PARTE PRIMA

1

Jackson era in agguato.

Sapeva che la sua preda sarebbe apparsa, era solamente questione di tempo. Sapeva che a un certo punto l’avrebbe vista aggirarsi nell’ampio corridoio del centro commerciale: una figura slanciata fra madri incolori che spingevano carrozzine stracariche, e gruppi di pensionati usciti a fare due passi e una chiacchierata.

Jackson scrutò verso l’ingresso nord. Era da lì che sarebbe arrivata. La fermata dell’autobus si trovava appena fuori delle porte a vetri, e quello era l’unico mezzo di trasporto di cui lei disponeva. Il furgoncino pick-up dell’uomo con il quale viveva era sotto sequestro in una rimessa della polizia, per la quarta volta in quattro mesi. Per andare a prendere l’autobus che passava dal centro commerciale, aveva dovuto fare quasi due chilometri a piedi, con la bambina. Perché lei non lasciava mai la bambina da sola con il suo uomo. E Jackson lo sapeva.

Jackson si passò lentamente le mani sul volto. Non era il suo vero volto. Percepì la corpulenta struttura fisica premere contro le cuciture dell’abito grigio che indossava. Ma anche il corpo non era il suo. In futuro quel volto e quel corpo avrebbero subito altre metamorfosi. Il doppio mento sarebbe scomparso, il peso sarebbe diminuito, la statura alterata, i capelli infoltiti o diradati. E il sesso? Maschile o femminile? Giovane d’età o in là con gli anni? Lo avrebbe deciso più tardi, molto più tardi. A volte, l’aspetto che assumeva aveva una rassomiglianza con qualcuno che conosceva. Oppure era una mescolanza di persone diverse, di facce diverse, di comportamenti diversi. Il tutto integrato in un insieme perfettamente armonico, assolutamente privo di incongruenze.

A scuola era affascinato dallo studio della biologia, in particolare da quegli esseri viventi appartenenti alla più speciale delle classi: gli ermafroditi. Pensò a quell’esplosivo trionfo di dualità fisica, e si concesse un sorriso appena percettibile.

Jackson. Soltanto il nome sarebbe rimasto il medesimo per la durata di quel suo affare.

Aveva ricevuto un’educazione di prim’ordine in una delle più prestigiose università dell’Est degli Stati Uniti. Combinando il suo acume nella scienza con il suo amore per la recitazione, aveva conseguito una singolare e straordinaria doppia laurea in ingegneria chimica e arte drammatica. Di giorno in laboratorio a studiare complesse equazioni o maleodoranti intrugli, di notte a calcare le scene allestendo i classici di Tennessee Williams e di Arthur Miller.

Una doppia esperienza che si era rivelata di valore incalcolabile, come avrebbero potuto constatare i suoi docenti se l’avessero visto ora in quelle condizioni.

Un velo di sudore apparve sulla sua fronte. Del tutto normale per un uomo sulla cinquantina, troppo fuori forma, con troppi chili addosso e immerso in una quotidianità troppo sedentaria. Il suo sorriso si accentuò. Il sudore era una reazione fisica perfettamente adeguata, che derivava però dai vari strati d’imbottitura sotto l’abito grigio che conferivano un aspetto massiccio a! suo corpo naturalmente magro.

Ma c’era di più. Jackson non si limitava ad apparire qualcun altro. Jackson diventava qualcun altro. Era come se, nella sua profondità organica, le reazioni fisiologiche si modificassero fino alla compenetrazione totale, all’osmosi assoluta con ciò che lui era all’esterno.

In condizioni normali, Jackson non avrebbe mai frequentato un centro commerciale. Il suo gusto personale si orientava verso luoghi di gran lunga più sofisticati. Ma era questo l’habitat delle sue prede. Era in posti come questo che si sentivano a loro agio. E lui voleva che loro si sentissero a loro agio. Era un fattore cruciale per la sua strategia. Nell’incontrarlo, le prede erano quasi sempre in uno stato di eccitazione psicologica, talvolta negativa, nei suoi confronti. Alcune interviste erano anche arrivate sul punto di sfuggire al suo controllo. Il ricordo gli procurò un nuovo sorriso. Non aveva importanza. Avrebbe vinto, sempre, dovunque e comunque. Ma doveva continuare a essere cauto. Un errore, bastava un unico, insignificante errore da parte sua e tutto si sarebbe potuto disintegrare in un milione di frammenti. Il sorriso svanì. Assassinare qualcuno non era mai un’esperienza piacevole. Raramente c’erano valide giustificazioni, ma ciò che doveva essere fatto sarebbe stato fatto. Punto e a capo. Jackson sperò che in quell’incontro tutto sarebbe filato per il verso giusto.

Tolse il fazzoletto dal taschino della giacca e si asciugò il sudore che gli imperlava la fronte. Quindi si aggiustò i polsini della camicia. Appiattì una sporgenza quasi invisibile tra le fibre sintetiche del parrucchino. I suoi veri capelli erano compressi sotto una calotta di lattice.

Aprì la porta dei locali per uso ufficio che aveva affittato nel centro commerciale ed entrò. Tutto pulito, ordinato. Troppo ordinato. Privo di quel minimo di confusione inevitabile in qualsiasi ambiente di lavoro.

La segretaria seduta dietro la scrivania nell’atrio alzò lo sguardo su di lui. Non disse una parola. Le aveva ordinato lui di non farlo. Non voleva che quella donna avesse la benché minima idea di chi lui fosse, né della ragione per la quale lei si trovava lì. Nel momento in cui la preda avesse fatto la propria comparsa, le disposizioni erano che la segretaria semplicemente si alzasse e se ne andasse. Per quanto la riguardava, il resto era semplice: un autobus che portava fuori città, del contante in una busta per il suo disturbo.

Jackson non la degnò nemmeno di un’occhiata. Per lui quella donna era né più né meno di un arredo di scena per la sua ultima produzione teatrale. Esattamente come tutto il resto in quella stanza. Il telefono era un oggetto inerte, silenzioso. La macchina per scrivere una specie di simulacro altrettanto inerte. Jackson corrugò la fronte finta. Non andava. Decisamente troppo ben organizzato, quell’ufficio. Il suo sguardo si spostò alla risma di carta sulla scrivania. Con un gesto improvviso ne sparse alcuni fogli sul ripiano. Poi orientò il telefono in modo diverso, inserì un foglio di carta nel rullo della macchina per scrivere e diede un paio di rapide rotazioni alla manopola. Lanciò un’altra occhiata. Trasse un sospiro. Non perfetto, ma meglio di prima.

Jackson passò oltre l’angusta saletta d’attesa, percorse un breve corridoio, svoltò a destra ed entrò nel piccolo ufficio che completava l’ambiente. Sedette dietro la scrivania di legno. In un angolo c’era un televisore, spento, simile a uno sguardo cieco. Jackson si accese una sigaretta e spinse all’indietro lo schienale della poltroncina.

Quiete. Calma dentro.

Era quella la chiave. Non permettere che il flusso dell’adrenalina superasse il livello di guardia. Si passò un polpastrello sui baffi scuri, sottili, composti della stessa fibra sintetica del parrucchino, attaccati al suo labbro superiore con una colla da trucco. Anche sul naso aveva lavorato parecchio. La conformazione sottile, quasi delicata del vero naso era stata alterata in una sorta di proboscide bulbosa, un po’ storta. Poco sopra la narice destra c’era un porro, finto anch’esso, ottenuto con un’emulsione in acqua calda di gelatina e di semi di trifoglio finemente tritati. Capsule in materiale acrilico trasformavano i suoi denti bianchissimi e splendidamente squadrati in una chiostra scalena, dall’aspetto malsano. Jackson esalò il fumo lentamente. Mezza età, ventre prominente, baffi sottili, denti brutti.

Illusioni, nient’altro che illusioni.

Eppure sarebbero stati quelli gli elementi fisionomici che un osservatore casuale avrebbe notato. Sarebbe stato quello l’uomo che il medesimo osservatore avrebbe descritto. E nel momento in cui le illusioni si fossero disgregate, anche l’uomo si sarebbe disgregato, insieme con il suo carico di attività illegali e malefiche.

E così il sistema stava per rimettersi di nuovo in movimento. Ogni volta gli equilibri erano leggermente diversi, ma era proprio questo l’aspetto stimolante: la mancanza di certezza. Jackson consultò l’orologio da polso. Il tempo della preda si stava avvicinando. Contava che il loro incontro sarebbe stato produttivo per entrambi.

Jackson aveva un’unica domanda da porre a LuAnn Tyler, una semplice domanda dalla quale sarebbe però scaturita una reazione a catena di estrema complessità. Sulla base della propria esperienza, egli era ragionevolmente certo di conoscere già la risposta, ma la mancanza di certezza aleggiava, eccitandolo. Si augurò per la sua preda che la risposta fosse quella giusta. E c’era un’unica risposta giusta. Altrimenti, be’, quella bambina non avrebbe avuto l’opportunità di conoscere sua madre, perché sarebbe cresciuta orfana.

La palma della mano di Jackson batté sul piano di legno con un colpo simile a uno sparo. Certo che avrebbe risposto di sì! Prima di lei, tutte le altre prede l’avevano fatto. Jackson scosse violentemente il capo. No, nemmeno questa sarebbe stata diversa dalle altre. Lui le avrebbe fatto vedere, capire la logica ineluttabile del suo sistema. Le avrebbe mostrato come quella logica avrebbe cambiato tutto. Ben oltre quanto lei stessa avrebbe mai potuto immaginare. La sua era la classica offerta-che-non-si-può-rifiutare.

Però lei doveva arrivare.

Jackson si passò sul mento il dorso della mano, aspirò profondamente dalla sigaretta e osservò un solitario chiodo che sporgeva dal muro, simile a un insetto spiaccicato.

Lei doveva accettare. Era la preda.

E lui il predatore.

2

Il vento freddo, ostile, prendeva d’infilata la stretta strada sterrata, facendo frusciare gli alberi scuri su entrambi i lati. Dopo aver curvato improvvisamente verso nord, la strada scendeva a est in modo altrettanto brusco. Altri alberi si addensavano sulla sommità del dosso, alcuni ridotti a sculture deformi dagli elementi e dalle malattie. Eppure, per la maggior parte si ostinavano a restare eretti come totem dalle poderose radici e dalle folte chiome. C’era una specie di radura in fondo alla discesa: un semicerchio di terreno fangoso disseminato da frastagliate zone erbose.

Poteva essere un’immagine in qualche modo arcadica, ma mucchi di spazzatura, una montagnola di lattine vuote di birra scolorite dalle intemperie, blocchi di motore arrugginiti e relitti di mobilia varia intristivano lo scenario con il più efficace degli effetti. E poi tanti altri residui, detriti e rottami irriconoscibili che d’inverno, sepolti sotto la neve, apparivano come strane gibbosità generate da chissà quale arte figurativa priva di contorni definiti. D’estate, martellati dal sole incandescente, diventavano ricettacoli per roditori, rettili e insetti.

La solitaria roulotte giaceva al centro della radura, assediata da tutti quei rifiuti. Era una vecchia Airstream d’alluminio sbiadito, fessurato. Paralizzata crisalide metallica priva di ruote, con i mozzi direttamente appoggiati su pile di mattoni di cemento in progressiva disgregazione. Uniche connessioni con il mondo esterno, il cavo elettrico e quello telefonico, diramati dal filare di pali di legno annerito che correva lungo la strada sterrata. La roulotte pareva una piaga rimasta aperta là, nel mezzo del nulla.

E i suoi occupanti sapevano tutto quello che c’era da sapere sul nulla.

All’interno della roulotte, LuAnn Tyler incontrò la propria immagine riflessa nel piccolo specchio appoggiato obliquo sul ripiano della cassettiera. Per riuscirci, era costretta a inclinare goffamente la testa perché la malconcia cassettiera era zoppa, e lo specchio incrinato. Irregolari linee di frattura ne solcavano la superficie, simili a zampe di ragno. Se in quell’avanzo di specchio LuAnn Tyler avesse guardato dritto, avrebbe visto tre immagini di sé, tutte e tre deviate e incomplete.

Non sorrise. Nemmeno riuscì a ricordare se mai fosse esistita una circostanza nella quale aveva sorriso esaminando ciò che appariva nello specchio. Eppure era l’unica risorsa su cui poteva contare, come le era stata inculcato fino dall’infanzia, per quanto indietro riuscisse ad andare con la memoria. Certo, ai suoi denti non avrebbe nociuto qualche lavoretto di restauro, ma questo era il prezzo da pagare per una certa trascuratezza e per non aver mai messo piede in uno studio dentistico.

In fondo, c’è sempre un prezzo da pagare per qualsiasi cosa.

Specialmente per la mancanza di cervello. Benjamin Benny Tyler, suo padre, aveva sempre battuto su quel chiodo. Ma era poi l’intelligenza a cui lui si riferiva, o l’assenza di opportunità in cui farne uso? LuAnn non aveva mai approfondito la questione. Non aveva importanza. Le brave bambine devono prendere per oro colato tutto quello che dice il loro paparino. Benny aveva tirato le cuoia da oltre cinque anni, per cirrosi epatica. Anche la madre di LuAnn, Joy, se ne era andata da tre anni ormai, e quel paio di annetti dopo la morte del marito erano stati i più felici della sua vita. Una realtà che doveva aver fatto rivoltare Benny Tyler nella tomba.

C’era una vecchia sveglia sulla cassettiera, la sola cosa che a LuAnn rimaneva di sua madre. Era una specie di reliquia di famiglia, passata di generazione in generazione dalla nonna alla madre di LuAnn e infine a LuAnn. Quella sveglia non aveva alcun valore economico. Era qualcosa che si poteva comprare in qualsiasi banco dei pegni per meno di dieci dollari. Il suo valore era puramente sentimentale. Da bambina, LuAnn aveva ascoltato fino a notte fonda il lento e ritmico ticchettio della vecchia sveglia, come una guida che, attraverso l’enorme oceano di tenebre, fedele e rassicurante l’avrebbe salutata al suo risveglio. Crescendo, LuAnn aveva avuto in quella vecchia sveglia uno dei suoi punti di riferimento, uno dei pochi. Ma c’era un aspetto che aveva finito con il prevalere sul resto: quell’orologio costituiva l’ultimo concreto legame con la sua adorata nonna. Con il trascorrere del tempo il bilanciere e il movimento si erano erosi, cosicché la sveglia ora produceva un suono del tutto particolare. Un suono che aveva accompagnato LuAnn in molti, troppi periodi oscuri. Sul letto di morte sua madre le aveva dato la sveglia chiedendole di tenerla da conto, di non permettere che andasse perduta, quasi fosse un diadema di pietre rare da tramandare di generazione in generazione. LuAnn lo aveva fatto. E quando il momento fosse arrivato anche per lei, l’avrebbe passata a sua figlia.

LuAnn raccolse in una crocchia i capelli folti, neri come le piume di un corvo. Ma non andava. Allora li attorcigliò con destrezza in un’unica, spessa treccia. No, nemmeno quella andava. Risolse infine di raggrupparli sulla sommità del capo, fermandoli con una serie di forcine, inclinando il volto da un lato e dall’altro per verificarne l’effetto nello specchio incrinato. Dall’alto del suo metro e settantacinque di statura, fu costretta a piegarsi per potersi osservare.

Il suo sguardo continuava a spostarsi sul piccolo fagotto sistemato sulla sedia accanto. LuAnn sorrise nell’ammirare gli occhi grandi, la bocca incurvata, le gote paffute e accese, i pugnetti contratti. Lisa Marie. Sua figlia. Otto mesi di vita e in piena crescita. Lisa aveva già cominciato ad andarsene in giro gattonando, il corpo che si muoveva seguendo le dinamiche incerte e curiose della primissima infanzia. Ben presto, i primi passi le avrebbero cancellate.

Il sorriso di LuAnn scomparve nel guardarsi intorno. Lisa non avrebbe impiegato molto a esplorare ogni angolo del microcosmo fatiscente che era la Airstream. L’interno era una versione pressoché speculare dell’esterno. LuAnn aveva strenuamente tentato di evitare che accadesse, ma non ce l’aveva fatta. Contro le improvvise e brutali eruzioni dell’uomo in quel momento sbracato sul letto era stata una guerra perduta prima ancora che avesse inizio.

L’ultima sconfitta risaliva alla notte appena trascorsa. Duane Harvey che rientra barcollando alle quattro del mattino, come sempre ubriaco fradicio. Duane Harvey che in qualche modo si trascina fuori dai propri abiti intrisi di sudore etilico. Duane Harvey che crolla sul letto sfatto dopo averli sbattuti via come stracci.

LuAnn sapeva che era esistita una notte, un’unica notte, in cui Duane Harvey non era rientrato ubriaco marcio, e quell’unica notte aveva generato Lisa. Per un brevissimo momento, alcune lacrime scintillarono negli occhi blu profondo di LuAnn. Scintillarono soltanto. LuAnn Tyler aveva ormai cessato di perdere tempo con le lacrime, specialmente con le proprie. All’età di vent’anni, pensava di aver già pianto abbastanza lacrime da bastarle per il resto della vita.

Tornò a guardarsi nello specchio incrinato. Estrasse le forcine con la mano destra, una dopo l’altra, lasciando che Lisa giocasse con la sinistra. I capelli ricaddero all’indietro, e una frangia sbarazzina le scese spontaneamente sulla fronte, fino alle sopracciglia. Era il medesimo stile che l’aveva accompagnata durante gli anni delle medie, epoca nella quale lei e tanti suoi compagni di classe avevano fatto la scelta decisiva di mollare la scuola e di mettersi a lavorare. L’idea di fondo era che la paga settimanale batteva di gran lunga la scocciatura degli obblighi scolastici. Nel tempo, si era rivelata una scelta sbagliata. Ma per LuAnn, era stata l’unica comunque praticabile. Metà di quello che guadagnava era andata per mantenere i suoi genitori, cronicamente disoccupati. L’altra metà per pagare ciò che i suoi genitori non erano in grado di darle: cibo, vestiti, e altre inezie del genere.

LuAnn si tolse l’accappatoio sdrucito scoprendo il proprio corpo, sempre tenendo d’occhio la forma immobile di Duane. Ci mancava anche che si svegliasse e che gli venissero certe idee. Rapidamente infilò le mutandine. Negli anni dell’adolescenza, per i ragazzi del posto la sua figura prorompente era stata una sollecitazione irresistibile. Qualcosa che aveva prodotto testosterone ben prima che l’ordine naturale delle cose consentisse il loro ingresso ufficiale nel mondo della virilità. LuAnn Tyler: apprendista stellina del cinema.

Molti degli abitanti di Rikersville, Georgia, avevano considerato a lungo il brillante futuro che la aspettava. Benedetta ragazza. Non era fatta per languire lì, in quel buco dimenticato da tutti e da tutto, bastava un’occhiata per capirlo. Questo avevano sentenziato le rugose e sformate donne di Rikersville, sedute sotto i loro porticati in rovina. Quella sua bellezza naturale e radiosa sarebbe approdata ben lontano da Rikersville. New York, dicevano le donne sformate. O addirittura Los Angeles. Anzi, Hollywood. Ma certo. Qualcuno, chiunque fosse mai quel qualcuno, avrebbe sicuramente finito con l’accorgersi della loro LuAnn. Era solamente una questione di tempo. Ma quel tempo non era mai arrivato.

LuAnn Tyler non era mai andata né a New York, né a Los Angeles, né da nessun’altra parte. Era ancora a Rikersville, il medesimo buco nel quale era nata e nel quale aveva trascorso tutta la sua esistenza. Non aveva mai avuto la possibilità di fare ciò che avrebbe voluto. Così, visto che nessuno era apparso a reclamarla per altri orizzonti, lei ora sentiva di essere stata una specie di sotterranea delusione per le donne sformate. E anche per tutti gli altri. Ma né le donne sformate né tutti gli altri sapevano che lei non era mai stata interessata a giacere nuda accanto all’ultimissimo supermacho tutto muscoli e ormoni appena sfornato da Hollywood. E neppure era mai stata interessata a sculettare sulla passerella di una sfilata di alta moda. Di tutto ciò non le era mai importato niente. LuAnn infilò il reggiseno, continuando a studiare la propria immagine nello specchio incrinato. Diecimila o ventimila dollari al giorno solamente per indossare roba simile e farsi vedere sotto i riflettori. In effetti, come opportunità non era male.

Il suo volto. E il suo corpo. Qualcosa su cui Benny Tyler aveva spesso fatto commenti. Sensuale, diceva, dalle forme piene. E ne parlava come se fossero aspetti completamente avulsi da lei: un’oca con un corpo da favola. Grazie al cielo, le attenzioni di paparino non si erano mai spinte al di là di quelle considerazioni verbali. Parecchie volte, con gli occhi spalancati nel cuore della notte, a LuAnn era capitato di domandarsi perché Benny Tyler non ci avesse mai provato. Forse per mancanza di coraggio? Oppure gli era mancata l’occasione giusta? LuAnn non aveva trovato una risposta. Eppure quella domanda maledetta continuava a contorcersi dentro di lei, simile a un uncino intento a scavare nelle regioni più profonde e più oscure del suo subconscio. Ma Benny Tyler era morto e sepolto. A che scopo fare un processo alle intenzioni di un morto?

LuAnn esaminò il contenuto del piccolo armadio della Airstream. Possedeva un unico vestito in qualche modo adatto all’occasione di quel giorno. Blu scuro a manica corta, con il collo bordato di bianco. LuAnn ricordava ancora il giorno in cui lo aveva comprato. Era stato due anni prima. Tutto il suo stipendio della settimana andato in fumo: sessantacinque dollari. Non aveva mai più ripetuto quella follia, anzi quello era stato l’ultimo vestito che si era comprata. Con il tempo la stoffa si era consumata sui bordi, cosi LuAnn, armata di ago e filo, aveva compiuto ottimi lavori di restauro. E così aveva fatto con il suo unico paio di scarpe con il tacco alto. Era rimasta alzata fino a tardi, a scurire con la matita copiativa i punti nei quali il cuoio si era spellato. Tra l’altro erano scarpe marroni, che con il vestito blu non c’entravano niente, ma non aveva scelta. A meno che non avesse ripiegato su ciabatte di gomma o scarpe di tela. E per l’occasione di oggi, ne le une né le altre potevano andar bene. LuAnn avrebbe messo sì le scarpe di tela, ma solo per farsi a piedi i due chilometri di strada sterrata fino alla fermata dell’autobus sulla statale.

Un singolo filo di perle, ovviamente finte, regalo di compleanno da parte di un vecchio ammiratore, venne allacciato a circondare il collo scultoreo. Eorse c’era una possibilità che quell’appuntamento rappresentasse una svolta. Impossibile esserne certi. Ma la speranza che in qualche modo lei e Lisa potessero lasciarsi alle spalle i troppi Duane del mondo pulsava senza sosta nella sua mente.

LuAnn trasse un respiro profondo. Aprì la cerniera lampo di una delle tasche della borsetta, ne estrasse un foglietto di carta piegato.

Jackson.

Solamente Jackson. Più un orario e l’indirizzo di un ufficio al centro commerciale di Rikersville.

La telefonata del signor Jackson era arrivata alla mattina presto. LuAnn era appena rientrata dal micidiale turno da mezzanotte alle sette alla Number One Truck Stop, la tavola calda per camionisti presso la stazione di servizio dell’interstatale. Quando il telefono aveva squillato, lei per poco non aveva rinunciato a tirare su il ricevitore. Era seduta sul pavimento della cucina della Airstream, le palpebre serrate, le piccole labbra di Lisa premute su uno dei suoi capezzoli. E non solo le labbra. Lisa stava cominciando a mettere i primi dentini e a LuAnn pareva che non potesse esistere tortura peggiore. Nessuna scelta nemmeno qui: il latte in polvere era troppo costoso, e nella roulotte non c’era altro latte.

Il telefono squillava, ma LuAnn non aveva questa grande voglia di rispondere. Si sentiva a pezzi. Facendo la cameriera al Number One, non si fermava mai un momento. Lisa, nel suo seggiolino imbottito, veniva sistemata sotto il bancone, e quando non dormiva giocava con una bottiglia di plastica. Tutto questo era possibile perché fortunatamente LuAnn era simpatica al direttore, che le permetteva di portarsi dietro la bambina senza crearle noie.

Erano in pochi a telefonare alla roulotte, e quasi sempre si trattava dei buzzurri amici di Duane, i quali proponevano prima una bella bevuta e poi una spedizione sull’interstatale per fregare sedili e pneumatici dalle macchine finite in panne. Ma non poteva essere nessuno di quegli stronzi, troppo presto. Alle sette del mattino stavano ancora smaltendo il pieno di alcol della notte prima.

Dopo il terzo squillo LuAnn si era decisa a rispondere. La voce dell’uomo all’altro capo era asciutta, molto professionale. A causa dell’intontimento dovuto alla stanchezza e alla mancanza di sonno, LuAnn aveva avuto l’impressione che quell’uomo stesse leggendo un testo prestampato, cercando di venderle qualcosa. Che beffa fenomenale. Proprio a lei che non possedeva un conto in banca, non possedeva carte di credito, non possedeva niente a parte una manciata di banconote in una busta di plastica nascosta nel contenitore in cui buttava i pannolini sporchi di Lisa. Era l’unico posto nel quale Duane non avrebbe mai frugato.

Forza, genio delle sette del mattino, fa’ vedere quello che sai fare. Bibbie? Aspirapolvere? Enciclopedie? Imitazioni di Rolex? E che carta preferisci che usi? Visa? MasterCard? American Express? Le ho tutte, ma proprio tutte. Le vedo fluttuare nei miei sogni come veli di seta nella calda brezza dei tropici. Lascia che ti…

Sono interessato a una sua collaborazione professionale, signorina Tyler.

Non voleva venderle niente. Quello che voleva era offrirle un lavoro. Non aveva senso.

Chi le ha dato il mio numero?

Il suo numero è sull’elenco, signorina Tyler.

Davvero? LuAnn non se ne ricordava. Solo che quell’uomo aveva risposto con una tale prontezza e con una tale determinazione da rendere pressoché impossibile dubitare delle sue parole.

Ce l’ho già un lavoro.

Con quale salario?

LuAnn aveva aperto gli occhi cercando di schiarirsi la mente, Lisa sempre attaccata al seno. Che accidenti voleva sapere, questo tizio?

Signorina Tyler?

Eccolo ancora.

Vuole che le ripeta la domanda, signorina Tyler?

Calmo, distaccato, pratico.

Ventiquattro dollari alla giornata.

LuAnn non sapeva perché avesse risposto.

Mance escluse?

Con le mance.

Successivamente, avrebbe considerato quella sua risposta come una premonizione di qualcosa in arrivo.

Signorina Tyler, la mia offerta è cento dollari al giorno, massimo quattro ore quotidiane di lavoro. Due settimane come minimo garantito.

LuAnn ci aveva messo un attimo a fare i conti. Mille dollari secchi. Inoltre, l’offerta di quell’uomo non avrebbe intralciato in alcun modo la sua situazione al Number One. E mille dollari in due settimane, lavorando la metà del tempo, erano venticinquemila dollari l’anno. La somma reale era cinquantamila dollari l’anno. Non aveva mai conosciuto nessuno che si mettesse in tasca una tale somma. Medici, avvocati e attori, loro sì che guadagnavano tutti quei soldi. Non certo una ragazzina di vent’anni che nemmeno aveva finito le medie, attanagliata dalla povertà più bieca, con sulle spalle una figlia illegittima. E con nel letto di una roulotte fetida un soggetto di nome Duane Harvey.

— Dove diavolo vai?…

Duane si agitò tra le lenzuola sporche, quasi rispondendo a un richiamo silenzioso, strizzando gli occhi iniettati di sangue. La sua voce, satura dello strascicato accento del Sud, era impastata dall’alcol. A LuAnn parve di non aver mai udito altro in tutta la sua vita. Quella parlata gorgogliante, quelle parole vuote, vomitate da una serie senza fine di uomini altrettanto vuoti.

LuAnn prese una lattina abbandonata sopra la cassettiera, la sollevò come se fosse un giocattolo erotico.

— Che ne dici di un’altra birretta, tesoooo-ro?

Nel contempo inarcò le sopracciglia, offrendogli un sorriso obliquo. Le labbra piene arrotondate su ogni sillaba, su ogni sottintesa inflessione. Le labbra di un’incantatrice. La proposta scaturita da quella bocca sortì l’effetto desiderato. Duane emise un mugolio alla vista della sua divinità, il Signore onnipotente fatto di malto e di alluminio, poi crollò di nuovo fra le lenzuola. Duane Harvey era convinto di essere un poderoso maratoneta delle bevute. In realtà, quanto a reggere l’alcol, era peggio di un vecchietto arteriosclerotico. Altri trenta secondi, ed era nuovamente scivolato nel nulla etilico.

Anche il sorriso obliquo di LuAnn era scivolato nel nulla. I suoi occhi si spostarono sull’appunto dell’incontro al quale si stava preparando.

Il lavoro, signorina Tyler, consiste nel testare alcuni prodotti, ascoltare degli spot e fornire la sua opinione.

Cioè, tipo una ricerca…

Una ricerca di mercato, signorina Tyler.

Sì, appunto.

Ma credo sia più appropriato definirla un’analisi demografica.

Analisi demo… LuAnn aveva serrato le labbra. Non aveva la benché minima idea di che cosa significasse.

Ne conduciamo spesso, signorina Tyler. Ci sono utili per valutare costi pubblicitari, indici di ascolto televisivi. Cose del genere.

E lei vuole proprio la mia di opinione?

Esatto, signorina Tyler. E per assicurarci la sua collaborazione, la compenseremo con cento dollari al giorno.

Da non credere. Lei, la sua opinione, la distribuiva pressoché ogni momento. Solo che lo faceva gratis.

Un momento, un momento: era troppo bello per essere vero. Il dubbio continuava a roderle la mente. Da qualche parte doveva esserci un trucco, e lei non era poi così tonta come suo padre la dipingeva. Dietro quella disarmante avvenenza, ribollivano un’intelligenza e un senso pratico molto più acuti di quanto Benny Tyler avesse mai voluto credere. Una combinazione che le aveva consentito di navigare da sola attraverso anni di tempeste. Il problema era che nessuno era sembrato accorgersene. E non le restava che continuare a sognare un’esistenza in cui le sue tette, i suoi fianchi e le sue gambe non fossero le uniche cose che di lei la gente continuava a notare.

Lisa si era svegliata, e i suoi occhi frugavano la stanza. Si illuminarono quando si posarono sul viso di sua madre. LuAnn le sorrise. Se in quella telefonata ci fosse anche stato un trucco, poteva davvero essere peggiore della fogna nella quale lei e sua figlia stavano vivendo? LuAnn riusciva a mantenere un lavoro per un paio di mesi. Anche sei mesi, se era fortunata. Ma quella era una zona depressa, e alla fine il lavoro si esauriva. Le restava la vaga promessa di essere assunta di nuovo quando le cose avrebbero ripreso a funzionare, cosa che succedeva di rado.

Essendo priva del diploma di scuola media, LuAnn veniva invariabilmente etichettata come stupida. E nel suo ostinarsi a convivere con Duane, lei stessa aveva deciso che quell’etichetta non era poi così sballata. Ma Duane, sebbene rifiutasse di sposarla, rimaneva pur sempre il padre di sua figlia. Non che LuAnn fosse poi così impaziente di prendere il suo cognome, tantomeno di fare da balia per il resto dei suoi giorni a quell’idiota che rifiutava di crescere e di maturare. LuAnn stessa era cresciuta in una famiglia tutt’altro che solida, e per questo riteneva che un nucleo familiare integro fosse il presupposto irrinunciabile per il benessere di un figlio. Su quell’argomento aveva letto un sacco di articoli e aveva seguito ancor più trasmissioni televisive. A Rikersville, LuAnn era sempre la prima in fila all’ufficio di collocamento, ma non bastava: perfino per il più fetente dei lavori c’erano sempre non meno di venti candidati. Lisa avrebbe sicuramente avuto una vita molto migliore della sua. Era questa la missione che LuAnn si era scelta E i mille dollari di quel lavoro, o che accidenti fosse, potevano essere un buon punto di partenza. Abbastanza per comprare un biglietto d’autobus per un posto al di là dell’orizzonte. Abbastanza per mantenersi fino a quando non fosse riuscita a trovare un vero lavoro. Abbastanza da permettersi, per la prima volta in tanti anni, di fermarsi a tirare il fiato.

Rikersville stava morendo. E quella maledetta roulotte in rovina, circondata da altre rovine, era la tomba ancora scoperchiata di Duane Harvey. Lui non se ne sarebbe mai tirato fuori. Anzi, ci sarebbe ancor più sprofondato.

