.

— Questo sarà il modo più rapido di rispondere alla vostra domanda e darvi un’idea generale del mio lavoro. Vi dispiace alzarvi, capitano Carlsen?

Carlsen si alzò. Selma Bengtsson gli aprì la cerniera della giacca. Von Geijerstam disse: — Adesso chiudete gli occhi per un momento e analizzate bene le vostre sensazioni, particolarmente la stanchezza.

Carlsen chiuse gli occhi. Attraverso le palpebre chiuse intravide il guizzo delle fiamme nel camino. Avvertì la fatica muscolare mista a una sensazione di rilassamento.

— Adesso le ragazze poseranno le mani su di voi e vi forniranno energia. Rilassatevi e disponetevi a riceverla. Non sentirete niente.

Louise Curel disse: — Volete togliervi la cravatta e aprire la camicia?

Quando la giacca fu tolta, la camicia gli venne abbassata sulla schiena in modo da lasciargli le spalle nude. La ragazza svedese, Selma Bengtsson, gli disse: — Continuate a tenere gli occhi chiusi.

Carlsen rimase là in piedi, ondeggiando leggermente, e sentì le dita delle ragazze sfiorargli la pelle. Poteva anche sentire l’alito di Louise su una guancia. Era una sensazione eccitante.

Rimasero così per circa cinque minuti, in silenzio. Lui provava un senso di ebbrezza gioiosa, come se volesse mettersi a ridere.

Il conte disse: — Sarebbe più rapido se le ragazze usassero le labbra. Sia detto per inciso, questo è uno dei motivi per cui i baci danno piacere. È uno scambio di energia maschile e femminile… Come vi sentite?

— Magnificamente.

— Bene. Credo che così basti.

Le ragazze lo aiutarono a riabbottonarsi la camicia e rimettere la cravatta.

Fallada gli chiese. — E allora? Come va?

Carlsen esitò e von Geijerstam disse: — Non potrà saperlo con esattezza per almeno cinque minuti. — Poi chiese alla signorina Bengtsson: — Com’è andata?

— Doveva essere più stanco di quanto credeva.

— Perché dite così? — domandò Carlsen.

— Avete preso più energia di quanto mi aspettavo. — Selma Bengtsson guardò le altre, e le ragazze annuirono.

Carlsen chiese: — Allora adesso vi sentite stanche voi?

— Un po’. Ma noi eravamo in tre, quindi ognuna di noi ha dato poco. E abbiamo preso energia, a nostra volta, da voi.

— Avete preso…

— Sì, abbiamo preso un po’ della vostra energia maschile e vi abbiamo dato in cambio energia femminile. — Selma si rivolse al conte. — Voi potete spiegare meglio.

Von Geijerstam stava riempiendo di nuovo i bicchieri.

Disse: — Lo si potrebbe definire vampirismo benevolo. Quando uno è stanco, non ne consegue necessariamente che sia privo di energia. Potrebbe avere enormi riserve vitali, ma ci vuole uno stimolo per farle affiorare. Quando le ragazze vi danno energia femminile, questa risveglia le vostre riserve vitali, esattamente come farebbe uno stimolo sessuale. Per un momento ci si sente stanchi tale quale a prima… forse anche un po’ di più. Ma poi le energie vitali cominciano a fluire, e ci si sente molto meglio.

— Una specie di istantanea fertilizzazione incrociata? — disse Fallada.

— Precisamente — disse il conte. E rivolgendosi a Carlsen gli chiese: — Come vi sentite, adesso?

— Meravigliosamente, grazie. — Era verissimo, ma Carlsen si chiese quanta parte della piacevole sensazione che provava fosse dovuta alla grappa e al meraviglioso tramonto sul lago.

— Chiudete gli occhi per un momento. Notate tracce di stanchezza?

— Nemmeno l’ombra.

Von Geijerstam disse a Fallada: — Se misurassimo adesso il suo campo lambda, noteremmo un aumento sensibile.

Fallada disse: — Mi piacerebbe fare tutta una serie di esami.

— Niente di più facile. Del resto ne ho già fatti molti in precedenza. Vi mostrerò i risultati.

— Non li avete mai pubblicati?

— No. Una decina di anni fa ho scritto un articolo per un mensile di psicologia. Ma il professor Schacht di Göttingen mi ha attaccato con una violenza tale che ho deciso di aspettare a pubblicare l’esito delle mie ricerche finché la gente non fosse pronta.

— Come siete arrivato alla vostra scoperta? — domandò Carlsen.

— Ho cominciato a pensarci quando ero ancora studente, forse settant’anni fa. Uno dei miei professori, Heinz Gudermann, era sposato con una ragazza di bellezza eccezionale. Gudermann godeva di una vitalità incredibile e scherzosamente soleva dire che la doveva a sua moglie. Più tardi lessi un articolo in cui si sosteneva che gli uomini mantengono virilità e vitalità quasi intatte fino alla vecchiaia inoltrata se sono sposati con donne giovani. Ricordo che portava per esempio fra gli altri il violoncellista Casals, il chitarrista Segovia e il filosofo Bertrand Russell. L’articolista sosteneva però che si trattava di un fatto puramente psicologico. Io tendevo a dubitarne, fin da allora. Quindici anni dopo, quando scoprii il principio del vampirismo, cominciai a sospettare che il fenomeno fosse dovuto a un trasferimento di energia sessuale. Riuscii a convincere una giovane coppia a farsi misurare il campo lambda prima di andare a letto la prima notte di nozze e poi la mattina seguente. Le misurazioni dimostrarono che il campo dell’energia vitale si era esteso. Successivamente convinsi un’altra coppia a farsi fare le misurazione prima e dopo l’accoppiamento. Notai subito che la curva ascendente era simile a quella che si riscontra quando un affamato si sazia. Anzi, le punte erano molto più alte. Questo pareva confermare la mia ipotesi: entrambi gli amanti si erano nutriti di un cibo particolare, l’energia vitale. Inoltre, entrambi si erano rinnovati. Come poteva essere, a meno che non esistessero due tipi di energia, una femminile e una maschile? Accoppiarsi, pensavo, è un atto quasi di simbiosi, come quello di un’ape che sugge nettare da un fiore o che prende polline a un fiore per fertilizzarne un altro. A quell’epoca, però, ero più interessato agli aspetti negativi del vampirismo, cioè a personaggi come Gilles de Rais e come il conte Magnus. A settant’anni, mi ammalai gravemente, e per infermiera mi mandarono una bella campagnola. In quell’occasione notai che ogni volta che la ragazza mi posava le mani sulle braccia o sulle spalle, mi sentivo molto meglio. Notai inoltre che mentre io mi sentivo meglio, lei sembrava esausta. Allora pensai che se più ragazze mi avessero toccato contemporaneamente, io ne avrei tratto lo stesso beneficio e loro non si sarebbero stancate. Provai, e vidi che funzionava. E così, ancora oggi, prendo ogni giorno un po’ di energia dalle mie tre assistenti che in cambio ne assorbono un poco da me. Questo mi mantiene giovane.

Fallada scosse la testa con aria incredula. — Veramente sbalorditivo — disse. — Questo sistema potrebbe venire adottato in campo medico?

— È già stato usato. Ce n’è un esempio qui, in questa casa. Gustav, l’uomo che ha portato dentro le vostre valigie. Gustav è di Lycksele, una cittadina poco lontana da qui. Era un ottimo falegname ma una serie di sventure l’aveva buttato in uno stato di depressione tale da condurlo al suicidio. Dopo il terzo tentativo di suicidio venne internato in un ospedale per malattie mentali dove diventò completamente schizofrenico. La schizofrenia, come sapete, è una specie di circolo vizioso. Il malato vive in uno stato di spossatezza per cui tutto gli sembra inutile e senza importanza. E siccome tutto sembra inutile, lo schizofrenico si deprime sempre più e perde sempre più energie. A quell’epoca, c’erano qui sette studentesse che dovevano rimanere per tutta l’estate. Feci venire Gustav qui con noi, anche per staccarlo dal suo ambiente, e cominciai con lui una cura intensiva, simile a quella appena sperimentata dal Comandante Carlsen. Le prime volte le ragazze si stancarono molto, ma lui migliorò notevolmente. Dopo alcune sedute, Gustav smise, per così dire, di assorbire energia da loro, o ne assorbiva in misura inferiore. Cominciava a produrre di nuovo energia da solo. Dopo una settimana era trasformato. Mi pregò di lasciarlo restare qui, e allora gli assegnai un lavoro. In seguito sposò la figlia del giardiniere. Adesso è perfettamente normale.

Fallada disse, adagio: — Se tutto questo è vero, si tratta della cosa più straordinaria che ho sentito. Ditemi, tutti possono dare energia?

— Sì. Basta un po’ di pratica. È più facile per le donne che per gli uomini, ma credo che tutti possano darne.

— E se il paziente si abitua a queste trasfusioni di energia e ne diviene dipendente, come un drogato? — domandò Carlsen.

Il conte scosse la testa. — Questo capita di rado, e solo quando il paziente ha un temperamento criminale — rispose.

Fallada chiese, interessato: — Temperamento criminale?

— In realtà si tratta di una specie di… come dire?… vizio, ecco. Non trovo un termine più appropriato. Le persone sane amano essere indipendenti. Non vogliono dipendere da altri, appoggiarsi ad altri. Certo, quando siamo stanchi o malati, abbiamo bisogno di aiuto, come ne ho avuto bisogno io. Ma certe persone, e ne esistono tante, forse troppe, soffrono di pietismo in maniera molto più accentuata di altre e non riescono mai a trovare piacere nell’indipendenza. Pietismo per sé e rancore per gli altri. Più aiuto ricevono, più ne vogliono.

— E voi date a questo la definizione di temperamento criminale?

— Sì. Perché i criminali hanno le stesse caratteristiche. A volte uno diventa criminale perché è povero e frustrato, o incapace… Sto pensando a Jarlsberg, lo stupratore di Usala. Ho deposto come testimone al suo processo. Una volta mi disse che quando strangolava e violentava una ragazza, le prendeva qualcosa che lei gli doveva. Dopo alcune esperienze di questo genere, un soggetto così acquisisce il gusto per questo misto di risentimento e di violenza. Potrebbe commettere il primo stupro perché tormentato da frustrazioni di natura sessuale. Ma dopo il decimo stupro, non è più l’atto sessuale che vuole ma solo lo stupro, cioè la sensazione di violare un altro essere umano. O, se preferite, gode di sapere che sta contravvenendo alla legge, gode di sapere che sta facendo del male. Chi svaligia un appartamento, a volte commette atti di vandalismo per questo stesso motivo.

Carlsen chiese: — Credete dunque che un vampiro sia un criminale?

— Senza dubbio. Il vampirismo è l’estrema forma di stupro.

L’orologio a pendolo batté sette colpi. Le ragazze si alzarono. Selma Bengtsson disse: — Scusateci, per favore. Dobbiamo prepararci per la cena.

— Certo, mia cara. Grazie. — Il conte fece un leggero inchino piegandosi appena sulla vita. Usi e costumi di un paio di secoli addietro lì sembravano naturalissimi.

Quando la porta si fu richiusa alle spalle delle ragazze, von Geijerstam disse: — Prego, rimettetevi comodi. — Restò in piedi finché Fallada e Carlsen non si furono riseduti. — Adesso avremo una mezz’ora, noi tre soli, prima di cena — riprese. — Dunque se non sbaglio voi ritenete che i passeggeri della “Stranger” siano vampiri, vero?

Lo guardarono sbalorditi. — Come fate a saperlo? — chiese Fallada.

— Semplice deduzione. Per quale altra ragione sareste venuto a trovarmi protandovi come assistente il famoso Comandante Carlsen? Anche qui abbiamo seguito alla televisione le sue affascinanti avventure, sapete? Inoltre mi avete detto che volevate la mia opinione sui vampiri. Sarebbe strano se non ci fosse un nesso logico fra i due fatti.

Fallada scoppiò a ridere. — Dio! Per un momento mi avevate spaventato!

— Ma questi alieni adesso sono morti, non è così? — disse il conte.

— No. Crediamo… — Fallada prese il suo astuccio di sigari da una tasca. — Olaf, vuoi spiegare tu? — Era la prima volta che si rivolgeva a Carlsen chiamandolo per nome e dandogli del tu. Da quel momento si affermava anche formalmente la natura amichevole dei loro rapporti. Erano amici, dunque, oltre che alleati.

Senza dilungarsi in particolari, Carlsen descrisse la sua visita all’Istituto Ricerche Spaziali, la morte di Seth Adams, e il suo incontro, subito dopo, con la ragazza aliena.

All’inizio von Geijerstam ascoltò in silenzio, calmo, le mani intrecciate in grembo. Poi cominciò ad annuire tutto eccitato. Infine, incapace di dominarsi oltre, prese a camminare su e giù per la stanza. — Sì, sì… È proprio come ho sempre pensato — disse. — Lo sapevo che era possibile!

Carlsen fu contento d’essere interrotto. Stava cominciando a risentire la curiosa riluttanza a parlare di quello che era avvenuto quando si era trovato solo con la ragazza.

Fallada chiese a von Geijerstam: — Vi è mai capitato di imbattervi in questa particolare forma di vampirismo?

— Mai in forma così forte. Eppure era evidente che doveva esistere. L’ho detto nel mio libro. Credo infatti che sia già esistito sulla Terra, nel lontano passato. Le leggende sui vampiri non sono soltanto favole. Ma vi prego, continuate. Cos’ha fatto poi, la ragazza?

— È riuscita a trovare il modo di uscire dall’Istituto malgrado il sistema di vigilanza e i sistemi elettronici d’allarme. E un’ora dopo, gli altri due extraterrestri sono stati ritenuti morti.

— Ma la ragazza?

— È stata trovata morta, dieci ore dopo… violentata e strangolata.

Von Geijerstam chiese, incredulo: — Morta?

— Sì.

— Impossibile!

Fallada guardò Carlsen, poi chiese: — Perché?

Von Geijerstam agitò le mani, cercando la spiegazione più chiara possibile. — Perché… come posso spiegarlo? Perché i vampiri riescono sempre a cavarsela. Sembrerà assurdo, ma in tutta la mia carriera di criminologo ho sempre notato che le vittime di un omicidio sono tutte di un tipo ben definito. E i vampiri non appartengono a quel tipo. L’avrete notato anche voi, no?