Può diventare anche la tua tomba, LuAnn Tyler.

No, non sarebbe accaduto. Non dopo quell’appuntamento. LuAnn ripiegò il fogliettino e lo mise nella borsetta. Da una piccola scatola in un cassetto prelevò gli spiccioli necessari per l’autobus. Finì di sistemarsi i capelli e di aggiustarsi il vestito. Infine prese Lisa e uscì piano piano dalla Airstream.

Si lasciò dietro la radura disseminata di rottami.

E Duane Harvey.

3

Qualcuno bussò alla porta. Colpi secchi e decisi.

L’uomo si alzò da dietro la scrivania, si aggiustò il nodo alla cravatta e aprì il dossier che aveva davanti. Esili fili di fumo azzurrino si sollevavano dai resti di tre sigarette schiacciate nel posacenere.

— Avanti.

LuAnn Tyler entrò, dandosi una rapida occhiata intorno. La mano sinistra era serrata intorno al manico del seggiolino portatile in cui si trovava Lisa. Anche gli occhi della bambina esploravano in ogni direzione, pieni di curiosità. Dalla spalla destra di LuAnn pendeva una grossa borsa. L’uomo osservò il percorso di una vena superficiale che scendeva lungo il bicipite ben tornito di lei. Ne studiò le biforcazioni e le ramificazioni nel labirinto di vene più piccole sul suo avambraccio, ugualmente ben definito. Nessun dubbio che quella donna fosse fisicamente forte. E mentalmente? Sarebbe stata altrettanto forte?

— È lei Jackson?

LuAnn glielo chiese senza levargli gli occhi di dosso, attendendo che anche lui, come ogni altro uomo prima di lui, completasse l’inventario: collo, seni, ventre, fianchi, gambe eccetera. Livello culturale, posizione sociale, nessuna di queste cose aveva la minima importanza: di fronte a lei, ogni uomo si comportava puntualmente nell’identico modo.

Ma non questo uomo.

— Sì, sono Jackson — e i suoi occhi non si staccarono nemmeno un istante da quelli di lei. Le tese la mano.

LuAnn la strinse con vigore.

— Grazie per essere venuta, signorina Tyler. Si accomodi, la prego. Sua figlia è bellissima. — Jackson accennò a un angolo della stanza. — Perché non la sistema lì?

— Si è svegliata appena adesso. Prima la camminata, poi la corsa con il bus… lei è abituata ad addormentarsi in questi casi. Me la tengo vicina, se non le dà noia.

Come a sottolineare la propria approvazione, Lisa emise gridolini eccitati, indicando chissà cosa d’interessante.

— Naturale che non mi dia noia, signorina Tyler.

LuAnn posò il seggiolino accanto a sé e diede a Lisa un paio di grosse chiavi di plastica perché ci giocasse. Poi si raddrizzò e concentrò la propria attenzione su Jackson. Indossava un abito costoso. Una linea di sudore gli attraversava la fronte in orizzontale, simile a un filo di microscopiche perle. Per qualche ragione, LuAnn credette di percepire qualcosa in lui. In qualsiasi altra circostanza, lo avrebbe definito nervosismo. Di fronte a lei gli uomini avevano quasi sempre due sole linee di condotta: comportarsi da idioti per fare colpo, oppure rinchiudersi come lumache nel loro guscio.

Non questo uomo.

— Non ho visto l’insegna di fuori. — LuAnn lo osservò con espressione incuriosita. — Senza l’insegna, nessuno sa che siete qui.

— Fa parte della mia linea professionale. — Jackson le mostrò un sorriso contratto. — La discrezione è un elemento chiave. Non è importante che la gente che frequenta questo centro commerciale sappia se noi siamo qui o no. Il nostro giro di affari si sviluppa strettamente per appuntamenti, contatti telefonici e questo genere di cose.

— Allora sono io il solo appuntamento adesso. Ho visto che la stanza d’aspetto è vuota.

— Scaglioniamo gli incontri in modo da evitare attese inutili. — Jackson appoggiò la mano sul mento, contraendo appena un angolo della bocca. — Io sono il rappresentante unico per questa città.

— Cioè, voi fate affari anche in altre città?

— Signorina Tyler, le dispiace riempire questo modulo? — Jackson aveva semplicemente ignorato la domanda. — Nient’altro che un questionario personale, uno standard — e intanto aveva fatto scivolare verso di lei uno stampato e una penna. — Nessuna fretta.

Con movimenti della penna rapidi e secchi, LuAnn scrisse quanto era richiesto. Jackson la osservò impassibile. Quando LuAnn ebbe finito, lui diede una rapida scorsa al modulo. Non era necessario. Jackson sapeva già tutto quello che c’era da sapere su LuAnn Tyler.

Lei diede un’altra occhiata in giro. Si era sempre ritrovata a essere il non così oscuro oggetto del desiderio degli uomini, per cui, dovunque si trovasse o in qualsiasi posto entrasse, era solita studiare la forma e le dimensioni dell’ambiente. Lo faceva per un’unica ragione: individuare la più rapida via di fuga.

— Qualcosa non va, signorina Tyler?

Jackson aveva colto quel suo modo di guardarsi intorno.

— Strano.

— Che cosa è strano?

— Questo ufficio.

— In che senso?

— Non c’è dentro niente. Nessun orologio sul muro, nessun cestino dei rifiuti, nessun calendario… Nemmeno il telefono. Be’, non è che ho lavorato in quei posti dove gli uomini devono portare sempre la cravatta, ma perfino Red giù alla tavola calda dei camionisti ha il calendario. E poi lui sta sempre attaccato al telefono.

— E la segretaria qui fuori… Diavolo, con quelle unghie lunghe dieci centimetri, come fa a usare la macchina da scrivere?

E adesso Jackson la stava veramente osservando. LuAnn si morse il labbro inferiore. Anche altre volte si era ritrovata a parlare troppo, ma questo era un colloquio di lavoro al quale lei non poteva permettersi di fare fiasco. Certamente non per cento dollari al giorno.

— Senti, non volevo dire niente — aggiunse facendo rapidamente marcia indietro. — Giusto per parlare. Cioè, sono un po’ nervosa, ecco tutto.

Le labbra di Jackson si contrassero lievemente. — Complimenti per il suo acuto spirito d’osservazione, signorina Tyler.

— Be’, ho due occhi come tutti.

— Come tutti, certo. — Jackson ignorò la sua occhiata e posò il modulo sulla scrivania. — Lei ricorda i termini della sua collaborazione con noi, dalla nostra conversazione telefonica?

— Cento dollari al giorno per due settimane. — LuAnn era tornata a bomba sul fronte affari. — E dopo, forse, delle altre settimane alla stessa paga. Io adesso lavoro fino alle sette di mattina. Va bene se vengo al pomeriggio presto? Mettiamo alle due?…

Quasi seguendo un riflesso condizionato, LuAnn raccolse le chiavi di plastica che Lisa aveva gettato per terra e gliele ridiede perché potesse continuare a giocare. La piccola la ringraziò con un grugnito.

— E poi va bene se mi porto dietro la mia bambina? Quella lì è proprio l’ora del suo sonnellino. Non disturba nessuno, sa? Potessi morire…

Jackson si alzò e si infilò le mani in tasca. — D’accordo, d’accordo. Dunque… lei è figlia unica ed entrambi i suoi genitori sono deceduti. È esatto?

LuAnn abbe un involontario sussulto a quell’improvvisa sterzata nel dialogo. Socchiuse gli occhi. Infine annuì.

— E negli ultimi due anni — continuò Jackson — per la maggior parte il suo domicilio è stato una roulotte situata nella parte occidentale di Rikersville. Convivendo in essa con tale Duane Harvey, individuo di collocazione professionale incerta, attualmente disoccupato.

Jackson la stava perforando con lo sguardo da parte a parte. Non stava facendo domande, non stava cercando conferme. Elencava dei dati di fatto, punto e basta. LuAnn si limitò a sostenere quello sguardo.

— Duane Harvey è il padre di sua figlia, Lisa Marie, età otto mesi. Lei ha abbandonato la scuola senza completare la seconda classe media. Da quel momento in poi ha avuto numerosi impieghi, tutti al minimo sindacale, tutti lavori che possono essere definiti, mi consenta, altrettanti vicoli ciechi. Al tempo stesso, lei ha dato prova di essere una giovane donna dal brillante intuito, e di essere dotata di non comuni abilità di sopravvivenza in questo nostro mondo ostile. Nulla è per lei più importante del benessere di sua figlia. Al momento, signorina Tyler, lei è alla disperazione.

LuAnn serrò la mascella. Che accidenti stava succedendo, lì dentro?

— Lei vuole disperatamente cambiare la sua vita. E vuole altrettanto disperatamente lasciarsi questo Duane Harvey alle spalle. Al momento, lei si sta domandando in quale modo riuscire a ottenere l’una e l’altra cosa. La realtà è che lei non ha, e verosimilmente non avrà nemmeno in futuro, i mezzi finanziari per uscirne. Lei è in trappola, signorina Tyler. Non solo…

Jackson continuò a fissarla dal lato opposto della scrivania.

— Lei è molto prossima alla fine del viaggio.

— Ma come si permette? — LuAnn schizzò in piedi, le guance in fiamme. — Che diritto crede di…

— Lei, signorina Tyler — la interruppe duramente Jackson — ha deciso di venire a questo incontro perché io le ho offerto più soldi di quanti lei ne abbia mai guadagnato prima d’ora.

— Com’è che sa tutte queste robe su di me?

Prima di rispondere, Jackson la studiò per un lungo momento. — A essere franco, signorina Tyler, è nel mio interesse sapere quanto più possibile delle persone con le quali intendo mettermi in affari.

— Ah, sì? E cosa c’entrano tutte queste cose su di me con le mie opinioni sulle analisi demi… deme…

Demografiche, signorina Tyler. È molto semplice: per stabilire in quale modo valutare determinate opinioni, è importante che io conosca intimamente il possessore di quelle medesime opinioni. — Jackson si alzò a sua volta. — Vale a dire lei, signorina Tyler. È importante che io sappia chi è lei, che cosa vuole, che cosa sa. O non sa. Le cose che a lei piacciono, che a lei non piacciono. I suoi pregiudizi, i suoi punti di forza, i suoi punti deboli. Tutti noi li abbiamo, in un modo o nell’altro. In nuce, se io non so tutto di lei, significa che non ho fatto bene il mio lavoro.

Jackson aggirò la scrivania e le si parò di fronte.

— Se lei ritiene che io l’abbia offesa, le chiedo di accettare le mie scuse. Mi rendo conto di essere forse troppo diretto. Ma non volevo farle perdere tempo.

L’improvviso livore di LuAnn si dissipò, rapido com’era venuto: — Be’, visto che la mette in questo modo…

— È esattamente questo il modo in cui la metto, LuAnn. Lei mi permette di chiamarla LuAnn, non è vero?

— È il mio nome, no? — disse bruscamente LuAnn tornando a sedersi. — Be’, io non voglio sprecare neanche il tuo, di tempo. Cosa mi dice delle ore? Le va bene al pomeriggio?

Jackson le voltò le spalle per tornare al lato opposto della scrivania. — La parola, LuAnn, è sogno.

— Cosa?

Jackson sedette alla scrivania. Con estrema lentezza, fece scivolare le palme delle mani sul piano di legno pieno di fessure.

— Ha mai sognato la ricchezza, LuAnn?

La guardò. Con più intensità di quanto non avesse fatto dal momento in cui lei era entrata nell’ufficio.

— Ha mai sognato di essere ricca, LuAnn, addirittura al di là dei suoi stessi sogni? Ha mai sognato di potersi permettere qualsiasi cosa, qualsiasi cosa lei e sua figlia abbiate mai potuto immaginare, in qualsiasi luogo e in qualsiasi momento? Ha mai sognato tutto questo, LuAnn?

LuAnn scoppiò a ridere. E continuò a ridere finché non incrociò lo sguardo di lui. Glaciale, impassibile. Non c’era alcun divertimento in quegli occhi, né alcuna diffidenza, né alcuna simpatia. Solo l’intenso desiderio di udire una risposta.

— Che diavolo, ma certo! — esclamò lei. — E chi non ha mai avuto un sogno così?

— A tutti gli effetti, LuAnn, coloro i quali già annegano nel denaro non hanno bisogno di un tale sogno. Al tempo stesso, lei ha ragione: statisticamente parlando, in un modo o nell’altro la maggior parte della gente sogna la ricchezza. Il vero problema è che quella fantasia non si trasforma mai in realtà. E questo perché, sempre statisticamente parlando, non può trasformarsi in realtà.

— Stia a sentire — disse LuAnn sfoderando un sorriso disarmante — cento dollari al giorno non sono poi mica tanto male.

Jackson ebbe un breve colpo di tosse per schiarirsi la gola. E a quel punto pose la domanda: — Ha mai giocato al lotto, LuAnn?

Lei fu colta alla sprovvista, ma rispose prontamente. — Ogni tanto. Tutti quanti giocano al lotto da queste parti. Ma può essere una cosa costosa. Duane gioca ogni settimana, certe volte si gioca anche la metà della paga… Quando ce l’ha, una paga. E non è mica tanto spesso. Lui dice sempre che vince. Gioca ogni volta gli stessi numeri. Dice che li ha visti in sogno. Per me è tutta una cretinata. Perché me lo chiede?

— Ha mai giocato alla Lotteria Nazionale?

— Cioè quella per tutta l’America?

Jackson annuì lentamente, gli occhi fissi in quelli di lei. — È esattamente quello che voglio dire.

— Una volta, magari due. Ma vincere è così difficile che ci sono più probabilità che io vado a camminare sulla Luna.

— Lei ha perfettamente ragione, LuAnn. Questo mese, infatti, la probabilità di vincere è approssimativamente una su trenta milioni.

— Lo dicevo! Allora preferisco fare il gratta e vinci. Che lì, almeno, venti dollari posso anche portarmeli a casa. Non serve a niente buttare via soldi buoni dietro una cosa del genere, specialmente se di quei soldi buoni ce ne hai pochi.

Jackson si passò la lingua sulle labbra e appoggiò i gomiti sulla scrivania nel protendersi verso di lei. — Che cosa mi risponderebbe, LuAnn, se io le dicessi di avere il potere di aumentare drasticamente le sue probabilità di vincere la Lotteria Nazionale degli Stati Uniti?

— Che cosa?

Jackson rimase in silenzio.

LuAnn diede un’altra occhiata in giro, quasi alla ricerca di una candid camera nascosta. — Cosa c’entra questo col lavoro da cento dollari al giorno, signor Jackson? Guardi che io non sono mica venuta qua per fare giochini scemi.

— Infatti. E allora che cosa mi risponderebbe, LuAnn — insistette Jackson, imperterrito — se io le dicessi di avere il potere di aumentare quell’unica probabilità fino ad assicurarle, ripeto, assicurarle la totalità della vincita?

— Me che roba è questa? — esplose LuAnn. — Tipo uno scherzo da scemi?

— Sarebbe pronta a farlo, LuAnn? Sarebbe pronta a diventare uno dei vincitori della Lotteria Nazionale degli Stati Uniti?

— La vuol sapere una cosa? È che conosco bene Duane, altrimenti mi veniva da pensare che l’aveva messo in piedi lui questo scherzo! Farà meglio a dirmi quello che c’è sotto, prima che m’incazzo proprio!

— Non è uno scherzo, LuAnn. Non lo è mai stato.

LuAnn saltò in piedi per la seconda volta. — Tiri fuori una storia migliore, amico! Perché io in questa non ci voglio proprio entrare. Cento dollari o non cento dollari al giorno…

Era delusa. Inferocita e disgustata. Cento dollari al giorno. Ma certo che c’era il trucco. Un tipo matto da legare, una cosa da pazzi. Raccolse la borsa, raccolse Lisa e si voltò per andarsene.

— Cinquanta milioni di dollari.

Jackson aveva parlato in modo così pacato, quasi annoiato, che la sua voce le provocò un profondo brivido lungo la schiena.

— Io le garantisco che lei vincerà la Lotteria Nazionale degli Stati Uniti, LuAnn.

Pareva la voce di un impiegato delle poste intento a scorrere una lista d’indirizzi cancellati.

— Io le garantisco che lei vincerà, come minimo, cinquanta-milioni-di-dollari.

A dare retta al proprio cervello, LuAnn avrebbe dovuto scappare alla velocità della luce fuori da quella stanza, invece si ritrovò a voltarsi lentamente verso quell’uomo.

Jackson era comodamente rilassato nella sua poltroncina, lo schienale all’indietro, le braccia incrociate. — Niente più Duane, niente più tavola calda per camionisti da mezzanotte alle sette, niente più angoscia di non riuscire a procurare a sua figlia abiti caldi per l’inverno. Qualsiasi cosa lei vorrà possedere, LuAnn, potrà averla. — La sua voce rimaneva calma, ineluttabile. — Qualunque persona lei vorrà diventare, LuAnn, potrà farlo.

Cinquanta milioni di dollari.

— Ma lei come fa a farlo, eh?…

Signore onnipotente!

— Vuole dirmelo sì o no?

— Prima ho bisogno che lei risponda alla mia domanda, LuAnn.

— Quale domanda?

— Vuole possedere tutta quella ricchezza?

— Ma lei è pazzo o cosa? Guardi che io ce li ho i muscoli! E se prova a fare delle robe strane con me, io gliene do tante da mandarle in pappa il cervello!

— Devo quindi arguire che la sua risposta sia negativa?

LuAnn gettò i capelli da un lato con un deciso movimento del capo, spostò la maniglia del seggiolino di Lisa dalla mano sinistra alla destra. Lo sguardo della bambina continuava a passare da lei a Jackson, come se fosse intensamente assorbita dalla loro conversazione.

— Stia bene a sentire, amico bello, non è possibile che mi assicuri una cosa del genere!

— Ne è certa?

— Sicuro che ne sono certa! Perciò adesso io vado fuori da qui e chiamo due tipi con la giacca bianca che la portano al manicomio!

Jackson respirò a fondo, quindi disse: — Mi permetta di darle un piccolo esempio, LuAnn. — Consultò l’orologio e accese il televisore con il telecomando. — Esattamente tra sessanta secondi si terrà l’estrazione giornaliera della Lotteria Nazionale. Si tratta di un montepremi di solo un milione di dollari; comunque, spero che basti ad aiutarla a comprendere la questione. È anche importante che lei sappia, LuAnn, che io non traggo alcun profitto da ciò a cui lei sta per assistere. L’unico scopo è dimostrativo. In modo da superare il suo comprensibile scetticismo.

LuAnn guardò lo schermo. Era la sala della Lotteria Nazionale, il quartier generale a New York. I meccanismi con le palline numerate stavano per essere messi in moto per l’estrazione.

— La serie vincente — Jackson tolse di tasca un foglietto di carta e una penna, scrisse una combinazione di numeri e le porse il foglietto — è 8-4-7-11-9-6. Esattamente in quest’ordine.

LuAnn quasi gli rise in faccia, mentre i numeri venivano selezionati e la combinazione vincente cominciava a formarsi.

Primo estratto: 8.

LuAnn si bloccò.

4-7-11-9-6.

Impossibile!

LuAnn seguitava a passare con lo sguardo dallo schermo al foglietto e di nuovo allo schermo.

Jackson spense il televisore. — Confido, LuAnn, che i suoi dubbi siano stati dissipati. E parimenti confido che ora lei possa tornare alla mia proposta d’affari.

LuAnn si appoggiò con la schiena alla parete. Era pallida come un pezzo di gesso. Un miliardo di termiti invisibili le stava strisciando sotto la pelle, divorandola tutta fino al midollo. Guardò il televisore: nessun videoregistratore. Nessun altro apparecchio più o meno strano in grado di consentirgli di sapere in anticipo quale combinazione sarebbe stata estratta. Non era nient’altro che un televisore, spina infilata nella presa di corrente, cavo d’antenna connesso al muro.

— Come ha fatto? — la sua voce era un flebile sussurro, pieno d’incertezza, forse anche di paura. — Come diavolo ha fatto?

— Che lei lo sappia, LuAnn, è del tutto irrilevante. Ciò che per contro è assolutamente rilevante — aggiunse Jackson indurendo leggermente la voce — è che lei risponda alla mia domanda.

LuAnn sospirò, facendo uno sforzo per ignorare le fameliche termiti. — Vuole sapere se io sono pronta a fare qualcosa di sbagliato… Be’, glielo dico chiaro e tondo: no. Io non sono granché, ma non faccio cose da criminali.

— E chi ha mai detto, LuAnn, che questa sia una… cosa criminale?

— No, cioè… adesso mi viene a dire che un trucco per vincere al lotto è una cosa regolare? A me puzza, amico. Io faccio dei lavori da schifo, d’accordo, ma nessuno mi prende per scema.

— In realtà, io ho un’opinione quanto mai elevata del suo livello intellettuale, LuAnn. Ed è per questo che lei si trova qui, oggi. Qualcuno avrà quei cinquanta milioni di dollari. Perché non dovrebbe averli proprio lei?

— Perché non è giusto, ecco perché!

— Giusto e ingiusto sono concetti relativi. Inoltre, l’ingiusto è tale solo se qualcuno se ne accorge.

Io sono quella che se ne accorge!

— Molto encomiabile, molto nobile — Jackson sospirò. — Ma mi dica: è proprio così sicura di voler spendere il resto della sua vita insieme a Duane Harvey?

— Lui ha delle buone qualità.

— Davvero? Perché non me ne elenca qualcuna?

— Perché non va all’inferno? E invece gliela dico io una bella cosa, signor Jackson: la mia prossima fermata è la stazione di polizia. Un mio amico è un poliziotto… — LuAnn si girò di scatto e afferrò la maniglia della porta. — Ci scommetto, signor Jackson, che anche lui è molto interessato ai suoi numerini truccati!

Jackson sapeva che anche questo momento sarebbe arrivato. — Così Lisa continuerà a crescere in quella lurida roulotte circondata da rottami arrugginiti e da lattine di birra vuote piene di scarafaggi. Poi la sua bambina crescerà, e se dovesse somigliare alla madre diventerà una bellissima ragazza. Quando arriverà all’adolescenza, i giovanotti di Rikersville verosimilmente svilupperanno un interesse nei suoi confronti, e lei magari abbandonerà la scuola, una cosa tira l’altra e Lisa potrebbe ritrovarsi incinta… e il ciclo riparte daccapo… Come un tempo già successe a sua madre, LuAnn? — Jackson fece una piccola pausa. — E in seguito anche a lei? — aggiunse in tono pacato.

Con estrema lentezza LuAnn si voltò verso di lui e lo fissò con occhi dilatati e scintillanti.

— È la crudele ineluttabilità di certi cicli dell’esistenza, non trova, LuAnn? Io sto dicendo il vero e lei lo sa bene. Quale futuro Lisa e lei potrete avere con quell’uomo? E se non con lui, con il prossimo Duane Harvey? O quello dopo il prossimo? Vivrete nell’indigenza e nell’indigenza morirete. Prima lei e poi Lisa. Nessuna via d’uscita. È qualcosa di orribilmente ingiusto, è vero, ma non per questo meno certo. Coloro i quali non si sono mai trovati nella sua situazione potrebbero dirle di fare le valigie e di andarsene. Prendere sua figlia e sparire. Ciò che non le dicono è come trovare il denaro per l’autobus, per una stanza d’albergo, per il cibo. Chi si occuperà della sua bambina mentre lei cerca un lavoro, e quando poi lavorerà, ammesso e non concesso che ci riesca?

Jackson si passò il dorso della mano sul mento, osservando LuAnn quasi con affetto.

— Vada pure da quel suo amico poliziotto, LuAnn, se è questo che davvero vuole. Quando gli agenti arriveranno qui, non tro veranno nient’altro che uno spazio vuoto. E a quel punto, chi mai le crederà, LuAnn? Chi mai crederà all’esistenza di qualcuno in grado di predeterminare l’esito della Lotteria Nazionale degli Stati Uniti? — Un’espressione di condiscendenza affiorò sui lineamenti finti. — E alla fine, LuAnn, che risultato avrà ottenuto? Solamente quello di aver gettato via la grande occasione della sua vita. Svanita nel nulla. Perduta per sempre. — Scosse la testa tristemente. — Per favore, non sia così stupida.

Le dita di LuAnn si contrassero intorno alla maniglia del seggiolino. Lisa adesso era agitata, e istintivamente LuAnn la fece oscillare avanti e indietro. — Lei parla di sogni, signor Jackson. Ma io ho i miei di sogni. E sono grandi… Belli grandi.

La sua voce era piena di esitazione. Durante tutti quegli anni passati a raschiare il fondo del barile, LuAnn Tyler aveva costruito una robusta armatura intorno a sé. Ma le parole di Jackson, la verità che contenevano, l’avevano penetrata in profondità.

— So dei suoi sogni. Così come so che lei è una donna intelligente. La sua linea di condotta in questo nostro incontro non ha fatto altro che rafforzare la mia opinione nei suoi confronti. Lei merita di più, molto più di quanto non abbia ora. Al tempo stesso, raramente le persone ottengono dalla vita ciò che meritano. E io, LuAnn, le sto offrendo la chiave per realizzare i suoi grandi sogni… — improvvisamente Jackson fece schioccare le dita, e nel silenzio dell’angusto locale quel suono parve rimbalzare come un colpo d’arma da fuoco — così, in un batter d’occhi.

— Come faccio a sapere che non lavora per la polizia? — LuAnn era tornata ad alzare la guardia. — Io, per i soldi, in prigione non ci vado. Ha capito?

— LuAnn, lei ha mai sentito parlare di istigazione a delinquere?

— Non è quando si fa fare a qualcuno qualcosa di criminale?

— Qualcosa del genere. La polizia non può compiere un’azione del genere, neanche per finta, e comunque sarebbe inammissibile come prova a carico in un’aula di tribunale. Inoltre, LuAnn, per quale ragione la polizia dovrebbe prendere in trappola lei usando un imbroglio tanto elaborato?

LuAnn si appoggiò alla porta. Sentiva il cuore martellarle nel petto.

Jackson si alzò di nuovo. — Mi rendo conto che lei non mi conosce, ma le posso assicurare che prendo i miei affari molto, molto sul serio. — La sua voce continuava a essere calma, eppure piena di autorevolezza. — Io non faccio nulla senza un’ottima ragione. Non sprecherei il suo tempo con qualche scherzo di dubbio gusto. — E con uno sguardo che pareva trapassare LuAnn da parte a parte aggiunse: — Ma, soprattutto, non sprecherei il mio tempo.

— Perché proprio io, signor Jackson? Tra tutta la gente di questo mondo balordo… — LuAnn sembrava quasi implorarlo — perché proprio io?

— Buona domanda, LuAnn. Peraltro non sono in condizione di poterle rispondere, e in fondo non è così pertinente.

— Come fa a sapere che vincerò?

Jackson fece un cenno in direzione del televisore. — Credevo che l’estrazione di prima l’avesse convinta, ma sembra che lei continui a dubitare…

— Io per adesso dubito di tutto quello che sto sentendo. Mettiamo che io gioco e poi non vinco. E allora?

— E allora che cos’ha da perdere, LuAnn?

— I due dollari che mi costa il biglietto, ecco cosa! A lei magari non sembrano granché, ma per me sono i biglietti dell’autobus di tutta una settimana!

— D’accordo. In tal caso eliminiamo questa intollerabile delusione finanziaria. — Tolse di tasca quattro biglietti da un dollaro e glieli porse. — E aggiungiamo un ritorno dell’investimento pari al cento per cento.

— Ma lei… che cosa ci guadagna? — domandò LuAnn tormentando i biglietti con la punta delle dita. — Io non ci credo più alle favolette — aggiunse con uno sguardo di nuovo circospetto.

— Un’altra ottima domanda. È vero, io non sono un’associazione filantropica. Ma ottenere una risposta più precisa dipende dalla sua partecipazione al mio… — un sorriso mellifluo tornò ad affiorare sulle labbra di Jackson — chiamiamolo contratto; il quale, come tutte le transazioni d’affari, è studiato perché entrambe le parti contraenti ne ricavino il dovuto profitto. E le posso anticipare che lei sarà particolarmente soddisfatta di quanto siano generosi i termini che la riguardano.

— È lei che mi deve dare una risposta, e adesso — sibilò LuAnn mettendo i quattro dollari nella borsa. — Altrimenti io non accetto.

— Mi rendo conto, LuAnn, che nella mia proposta è insito un elevato livello di complessità. Per questo le darò un po’ di tempo per pensarci.

Jackson scrisse un numero telefonico su un foglietto.

— Ma non un tempo indefinito. L’estrazione mensile della Lotteria Nazionale degli Stati Uniti avrà luogo fra quattro giorni. Questo significa che io dovrò avere una sua risposta definitiva entro le ore dieci di dopodomani mattina. — Le porse l’appunto. — Può raggiungermi a questo numero a qualsiasi ora del giorno o della notte.

— Mettiamo che tra due giorni io dico ancora di no — disse LuAnn osservando il pezzo di carta, ma senza prenderlo — che cosa succede dopo?

Jackson scrollò le spalle. — Succede che qualcun altro vincerà quei cinquanta milioni di dollari. Qualcun altro che, posso garantirglielo, si guarderà bene dallo sprecare tempo ed energie con un complesso di colpa. — Jackson le sorrise in modo conciliante. — Mi creda, LuAnn, quando le dico che tanta gente, là fuori, ma proprio tanta, farebbe carte false pur di essere al suo posto.

Jackson le mise d’autorità il foglietto nella palma della mano, e le fece chiudere le dita intorno.

— Si ricordi bene, LuAnn, alle dieci e un minuto — e per un momento la sua voce si abbassò a un tono di minaccia — l’offerta sarà scaduta. Per sempre. — Jackson, ovviamente, non accennò al fatto che se lei avesse rifiutato sarebbe stata uccisa.

Infine aprì la porta dell’ufficio con formale cortesia, osservando Lisa nel suo seggiolino. La piccina rispose al suo sguardo, con grandi occhi pieni di interesse e di innocente stupore.

— La sua bambina le somiglia molto, LuAnn. — Il suo sorriso mellifluo riapparve. — Mi auguro che le somigli anche in capacità intellettuali.

LuAnn lo fissò dritto negli occhi. — Perché una vocina continua a dirmi che lei non si chiama Jackson?

— Grazie per essere venuta, LuAnn.

Nemmeno a questa domanda LuAnn avrebbe avuto una risposta. Lo sapevano entrambi.

— Le auguro una buona giornata.

LuAnn varcò la soglia e uscì da quel cubicolo pieno di angoli in penombra.

— Spero ardentemente di risentirla presto, LuAnn. Sono il primo a volere che accadano cose buone a gente perbene.

Lentamente, l’uomo che si faceva chiamare Jackson cominciò a chiudere la porta.

— Lei no?

4

La stavano fissando.

Mentre stringeva con la medesima intensità sia il manico del seggiolino di Lisa che il fogliettino di Jackson, LuAnn provava la sgradevole sensazione che su quel maledetto autobus tutti quanti la stessero osservando. Come se sapessero che cosa le era appena successo e fossero tutti quanti pronti a giudicarla, a condannarla.

Una donna anziana, soprabito malconcio, calze sbrindellate al ginocchio, borsa di plastica tra le dita ad artiglio, non le toglieva gli occhi di dosso. LuAnn non sapeva se fosse al corrente del colloquio o semplicemente contrariata per la bellezza di quella mamma e della sua bambina.

Si appoggiò allo schienale, e lasciò che i propri pensieri si proiettassero nel futuro. Cercò di immaginarsi uno scenario di ciò che la sua vita sarebbe stata se avesse rifiutato la proposta dell’uomo che si faceva chiamare Jackson. In quell’immagine continuavano a dominare i lineamenti di Duane Harvey. E non era la più stimolante delle prospettive.

Ma anche l’altra alternativa era tutt’altro che tranquillizzante. Troppe incertezze, troppe incognite. Eppure…

Cinquanta milioni di dollari.

Andare agli angoli estremi del mondo. Fare qualsiasi cosa. Senza alcun limite.

Una telefonata. Nient’altro che una telefonata. E quattro dollari da investire che neppure erano suoi… Avrebbe voluto saltare in piedi urlando, e poi danzare nello stretto corridoio centrale dell’autobus.

Non poteva trattarsi di uno scherzo. Jackson non solo non le aveva chiesto dei soldi, ma gliene aveva addirittura dati. I termi ni del contratto non erano ancora chiari; Jackson tuttavia non aveva accennato, neppure velatamente, alla possibilità di favori di natura sessuale. Non era parso minimamente interessato a lei. Non aveva cercato di toccarla. Non le aveva fatto complimenti, se non in termini strettamente professionali e diretti.

Un pazzo? Certo, poteva essere un pazzo. Ma quale formidabile messinscena di sanità mentale aveva allestito! Inoltre aveva speso soldi. Affittare l’ufficio, assumere la segretaria, far stampare i moduli. Per essere un pazzo si comportava in modo del tutto razionale e calcolato, lucido.

LuAnn scosse il capo.

E poi c’era stata l’estrazione di quei numeri. Ciascun numero nell’ordine preciso. Impossibile negare l’evidenza dei fatti. Se Jackson aveva davvero il potere di manipolare la Lotteria Nazionale a suo piacimento, rimaneva un unico ordine di rischi: frode, illegalità, crimine… Più una quantità di altri pericoli che lei nemmeno riusciva a immaginare.

Era questo il grosso punto oscuro dell’intero contratto. Starci e poi ritrovarsi con l’intera cosa che ti scoppia tra le mani. E se a un certo punto la verità fosse venuta a galla? Lei sarebbe potuta finire dietro le sbarre, forse addirittura per il resto dei suoi giorni. E Lisa?… Che cosa ne sarebbe stato della sua bambina? Di colpo si sentì meschina.

Certo, anche lei aveva sognato di trovare alla fine dell’arcobaleno una magica pentola piena d’oro. Un sogno che comunque l’aveva aiutata a non sprofondare nei momenti più duri, quando l’autocommiserazione stava per sopraffarla. Con una sola differenza: nel sogno la pentola piena d’oro non era attaccata a una palla di piombo da ergastolano.

Imprecando fra sé, LuAnn si passò una mano sul volto.

Pareva una semplice scelta fra inferno e paradiso. E quali erano le vere condizioni di Jackson? C’era da scommetterci che sarebbero state dure, molto dure, per farla passare come d’incanto dalle stalle alle stelle.

Ma se avesse accettato il contratto e avesse poi effettivamente messo le mani su quei cinquanta-milioni-di-dollari, cosa sarebbe successo dopo? Abbandonarsi all’immaginazione era una cosa, scendere sul piano pratico era tutt’altra. Viaggiare in posti esotici? Certo, come no? Nei suoi vent’anni di vita, LuAnn Tyler non si era allontanata una volta da Rikersville, Georgia, ridente cittadina rinomata per la sua fiera agricola annuale e per i suoi eccitanti macelli di bestiame bovino e suino. Nei suoi vent’anni di vita, LuAnn Tyler poteva contare sulle dita di una mano le volte in cui era stata in un ascensore. Non aveva mai avuto un conto in banca a suo nome. Sapeva leggere e scrivere, ma il suo controllo della sintassi e della grammatica non era esattamente da fine dicitore.

Jackson aveva detto che lei avrebbe potuto avere qualsiasi cosa. Ma era poi vero? Si poteva veramente pescare una cafoncella di campagna da una schifosa roulotte ai margini di un postaccio del Sud degli Stati Uniti, trapiantarla nella stanza da letto regale di un castello della Loira e credere che tutto avrebbe funzionato alla grande? Forse, però, il mutamento poteva non essere così drastico. LuAnn represse un tremito improvviso. Si protese verso Lisa e le sfiorò la fronte sulla quale ricadevano serici capelli biondi. Forse poteva essere un processo più graduale. Ma la realtà restava.

LuAnn respirò a fondo l’aria fresca della primavera della Georgia che entrava a folate dal finestrino aperto. La realtà era che lei voleva disperatamente essere qualcun altro. Lo aveva desiderato e sperato in ogni attimo della sua vita. Solo che, con il passare del tempo, quella speranza era diventata sempre più evanescente. Il sogno si era fatto sempre più remoto e fragile. E tutto questo mentre il suo futuro diventava sempre più chiaro, simile a un’immagine televisiva che si va definendo con il ruotare dell’antenna. Alla fine, con il futuro divenuto presente, l’immagine sarebbe stata di assoluta chiarezza, ma speranza e sogno si sarebbero definitivamente dissolti. Come se dentro di lei non fossero mai esistiti.

L’autobus procedeva sul fondo stradale sconnesso. Sempre più vicino alla strada sterrata che conduceva nei boschi. Sempre più vicino alla Airstream circondata da rifiuti e rottami. E sempre più vicino a Duane Harvey, in agguato fra altri rifiuti. Sarebbe stato di un umore schifoso. LuAnn lo sapeva. Le avrebbe chiesto soldi per comprare altra birra. Anche questo LuAnn sapeva. E per l’ennesima volta il suo sguardo si abbassò sul numero di telefono.

Un momento: aveva anche i quattro dollari di Jackson. E quel giorno offrivano birra a prezzi speciali allo Squat Gobble, uno dei tuguri preferiti di Duane. Due dollari sarebbero stati più che sufficienti per riportarlo nel suo felice torpore di alcolista. A tutti gli effetti, dandole modo di togliersi Duane dai piedi, dandole la possibilità di pensare al contratto, Jackson la stava già aiutando.

Gli occhi di LuAnn e di Lisa s’incontrarono. Madre e figlia si scambiarono un sorriso pieno di tenerezza. LuAnn posò una mano sulla guancia della piccola. Non sapeva se ridere o piangere. O tutte e due le cose insieme.

Osservò il paesaggio che scivolava fuori del finestrino. La terra stava risvegliandosi dal letargo invernale. La primavera era vicina. Un nuovo inizio per la natura. Poteva essere un nuovo inizio anche per lei e per la sua bambina? LuAnn Tyler non aveva una risposta. Non ancora.

Però aveva ancora due giorni a disposizione.

5

La zanzariera sventrata cigolò nell’aprirsi e LuAnn entrò reggendo il seggiolino di Lisa. L’interno della roulotte era pieno d’ombre, l’aria fredda e immobile come in una cripta dalla forma insolita.

LuAnn avanzò nello spazio compresso, i sensi in allarme, pronta a cogliere il minimo movimento, la minima vibrazione. Non aveva alcuna paura fisica di Duane Harvey. In un confronto diretto sapeva tenergli testa. Lo aveva già caricato di botte in più di un’occasione, specialmente quando era ubriaco fradicio. L’unico rischio era che lui riuscisse a prenderla di sorpresa. Ma quando era sobrio o quanto meno vicino alla sobrietà, e verosimilmente in questo momento lo era, di solito non tentava nulla di troppo violento. Duane Harvey, dolce metà di LuAnn Tyler, padre della loro tenera figlioletta Lisa.

Che invidiabile rapporto.

Eppure LuAnn conosceva almeno dieci donne coinvolte in un rapporto del genere. Deprimenti convivenze sullo sfondo di sistemazioni precarie e finanze cronicamente insufficienti. Sentimento, tenerezza e amore pressoché latitanti. LuAnn aveva avuto altre offerte, solo che il prato del potenziale vicino era tutto fuorché più verde. Ormai le bastava la prima mezza occhiata per rendersene conto.

Nell’ala notte della roulotte, qualcuno stava russando. LuAnn sporse la testa oltre la soglia. Forme sotto le lenzuola. Due for me. LuAnn inspirò a fondo. La testa di Duane era visibile sulla destra. La persona sulla sinistra era completamente coperta dal lenzuolo stropicciato. Non era uno dei buzzurri con i quali Duane si sbronzava. Nessuno di loro era dotato di colline di quella fatta nella regione toracica.

LuAnn arretrò silenziosamente nel corridoio, sistemò il seggiolino con Lisa nel piccolo bagno. La bambina la stava guardando con occhi di colpo pieni di ansia, percependo la tensione. La madre le sorrise e richiuse la porta. Non voleva che sua figlia venisse disturbata dal prossimo sviluppo degli eventi.

LuAnn tornò ad affacciarsi nella zona notte. Duane continuava a russare come un mantice difettoso. Il corpo accanto a lui si era mosso, spargendo sul cuscino lunghi capelli scuri. La mano destra di LuAnn si chiuse su di essi come una tenaglia, diede uno strappo con tutta la forza di cui fu capace. Il corpo al quale i capelli erano attaccati volò contro la parete come se fosse stato catapultato da una fionda. Un corpo nudo, pallido, flaccido.

Merda!

LuAnn trascinò la donna a contorcersi sulla moquette, scabra, disseminata di bruciature di sigarette.

— Merda, LuAnn! Lasciami andare, cazzo!

— Rimetti la testa qui dentro un’altra volta, Shirley, puttana che non sei altro — sbraitò LuAnn folgorandola con lo sguardo — e io te la spappolo all’istante!

— Duane! Aiutami, perdio! Questa è pazza!

Shirley continuava a berciare e a scalciare a vuoto nel vano tentativo di liberarsi, mentre LuAnn seguitava a trascinarla per i capelli lungo il corridoio. La donna era bassa e cicciona. Almeno una quindicina di chili di troppo erano ammassati su cosce dalla cellulite tremolante e seni cadenti che sbattevano l’uno contro l’altro come fossero di gelatina.

— Ehi… — accennò Duane Harvey stiracchiandosi sul letto. — Cosa sta succedendo?

— Zitto tu! — intimò LuAnn senza distrarsi.

Appena riuscì a mettere a fuoco la situazione, Duane si sporse verso un cassetto e ne tirò fuori un pacchetto di sigarette Marlboro già aperto. Ne accese una e bofonchiò: — Com’è questo fatto, Shirl? Te ne vai di già?

Guardandolo dal basso in alto, e sempre trascinata per i capelli sulla moquette, Shirley Watson riuscì a rispondere: — Sei un pezzo di merda, Duane!

— Anch’io ti amo, tesoro. — Duane fece un bel tiro e le soffiò un bacio alla nicotina. — Ehi… e grazie per la visita, Shirl. Che mattinata!

Scoppiò in una grassa risata e si diede una gran pacca sulla coscia, come se stesse assistendo alla scena più divertente che avesse mai visto. Si rizzò a sedere sui cuscini, osservando le due donne inoltrarsi lungo il corridoio della Airstream e sparire fuori dalla roulotte.

LuAnn scaricò Shirley contro la massa rugginosa di un vecchio blocco motore Ford, ennesimo relitto tra i relitti che assediavano la roulotte.

— Mi hai strappato via tutti i capelli, puttana! — urlò Shirley schizzando in piedi nel fango, nuda come un verme. LuAnn nemmeno si girò a guardarla.

— Voglio i miei vestiti, LuAnn! Ridammi i miei vestiti!

— Non ti servivano mentre stavi là dentro — replicò LuAnn girandosi a metà. — Non vedo perché devono servirti qua fuori.

— Io a casa così non ci vado!

— E allora non andare a casa. — LuAnn salì i gradini di mattoni di cemento e sbatté la porta della roulotte.

Duane la stava aspettando nel corridoio, con la Marlboro spenta all’angolo della bocca.

— La sai una bella cosa, LuAnn? A un uomo gli piace vedere due gatte selvatiche che si battono per lui. Mi ha fatto bollire il sangue. Che ne dici di continuare tu adesso? Su, piccola, dammi un bel bacio…

Sfoderò un ghigno e cercò di passarle un braccio intorno al collo. Il destro di lei in piena faccia gli tagliò il fiato, allentandogli un paio di denti. Duane accusò il colpo. Ma era ancora niente rispetto alla successiva ginocchiata ai testicoli. Duane andò giù come un sacco di stracci.

— Te la dico io una bella cosa, Duane Harvey — sbraitò infine LuAnn torreggiando su di lui. — Fammene un’altra così e com’è vero Iddio ti stacco il tuo arnese e lo butto giù per lo scarico del cesso.

— Tu sei pazza… — gorgogliò Duane sul pavimento del corridoio, rattrappito su se stesso, le labbra gocciolanti sangue.

LuAnn si abbassò e gli chiuse le guance in una morsa ferrea. — No, tu sei pazzo, se credi anche per un secondo che io posso reggere cazzate del genere.

— Non siamo mica sposati.

— Certo, però viviamo insieme. Abbiamo fatto una bambina insieme. E questo posto qua è tanto mio quanto tuo.

— Shirl non è niente. — Duane continuava a tenersi ben stretti gli acciaccati gioielli di famiglia, mentre piccole lacrime di dolore spuntavano agli angoli degli occhi. — E allora cosa te ne frega?

— Me ne frega perché quella puttanella lardosa adesso se ne va giù al bar, dalla parrucchiera e al mercato e racconta a cani e porci che te la sei scopata. E io ci faccio la figura della più grande stronza sulla faccia della Terra!

— Non mi dovevi lasciare solo questa mattina — piagnucolò Duane. — È tutta colpa tua… — aggiunse trafficando per rimettersi in piedi. — Shirl era venuta per vedere te. E io che cosa potevo fare?

— Dimmelo tu, Duane. Perché non offrirle un caffè invece del tuo uccello? Giusto per fare un esempio.

— Non sto tanto bene, piccola… — Si appoggiò alla parete con aria sofferente. — Proprio mica tanto…

— È la più bella notizia che ho sentito in tutto il giorno.

Senza tante storie, LuAnn lo spinse da parte e andò a vedere se Lisa era a posto. Quando riapparve dal piccolo bagno, marciò risolutamente nella stanza da letto e strappò via le lenzuola sporche.

Duane rimase a fissarla dalla soglia, incazzato. — Tu fa pure come vuoi. Buttale pure via. Sei tu che le hai comprate. Non me ne frega un cazzo.

— Le porto da Wanda per farle lavare. — LuAnn tolse le federe. — Tu scopi con le troie, tu paghi il lavaggio.

Quando sollevò il materasso per togliere il lenzuolo, notò qualcosa nascosto tra materasso e telaio. Qualcosa di verde.

Si voltò verso Duane. — E che diavolo è questa roba?

Duane sostenne freddamente lo sguardo di lei. Entrò barcollando nell’ala notte, raccolse le mazzette di banconote e le cacciò in un sacchetto di carta. Richiuse il sacchetto, senza staccare un attimo gli occhi da LuAnn.

— Ti ho fatto una domanda, Duane.

— Facciamo conto che ho vinto la lotteria.

LuAnn rimase senza fiato, irrigidendosi, come se ora fosse stata lei a ricevere un pugno in piena faccia. Duane? Duane dietro l’intera messinscena di Jackson? Duane e Jackson in società tra loro? Non poteva essere.

— Stronzate — replicò bellicosamente LuAnn incrociando le braccia sul petto. — Dove li hai presi quei soldi, Duane?

— Diciamo che sono proprio una buona ragione perché tu tieni la bocca chiusa e fai la brava bambina con Duane.

LuAnn lo spinse brutalmente fuori dall’ala notte, gli sbatté la porta in faccia e tirò il chiavistello. Si tolse il vestito blu. Indossò in fretta una felpa, jeans e scarpe di tela. Ancora più freneticamente preparò una borsa da viaggio. Quando riaprì la porta, Duane era esattamente dove lo aveva lasciato, con il sacchetto di carta stretto in mano. LuAnn lo superò senza una parola, aprì la porta del bagno, sollevò Lisa nel seggiolino e si avviò all’uscita; con la mano libera si mise la borsa da viaggio in spalla e infine raccolse le lenzuola sporche.

— Dove vai, LuAnn?

— Fatti i cazzi tuoi.

— Quant’è che durerà, eh, LuAnn? Io non mi sono mica incazzato perché tu mi hai preso a calci nelle palle, no? Infatti mi è già passata.

— La sai una cosa, Duane? — ringhiò LuAnn rivoltandoglisi contro. — Tu devi proprio essere l’uomo più idiota che c’è al mondo.

— Ah, sì? E tu? Chi ti credi di essere tu? Se non ci sono io, tu e Lisa non avete nemmeno un fottuto tetto dove stare. Ti ho fatto entrare io qua, altrimenti non avevi niente.

Accese un’altra sigaretta, e spegnendo il fiammifero sul pavimento aggiunse alla moquette un’ennesima bruciatura.

— Perciò, invece di fare la stronza tutti i momenti, faresti bene a essere carina con me — aggiunse Duane sventolando il sacchetto pieno di soldi. — Perché di questi qui, io ne posso trovare tanti altri, bambolina. E in questo schifo di roulotte qua, io non ci sto più per molto. Perciò pensaci su, okay? Perché a me, nessuno mi romperà più il cazzo, neanche tu. Hai capito?

— Hai ragione, Duane: io sono carina con te da subito. — LuAnn spalancò la porta della Airstream come se volesse sradicarla dai cardini. — Me ne vado prima di sgozzarti, pezzo di stronzo!

Lisa cominciò a piangere, come se lo scoppio d’ira di sua madre fosse diretto a lei. LuAnn la baciò e la cullò, riuscendo a calmarla.

Duane la guardò allontanarsi fra i relitti e i rottami sparsi per la radura. Ammirò il suo sedere che tendeva le cuciture dei jeans aderenti. Diede anche un’occhiata più ampia, alla ricerca di Shirley Watson. Niente. Evidentemente doveva essersi data alla fuga, nuda com’era.

— Ehi, LuAnn — le gridò dietro ghignando. — Ti amo, piccola!

— Ehi, Duane… Vaffanculo e crepa!

6

Nei corridoi del centro commerciale di Rikersville brulicava molta più gente del giorno prima. Questo a LuAnn andava benissimo. Folla significava anonimato, mimetizzazione. E fu tra la folla che LuAnn si mescolò per tornare a dare un’occhiata all’ufficio nel quale aveva incontrato Jackson.

Dall’altro lato dei cristalli affumicati, l’interno pareva immerso nell’oscurità. LuAnn non provò nemmeno a girare la maniglia: sapeva che avrebbe trovato la porta chiusa a chiave. Jackson doveva essersene andato subito dopo di lei, e lei doveva essere stata la sua unica cliente.

LuAnn si era data ammalata al lavoro, passando la notte a casa di un’amica. Una notte insonne, trascorsa in parte a fissare la luna piena, ma soprattutto a studiare gli atteggiamenti delle piccole labbra di Lisa mentre la bimba dormiva profondamente. Da sola nel buio, LuAnn aveva deciso di non decidere. Perlomeno, non fino a quando non fosse riuscita a saperne di più in merito all’offerta di Jackson. In compenso, aveva risolto di non andare alla polizia. A dire cosa? Chi le avrebbe dato retta? Non c’era una misera buona ragione per farlo. Mentre c’erano cinquanta milioni di ottime ragioni per non farlo.

LuAnn Tyler aveva un suo codice etico, una sua precisa linea di divisione tra bene e male, tra giusto e sbagliato. Eppure la tentazione continuava ad accecarla. Cinquanta-milioni-di-dollari. Solo che non era una semplice scelta tra bianco e nero. E questo la tormentava.

Al tempo stesso, l’ultima impresa di Duane rinsaldò la sua convinzione che Lisa non poteva, non doveva crescere in un simile ambiente infetto. Lei non lo avrebbe permesso.

— LuAnn?

Lei s’immobilizzò sulla soglia della direzione del centro commerciale, un gruppo di uffici all’estremità del palazzo.

Il giovanotto era in piedi dietro il bancone della reception. Indossava pantaloni scuri ben stirati, camicia bianca con maniche corte, cravatta dai colori indefinibili. Faceva scattare ritmicamente la sua penna a sfera. Forse era eccitato dal vederla. O forse era nervoso. O entrambe le cose.

— Non mi aspetto che ti ricordi di me, LuAnn — e mancò poco che il giovanotto saltasse al di là del banco. — Johnny Jarvis. John, sul lavoro.

Cominciò con il tenderle la mano in maniera quanto mai professionale. Ci ripensò, fece un gran sorriso e si avventurò ad abbracciarla. Poi passò almeno un minuto a fare coccole e moine a Lisa. Dalla borsa in spalla, LuAnn tolse una piccola coperta, la distese sul pavimento, mise sopra la piccola e le diede un orsetto di peluche perché ci giocasse.

— Johnny… Incredibile. Non ti vedo da quando… Le medie?

— Tu eri in prima e io in terza.

— Ti trovo proprio bene. Da quanto tempo lavori qua?

— Finite le medie, sono andato al college municipale e mi sono diplomato. — John Jarvis sorrise pieno d’orgoglio. — Sono qui al centro commerciale da due anni. Ho cominciato come operatore al computer e adesso sono una specie di vicedirettore operativo.

— Grandioso. Congratulazioni, Johnny… John.

— Che diavolo, LuAnn: per te sono sempre Johnny. Quasi non ci credevo quando sei entrata da quella porta. A momenti mi prendeva un colpo. Mai e poi mai avrei pensato di rivederti. Sarà andata a New York, mi ero detto, o chissà quale altra grande città…

— Invece sono ancora qui.

— Sono un po’, diciamo… sorpreso, ecco. Non ti avevo mai vista qui al centro commerciale.

— Non vengo molto da queste parti È un bel pezzo di strada da dove sto io.

— Be’, intanto mettiti a sedere e raccontami tutto di te. Non sapevo che avessi una bambina. E non sapevo nemmeno che fossi sposata.

— Non sono sposata.

— Ah… — Le guance di Jarvis si accesero. — Senti, che ne dici di un caffè? L’ho appena fatto.

— Sono un po’ di fretta, Johnny.

— Sì, capisco. Che cosa posso fare per te? — domandò il giovanotto con un’espressione di improvvisa sorpresa. — Non è che stai cercando lavoro, eh?

— E se anche lo cerco? — LuAnn gli scoccò un’occhiata dura. — Qualcosa che non va nel cercare lavoro?

— Ma no, certo che no. Volevo solo dire, sai com’è, non mi aspettavo che saresti rimasta a Rikersville. — Le sorrise. — Tutto qui.

— Johnny, un lavoro è un lavoro. Tu lavori qui, giusto? E già che ci siamo, cos’è che esattamente potevo fare della mia vita a New York o in chissà quale altra grande città?

Il sorriso di John Jarvis si dissolse. Il giovanotto si passò le palme delle mani lungo i pantaloni, con fare ancora più nervoso di prima. — Non intendevo dire niente di strano, LuAnn. Ti ho sempre vista come una donna che dovrebbe vivere in un castello, con belle macchine, bei gioielli, bei vestiti. Mi dispiace…

— Va bene così, Johnny. Non ci pensare.

Anche l’ostilità di LuAnn si dissolse. Quel castello, con in più le macchine, i gioielli e i vestiti, era forse molto più a portata di mano di quanto John Jarvis, o perfino lei stessa, avrebbe mai potuto immaginare.

— È stata una lunga settimana — riprese LuAnn. — E comunque non sto cercando un lavoro. Quello che cerco è un po’ d’informazioni su uno che ha preso in affitto un ufficio qua al centro commerciale.

Jarvis si diede una rapida occhiata alle spalle. Dagli uffici interni della direzione, proveniva un insieme di suoni: telefoni che squillavano e dita che battevano su tastiere di computer, il tutto inframmezzato da rapidi sussulti di conversazioni. Tornò a girarsi verso di lei.

— Hai detto… informazioni?

— Già. Ero qui ieri mattina. Per un appuntamento.

— Con chi?

— È proprio questo che voglio sapere da te. Era nell’ufficio subito a destra appena entrati dalla fermata dell’autobus. Non ha nessuna insegna né niente. Quello vicino alla gelateria…

— Pensavo che quello spazio fosse sfitto. — Jarvis era perplesso. — Ne abbiamo tanti di sfitti. Rikersville non è esattamente il paese della cuccagna.

— Be’, ieri non era sfitto.

Jarvis si spostò al computer sul bancone e cominciò a lavorare sulla tastiera. — Un appuntamento per cosa?

— Oh, qualcosa da venditori porta a porta — rispose LuAnn sbrigativamente.

— Abbiamo avuto gente che affitta per brevi locazioni, per esempio per avere una sala da colloqui per assunzioni. Se abbiamo lo spazio, e lo abbiamo quasi sempre, affittiamo anche solo per un giorno. Specie se è già allestito, cioè con dentro qualche arredo da ufficio.

Jarvis studiò la schermata. Dagli uffici continuavano ad arrivare voci. Il giovanotto si alzò per chiudere la porta. Nel rivolgersi nuovamente a LuAnn, palesò una certa apprensione: — E allora, cosa vuoi sapere?

Lei colse il suo disagio. — Dimmi una cosa, Johnny — domandò lanciando una rapida occhiata alla porta chiusa — non è che poi ti ritrovi nei guai, vero?

— Ma certo che no — fece lui con un gesto rilassato della mano. — Sono o non sono il vicedirettore? — aggiunse con aria d’importanza.

— Be’, senti, dimmi quello che puoi. Chi è la gente che ha preso quell’ufficio. Che affari fanno. Magari se hanno un indirizzo. Cose così.

— Ma come — fece Jarvis, confuso — al colloquio non te le hanno date tutte queste informazioni?

— Me ne hanno dette un po’ — rispose LuAnn. — E prima di accettare voglio solo sapere se è tutto legale, giusto? Devo comprare dei vestiti più belli di questi e magari anche una macchina. E non voglio spendere tutti quei soldi per niente.

— Hai ragione — grugnì Jarvis. — Cioè, noi affittiamo loro gli spazi, e va bene. Ma in effetti questo non vuol dire che siano regolari. — Divenne nuovamente apprensivo. — Non è che hanno voluto che tu gli dessi dei soldi, eh?

— No. Anzi, parlavano di darmi uno stipendio pazzesco.

— Mi sembra troppo bello per essere vero.

— Anche a me — aggiunse con ammirazione LuAnn osservando le dita di Jarvis volare sulla tastiera. — Dov’è che hai imparato ad andare così in fretta?

— Vuoi dire con questi tasti? Al college municipale. Hanno corsi che ti insegnano a fare un sacco di cose. I computer sono una vera figata.

— Non mi dispiacerebbe tornare a scuola anch’io, un giorno.

— Tu andavi benissimo a scuola, LuAnn. Scommetto che potresti riprendere alla grande.

— Vedremo — disse lei facendogli gli occhi dolci. — Adesso che cos’hai per me?

— Il nome della società è “Associates, Inc.”. — Jarvis riportò la sua attenzione sul monitor. — O, perlomeno, questo è quello che hanno scritto sul contratto. Hanno preso lo spazio in affitto per una settimana, a partire per l’appunto da ieri. Pagamento in contanti. Nessun altro indirizzo. E quando pagano in contanti…

— A voi non frega più di tanto.

Jarvis evitò lo sguardo di lei.

— Adesso comunque loro non ci sono più, nell’ufficio — aggiunse LuAnn.

— Un tale di nome Jackson ha firmato il contratto — disse Jarvis.

— Alto come me, capelli scuri, un po’ grasso?

— Esatto. Adesso me lo ricordo. Mi è parso un tipo molto professionale. LuAnn, non è che ti è successo qualcosa di strano quando lo hai incontrato?

— Dipende da quello che vuoi dire con strano. In ogni caso, anche con me questo signor Jackson è stato molto professionale. Che altro puoi dirmi?

Jarvis fissò nuovamente lo schermo, alla ricerca di qualche nuova informazione con la quale fare colpo su di lei. Non la trovò. Alla fine la sua espressione si chiuse nel disappunto.

— Mi dispiace, LuAnn. Temo che non ci sia altro.

LuAnn prese in braccio Lisa. Nel farlo, il suo sguardo cadde su una pila di blocchi per appunti e una tazza piena di penne.

— Johnny, ti spiace se prendo uno di quelli? Ti posso dare qualcosa…

— Vuoi scherzare? Prendi pure tutto quello che vuoi.

— Solo un blocco e una penna — precisò lei nel metterli nella borsa.

— Figurati. Ne abbiamo a tonnellate.

— Bene, Johnny. E grazie per quello che mi hai detto. Sul serio. Mi ha fatto piacere rivederti.

— Il piacere lo hai fatto tu a me quando sei entrata da quella porta. — Jarvis diede un’occhiata all’orologio e uscì dal bancone. — Senti, ho l’intervallo del pranzo tra una decina di minuti e c’è questo ristorante cinese niente male qui dabbasso. Sei mia ospite. Facciamo altre due chiacchiere, parliamo dei tempi della scuola. Che ne dici?

— Magari un’altra volta, Johnny. Come ti ho detto, oggi vado di fretta.

LuAnn si sentì un poco in colpa nel vedergli la delusione sul viso. Posò Lisa sul bancone e lo abbracciò. Sorrise nel percepire il respiro di lui nei propri capelli lavati di fresco. Jarvis la strinse intorno alla vita, i seni di lei che premevano contro il suo torace. Bastò e avanzò per rimettere il signor Johnny Jarvis di ottimo umore.

— Sono davvero contenta di vederti sistemato così bene, Johnny — disse LuAnn sciogliendo l’abbraccio. — Ma lo sapevo. Sei uno in gamba.

E se le loro strade si fossero incrociate in un tempo diverso, in un modo diverso, forse anche tutto il resto sarebbe stato diverso. Ma questo LuAnn lo tenne per sé.

— Davvero lo pensi? — Jarvis continuava a fluttuare sulle nuvole. — E io che credevo che nemmeno ti ricordassi di me.

— Invece io sono così: tutta una sorpresa! — LuAnn riprese Lisa, che strofinò l’orsetto di peluche sulla guancia della madre. — Stammi bene, Johnny. Ci vediamo, okay?

LuAnn si diresse alla porta, con Lisa che dal suo seggiolino trillava tutta la sua felicità per essersi rimessa in movimento.

— Ehi, LuAnn?

Lei si girò a metà.

— Lo accetterai quel lavoro del colloquio con Jackson?

— Ancora non lo so — rispose LuAnn dopo averci pensato un attimo. — Ma se lo accetto, credo che ne sentirai parlare.


A Rikersville c’era una biblioteca pubblica. LuAnn la frequentava spesso ai tempi della scuola, ma erano trascorsi parecchi anni dall’ultima volta che c’era stata. La bibliotecaria, una donna affabile, le fece i complimenti per la bambina. Lisa si teneva stretta alla mamma, i grandi occhi attratti dai colori dei volumi sugli scaffali.

— A Lisa piacciono i libri — disse LuAnn facendo una lieve carezza alla piccola. — Tutti i giorni gliene leggo un po’.

— Ha i tuoi occhi, lo sai?

Lo sguardo della bibliotecaria continuava a spostarsi dalla madre alla figlia, alla ricerca di altre rassomiglianze. Incontrò la mano sinistra di LuAnn e notò l’anulare privo di fede matrimoniale. Il suo sorriso svanì.

— Questa piccolina è la cosa più bella che ho mai fatto — disse prontamente LuAnn notando l’espressione tesa della donna. — Non ho granché al mondo, ma se c’è una cosa che a Lisa non mancherà mai, è l’amore della sua mamma.

— Anche mia figlia ha un bambino — accennò la bibliotecaria sorridendo in modo incerto. — Cerco di aiutarla come posso, ma è sempre tutto così difficile… Con i soldi che non bastano mai.

— Eh, a chi lo dici. — LuAnn tolse dalla borsa il biberon e una bottiglia d’acqua. Sciolse un po’ di liofilizzati che le aveva dato l’amica dalla quale aveva passato la notte e aiutò Lisa a tenere il biberon. — La settimana che riuscirò a finire con più soldi di quando l’ho iniziata, nevicherà rosso a Rikersville.

La bibliotecaria scosse il capo in segno di approvazione. — Dicono che i soldi sono la causa di tutti i mali. Ma certe volte penso che sarebbe proprio bello non doversi sempre preoccupare di come fare a pagare i conti. Io non riesco nemmeno a immaginare come ci si possa sentire. Tu ci riesci?

— Altroché. Ci si deve sentire proprio bene.

La bibliotecaria rise. — Che cosa posso fare per te, LuAnn?

— Ce le hai le copie dei giornali vecchi su quelle specie di pellicole, giusto?

— Pellicole… Vuoi dire microfilm?

— Ecco, giusto: microfilm.

La bibliotecaria fece un cenno. — La stanza in fondo.

LuAnn ebbe un’esitazione.

— Hai mai usato un visore? — domandò la bibliotecaria aggirando il banco. — Te lo mostro io. Non è difficile.

L’archivio dei microfilm era vuoto e immerso nell’oscurità. La bibliotecaria accese la luce, fece accomodare LuAnn di fronte a una postazione e prelevò un rullo di pellicola da un cassetto. Le bastò un momento per collocarlo sul perno e per attivare lo schermo luminoso. LuAnn la osservò con attenzione mentre faceva scorrere il testo usando la manopola su un lato della macchina.

— Ecco fatto — disse infine la bibliotecaria rimuovendo il rullo. — Prova tu adesso.

LuAnn non commise errori.

— Molto bene — commentò la bibliotecaria. — Vedo che impari in fretta. Al principio, tanta gente fa una gran confusione.

— So come cavarmela quando c’è da usare le mani.