— In tal caso, come si spiega la sua morte?

— Siete proprio sicuri che si trattasse del suo corpo?

— Assolutamente sicuri — rispose Carlsen che aveva identificato il cadavere.

Von Geijerstam restò in silenzio per qualche secondo. Poi disse: — Ci sono due spiegazioni possibili. Forse è stato una specie di incidente, questo…

— Incidente di che genere? — interruppe Carlsen.

— Lo si potrebbe anche definire un errore. Talvolta un vampiro è così avido di energia, che si lascia sfuggire la forza vitale senza accorgersene… la rimanda alla vittima, invece di assimilarla. Un po’ come un ghiottone che inghiotte il cibo per traverso.

— E l’altra possibilità?

— L’altra possibilità… Non ne ho avuto alcuna esperienza diretta. I greci e gli armeni sostengono che i vampiri possono abbandonare i loro corpi volontariamente, per creare l’impressione della morte.

— E credete che sia possibile?

— Io… credo che un vampiro possa esistere per un breve periodo fuori da un corpo vivente.

— Perché solo per un breve periodo?

— Perché gli occorrerebbe una immensa quantità d’energia e di concentrazione per poter mantenere la sua individualità al di fuori di un corpo vivente. Fra gli occultisti c’è una tecnica ormai nota chiamata “proiezione astrale” che per molti lati è simile al fenomeno di cui stiamo parlando.

Fallada si protese in avanti. — Allora crede che un vampiro potrebbe prendere possesso di un altro corpo? — chiese.

Von Geijerstam corrugò la fronte, fissando il tappeto. Poi disse: — Potrebbe. Sappiamo che certe persone vengono invasate da spiriti maligni… Io stesso ho avuto a che fare con almeno tre casi del genere. Questo invasamento sarebbe la conclusione logica del vampirismo, che è desiderio di possedere e di assorbire. Ma, ripeto, non ho mai avuto conoscenza diretta di un caso simile.

Appassionandosi all’idea, Carlsen chiese: — Quei casi di invasamento di spiriti maligni di cui siete a conoscenza… gli spiriti hanno distrutto le persone di cui si erano impossessati?

— In un caso, l’uomo è impazzito senza possibilità di guarigione. Gli altri due furono risolti con esorcismi.

Carlsen si rivolse a Fallada. — Che sia questa la spiegazione di quello che è successo a Don Clapperton? Se uno di quegli esseri l’avesse invaso, senza però ucciderlo… lui si sarebbe accorto di quello che gli stava succedendo, anche se non poteva sottrarvisi. E alla fine loro, o meglio lei sarebbe stata costretta a ucciderlo perché lui sapeva troppo.

Il conte chiese: — Chi è questo Don Clapperton?

Fallada gli raccontò in breve la storia della ragazza trovata lungo la strada ferrata e della sparizione di Clapperton, seguita dal suicidio.

Von Geijerstam ascoltò attentamente. Poi disse: — Mi sembra allora che il Comandante Carlsen abbia ragione. Don Clapperton evidentemente dev’essere stato invasato da uno di quegli esseri. Si è ucciso molto probabilmente tentando di sfuggirgli.

Fallada commentò: — Oppure è stato indotto al suicidio.

Restarono tutti e tre pensierosi, fissando il tappeto e le fiamme che s’alzavano dal ceppo nel camino.

Poi von Geijerstam disse: — Vedrò cosa posso fare per aiutarvi. Per cominciare posso dirvi tutto quello che so io sui vampiri. Ma non so se sarà di qualche utilità in un caso come il vostro.

Fallada disse: — Sono convinto che tutto quello che ci direte potrà servire. Stiamo lottando contro il tempo. E se gli altri esseri fossero riusciti a scendere dalla “Stranger” sulla Terra?

— Questo è impossibile — disse il conte.

— Perché?

— Perché sembra una caratteristica dei vampiri quella che… devono essere invitati, per così dire. Non possono prendere l’iniziativa.

Fallada chiese incredulo: — Ma perché?

— Non è una certezza ma soltanto una mia impressione.

Nell’atrio risuonò un gong. Ma nessuno di loro si mosse. Quando i colpi cessarono, si udirono le voci delle ragazze sulle scale.

Carlsen disse: — Ma si può dire che siano stati invitati. Il nostro Primo Ministro vuole far portare la “Stranger” sulla Terra. Crede, giustamente, che abbia un grande valore storico.

— Lui lo sa quello che avete detto a me?

— Sì, ma è un tipo testardo. Lui crede, ed è probabile che abbia ragione, non lo nego, che se non lo facciamo noi lo faranno i russi, o gli arabi, e si prenderanno tutto il merito e la gloria.

— Dovete impedirglielo!

— Ci ha dato due mesi di tempo. Due mesi per localizzare i tre extraterrestri. Avete qualche idea da dove cominciare?

Von Geijerstam rifletté qualche secondo con gli occhi chiusi. Poi sospirò e scosse la testa.

— Così sui due piedi, no — disse.

Carlsen e Fallada si scambiarono un’occhiata di sconforto.

— Basta, per il momento. Ne riparleremo, e studieremo la situazione con calma — disse ancora il conte. — Ci deve pur essere un mezzo! Potete contare sulla mia completa collaborazione. Adesso andiamo a cena.


La sala da pranzo era più piccola della biblioteca, ma il lungo e massiccio tavolo di quercia aveva pur sempre posto per quaranta commensali. Due pareti erano coperte di arazzi enormi.

Un lampadario di cristallo si rifletteva in due immensi specchi, uno appeso sopra il camino, l’altro alla parete opposta.

Le ragazze si sedettero per prime. Il maggiordomo stava riempiendo i bicchieri, alti calici verdi, con vino della Mosella.

Von Geijerstam indicò l’arazzo centrale. — Questo è il nostro famoso vampiro, il Conte Magnus de la Gardie.

L’arazzo rappresentava un uomo imponente, in divisa militare, con la corazza. Aveva lo sguardo di chi è abituato al comando. Sotto i folti baffi le labbra erano sottili e strette.

La signorina Bengtsson disse: — Il vostro scrittore di storie di fantasmi, M.R. James, ha scritto un racconto sul Conte Magnus. L’abbiamo letto in svedese. In biblioteca c’è.

— È attendibile?

Von Geijerstam disse: — Storicamente, è molto preciso. James è stato in questa casa, c’è la sua firma nel registro degli ospiti.

— Che cosa ha fatto questo Magnus? — domandò Carlsen.

— Fondamentalmente, era un sadico. Ci fu una rivolta fra i contadini del Västergötland, nel milleseicentonovanta e il re aveva incaricato Magnus di soffocarla. Lui la soffocò in maniera tanto cruenta che gli stessi cortigiani ne rimasero atterriti. Si dice che abbia mandato alla forca più di quattromila contadini, metà della popolazione della provincia meridionale. Il re, Carlo undicesimo, si infuriò perché per lui questo significava aver perso il cinquanta per cento delle tasse. Magnus cadde in disgrazia e venne bandito da Corte. Secondo la leggenda, Magnus decise allora di fare il Pellegrinaggio Nero a Chorazin. Chorazin era un villaggio ungherese i cui abitanti, si raccontava, erano in combutta col diavolo. Ci è rimasto un manoscritto, di pugno del Conte Magnus, che dice testualmente: “Colui che volesse bere il sangue dei suoi nemici e ottenere fedeli servitori, dovrebbe andare alla città di Chorazin, e colà rendere omaggio al Principe dell’Aria”.

Fallada disse: — Questo spiegherebbe forse la leggenda del vampiro. Quella frase sul bere il sangue dei nemici…

— Impossibile. Per cominciare, il manoscritto è in latino, ed è stato rinvenuto fra varie opere d’alchimia nella Torre Nord. Dubito quindi che qualcuno abbia potuto leggerlo… almeno fino a cinquant’anni dopo la sua morte. In secondo luogo, si parla di lui come di un vampiro in un manoscritto che si trova nella Biblioteca Reale.

— E l’ha poi fatto il Pellegrinaggio Nero?

— Non ne abbiamo le prove, ma sono propenso a credere di sì.

— E credete anche che il pellegrinaggio l’abbia tramutato in un vampiro? — chiese Fallada.

— Difficile a dirsi, Magnus era già un sadico, e occupava una posizione di potere. Credo che tali uomini si tramutino spesso in vampiri… in vampiri di energia. Provano piacere a ingenerare terrore, a bere la vitalità delle loro vittime. Dunque, potrebbe anche darsi che Magnus fosse già una specie di vampiro, anche prima del Pellegrinaggio Nero. Ma quando decise di farlo, scelse deliberatamente il male. Da quel momento in poi non fu più questione di impulsi malvagi, ma di consci, deliberati e programmati atti di indescrivibile crudeltà.

— Ma che cos’ha fatto?

— Torturò contadini, mise a fuoco le loro capanne. Si racconta che fece spellare vivi due bracconieri.

— Questo sa più di sadico psicopatico che di vampiro.

— Sono d’accordo con voi. Fu dopo la sua morte che acquistò la fama di vampiro. Ho un libro, un registro di conti, di un amministratore della tenuta. Ho trovato varie annotazioni curiose, fra cui questa: “I contadini pretendono di voler tornare a casa prima del tramonto, perché dicono che il Conte Magnus è stato visto nel cortile dietro la chiesa”.

— E c’è qualche prova di vampirismo vero e proprio, dopo la sua morte?

— Alcune. Dal diario della chiesa di Stensel sappiamo del funerale di un bracconiere trovato sull’isola con la faccia “mangiata via”. La sua famiglia offrì tre messe per “salvare la sua anima dallo spirito maligno”. Poi ci fu la storia della moglie di un carrozziere di Storavan, mandata al rogo come strega. La donna aveva dichiarato che il Conte Magnus era suo amante, e che era stato lui a insegnarle a bere il sangue dei bambini.

Avevano finito l’antipasto. Fallada, che era seduto con le spalle rivolte all’arazzo, si alzò per guardarlo meglio. Dopo averlo osservato per qualche minuto, disse: — Scusate, ma mi è difficile prendere sul serio quest’idea. Sono d’accordo con voi quando parlate di vampiri d’energia, perché i miei esperimenti mi hanno portato alla stessa conclusione. Ma tutte queste storie sono leggende e forse niente di più.

— Non bisogna mai sottovalutare le leggende — disse il conte.

— Volete dire che non c’è fumo senz’arrosto?

— Esattamente. Come spiegate quel dilagare di vampirismo che inondò l’Europa all’inizio del diciottesimo secolo? Dieci anni prima i vampiri erano quasi sconosciuti. E poi, tutto d’un tratto, cominciano a circolare storie di creature che tornano dall’al-di-là e bevono sangue umano. Nel millesettecentotrenta ci fu una specie di epidemia di vampirismo dalla Grecia al Mar Baltico… ce ne sono tramandate centinaia di relazioni. Il primo libro sul vampirismo fu scritto soltanto dieci anni dopo, dunque non si può imputare quel fatto alla suggestione causata dalla troppo fervida immaginazione degli scrittori.

— Ma non potrebbe essere stato un caso di isterismo o di autosuggestione collettiva?

— Sì, potrebbe essere. Ma che cosa diede il via a questi fenomeni collettivi?

Arrivò la seconda portata: bistecche di renna e di alce, tagliate rotonde, con salsa di finocchio e panna acida. La carne fu servita con un forte vino rosso, bulgaro, freddo. La conversazione si spostò su argomenti di interesse generale: le ragazze si erano evidentemente annoiate delle storie di vampiri. Volevano che Carlsen parlasse di quello che aveva visto nel relitto spaziale.

Von Geijerstam interruppe solo una volta, quando Carlsen menzionò le alte colonne di materiale simile al vetro, che contenevano i bizzarri animali simili a seppie o a polipi.

— Cosa avete pensato nel vederli? Per quale ragione credete che fossero lì?

— Non saprei… Pensai che fossero un allevamento che gli extraterrestri si fossero portati con sé… come cibo…

La signorina Freytag disse: — I polipi mi fanno orrore.

Lo disse con tale veemenza che tutti la guardarono.

Fallada le chiese. — Ne avete mai visto uno?

La ragazza arrossì. — No — rispose.

Carlsen si chiese perché mai von Geijerstam facesse un sorrisetto.


Passarono nella biblioteca a bere il caffè. Il calore del fuoco fece sbadigliare Carlsen. Il conte chiese subito: — Preferite ritirarvi subito nelle vostre stanze?

Carlsen scosse la testa, sorridendo a disagio.

— Oh, no. La cena eccellente mi ha messo un po’ di sonnolenza, ma voglio sentire il seguito della storia del Conte Magnus.

— Vi piacerebbe vedere il suo laboratorio?

Selma Bengtsson disse, meravigliata: — A quest’ora? È ormai notte!

In tono di indulgenza, von Geijerstam le disse: — Mia cara, era di notte che gli alchimisti si dedicavano al loro lavoro.

— Mi piacerebbe molto — disse Carlsen.

— Allora sarà meglio che vi mettiate i cappotti, fa freddo lassù. — Il conte si rivolse alle ragazze: — Volete venire anche voi?

Tutte e tre scossero la testa. Selma disse: — Quel posto non riesco a sopportarlo neanche di giorno.

Fallada chiese: — Credete che le attività del Conte Magnus potrebbero interessarmi?

— Ne sono certo — rispose von Geijerstam, prendendo una grossa chiave da un cassetto. — Dobbiamo uscire di casa, per andarci. Una volta ci si poteva arrivare da una porta in fondo all’atrio, ma il proprietario che mi ha preceduto l’ha fatta murare.

Fece strada fin sui gradini d’ingresso. Era una bella notte di luna, e il lago sembrava percorso da un sentiero argentato. Carlsen si sentì rinvigorito dall’aria frizzante. Von Geijerstam li guidò lungo il sentiero tortuoso verso l’ala nord del castello.

Fallada chiese: — Perché l’ex proprietario ha fatto murare il passaggio? Aveva paura dei fantasmi?

— No, non dei fantasmi… Posso dirlo anche se non l’ho mai conosciuto. La casa è rimasta vuota per cinquant’anni, prima che la comprassi io.