— Le pubblicazioni archiviate sono catalogate con chiarezza. Abbiamo il giornale locale, è ovvio, più alcuni giornali nazionali. Le date sono stampate sul davanti dei cassetti.

— Grazie tante.

LuAnn attese che la donna fosse uscita. Poi prese in braccio Lisa, sempre attaccata al suo biberon, e andò a scorrere le targhette sui cassetti. Mise la bambina a terra e ne aprì uno. Osservò con divertimento la piccola che lasciava cadere il biberon, afferrandosi poi a una delle maniglie metalliche nel cercare di mettersi in piedi.

LuAnn individuò l’archivio di un giornale nazionale e selezionò i rulli degli ultimi sei mesi. Cambiò Lisa, le fece fare il ruttino, se la sistemò su un ginocchio e finalmente inserì il primo rullo nel visore. Non impiegò molto tempo per trovare il titolo a caratteri cubitali, risalente a sei mesi prima.


LOTTERIA NAZIONALE DA FAVOLA VINCITA DA 45 MILIONI DI DOLLARI


Una luce livida, accecante, avvampò dalle finestre alla sua destra, sbiadendo lo schermo. Seguì un boato terribile, e l’intera struttura della biblioteca parve scossa dalle fondamenta. L’immagine sul monitor vacillò, tremò, tornò a stabilizzarsi. La dura pioggia di un improvviso temporale di primavera prese a martellare i vetri.

LuAnn lanciò uno sguardo preoccupato a Lisa. Nessun problema, la piccola stava tranquillamente ignorando luci e suoni. LuAnn prese dalla borsa la copertina, la stese per terra e vi depose Lisa, mettendole accanto alcuni giochi.

Tornò a concentrarsi sul monitor e lesse l’articolo. L’estrazione della Lotteria Nazionale aveva luogo il quindici di ogni mese. Le date che LuAnn cercava erano quelle comprese tra il sedici e il venti. Tirò fuori il notes e la penna che aveva recuperato da Johnny Jarvis e cominciò a prendere appunti.

Due ore più tardi aveva completato la sua analisi sugli ultimi sei vincitori. Riavvolse il rullo del microfilm e andò a riporlo nel cassetto dell’archivio. Tornò a sedersi e osservò le annotazioni. La testa le pulsava, gli occhi le bruciavano. Aveva una gran voglia di un caffè. Fuori, la pioggia continuava a cadere.

Prese in braccio Lisa e rientrò nell’ambiente principale della biblioteca. Scelse alcuni libri per l’infanzia, li sfogliò soffermandosi sulle figure e infine le lesse una favola. Ben presto la piccola si addormentò. LuAnn mise Lisa nel seggiolino portatile e lo sistemò sul tavolo accanto a sé. La biblioteca continuava a essere quieta e calda. LuAnn stessa sentì le dita del torpore scivolare su di lei. Stese un braccio verso Lisa, tenendole protettivamente la mano sul ginocchio.

Avrebbe atteso l’esaurirsi della pioggia, poi se ne sarebbe andata.


— Stiamo per chiudere.

LuAnn si svegliò con un sussulto. La bibliotecaria la stava osservando, con aria gentile.

— Santo cielo… Ma che ora è?

— Da poco passate le sei, cara.

LuAnn raccolse in fretta le sue cose. — Scusa se mi sono addormentata così.

— A me non davi nessun fastidio. Eravate così in pace, tu e tua figlia. Mi dispiace solo di dovervi far uscire.

— Di nuovo grazie tante per tutto il tuo aiuto. — LuAnn alzò lo sguardo al soffitto, udendo ancora lo scroscio della pioggia.

— Vorrei poterti offrire un passaggio a casa — disse la bibliotecaria. — Ma sono in autobus.

— Non ci pensare. Io e l’autobus siamo amici.

LuAnn riparò Lisa sotto la propria giacca e partì di corsa verso la fermata. Vi rimase mezz’ora, protetta dalla tettoia, finché un fruscio di pneumatici sull’asfalto bagnato e uno stridio di freni accompagnarono l’arrivo dell’autobus. A LuAnn mancavano dieci centesimi. L’autista, un nero ben piazzato che la conosceva di vista, li aggiunse di tasca propria e le fece cenno di salire.

— Se non ci aiutiamo un po’ tra di noi… — aggiunse solidale.

LuAnn lo ringraziò con un sorriso. Venti minuti dopo, con parecchie ore d’anticipo sull’inizio del suo turno, faceva ingresso al Number One Truck Stop.

— Che ci fai da queste parti così presto?

Beth, sulla cinquantina, matronale, stava pulendo il bancone di formica con uno straccio bagnato.

Un camionista seduto a qualche sgabello di distanza, un bestione da centocinquanta chili, diede a LuAnn una bella lumata scrutandola da sopra l’orlo di una tazza di caffè. La vide fradicia da capo a piedi e ansimante per la corsa sotto la pioggia. Ma quello che vide gli piacque lo stesso.

— È arrivata presto per non perdersi il vecchio Frankie — commentò con un ghigno sterminato. — Sapeva che ho cambiato turno di lavoro, e non poteva sopportare l’idea di non vedermi più.

— Quanto hai ragione, buon vecchio Frankie — lo imbeccò Beth lavorandosi i molari con uno stuzzicadenti. — A LuAnn si spezzerebbe proprio il cuore a non vedere più il tuo panzone.

— Come ti butta, Frankie? — lo salutò LuAnn.

— Proprio bene… — Il suo ghigno sembrava cristallizzato. — Adesso.

— Beth, mi guardi Lisa un attimo? — domandò LuAnn mentre si passava un tovagliolo asciutto sulla faccia e sulle braccia. — Solo il tempo di mettere l’uniforme.

Verificò che Lisa fosse asciutta, scoprendo che era anche affamata.

— Le preparo un biberon in un momento. Si è fatta un bel pisolino, ma mi sembra pronta lo stesso per andare a nanna.

— Guardarla? — Beth sollevò Lisa e se la tenne contro il petto. — Ma io te la prendo tutta in braccio questa bella signorina…

Lisa emise ogni sorta di gridolini, prese la penna sistemata dietro l’orecchio di Beth e la buttò chissà dove.

— Allora, LuAnn, com’è che arrivi in trincea con ore di anticipo?

— Mi sono infradiciata tutta, e l’uniforme è la sola cosa asciutta che ho. E poi non mi va di aver perduto la notte scorsa. Ehi, c’è rimasto niente dal pranzo? Mi sa che mi sono scordata di mangiare.

Beth le scoccò un’occhiata colma di disapprovazione e si piantò una mano sul fianco abbondante, con aria da zia super-protettiva. — Se solo prendessi per te la metà delle attenzioni che dedichi a questa creatura… Ma pensa te: sono quasi le otto di sera. A digiuno!

— E dai, Beth. Te l’ho detto che mi sono dimenticata, no?

— Duane, giusto? Lo scemo si è di nuovo bevuto in birra i soldi della paga. O no?

— Tu quel figlio di puttana lo dovresti buttare dentro il cesso con l’acqua tirata, LuAnn — brontolò Erankie. — Ma prima lascia che gliela dia io una bella battuta con i controcazzi. Tu meriti di meglio.

Il sopracciglio di Beth che s’inarcava evidenziò quanto lei fosse d’accordo con Erankie.

— E tante grazie per volermi dire com’è che devo vivere la mia vita — disse LuAnn folgorandoli entrambi, e si accinse ad andare a cambiarsi. — E ora, con il vostro permesso…


Più tardi, seduta a un tavolo in un angolo, LuAnn spinse da parte il piatto con il poco che restava di quanto Beth le aveva messo insieme; rimase immobile a sorseggiare il caffè appena fatto.

Fuori, la pioggia continuava a cadere sul paesaggio verde scuro della Georgia. Il suo tamburellare contro la copertura di alluminio del locale aveva un che di rassicurante.

LuAnn si strinse nel golf leggero che teneva intorno alle spalle e lanciò uno sguardo all’orologio a muro dietro il bancone. Ancora due ore prima di montare. Di solito, quando arrivava al Number One in anticipo, l’idea era di raggranellare un po’ di straordinari. Ma adesso il direttore non ci stava più.

Abbiamo toccato il fondo, mia cara, era stata la sua spiegazione.

Be’, gli aveva risposto lei senza tanti complimenti, se è per questo anch’io ho toccato il fondo.

Non era servito. Perlomeno, continuava a permetterle di tenere Lisa con sé. In caso contrario, LuAnn non avrebbe avuto nemmeno quell’infimo impiego. L’altro aspetto positivo era che veniva pagata in nero. E niente busta paga, niente tasse. Ci mancavano solo quelle… Tra l’altro, LuAnn Tyler non aveva mai presentato una denuncia dei redditi. Con l’intera vita trascorsa al di sotto della soglia della povertà, si riteneva pienamente in diritto di non dover pagare le tasse.

LuAnn allungò una mano e rimboccò la coperta di lana intorno a Lisa, addormentata accanto a lei nel suo seggiolino. Le aveva dato un po’ del suo cibo. Lisa cominciava a tollerare davvero bene il nutrimento solido. Forse, però, non stava riposando nel modo giusto. Forse, il tenerla infilata sotto il bancone di quella tavola calda rumorosa, fumosa e puzzolente, le stava procurando chissà quali danni a venire. Forse la sua personalità ne avrebbe risentito. LuAnn era certa di aver letto qualcosa del genere su una rivista, o magari di averlo visto in TV. Era un’idea che le dava gli incubi.

Ma c’era di più. Quando avrebbe dovuto nutrire Lisa con cibo solido con ritmi da adulto, ce ne sarebbe stato abbastanza? Sarebbe davvero riuscita a dare da mangiare a sua figlia? Senza macchina, sempre su e giù da quei dannati autobus, che cosa sarebbe accaduto se sua figlia si fosse ammalata? O se lei stessa si fosse ammalata? E se avesse perduto il lavoro? Che ne sarebbe stato di Lisa? LuAnn Tyler non aveva alcun tipo di sussidio di disoccupazione, né di assicurazione sanitaria. Per le visite e le vaccinazioni portava Lisa all’ospedale della contea. Per contro, lei non vedeva un medico da oltre dieci anni. D’accordo, era giovane e di buona salute, ma tutto poteva andare in pezzi nel tempo di uno schioccare di dita. Non si poteva mai sapere.

Naturalmente c’era Duane Harvey. Il grande, generoso Duane Harvey che si prendeva cura della lista senza fine delle necessità quotidiane di Lisa. Certo! Alla sola remota prospettiva di cambiare un pannolino, quel povero idiota fradicio di birra sarebbe scappato urlando nei boschi. Le venne quasi da ridere. Ma non era proprio il caso.

LuAnn studiò il ritmo del respiro di Lisa, che dormiva con la boccuccia semiaperta. Sentì come una mano di ghiaccio stringerle lo stomaco. Sua figlia dipendeva da lei per tutto. Letteralmente tutto. Ma la realtà era che LuAnn non aveva nulla. La realtà era che lei, giorno dopo giorno, si avvicinava sempre più al confine del nulla. E per il collasso finale era solo questione di tempo.

Un ciclo. Questo aveva detto Jackson.

Prima sua madre. Poi lei, LuAnn. Perfino Duane Harvey cominciava ad assomigliare a Benny Tyler, in tutti i sensi. E Lisa, la creatura per la quale lei non avrebbe esitato a uccidere, o si sarebbe fatta uccidere, era l’ultima dell’appello. Benvenuti in America, terra delle opportunità. Ma certo, bastava solo aprire la porta giusta. Il problema era che a lei, LuAnn Tyler, qualcuno si era dimenticato di dare le chiavi. O forse quel qualcuno non si era affatto dimenticato. Forse c’era piena premeditazione. Perlomeno, era questa la prospettiva secondo la quale LuAnn vedeva le cose quando tutto andava male, come adesso.

Scosse il capo, come a voler scuotere via anche il carico di quei pensieri. Vedere le cose a quel modo, qui e ora, non le sarebbe stato di nessun aiuto. Frugò nella borsa e tirò fuori il notes con gli appunti ricavati dai microfilm. Appunti che davano molto da pensare.

Sei vincitori della Lotteria Nazionale. LuAnn era partita da quelli dell’autunno scorso per risalire fino al presente. Aveva trascritto i loro nomi e le loro storie personali. Gli articoli sul giornale erano corredati delle loro foto scattate al momento della vincita. Sorrisi che sembravano brillare di luce propria.

Judith Davis, trentasette anni, madre di tre figli ancora piccoli, sopravvivenza affidata agli assegni familiari.

Herman Rudy, cinquantotto anni, ex camionista infortunatosi sul lavoro e strangolato da colossali spese mediche.

Wanda Tripp, trentasei anni, vedova, disoccupata, esistenza grama appesa a quattrocento dollari al mese di sussidio di disoccupazione.

Randy Stith, trentuno anni, vedovo da poco, padre di un bimbo in tenera età, operaio appena licenziato da una fabbrica.

Bobbie Jo Reynolds, trentatré anni, cameriera a New York; dopo la vincita da sessantacinque milioni di dollari aveva deciso di abbandonare i suoi sogni di gloria come attrice, scegliendo di dipingere nature morte in qualche località del Sud della Francia.

Raymond Powell, l’ultimo vincitore in ordine di tempo, quarantaquattro anni, costretto da una bancarotta a vivere in un ospizio per senzatetto.

LuAnn si rilassò contro lo schienale, come se fosse di colpo priva di forze.

LuAnn Tyler, vent’anni, madre di una bambina in fasce, niente marito, niente soldi, niente futuro.

Perfetta, assolutamente perfetta per completare, o forse per continuare, quella pattuglia di gente disperata.

Le sue ricerche erano arrivate solamente a sei mesi prima. Quanti altri ne esistevano? Come colpi giornalistici, erano formidabili: tutta gente alla canna del gas, che di colpo si ritrovava al settimo cielo. Vecchi proiettati in una nuova ricchezza. Bambini piccoli improvvisamente al cospetto di un radioso futuro. Sogni, tanti sogni, di colpo divenuti realtà.

Qualcuno sarà il vincitore.

La faccia di Jackson, cosi calma, così controllata.

Perché non lei, LuAnn?

La voce di Jackson. Così perfetta, così seducente.

LuAnn aveva l’impressione di scivolare sempre più rapidamente giù da una diga senza fine. E acque profondissime, insondabili. Il fascino dell’ignoto. Qualcosa che nel contempo la spaventava e la attraeva. Guardò di nuovo Lisa. E di nuovo fu preda di un incubo ricorrente: una bambina che diventa donna, in una roulotte assediata da giovani lupi famelici.

— Che succede, tesoro?

Beth la stava osservando con materna simpatia, eseguendo un formidabile numero di equilibrismo con troppi piatti in bilico per due sole braccia.

— Non molto. Davo solo un’occhiata alle mie fortune. Beth sogghignò lanciando uno sguardo al blocco per appunti.

LuAnn si affrettò a richiuderlo.

— E allora lascia che ti dica una cosa, signorina LuAnn Tyler. Quando alla fortuna grossa ci arriverai, non dimenticarti dei tuoi primi e soli amici di Rikersville, Georgia — e si rimise in movimento con le portate per i vari tavoli.

— Puoi starne certa — disse LuAnn rivolgendole un sorriso incerto. — Te lo giuro.

7

Erano le otto del mattino del giorno zero quando LuAnn, con Lisa nel seggiolino, scese dall’autobus. Non era la sua solita fermata, e si trovava a una mezzoretta di cammino dalla Airstream. La pioggia era cessata. La tempesta aveva lasciato dietro di sé un cielo blu cobalto a sovrastare vasti paesaggi color verde cupo.

In qualsiasi direzione si guardasse, erba novella e germogli cominciavano ad apparire dalla terra scura. Un altro, lento inverno era finito. Stormi di uccelli volavano cinguettanti sui campi, festeggiando il cambiamento di stagione. Questo era il momento della giornata che LuAnn preferiva. Calmo, rilassante.

Sembrava alimentare la speranza.

LuAnn osservò le ampie ondulazioni erbose davanti a sé. Superò un portale ad arco, oltre una lastra di marmo con una scritta scolpita a lettere dai contorni ben definiti:


HEAVENLY MEADOWS CEMETERY

Camposanto dei Pascoli del Cielo. Come per volontà propria, i suoi piedi affusolati la guidarono verso il Campo 14, Sezione 21, Area 6. La tomba si trovava sulla sommità di una delle collinette, al cospetto di un’antica quercia sulla quale sarebbero presto tornate le foglie, portatrici di una fresca, grande ombra.

LuAnn posò il seggiolino su una panchina di pietra e prese Lisa in braccio. S’inginocchiò sull’erba piena di rugiada e tolse dalla lapide alcune foglie, umide di pioggia. La vita di Joy Tyler era stata breve, meno di trentasette anni, ma era stata anche un’eternità di sofferenza. Gli anni passati al fianco di Benny Tyler avevano accelerato l’uscita di Joy da questo mondo. LuAnn ne era assolutamente certa.

— Ti ricordi, Lisa? — LuAnn puntò il piccolo indice della bambina verso la lapide. — È qui che dorme la tua nonna. Non siamo venute a trovarla per un po’ perché c’è stato il tempo cattivo. Ma adesso che c’è la primavera, veniamo da lei di nuovo. E quando veniamo, anche se dorme, è come se lei si alza. E se tu apri bene le tue orecchiette, se tu chiudi gli occhi stretti stretti come quelli di un uccellino, se tu ascolti bene, ma proprio bene, allora senti che la nonna ci parla. Senti che ci dice come la pensa sulle cose.

LuAnn andò a sedersi sulla panchina di pietra, con Lisa sulle ginocchia, proteggendola dall’aria fredda del primo mattino. Lisa era ancora insonnolita. Le ci voleva sempre un po’ per svegliarsi, dopodiché non avrebbe più cessato di muoversi e di parlare per parecchie ore. Intorno a loro, il Camposanto dei Pascoli del Cielo era deserto. Un’unica solitaria figura, un giardiniere in sella a una motofalciatrice, era visibile a distanza. Lo scoppiettare del motore lontano si perdeva nel vento. Sulla collinetta regnava la pace. Così anche LuAnn chiuse gli occhi stretti stretti, come quelli di un uccellino.

E si mise in ascolto…

Avrebbe fatto quella telefonata.

Aveva pensato di chiamare non appena finito di lavorare alla tavola calda. Jackson aveva detto in qualsiasi momento. Probabilmente era rimasto in attesa, pronto a rispondere al primissimo squillo. L’ora non aveva alcuna importanza. Chiamare Jackson, certo.

Dirgli che accettava il contratto.

La cosa più semplice di tutte. E la più intelligente. Era il suo turno. Dopo vent’anni passati negli abissi della delusione, della sofferenza e del dolore, finalmente la fortuna le stava sorridendo. Fra miliardi di nomi era proprio uscito il suo: LuAnn Tyler. Un’occasione da cogliere al volo. Ed era questa la prima certezza: una simile occasione non si sarebbe ripresentata mai più. Seconda certezza: anche gli altri vincitori, dei quali LuAnn aveva letto nei microfilm, avevano fatto quella telefonata. Terza e ultima certezza: per quella gente lei non aveva trovato traccia di guai successivi. E quello era proprio il genere di notizia che avrebbe avuto una vasta risonanza specialmente in un’area depressa come Rikersville, dove tutti giocavano alla lotteria in modo quasi ossessivo, nel tentativo di evadere dalla prigione senza sbarre della povertà.

Ma quando LuAnn Tyler credeva di avere già preso la propria decisione, qualcosa dentro di sé le aveva impedito di correre al più vicino telefono nel tragitto fra la tavola calda e la fermata dell’autobus. Invece, LuAnn aveva scelto di ascoltare la voce di qualcun altro. Spesso era venuta su questa collinetta, per parlare con sua madre, per deporre fiori sulla sua lapide, per tenere pulito il luogo del suo infinito riposo, arrivando alla convinzione di essere effettivamente in grado di comunicare con Joy. Non si trattava di voci. Erano impressioni, sensazioni, percezioni. A volte, qui sulla collinetta, LuAnn sentiva una grande euforia, oppure una grande tristezza. Alla fine, aveva accettato che quel qualcosa, qualsiasi cosa fosse, continuasse a esistere. Sia per lei, sia per la sua bambina. I dottori, quasi certamente, avrebbero definito quel qualcosa una forma di pazzia, LuAnn lo sapeva. Ma per lei non faceva la minima differenza.

E ora, al mattino del giorno zero, LuAnn sperava che il qualcosa sulla collinetta le parlasse, le dicesse che cosa fare. Sua madre le aveva insegnato molto chiaramente la differenza tra giusto e sbagliato. LuAnn non aveva raccontato menzogne fino a quando non aveva cominciato a vivere con Duane. Da allora in poi le bugie, le mistificazioni e le distorsioni si erano come generate a getto continuo, condizione irrinunciabile della sua sopravvivenza. Tuttavia, in vita sua LuAnn Tyler non aveva mai rubato, né aveva mai fatto alcunché di realmente malvagio. Ed era così che aveva potuto conservare la dignità e il rispetto di sé, traendone sostegno per affrontare un futuro in cui la speranza di un cambiamento andava facendosi di giorno in giorno più flebile.

Ma oggi, giorno zero, quel qualcosa sulla collinetta taceva.

La motofalciatrice si era avvicinata, e il martellare del motore cominciava a filtrare nel vento, disturbandola. LuAnn riaprì gli occhi, con un gran sospiro. Niente da fare. Sua madre sembrava non essere sempre disponibile. Quanto meno, non lo era affatto oggi, giorno zero. LuAnn si alzò e si preparò ad andarsene.

Fu a questo punto che ebbe una percezione.

Non le era mai successo niente del genere, prima d’ora. Il suo sguardo si spostò verso una diversa sezione del cimitero, lontana circa cinquecento metri. Come se un altro qualcosa la stesse richiamando da quella parte. E LuAnn Tyler sapeva perfettamente di che cosa si trattava. Si mosse a passi incerti lungo uno degli stretti sentieri lastricati che serpeggiavano tra le tombe, oltre il crinale della collinetta, mentre il rumore della motofalciatrice veniva nuovamente inghiottito dalla distanza. Tenne Lisa stretta al petto, quasi che quella forza invisibile potesse strappargliela via. LuAnn continuò a camminare sotto un cielo che di colpo pareva diventare color dell’inchiostro, nel vento improvvisamente gelido che soffiava fra le pietre tombali.

La lapide di bronzo era identica a quella di sua madre. Anche parte del nome era lo stesso:


BENJAMIN HERBERT TYLER

LuAnn osservò le lettere incise, dalle quali le intemperie avevano fatto colare frastagliate tracce di corrosione. Dal giorno della sua morte, era questa la prima volta che LuAnn visitava la tomba di suo padre. Al funerale aveva tenuto stretta la mano di sua madre, e tutt’e due avevano esibito la giusta faccia di circostanza per i congiunti e gli amici. Tutt’e due in realtà non provavano la minima tristezza, la minima sofferenza. Per lo strano modo in cui a volte gira il mondo, Benny Tyler era stato enormemente popolare fra la gente di Rickersville per la sua gentilezza e per la sua generosità. Con tutti tranne che con sua moglie e sua figlia. Con loro non era mai stato né gentile né generoso.

LuAnn trattenne il respiro. Quel nome per esteso, inciso nel bronzo… La lapide le sembrò sul punto di spalancarsi per inghiottirla nella tomba. LuAnn cominciò ad arretrare, ad allontanarsi da quel luogo saturo di ombre.

Quell’altro qualcosa…

Oggi, giorno zero, il qualcosa proveniva da questa tomba, non dalla tomba di sua madre. Più forte, più imperioso di quanto lei lo avesse mai percepito. Forme evanescenti prive di dimensioni, prive di profondità parevano danzare nel vento al di sopra della tomba, simili ai tentacoli di una medusa degli abissi.

LuAnn Tyler, con la figlia stretta ancora di più al petto, girò di scatto su se stessa, agguantò il seggiolino e prese a correre disperatamente attraverso il Camposanto dei Pascoli del Cielo. Giù per la collinetta, fuori dal portale.

Prendi quei fottuti soldi, ragazzina!

Andarsene da là dentro. Qualsiasi posto sarebbe andato bene, purché non fosse là dentro.

Papà ti dice di prenderli! All’inferno tutti e tutto! Dammi retta! Usa quel cervello di gallina che hai. Usalo, cazzo!

Non era stato necessario che LuAnn ascoltasse con attenzione.

Quando sei qui sotto, non ti resta niente! NIENTE! Ti ho forse mai mentito, piccolina? L’ho forse mai fatto? Dai retta a papà. Perché papà ti vuole bene. Tu lo sai…

Non era stato necessario che LuAnn tenesse gli occhi chiusi stretti stretti, come quelli di un uccellino.

Prendi quei soldi del cazzo, stupida puttanella! PRENDILI!

I rumori della realtà, il motore agricolo e il traffico sulla strada, erano ricomparsi. L’uomo sulla motofalciatrice la osservò correre via sotto quel cielo di un blu da cartolina. Poi guardò la tomba dalla quale LuAnn era scappata. C’era gente a cui i cimiteri facevano paura perfino in pieno sole.

L’uomo tornò a guardare verso il portale dei Pascoli del Cielo. LuAnn Tyler era scomparsa.

Come se non fosse mai stata là.


Il vento freddo le inseguiva ancora mentre scendevano per la lunga strada sterrata.

Il volto di LuAnn era madido di sudore. La luce del sole, raggi accecanti che penetravano fra gli squarci nelle chiome degli alberi, fiammeggiava nei suoi occhi. LuAnn, con Lisa sempre stretta a sé, continuava a correre con un ritmo da maratoneta: una falcata che aveva la regolarità di un meccanismo ad alta precisione e la grazia di un felino predatore. Negli anni dell’adolescenza non c’era un solo corridore nell’intera contea a cui LuAnn Tyler non fosse stata in grado di far mangiare la polvere, inclusi gli attaccanti delle squadre di football del liceo. Un talento atletico da campione mondiale, così le aveva detto il suo insegnante di ginnastica, una velocità che era come un dono degli dèi. Ma con quel dono, nessuno le aveva mai detto che cosa fare. Aveva soltanto permesso a quella ragazzina di quattordici anni con un corpo da donna di scappare dal giovane idiota che allungava le mani, quando non poteva gonfiargli la faccia.

LuAnn sentiva il cuore martellarle nel petto. Ebbe la fugace visione di sé che crollava con la faccia in avanti nella ghiaia, folgorata da un attacco cardiaco identico a quello che aveva stroncato suo padre. Poteva darsi che esistesse chissà quale misterioso difetto organico, eredità genetica della discendenza di Benny Tyler. Un subdolo killer invisibile, sempre in agguato, pronto a strappare un altro Tyler dalla faccia della Terra.

LuAnn rallentò. Lisa aveva cominciato a lamentarsi troppo e a piangere. Allentando la stretta sulla piccola, sussurrandole paroline all’orecchio per calmarla e muovendosi in grandi, lenti cerchi sotto l’ombra degli alberi, LuAnn finalmente si fermò. E anche il pianto della bambina cessò.

LuAnn camminò per il resto della strada che separava il cimitero dalla Airstream. Benny Tyler le aveva parlato, e gli ultimi dubbi si erano dissipati nel nulla. Adesso aveva la risposta.

Avrebbe messo quanto poteva in una valigia e avrebbe poi chiesto a qualcuno di andare a prelevare il resto. Per un po’ si sarebbe fatta ospitare da Beth, che insisteva da un pezzo perché andasse a stare da lei. Beth abitava in una vecchia casa colonica con un sacco di stanze, e dopo la morte di suo marito la sua unica compagnia erano un paio di gatti che, a sentire lei, la superavano quanto a pazzia. LuAnn aveva deciso: sarebbe tornata a scuola, a costo di portare Lisa con sé in aula. Non aveva importanza. Si sarebbe iscritta al college municipale e avrebbe preso il diploma. Se c’era riuscito Johnny Jarvis, perché non avrebbe potuto riuscirci anche lei?

Quanto al signor Jackson e alle sue palline magiche, avrebbe trovato qualcun altro per prendere il suo posto. Questo era un problema che non la riguardava più.

Per anni aveva cercato risposte come quelle. Ora le aveva trovate. E nel trovarle, il peso del mondo si era sollevato dalle sue spalle. Sua madre le aveva parlato. Forse lo aveva fatto in modo indiretto, ma l’incantesimo aveva comunque avuto luogo.

— Non dimenticare mai quelli che abbiamo amato e che adesso non sono più quaggiù con noi — sussurrò a Lisa. — Noi non sappiamo. Loro sanno.

LuAnn arrivò sulla sommità del dosso affiancato dai boschi scuri. Il giorno prima, Duane Harvey era pieno di soldi. Chissà quanti gliene restavano. Nel momento in cui si ritrovava qualche dollaro in tasca, Duane era sempre fin troppo svelto a offrire da bere a destra e a sinistra. Lo sapeva il cielo come poteva aver bruciato le mazzette nascoste sotto il letto. LuAnn non gli aveva neppure chiesto da dove provenivano quei soldi. Per quanto la riguardava, erano solo un’ulteriore ragione per andarsene.

Discese la strada tortuosa sull’altro lato del dosso. Uno stormo di uccelli neri si sollevò gracchiando dagli alberi, e il loro improvviso battito d’ali la fece sussultare. La Airstream era una sagoma immobile circondata dalla sua corte di relitti e di rottami. Ma adesso, c’era qualcos’altro tra relitti e rottami.

Un’auto nera. Una grossa decappottabile, la vernice troppo lucida, con troppe cromature di cattivo gusto. Sul cofano spiccava una specie di ornamento, anch’esso pesantemente cromato. Da lontano pareva avere la forma di una donna impegnata in qualche atto osceno. LuAnn continuò ad avanzare, ma molto più lentamente. Il furgone di Duane era sotto sequestro. Nessuno dei suoi amici buzzurri e ubriaconi poteva permettersi una macchina del genere.

Quell’auto nera, con quelle ruote da pappone, semplicemente non doveva esserci.

LuAnn si avvicinò cauta, dando uno sguardo più attento. Nulla che potesse fornire indicazioni sul guidatore. I sedili anteriori, con telefono cellulare sul ponte intermedio, erano foderati di pelle bianca con rifiniture di cuoio color porpora. L’interno dell’auto era assurdamente tirato a lustro, la plancia talmente lucida che quasi ci volevano gli occhiali scuri per guardarla. Le chiavi erano state lasciate nel quadro, con il portachiavi a forma di lattina di birra Budweiser. Forse Duane Harvey era definitivamente andato fuori di testa e aveva comprato questo cesso su ruote a raggi.

LuAnn salì i due gradini di mattoni di cemento. Rimase in ascolto fuori della porta a zanzariera. Silenzio. Decise di entrare. A Duane aveva già spaccato il grugno una volta, poteva farlo anche una seconda.

— Duane?

Sbatté violentemente la porta della Airstream.

— Che diavolo fai, Duane? È tua quella roba qua fuori?

Nessun rumore, nemmeno un respiro. LuAnn mise Lisa col seggiolino a terra e avanzò verso il fondo della roulotte.

— Duane? Mi rispondi o cosa? Non ho tempo per gli scherzi.

Si affacciò nella stanza da letto, ma Duane non c’era. Gli occhi corsero alla sveglia di sua nonna: fu la prima cosa che fece sparire nella borsa. Non l’avrebbe mai lasciata, mai. Arretrò nel corridoio, fino a Lisa. La piccola era agitata. LuAnn posò la borsa accanto al seggiolino e fece una breve sosta per calmarla. Intanto scrutò verso la parte anteriore della roulotte.

Duane Harvey era a casa. Stava seduto sullo sbrindellato divanetto del soggiorno. Sul tavolino accanto a lui c’era un secchiello di cartone del Kentucky Fried Chicken. Bisunti pezzi di pollo mangiati a metà, patatine fritte rovesciate, chiazze di ketchup sparse come sangue troppo denso, lattine di birra vuote e accartocciate. Resti della cena di ieri, oppure della colazione di oggi. La malridotta televisione era accesa. Niente suono, soltanto immagini baluginanti.

— Ehi, Duane, sei sordo?

Lui girò la testa verso di lei. Un movimento di una lentezza surreale, da ubriaco.

— Tu proprio non vuoi crescere, eh, Duane? — LuAnn era inferocita. — Dobbiamo fare un bel discorsetto, io e te. E a te non piacerà. Ma vuoi saperne una? Non me ne frega niente se non ti pia…

La mano venne fuori dal nulla, coprendole la bocca fin quasi a soffocarla. Un braccio spesso come una trave le strinse la vita, immobilizzandole le braccia lungo i fianchi. Vanamente i suoi occhi dilatati passarono da un angolo all’altro del minuscolo ambiente.

Duane Harvey non era ubriaco. Duane Harvey era morto. Il petto della sua camicia era fradicio di sangue. Sangue vero, non ketchup. Il suo corpo crollò in avanti, come un pupazzo di stracci abbattuto dal vento.

La mano passò dalla bocca di LuAnn alla gola. La morsa spinse il mento verso l’alto, la brutale pressione le fece scricchiolare le vertebre cervicali.

— Un vero peccato, mia cara…

Una voce roca, che LuAnn non riconobbe. E insieme alla voce, le arrivò un alito pesante, fetido, saturo di un tanfo misto di pollo fritto del Kentucky e birra dozzinale. Un alito rivoltante che le premeva contro il volto.

— Cara signora, sei nel posto sbagliato e nel momento sbagliato.

LuAnn vide l’altra mano. E vide la lama del coltello che si sollevava verso di lei. Verso la sua gola. Fu quello l’errore del suo assalitore. Nell’alzare il coltello le aveva lasciato entrambe le braccia libere. Forse aveva creduto che fosse rimasta paralizzata dal terrore. Tutt’altro. LuAnn scalciò all’indietro, colpendo con il tallone il ginocchio di lui come lo zoccolo di un mulo. Simultaneamente pestò a fondo con il gomito nel suo ventre flaccido, all’altezza del diaframma.

L’uomo sussultò, la lama che s’impennava tagliandole il mento in diagonale. Un fiotto rosso si disperse nell’aria ferma della Airstream. LuAnn sentì in bocca il gusto del sangue, il proprio sangue. L’uomo cadde in ginocchio sul pavimento, sputando e gorgogliando. Il grosso coltello da caccia cadde sulla moquette, intrisa di altro sangue, quello di Duane Harvey.

LuAnn partì in fuga verso la porta della roulotte, ma la mano sinistra del killer si chiuse in una morsa intorno alla caviglia di lei, trascinandola a terra. LuAnn rotolò sulla schiena, riuscendo ad assestargli un calcio in piena faccia. Per la prima volta riusciva a vederla: carnagione bianchiccia scottata dal sole, sopracciglia cespugliose unite al centro, capelli zeppi di brillantina da quattro soldi, labbra ora distorte in una smorfia di dolore grottesca. LuAnn non poté vedere i suoi occhi, semichiusi mentre incassava la pedata. Era invece del tutto evidente che si trattava di un gorilla grosso almeno il doppio di lei. Dalla stretta che lui continuava a esercitare sulla sua caviglia, ebbe la conferma che sul piano della forza fisica non ci poteva essere confronto. Ma LuAnn non avrebbe lasciato sua figlia a portata di quell’energumeno. A nessun costo!

Invece di seguitare a resistere passivamente, gli si scaraventò addosso urlando a squarciagola. E questo lo disorientò. Di colpo sbilanciato, l’uomo abbandonò la presa alla caviglia. In quel frangente LuAnn scorse i suoi occhi: due biglie marrone scuro, il colore delle vecchie monete da un centesimo. Quegli occhi non le piacevano. E con uno scatto felino gli piantò indice e medio della mano destra direttamente dentro i bulbi. L’uomo urlò come un maiale sgozzato. Sotto la scossa nervosa del lancinante dolore, schizzò all’indietro, picchiò la schiena contro la parete e le ritornò addosso alla cieca.

Rotolarono entrambi sul divano, in un sussultante groviglio di gambe e di braccia. Nella caduta, la mano di LuAnn agguantò un oggetto, impossibile capire cosa. Le parve qualcosa di ragionevolmente pesante. E di molto duro. Senza pensarci due volte pestò l’oggetto sul cranio del killer, sfiorando nel movimento il cadavere di Duane mentre per inerzia andava a sbattere a sua volta contro la parete.

Nel centrare la tempia dell’assalitore, il telefono si disintegrò in mille pezzi. L’uomo crollò di nuovo. Le sue gambe ebbero un sussulto spastico. Sangue scintillante gorgogliò tra i capelli zeppi di brillantina e colò sul pavimento, mescolandosi al ketchup. E all’altro sangue, quello di Duane Harvey.

LuAnn rimase immobile a terra per un attimo, poi in qualche modo riuscì a mettersi a sedere. Tutta la schiena le doleva. Aveva un braccio indolenzito nel punto in cui, cadendo, aveva urtato contro il tavolino, e ben presto le si intorpidì fino a diventare insensibile, inutile. Un Boeing 747 continuava a decollarle dentro il cranio.

— Cristiddio…

Lottò per sollevarsi e per mantenere l’equilibrio. Doveva andarsene da lì. Prendere Lisa e correre finché le sue gambe l’avessero sostenuta. Le ombre apparvero ai margini del suo campo visivo, simili alle ali di quegli uccelli neri che aveva visto prendere il volo dagli alberi intorno alla radura.

— Gesù…

Le ombre invasero l’intero universo. LuAnn Tyler crollò su se stessa come un castello di carte.

8

LuAnn non aveva idea di quanto tempo fosse rimasta svenuta. Il sangue scaturito dalla ferita al mento non si era ancora seccato, così dedusse che il mancamento non poteva essere stato troppo lungo.

Aveva la maglietta tutta strappata, intrisa di altro sangue, un seno fuoriuscito dallo squarcio nella stoffa. Lentamente, si rimise in posizione seduta, cercando di ricomporsi con l’unico braccio funzionante. Si passò la mano sul mento e le sue dita incontrarono il taglio dai bordi slabbrati. In qualche modo riuscì a sollevarsi. Aveva il fiato mozzo. Ondate di terrore e di dolore fisico continuavano a martellarla come marosi in una tempesta.

I due uomini giacevano uno accanto all’altro. L’uomo che aveva tentato di ucciderla era ancora vivo. Lo indicava il ritmico abbassarsi e sollevarsi del suo ventre a mongolfiera. Per Duane era difficile dirlo. LuAnn si mise in ginocchio e cercò di sentirgli il polso. Se anche c’era un battito, non le riuscì di trovarlo. La faccia di Duane aveva assunto una sfumatura grigiastra, accentuata dalla penombra che dominava all’interno della roulotte. LuAnn si alzò e girò l’interruttore. Non servì, la luce rimase scarsa. Tornò a inginocchiarsi accanto a Duane, cercò una pulsazione sul suo torace. Niente. Gli sollevò la camicia ma la riabbassò di scatto. Sangue.

— Santo Dio, Duane… Che cosa hai combinato? Duane? Puoi sentirmi? Rispondi!…

Nel chiarore livido e quasi lunare della Airstream, poté accertare che il sangue aveva smesso di sgorgare dal corpo ferito di Duane, segno probabile che il suo cuore aveva cessato di battere. LuAnn gli toccò un braccio. La carne del gomito era ancora calda, ma quella della mano era fredda, e le dita stavano già incurvandosi, simili ad artigli. Il suo sguardo si spostò sui resti del telefono. Non sarebbe venuta nessuna ambulanza. E comunque, a Duane non sarebbe servita. Bisognava chiamare la polizia. Identificare l’uomo che aveva fatto fuori Duane e che aveva cercato di uccidere anche lei.

Quando LuAnn si alzò per andarsene, s’inchiodò di nuovo. Polvere. Polvere bianca all’interno di piccole buste di plastica trasparente. Erano nascoste dietro il secchiello bisunto del Kentucky Fried Chicken. Nella lotta erano finite sparse per terra. LuAnn si chinò a raccoglierne una. Capì all’istante di che cosa si trattava. Droga…

Da qualche parte alle sue spalle udì un lamento. Lisa! Dov’era Lisa? Poi ci fu un altro suono, qualcosa che poteva essere un fruscio. La mano del killer aveva cominciato a muoversi, a sollevarsi. Verso Lisa! LuAnn buttò via la bustina con la polvere bianca e si precipitò per il corridoio. Usando il braccio buono strappò dal pavimento il seggiolino in cui si trovava sua figlia, che nel vedere sua madre era scoppiata a urlare, e si gettò fuori dalla Airstream. La zanzariera sbatté contro l’esterno della roulotte con uno schianto che parve lo scoppio di un petardo.

LuAnn sfrecciò davanti alla macchina da pappone, e quando fu oltre gettò una frenetica occhiata dietro di sé. L’imponente massa di carne che lei aveva abbattuto con il telefono non era apparsa sulla porta per darle la caccia. O perlomeno non ancora. Gli occhi di LuAnn volarono al cruscotto, alle chiavi lasciate nel quadro. Investito dai raggi del sole, l’acciaio nichelato scintillava come una tentazione ricoperta di diamanti. LuAnn esitò solo un istante, dopodiché lei e Lisa erano già a bordo. Il motore a otto cilindri si avviò con un ruggito e il retrotreno sbandò sul terreno intriso di pioggia, mentre i pneumatici facevano volare fango scuro in ogni direzione. Cercando di tenere a bada i propri nervi, LuAnn imboccò lo sterrato e superò il dosso. Lasciò dietro di sé il killer, la droga e la Airstream. E Duane Harvey.

L’improvvisa ricchezza di Duane faceva parecchio pensare. Vendere droga rendeva evidentemente molto di più che svuotare automobili lungo l’interstatale. Solo che Duane aveva tentato di tenere per sé un po’ troppa polvere bianca, o un po’ troppa grana verde. O entrambe.

LuAnn svoltò sulla statale, facendo stridere le gomme della macchina da pappone. Doveva avvertire la polizia. C’era ancora una remota possibilità che Duane non fosse morto, anche se salvarlo significava garantirgli un lungo soggiorno nelle patrie galere. Ma se non era morto, lei non poteva permettere che lo diventasse. Quanto all’energumeno, non poteva fregargliene di meno. L’unica cosa che le scocciava era di non aver avuto a disposizione qualcosa di più pesante con cui sfondargli il cranio.

LuAnn lanciò un’occhiata a Lisa. Vide un visino terrorizzato, labbra e gote che ancora tremavano per la paura. Allungò il braccio malconcio per calmare la piccola. Un gesto semplice, breve. Eppure, per non urlare di dolore fu costretta a mordersi le labbra. Quanto al collo, le doleva come se ci fosse passato sopra un camion. Il suo sguardo si spostò sul telefono cellulare. Doveva avvertire, dare l’allarme.

Fermò la macchina in una piazzola di sosta, staccò il ricevitore dal supporto e armeggiò nervosamente con l’apparecchio prima di riuscire a comporre il numero.

— Nove-uno-uno — disse una voce di donna. — Qual è la vostra emergenza?

LuAnn Tyler staccò la comunicazione. Stava osservando le proprie dita, che tremavano così convulsamente da non riuscire a stringersi in un pugno. Sangue suo. E di qualcun altro. In quella storia c’era dentro anche lei. In pieno. Quel maledetto energumeno aveva cercato di rialzarsi, d’accordo, ma per quanto ne sapeva lei, poteva essere crollato nuovamente e aver tirato le cuoia dieci secondi dopo. E in quel caso era stata lei a farlo fuori. Legittima difesa? Certo, ma chi le avrebbe creduto? Era un trafficante di droga. E lei adesso era al volante della sua macchina.

Si girò di scatto, guardandosi intorno. Alcune auto stavano arrivando in senso inverso. La cappotta. Doveva chiuderla. Subito! LuAnn scavalcò lo schienale e si protese oltre i sedili posteriori. Afferrò per l’estremità la bianca copertura, la trasse prima verso l’alto e poi a chiudersi su Lisa e su di lei come una valva protettiva. Infine serrò le maniglie di bloccaggio, si lasciò cadere di nuovo dietro al volante e ripartì di gran carriera.

Anche Duane trafficava droga. Chi avrebbe creduto che lei non ne sapeva niente? Chi avrebbe accettato quella verità? Nessuno, assolutamente nessuno. Nemmeno lei riusciva ad accettarla. Era in trappola, con le spalle al muro. E questa era un’altra verità, molto più brutale. LuAnn la sentì propagarsi lungo i suoi nervi e dentro la sua mente, divorante come un incendio di sterpaglie. Fu costretta a compiere uno sforzo violento per non mettersi a urlare. Uno sforzo ancora più violento per allontanare l’immagine di sua madre.

Non posso farcela, mamma. Non ho più scelta.

Perché adesso era costretta a fare quella telefonata a Jackson.

Lo sguardo di LuAnn schizzò alla plancia, al piccolo orologio cromato al centro del cruscotto. E di nuovo, si sentì mancare il respiro.

Alle dieci e un minuto…

Come se i suoi polmoni non riuscissero a spingere l’aria dentro e fuori.

l’offerta sarà scaduta.

Come se il suo sangue stesse evaporando all’interno del sistema circolatorio.

Scaduta per sempre.

L’orologio segnava cinque minuti dopo le dieci.

LuAnn arrestò l’auto sulla banchina e si afflosciò in avanti, la fronte contro il volante. Jackson aveva parlato sul serio. Su questo non poteva sussistere neppure l’ombra di un dubbio. Lisa… Che cosa ne sarebbe stato di lei se sua madre fosse finita dietro le sbarre? Duane… Quello stupido, maledetto figlio di puttana. L’aveva fottuta da vivo e la stava fottendo anche da morto, in modo addirittura peggiore.

LuAnn sollevò la testa, si guardò intorno stringendo le palpebre sugli occhi pieni di lacrime. Lentamente, il paesaggio tornò a fuoco.

C’era una banca, dalla parte opposta della strada. Una struttura di cemento dall’aspetto impenetrabile, quasi minaccioso. Se avesse avuto con sé una pistola, LuAnn avrebbe seriamente considerato la possibilità di giocarsi la rapina a mano armata. A questo punto, che cosa aveva da perdere? Solo che oggi era domenica: il parcheggio era deserto, la banca chiusa. La cifra dei minuti scattò sull’orologio digitale sulla parete esterna, e l’improvviso fiotto di adrenalina che ne derivò la scosse come una scarica elettrica ad alto voltaggio.

Le dieci meno cinque.

E i bancari sono gente precisa. E anche i loro orologi devono esserlo.

LuAnn affondò una mano in tasca, frugando freneticamente alla ricerca del foglietto con su scritto il numero di Jackson. Dov’era quel maledetto?… Lo trovò. Strappò dal supporto il ricevitore del telefono cellulare e cercò di premere i pulsanti, con la propria coordinazione motoria che pareva andata in cortocircuito. Tempo… Quanto gliene rimaneva? Il ponte radio completò la connessione. Chissà dove, un telefono doveva essersi messo a suonare. Una volta. Due volte…

— Stavo cominciando ad avere qualche perplessità nei suoi confronti, LuAnn — disse la voce di Jackson.

LuAnn se lo figurò seduto in un locale in penombra, mentre consultava il proprio orologio, meravigliandosi di quanto vicino al limite estremo lei fosse potuta arrivare.

— Penso che… — LuAnn deglutì a fatica, riprendendo fiato — che mi è proprio volato vìa il tempo, ecco. Ho avuto un sacco da fare.

— Quale prodigiosa disinvoltura da parte sua, LuAnn. Quanto mai sorprendente, mi consenta.

— Cosa succede adesso?

— Non sta dimenticando qualcosa?

LuAnn si sentì strangolare. — Che… che cosa? — La mente sembrò piombarle nel buio. Di cosa diavolo stava parlando? E se veramente fosse stato tutto un orribile scherzo?

— Io le ho fatto un’offerta, LuAnn. Se lei e io vogliamo stipulare un contratto che sia legalmente valido, lei deve accettare chiaramente la mia offerta. Forse è una formalità, ma sono comunque costretto a insistere.

— Accetto.

— Splendido. Posso darle completa assicurazione che non rimpiangerà la sua decisione.

LuAnn si guardò attorno con apprensione. C’erano due persone dall’altro lato della strada. Stavano osservando la macchina da pappone. LuAnn riavviò il motore e riprese a muoversi.

— Allora — chiese nuovamente a Jackson — che succede adesso?

— Dove si trova in questo momento?

— Perché? — La sua voce era suonata guardinga, e subito aggiunse: — Sono a casa.

— D’accordo. Vada alla più vicina ricevitoria e comperi un biglietto della Lotteria Nazionale.

— Che numeri gioco?

— Non ha alcuna importanza. Come lei sa, ha due opzioni. La prima: accettare un biglietto con numeri emessi automaticamente dalla macchina distributrice. La seconda: scegliere lei stessa i numeri. Nell’un caso e nell’altro, la combinazione viene inviata al computer centrale della Commissione Lotterie e da lì istantaneamente confrontata con le combinazioni già in memoria. Non sono ammesse due combinazioni identiche. Questo consente l’esistenza di un unico vincitore per l’intero montepremi. Se lei opta per scegliere i numeri, e se quei numeri sono già stati scelti da qualcun altro, il sistema glielo farà sapere. In quel caso, tutto quello che deve fare è selezionare numeri differenti.

— Ma non me li dà lei i numeri vincenti? Io pensavo che…

— Non pensi, LuAnn. È un processo che potrebbe arrecarle danni irreparabili. — Nella voce di Jackson c’era di nuovo quella vaga nota di minaccia. — Faccia quello che le dico e basta. Non appena avrà la combinazione, mi richiami a questo medesimo numero e me la comunichi. Penserò io a tutto il resto.

— Ma i soldi quando me li danno?

— Ci sarà una conferenza stampa…

Conferenza stampa!?

Nel suo incontrollato sussulto, LuAnn deviò verso la corsia opposta. Controsterzò seccamente ed evitò per un pelo uno scontro frontale, continuando a tenere il telefono tra la spalla e il collo.

— Qual è il problema, LuAnn? Non mi dica che non ha mai guardato le premiazioni della Lotteria Nazionale. Il vincitore partecipa sempre a una conferenza stampa, di solito a New York. Viene trasmessa in diretta in tutti gli Stati Uniti, in tutto il mondo. Le faranno fotografie mentre riceve l’assegno con la vincita. Dopodiché i giornalisti le porranno le solite domande insulse: chi è lei, da dove viene, qual è la sua storia, quali sono i suoi sogni, che cosa intende fare con tutto quel denaro eccetera eccetera. È una pantomima del tutto grottesca, lo riconosco, ma la Commissione Lotterie ci tiene. La ragione è chiara: per loro si tratta di una formidabile forma di pubblicità. Non è un caso che le vendite dei biglietti siano raddoppiate ogni anno negli ultimi cinque anni. Un vincitore che se lo merita piace a tutti. Forse perché tutti pensano di meritarsi di diventare a loro volta vincitori. Nient’altro che una classica distorsione della natura umana.

— E devo farla anch’io?

— Di che cosa sta parlando?

— Io non ci voglio andare in televisione, tutto qua!

— Non ha scelta. Tenga a mente, LuAnn, che lei si metterà in tasca cinquanta-milioni-di-dollari. In cambio di quella cifra, la commissione si aspetta almeno una conferenza stampa di ringraziamento. E in tutta onestà, ha pienamente ragione ad aspettarsela.

— Così ci devo andare.

— Assolutamente.

— Devo usare il mio vero nome?

— Ha qualche ragione per cui non dovrebbe?

— Ho le mie ragioni, signor Jackson.

— Non vuole intrattenermi con queste sue ragioni?

— Devo usarlo il mio nome, sì o no?

— Sì! Deve! Esiste un regolamento, LuAnn, comunemente definito legge del diritto di informazione. Per presentarglielo in termini accessibili, le dirò che esso sancisce che il pubblico ha il diritto di conoscere le identità, le vere identità, di tutti i vincitori della Lotteria Nazionale.

— Vabbé… — LuAnn sbuffò sonoramente, cercando di liberarsi anche del proprio disappunto. — Ma poi i soldi quando me li danno?

Per un lungo momento, nel cellulare ci fu solo il debole disturbo del rumore di fondo.

— Ehi, Jackson, non provi a fare lo stronzo con me. — LuAnn sentì un brivido di collera dipanarsi lungo la schiena. — Voglio sapere dei fottuti soldi!

— Non c’è motivo di alterarsi così, signorina Tyler — replicò seccato Jackson — e la invito vivamente a non rivolgersi mai più a me in simili termini. Io sto solo cercando di spiegarle nel modo più semplice possibile il meccanismo della riscossione della vincita. Ed eccolo: il denaro le verrà accreditato direttamente sul suo conto in banca.

— Ma io non ce l’ho un conto in banca! Non ho mai avuto abbastanza soldi per aprirlo, un cavolo di conto in banca!

— Non alzi nuovamente la voce, LuAnn. Me ne incaricherò io. La sola cosa della quale lei deve preoccuparsi è vincere alla Lotteria Nazionale. — Nella voce di Jackson era tornata una sfumatura di ottimismo. — Andrà a New York con la sua piccola Lisa, mostrerà quel grasso assegno con tanti zeri, sorriderà in modo commosso per le telecamere e chiuderà in bellezza dicendo tutte quelle amenità modeste e carine. Dopodiché, si preparerà a passare il resto dei suoi giorni su una spiaggia tropicale.

— Ma come ci arrivo a New York?

— Ottima domanda, alla quale sono già preparato a rispondere. Non c’è aeroporto a Rikersville. Né nelle sue immediate vicinanze. C’è però una stazione degli autobus. Prenderà un autobus fino alla stazione ferroviaria di Atlanta, linea Crescent dell’Am-Trak. La stazione di Gainsville sarebbe per lei più accessibile, ma là non vendono biglietti per percorsi interstatali. Per questo dovrà raggiungere Atlanta. Sarà un lungo viaggio fino a New York, circa diciotto ore, con numerose fermate intermedie. Non si preoccupi. Due terzi del tragitto avranno luogo di notte e lei potrà riposare. L’AmTrak Crescent la porterà direttamente a New York senza costringerla a cambiare treno. Potrei mandarla in aereo, ma l’aereo comporta altre complicazioni, tipo mostrare documenti d’identità. Non voglio questo. E nemmeno voglio che lei arrivi a New York troppo rapidamente. Come le ho già detto, penserò io a tutto. Biglietti prenotati a suo nome l’aspetteranno a ciascuna stazione. Potrà mettersi in viaggio per New York non appena l’estrazione avrà avuto luogo.

LuAnn strinse gli occhi. Nella sua mente balenò l’immagine di due corpi riversi… quello di Duane e quello del killer che l’aveva fatto fuori. E che lei aveva forse ammazzato. — Non sono mica sicura di voler restare da queste parti.

— Perché no? — sbottò Jackson, sorpreso.

— Non sono ca… — questa volta, LuAnn riuscì a fermarsi in tempo. — Cioè, se la vinco davvero, la lotteria, non voglio che la gente di qui venga a saperlo. Questi sono come un branco di lupi affamati addosso a un vitellino. Capisce cosa voglio dire, no?

— Non permetterò che ciò accada. Lei non verrà pubblicamente identificata quale vincitrice finché non ci sarà la conferenza stampa. Al suo arrivo a New York troverà qualcuno ad attenderla che l’accompagnerà al quartier generale della Lotteria Nazionale. Lei presenterà il biglietto vincente. Il biglietto verrà autenticato. A quel punto lei verrà accreditata quale vincitrice. La conferenza stampa avrà luogo il giorno dopo. Un tempo ci volevano giorni, settimane intere per autenticare il biglietto vincente. Con la tecnologia informatica di oggi, è solo questione di poche ore.

— Cosa ne dice se io ad Atlanta ci vado in macchina e il treno lo prendo oggi?

— Lei ha una macchina, LuAnn? E che cosa dirà Duane in merito? — Nel tono di Jackson era trapelato un misto di ammirazione e di derisione.

— Fregatene di Duane, Jackson. A Duane ci penso io.

— Credo di averla già avvertita sul suo atteggiamento nei miei confronti, LuAnn. In fondo, penso di meritarmelo un minimo di gratitudine. O forse le vengono offerti cinquanta milioni di dollari ogni giorno?

LuAnn serrò la mascella. Cinquanta milioni di dollari, certo. Con la frode! — Mi scusi — disse lentamente. — Solo che, adesso che ho deciso di starci, tutto cambia. La mia vita… La vita di Lisa. E mi vengono un sacco di pensieri.

— Certo, capisco, ma lei continui a non pensare. Si tratterà di un cambiamento molto positivo. Lo sta facendo sembrare la cella di una prigione.

LuAnn riuscì in qualche modo a ricacciare giù il groppo che aveva in gola. — Lo posso prendere oggi quel treno, signor Jackson? Per favore?…

— Attenda un minuto. — LuAnn udì lo scatto della conversazione messa in attesa. Cercò di mettere meglio a fuoco qualcosa sulla strada. Era un’autopattuglia della polizia ferma su un lato, con il radar tachimetrico appoggiato al bordo del finestrino. Istintivamente lo sguardo di LuAnn si spostò sugli indicatori del cruscotto. Stava viaggiando ben sotto il limite di velocità, ma rallentò comunque. Riprese a respirare più liberamente solo dopo essersi lasciata i poliziotti molto indietro.

La voce secca di Jackson la fece sussultare: — L’AmTrak Crescent arriva alla stazione di Atlanta alle sette e quindici di questa sera. Raggiungerà New York alle ore una e trenta di domani pomeriggio. Sono circa due ore di guida da Rikersville ad Atlanta. — Jackson fece una breve pausa. — Immagino che le servirà del denaro per il biglietto. Più altri fondi addizionali per… chiamiamole piccole necessità di viaggio.

LuAnn annuì inconsciamente: — Sì, altri soldi… — e di colpo si sentì sporca dentro, lurida come una prostituta che chiede una mancia extra per qualche laida prestazione in più.

— C’è un ufficio della Western Union accanto alla stazione — riprese Jackson. — Trasferirò là cinquemila dollari a suo nome.

LuAnn deglutì nell’udire la cifra, percependo con quanto distacco e quanta naturalezza Jackson disponeva di denaro.

— Lei ricorda la mia offerta iniziale, LuAnn? Considereremo questi cinquemila dollari come un compenso per un lavoro ben fatto. Per riscuoterli dovrà semplicemente mostrare un documento d’identità.

— Ma io non ce l’ho.

— Anche la patente di guida o il passaporto vanno bene. Alla Western Union non serve altro.

— Passaporto? — ripeté LuAnn soffocando una risata piena di amarezza. — E a cosa serve un passaporto per andare da una roulotte nei boschi al supermercato? E poi non ho nemmeno la patente.

— Ma lei ha in mente di andare ad Atlanta in auto, se non vado errato. — LuAnn trovò quasi comico il tono stupito e quasi ansioso di Jackson. Un uomo che stava pianificando una formidabile frode, ma che al tempo stesso trovava difficile accettare che si potesse guidare senza patente.

— Lei non immagina quanta gente se ne frega di avere o no i documenti.

— Tagliamo corto: lei non potrà avere quei soldi senza un documento.

— Lei è qui vicino, signor Jackson?

— LuAnn, la mia unica ragione di permanenza nella ridente cittadina di Rikersville era il mio incontro con lei. Concluso l’incontro… — Jackson fece un’altra pausa, e quando riprese, la sua voce era venata di contrarietà. — Bene, allora sembra proprio che ci sia un problema.

— Quant’è che costa il biglietto del treno?

— Circa millecinquecento dollari.

LuAnn strinse i denti. Dove mai avrebbe potuto trovare… Ma di colpo le venne in mente Duane, e il suo gruzzolo di soldi sporchi. LuAnn fermò nuovamente la macchina sul ciglio della strada, posò il ricevitore, frugò sotto i sedili e trovò una borsa di cuoio marrone. Era zeppa di banconote. Abbastanza da comprare non un solo posto per New York ma l’intero treno per New York.

— Okay, signor Jackson… C’è questa donna che lavora insieme a me, e suo marito le ha lasciato dei soldi quand’è morto. Posso chiedere a lei i soldi del treno. Tipo un prestito. Lei me li dà sicuramente. E con i soldi in contanti quelli della ferrovia non me li chiedono i documenti, giusto?

— Nella nostra società il denaro è sovrano, LuAnn. Sono certo che l’AmTrak le troverà una confortevole sistemazione. Si limiti a non usare il suo vero nome. Scelga un nome semplice ma che al tempo stesso non suoni falso. Ora vada a comprare il biglietto della Lotteria Nazionale e mi richiami immediatamente. Sa come arrivare fino ad Atlanta?

— È un posto bello grande. Lo troverò.

— Indossi qualcosa che le mascheri il viso. Foulard, occhiali scuri. L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno in questo momento è che lei venga riconosciuta prima dell’estrazione.

— Questo lo capisco, signor Jackson.

— Lei è quasi in porto, LuAnn. Congratulazioni.

— Non ho tanta voglia di fare festa.

— Le verrà. Avrà un’intera vita per fare festa.

LuAnn posò il telefono e si guardò intorno. I finestrini erano affumicati, era improbabile che qualcuno l’avesse riconosciuta, ma comunque non poteva continuare a correre quel rischio. Doveva disfarsi di quella macchina da pappone. E farlo anche in fretta. Il problema era dove. LuAnn non voleva che la vedessero smontare. Una donna alta, dalla faccia striata di sangue secco che trascina una bambina in fasce fuori da una quattro ruote zeppa di cromature, e con sul cofano un fregio pornografico. Non esattamente il ritratto della brava mammina americana. Ma all’improvviso le balenò un’idea. Forse un tantino pericolosa. In ogni caso non c’era alternativa.

LuAnn eseguì un’inversione a U e accelerò. Impiegò una ventina di minuti per arrivare allo sterrato che s’inoltrava tra i boschi. Allungò il collo e scrutò in avanti, oltre il dosso. Finalmente vide la roulotte. Nessun altro veicolo. Nessun movimento. Ma il corpulento figlio di puttana poteva essere ancora in agguato, pronto a metterle nuovamente le mani intorno al collo, pronto a sollevare nuovamente la lama su di lei.

— Se vedi lo stronzo che viene fuori — disse LuAnn ad alta voce a se stessa — lo stiri come uno straccio sotto queste due tonnellate di ferraglia.

La macchina si fermò davanti alla roulotte. Tutto era fermo. LuAnn abbassò il finestrino e rimase in ascolto. Nessun suono, né dentro né fuori la Airstream. Tolse un fazzolettino di carta dalla borsa di Lisa. Ripulì metodicamente il volante, le maniglie e il telefono cellulare. Poi tutte le superfici che aveva toccato, o che credeva di aver toccato, all’interno dell’auto. Anche lei aveva guardato alcuni episodi di America’s Most Wanted, il famoso programma televisivo in cui il pubblico poteva aiutare a catturare pericolosi criminali in fuga. Anche lei aveva imparato qualche trucco. E se ci fosse stato meno pericolo, sarebbe anche entrata nella roulotte e avrebbe ripulito il telefono. Ma era inutile. In quel lercio rimorchio ci aveva vissuto per oltre due anni, le sue impronte erano dappertutto.

LuAnn scese dalla macchina, infilò nel seggiolino portatile di Lisa tutto il contante che le riuscì di far entrare. Cercò di sistemarsi alla meglio la maglietta strappata, con il braccio funzionante afferrò il seggiolino con Lisa e si incamminò per la radura, in direzione della stradina.

Dall’interno della roulotte, due occhi scuri stavano osservando la frettolosa partenza di LuAnn, cogliendone ogni dettaglio. Quando all’improvviso lei si girò per gettare tutt’intorno uno sguardo circospetto, l’uomo arretrò d’istinto in un ritaglio di tenebre più fitte. LuAnn Tyler non lo conosceva, ma non era il caso di correre rischi. La mano destra scese ad appoggiarsi sul calcio della 9mm semiautomatica infilata nella cintura dei pantaloni, sotto il giubbotto di pelle chiuso a metà. Fuori, LuAnn Tyler e sua figlia stavano scomparendo oltre la sommità del dosso.

Facendo bene attenzione a non mettere i piedi nelle pozze di sangue, l’uomo tornò ad avvicinarsi ai due uomini a terra. Era arrivato nel momento migliore, trovando il bottino di una battaglia che non aveva neppure dovuto combattere. Meglio di così… Tirò fuori di tasca una larga busta di plastica e la riempì con le bustine contenenti la droga, raccogliendole dal tavolino e dal pavimento. Si bloccò, e dopo averci pensato un attimo decise di lasciarne almeno metà là dove le aveva trovate. L’avidità è sempre una pessima consigliera. Quei due avevano lavorato per un’organizzazione. Nel momento in cui quella gente avesse appreso che la polizia non aveva trovato droga nella roulotte, quelli per il lavoro sporco si sarebbero messi alla ricerca di chi l’aveva presa. Ma se fosse mancata solamente metà della polvere bianca, avrebbero fatto l’ipotesi dei poliziotti marci. Ipotesi tutt’altro che campata in aria.