Infilò la chiave nella serratura del portone e girò la maniglia. Si udì un lieve cigolio di metallo arrugginito. L’aria all’interno odorava di muffa e pareva più fredda che all’aperto. Carlsen si strinse meglio la sciarpa intorno al collo e rialzò il bavero del cappotto. Alla loro sinistra, la porta che una volta immetteva in un corridoio del castello era stata sbarrata con liste di ferro.

— Dall’altra parte è murata — disse Von Geijerstam.

— Questo edifico è stato costruito insieme al castello? — chiese Fallada.

— Sì. Perché?

— Perché ho notato che i gradini non sono affatto consumati dall’uso.

— Un’osservazione che ho fatto anch’io — disse il conte. — Forse sono sempre stati usati poco.

Anche qui, come nel castello, le pareti erano coperte di pannelli di legno di pino. Von Geijerstam salì per primo le scale, Fallada e Carlsen lo seguirono. Tre rampe di gradini. Su ogni pianerottolo il conte si fermò a mostrare i ritratti appesi alle pareti.

— Questi sono opera di Gonzales Coques, il pittore spagnolo. Da giovane, il Conte Magnus fu mandato in missione diplomatica ad Anversa, dove Coques stava lavorando al ritratto del governatore olandese. Magnus chiese a Coques di fargli i ritratti dei grandi alchimisti. Questo è Albertus Magnus. E questo, Cornelio Agrippa. Ed ecco Basil Valentinus, frate benedettino oltre che alchimista. Notate qualcosa di curioso in questi ritratti?

Carlsen osservò attentamente gli antichi dipinti a olio, poi scosse la testa. — Non saprei — disse. — Forse questo: il pittore ha dato a tutti un portamento nobile, maestoso.

Fallada approvò con un cenno. — Sembrano ritratti di santi — disse.

— Magnus aveva circa venticinque anni quando li ordinò a Coques. A mio parere, questi quadri rivelano che a quel tempo era dotato di nobili ideali. Eppure, solo dieci anni più tardi faceva massacrare i contadini di Västergötland e si preparava a vendere l’anima al diavolo.

— Come mai?

Il conte si strinse nelle spalle. — Appunto, come mai? Credo di essere arrivato a una conclusione, ma ci vorrebbe troppo per spiegarlo.

Li precedette sull’ultima rampa di scale. Dalla finestra di vetri piombati si vedeva il lago illuminato dalla luna.

La porta davanti a cui si fermarono era appesantita da strisce di metallo e da borchie. Lo stipite di destra mostrava segni di scassinatura. Era scheggiato, e c’erano le tacche lasciate da un’accetta.

Von Geijerstam disse: — Probabilmente questa stanza è stata sigillata dopo la morte del Conte Magnus, e forse la chiave è stata gettata via. Qualcuno, di una generazione successiva, l’ha forzata. — Spinse il battente e la porta si aprì.

La stanza era molto più grande di quanto si erano aspettati. Nell’aria stagnava un curioso odore sgradevole. Il conte girò un interruttore, ma la luce non si accese. — È strano — disse il conte — qui dentro le lampadine durano pochissimo.

Carlsen disse in tono scherzoso: — Forse la luce elettrica non va a genio al Conte Magnus?

— Oppure c’è qualcosa che non va nell’impianto. — Così dicendo von Geijerstam accese due lampade a olio posate su un tavolo d’angolo.

Carlsen se ne ricordò improvvisamente: era l’odore di un laboratorio dove per qualche ragione si sezionano cadaveri.

Alla luce delle lampade a olio videro una grossa stufa di mattoni e una specie di tenda da campo, nera. Carlsen la toccò e sentì che la tenda era fatta di seta, la seta più pesante che avesse mai visto.

Von Geijerstam spiegò: — Questa era una specie di camera oscura. Certe operazioni di alchimia devono essere fatte nell’oscurità totale.

Sugli scaffali c’erano bottiglie di vetro e recipienti di varie forme e misure. C’era anche un piccolo alligatore impagliato, e un mostricciattolo con la testa d’uccello, il corpo di gatto e la coda di lucertola. Carlsen si avvicinò per vederlo meglio, ma non riuscì a distinguere alcuna traccia di congiunzione. In un angolo c’era un apparecchio strampalato, di metallo, con vari tubi che ne uscivano e un pesante coperchio di terracotta.

Von Geijerstam prese un volume rilegato in pelle, dagli angoli consunti, e lo mise, aperto, sul banco di lavoro.

— Questo è il diario di alchimia del Conte Magnus. Pare che avesse il talento di un vero scienziato. All’inizio tutti i suoi esperimenti furono rivolti a produrre un liquido chiamato “alkaherst” e che aveva le proprietà di ridurre qualsiasi materia al suo stato primitivo. Questo fu il suo primo passo in alchimia. Una volta ridotta la materia allo stato primitivo, il passo successivo sarebbe stato quello di sigillarla in un recipiente e di metterla nell’“athanor”, ovvero in quella fornace. Magnus passò quasi un anno nei tentativi di trasformare in “alkaherst” sangue umano e urina.

Sfogliò il volume più avanti. La calligrafia era angolosa, disordinata e a svolazzi, ma i disegni che accompagnavano lo scritto, schizzi di apparecchi d’analisi chimica, alambicchi, e altro, erano fatti con la massima cura e precisione.

Von Geijerstam richiuse il volume.

Mentre lo rimetteva a posto riprese a parlare. — Il dieci gennaio del milleseicentoottantatré, Magnus si convinse d’essere riuscito a ottenere l’“alkaherst” da urina di bambini e cremore di tartaro. Il volume successivo fu iniziato due mesi più tardi perché lui aveva bisogno della rugiada primaverile per la sua materia primeva. Annotò di avere speso anche duecento fiorini d’oro per acquistare veleno di cobra importato dall’Egitto.

Disgustato, Fallada esclamò: — Non c’è da meravigliarsi se alla fine è impazzito!

— Eppure, leggendo questi diari lo si direbbe in pieno possesso delle sue facoltà mentali. Dice di aver salvato la vita alla moglie del fattore, durante un parto, e di aver curato un suo pastore che soffriva di gotta, servendosi di un miscuglio di “alkaherst” e di olio allo zolfo. Sentite la conclusione: “Il pastore riuscì ad arrampicarsi fino in cima all’albero vicino alla fontana”. — Sfogliò qualche pagina, poi si fermò a indicare. — Ma ora, guardate qui… che cosa notate? — disse.

Carlsen scosse la testa. Fallada disse: — Niente, tranne il fatto che la scrittura sembra peggiorata.

— Esatto. Era disperato. Una volta un esperto grafologo mi disse che questa è la calligrafia di un uomo che medita il suicidio. Sentite: “Or n’est il fleur, homme, femme, beauté, que la mort à sa fin ne le chace”. È in francese dell’epoca. Dice: “Non esiste fiore, uomo, donna, bellezza, che la morte alla fine non cancelli”. Questa e altre riflessioni simili indicano che era ossessionato dal pensiero della morte.

Fallada chiese: — Perché ogni tanto scriveva in francese?

— Lui era francese. La Corte svedese del millesettecento pullulava di nobili francesi. E ora guardate.

Prese un altro diario, rilegato in pelle nera.

— Qui scrisse la data in codice, ma io l’ho decifrata: maggio milleseicentonovantuno, un mese dopo la sua espulsione dalla Corte. Dice: “Colui che volesse bere il sangue dei suoi nemici e ottenere fedeli servitori dovrebbe andare alla città di Chorazin, e colà rendere omaggio al Principe dell’Aria”. Poi non scrisse più niente fino al novembre successivo. Saltò sei mesi, insomma. E guardate adesso la calligrafia.

— Ma non sembra neppure quella della stessa persona — disse Carlsen.

La calligrafia infatti aveva ora caratteristiche completamente diverse: era chiara, più minuta e allo stesso tempo più decisa.

— Ma è sempre la sua — riprese il conte. — Ci sono altri documenti firmati da lui, con questa stessa calligrafia. Magnus di Skane… è il suo luogo di nascita. E la calligrafia cambia di nuovo, più avanti. — Sfogliò qualche altra pagina. Carlsen riconobbe la calligrafia di prima, appuntita e un po’ disordinata. — Il grafologo dice che è un chiaro sdoppiamento di personalità. Fa ancora esperimenti di alchimia, ma ora li annota servendosi di un codice… Ah, ecco quello che cercavo… — Il conte era arrivato quasi alla fine del diario. In mezzo a una pagina bianca c’era il disegno di un polipo.

Carlsen e Fallada si chinarono per osservarlo meglio. Il disegno non aveva la precisione meticolosa di quelli visti in precedenza. Le linee erano incerte.

Fallada osservò: — Qui c’è un’inesattezza: ha disegnato un’unica fila di ventose. E gli ha dato una specie di faccia umana… — Guardò Carlsen — Quei polipi della “Stranger” avevano qualcosa in comune con questi?

— No — rispose Carlsen corrugando la fronte. — Sono certo che non avevano affatto fisionomia umana, come questo.

Von Geijerstam chiuse il libro e lo rimise sullo scaffale da dove l’aveva preso. — Andiamo — disse. — Voglio mostrarvi altre cose. — Spense le due lampade a olio, e li precedette sul pianerottolo. Carlsen provò un gran sollievo a uscire da quella stanza. Quel vago odore di muffa e di chissà che altro cominciava a dargli la nausea. Appena furono all’aperto respirò profondamente la frizzante aria notturna.

Von Geijerstam svoltò a sinistra e li guidò lungo il sentiero, poi attraverso il prato, fino al laghetto artificiale e oltre. La luna rendeva l’erba grigio argentea.

— Dove stiamo andando?

— Al mausoleo.

Il buio fra gli alberi era totale. Poi il sentiero sboccò davanti alla porta della cappella. Era costruita interamente di tronchi d’albero, a forma di una A. Sembrava più grande di quando l’avevano vista la prima volta, dall’aereo.

Il conte fece girare un anello di ferro, e la porta si aprì all’interno. Accese la luce. La cappella era molto gradevole. Il soffitto era coperto d’affreschi che rappresentavano cherubini e angeli, e c’erano tre alti candelabri circolari, di ottone. C’era un organo verniciato in rosso, giallo e azzurro, con canne argentate. Il pulpito faceva pensare alle casette di pan di zucchero delle favole, con il tetto dipinto, e delle statuette che evidentemente rappresentavano vari santi.

Von Geijerstam li condusse lungo il lato di destra, oltre il pulpito, fino a una porta di legno massiccio che terminava ad arco. La aprì. La stanza in cui entrarono odorava di pietra fredda.

Il conte sollevò il coperchio di una cassapanca, e prese una lampada con un lungo filo. Collegò il filo a una presa vicino alla soglia. — Non c’è luce elettrica nel mausoleo — disse. — Quando fecero l’impianto nella cappella, all’inizio del duemila, gli operai non vollero oltrepassare questa porta.

La lampada illuminò una stanza di forma ottagonale, a volta. C’erano varie tombe di pietra e sarcofagi lungo i lati. Al centro della stanza troneggiavano tre sarcofagi di rame. Due avevano un crocifisso sul coperchio. Su quello del terzo c’era un bassorilievo che rappresentava un uomo in uniforme militare.

— Questa è la tomba del Conte Magnus — disse von Geijerstam indicando l’effigie sul coperchio. E aggiunse: — Pare che la faccia sia stata ricavata da una maschera mortuaria. Guardate la ferita sulla fronte… e qui… — Sollevò la lampada portatile per mostrare le incisioni sui lati del sarcofago. Alcune erano scene militari. Poi si vedeva una città con tetti a spirale. E sull’ultimo lato, vicino ai piedi, c’era un polipo nero, con faccia umana, che stava trascinando un uomo verso un’apertura fra le rocce. La faccia dell’uomo non era visibile, ma si notava chiaramente che indossava una corazza.

Von Geijerstam disse: — Questa scena è sempre stata un mistero per tutti. I polipi erano praticamente sconosciuti in Europa, in quell’epoca.

Rimasero a osservare l’incisione in silenzio. Faceva un gran freddo. Carlsen si strinse nel cappotto e affondò le mani nelle tasche. Non era il freddo secco che aveva sentito fuori: lì sembrava soffocante.

Fallada disse: — Molto curioso… — La sua voce era priva di inflessioni. — Devo dire che questo posto è alquanto sgradevole.

— Perché?

— Sembra che manchi l’aria.

Von Geijerstam guardò Carlsen con sguardo interrogativo.

— E voi, come vi sentite?

Carlsen stava per rispondere “bene” per forza d’abitudine, ma si trattenne. Aveva capito che la domanda del conte aveva un motivo preciso. — Leggermente stordito, mi sembra.

— Potete descrivere meglio quello che provate?

— Ecco… sento una specie di soffocamento… e come un pizzicore nella punta delle dita… e la vostra faccia è sfuocata… no, tutto è leggermente sfuocato.

Von Geijerstam si rivolse a Fallada: — E voi?

Fallada era sconcertato. — Mi sento benissimo. Forse Olaf ha bevuto un po’ troppo.

— No. Non è questo. Ho anch’io le stesse sensazioni del Comandante Carlsen. Mi capita sempre, qui dentro, soprattutto quando c’è la luna piena.

Fallada disse in tono lievemente sarcastico: — Altri fantasmi e spettri?

Von Geijerstam scosse la testa. — No. Credo che ormai lo spirito del Conte Magnus sia in pace.

— Allora, cos’è?

— Usciamo, prima. Comincio a sentirmi soffocare. — Si asciugò il sudore dalla fronte e uscì. Carlsen fu lieto di seguirlo. Appena fuori il senso di nausea svanì.

Nella cappella, la luce elettrica dava tonalità allegre ai colori dell’organo. Lì la vista non era più offuscata. Von Geijerstam si sedette sulla prima panca.

— Quello che abbiamo appena sperimentato là dentro non era la sensazione che si attribuisce di solito alla presenza di un fantasma, ma un effetto puramente fisico, come sentirsi mancare quando si annusa il cloroformio. Non di natura chimica, però, ma elettrica.

— Elettrica? — disse Fallada.

— Non intendo qualcosa che si possa misurare con la scala lambda, anche se non mi sento di escluderlo. Ritengo piuttosto che sia una specie di registrazione… come una registrazione su disco o su nastro.

— E quale sarebbe il nastro? — domandò Carlsen.

— Una specie di campo… un campo magnetico, dovuto all’acqua che ci circonda — rispose il conte. Poi si rivolse a Fallada: — Anche voi ne sentite gli effetti, per quanto siate meno sensibile del Comandante. È come nel laboratorio di Magnus. Solo che là l’effetto è più debole perché il laboratorio è sopra il lago.

Fallada scosse la testa. — Che prove avete che sia così?

— Nessuna prova scientifica. Ma il cinquanta per cento delle persone che entrano nel mausoleo quando c’è luna piena sente questi effetti. Qualcuno è persino svenuto. — Guardò Carlsen: — Avete notato che la sensazione è cessata subito appena passata la soglia? Questi campi hanno sempre perimetri ben definiti. Ho annotato esattamente dove comincia e dove finisce, in questo caso: quindici centimetri oltre la porta.

Fallada disse: — Ci dev’essere un sistema per misurarlo, se si tratta di un campo elettrico.

— Sono sicuro che c’è, ma io sono uno psicologo, caro dottor Fallada, non un fisico. — Von Geijerstam si alzò. — Rientriamo in casa?

Carlsen disse: — Continuo a non capire… Perché ci deve essere un’atmosfera sgradevole? Che cos’è successo là dentro?

Il conte spense le luci e richiuse la porta. — Posso dirvi quello che è successo nel laboratorio. Nei diari c’è tutto. Magnus praticava la magia nera. E alcuni degli esperimenti che ha fatto sono troppo orribili per parlarne.

Passarono sotto gli alberi in silenzio. Poi Fallada chiese: — Ma perché anche dentro la cappella?

— Già. Perché quell’atmosfera anche nel mausoleo, visto che Magnus era già morto quando è stato portato là?

— Una domanda non scientifica, forse, ma vale la pena di porsela.

Fallada tentò una risposta. — Non potrebbe essere stata la paura della gente che entrò nella tomba a provocare quella che voi chiamate registrazione?

— Sì, se qualcuno ci fosse entrato. Ma per oltre un secolo dopo la morte di Magnus la tomba è rimasta chiusa e sbarrata. La cappella cadde in disuso perché la gente aveva paura di irritare il suo spirito.

Arrivarono in silenzio fino al portone del castello. Le luci della biblioteca erano state spente ma il fuoco del camino era sufficiente a illuminare la stanza. Selma Bengtsson era seduta sul divano.

— Louise e Anneleise sono andate a letto. Io volevo sapere com’è andata.

Carlsen si sedette vicino alla ragazza. — Non è successo niente, se è questo che temevate. Ma io ho provato una strana sensazione.

Von Geijerstam disse: — Ci meritiamo tutti un po’ di brandy, d’accordo?

Selma chiese a Fallada: — E voi, avete sentito qualcosa?

— Io… non saprei. Riconosco che è un posto deprimente. …

Il conte l’interruppe: — Ma voi non credete ai vampiri?

— Non in quel genere di vampiri! Non in quelli che tornano dall’oltretomba. — Annusò il suo brandy. — I vampiri sono una cosa. I fantasmi un’altra.

Von Geijerstam annuì. — D’accordo. Capita che io creda anche ai fantasmi. Ma in questo momento non stiamo parlando di fantasmi.

— Be’, parliamo di un uomo che torna dal mondo dei morti. Direi che è la stessa cosa.

Von Geijerstam disse: — Ne siete sicuro? — Si accomodò meglio nell’ampia poltrona. Fallada aspettò il seguito. — C’è una frase interessante nel diario del Conte Magnus: “Colui che volesse bere il sangue dei suoi nemici e ottenere fedeli servitori…”. Che specie di servitori?

Carlsen chiese: — Demoni?

— Forse. Ma demoni o diavoli non sono affatto menzionati nei suoi diari. Tutto quello che sappiamo è che quando Magnus tornò dal Pellegrinaggio Nero era un altro uomo… anche la sua calligrafia era cambiata. L’abbiamo visto. Per quello che riguarda le mie esperienze personali, mi sono imbattuto in cinque casi di sdoppiamento di personalità… la sindrome Jekyll-Hyde. In due casi anche la calligrafia cambiava a mano a mano che cambiava la personalità. Eppure restava sempre la stessa calligrafia, cambiavano semplicemente alcune caratteristiche che si accentuavano o si smorzavano. In questo caso invece la calligrafia diventò quella di un’altra persona.

Carlsen si protese in avanti. — In altre parole Magnus venne invasato da qualche cosa?

— Alcuni indizi puntano in questo senso. — Von Geijerstam sorrise a Fallada. — Se… naturalmente, se voi credete che un’entità incorporea possa invasare il corpo di un individuo in carne e ossa.

— E poi, c’è la faccenda del polipo — disse Carlsen.

Per qualche minuto nessuno parlò. Nella sala si udiva solo lo scoppiettìo del ceppo nel camino. Poi Fallada disse: — Vorrei tanto capire dove ci porterà questa storia.

L’orologio dell’atrio batté l’una. Carlsen finì il suo brandy. Von Geijerstam disse: — Sarà meglio dormirci sopra. Ne abbiamo già discusso abbastanza per oggi. E poi credo che il Comandante sia stanco.

Carlsen aveva trattenuto uno sbadiglio e lo sforzo gli aveva fatto venire le lacrime agli occhi. Von Geijerstam disse: — Selma, volete mostrare al Comandante la sua stanza? Io resterò ancora qualche minuto, a bere un altro brandy. Mi fate compagnia, dottore?

Fallada disse: — Ecco… ne prenderò ancora un goccio.

Carlsen augurò la buona notte e seguì Selma Bengtsson su per le scale. Il tappeto era spesso e soffice sotto i suoi passi. Il calore del camino lo aveva messo in uno stato di piacevole sonnolenza. La ragazza lo accompagnò a una stanza del primo piano. La porta era aperta, e qualcuno aveva già disteso il suo pigiama sul letto. Era una stanza calda e comoda, con le pareti rivestite di legno più chiaro di quello del pianterreno. Carlsen si sedette sull’orlo del letto e si sentì travolgere dalla stanchezza. Tolse dalla valigia una cornice con la foto della moglie e dei figli e la mise sul comodino. Lo faceva sempre quand’era in viaggio. Poi andò in bagno e si bagnò la faccia con acqua fredda. Stava per lavarsi i denti quando qualcuno bussò alla porta.

— Avanti — disse, uscendo dal bagno. Era Selma Bergtsson. — Credevo che fosse Fallada.

— Posso parlarvi un momento prima che andiate a dormire?

— Certo. — Si infilò la veste da camera sul pigiama. — Vi spiace se mi sdraio? — chiese.

Lei rimase ai piedi del letto a guardarlo. — Vorrei farle una domanda. — I suoi modi erano del tutto naturali, senza sottintesi di natura sessuale. Si protese in avanti e lo guardò negli occhi. — Lo sapete di essere un vampiro? — chiese.

— Cosa? — La guardò cercando di capire se aveva parlato seriamente.

— Credete che stia scherzando?

— No, non credo che stiate scherzando — disse lui scuotendo la testa — ma credo che vi sbagliate.

Con una certa impazienza lei disse: — Sentite, sono in questa casa da quasi un anno. So benissimo cosa sia dare un po’ d’energia ogni giorno, e posso dirvi con certezza che voi avete preso energia da me.

— Non metto in dubbio quello che dite, ma non riesco a crederlo.

La ragazza si sedette sulla sedia di fianco al letto. — L’hanno sentito anche le altre. Ne abbiamo parlato questa sera. Erano così stanche che sono andate subito a letto. Io invece ho deciso di parlarvi.

— Sì, ma… tutte e tre mi avete dato un po’ d’energia oggi.

— Verissimo. E avrebbe dovuto bastarvi, fino a domani. Invece, dopo nemmeno un’ora, quando eravate seduto vicino a me a tavola, ho sentito che mi prendevate altra energia.

— Io non mi sento affatto pieno di energia. Anzi, mi sento esausto. Siete sicura di non sbagliarvi?

La ragazza si strinse nelle spalle. — C’è un modo semplice per scoprirlo. Distendetevi e chiudete gli occhi.

— D’accordo. — Carlsen si allungò sul letto appoggiando la testa sul cuscino, con una gran voglia di dormire subito. Sentì che lei gli sbottonava la giacca del pigiama. Poi le mani della ragazza si posarono sulla parte superiore del suo petto. Lui si irrigidì, ebbe la fugace sensazione di camminare sotto un getto di acqua fredda.

Rimase sdraiato, con gli occhi chiusi, ascoltando il brontolio che gli saliva dallo stomaco. La tensione svanì e lui si trovò a sprofondare dolcemente verso il sonno. L’impressione durò forse mezzo minuto. Poi si rese conto di sentirsi meno stanco. Un calore piacevole gli percorreva il corpo. Disse con voce assonnata: — Mi state dando energia.

— Sì, sono io a darvela.

Fino a quel momento lui era rimasto completamente passivo, come un bambino allattato al seno. Ora registrava un cambiamento, gli pareva d’essere totalmente sveglio, conscio di una strana fame violenta. La sentì dire: — Adesso siete voi a prenderla. — La voce della ragazza era stranamente debole.

Carlsen aprì gli occhi e la guardò. Vide che era pallidissima. Le disse: — Togliete le mani.

Mentre lo diceva, capì che Selma non avrebbe ascoltato. Era conscio che da lui emanava qualcosa che la tratteneva. Era anche consapevole che la ragazza opponeva scarsa resistenza. Ora lei non aveva alcun desiderio di sottrarsi. Nel suo atteggiamento c’era una componente di paura che lui avvertiva attraverso il tocco delle dita. Curiosamente, paragonò quella sensazione all’odore del petrolio. Era anche conscio di un suo dualismo: una parte di lui osservava quello che stava succedendo, senza parteciparvi; un’altra parte era desiderio puro, che procedeva sicuro e sciolto come un campione di sci acquatico scivola sulle onde.

Alzò le braccia, afferrò Selma per i polsi e si staccò dal petto le mani della ragazza. Lei si afflosciò in avanti e lui sentì il calore della sua pelle attraverso la seta leggera del vestito. Allora spinse indietro le coperte, e se la tirò accanto. Selma rimase distesa con le labbra semiaperte, le palpebre abbassate. La tentazione di chinarsi su quelle labbra era irresistibile. Però sapeva che la porta era rimasta aperta e che Fallada poteva entrare a dirgli buonanotte prima di andare nella sua stanza. Si alzò e andò a chiudere la porta a chiave. Poi spense la luce. Dalla finestra entrava il riflesso chiaro della luna, e bastò quello a trarre dall’ombra la figura della ragazza stesa sul letto. Anche voltandole le spalle non cancellò il desiderio di sdraiarsi su di lei. Si sedette sull’orlo del letto e le sollevò il vestito fino alla vita. Lei si girò su un fianco, come per permettergli di arrivare facilmente ai bottoni che si allacciavano sulla schiena. Carlsen, che di solito era maldestro coi bottoni, si trovò a sbottonare quelli con gesti sicuri. Le slacciò i ganci del reggiseno con un solo movimento, e glielo sfilò insieme col vestito. Le restavano solo le mutandine nere. Gliele tolse. Mentre si sdraiava su di lei vide con l’angolo dell’occhio la faccia di Jelka che lo guardava dalla fotografia. Gli sembrò un’estranea.

Lasciò cadere la giacca del pigiama sul pavimento e si chinò a cercare la bocca di Selma. Appena le sue labbra toccarono quelle della ragazza provò una sensazione che gli diede le vertigini. L’energia fluiva da lei in ondate di dolcezza, trasmettendo fremiti di gioia nella sua circolazione sanguigna. Quando la penetrò, la ragazza emise un gemito. Il calore che si irradiava da lei aveva gli stessi effetti dell’alcool, ma era più squisito di qualsiasi cosa lui avesse mai bevuto. In quel momento si rese conto che non stavano facendo l’amore da soli. C’era una terza persona: la ragazza dell’astronave alla deriva. C’era il mare fra loro, eppure era lì nel letto e si dava a lui. Anche le sue labbra erano socchiuse, e l’aliena stava suggendo l’energia che scorreva attraverso Carlsen. Selma Bengtsson ignorava la presenza dell’altra; lei era conscia unicamente della sua resa totale. Carlsen pensò: “Si tratta di questo, dunque?”

Il primo impeto si placò. Lui continuò a premerle le labbra sulle labbra, per timore che i suoi gemiti potessero essere uditi. L’estasi aveva travolto Selma, e Carlsen intuì che era arrivata al limite, al confine con il dolore.

Ma era anche conscio del desiderio dell’altra donna. Anche se la sua necessità più urgente era stata placata, l’aliena voleva di più. Giaceva sotto di lui, il corpo convulso, furente perché Selma era appagata. Ci fu un breve, intenso conflitto, ma Carlsen rifiutò di ubbidirle. Lei lo incitava a prendere ancora, ancora un po’. Selma giaceva di fianco a lui, sprofondata in un sonno pesante dovuto all’esaurimento; sarebbe stato facile assorbire altra energia da lei. Ma Carlsen sapeva d’aver preso già molto, d’aver assorbito quasi tutte le sue riserve di energie vitali, e ne era spaventato. In circostanze normali la ragazza le avrebbe recuperate in fretta, ma per il momento quella sua debolezza la rendeva estremamente vulnerabile. Qualsiasi sforzo improvviso, qualsiasi crisi imprevista, avrebbe gettato Selma in un limbo di paura e di depressione.

Nella mente di Carlsen la sollecitazione dell’altra era come un mormorio convincente: “Non voglio che tu la uccida. Prendile solo un altro po’ di energia”. Poiché lui rifiutava, l’altra riuscì appena a dominare la collera. Era come cercare di strappare la bottiglia a un alcolizzato. Carlsen era inoltre consapevole di un elemento nuovo del suo rapporto con quella donna.

Nel Laboratorio dell’Istituto Ricerche Spaziali lei aveva cercato d’esercitare su di lui tutte le sue seduzioni, cercando d’attirarlo con una irresistibile femminilità. Adesso Carlsen si rendeva conto della durezza e dell’egoismo nascosto sotto una maschera di dolcezza. Per dimostrare che non voleva per niente ubbidirle, voltò le spalle a Selma, pur restandole disteso vicino.