Vicino alla mano dell’uomo grasso, notò un pezzetto di tessuto strappato. Proveniva della maglietta della donna. Lo raccolse e se lo mise in tasca. Adesso la donna era in debito verso di lui. Poi osservò quanto restava del telefono e le posizioni dei corpi, dov’era caduto il coltello e le infossature che la colluttazione aveva causato nella parete della roulotte. La donna doveva essere arrivata nel bel mezzo della lotta tra i due uomini. Il grasso aveva inchiodato il magro. E la donna, in qualche modo, aveva inchiodato il grasso. Considerando l’enorme mole di questo, la sua ammirazione per la donna crebbe notevolmente.

Come se avesse udito quel commento, l’uomo grasso ebbe un lento movimento. Senza alcun indugio, il nuovo arrivato prese uno straccio da cucina, impugnò il coltello e glielo affondò nel petto. Una volta, due, tre. Altro sangue dilagò da quel ventre da bevitore di birra. La sue dita artigliarono la moquette lurida, ultimi spasmi di una breve agonia. Per un estremo, interminabile istante tutto il suo corpo s’irrigidì nella contrazione conclusiva, poi si rilasciò. Le dita tornarono ad aprirsi, le palme aperte appoggiate al pavimento. La faccia era girata di lato, e un unico occhio privo di vita fissava il vuoto.

Poi toccò a Duane Harvey. L’uomo rovesciò sulla schiena il suo corpo apparentemente inerte. Difficile vedere nella semioscurità se il suo torace effettivamente si muovesse. Non aveva importanza. Gli tagliò la gola da un orecchio all’altro.

Un attimo dopo era fuori dalla Airstream, attraversando la radura e i suoi relitti fino all’interno della fitta penombra della foresta.

Si fermò vicino alla sua auto, parcheggiata su un sentiero abbandonato che serpeggiava nel folto. Era una pista difficile, sconnessa, ma quello che contava era che lo avrebbe riportato sulla strada principale in tempo per riacquisire il suo bersaglio primario: LuAnn Tyler.

Non appena salì in macchina, il telefono dell’auto si mise a suonare. L’uomo afferrò il ricevitore.

— Il suo compito è da considerarsi concluso — disse la voce di Jackson.

— Concluso?

— Lei mi ha capito esattamente, signor Romanello. Il contratto che riguarda LuAnn Tyler è ufficialmente annullato. Il saldo del suo compenso le perverrà secondo i consueti canali. La ringrazio per la proficua collaborazione. Non mancherò di tenerla in considerazione per opportunità future.

La mano di Anthony Romanello si serrò intorno al ricevitore. Si domandò se doveva dire a Jackson dei due cadaveri nella Airstream e decise prontamente di no. Perché pareva essersi imbattuto in qualcosa di molto interessante.

— Ho visto la bambolina che se ne andava via a piedi — riferì Romanello. — Ma non mi dava l’aria di qualcuno con i soldi per fare molta strada.

— Per quella bambolina, signor Romanello — disse Jackson con tono divertito — i soldi saranno l’ultima delle preoccupazioni. — E riagganciò.

Romanello si rilassò contro lo schienale e considerò per un momento tutta la faccenda. Tecnicamente, lui aveva finito. Poteva tornare a casa e aspettare che il resto dei suoi soldi arrivasse. Ma stava succedendo qualcosa di strano. Il fantomatico signor Jackson lo aveva spedito in quel buco a far fuori una puttanella di campagna e poi aveva cancellato il contratto all’ultimo momento. E intanto si era lasciato scappare un’allusione ai soldi. Tanti soldi. Putacaso, proprio uno degli argomenti che più stavano a cuore ad Anthony Romanello. Girò la chiave e avviò il motore.

Aveva tutte le intenzioni di non lasciarsi sfuggire LuAnn Tyler.

9

La toilette del distributore di benzina puzzava di carburante.

LuAnn Tyler cercò di rimettersi in sesto. Ripulì la ferita al mento, tolse un cerotto dalla borsa che conteneva i pannolini di Lisa e lo applicò sul taglio. C’era un minimarket della 7-Eleven presso il distributore. Mentre Lisa si scolava il biberon, LuAnn comprò della pomata contro le contusioni e della garza.

Acquistò anche il biglietto della lotteria.

Non volle che a stabilire la combinazione fosse la macchina, e scelse una sequenza ottenuta dalle date del suo compleanno e di quello di Lisa.

— Vuoi saperne una, LuAnn? — Il cassiere del minimarket era un suo amico, un ragazzo di nome Bobby. — La gente ne ha comprati a quintali di quei biglietti lì.

— Quant’è il montepremi?

Bobby accennò al cerotto e domandò: — Cosa ti è successo?

— Mi sono tagliata radendomi.

Lui sogghignò.

— Allora — lo incalzò LuAnn. — Quel montepremi?

— Sessantacinque milioni di dollari. — Gli occhi di Bobby mandarono lampi di cupidigia. — E continua a salire. Ne ho comprati una dozzina anch’io. Non so, ma ho un certo presentimento, LuAnn. Te lo ricordi quel film in cui il poliziotto dà alla cameriera metà del biglietto vincente della lotteria? Be’, se vinco io, metà la do a te. Potessi morire.

— È proprio una bella idea, Bobby. E cosa devo fare di preciso per avere tutti quei soldi.

— Ma sposarmi, è chiaro! — Bobby le tese il biglietto che lei aveva appena comprato. — E che te ne pare di darmi la metà se vincerai tu? Sposarci ci sposiamo lo stesso.

— Questo me lo gioco per conto mio. E poi, non sei forse fidanzato con Mary Anne Simmons?

— Lo ero… fino alla settimana scorsa. — Bobby se la stava mangiando con gli occhi. — Quant’è idiota quel Duane!

LuAnn spinse il biglietto bene in profondità nella tasca dei jeans. — Lo vedi spesso?

— Naah, ultimamente si fa i fatti suoi — rispose Bobby scuotendo il capo. — Ho sentito che va spesso dalle parti della Contea di Gwinnett. Per affari o cose del genere.

— Che tipo di affari?

— Senti, che cosa combina Duane non lo so e non lo voglio sapere — rispose Bobby scrollando le spalle. — Io ho di meglio da fare che pensare a Duane Harvey.

— Sai per caso se Duane ha fatto soldi?

— Adesso che ci penso, un paio di sere fa faceva vedere un sacco di grana. Ho pensato che magari aveva vinto alla lotteria. E se ha vinto sul serio, credo proprio che mi sparerò un colpo. — Bobby allungò una mano e fece una carezza a Lisa. — Quanto ti somiglia! Ehi, LuAnn, se poi cambi idea sul fare a metà e sposarci, fammi un fischio, okay? Qua io finisco alle sette.

— Ci vediamo, Bobby.

LuAnn si diresse verso un telefono pubblico fuori dal minimarket e compose il numero di Jackson. Questa volta lui rispose al primo squillo.

— Ha i numeri, LuAnn?

Lei gli lesse le dieci cifre del biglietto, udendo all’altro capo del telefono un frusciare di carta mentre l’uomo prendeva nota.

— Adesso mi rilegga la sequenza, ma questa volta più lentamente. Non possiamo permetterci alcun errore.

LuAnn gli rilesse i numeri. Lui glieli ripeté nell’ordine.

— Brava, LuAnn — disse Jackson alla fine. — Molto brava. Il più è fatto. Ora prenda quel treno, faccia la sceneggiata per la stampa e sarà tutto finito.

— Sto andando alla stazione proprio adesso.

— Come le ho detto, troverà qualcuno ad attenderla alla Pennsylvania Station. Sarà questa persona ad accompagnarla all’albergo.

— Pennsylvania? Ma io pensavo di andare a New York.

Jackson sbuffò sonoramente. — LuAnn, la Pennsylvania Station è una delle due principali stazioni ferroviarie di New York.

— Ah, ecco.

— Questa persona ha una descrizione sua e di Lisa. — Jackson fece una pausa. — Perché lei ha Lisa con sé, vero?

— Dove vado io, viene anche Lisa.

— Per l’appunto. Al tempo stesso, voglio sperare che lei non abbia incluso il signor Duane Harvey nei suoi progetti di viaggio.

LuAnn deglutì a forza… Duane Harvey con la camicia fradicia di sangue. Duane Harvey che crolla come un sacco di stracci e non si muove più. — Niente Duane Harvey.

— Eccellente, LuAnn. Buon viaggio.


LuAnn e Lisa scesero dall’autobus proprio di fronte alla struttura di cemento armato e cristalli polarizzati della stazione ferroviaria di Atlanta.

Lungo la strada, LuAnn si era fermata a un supermercato della catena Wal-Mart per comprare le cose necessarie per sé e per Lisa, sistemandole poi in una nuova borsa a spalla. La maglietta strappata nel corpo a corpo era stata sostituita da una nuova. Il suo volto era celato dalla tesa di un cappello da cowboy e da ampi occhiali da sole. Nella toilette del supermercato aveva nuovamente ripulito la ferita al mento e aveva cambiato la medicazione. Ora andava decisamente meglio.

LuAnn si presentò allo sportello della biglietteria. — Solo andata per New York. Sul Crescent.

Lisa era inquieta. Voleva uscire dal seggiolino.

— Il suo nome, prego — chiese la donna dietro il plexiglas.

LuAnn stava cercando di calmare la bambina, e rispose in modo automatico: — LuAnn Tyler.

Realizzò di aver commesso un errore colossale già mentre stava finendo di pronunciare il proprio nome.

— Un momento…

— Sì? — L’addetta della biglietteria continuò a battere sulla tastiera senza nemmeno alzare lo sguardo.

— Niente… — mormorò LuAnn.

Ormai era fatta. A questo punto, cercare di cambiare le carte in tavola avrebbe solamente destato sospetti. LuAnn deglutì a vuoto, pregando il cielo di non dover pagare caro quell’imperdonabile errore, prima o poi.

— Vedo che viaggia con una bambina piccola — disse l’impiegata. — Raccomanderei il vagone letto DeLuxe. C’è uno scompartimento disponibile con doccia indipendente.

LuAnn accettò prontamente il consiglio. Mentre il biglietto veniva stampato, l’impiegata non nascose una certa perplessità nel vedere LuAnn frugare nel seggiolino portatile fino a estrarne una mazzetta di banconote da cento, contarne quindici e mettersi in tasca il rimanente.

Accortasi di essere osservata, LuAnn sfoderò un sorriso accattivante. — È il mio fondo di emergenza… Mi sono detta: perché aspettare di essere nei guai per godermelo, giusto?

— Giusto.

— E così mi faccio un bel viaggetto su a New York con la mia piccolina.

— Si diverta — disse l’impiegata. — Ma non dovrebbe andare in giro con tutto quel contante. Anche mio marito e io abbiamo commesso quello sbaglio quando siamo andati a New York. Be’, ci hanno rapinati nel momento in cui siamo usciti dalla stazione. Sono stata costretta a chiamare mia madre perché ci mandasse i soldi del biglietto di ritorno.

— Grazie, starò attenta.

La donna sbirciò alle spalle di LuAnn: — Non ha bagaglio?

— Oh, preferisco viaggiare leggera. E poi ho dei parenti a New York. — LuAnn si girò e cominciò a muoversi verso l’area partenze. — Grazie ancora.

La donna dietro lo sportello la guardò allontanarsi, ed ebbe un sussulto nell’udire una voce secca: — New York.

L’uomo era apparso dal nulla, come se fosse spuntato dal pavimento. Un tipo alto e ben piantato, con un giubbotto di pelle scura.

— Solo andata — aggiunse gentilmente.

Anthony Romanello lanciò un’occhiata verso LuAnn. Al 7-Eleven, attraverso i cristalli della vetrina, l’aveva vista acquistare il biglietto della lotteria. Aveva continuato a tenerla d’occhio mentre lei chiamava da un telefono pubblico, ma senza andarle troppo vicino per ascoltare la conversazione. Poi in autobus da Rikersville ad Atlanta, e ora in treno da Atlanta a New York. LuAnn Tyler era in pieno movimento. Forse stava semplicemente scappando il più lontano possibile dai due cadaveri della roulotte. O forse aveva un motivo molto più importante. In un caso o nell’altro, Anthony Romanello avrebbe scoperto come stavano le cose, era solo questione di tempo. Inoltre, New York era la sua città, il suo principale campo operativo. Ritirò il biglietto e si diresse a sua volta verso i binari.

Quando il Crescent entrò in stazione in leggero ritardo, LuAnn si tenne a distanza di sicurezza. Un addetto l’accompagnò al vagone letto.

Lo scompartimento DeLuxe ViewLiner era dotato di cuccetta inferiore, cuccetta superiore, poltrona imbottita e toilette con doccia. Era già tardi, così l’addetto procedette a sistemare lo scompartimento per la notte abbassando i piani delle cuccette. LuAnn preparò un biberon per Lisa e la cullò in poltrona mentre il Crescent scivolava fuori dalla stazione di Atlanta.

Il paesaggio verde della Georgia, immerso nel crepuscolo, fluiva oltre gli ampi finestrini panoramici. LuAnn si dedicò a sua figlia giocando e cantando qualche canzoncina per un’oretta, finché Lisa si addormentò nel suo seggiolino.

Adesso LuAnn poteva finalmente rilassarsi. Era la prima volta in vita sua che saliva su un treno, e il lieve dondolio e i leggeri e costanti scatti ritmici del convoglio sui giunti delle rotaie ebbero su di lei un effetto quasi ipnotico. Non riusciva a ricordare con precisione quando aveva dormito l’ultima volta, e si abbandonò.

Si risvegliò che fuori era buio pesto. Doveva essere circa mezzanotte, o anche più tardi. Si affacciò nel corridoio del vagone e chiese a un inserviente se fosse possibile mangiare qualcosa.

Un poco sorpreso, l’uomo consultò l’orologio da polso. — Mi dispiace proprio, signora. L’ultimo turno della cena è stato tre ore fa. La carrozza ristorante adesso è chiusa.

— Capisco… — mormorò LuAnn. Non era la prima volta che restava digiuna. E quanto meno, Lisa aveva mangiato.

L’inserviente notò fugacemente il seggiolino con Lisa addormentata, nonché l’aspetto visibilmente provato della madre. Allora sorrise con fare comprensivo e disse: — D’accordo, mi dia un quarto d’ora.

Ritornò venti minuti più tardi con una cena completa. Addirittura gliela servì usando la cuccetta inferiore come tavolo improvvisato. LuAnn lo ringraziò con una mancia generosa e attese che se ne fosse andato prima di divorare l’intero pasto.

Più tardi si soffermò a osservare il biglietto della lotteria, spostando di tanto in tanto lo sguardo sulla piccola forma addormentata di sua figlia. C’era un lieve sorriso sul volto della piccola, le sue manine si muovevano seguendo l’oscillazione del treno. La sua bambina stava facendo un bel sogno. LuAnn sorrise tra sé e si protese a sussurrarle dolcemente all’orecchio: — Adesso la tua mamma potrà prendersi cura di te, tesoro mio. Nel modo in cui ha sempre voluto fare. Lo sai che cosa ha detto quell’uomo? Che possiamo andare dove vogliamo. Che possiamo fare quel che vogliamo. — Con il dorso della mano le accarezzò la soffice guancia. — Dov’è che vuoi andare, bambolina? Lo dici alla mamma? Tu dillo alla mamma e noi ci andiamo. Non è bello, piccolina? Eh, ti piace?

LuAnn tirò il chiavistello della porta dello scompartimento, sistemò Lisa sul letto e verificò che le cinghie di sicurezza fossero sufficientemente strette. Si sdraiò raccogliendosi protettivamente intorno a sua figlia, Mentre osservava il buio che pareva premere contro il finestrino, non poté fare a meno di interrogarsi su quanto l’aspettava.

10

Il Crescent aveva accumulato ritardi a catena lungo il percorso. Erano quasi le tre e mezzo del pomeriggio quando LuAnn e Lisa si ritrovarono nel disorientante caos della Pennsylvania Station. LuAnn non aveva mai visto in vita sua una simile concentrazione di persone, tutte nello stesso posto e tutte in movimento simultaneo. Gente e bagagli parevano volare intorno a loro come proiettili e LuAnn strinse con più forza la presa intorno alla maniglia del seggiolino. Il braccio continuava a farle male. Ma se qualcuno avesse tentato di fare il furbo, sarebbe comunque riuscita a piazzargli un solido diretto sul grugno.

LuAnn continuò a procedere lentamente lungo il binario, allungando il collo alla ricerca di un segnale che indicasse l’uscita. Vide un cartello con su scritto MADISON SQUARE GARDIN. Ricordava vagamente di aver seguito un incontro di pugilato trasmesso in diretta dal Madison. Poteva essere quella una via per uscire dalla stazione? E dov’era la persona che, a sentire Jackson, avrebbe dovuto incontrare? Come accidenti sarebbe riuscita a trovare lei e Lisa nel mezzo di quella Babele?

— Signorina Tyler?

LuAnn sì ritrasse istintivamente. L’uomo aveva occhi bruni e baffi spruzzati di grigio sormontati da un naso appiattito. Per un istante LuAnn si chiese se fosse lo stesso uomo che aveva visto battersi sul ring del Madison qualche anno prima. No, non poteva essere. Questo individuo aveva almeno cinquant’anni: troppo vecchio. E comunque aveva le spalle larghe e le orecchie a cavolfiore di un pugile di professione.

— Mi manda il signor Jackson — la sua voce era bassa ma chiara.

LuAnn annuì, porgendo la mano destra: — Chiamami pure LuAnn. Tu come ti chiami?

— Non ha importanza. Se ora vuole seguirmi… — accennò l’uomo avviandosi. — Una macchina ci sta aspettando.

LuAnn non si mosse. — A me piace sapere il nome di quelli che incontro.

L’uomo tornò sui propri passi. L’ombra di un sorriso mitigava l’accenno di irritazione sui suoi lineamenti.

— D’accordo, LuAnn. Che ne dici di Charlie?

— Charlie va bene. Così tu lavori per il signor Jackson. Sono i vostri nomi veri?

— Vuoi che porti io la piccola? — Charlie accennò a Lisa, ignorando del tutto la domanda. — Quel seggiolino ha l’aria di pesare parecchio.

LuAnn represse una smorfia di dolore. — Non c’è problema.

— Sicura? — Lo sguardo di Charlie si spostò al cerotto sul mento di lei. — Si direbbe che qualcuno ti abbia fatto assaggiare un diretto.

— Ho detto che non c’è problema.

Charlie la guidò fuori da Pennsylvania Station, poi oltre una lunga fila di persone in attesa di prendere il taxi. Le aprì la portiera di una limousine nera in attesa lungo il marciapiede. Prima di salire, LuAnn sgranò gli occhi per un attimo al cospetto di quella specie di transatlantico su ruote. Continuò a tenerli sgranati anche osservando il lussuoso interno in pelle e legno luccicante.

— Saremo all’albergo in una ventina di minuti — la informò Charlie accomodandosi sul sedile dirimpetto a lei. — Vuoi qualcosa da bere? O da mangiare? Il cibo delle ferrovie fa abbastanza schifo.

— Ho mangiato ben di peggio, ma un po’ di fame ce l’ho. Però non fermarti apposta.

Lui la guardò, leggermente sorpreso. — Non sarà necessario.

Dal frigobar del veicolo, Charlie estrasse una birra, un’acqua tonica, un paio di panini e qualche stuzzichino. Fece apparire un tavolino apribile e lo apparecchiò con un tovagliolo immacolato, con tanto di piatto, posate e bicchiere. LuAnn seguì i movimenti precisi ed efficienti delle sue grandi mani come una ragazzina incantata per la prima volta dalle luci di un luna-park.

— Sapevo che con te ci sarebbe stata la bambina — proseguì Charlie — così ho fatto mettere in macchina latte, biberon e cose del genere. All’albergo troverai qualsiasi cosa ti possa servire.

LuAnn preparò subito un biberon per Lisa e la ninnò con un braccio, divorando a sua volta un panino.

— La tua bambina è bellissima — disse Charlie studiando madre e figlia con un sorriso amichevole. — Come si chiama?

— Lisa, Lisa Marie. Come la figlia di Elvis, lo sai, no?

— Mi sembri un po’ troppo giovane per essere una fan di Elvis Presley.

— Be’, io non ascolto quella musica. L’ascoltava la mia mamma. Andava matta per Elvis. L’ho fatto per lei. Il nome di Lisa, voglio dire.

— Lo avrà apprezzato, immagino.

— Mah, lo spero. È morta prima che nascesse.

— Mi dispiace. — Charlie ebbe una battuta d’arresto. — Tu che genere di musica ascolti?

— Quella classica. Non è che me ne intendo, ma mi piace il suono. Mi fa sentire come pulita dentro. Come nuotare in un lago in montagna, con l’acqua così chiara che puoi vedere il fondo.

— Mai pensato alla musica classica in quei termini — commentò Charlie sorridendo. — Io vado matto per il jazz. Me la cavo un po’ con la tromba. Dopo quelli di New Orleans, i migliori jazz club stanno proprio qui a New York. Certi sono aperti fino all’alba. E nemmeno troppo lontano dall’albergo.

— E in che albergo andiamo?

— Waldorf-Astoria. — Charlie mandò giù una sorsata di acqua tonica e si rilassò contro lo schienale, slacciandosi la giacca. — Prima volta a New York?

LuAnn diede un altro morso al panino. — Prima volta dappertutto.

Charlie abbozzò una risata. — Be’, come inizio, New York è il massimo.

— E l’albergo com’è?

— Prima classe. Molto bello. Certo non è come il Plaza. Ma dopotutto, cos’è paragonabile al Plaza? Però può anche darsi che un giorno ci andrai, al Plaza.

LuAnn lo osservò asciugarsi le labbra con un tovagliolo di carta. Le dita erano dure e spesse, massicce. Dita estremamente forti.

— Charlie…

— Sì?

LuAnn lo stava guardando nervosamente mentre finiva il panino e beveva un sorso della sua bibita. — Sai perché sono qui?

— Limitiamoci a dire che so quanto basta per convincermi a non fare troppe domande.

— Ma il signor Jackson lo hai mai incontrato?

— Perché non lasciamo perdere, LuAnn?

— Sono solo curiosa, tutto qui.

— Sai che cosa è successo alla gatta curiosa, no? — Gli occhi scuri di lui erano privi di espressione. — Tieni la testa sulle spalle, fa’ quel che ti viene detto e tu e la tua bambina non avrete più nemmeno l’ombra di un problema. Che ne pensi come programma?

— Be’, niente male.

LuAnn tenne Lisa più stretta contro di sé. Charlie aprì un altro compartimento dell’abitacolo e ne tolse un soprabito di pelle nera e un cappello scuro, a tesa larga.

— Lascia perdere il tuo cappello e indossa questi. Per ovvie ragioni, non vogliamo che tu venga notata.

LuAnn ubbidì e indossò i nuovi indumenti.

La limousine imboccò la corsia riservata di fronte al Waldorf.

— Mi occuperò io della reception — disse Charlie. — La tua suite è a nome Linda Freeman, donna d’affari americana di base a Londra. Sei in viaggio con tua figlia, lavoro e diletto.

— Donna d’affari? E se qualcuno mi fa delle domande?

— Nessuno ti farà domande.

— Allora, adesso, io sono questa Linda Freeman?

— Lo sarai fino al gran giorno. Dopodiché, potrai tornare a essere LuAnn Tyler.

E chi mai vuole tornare a essere LuAnn Tyler?

La suite si trovava al trentaduesimo piano.

LuAnn, sentendosi come Alice nel Paese delle Meraviglie, vagò per l’elegante soggiorno, la sontuosa camera da letto e la stanza da bagno da favola.

— Ma si possono mettere queste cose qui? — LuAnn accarezzò il soffice cotone degli accappatoi.

— Puoi mettere tutto quello che vuoi — rispose Charlie. — E se ci tieni a comprare uno di quegli accappatoi, per settantacinque dollari è tuo.

LuAnn scostò parzialmente le tende della finestra panoramica. Un vasto arco del profilo di New York riempiva il paesaggio: una selva di torri acuminate contro il cielo che imbruniva, pieno di nubi scure.

— Non ho mai visto cosi tanti grattacieli tutti insieme in questo modo. Ma la gente come fa a distinguerli? — domandò LuAnn girandosi verso Charlie. — Mi sembrano tutti uguali.

— LuAnn, va bene divertirsi — rispose Charlie scuotendo il capo — ma ora non è più necessario che tu faccia la parte della ragazzotta di campagna.

— Ehi, Charlie, io sono una ragazzotta di campagna — ripeté LuAnn guardando fuori. — E probabilmente sono la più stupida ragazzotta di campagna che tu hai mai conosciuto.

— Ehi, senza offesa, d’accordo? — Charlie corrugò la fronte. — Se sei nato e cresciuto a New York, ti fai una certa mentalità su certe cose e su certa gente. — Seguì con lo sguardo LuAnn che andava a fare una carezza a Lisa. — Senti, qui c’è il frigobar.

Charlie aprì lo spesso sportello a tenuta termica e le mostrò come richiuderlo.

— E questa è la cassaforte. — Charlie inserì il codice di apertura e le serrature si sbloccarono. — È sempre meglio mettere al sicuro gli effetti personali di valore.

— Io non ho niente da mettere al sicuro.

— Nemmeno quel biglietto della lotteria?

LuAnn deglutì a vuoto, si frugò in tasca, estrasse il biglietto e glielo porse. — Allora lo sai anche tu?

Lui evitò di rispondere, e neppure guardò il biglietto prima di metterlo nella cassaforte.

— Scegli una combinazione — le disse poi. — Niente di troppo ovvio come compleanni o anniversari, ma al tempo stesso qualcosa che tu possa ricordare facilmente. Non è consigliabile andarsene in giro con in tasca numeri scritti — aggiunse ruotando verso di lei lo sportello con la placca dei pulsanti numerati. — Forza.

LuAnn ubbidì e Charlie attese che la serratura elettronica lo mettesse in memoria prima di chiudere la cassaforte, quindi si preparò ad andare.

— Ci vediamo domani mattina verso le nove. Se ti viene fame, sete, o qualsiasi cosa, tutto quello che devi fare è sollevare il telefono e chiamare il servizio in camera. Ma stai attenta a non farti vedere in faccia dal cameriere. Raccogliti i capelli, mettiti la cuffia come se stessi per farti una doccia. Apri la porta, firma il conto a nome Linda Freeman e torna nella stanza da letto. Ecco qua un po’ di soldi per le mance. — Charlie le allungò un fascio di banconote di piccolo taglio. — Comportati sempre in modo discreto. Non andartene a spasso per l’albergo o cose del genere.

— Non preoccuparti — disse LuAnn cercando di esibire una certa sicurezza, ma la sua voce era incrinata. — Lo so che non parlo bene come una di queste donne d’affari.

— Non volevo dire questo. — Forse anche la voce di Charlie era incerta. — Senti, LuAnn, io stesso ho finito le medie per miracolo. Mai andato al college. Però non me la passo male. D’accordo, né tu né io siamo dei geni di Harvard. Ma chi se ne frega? — Le toccò leggermente una spalla. — Fatti una bella dormita. Domani, andiamo un po’ in giro per la città e ci facciamo una chiacchierata. Ti va l’idea?

— Andare fuori… — LuAnn sorrise. — Sarebbe proprio bello.

— Domani potrebbe fare freddo. Copriti bene, okay?

LuAnn istintivamente esaminò la propria maglietta stropicciata, i jeans sporchi dal viaggio. — Non ho molto con me — disse in tono imbarazzato. — Sono partita di fretta.

— Non importa se non hai bagaglio — le diede una rapida occhiata, prendendole le misure. — Circa un metro e settanta, giusto? Misura quarantasei?

LuAnn annuì, arrossendo leggermente: — Un po’ più abbondante sopra, magari.

— Magari. — Gli occhi di Charlie si soffermarono sul seno pronunciato. — Domattina ti porto degli altri vestiti. E anche per Lisa. Allora mi servirà un po’ più di tempo. Ci vediamo verso mezzogiorno invece che alle nove.

— Lisa può venire con noi?

— Ma certo.

— Grazie, Charlie. Proprio tanto. Non me la sento di girare da sola, qui fuori. Però voglio uscire. In vita mia non ho mai visto un posto così grande. Mi sa che in questo albergo c’è più gente che in tutta Rikersville.

— Io sono di qui, per cui a me non fa effetto — disse Charlie ridendo. — Ma so esattamente che cosa intendi.

Dopo che se ne fu andato, LuAnn prelevò delicatamente Lisa dal seggiolino e la mise sul grande letto. Le tolse i vestiti, le fece un bagno caldo, le mise il pigiama e tornò a sistemarla sul letto, mettendo due grandi cuscini, uno per parte, in modo che non rotolasse giù. Ora, forse, poteva pensare un po’ anche a se stessa. Fare a sua volta un bagno, cercare di occuparsi di tutti quei lividi che le dolevano in ogni parte del corpo.

In quel momento suonò il telefono.

LuAnn sussultò ed esitò. Provava uno strano senso di colpa e nel contempo si sentiva come in trappola.

— Pronto?

— Signorina Freeman?

— Scusi, ha… — Le parole le si strozzarono in gola. Non di nuovo! LuAnn ce la mise tutta per assumere un tono calmo e professionale: — Esatto, sono la signorina Freeman.

— Il suo tempo di reazione rimane scarso, LuAnn — disse Jackson. — Le persone raramente dimenticano il proprio nome. Non le pare?

LuAnn non rispose.

— Come vanno le cose? Ci stiamo prendendo abbastanza cura di lei?

— Certo che sì. Charlie è un tipo fantastico.

— Charlie?… Ah, certo. Ha il biglietto, LuAnn?

— È nella cassaforte.

— Buona idea. Ha carta e penna a portata di mano?

LuAnn si guardò intorno. Dal cassetto di una scrivania che pareva antica prese un foglio di carta e una penna.

— Scriva quanto riesce — riprese Jackson. — Anche Charlie avrà comunque tutti i dettagli. Sono lieto d’informarla che ogni cosa è a posto. Alle sei di dopodomani sera il numero del biglietto vincente verrà annunciato a tutta la nazione. Lei seguirà l’estrazione alla TV, rimanendo nella sua stanza d’albergo. Verrà trasmessa da tutte le principali reti televisive. Tuttavia, non credo che la cosa presenterà per lei troppa suspense.

LuAnn fece un gran sospiro. Sapeva, sentiva, che in quel momento c’era un sorriso beffardo sul volto dell’uomo che si faceva chiamare Jackson.

— Tutto il paese aspetterà con ansia che il vincitore si faccia avanti. Ma questo lei non lo farà. Non subito. Vogliamo che lei abbia il tempo, fittizio, è chiaro, di abituarsi all’idea dell’improvvisa ricchezza, di tranquillizzarsi, forse anche di cercare il consiglio di esperti finanziari, avvocati eccetera eccetera. Naturalmente non è obbligatorio che il vincitore venga a New York. La conferenza stampa può avere luogo anche nella città d’origine. Nel passato, però, sono stati molti i vincitori che hanno scelto di venire a New York, e alla Commissione Lotterie questo piace molto. New York è il luogo perfetto nel quale tenere conferenze stampa di questo genere. A norma di regolamento, il vincitore ha trenta giorni di tempo per reclamare la vincita. Quindi non è il tempo un fattore problematico. La sua scelta, LuAnn… mi correggo, la mia scelta, è aspettare un giorno o due. Ed era questa la ragione per la quale avrei preferito non averla a New York troppo in fretta. Non era consigliabile che lei si trovasse a New York prima dell’estrazione del biglietto vincente. In ogni caso, ora è qui e dovremo regolarci di conseguenza. — Il tono di Jackson denunciava una certa contrarietà derivante dall’alterazione dei suoi piani. — Lei pertanto rimarrà in rigoroso, e sottolineo rigoroso, incognito fino al momento in cui io sarò pronto a presentarla quale vincitrice. Siamo intesi con la massima chiarezza su questo, LuAnn?

— Senta, signor Jackson, mi dispiace — disse LuAnn con precipitazione. — Ma proprio non potevo aspettare a venire via. Gliel’ho detto che cosa succede a Rikersville se sanno che ho vinto. E finisce che lo sanno. È una città così piccola…

— Rikersville è una materia per me priva del minimo interesse — tagliò corto Jackson. — Non intendo sprecarvi ulteriormente il mio tempo. La sola cosa che m’interessa in questo momento è che lei non esista. Lei ha preso l’autobus fino ad Atlanta, esatto?

— Sì.

— E ha anche preso le opportune precauzioni per nascondere il suo aspetto, esatto?

— Un grande cappello da cowboy, grandi occhiali neri. Non ho visto nessuno che conosco.

— E soprattutto lei non ha usato il suo vero nome nell’acquistare il biglietto ferroviario, esatto?