La luce della luna illuminava la fotografia di Jelka e dei bambini, e quella vista lo inondò di tenerezza. Provò lo stesso sentimento di protettiva tenerezza per Selma. Il vampiro avrebbe voluto che lui la svuotasse di tutta la sua forza vitale, fin giù ai subliminali livelli molecolari, uccidendola, e Carlsen sapeva che un uomo meno forte di lui le avrebbe ceduto. Al vampiro non sarebbe importato niente se lui fosse poi stato accusato d’omicidio. O se, dopo, la sua vita non sarebbe più servita a niente. Non che il vampiro volesse perdere Carlsen, ma la sua bramosia sopraffaceva ogni altra cosa.

Carlsen provò un impeto di disprezzo rabbioso, e immediatamente capì che l’altra l’aveva sentito. Subito il vampiro si fece conciliante. Certo, certo, lui aveva ragione… Certo, lei era troppo avida… Il disappunto si consumò in una collera sorda poi svanì, oltre tutti i limiti della sua comprensione. Per un attimo Carlsen ebbe la visione di uno spaventoso abisso di frustrazioni, di brame insoddisfatte che si erano trascinate per millenni. E insieme capì perché lei “doveva” essere un vampiro. Un criminale comune può pentirsi, e riprendere la strada dell’amore e della comprensione umana. Ma quelle creature avevano troppo di cui pentirsi: ci sarebbe voluta un’eternità.

D’un tratto Carlsen sentì che una mano di Selma gli sfiorava una coscia, e che attraverso quella mano lui stava ricevendo energia. Il vampiro, di nuovo attento, la beveva come un gatto lappa ghiottamente la panna. E capì improvvisamente che l’aliena era più pericolosa di quanto avesse pensato, e che se fosse diventata ostile avrebbe potuto distruggerlo. Mentre l’attenzione del vampiro era distratta, lui chiuse la propria mente. Si voltò verso Selma e le fece scorrere carezzevolmente una mano su tutto il corpo, permettendo che un lieve flusso di energia passasse dalla ragazza a lui. Selma si mosse e sospirò. Le sue labbra erano una tentazione, ma lui non cedette. Si lasciò andare al richiamo pesante del sonno, allungò un braccio a rialzare le coperte, poi prese Selma fra le braccia e cominciò a trasmetterle un po’ della propria energia. Il vampiro perse ogni interesse. Le riusciva incomprensibile che qualcuno cedesse la sua forza vitale.

Con la parte più profonda e più inconscia della sua mente, Selma capì che cosa lui stesse facendo. Si riscosse, socchiùse gli occhi, biascicò: — Ti amo.

Lui la strinse a sé e la sentì risprofondare nel sonno. Nello stesso momento si rese conto che il vampiro se n’era andato.

La luce della luna si era spostata su un tavolino sormontato da uno specchio. Dalla finestra veniva lo sciacquio leggero delle onde. Restò disteso, immobile, a fissare il soffitto. Adesso aveva capito finalmente che cosa stava succedendo, che cosa era già successo, e si spaventò della propria mancanza di prontezza, della capacità di ignorare i messaggi del subconscio. Per giorni il vampiro si era servito di lui, l’aveva usato per succhiare energia da Jelka e dai bambini. La sua inconscia resistenza le aveva reso il compito difficile. Ma quando le tre ragazze gli avevano posto le mani sulle spalle, quel pomeriggio, il vampiro s’era subito ravvivato, succhiando l’energia man mano che le ragazze gliela fornivano. Loro si erano accorte che qualcosa non andava e ne erano rimaste perplesse: era come versare tè in una tazza e vedere che la tazza rimaneva vuota. E allo stesso tempo si erano sentite attirate da Carlsen. Anche le altre due avrebbero fatto volentieri quello che Selma aveva fatto, pur sapendo, come lei, che Carlsen era un vampiro d’energia, e che le attirava infondendo in loro il desiderio di arrendersi. Se avesse voluto chiamarle, adesso, servendosi di quei suoi poteri appena scoperti, loro sarebbero venute subito a offrirglisi.

Carlsen sentì uno stimolo di desiderio, ma lo soppresse: il vampiro era attratto dal desiderio sessuale come uno squalo dal sangue.

Si svegliò che stava albeggiando. Selma, china su di lui, gli sfiorava la bocca con le labbra. La ragazza aveva recuperato la sua energia anche se non totalmente, e adesso voleva che lui la riprendesse.

Fu invaso da un senso di assurdità. Selma risvegliava in lui la stessa tenerezza che di solito lui provava per sua moglie e per i loro figli. Lo colpì improvvisamente l’idea che il corpo della ragazza era quello di Jelka! Entrambe erano incarnazioni del principio femminile che esulava da loro e che si affacciava dal corpo di tutte le donne del mondo come da altrettante finestre.

Le accarezzò una spalla dicendole: — Sarebbe meglio che tu tornassi nella tua stanza prima che gli altri si sveglino. È già l’alba.

— Preferirei restare qui — disse lei, e lo ribaciò.

Lui scosse la testa.

Selma chiese: — Quando torni a Londra?

— Oggi.

— Allora facciamo l’amore ancora una volta!

— No. Distenditi.

Lei riappoggiò la testa sul cuscino. Carlsen cominciò ad accarezzarla delicatamente, prima sulla spalla, poi sul seno, giù fino alle ginocchia. E nell’accarezzarla lasciava che la sua energia fluisse in lei. Selma sospirò e chiuse gli occhi come un bambino soddisfatto, e il suo respiro diventò più profondo. Lui cominciò allora a baciarla. Una sensazione di dolce felicità si diffuse nella ragazza e si comunicò a lui. Poi Carlsen la sentì cedere al sonno.

Restò sdraiato accanto a lei, indebolito ma soddisfatto. Non le aveva preso niente, le aveva invece restituito la forza vitale che prima le aveva preso. Per lo meno non era ancora un vampiro.

Qualcuno bussò alla porta, e la maniglia girò. Si mise a sedere di scatto, chiedendo: — Chi è? — Una voce femminile parlò di caffè. — Lasciate lì, grazie — disse lui.

Selma chiese, assonnata: — Che ore sono?

— Le otto meno un quarto — rispose.

La ragazza balzò giù dal letto. — Santo cielo, devo andare!

Quando lei sparì nella stanza da bagno, Carlsen aprì la porta per prendere il caffè. Mise il vassoio sul comodino e tornò a letto. Fuori, il lago scintillava sotto la luce del primo sole. Carlsen bevve il caffè a occhi chiusi, concentrato nelle sue sensazioni. Si sentiva stanco, ma non era più quello strano sfinimento che lo tormentava da quando era tornato sulla Terra.

Selma uscì dal bagno, completamente vestita, bella e in perfetto ordine come se si fosse appena preparata per andare a cena. Si chinò su di lui e lo baciò.

— Ti spiace dare un’occhiata in corridoio per vedere se c’è qualcuno? — gli disse.

Carlsen andò a guardare. Il corridoio era deserto. Lei si strinse per un attimo a lui, poi sgusciò fuori. Carlsen richiuse la porta senza fare rumore. Provava un senso di sollievo nel ritrovarsi solo.

Aveva appena finito di vestirsi quando bussarono di nuovo. Era Fallada.

— Buongiorno. Quando sei andato a letto? — domandò Carlsen.

— Verso le due. Sai una cosa? Avevo torto. Il conte non è affatto un ciarlatano.

— Io non l’ho mai pensato.

Fallada andò a guardare dalla finestra.

— Abbiamo parlato di te — disse. — Il conte pensa che l’incontro con l’aliena abbia influito su di te più di quanto credi.

Carlsen fece per parlare, e ancora una volta sentì la profonda riluttanza a confidarsi. Poiché Fallada rimaneva in silenzio, con uno sforzo di volontà riuscì a dirgli:

— Devo parlarti.

Il suono del gong salì dal pianterreno. Fallada chiese:

— Possiamo rimandare a dopo colazione?

— Direi di sì. Anzi, sarà meglio che sia presente anche von Geijerstam.

Fallada lo guardò in modo curioso, ma non disse niente.

Gli altri, anche Selma, erano già tutti a tavola. La sala per la prima colazione era rivolta a oriente, e dalle finestre entrava la luce abbagliante del sole. — Buongiorno! Dormito bene? — chiese il conte.

— Pesantemente — rispose Carlsen. Quell’avverbio rispondeva alla domanda in modo sincero e preciso.

Andò a sedersi fra Selma e Louise. Von Geijerstam disse: — Speriamo tutti che possiate trattenervi almeno un altro giorno.

Carlsen guardò Fallada. — Dipende da Hans. Io sono libero, ma lui ha lavoro che l’aspetta.

Anneleise Freytag disse: — Oh, per favore, restate ancora un po’.

Nell’allungare la mano per prendere le fette tostate, Carlsen sfiorò le dita della ragazza francese. Istantaneamente seppe che lei era al corrente di quello che c’era stato fra lui e Selma. Non era un’intuizione ma una certezza. Ne rimase colpito. E insieme fu colpito dal desiderio che provava per Louise. Non si trattava del solito desiderio maschile di spogliare una ragazza attraente. Era qualcosa connessa alla vitalità e all’ardore che emanavano dal giovane corpo della francese. Aveva voglia di premere il proprio corpo nudo contro quello di lei e di succhiarne dolcemente la vita. Un attimo dopo si rese conto di avere lo stesso desiderio nei confronti di Anneleise, e che quel desiderio gli dava il potere di leggere nella mente delle ragazze: tutte e due sapevano che Selma aveva passato la notte con lui, e lo sapevano perché Selma aveva lasciato socchiusa la porta della propria camera, con la luce accesa. Louise era passata là davanti alle sette e un quarto, aveva dato un’occhiata dentro, e aveva visto il letto intatto.

Carlsen fece colazione soprappensiero, rispondendo alle domande a monosillabi, tutto preso dal fascino di quel suo nuovo potere.

Qualche volta aveva provato qualcosa di simile con Jelka, quando la loro relazione era molto intima: una sensazione di essere tutt’uno con lei, tanto da provare le stesse emozioni. L’aveva provato anche quando i bambini erano molto piccoli e lui li prendeva in braccio. E si ricordò di un mattino d’estate, là appoggiato a un albero, tanti, tanti anni prima. Anche allora l’aveva provato. Ogni volta si era trattato di una sensazione inconscia che non era mai arrivata al livello di reale consapevolezza.

Tentò di leggere nella mente di von Geijerstam, ma gli fu impossibile. In assenza di desiderio la mente restava impenetrabile. Fu lo stesso con Fallada. In Fallada gli parve di avvertire vagamente un certo disagio, ma quando cerò di approfondire, il contatto si interruppe.

Cercò poi di capire se il vampiro fosse ancora dentro di lui, pronto a succhiare energia per suo tramite. L’esperienza della notte precedente gli aveva insegnato come rendersi conto della sua presenza. Da quello che capiva, gli pareva che non ci fosse. Ma in tal caso, perché desiderava tanto quelle ragazze? La risposta gli causò una contrazione al cuore: lui le voleva per se stesso, non per il vampiro. Per un momento lottò contro il panico. Poi si ricordò che intendeva parlare subito a von Geijerstam del suo problema, e quel pensiero gli diede sollievo. Fu contento quando la colazione finì.

Von Geijerstam disse: — Di solito a quest’ora faccio una.camminata intorno al lago, o lo attraverso in barca. Verreste con me?

— Con piacere — disse Fallada.

Selma Bengtsson chiese: — Posso venire anch’io?

— Temo di no, mia cara. Dobbiamo discutere di certe cose. E voi dovete studiare.

La delusione della ragazza fu così intensa che Carlsen fu tentato di intercedere per lei. Mentre usciva dalla stanza si sentì addosso lo sguardo di Selma che gli chiedeva di voltarsi a sorriderle, e quello delle altre due che l’osservavano con attenzione. Uscì senza voltarsi.

La temperatura era mite, l’aria profumava di primavera. Adesso il campo vitale delle tre ragazze, non disturbava più il suo equilibrio, e Carlsen si sentì meglio. Con sollievo i suoi sensi si volsero al sole, e lui ne ricevette un piacere talmente intenso da rasentare il dolore.

Appena furono tra gli alberi, diretti all’estremità sud dell’isola, Carlsen disse: — Possiamo sederci in qualche posto? Avrei qualcosa da discutere con calma.

Von Geijerstam indicò. — C’è una panchina laggiù — disse. Qualche centinaio di metri più avanti, un ruscello finiva nel lago. Von Geijerstam disse: — Quest’acqua viene da una sorgente in cima alla collina. La chiamiamo il Pozzo di Sant’Eric. Secondo la leggenda Sant’Eric passò la notte in preghiera, vicino alla vetta, in una grotta da eremita, perché il giorno dopo doveva guidare i suoi uomini nella battaglia contro i finlandesi. E la mattina successiva, dal terreno sgorgò l’acqua sorgente, quale segno che le sue preghiere erano state ascoltate.

Una rozza panchina di legno, ricavata da un tronco, era sistemata vicino al punto in cui il ruscello si buttava nel lago. Un gigantesco olmo faceva da spalliera. Von Geijerstam si sedette.

Carlsen cominciò subito a parlare.

— La notte scorsa mi è successo qualcosa di strano. La signorina Bengtsson è venuta in camera mia.

Von Geijerstam inarcò le sopracciglia. — E che c’è di strano, mio caro Comandante?

Dal tono, Carlsen capì che il conte sapeva già.

— Lasciatemi finire, vi prego. — Di colpo, ecco che sentì di nuovo la riluttanza a parlare. Questa volta era così forte che gli parve di avere una mano stretta attorno alla gola. Arrossì. Il cuore cominciò a battere affannosamente. Quando riuscì a parlare, la sua voce suonò tesa e ansimante. Gli altri lo guardarono sbalorditi.

— Non credo che volesse passare la notte con me — disse. — In realtà so che non voleva, perché aveva lasciato la porta della sua camera socchiusa e la luce accesa. Lei era venuta soltanto per dirmi di aver sentito che le avevo rubato energia… Nemmeno io volevo passare la notte con lei. Sono sposato da cinque anni, e in tutto questo tempo non ho mai nemmeno baciato un’altra donna.

Fallada chiese: — Come ti senti?

Malgrado il sole caldo, Carlsen stava battendo i denti e il suo corpo era gelido. Strinse le mani a pugno e le premette contro le cosce. Era quasi la stessa sensazione che aveva sperimentato tante volte durante i lanci di addestramento.

Continuò a parlare con voce strozzata. — Dovete lasciarmi finire. Sapete, aveva ragione. Io sono un vampiro. Me ne sono accorto non appena Selma mi ha toccato. Quella maledetta aliena c’è ancora. È dentro di me. Non sono pazzo, ve lo assicuro. Lo so che… che vi sembrerà strano, ma anche in questo momento qualcosa cerca di impedirmi di parlare. — Si appoggiò al tronco dell’olmo, e il contatto con l’albero gli diede un certo conforto. Respirò profondamente. — Lasciatemi un momento in pace. Passerà — disse. Ci volle un po’ perché riuscisse a dominare il suo tremito. Ma sapere di aver già detto la parte più importante, gli facilitò il compito. Si asciugò il sudore freddo che gli imperlava la fronte.

Von Geijerstam disse: — State calmo. Vi dirò io qualcosa, adesso. Sapevo già quasi tutto quello che volevate dirmi. Lo sapevo già da ieri sera, quando Selma disse che avevate preso più energia di quanto le ragazze si erano aspettate. Quando poi mi avete raccontato del vostro incontro con la donna vampiro, capii subito quello che era successo. — Mise una mano su quella di Carlsen. — Tranquillizzatevi. È meno grave di quanto temete.

Carlsen disse in tono cupo: — Spero che abbiate ragione.

Fallada gli chiese: — Potresti descriverci come sono andate le cose?

— Tenterò.

Appena riprese a parlare, Carlsen si sentì più calmo. Descrivendo il fenomeno si concentrava sull’esattezza dei particolari, e questo semplificava il compito. Finì il suo racconto parlando delle sue percezioni straordinarie, di cui si era reso conto durante la colazione.

Dopo un breve silenzio pensoso, von Geijerstam disse: — Dunque adesso siete convinto di essere diventato un vampiro?

— Perché, voi non lo credete?

— No. Credo piuttosto che siate diventato cosciente del vampirismo esistente in tutte le creature umane. Nient’altro.

Carlsen si controllò a stento.

— Avrei potuto prosciugarla di tutte le sue energie vitali, fino a farla morire! E questo lo chiamate vampirismo esistente in tutte le creature umane?

— No, ma credo che questa sia una possibilità esistente a questo punto dell’evoluzione umana. Quella creatura non vi ha trasformato in vampiro, Comandante. Ha solo risvegliato il seme di una nuova evoluzione. Ed è una evoluzione che ha possibilità sia di bene sia di male.

Carlsen chiese subito: — In che modo?

— Per cominciare, vi ha dato percezioni particolari e una maggiore capacità di comprensione. Voi non avete distrutto Selma, no? Anzi, le avete trasmesso energia. Voi sentite istintivamente che l’amore è dare e ricevere.

Seguì un lungo silenzio interrotto solo dal cinguettio degli uccelli e dal battere dell’acqua sui sassi della riva.

— Rimane però sempre il fatto che mi ha trasformato in vampiro. Mi ha dato desideri abnormi che prima non avevo… e il potere di soddisfarli.

Fallada e von Geijerstam protestarono contemporaneamente. Fallada disse: — Scusatemi…

Von Geijerstam disse: — Ma non capite? Ogni uomo è in grado di avere ogni specie di desiderio. Avete letto la mia relazione sul primo caso di vampirismo in cui mi sono imbattuto?

— Il giovane pittore?

— Sì. Per essere esatti era uno scultore, non un pittore. Si chiamava Torsten Vetterlund. Aveva un fisico poderoso e possedeva naturali inclinazioni al sadismo, anche se non molto accentuate. Quella ragazza, Nina von Gerstein, riuscì a trasformarlo in un masochista nevrotico. Capite il perché?

Carlsen annuì. Fallada invece chiese, sorpreso: — Perché?

Carlsen rispose per von Geijerstam: — Perché non poteva succhiare energia da un sadico.

— Esatto — disse il conte. — Il sadico vuole assorbire, non essere assorbito. Perciò Nina gli ha fatto mutare orientamento. C’è riuscita soddisfacendo tutte le sue fantasie di sadismo finché lui non si è trovato a dipendere completamente da lei. Dopo averlo ridotto suo schiavo, Nina ha potuto cominciare a sottrargli energia.

— E come l’avete curato? — chiese Fallada.

— È stato molto interessante. Notai subito elementi contraddittori nei sintomi. Lasciato dalla ragazza, Torsten diventò un esibizionista. Un evidente segno di masochismo: godeva ad autoumiliarsi. Lui però mi confidò anche di aver sviluppato il desiderio di spogliare i bambini e di morderli. E questo era sadismo. Molti sadici hanno in sé anche elementi di masochismo. E viceversa. Ma io mi convinsi che lui stava cercando di combattere il masochismo sviluppando il suo ritrovato sadismo. Mi parlò delle fantasie erotiche che l’avevano assillato prima del suo incontro con Nina. Erano tutte tendenzialmente sadiche. Mi raccontò di una prostituta, che aveva frequentato regolarmente. La donna gli permetteva di legarla prima di fare l’amore. A questo punto la soluzione fu chiara: avrei dovuto incoraggiarlo a sviluppare di nuovo le sue tendenze per il sadismo. Ricominciò a frequentare quella prostituta. Poi conobbe una commessa alla quale piaceva essere frustata. Andò a finire che la sposò, e vissero entrambi felici.

— E il vampirismo cessò?

— Sì, cessò. Non posso pretendere d’essere stato io a curarlo. Aveva già cominciato a curarsi da sé prima di consultarmi.

Carlsen fece un sorriso acido. — Seguendo la stessa logica, io allora dovrei trasformarmi in masochista.

Von Geijerstam fece schioccare le dita. — No, ma mi viene in mente una cosa — disse con enfasi. — Me ne ero dimenticato! — Si voltò a guardare il lago, la fronte corrugata. Carlsen e Fallada aspettarono il seguito. Poi il conte si alzò di scatto e disse: — Venite. Voglio presentarvi una mia inquilina.

Fallada disse: — Non sapevo che aveste anche inquilini.

— Venite — si limitò a ripetere von Geijerstam. E si avviò verso la collina, lungo il sentiero in salita. Fallada diede un’occhiata a Carlsen, e si strinse nelle spalle. Entrambi seguivano von Geijerstam. Il sentiero costeggiava il ruscello. — Vi ricordate quello che vi ho detto della sorgente di Sant’Eric? — disse von Geijerstam voltandosi. — Bene, là c’è una vecchia lettone che abita in uno dei miei “cottage”. È una veggente.

Il sentiero si fece più ripido, e il folto tappeto di aghi di pino diventò più sdrucciolevole. Gli alberi erano così fitti che il sole quasi non li penetrava. Dopo pochi minuti di quella salita, Carlsen e Fallada cominciarono ad ansimare. Von Geijerstam invece camminava svelto davanti a loro, per niente in difficoltà. Si fermò ad aspettarli. — Sono contento di aver pensato a lei. È una donna eccezionale. Una volta abitava dalle parti di Skarvjö, ma quei campagnoli avevano paura di lei. Il suo aspetto è un po’… — La fine della frase venne coperta dai latrati di un cane. Una bestia enorme, col pelo color della creta, correva verso di loro. Von Geijerstam tese una mano. Il cane si fermò, l’annusò, poi si mise a trotterellargli al fianco.

Von Geijerstam si fermò ai margini di una radura. Il terreno, lì, era cosparso di rocce. Oltre la radura, sorgeva una piccola costruzione di legno. Il ruscello le passava accando formando, in quel punto, una cascata. Von Geijerstam gridò: — “Labrït mate”. — Ma nessuno rispose.

Allora von Geijerstam disse a Carlsen: — Date un’occhiata alla sorgente mentre io vado a vedere se sta ancora dormendo. — Indicò una sporgenza rocciosa. — Quello è il Pozzo di Sant’Eric. I malati di artrite, di gotta o di lebbra dovrebbero bagnarsi in quell’acqua.

Preceduti dal cane, Carlsen e Fallada salirono una scala di sassi che portava verso la roccia. Sopra la sorgente c’era una specie di tetto, una lastra di granito, su cui i licheni avevano tessuto una specie di velluto verde. L’acqua, protetta tutt’attorno da altre lastre, sgorgava da sotto una enorme pietra inclinata in su. Carlsen si inginocchiò a guardare nell’acqua. Era limpidissima, ma tanto profonda che non si riusciva a vedere il fondo. Gli venne fatto di pensare a un oblò della “Hermes”, e nello stesso momento rivide, con allucinante chiarezza, lo scafo del relitto spaziale alla deriva, come se fosse riflesso in quell’acqua. Vi intinse una mano. L’acqua era gelida, e dopo un momento lui sentì le dita indolenzite.

Si rialzò, appoggiandosi alla roccia.

— Non ti senti bene? — chiese Fallada.

— Forse sto diventando matto — disse Carlsen — ma per il resto sto bene — e sorrise.

Von Geijerstam apparve in fondo alla discesa. Accanto a lui c’era una vecchia vestita di marrone. Mentre scendevano per raggiungerli, Carlsen vide che le mancava il naso, e che aveva un occhio più grande dell’altro. Eppure non faceva ribrezzo. Aveva le guance rosse come mele.

Von Geijerstam disse: — Questa è Moa. — Poi si rivolse alla donna in lettone e le presentò Fallada e Carlsen. La vecchia sorrise e accennò un inchino, poi fece segno di seguirla in casa. Carlsen fu colpito dal fatto che, malgrado le sue deformità, la donna dava un’impressione di giovinezza e di dolcezza.

La stanza in cui entrarono era ampia e stranamente spoglia. La riscaldava una grande stufa sistemata al centro. Il pavimento era coperto da una stuoia rozza. I soli mobili erano un letto basso, un tavolo, un armadio, e una vecchia ruota da tessitrice. Carlsen notò con perplessità una rampa di scale che saliva a una specie di terrazzino con ringhiera, e lì finiva tutto.

La donna parlò in lettone, indicando il pavimento. Von Geijerstam fece da interprete. — Si scusa per la mancanza di sedie — disse. — Lei si siede sempre sul pavimento. È una specie di… disciplina mistica.

La vecchia indicò una serie di cuscini disposti lungo una parete. Carlsen e Fallada si sedettero. La donna si curvò verso Carlsen, gli studiò la faccia e gli posò una mano sulla fronte. Von Geijerstam tradusse le parole della donna. — Vuol sapere se siete malato.

— Ditele che non lo so — disse Carlsen. — E che è proprio quello che vorrei sapere.

La donna aprì l’armadio e ne tolse un filo avvoltolato. Ne attaccò un’estremità al suo antico filatoio. Dall’altra estremità pendeva una pallina di legno, del diametro di circa due centimetri. Von Geijerstam spiegò: — Adesso vi esaminerà col pendolo.

— A che cosa serve?

— È una specie di misuratore lambda. Misurerà il vostro campo vitale.

Fallada disse: — Non so come, ma quell’aggeggio funziona. Avevamo una vecchia cameriera che se ne serviva.

— E adesso, cosa sta facendo? — chiese Carlsen, osservando i movimenti della vecchia.

— Sta misurando la lunghezza di filo giusta per un uomo. Circa sessanta centimetri.

La donna chiese qualcosa a Carlsen. Von Geijerstam tradusse.

— Vi prega di stendervi sul pavimento. Dice che è pulito.

Carlsen si sdraiò sulla stuoia guardando la donna che gli stava accanto, in piedi. La vecchia teneva il pendolo sopra di lui, col braccio teso. E il pendolo subito si mise a oscillare avanti e indietro, avanti e indietro… Qualche secondo, poi prese a muoversi in cerchio. Dai movimenti delle labbra, Carlsen immaginò che la donna stesse contando. Dopo un minuto, il pendolo tornò al movimento di va e vieni. La vecchia sorrise e disse qualcosa a von Geijerstam. Il conte tradusse per Carlsen. — Dice che tutto va bene. Non siete malato e il vostro campo di salute è eccezionalmente forte.

— Bene. E adesso cosa sta facendo?

La vecchia stava allungando la cordicella.

— Altri esami.

La vecchia protese di nuovo il braccio sopra Carlsen. Questa volta lui sentì una certa tensione in von Geijerstam. Osservò con attenzione e curiosità i movimenti del pendolo che passarono nuovamente dalle oscillazioni avanti e indietro ai movimenti circolari. La donna riprese a contare. Poi disse qualcosa sottovoce a von Geijerstam. Quando il pendolo tornò a cambiare tipo di oscillazioni, lei lo lasciò scendere fin sul pavimento, scuotendo la testa. Restò pensosa a osservare Carlsen, la fronte corrugata.

Von Geijerstam disse: — È finito. Potete rialzarvi.

— A che cosa è servito questo esperimento? — domandò Carlsen.

Von Geijerstam parlò alla donna in lettone. La risposta fu lunghissima. Carlsen tentò di caprie qualcosa. Aveva imparato un po’ di lettone quando studiava a Riga. Riconobbe la parola “bistams”, che voleva dire pericoloso, e il termine “briesman”, pericolo.

Von Geijerstam le chiese: — “Ne sieviete?” — e lei si strinse nelle spalle, e rispose: — “Varbut”. — Poi riprese il pendolo, e lo tenne sospeso sopra di lui, che ora stava seduto con le spalle poggiate alla parete. Dopo un po’ il pendolo riprese a descrivere giri concentrici. La donna si spostò verso Fallada, e tenne il pendolo sospeso sopra lo stomaco dello scienzato. Il pendolo si mosse solo avanti e indietro. La donna tornò a stringersi nelle spalle. — “Loti atvainojos” — disse, e gettò il pendolo sul letto.

Carlsen chiese: — Perché è scontenta?

Von Geijerstam disse: — Risultato sorprendente, ma non del tutto inaspettato. Quando Torsten Vetterlund, lo scultore, era sotto il potere di Nina, il pendolo dava un responso come se lui fosse una donna. L’ho detto a Moa, ma lei mi ha fatto notare che la stessa lunghezza, circa sessantatré centimetri, può anche significare pericolo.

Carlsen chiese: — Volete dire che da me ha avuto questa reazione?

Sì.

Carlsen sentì una stretta allo stomaco. Si rese conto di star male e di essere esausto. In pochi secondi quella sensazione si fece così acuta, che temette di vomitare. La fronte gli si era imperlata di sudore. Mentre tentava di alzarsi in piedi udì il cane ringhiare. La bestia stava indietreggiando verso la porta, col pelo ritto, sbarrando la strada.