— Certo che no! — mentì LuAnn.

— Allora non dovrebbe aver lasciato tracce.

— Speriamo.

— Non si allarmi, LuAnn. Non c’è motivo. In ogni caso, nel giro di pochi giorni lei si troverà molto, ma molto lontano da New York.

— E dove mi troverò esattamente?

— Me lo dica lei. Europa? Asia? Sudamerica? Scelga lei il luogo. Io mi occuperò di farcela arrivare.

LuAnn ci pensò su un momento. — Devo decidere proprio adesso?

— Naturalmente no. Ma se la sua intenzione è di partire immediatamente dopo la conferenza stampa, prima me lo farà sapere, meglio sarà. Ho compiuto una quantità di miracoli in materia di viaggi internazionali, ma lei, essendo priva sia di passaporto sia di qualsiasi altro documento d’identità, è un caso pressoché unico. — La voce di Jackson oscillò sul confine della derisione. — Tutte le carte dovranno essere appositamente preparate per lei.

— E davvero lo può fare? Perfino la tessera della Sicurezza Sociale?

— LuAnn, lei mi sta forse dicendo di essere addirittura priva del numero della Sicurezza Sociale? È impossibile!

— Non è vero, se i tuoi genitori non riempiono le carte che ci vogliono — replicò seccamente LuAnn.

— Pensavo che all’ospedale non lasciassero uscire un neonato che non avesse tutta la documentazione in regola.

LuAnn quasi scoppiò a ridere. — Ma io non sono mica nata all’ospedale, signor Jackson. Mi hanno detto che la prima cosa che ho visto erano le lenzuola sporche di rosso nella camera da letto della mia mamma. Perché è lì che mi ha fatto nascere la mia nonna.

— D’accordo, le procurerò anche la tessera della Sicurezza Sociale — commentò stizzosamente Jackson.

— Allora lei può far mettere un altro nome sul passaporto, giusto? Cioè, con la mia faccia, ma con un nome diverso. E anche su tutto il resto.

— Per quale ragione lei vorrebbe un nome diverso, LuAnn? — domandò Jackson con estrema lentezza.

— Ma per Duane, no? Lo so che sembra uno scemo, ma quando scoprirà che ho tutti quei soldi, verrà sicuramente a cercarmi. Allora è meglio se io sparisco. Cominciare daccapo. Nome tutto nuovo e compagnia bella.

Jackson rise. — E lei crede davvero che Duane Harvey sarebbe in grado di ritrovare le sue tracce? Perfino se avesse la scorta della polizia, dubito fortemente che Duane Harvey riuscirebbe a trovare la strada per uscire dalla Contea di Rikersville.

— La prego, signor Jackson, mi faccia avere un altro nome. Ma se per lei è troppo difficile, lo capisco. — LuAnn trattenne il fiato, sperando che Jackson raccogliesse la sfida.

— Non lo è — rispose Jackson in tono secco. — In realtà, è molto semplice… Se si hanno gli agganci giusti. Agganci che io ho. Bene, LuAnn, suppongo che lei non abbia già pensato a un nome nuovo, giusto?

LuAnn lo sorprese buttandogliene lì immediatamente uno, con tanto di città di provenienza.

— Peculiare. Sembra che lei stia pensando da molto tempo a un nome nuovo, o sbaglio? Anche senza quei cinquanta milioni di dollari.

— Lei ha i suoi segreti, signor Jackson, io ho i miei.

— Va bene — disse lui sospirando. — Sebbene la sua richiesta sia senza precedenti, provvederò a soddisfarla. Tuttavia, lei deve ancora dirmi dove vuole andare.

— Certo, signor Jackson. Ci penso su e poi glielo faccio sapere.

— Mi dica ancora una cosa, LuAnn: per quale ragione ho l’improvvisa sensazione di aver commesso un errore a selezionare proprio lei per quest’avventura? — Nella sua voce pareva esserci una vaga allusione che a LuAnn provocò un tremendo brivido. — Mi metterò nuovamente in contatto dopo l’estrazione. Per adesso, è tutto. Si diverta nella sua visita a New York City. Qualsiasi cosa le serva, non ha che da dirlo a…

— Charlie.

— Esatto, Charlie. — Jackson riappese di colpo.

Le ci voleva un birra. Forse anche due. LuAnn cominciò con l’aprire la prima, lasciando Lisa libera sulla soffice moquette che copriva il pavimento. Proprio in quegli ultimi giorni la sua bambina aveva cominciato a muoversi con disinvoltura a quattro zampe, e adesso era eccitata all’idea di esplorare tutto l’esplorabile in quel grande ambiente. LuAnn scese sulla moquette con lei e la accompagnò nella sua perlustrazione, fino a quando la piccola non si stancò e venne il momento di metterla a dormire.

LuAnn passò allora nella stanza da bagno, aprì i rubinetti dell’ampia vasca e si guardò nello specchio per controllare il taglio sul mento. Stava rimarginandosi in fretta, ma di sicuro sarebbe rimasta una cicatrice. L’idea non la turbò. Avrebbe potuto essere molto peggio.

Aprì la seconda birra e rientrò nel bagno. Scivolò nell’abbraccio dell’acqua calda, sorseggiando il sapore asprigno del luppolo. Una sola cosa sapeva. Le ci sarebbero volute parecchie altre birre, e una quantità ancora più consistente di acqua calda, per superare i giorni a venire.


L’ineffabile Charlie si ripresentò puntualmente a mezzogiorno.

Con sé aveva alcuni borsoni di Bloomingdale’s, il più celebre grande magazzino di New York, più altre borse di Baby Gap. LuAnn provò parecchi vestiti, godendoseli come mai avrebbe pensato.

— Perfetta — la ammirò Charlie. — Assolutamente perfetta.

— Grazie. E grazie anche per tutta questa roba. Hai proprio azzeccato le misure in pieno.

— Che diavolo, LuAnn, hai l’altezza e il fisico di una modella. È proprio per gente come te che fanno vestiti come questi. Piuttosto, ci hai mai pensato?

— A cosa?

— A fare la modella.

— Forse qualche volta, quando ero una ragazzina — rispose LuAnn con una scrollatina di spalle. Poi indossò una giacca beige su una gonna nera a pieghe.

— Una ragazzina? Perché, adesso che cosa saresti, una signora di mezza età?

— Ho vent’anni. Ma dopo la bambina, me ne sento addosso molti di più.

— Lo posso immaginare.

— E poi non vado bene per fare la modella.

— Perché no?

— Perché non mi piace quando mi fanno le foto — rispose LuAnn scoccandogli un’occhiata. — E non mi piace guardare come vengo.

— Sei proprio un tipino fatto tutto a modo tuo — commentò Charlie scuotendo la testa. — La maggior parte delle ragazze della tua età, belle come te, bisogna fare a cazzotti per portarle via dallo specchio. Sono la personificazione del narcisismo… Ehi, ehi, aspetta un po’. Devi portare gli occhiali da sole, e anche il cappello. Jackson ha detto di tenerti imbacuccata. Probabilmente non dovremmo nemmeno andare in giro, ma in una città di dieci milioni di abitanti… — Le mostrò un pacchetto di sigarette. — Ti spiace se fumo?

— Ma scherzi? — fece lei sorridendo. — Io lavoro in una tavola calda per camionisti. Quelli nemmeno ti lasciano entrare se non sopporti il fumo. Certe notti sembra che ci sia un incendio.

— In ogni caso, l’epoca delle tavole calde per camionisti è finita per te.

— Già. — LuAnn si calcò sui capelli il cappello a tesa larga. — Allora, come ti sembra, Charlie?

— Molto meglio di qualsiasi copertina di Cosmopolitan. Poco ma sicuro.

— E ancora non hai visto niente: aspetta di vedere la mia bambina — aggiunse LuAnn con orgoglio. — Lei sì che ti fa sognare. Eccome!

Un’ora dopo, con Lisa agghindata all’ultima moda di Baby Gap, LuAnn sollevò il seggiolino portatile e fu finalmente pronta per New York. — Noi ci siamo!

— Ancora un momento — disse Charlie aprendo la porta della suite e rivolgendole un’occhiata penetrante. — Bene, adesso chiudi gli occhi. Tanto vale che ce la giochiamo fino in fondo.

LuAnn lo guardò con aria sospettosa.

— Forza, chiudili! — insistette lui con un sogghigno.

LuAnn lo accontentò.

Pochi secondi dopo, Charlie disse: — Adesso, aprili.

Nel corridoio del Waldorf c’era un passeggino nuovo di zecca e molto costoso.

— Oh, Charlie… — esclamò LuAnn incredula.

— Adesso non avrai più bisogno di trascinarti in giro quell’aggeggio lì — disse Charlie indicando il seggiolino portatile.

LuAnn lo cinse in un fugace abbraccio, sistemò Lisa nel passeggino e tutti e tre uscirono ad affrontare la Grande Mela.

11

Shirley Watson era fuori di sé. Ci aveva pensato per un bel pezzo prima di escogitare l’appropriata vendetta per l’umiliazione patita da LuAnn. Al termine di lunghe e tormentate meditazioni in cui aveva fatto ricorso a tutta la sua prodigiosa furbizia sudista, l’aveva finalmente trovata.

Shirley fermò il suo scassato furgoncino in uno slargo della strada sterrata, a circa mezzo chilometro dalla radura. Circospetta, smontò tra le felci. Con la mano destra reggeva una piccola latta. Controllò l’ora. Perfetto. Dopo un’ennesima notte passata a servire salsicce e birra alle orde dei cafoni locali, LuAnn stava di sicuro dormendo come un sasso. Che ci fosse o no anche Duane, non gliene fregava niente. Così imparava a non averla difesa contro quella specie di amazzone idrofoba della sua ganza.

A ogni passo, Shirley sentiva il furore che continuava a montarle dentro. La sua vita e quella di LuAnn erano state sinistramente simili. Nessuna delle due aveva finito le scuole medie. Nessuna delle due si era mai allontanata da Rikersville. L’unica differenza tra loro era che LuAnn Tyler aveva sempre voluto andarsene, mentre Shirley Watson aveva sempre voluto restare.

Il che rendeva l’oltraggio perpetrato su di lei ancora più imperdonabile. La gente di Rikersville l’aveva vista tentare di sgattaiolare in casa nuda come un verme e livida per il freddo. Offesa, derisione e umiliazione allo stato puro. LuAnn le aveva scaricato addosso una colossale valanga di letame e Shirley sarebbe stata costretta a portarsi addosso quel tanfo per il resto dei suoi giorni. La storiella di quel fottuto mattino sarebbe diventata un vero e proprio tormentone. Tutti quanti le avrebbero riso dietro, e in faccia, fino al momento in cui lei fosse stata morta e sepolta. E forse avrebbero continuato a farlo anche dopo.

LuAnn Tyler era la causa di questo. E l’avrebbe pagata cara, molto cara. D’accordo, lei si era scopata Duane. E allora? Tutti quanti sapevano che Duane non aveva la minima intenzione di sposare LuAnn. E tutti quanti sapevano pure che piuttosto di avviarsi all’altare con quel povero coglione, LuAnn avrebbe preferito impiccarsi con il filo spinato. L’unica ragione per la quale LuAnn continuava a rimanere con lui era perché non aveva nessun altro posto dove andare. O perché non aveva il coraggio di andare in nessun altro posto. Di questo Shirley era certa. O in ogni caso pensava di esserlo.

Tutti quanti ammiravano LuAnn, così bella, così forte e così in gamba. Davvero? Shirley si sentì strangolare dalla bile. Adesso si sarebbe occupata lei della signorina LuAnn Tyler. E dopo si sarebbe fatta matte risate stando a sentire in che termini tutti quanti avrebbero ammirato la nuova signorina LuAnn Tyler.

La sagoma della roulotte apparve tra la vegetazione. Shirley si chinò in avanti, procedendo con estrema cautela di albero in albero. La grossa decappottabile era ancora parcheggiata accanto alla roulotte. Shirley notò tracce di pneumatici che indicavano una qualche violenta manovra sul terreno fangoso. Superò la macchina, dando una rapida occhiata da uno dei finestrini. Era vuota. Ma di chi poteva mai essere quella macchina con tutte quelle cromature? C’era forse qualcun altro nella roulotte?

Un sorriso sghembo apparve sulla sua faccia dai lineamenti grossolani. Magari LuAnn si stava facendo sbattere alla faccia di Duane. Giustizia poetica. Però stava arrivando il suo turno, di scappare urlando tra i boschi nuda come un verme.

All’improvviso, nella radura si verificò una sorta di invisibile mutamento, come se fosse calata un’insopportabile quiete. Il sorriso di Shirley Watson si congelò. Diede un’occhiata nervosa intorno a sé. Perfino la brezza era svanita, come risucchiata nel nulla. Shirley si avvicinò alla zanzariera. Estrasse un grosso coltello da caccia e strinse con più forza la latta. Era piena di acido da batteria, e se l’acido non fosse bastato a sfigurare l’amazzone idrofoba, avrebbe completato il lavoro con il coltello. Shirley aveva scuoiato cacciagione e pesce di fiume fin da quando era bambina. Adesso avrebbe visto che effetto faceva scuoiare la faccia di LuAnn, quanto meno nelle parti risparmiate dall’acido.

Il tanfo la colpì come un pugno in piena faccia. Un tanfo di uova marce, di decomposizione. Si guardò intorno. Non aveva sentito un odore simile nemmeno durante il suo breve periodo di lavoro alla discarica pubblica di Rikersville. Shirley si compresse un fazzoletto su naso e bocca e trafficò per svitare il tappo della latta, tanfo o non tanfo.

Scivolò dentro la roulotte. Subito si affrettò a sbirciare nell’ala notte. Vuota. Forse LuAnn e il tipo che se la sbatteva si erano addormentati sul divano. Shirley si voltò e tornò sui propri passi avanzando nel corridoio, angusto e pieno di ombre. Sciami di mosche ronzavano dappertutto come nere molecole impazzite. Sentendosi soffocare, Shirley raggiunse la soglia del soggiorno e si preparò a lanciare la secchiata di acido. Scattò in avanti ma inciampò in qualcosa e franò a terra, con l’acido della batteria che schizzava da tutte le parti, finendo con la faccia nel putridume in decomposizione che era la fonte di quel tanfo atroce.

L’urlo isterico di Shirley Watson venne udito fin sulla strada statale.


— Non hai comprato granché — disse Charlie dando un’occhiata alle poche borse sul pavimento dell’anticamera della suite.

LuAnn emerse dal bagno dove si era cambiata con jeans e felpa bianca. I lunghi capelli erano trattenuti in una coda di cavallo.

— Mi bastava guardare le vetrine. E poi, santo cielo, qui ci sono dei prezzi da far paura.

— LuAnn, ci avrei pensato io — protestò Charlie. — Ormai ho perso il conto di quante volte te l’ho detto.

— Ma io non voglio che tu spendi i tuoi soldi per me.

— Non sono soldi miei — disse Charlie accomodandosi su una sedia. — Ho un fondo spese. Qualsiasi cosa tu voglia, puoi averla.

— È questo che il signor Jackson ti ha detto?

— Qualcosa del genere. — Charlie ebbe come un sogghigno. — Chiamiamolo un acconto sulla tua futura vincita.

LuAnn sedette sul letto, con le dita delle mani strettamente intrecciate, la fronte aggrottata. Lisa era nel suo nuovo passeggino, intenta a giocare con alcuni pupazzetti che Charlie le aveva comprato. I suoi gridolini di felicità echeggiavano per la stanza.

— Tieni. — Charlie diede a LuAnn un fascio di foto scattate nel corso della giornata per le strade di New York. — Per il tuo album dei ricordi.

— Davvero non me l’aspettavo di vedere cavalli e carrozze, qui a New York. — LuAnn passò in rassegna le immagini con occhi scintillanti. — Mi sono divertita un sacco ad andare in giro per quel vecchio parco, e perdipiù piazzato proprio nel mezzo di quei palazzoni così alti.

— Andiamo, LuAnn, non dirmi che non hai mai sentito parlare di Central Park.

— Certo che l’ho sentito, ma credevo che fosse tutto inventato — disse LuAnn porgendogli due foto-tessera che la ritraevano.

— Oh, grazie per avermelo ricordato — fece Charlie nel prenderle.

— Sono per il passaporto, no?

— Esatto.

— A Lisa il passaporto non serve?

— È troppo piccola — disse Charlie. — Lei può viaggiare iscritta nel tuo.

— Ah.

— E tu vuoi un nuovo nome, se ho capito bene.

— Non è una buona idea? — chiese LuAnn mentre metteva da parte le altre fotografie e cominciava a darsi da fare con le borse degli acquisti. — Cioè, ricominciare tutto daccapo.

— Così mi ha detto anche Jackson. E se è questo che vuoi…

D’improvviso, LuAnn lasciò cadere le borse e affondò il viso tra le mani.

— Suvvia, LuAnn, cambiare nome non è poi così traumatico — disse lui guardandola teneramente. — Che cosa ti preoccupa?

Lei alzò lo sguardo. — Ma tu sei proprio sicuro che io domani vinco la lotteria?

— LuAnn, aspettiamo fino a domani, d’accordo? — Il suo tono era rassicurante. — Io non credo proprio che tu resterai delusa.

— Tutti quei soldi… Eppure non mi sento a posto, Charlie. Nemmeno un po’.

Lui si accese una sigaretta, ed esalò il fumo della prima boccata senza smettere di guardarla. — Adesso chiamo il servizio in camera. Tre belle portate, una bottiglia di buon vino, magari un caffè italiano, il dolce, e dopo ti sentirai meglio. — Aprì il libretto dei servizi dell’albergo e cominciò a scorrere il menù.

— Senti… Tu questo lo hai già fatto?

— Ordinare il servizio in camera?

— No, stare dietro alle persone che… cioè, quelle a cui il signor Jackson fa il suo contratto.

— Lavoro con lui da un po’ — disse Charlie alzando lo sguardo dal menù. — Ma di persona non l’ho mai visto. Comunichiamo solamente per telefono. È un tipo sveglio. Forse un po’ troppo paranoico per i miei gusti, ma veramente intelligente, LuAnn. In ogni caso, lui paga molto bene. E fare la balia a gente in un hotel a quattro stelle, ordinando per loro il servizio in camera, non è poi un brutto modo di guadagnarsi da vivere. Nel tuo caso però è diverso.

— Diverso come?

Charlie si aprì in un ampio sorriso. — Non mi sono mai divertito così tanto nel fare la balia a qualcuno.

LuAnn si chinò accanto al passeggino di Lisa e prelevò una scatola in confezione regalo sistemata sul piano portaoggetti. Gliela porse.

Charlie spalancò la bocca. — Cos’è?

— Per te. Da parte mia e di Lisa. Stavo cercando un regalo per te, poi lei si è messa a indicare qualcosa e a ridere.

— Quando lo hai comprato?

— Ti ricordi quando stavi dando un’occhiata ai vestiti da uomo…

— LuAnn, non dovevi…

— Lo so che non dovevo — rispose lei in fretta. — Per questo si chiama regalo, no? Lo compri perché vuoi, non perché sei obbligato.

Senza staccare lo sguardo da lei, Charlie tormentò l’involucro con le dita, chiaramente commosso.

— Forza, aprilo, che diamine.

Lisa si svegliò in quel momento. LuAnn la prese in braccio ed entrambe rimasero a osservare Charlie che cominciava a lacerare la carta variopinta.

— Ma tu guarda!…

Era un fedora color verde scuro, con una fascia di pelle alta almeno tre centimetri, e la bordatura interna di seta gialla.

— Al negozio, ti ho visto provarlo. — LuAnn sorrise. — E ti stava proprio bene, proprio bello. Ma poi lo hai rimesso giù. Però io l’avevo capito che lo volevi.

— LuAnn, questo cappello costa un sacco di soldi.

— Ne avevo da parte — fece lei, con un gesto di noncuranza. — Spero che ti piaccia.

— È magnifico, grazie tantissime. — Charlie la strinse energicamente per le spalle, accarezzando uno dei piccoli pugni di Lisa nel darle una delicata ma formale stretta di mano. — E grazie anche a te, signorinella. Ottimo gusto.

— Dai, rimettilo su. Vedi se ti piace ancora.

Charlie si sistemò il cappello sulle ventitré e si diede un’occhiata nello specchio.

— Sei uno schianto, Charlie — approvò LuAnn. — Proprio uno schianto.

— Sì… niente male — confermò lui provandolo con un’altra inclinazione. — Davvero niente male.

Infine si tolse il cappello e tornò a sedersi.

— Sai, LuAnn, questo è il primo regalo che ricevo da qualcuno di cui mi sto occupando. Di solito sto con loro solamente un paio di giorni, poi subentra Jackson.

LuAnn non si lasciò scappare la possibilità di vederci più chiaro: — Ma com’è che ti sei ritrovato a fare questo lavoro?

— Non dirmi che adesso vuoi stare a sentire la storia della mia vita?

— Perché no? Anzi, ti farò una testa così finché non lo fai.

Charlie si mise più comodo e indicò il proprio volto con il pollice della sinistra. — Scommetto che non avresti mai indovinato che combattevo sul ring — attaccò sogghignando. — Più che altro, ero uno “sparring partner”, quello su cui i giovani leoni praticavano la loro nobile arte. Ma sono stato furbo abbastanza da mollare quando avevo il cervello ancora intatto, almeno in parte. Dopo la boxe, mi sono dato al football, a livello semiprofessionistico. Non che quello sia più leggero, ma in compenso porti casco e imbottiture. Ho sempre fatto sport. E mi piaceva guadagnarmi il pane con lo sport.

— Tu ce l’hai l’aria di uno in forma.

— Ehi, niente male per un vecchietto di cinquantaquattro anni, giusto? — Charlie si diede una pacca sugli addominali solidi. — In ogni caso, finito con il football ho fatto per un po’ l’allenatore, mi sono sposato e me ne sono andato di qua e di là… senza mai trovare il posto giusto in cui fermarmi. Lo sai com’è, no?

— La conosco bene questa storia — concordò LuAnn.

— Poi la mia carriera ebbe una svolta. — Charlie spense la sigaretta e immediatamente se ne accese un’altra.

LuAnn ne approfittò per rimettere Lisa nel passeggino. — Cioè quale?

— Sono stato per un po’ ospite dello Zio Sam.

LuAnn lo guardò con aria perplessa.

— Sole a scacchi, LuAnn. Carcere federale.

LuAnn lo guardò sorpresa. — Tu non mi sembri il tipo del criminale.

— No? E che tipo è il criminale? — domandò Charlie sorridendo. — Ti posso assicurare che ce n’è proprio di tutti i tipi.

— Che cosa avevi fatto?

— Evasione fiscale. Frode, credo che si dica. Almeno, così l’ha chiamata il pubblico ministero. Aveva ragione. Mi ero stufato di pagare, ecco tutto. Che diavolo, non ce n’era abbastanza nemmeno per tirare a campare, figurati darne anche al governo. — Charlie corrugò la fronte e si ravviò i capelli. — Una piccola svista che mi è costata tre anni. Più il mio matrimonio.

— Oh, mi spiace.

— È stata probabilmente la miglior cosa che potesse capitarmi — rispose lui facendo spallucce. — Ero in un carcere di minima sicurezza insieme a un branco di altri balordi dal colletto bianco, così non avevo da preoccuparmi che qualcuno mi tagliasse la testa. O qualche altra parte anatomica. Seguii una quantità di corsi, cercai di capire che cosa avrei potuto fare per il resto della mia vita. Ci fu un unico aspetto negativo in prigione. — Charlie sventolò la sigaretta accesa. — Il tabacco. Fuori, mai fatto un tiro. Dentro, tutti quanti tiravano da tutte le parti. Una volta tornato in libertà riuscii a smettere. Ressi anche per parecchio. Sei mesi fa ci sono ricascato in pieno. All’inferno. Comunque, una volta tornato fuori, andai a lavorare per il mio avvocato difensore. Una specie di investigatore privato, molto privato. Nonostante la mia scivolata con il fisco, lui sapeva che io ero un tipo affidabile, addirittura onesto. E da parte mia, conoscevo un bel po’ di gente a tutti i livelli della scala sociale. E tu sai che cosa intendo, no? Agganci giusti. Inoltre, dietro le sbarre avevo imparato un sacco di cose. Avevo avuto fior di professori in tutte le materie che contano davvero, dall’imbroglio alle assicurazioni, al furto d’auto. Un’esperienza che mi è stata parecchio utile nel mio lavoro con l’avvocato. E poi, il lavoro a me andava di lusso.

— Ma com’è che hai attaccato con il signor Jackson?

Di colpo, Charlie non apparve più tanto a suo agio. — Fu lui a contattarmi. Mi ero rimesso nei guai. Non guai grossi, ma ero ancora in libertà vigilata e avrei potuto ritrovarmi in galera per un bel po’. Jackson si offrì di darmi una mano. E io accettai l’offerta.

— Tipo come ho fatto io. — C’era un che di tagliente nella voce di LuAnn. — L’offerta che non puoi rifiutare.

— Già. — Gli occhi di Charlie s’indurirono. — Proprio l’offerta che non puoi rifiutare.

LuAnn sedette sul letto e sbottò d’un fiato: — Io non ho mai fatto imbrogli su niente in vita mia.

— Questione di prospettiva.

— Che cosa vuoi dire?

— Be’, se ci pensi, gente brava, onesta, che lavora duro, fa imbrogli pressoché ogni giorno. La maggior parte sono imbrogli piccoli, certi sono più grossi. Gente che truffa il fisco. O che le tasse addirittura non le paga per niente, come me. Gente che si rende conto di aver ricevuto un resto in più ma che non restituisce la differenza. E poi tutte quelle piccole bugie. Cose da nulla, però dette quotidianamente, giusto per arrivare a sera senza diventare matti. Il che ci porta alla roba grossa. Uomini e donne che tradiscono i loro compagni, mariti, mogli, amanti pressoché costantemente. E credimi, sono un esperto in materia. La mia ex moglie ha una laurea in adulterio.

— Ne so qualcosa anch’io — disse LuAnn a bassa voce.

— Che povero stronzo, se mi passi il commento. In ogni caso, se ammucchi tutti i piccoli imbrogli di un’intera vita, viene fuori qualcosa di bello grosso.

— Ma non grosso come cinquanta milioni di dollari.

— Forse non in termini di dollari, questo no. Ma può darsi che una sola truffa super valga come mille piccole truffe quotidiane, che alla fine ti fanno sentire male quando ti guardi allo specchio.

Charlie rimase a osservarla mentre LuAnn reprimeva un brivido.

— Forza, ordiniamo questa cena — e così dicendo tornò a esaminare il menù. — Pesce va bene?

LuAnn annuì con aria assente, gli occhi fissi al pavimento, mentre Charlie faceva l’ordinazione per telefono. Riattaccò e si accese l’ennesima sigaretta.

— Andiamo, LuAnn, non esiste una sola persona al mondo che rifiuterebbe l’offerta di Jackson. Da come la vedo io, faresti una grossa stupidata a rifiutarla. — Giocherellò con l’accendino. — E da quel poco che ho visto di te, puoi sempre redimerti, quanto meno agli occhi di te stessa. Non che a teserva poi così tanta redenzione…

Lei alzò lo sguardo. — E come faccio?

— Potresti usare una parte di quei soldi per aiutare altre persone — rispose Charlie con semplicità. — Mettere su una specie di fondazione, qualcosa del genere. Non sto dicendo che non dovresti goderti i soldi. Penso che te li meriti. Ho visto un po’ di note sulla tua storia passata e so che non hai avuto affatto una vita facile.

LuAnn scrollò le spalle. — Finora ce l’ho fatta.

— Esattamente, LuAnn: ce l’hai fatta. — Charlie andò a sedersi accanto a lei. — Hai imparato a sopravvivere, e sopravviverai anche a questo. Senti — continuò guardandola intensamente. — Adesso che ti ho raccontato più o meno tutto, posso fartela io una domanda personale?

— Dipende da che domanda è.

— Mi sembra giusto — concordò lui. — Ecco… me lo vuoi dire come diavolo sei andata a inguaiarti con un paraculo senza futuro come Duane Harvey?

Senza futuro… proprio così. Il modo in cui il suo corpo magro era crollato in avanti, riverso nel suo stesso sangue. Il modo in cui gli era sfuggito quel lieve gorgoglio estremo, forse una richiesta di aiuto. Una richiesta alla quale lei non aveva risposto. — Duane non è poi cosi male. — LuAnn si alzò e prese a passeggiare avanti e indietro. — Ha solo avuto un sacco di sfighe. La mia mamma era morta da poco. Io ero proprio a terra. Mi sono messa con Duane mentre cercavo di capire che cosa fare del resto della mia vita. O stai in quella contea e crepi in quella contea, o cerchi di battertela più svelto che puoi. Non esiste nessuno che viene a stare nella Contea di Rikersville, o almeno, io non ho mai sentito di nessuno. — LuAnn trasse un profondo respiro. — Duane era appena andato in questa roulotte nei boschi. Aveva un lavoro, allora. Mi trattava bene, e parlavamo di sposarci. Era tutto… diverso.

— Anche tu volevi essere una di quelli che restano e crepano in quella contea?

— Ma no, che diavolo! — esclamò lei folgorandolo con un’occhiata. — Io e Duane volevamo andare via. Io lo volevo sicuramente. E lui mi diceva che anche lui lo voleva. — LuAnn si fermò di fronte a Charlie. — Poi è venuta Lisa. E questo fatto per Duane ha cambiato le cose. Io non penso che avere una bambina fosse nei suoi piani. Ma la bambina è arrivata, ed è la gioia della mia vita. Solo che, dopo Lisa, le cose con Duane non sono più andate bene. Io sapevo che dovevo andarmene, e stavo cercando di capire come… Ed è stato allora che il signor Jackson mi ha chiamato.

LuAnn spostò lo sguardo alla finestra panoramica, ai milioni di luci scintillanti di New York. — Jackson mi ha detto che per prendere i soldi ci sono delle condizioni. — Tornò a guardare Charlie. — Io lo so che non lo fa perché mi vuole bene.

— Questo è poco ma sicuro — grugnì Charlie.

— Tu ce l’hai qualche idea su queste condizioni?

Charlie stava scuotendo la testa ancora prima che lei completasse la domanda. — So solo che con tutti i soldi che ti arriveranno non saprai nemmeno che cosa farci.

— Ma io i soldi li posso spendere come mi pare, giusto?

— Giusto. Tutti tuoi. Niente clausole scritte in piccolo. Puoi svuotare l’intera gioielleria Tiffany o costruire un ospedale per bambini ammalati di leucemia ad Harlem. La scelta sarà tutta tua.

LuAnn osservò nuovamente il vortice di luci e i suoi occhi presero a scintillare. Fu esattamente in quel momento che ebbe le risposte. Tutte le risposte! In quel preciso momento nella sua testa tutto sembrò combaciare alla perfezione, rendendole finalmente chiaro che cosa avrebbe fatto con il resto della sua esistenza.

E con quell’immensa fortuna.

12

— Avremmo dovuto rimanere in albergo e seguire la faccenda alla televisione. — Charlie si guardava intorno nervosamente. — Jackson mi mangerebbe vivo se sapesse che ho portato qui uno dei suoi “clienti”.

Qui era il quartier generale della Commissione Lotterie degli Stati Uniti d’America. Era situato in uno di quegli svettanti, nuovissimi grattacieli, sottili come lame di coltello, cresciuti attorno a Park Avenue. Nel gigantesco auditorium al pianterreno la folla era una massa ribollente in cui si aggiravano troupe delle principali reti televisive, giornalisti della carta stampata e operatori delle TV via cavo.

LuAnn, con Lisa stretta al petto, si trovava in prossimità del palco. — È tutto a posto, Charlie. Sotto tutta questa roba, non mi nota nessuno.

LuAnn portava occhiali da sole dalle lenti impenetrabili. I suoi lunghi capelli erano raccolti sotto un cappello da baseball con la visiera ruotata sulla nuca. Un ampio impermeabile Burberry nascondeva la sua figura atletica.

— Sarà — borbottò lui scuotendo la testa. — Ma continua a non piacermi.

— Senti, dovevo venire a vedere. Non è lo stesso che stare seduti in camera a guardarla in TV.

— Jackson probabilmente chiamerà l’albergo subito dopo l’estrazione — brontolò Charlie.

— E io gli dico che mi sono addormentata e non ho sentito il telefono.

— Che idea grandiosa! — sibilò lui costringendosi ad abbassare la voce. — Vinci cinquanta milioni di verdoni e giustamente ti fai un sonnellino.

— Ehi! Io so già che vincerò — replicò LuAnn. — E allora cos’è tutta questa grande eccitazione?