— Cosa volete fare? — domandò il conte.

— Mi sento male… Ho bisogno di prendere una boccata d’aria fresca.

— No! — Il tono del conte fu così brusco che Carlsen lo guardò, sorpreso. Von Geijerstam lo afferrò per un polso. — Non capite cosa sta succedendo? Guardate il cane. Il vampiro è tornato, non è così? Chiudete gli occhi! Non ne sentite la presenza?

Carlsen chiuse gli occhi, ma gli fu impossibile analizzare le sue sensazioni. Era sotto una specie di delirio acuto.

— Mi sembra di essere sul punto di svenire. — Fece di nuovo per avviarsi alla porta. Il cane si accucciò ringhiando, e mostrò i denti. Von Geijerstam e Fallada si misero ai fianchi di Carlsen. Lui si accorse di vacillare. Von Geijerstam disse: — Dobbiamo fare un altro esperimento, il più importante. Venite a sdraiarvi qui.

Lo aiutarono ad attraversare la stanza. Carlsen sentiva di non avere più volontà, come se tutta la sua forza gli fosse stata sottratta. Si distese supino, ma subito si sentì così male che dovette girarsi sullo stomaco. Il ruvido tappeto, pungente sotto la pelle della fronte, sapeva di polvere. Carlsen chiuse gli occhi e gli parve di andare alla deriva in un mondo crepuscolare, avvolto in una specie di foschia nera. Di colpo capì cosa stava succedendogli.

Il vampiro era lì, ma non si interessava a lui: stava comunicando con l’astronave ancora alla deriva nel vuoto spaziale. Adesso sentiva la fame feroce che emanava dal relitto. Gli uomini della Terra se ne erano andati e gli alieni si sentivano traditi. Erano furenti di essere ancora là, non riuscivano a capire che cosa non avesse funzionato. E il vampiro sulla Terra aveva difficoltà a spiegarlo, perché si trovava in un altro mondo, perché era cosciente mentre loro erano addormentati. L’agonia dei compagni lo colpiva dolorosamente. Un dolore quasi fisico. Simile a un nastro sensibilissimo, Carlsen registrava quel tormento.

Ovattata dalla nebbia scura, udì la voce di von Geijerstam.

— Giratevi un momento, per favore.

Con uno sforzo, lui aprì gli occhi e si girò sulla schiena. Era lì solo a metà, é nuvole scure si frapponevano fra lui e gli altri.

Riuscì a vedere la donna. Era salita sulla scala, e adesso, dal terrazzino, faceva calare il pendolo a piombo sopra il suo petto. Il pendolo cominciò a descrivere grandi cerchi. Carlsen sentì grosse gocce di sudore scorrere dalle ascelle giù per i fianchi.

Poi, finalmente, la voce di von Geijerstam disse: — Potete alzarvi, Comandante.

Con uno sforzo doloroso Carlsen si puntellò su un gomito. Il cane si mise ad abbaiare furiosamente.

Carlsen appoggiò la schiena contro i gradini di legno, timoroso di chiudere gli occhi, timoroso di venire nuovamente attirato in quel mondo di fame e di dolore.

Si rese conto che la donna era vicino a lui e gli porgeva qualcosa. In svedese stentato gli disse: — Prendete e annusate.

Dall’odore, Carlsen capì che era aglio. Scosse la testa. — Non posso — disse.

Von Geijerstam intervenne. — Vi prego, fate come vi dice.

Carlsen prese il barattolo e se lo avvicinò alle narici. Aveva odore di disintegrazione e di morte. Gli venne un convulso di tosse, e le lacrime gli riempirono gli occhi. Poi, d’un tratto, il malessere passò. Fu come se una porta fosse stata chiusa, azzittendo un rumore che spezzava i nervi. Il cane non abbaiava più.

Fallada gli posò una mano sulla spalla. — Come ti senti, adesso? — chiese, e Carlsen gli fu grato per la sincera preoccupazione evidente nella sua voce.

— Molto meglio, grazie — rispose. — Posso uscire, adesso? — Il desiderio d’aria fresca era come una sete ardente.

Lo presero per le braccia e lo aiutarono a uscire. Si sedette su una panca di legno, le spalle appoggiate alla parete. Il sole gli batté sulle palpebre chiuse.

Sentì che qualcuno lo prendeva per un polso. Era la vecchia Moa. Si era seduta su uno sgabello, di fronte a lui, l’espressione intenta.

Lo guardò negli occhi e parlò in lettone. Von Geijerstam tradusse: — Non arrendetevi alla paura. La paura è il peggior nemico. Un vampiro non può distruggervi senza il vostro consenso.

Carlsen riuscì a sorridere. — Lo so — disse.

La donna parlò ancora. — I vampiri sono cattiva fortuna — tradusse il conte.

— So anche questo.

La vecchia gli strinse il polso, guardandolo fisso negli occhi. Questa volta parlò in svedese: — Ricordatevi che se lei è dentro di voi, anche voi siete dentro di lei.

Carlsen corrugò la fronte, scuotendo la testa. — Non capisco…

La vecchia sorrise e si alzò. Disse qualcosa a von Geijerstam, in lettone, poi rientrò in casa. Tornò subito dopo, e mise qualcosa in mano a Carlsen. Era un cerchio di ottone con attaccato una cordicella.

— Moa vi raccomanda di legarvelo intorno al braccio destro. Protegge dal male. È un talismano lettone.

Carlsen disse: — “Loti pateicos”.

La vecchia sorrise e accennò un inchino.

Von Geijerstam disse: — Ve la sentite di camminare fino a casa?

— Sì, mi sento molto meglio.

Von Geijerstam si inchinò alla vecchia Moa. Lei gli prese una mano e gliela baciò. Rimase a guardarli, una mano sulla testa del cane, finché non furono oltre la radura.

Uscendo dal bosco udirono delle risate. Le tre ragazze stavano nuotando nel lago. Anneleise nuotava sulla schiena, scalciando grandi spruzzi d’acqua. Quando Selma Bengtsson li vide, agitò una mano gridando a Carlsen: — Vostra moglie vi ha cercato.

— Ha lasciato detto qualcosa?

— No.

Von Geijerstam disse: — Richiamatela voi. Se non ci fosse niente di urgente, non potreste restare un altro giorno?

— Siete molto gentile.

La sensazione di vivere in un sogno l’aveva abbandonato. Adesso era solo fisicamente stanco. Voleva stendersi e dormire. L’idea di rilassarsi per un giorno l’allettava.

Entrati in casa, von Geijerstam disse: — Usate l’apparecchio del mio studio. Al piano di sopra. — Lo accompagnò in un piccolo locale odoroso di cuoio e di sigari. L’odore di cuoio veniva dalla vecchia poltrona, sistemata un po’ troppo vicino al fuoco del camino.

Sedendosi alla scrivania, Carlsen disse: — Permettete che vi presenti mia moglie? È stata lei a scoprire il vostro libro, e sono certo che sarà contenta di salutarvi.

— Mi farà molto piacere — disse il conte.

Riuscì ad avere subito la comunicazione. Sullo schermo apparve Jeanette che esclamò: — Papà! Sei sulla Luna?

— No, tesoro. Solo in Svezia. Passami la mamma.

Si sentì la voce di Jelka. — Sono qui. Ciao! — Poi la si vide prendere in braccio Jeanette. — Come stai, caro? — Jelka non si era mai sentita a suo agio davanti al teleschermo. Aveva sempre l’aria distaccata e fredda di una segretaria.

— Sto benissimo, grazie.

— Torni questa sera?

— Non so ancora. Forse rimango un altro giorno. Sono ospite nel castello del conte von Geijerstam. Eccolo. — Von Geijerstam si mise in modo da apparire sul teleschermo accanto a Olaf. Carlsen fece una più corretta presentazione, e il conte e Jelka si scambiarono i soliti convenevoli. Jeanette intervenne chiedendo: — Papà, cos’è un priministro?

— … Un cosa?

Jelka disse: — Oh, sì. L’ufficio del Primo Ministro voleva mettersi in comunicazione con te. Ma io non ho trovato il numero che mi avevi lasciato.

Carlsen sentì un disagio improvviso, come una ventata gelida sulla nuca. — Cosa volevano?

— Non so.

— E come hai trovato poi il numero?

— Ho dovuto chiamare Fred Armfeldt. La segretaria del Primo Ministro dovrebbe richiamare fra poco. Le do questo numero?

— No.

Jelka fu colpita dalla veemenza della risposta. — Perché no? — chiese.

— Perché… perché non voglio essere seccato da nessuno.

— Ma se fosse importante?

— Lascia perdere. — Con lo stesso tono irritato aggiunse: — E se richiamano, chiunque chiami, rispondi che non sai dove sono.

Lei si voltò dicendo: — C’è qualcuno alla porta. Allora, quando torni?

— Domani pomeriggio.

Chiusa la comunicazione, von Geijerstam chiese: — Avete qualcosa contro il vostro Primo Ministro?

Carlsen si passò una mano sugli occhi, e scosse la testa. — No — disse. — Solo che… — Si strinse nelle spalle.

— Che cosa?

Carlsen lo guardò. — Che importanza ha?

— Mi piacerebbe saperlo.

Carlsen guardò dalla finestra, corrugando la fronte. Disse: — Io… Non so… Forse è solo che mi piace stare qui.

Si sentì bussare alla porta, e Fallada entrò dicendo: — Disturbo?

— No. Venite.

Carlsen disse: — Hai lasciato detto ai tuoi assistenti dove saremmo andati?

Fallada rispose, sorpreso: — Certo. — Poi corrugò la fronte e si grattò la punta del naso. — Ma ora che ci penso, non sono tanto sicuro. Intendevo farlo… Perché me lo chiedi?

— Oh, niente.

Von Geijerstam sorrise a Fallada. — Dunque vi siete dimenticato di lasciare l’indirizzo. Il Comandante Carlsen invece l’ha lasciato dove era possibile che andasse perso. E così nessuno sa dove siete. Come psicologo, come lo spieghereste?

— Sì, giusta osservazione, la vostra — disse Fallada. — Anche se Carlsen l’indirizzo in realtà l’ha lasciato, e il fatto che si sia perso è più un normale incidente.

— Però ha appena detto a sua moglie di riferire al Primo Ministro che non sa dove si trovi lui.

Fallada disse: — Questo si spiega facilmente. Due giorni fa c’è stata una riunione col Primo Ministro. Lui non crede che questi vampiri siano pericolosi, quindi, né Carlsen né io fidiamo molto in lui.

Von Geijerstam, in piedi vicino alla finestra, stava guardando fuori. Disse lentamente: — Secondo la mia esperienza, quando il nostro subcosciente ci dà un avvertimento, dovremmo ascoltarlo.

— Cosa volete dire? — domandò Carlsen.

Von Geijerstam si sedette sull’orlo della scrivania, e guardò Carlsen dritto in faccia. — Ricordate l’ultima cosa che vi ha detto Moa?

— Sì, ma non l’ho capita.

— Ha detto: “Se lei è dentro di voi, anche voi siete dentro di lei”.

— Continuo a non capire cosa significa.

— Voleva dire che se questa aliena è in contatto con la vostra mente, anche voi siete in contatto con la mente dell’aliena.

— In che modo? — chiese subito Fallada.

Von Geijerstam chiese a Carlsen: — Siete mai stato ipnotizzato, Comandante?

Fallada fece schioccare le dita. — Certo! Vale la pena di tentare!

Carlsen scosse la testa. Von Geijerstam chiese: — Sareste disposto a lasciarmi tentare?

Carlsen lottò contro la sensazione di affondare. Respirò a fondo. — È probabile che non mi danneggi più di così.

— L’idea vi dà fastidio?

In tono di scusa Carlsen disse: — È solo che… ecco, comincio a sentirmi come se la mia mente non mi appartenesse più.

— Capisco. Ma non dovete preoccuparvi. Resterete cosciente per tutto il tempo.

Carlsen chiese, dubbioso: — Ma è possibile?

— Certo. Io preferisco che i miei soggetti restino completamente coscienti.

— Non c’è alcun pericolo — disse Fallada. — Io sono stato ipnotizzato almeno una decina di volte. Quand’eravamo studenti era uno dei nostri passatempi.

Carlsen disse: — Va bene. Quando?

— Perché non adesso?

Carlsen sorrise. — Adesso probabilmente mi addormenterò. Sono alquanto stanco — disse.

— Non ha importanza. — Von Geijerstam chiuse le tende. Poi accese la lampada della scrivania.

Fallada chiese: — Preferite che me ne vada?

— No. A meno che lo preferisca il Comandante.

Da un armadio il conte prese una specie di asta inserita in un piedestallo. La cima era ricurva, a uncino. All’uncino von Geijerstam appese una sfera di cromo sostenuta da un cordoncino. La sfera cominciò a dondolare leggermente nella luce della lampada.

Fissandola, Carlsen disse: — No. Può restare.

Von Geijerstam girò la lampada in modo che la faccia di Carlsen fosse in ombra.

— Questa sfera ha lo scopo di stancarvi la vista — disse. — Fissatela finché sentirete gli occhi stanchi, poi chiudeteli. Voglio che vi rilassiate completamente. Posso ipnotizzarvi solamente se voi collaborate. La cosa più importante è che vi sentiate comodo e rilassato.

La voce di von Geijerstam continuò, calma e lenta, mentre il pendolo continuava a dondolare. Carlsen si abbandonò comodamente nella capace poltrona di cuoio. Oltre la sfera dondolante poteva vedere vagamente in penombra Fallada, seduto sul divano; le fiamme del camino che si riflettevano nei suoi occhiali. Von Geijerstam stava dicendo, a voce bassa: — Benissimo… Rilassatevi e ascoltate attentamente quello che vi dirò. Non pensate a niente… I vostri occhi sono stanchi… molto stanchi. Le palpebre si fanno pesanti. Avete tanta voglia di chiudere gli occhi…

Era vero. Aveva gli occhi stanchi. Li chiuse, e gustò una piacevole sensazione di calda oscurità. La voce di von Geijerstam continuò: — Il vostro corpo è pesante e rilassato. Vi sembra di sprofondare nella poltrona. State respirando profondamente e regolarmente, profondamente e regolarmente…

Carlsen riprovò il caldo e confortevole senso di fiducia che aveva sentito una volta da bambino, quando l’avevano anestetizzato per un piccolo intervento. Era conscio unicamente del suo respiro e della voce di von Geijerstam. Poi la voce tacque.

Sentì che von Geijerstam gli sollevava il braccio destro e subito lo lasciava ricadere. Era una sensazione strana, come svegliarsi da un sonno profondo e trovarsi in un letto comodo e caldo, senza alcun desiderio di muoversi. Il passare del tempo non aveva importanza. Sarebbe stato felice di galleggiare in quello stato di piacere astratto per giorni, per settimane.

Von Geijerstam chiese: — Potete parlare?

Con uno sforzo, per vincere il languore, Carlsen rispose: — Sì.

— Sapete dove siete?

— In Svezia.

— Siete una persona sola o due?

— Una.

— Ma questo vampiro femmina non è dentro di voi?

— No.

— Però era dentro di voi la notte scorsa?

— No.

— Non era dentro di voi?

— No. Era in contatto con me. La sua mente era in contatto con la mia. Come con un teleschermo.

— È in contatto con voi, adesso?

— No.

— Il vampiro sa dove vi trovate voi adesso?

— No.

— Perché non lo sa?

— Non me l’ha chiesto.

— Se ve lo chiedesse, glielo direste?

— Sì.

— E voi sapete dov’è il vampiro?

— Sì.

— Dov’è?

— Non so il nome del posto…

— Però sapete dov’è il vampiro?

— Sì.

— Potete descrivere questo posto?

Per un po’ Carlsen non rispose. Stava camminando accanto a lei, su un sentiero fangoso. Era piovuto. La donna indossava un abito sgargiante, a strisce rosse e gialle. In lontananza si vedevano i grattacieli di una città.

Von Geijerstam domandò: — Dov’è adesso il vampiro?

— Sta cercando un uomo.

— Che uomo?

— Un uomo qualsiasi. Vuole qualcuno giovane e sano… qualcuno che lavori in una fabbrica.

— Ha intenzione di ucciderlo?

— No.

— Perché no?

— Ha paura che la prendano.

La voce di Fallada intervenne. — Come potrebbero prenderla?

— Il corpo la tradirebbe.

— Allora cosa spera di fare? — chiese von Geijerstam.

— Spera di trovare un uomo sano e forte, e di sedurlo. Prenderà un po’ di energia da lui, ma non tanta da ucciderlo.

— E poi?

— Assorbirà energia da lui… come l’assorbe da me.

Fallada fece schioccare le dita. — Ecco! È questo che vogliono: formare una rete di donatori d’energia — disse e rivolto a Carlsen chiese: — È così?

Carlsen rispose: — Sì.

Von Geijerstam chiese: — Che corpo sta usando, adesso?

Carlsen esitò. Era quasi impossibile leggere nella mente della aliena. Se avesse tentato di farlo, lei se ne sarebbe accorta, si sarebbe allarmata. Ma c’era un’altra mente. Carlsen disse: — Credo che si chiami Helen. È un’infermiera.

— In un ospedale?

— Mi sembra di sì.

— Helen è morta, adesso?

— No. È ancora nel suo corpo.

— Volete dire che ci sono due persone in un corpo: l’infermiera Helen, e il vampiro? — La voce di von Geijerstam rivelava la sua tensione.

— Sì.

Fallada disse. — Che ne è stato dell’altro corpo? Quello dell’uomo che il vampiro aveva invaso in precedenza?

Carlsen non rispose. Sapeva che la risposta era ben chiusa nella mente dell’aliena e che quella mente era una immensa cassaforte d’acciaio.

Von Geijerstam gli chiese: — Potete dirci qualcosa dell’altro corpo? Qualcosa che ci possa dare un indizio?

E ancora Carlsen poté leggere nella mente dell’infermiera.

— C’è un altro corpo… ma è nell’ospedale.

— Uomo o donna?

— Uomo.

— Sapete come si chiama?

— Jeff.

— E il cognome?

— Non lo so.

— Avete detto che è all’ospedale? Significa che è morto?

— No.

— Potete dirci qualcosa di questo ospedale?

— È alla periferia di una città. Su una collina.

— Sapete il nome?

— No.

— O dove si trova, più esattamente?

— No.

Seguì un silenzio. Fallada e von Geijerstam parlarono sottovoce fra loro, ma a Carlsen non interessava. Era come se parlassero una lingua sconosciuta. Lui era lontano, stava godendosi il fresco e la luce del sole riflessa nelle pozzanghere. Fallada domandò: — Cosa sta facendo adesso?

— Si è seduta su una panchina, lungo una strada. Sta guardando un uomo.

— Cosa sta facendo l’uomo?

— È seduto in automobile, poco lontano. Legge il giornale.

La voce di Fallada domandò: — Puoi leggere il numero sulla targa della macchina?

— Sì.

— Leggilo.

— QBX 5279L.

— Ci sono altre macchine vicino?

— Sì. C’è una “Temeraire” rossa, posteggiata vicino alla siepe. Una giovane coppia sta mangiando panini.

— Che numero ha la “Temeraire”?

— 3XJ UT9.

— E il vampiro cosa sta facendo adesso?

— Aspetta. Ha incrociato le gambe, e ha rialzato un po’ la gonna. Fa finta di leggere un libro.

Fallada e von Geijerstam dissero qualcosa contemporaneamente. Poi Fallada chiese: — Che cos’è successo agli altri due vampiri?

— Uno è andato a New York.

— E il terzo?

— È ancora a Londra.

Come in un sogno, la scena si trasformò nello Strand, a Londra. Lui era in piedi in cima alla scalinata di marmo che scendeva fino al fiume. L’altro alieno stava stringendo la mano a un uomo basso, grasso: l’incaricato d’affari cinese.

— Sapete il nome di quello che è a Londra?

— È difficile da pronunciare. Noi lo pronunceremmo Ykx-By-Orun.

— Ma come si chiama adesso? Qual è il nome del corpo che il vampiro sta usando?

— Everard Jamieson.

Le esclamazioni lo lasciarono indifferente. Lo interessava di più il lucido battello a razzo che scivolava sul fiume, senza disturbare con la scia spumosa le imbarcazioni più piccole.

Risentì la voce del conte. — Fra trenta secondi vi sveglierò… Voi vi sveglierete sentendovi riposato e rinfrescato. Il vostro sonno è già più leggero. State cominciando a svegliarvi. Conterò da uno a dieci, e quando dirò dieci sarete perfettamente sveglio. Uno, due…

Carlsen aprì gli occhi e per un momento non capì dove fosse. Credeva d’essere a letto, a casa sua, e non riusciva a capire come mai fosse semisdraiato in quella poltrona. Poi il conte aprì le tende, e dalla finestra entrò la luce del sole. Carlsen si sentiva come quando ci si sveglia da un lungo sonno tranquillo. Conservava il vago ricordo di un fiume e di un battello a razzo, ma mentre cercava di mettere a fuoco l’immagine, il ricordo svanì.

Eccitato, Fallada gli chiese: — Ti rendi conto di quello che ci hai appena rivelato?

— No. Che cosa?

— Ci hai detto che uno dei tre alieni ha invaso il Primo Ministro inglese.

La rivelazione colpì Carlsen con la violenza di un pugno.

Fallada chiese, meravigliato: — Non ti ricordi?

— Avrei dovuto ordinarvi di ricordare tutto. Mi spiace di non averlo fatto — disse von Geijerstam. E aggiunse: — Ci avete detto che uno degli alieni ha invaso il corpo di un’infermiera. Un secondo si è impossessato del Primo Ministro inglese, Jamieson. — Premette un tasto sulla scrivania, dicendo: — Ascoltate, ho registrato tutto.

Per circa sette minuti Carlsen ascoltò attentamente la sua voce registrata sul nastro. Era una voce assonnata e atona. No, non ricordava niente di tutto quello che aveva detto.

Per un attimo rivide una ragazza con un vestito molto colorato, i capelli svolazzanti nel vento. Ma il ricordo svanì immediatamente.

Dopo che la sua voce ebbe pronunciato il nome di Jamieson, von Geijerstam spense il registratore.

— Visto? Sia voi sia Fallada avevate intuito che c’era qualcosa che non andava, in questo Jamieson. Il vostro subconscio è più sensibile di voi.

Fallada disse: — Mi sembra ancora incredibile. Sembrava così normale l’altro giorno…

Guardò Carlsen che si strinse nelle spalle dicendo: — Infatti.

Fallada si rivolse a von Geijerstam: — Non è possibile che Carlsen si sia sbagliato? Che la sua antipatia istintiva per Jamieson l’abbia influenzato?

— Non sarà difficile scoprirlo — disse von Geijerstam. Indicò il foglietto su cui aveva scritto i numeri delle targhe. — Con i numeri, l’Ufficio Immatricolazione potrà fornirvi gli indirizzi dei proprietari. Se questo particolare risulterà esatto, dovrebbe esserlo anche il resto.

Carlsen disse: — Chiamiamo Heseltine.

— Bene — disse Fallada e andò alla scrivania. — Vi dispiace se chiamiamo Londra? — chiese a von Geijerstam.

— Fate pure — rispose il conte.

A Londra il sergente di servizio rispose: — Pronto, New Scotland Yard.

— L’ufficio del Commissario per favore — disse Fallada.

Sullo schermo comparve la segretaria di Heseltine.

— Oh, dottor Fallada! Stavamo cercando di rintracciarvi.

— Qualcosa di urgente?

— Il Primo Ministro voleva parlarvi.

Fallada e Carlsen si scambiarono un’occhiata. Fallada chiese: — Sir Percy è in ufficio?

— Purtroppo no. È a Downing Street, dal Primo Ministro. Devo dirgli di chiamarvi?

— Non importa, grazie. Ma vorrei lasciargli detto qualcosa. Annotatevi questi due numeri di targa. — Glieli dettò. — Dite a Sir Percy che dovrebbe farmi avere gli indirizzi dei proprietari.

— Posso farlo subito io. Se potete aspettare in linea…

— No, grazie. Sarò a Londra oggi pomeriggio. Chiamerò appena arrivo. Dite al Commissario che i numeri sono relativi al caso… Ditegli solo così. E ditegli di non parlarne con nessuno finché non ci saremo visti.

— Va bene. Dove siete in questo momento?

— A Istanbul — rispose Fallada sorridendo.

Chiusa la comunicazione, von Geijerstam disse: — Dunque ripartite oggi? Ne sono molto spiacente.

— Purtroppo dobbiamo trovare al più presto quella donna — disse Fallada.

— E quando l’avrete trovata?

— Non so proprio cosa faremo. Avete qualche consiglio?

Von Geijerstam si sedette sul divano, e per qualche secondo non parlò. Poi disse: — Temo che i miei consigli sarebbero inutili. Ma ve ne darò ugualmente uno. Il problema principale è quello di costringere il vampiro a ritirarsi. Ricordate le ultime scene del film “Dracula”? Vi sembrerà assurdo, ma quelle scene mostravano una profonda conoscenza della psicologia di un vampiro. Un vampiro costretto a fuggire perde tutto il suo vantaggio. Una volta in un mio libro definii il vampirismo una forma di karate mentale. Si basa sull’attacco, sull’aggressione. Il vampiro è congenitamente un criminale. È come un ladro.

Fallada annuì. — Come uno stupratore. Se la vittima si rivoltasse, e cercasse di violentare lui, il vampiro perderebbe ogni brama sessuale.

Von Geijerstam rise. — Proprio così. Dunque, se trovaste il vostro vampiro, non abbiate paura. Ricordate però che io non so niente dei poteri di questi alieni, quindi può anche darsi che vi stia dando un pessimo consiglio. Ma vi dico: cercate di fare in modo che il vampiro abbia paura di voi!

Carlsen scosse la testa. — Il guaio è che l’aliena potrebbe svanire un’altra volta. I vampiri delle leggende avevano certe limitazioni: dovevano dormire in una bara piena di terra e così via. Ma queste creature pare che non ne abbiano.

Von Geijerstam disse: — Devono averne. Il vostro compito è di trovarle. Per esempio, voi avete detto che il vampiro potrebbe svanire di nuovo. Ne siete proprio sicuro?

Fallada chiese in fretta: — Cosa volete dire?

— Pensate a quello che è successo l’altra volta. La donna vampiro è scomparsa dall’Istituto di Ricerche Spaziali. Poco dopo gli altri due alieni sono stati trovati morti. Ma adesso sapete che avevano solo abbandonato i loro corpi, avendone trovati altri. Ma hanno fatto tutto questo da soli? O con l’aiuto del primo vampiro?

— È vero — disse Carlsen. — Non abbiamo prove che ci siano riusciti da soli.

Von Geijerstam proseguì: — Dunque, se i tre adesso sono separati, sarà più facile affrontarli a uno a uno, inoltre adesso il Comandante Carlsen sa che può sempre ritrovare il vampiro ricorrendo all’ipnosi.

Fallada disse: — Non vi lascereste convincere a venire a Londra con noi?

Von Geijerstam scosse la testa. — No, no… sono troppo vecchio. E poi, non avete bisogno di me. Ormai sapete sui vampiri quanto ne so io… e probabilmente di più.

Bussarono alla porta, e Gustav, il valletto, si affacciò. — Le signorine chiedono se volete raggiungerle per un aperitivo prima di pranzo — disse.

— Sì, certo. Scenderemo fra qualche minuto.

Poi von Geijerstam si rivolse a Fallada: — Prima di andare, un altro consiglio. Non dimenticate che il vampiro è un criminale. Questa è l’essenza della sua psicologia. E tutti i criminali prima o poi si imbattono nella sfortuna.

Carlsen disse: — È questo che voleva dire la vecchia Moa, quando ha parlato di sfortuna? Avevo capito che i vampiri portano sfortuna alle loro vittime.

Von Geijerstam fece una risatina divertita, mettendogli una mano sulla spalla. — No, non alle loro vittime. A se stessi! Guardate quelle creature. Hanno preparato un piano perfetto per invadere la Terra. E a ogni passo importante, qualcosa va per traverso. Nell’universo esistono poteri benigni oltre che maligni.

Carlsen commentò: — Vorrei poterlo credere.

Von Geijerstam lo guardò sorridendo. Disse: — Ci crederete, ancor prima di aver finito con quelle creature.

Carlsen avrebbe voluto fargli altre domande, ma ormai il vecchio conte stava già uscendo dalla stanza.

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