Charlie si limitò a serrare le labbra, lanciando un’ennesima serie di penetranti occhiate all’auditorium e ai suoi occupanti.

La macchina per l’estrazione era sistemata su un tavolo collocato sul palco. Era lunga più di due metri, con dieci lunghi tubi di plastica trasparente. Ogni tubo era alimentato da un contenitore sottostante, pieno di palline da ping-pong. Su ogni pallina, c’era dipinto un numero. Nel momento in cui il sistema veniva attivato, una corrente d’aria faceva muovere in moto caotico le palline nei contenitori, finché una di esse veniva attirata nel tubo sovrastante e catturata da una specie di ventosa. A quel punto, il contenitore si chiudeva e la corrente d’aria passava ad agitare le palline nel secondo contenitore. E così via: un vortice caotico dopo l’altro, una ventosa dopo l’altra, una pallina numerata dopo l’altra, una scarica di adrenalina dopo l’altra. Fino a quando veniva completata l’intera combinazione vincente a dieci cifre.

Il pubblico era assiepato sotto il palco, espressioni nervose controllavano e ricontrollavano i numeri su fasci di biglietti tenuti fra dita contratte. Un giovanotto si era addirittura dotato di computer portatile. Sul video scorreva un inventario elettronico composto da centinaia di combinazioni possibili. Tutte perdenti.

In LuAnn Tyler il senso di colpa era scomparso, e lei non aveva alcun bisogno di ricontrollare la combinazione del suo biglietto. La sapeva a memoria: 0810080521, ovvero il compleanno suo e quello di Lisa, più l’età che lei stessa avrebbe avuto al suo prossimo compleanno. Tutta quella gente intorno sarebbe stata delusa, e lei si era preparata ad affrontare la loro delusione. Aveva deciso. Aveva capito che cosa fare. Sapeva di essere abbastanza forte da affrontare questo oceano di folla invece di rimanersene rintanata nella stanza del Waldorf-Astoria.

Nell’auditorium cadde all’improvviso un silenzio di tomba. Un uomo era comparso sul palco. Jackson! LuAnn strinse le palpebre nella luce dei riflettori. Si era quasi aspettata che fosse Jackson, ma quest’uomo era molto più giovane, e molto più attraente. Forse anche lui faceva parte della faccenda. O forse no. Comunque fosse, quello era l’uomo della fortuna.

LuAnn scambiò un sorriso teso con Charlie e riportò la propria attenzione sul palco. Una biondona sexy, miniabito aderente, calze di nylon fumé e tacchi a spillo, entrò da una quinta e si sistemò sorridendo accanto all’uomo, con le mani dietro la schiena.

— Buonasera a tutti! — esordì l’uomo della fortuna. — E benvenuti all’estrazione mensile della Lotteria Nazionale degli Stati Uniti d’America!

Sciami di telecamere si concentrarono sul suo volto da star del cinema.

— Questa estrazione è un evento storico. Il montepremi ufficiale, calcolato sugli ultimissimi dati di vendita dei biglietti in tutti gli Stati dell’Unione, ha polverizzato ogni precedente record della Lotteria Nazionale americana. Il montepremi ufficiale è…

L’uomo della fortuna fece una pausa a effetto, poi sganciò la bomba.

CENTO-MILIONI-DI-DOLLARI!

L’intero auditorium proruppe in un “oooh” di sbalordimento. LuAnn stessa si ritrovò con la bocca spalancata. Cento milioni di dollari. Era perfino difficile immaginarla una somma di simile gigantesca entità. Charlie la osservò, scosse leggermente il capo ed ebbe un sorriso sornione.

— Ecco fatto — le bisbigliò all’orecchio dandole di gomito con aria complice. — Adesso puoi sia svuotare l’intera gioielleria Tiffany sia costruire l’ospedale per i bambini ammalati di leucemia ad Harlem. Il tutto solamente con gli interessi.

L’uomo della fortuna tornò a esibire la sua consumata abilità istrionica. — Come ho già detto, si tratta di una cifra storica. E questa sera, forse addirittura in questo stesso auditorium… un superfortunato, o superfortunata, sarà il solo e unico vincitore! — Fece un gesto teatrale. — Si vada a incominciare!

La bionda sexy attivò la macchina dell’estrazione. All’interno del primo contenitore, le palline da ping-pong presero a muoversi nel vortice dei moti caotici. Quasi subito alcune di esse si affollarono intorno all’imbocco del condotto superiore, lottando per conquistarlo.

LuAnn sentiva il cuore martellarle nel petto, il respiro si faceva affannato. Accanto a lei, c’era il benevolo Charlie. Dentro di lei risuonava la voce controllata e autoritaria di Jackson, con le sue certezze invisibili, con le sue prodigiose predizioni della lotteria quotidiana. Eppure, dopo tutto quello che era accaduto nel corso degli ultimi giorni, LuAnn sentì che il trovarsi lì in quel momento non era altro che follia pura.

Come poteva Jackson penetrare il caos di quelle piccole sfere bianche, così assurdamente simile all’attacco degli spermatozoi sull’ovulo da fecondare, come aveva visto una volta alla TV? Incanalare poi quel medesimo caos… Controllarlo! In quale modo poteva davvero essere fatto?

Una specie di nodo scorsoio cominciò a stringerla alla gola. Non poteva essere. Forse c’era ancora un’ultima via d’uscita. Forse poteva ancora tentare di spiegare alla legge ciò che era successo nella roulotte che aveva chiamato casa. O invece non le rimaneva altro che uscire dalla gabbia dorata del Waldorf-Astoria, rintanarsi in un rifugio per senzatetto e cercare di decidere che cosa fare con i cocci della sua esistenza. Tentare di salvare almeno Lisa…

Zero.

La prima pallina bianca era penetrata nel condotto ed era stata catturata dalla prima ventosa. Era la pallina con il numero zero. La cifra apparve su uno schermo gigante sospeso sul palco. ZERO.

Inconsciamente, le dita di LuAnn trovarono quelle spesse di Charlie e s’intrecciarono con esse. La prima delle cifre delia sua combinazione vincente! I moti caotici continuarono nel secondo contenitore e generarono un secondo numero.

Otto.

Vortice dopo vortice, condotto dopo condotto, ventosa dopo ventosa. Cifra vincente dopo cifra vincente.

0-8-1-0-0-8-0-5.

LuAnn recitò silenziosamente quei numeri. Sentiva le ginocchia molli, un sudore nervoso le imperlava la fronte. Stava accadendo. Stava veramente accadendo! In qualche modo, servendosi di chissà quale magia, il misterioso e minaccioso uomo che si faceva chiamare Jackson sapeva veramente come frodare la Lotteria Nazionale degli Stati Uniti d’America!

Tra la folla, molti cominciarono a mugolare dal disappunto, a bestemmiare tra i denti, e ad andarsene. La combinazione vincente pareva incombere su di loro come un beffardo dio della vendetta. Biglietti strappati avevano cominciato a ricoprire il pavimento dell’auditorium via via che i numeri venivano estratti, formando ora una sorta di tappeto patchwork.

LuAnn fissò il danzare caotico delle sfere nel nono contenitore. Era come se quelle traiettorie imprevedibili, quei rimbalzi privi di sequenza, si stessero svolgendo in un tempo assurdamente rallentato. Quasi che il tessuto profondo della realtà stesse andando in pezzi. La penultima pallina venne catturata dalla ventosa.

Due.

Non c’era più speranza sui volti degli uomini e delle donne rimasti nell’auditorium. Tranne che sul viso di una giovane donna, coperto da grandi occhiali scuri.

Decimo vortice, quello conclusivo. Una delle palline parve aprirsi la strada fra le altre, come se fosse determinata a conquistarsi il proprio posto nella gloria. La stretta di LuAnn intorno alla mano di Charlie si allentò. Era la sfera con il numero uno. Quand’era ormai quasi incanalata, la sfera numero quattro le tagliò la strada, costringendola a tornare verso il basso prima di ritentare l’approccio al decimo condotto. LuAnn sentì il sangue defluirle dal viso.

Oh, merda…

Lo disse a voce alta. Nel brusio generalizzato della folla nessuno la sentì. Nemmeno Charlie. Quello che lui sentì fu invece la stretta di LuAnn che tornava a chiudersi sulla sua mano, così energica da farlo quasi gemere.

Charlie deglutì a forza, condividendo l’ansia di LuAnn. Nel passato Jackson non aveva mai fallito. Mai. E che diavolo, non poteva certo fallire proprio questa volta! Charlie infilò la mano libera sotto la camicia e afferrò il piccolo crocefisso d’argento che portava al collo da una vita. Lo strinse.

Nell’ultimo contenitore, la pallina uno e la pallina quattro continuavano a combattere, urtandosi e scambiandosi di posto all’imboccatura del condotto, finché anche l’ultima sfera fu catturata dalla ventosa.

Uno.

LuAnn stava tremando.

Anche Charlie stava tremando. Rimasero immobili fianco a fianco, fradici di sudore come alla fine di un impetuoso amplesso.

0-8-1-0-0-8-0-5-2-1.

Era fatta. Era proprio quella la combinazione vincente. La sua combinazione vincente completa!

Charlie inclinò il capo verso di lei, la fronte aggrottata come per dire: Hai vinto, no? LuAnn annuì lentamente, quasi seguendo il ritmo di una canzone silenziosa. Tra le sue braccia, Lisa si agitò e scalciò, percependo l’umore della madre.

— Cristo! — si lasciò scappare Charlie con un lungo sospiro. — Prima che quell’ultima pallina cadesse, ho davvero creduto che me la sarei fatta nei pantaloni.

Adesso si stavano allontanando dal grattacielo su Park Avenue per fare ritorno al Waldorf-Astoria. Era una bellissima notte, molto chiara, sferzata da un vento fresco, e nel cielo pareva dispiegarsi una parata di stelle senza fine.

— C’è mancato poco che non mi staccassi le dita — disse Charlie massaggiandosi la mano indolenzita. — Vuoi spiegarmi che cosa ti ha preso?

— Non è necessario che tu lo sappia.

LuAnn inspirò a fondo l’aria pulita, depose un tenero bacio sulla guancia di Lisa e improvvisamente, con un sorriso accattivante, diede di gomito a Charlie e annunciò: — Chi arriva ultimo all’albergo… — LuAnn partì di corsa — paga la cena!

Charlie la osservò scendere lungo Park Avenue con le sue falcate da maratoneta, le falde dell’impermeabile che si allargavano dietro di lei come grandi ali. Pur nella distanza, poté udire le grida di gioia di lei erompere nella notte. Sorrise e si lanciò nella sua scia.

Nessuno dei due sarebbe stato così felice sapendo che qualcuno li aveva seguiti fino all’estrazione della lotteria e li stava ora osservando dall’altra parte della strada.

Romanello aveva intuito che il pedinamento di LuAnn Tyler avrebbe riservato interessanti sviluppi. Ma ora doveva ammettere che il risultato andava ben al di là di ogni più rosea previsione.

13

— Ne è certa, LuAnn?

— Sì, signor Jackson.

— Assolutamente certa che il luogo nel quale vuole andare sia quello?

— È da una vita che voglio andare in Svezia. La famiglia della mia mamma è venuta da là, tanto tempo fa. Anche lei ci voleva sempre andare, ma non ce l’ha fatta. Cioè, è come farlo anche per lei. È una cosa difficile, signor Jackson?

— Qualsiasi cosa è difficile, LuAnn. La differenza è solo il livello di difficoltà.

— Ma lei lo può fare, no? Cioè, io voglio andare anche in altri posti, però voglio cominciare dalla Svezia.

— Se sono in grado di far vincere cento milioni di dollari a qualcuno come lei — disse Jackson in tono stizzito — credo senz’altro di essere in grado di occuparmi dei suoi programmi di viaggio.

— Le sono tanto grata. Sul serio. — LuAnn scambiò un’occhiata con Charlie, il quale faceva giocare Lisa tenendola tra le braccia. Gli sorrise. — Sei bravo a tenerla buona.

Jackson la udì all’altro capo del telefono: — Con chi sta parlando, LuAnn?

— Con Charlie. Mi scusi.

— Me lo passi, dobbiamo preparare la sua visita all’ufficio della Lotteria Nazionale in modo che il biglietto vincente venga confermato. Prima verrà fatto, prima si potrà procedere alla conferenza stampa. Dopodiché, lei potrà finalmente partire.

— E le condizioni delle quali mi parlava… — accennò LuAnn.

— Non intendo discuterne in questo momento — la interruppe Jackson. — Mi passi Charlie. Non ho tutta la giornata.

LuAnn prese Lisa e diede il ricevitore a Charlie. Lo osservò attentamente mentre confabulava con Jackson a voce bassissima, voltandole la schiena, annuendo più volte, finché riappese.

— Va tutto bene? — chiese LuAnn con voce piena d’ansia, mentre Lisa si agitava tra le sue braccia.

— Certo, a postissimo. — Lo sguardo di Charlie ci mise un po’ a incontrare quello di lei. — Vedrai quelli della lotteria nel pomeriggio. È passato abbastanza tempo dall’estrazione.

— Tu vieni con me?

— Farò con te il tragitto in taxi, ma ti aspetterò fuori fin quando avrai finito. D’accordo?

— E io che cosa faccio là dentro?

— Molto semplice: presenti il biglietto vincente. Loro lo convalideranno e ti daranno una ricevuta ufficiale. Ci saranno testimoni, verbali da firmare, tutta la procedura legale. Passeranno il biglietto sotto un laser molto sofisticato per verificare che sia davvero autentico. Appena sotto la linea del numero ci sono delle fibre speciali nella filigrana, proprio come quelle delle banconote. È impossibile duplicare i biglietti, specialmente in così breve tempo. A quel punto, telefoneranno al posto di vendita in modo da verificare che il biglietto sia stato effettivamente acquistato là. Poi prenderanno informazioni su di te: chi sei, da dove vieni, se hai ancora i genitori, se hai figli. Un’intervista anagrafica in piena regola. Ci vorranno alcune ore. Alla fine, rilasceranno un comunicato stampa annunciando che il vincitore si è presentato. Il tuo nome però non verrà divulgato fino alla conferenza stampa vera e propria. Ehi, la suspense va rispettata, o no? E la suspense è esattamente il filtro magico che ci vuole per continuare a vendere biglietti. Non è necessario che tu rimanga per il comunicato. La conferenza stampa è comunque prevista per il giorno dopo.

— E poi noi torniamo qui all’albergo?

— In realtà, “Linda Freeman” lascia l’albergo proprio oggi. Ci spostiamo in un altro albergo nel quale sarai registrata come LuAnn Tyler, una delle persone più ricche d’America. Sei appena arrivata qui nella Grande Mela… E sei pronta a conquistare il mondo intero.

— Charlie, ma tu ci sei mai stato a una di queste conferenze stampa?

— Ne ho viste alcune — annuì lui. — Possono diventare delle mezze carnevalate, specialmente quando il vincitore si porta dietro la famiglia al completo. Tanti soldi fanno fare alla gente tante cose strane. Ma non dura molto. La palla passa ai giornalisti, che ti fanno un sacco di domande, molte delle quali cretine. E dopo… Adios! — Charlie sorrise. — È bella questa idea di andare in Svezia. Bella verso tua madre, intendo.

— Lo spero. — LuAnn abbassò lo sguardo, continuando a giocare con i piedini di Lisa. — Sarà tutto diverso…

Diverso non sarà affatto male.

— Non so quanto ci starò.

— Tutto il tempo che vuoi. Che diavolo, ci puoi stare per sempre, se ti va.

— Non sono sicura di poterlo fare. Non so se mi troverò bene.

— LuAnn, concedi a te stessa un minimo di fiducia. — Charlie le posò una mano sulla spalla. — D’accordo, al muro non tieni appesa una sfilza di lauree, ma sei una ragazza in gamba, hai un cuore d’oro e ti prendi una gran cura della tua piccola. Da come la vedo io, questo ti colloca davanti al novantanove per cento della popolazione.

— Però io non lo so quanto sono in gamba senza che tu mi aiuti.

— Fa tutto parte del mestiere — disse lui scrollando le spalle nel tirarsi fuori una sigaretta. — Senti, ci mangiamo un boccone e poi andiamo a riscuotere. Che ne dici? Sei pronta per diventare ricca da fare schifo?

LuAnn inspirò a fondo prima di rispondere: — Sono pronta.


Era fatta.

Domande, identificazioni, laser… Fatta e finita. LuAnn emerse dal grattacielo della Commissione Lotterie, percorse l’intero isolato e svoltò l’angolo, dove Charlie la stava aspettando. Le aveva tenuto Lisa per tutto quel tempo.

— Tua figlia è proprio una signorinella sveglia — disse sorridendo. — Ha guardato tutto e tutti.

— Non ci manca molto che comincerò a correrle dietro come una matta.

— Ce l’ha messa proprio tutta per scapparmi via. — Charlie sistemò l’esuberante Lisa nel passeggino e il suo sorriso si incrinò leggermente nel chiedere a LuAnn: — Allora, com’è andata?

— Sono stati molto gentili. Mi hanno trattato come una persona proprio speciale. Vuole un caffè, signorina Tyler? Vuole fare una telefonata, signorina Tyler? — Sorrise. — Una delle donne che ci lavorano mi ha chiesto se la volevo assumere per farmi l’assistente.

— Sarà meglio che ti abitui a richieste di questo tipo, e di ogni altro tipo.

Si avviarono lungo il marciapiede.

— Hai la ricevuta? — riprese Charlie.

— Nella borsa.

— Per che ora hanno fissato la conferenza stampa?

— Domani alle sei del pomeriggio.

Charlie annuì con aria distratta, voltandosi a gettare uno sguardo dietro le spalle. E non era la prima volta.

LuAnn gli scoccò un’occhiata tesa: — C’è qualcosa che non va?

— Non so… — Charlie sostenne lo sguardo di lei. — In galera prima, e come detective privato poi, ho sviluppato una specie di radar interno che mi dice se qualcuno mi sta prestando un po’ troppa attenzione. E adesso l’allarme sta suonando come un matto.

Istantaneamente, LuAnn si mise a guardare da tutte le parti, ma lui la bloccò. — Non farlo. Cammina e basta. Va tutto bene. Ti ho trovato l’albergo. E appena un isolato più avanti. Mettiamo Lisa e te al caldo, poi io faccio un giretto d’esplorazione.

Le dita di LuAnn si serrarono intorno alla maniglia del passeggino.

— Stai tranquilla — la rassicurò lui. — Non è detto che il mio radar abbia sempre ragione…

Ma c’erano rughe di preoccupazione intorno agli occhi di Charlie.


Venti metri più indietro, sul lato opposto della strada, Anthony Romanello si stava domandando se l’avessero visto o no. Continuò a seguirli. A quell’ora le strade erano piene di gente. Ma c’era stata un’improvvisa rigidità nell’uomo e nella donna ai quali stava dietro. Abbastanza per far suonare anche il suo, di allarme mentale.

Senza perderli di vista, Romanello si strinse nel giubbotto di pelle e si lasciò distanziare di un’altra decina di metri, ma sempre sul chi vive nel caso decidessero di prendere la fuga in taxi. Lui era comunque in vantaggio, in quanto loro avrebbero perso tempo per caricare il passeggino con la bambina. Il che avrebbe permesso anche a lui di fermare un taxi in tempo. In ogni caso, l’uomo e la donna non presero alcun taxi. Raggiunsero un hotel ed entrarono.

Romanello attese un po’ davanti all’edificio, controllando la strada in entrambe le direzioni, infine attraversò ed entrò a sua volta.


— E queste qui? — Lo sguardo di LuAnn era caduto sul set di valigie nuove di zecca, sistemate in un angolo della suite. — Da dove vengono?

— Vuoi andare in Svezia senza l’opportuno bagaglio? — domandò Charlie sogghignando. — Non penso proprio, LuAnn. Questa è roba di prima qualità che ti dura una vita, non quelle schifezze da due soldi che come le guardi ti resta la maniglia in mano. Una te l’ho già fatta riempire per il viaggio. Cose per Lisa e anche per te. Ci ha pensato una mia amica. Oggi facciamo compere in modo da riempire anche tutte le altre.

— Charlie…

LuAnn lo abbracciò e gli diede un bacio sulla guancia, mentre lui guardava altrove con fare imbarazzato.

— Ehi, non è poi questo grande affare di Stato. — Tirò fuori di tasca un sottile libretto dalla copertina blu scuro, con sopra impressa un’aquila dorata ad ali spiegate, e glielo porse. — Questo è tuo.

Un passaporto degli Stati Uniti d’America.

LuAnn lo aprì, lesse il nome sotto la propria foto. Il nome della propria reincarnazione.

Richiuse lentamente il passaporto. La soglia verso un altro mondo e verso una nuova esistenza.

— Inizio del viaggio, LuAnn. Per te e per Lisa. Tutto il mondo e anche di più! — Charlie si preparò a uscire. — Vado a controllare un paio di cosette. Torno tra non molto…

— Charlie.

Lui si fermò e si girò.

LuAnn stava tormentando il passaporto con le dita. Aveva le guance arrossate. — Perché non vieni con noi?

Che cosa?

— Io, ecco, pensavo… — tentennò LuAnn prima di lasciarsi andare in un unico flusso, senza riuscire a guardarlo negli occhi. — Adesso ho tutti questi soldi. E tu sei stato così buono con noi. Cioè, io non sono mai stata da nessuna parte. Per cui, ecco, se ti fa piacere venire con noi… Voglio dire, se vuoi, vieni. Ma se non vuoi, io ti capisco…

— È un’offerta incredibilmente generosa, LuAnn — disse dolcemente Charlie. — Ma tu non mi conosci, non sai nemmeno chi sono. È una grossa responsabilità da prendersi verso qualcuno che non si conosce.

— Io di te conosco tutto quello che c’è da conoscere — replicò lei, caparbia. — So che sei un brav’uomo. So che hai avuto cura di noi. E so che tu a Lisa piaci da matti. E per come la penso io, questo mi fa conoscere tutto quello che mi serve.

Charlie rivolse un gran sorriso alla bambina, poi tornò a guardare LuAnn.

— Pensiamoci su, LuAnn. Sia tu che io. Pensiamoci su e vediamo che cosa ne viene fuori, d’accordo?

— Senti, Charlie, non è che ti chiedo di sposarmi — aggiunse lei scrollando le spalle e rimuovendo un ciuffo ribelle dagli occhi. — Se è questo che hai nella testa…

— Figurati! — esclamò lui sorridendole. — Io che sono abbastanza vecchio da essere tuo nonno.

— Però mi piace l’idea di averti con me. Non ho avuto molti amici, specie quelli sui quali ci si può contare. Ma io so che posso contare su di te. Perché tu sei mio amico, vero?

— Vero.

C’era una sfumatura rauca nella voce di Charlie. Lui se ne liberò con un colpetto di tosse, tornando ad assumere un tono professionale. — Ho capito quello che mi hai detto, LuAnn. Ne riparliamo al mio ritorno. Te lo prometto.

La porta si chiuse alle sue spalle. LuAnn cullò Lisa per farle prendere sonno, camminando avanti e indietro di fronte all’ampia finestra della stanza. Vide Charlie che usciva dal palazzo, lo seguì con lo sguardo fino a quando non venne inghiottito dalla folla di New York. Non le era sembrato che qualcuno lo pedinasse. Ma con così tanta gente in strada, chi poteva dirlo con certezza?

LuAnn sospirò a fondo, la fronte aggrottata. Si sentiva fuori posto. La sola cosa che le interessava era che Charlie rientrasse sano e salvo. E poi c’era sempre quella maledetta conferenza stampa del giorno dopo. Un mucchio di buffoni che le avrebbero fatto un mucchio di domande da buffoni. Meglio non pensarci. Aveva i nervi già abbastanza scossi.

Un colpo alla porta la fece sobbalzare. LuAnn fissò l’ingresso con occhi sbarrati, incerta sul da farsi.

— Chi è?

— Servizio in camera.

LuAnn andò a guardare dallo spioncino. La piccola lente le rimandò l’immagine distorta di un giovanotto con la livrea dell’hotel.

Fu costretta a compiere uno sforzo per evitare che la sua voce tremasse. — Io non ho ordinato niente.

— C’è una busta per lei, signora. E un pacchetto.

LuAnn si ritrasse dalla porta come se fosse diventata di colpo rovente. — E di chi è?

— Non saprei, signora. Un uomo giù nell’atrio mi ha chiesto di portarglieli su.

Charlie. Doveva essere stato Charlie… — Le ha detto di portarli su a nome mio?

— No, signora. L’ha vista entrare in ascensore e mi ha detto di darli proprio a lei — spiegò pazientemente il fattorino. — Se non li vuole adesso, posso metterli nella sua casella postale giù alla reception.

— No, li prendo adesso.

LuAnn aprì la porta di un palmo, stese un braccio e quasi strappò il pacchetto dalle mani del giovanotto, chiudendogli la porta in faccia. Per un po’, il fattorino rimase immobile nel corridoio deserto, scocciato per la perdita di tempo e per la mancata mancia. Ma non aveva poi tanta importanza, a questo ci aveva già pensato il tizio giù nell’atrio.

La nota era scritta, su carta da lettera dell’albergo. Nessuna calligrafia riconoscibile.


Cara LuAnn,

hai qualche notizia di Duane? E magari anche di quell’altro tipo? A proposito, con che cosa lo hai colpito, un’incudine forse? Morto stecchito. Spero ardentemente che la polizia non scopra che c’eri anche tu in quella vostra graziosa roulotte. Piaciuta la storiella, LuAnn? Non ti fa sentire nostalgia di casa? Facciamo due chiacchiere. Tra un’ora. Prendi un taxi e fatti portare all’Empire State Building. Non hai idea di come sia il panorama lassù. Il gorilla e la piccola lasciali a casa, okay?


LuAnn strappò la carta marrone del pacchetto e un giornale cadde a terra. Lo raccolse e lo aprì. Era l’Atlanta Journal and Constitution, il quotidiano delle sue parti. Una delle pagine interne era stata evidenziata con un talloncino adesivo giallo. LuAnn aprì alla pagina in questione, lesse un titolo e vide la foto che lo accompagnava.

Un invisibile nodo scorsoio cominciò a strangolarla, sempre più stretto e micidiale.

Nella foto sgranata in bianco e nero, la Airstream nella radura, circondata dal consueto labirinto di rottami e relitti, appariva addirittura più miserabile di quanto fosse in realtà. Nient’altro che un rifiuto un po’ più grosso degli altri, in attesa che il camion dei rifiuti arrivasse a prelevarlo. C’era anche la macchina decappottabile, con il suo osceno fregio cromato alla fine del lungo cofano puntato verso la roulotte. Pareva un cane da punta che dicesse al suo padrone dov’erano cadute le pernici.

Due uomini uccisi, diceva l’articolo. Un affare di droga. Sul nome di Duane Harvey, il testo si fece improvvisamente sfuocato, come filtrato da una barriera liquida. Quella barriera erano lacrime. LuAnn sedette sul divano della stanza, cercando di controllarsi. L’altro uomo non era stato ancora identificato. La terza persona domiciliata nella Airstream invece era stata identificata con certezza: LuAnn Tyler. La polizia di Rikersville la stava cercando. Anche in quel preciso momento. LuAnn Tyler era forse sospettata di qualche crimine? L’articolo non lo diceva. In compenso sottolineava che la sua scomparsa poteva solo far aumentare i sospetti della polizia. Era stata Shirley Watson a scoprire i cadaveri. Sulla scena era stata anche trovata una latta piena di acido da batteria. Gli occhi di LuAnn si strinsero. Acido da batteria. Quella flaccida troia di Shirley era tornata per pareggiare i conti, questo era fin troppo chiaro. In ogni caso, con due omicidi sul groppone, la polizia non avrebbe perso tempo con un crimine solo tentato.

Un altro colpo alla porta. LuAnn sobbalzò in preda al panico.

— LuAnn?

— Cha… Charlie?

— Perché, aspetti qualcun altro?

— Un momento solo…

LuAnn strappò dal giornale la pagina con l’articolo e se la ficcò in tasca. Poi ripiegò il resto del quotidiano e lo infilò sotto i cuscini del divano. Finalmente, andò ad aprire.

— Grande idea cercare di individuare un ipotetico pedinatore in una strada piena di gente — disse Charlie entrando. Si tolse il soprabito e si accese una sigaretta, non resistendo all’impulso di gettare un’ulteriore occhiata dalla finestra. — Eppure non riesco a scrollarmi di dosso la sensazione che qualcuno ci stesse seguendo…

— Magari era uno che voleva rapinarci. Succede spesso da queste parti, non è così, Charlie?

Lui scosse il capo. — È vero che ultimamente i balordi si sono fatti temerari, ma se qualcuno voleva davvero rapinarci, faceva il colpo e scappava a tutta birra. Tirare fuori una pistola di fronte a mezzo milione di persone? Poco probabile. Eppure la sensazione resta: qualcuno ci ha seguito. — Si voltò verso di lei. — È successo niente di strano mentre ero via?

LuAnn scosse a sua volta il capo, gli occhi spalancati, timorosa di dire qualsiasi cosa.

— Non sarà che qualcuno ti ha seguita fin qui a New York, vero?

— Non ho visto nessuno. Te lo giuro, Charlie. Senti… Io ho paura adesso.

— Ehi, ehi… calma — la invitò cingendole le spalle con fare protettivo. — Va tutto bene. Probabilmente è solo Charlie-il-paranoico che insegue il nulla. Ma vuoi saperne una? Certe volte a essere paranoici non è poi così male. Senti, andiamo a fare un altro po’ di shopping. Ti farà sentire subito meglio.

Le dita di LuAnn tormentavano il pezzo di carta che teneva in tasca. Sentiva il cuore martellarle in gola, come se fosse alla ricerca di uno spazio più ampio nel quale esplodere una volta per tutte, tuttavia quando rialzò lo sguardo, il suo volto appariva del tutto calmo e rilassato. — Lo sai di che cosa ho davvero voglia, Charlie?

— Tu dillo, ed è affare fatto.

— Una sistematina ai capelli. E magari anche la manicure. Mi sembrano uno schifo i miei capelli. E per la conferenza stampa voglio essere tutta a posto.

— Avrei dovuto pensarci io. Nessun problema, prendiamo l’elenco del telefono e troviamo uno di quei saloni di bellezza per straricchi sulla Quinta Avenue…

— Ce n’è uno proprio quaggiù nell’ingresso del nostro albergo — disse LuAnn precipitosamente. — L’ho visto mentre entravamo. Fanno tutto: capelli, unghie, faccia. E mi sembrava proprio niente male.

— D’accordo, allora.

— Dai tu un’occhiata a Lisa?

— Perché? Non veniamo giù anche noi?

— Ma andiamo, Charlie. E sì che tu devi saperlo…

— Cosa, dovrei sapere?

— Che gli uomini non vanno nei saloni di bellezza a guardare quello che succede. Siamo noi donne che lo vogliamo tenere segreto. Se voi sapete che storia è farsi belle, allora il trucco è finito. Ma qualcosa sì che la puoi fare.

— Cioè?

— Farmi un sacco di complimenti quando torno.

Charlie sogghignò. — Fin lì, ci arrivo.

— Non so quanto tempo ci vuole. Mi sa che non mi fanno passare subito. Se a Lisa viene fame, c’è un biberon pronto nel frigo. Forse vuole anche giocare. Dopo la puoi mettere a nanna.

— Prenditela calma. Per il momento non ho niente da fare. Dammi solo una birra, un po’ di televisione… — e così dicendo Charlie andò a prendere la piccola dal passeggino — e la compagnia di questa signorinella, e io sono un bambino contento.

LuAnn prese il cappotto.

— Un momento — fece lui inarcando un sopracciglio. — Per che cosa ti serve quello?

— Devo fare alcune spese. C’è un negozio appena dall’altra parte della strada.

— C’è un negozio anche nell’atrio.

— Se però i loro prezzi sono cari come quelli dell’altro albergo, io attraverso la strada e mi risparmio un po’ di soldini.

— LuAnn, tu sei una delle donne più ricche del mondo. O te lo sei scordato? Se tu volessi, ti potresti comprare questo intero albergo.

— Charlie, mi sono dannata l’anima a risparmiare monetine tutta la vita. — LuAnn aprì la porta, sperando che lui non si rendesse conto della sua agitazione. — Non puoi pretendere che cambio dalla sera alla mattina, no?

Lui corrugò la fronte, senza trovare niente da ridire.

— Torno appena posso.

Charlie fece un passo verso la porta. — Non mi va. Jackson è stato chiaro: dove vai tu, vado anch’io.

— E dai, Charlie… sono una bambina grande. So badare a me stessa. E poi come la mettiamo con Lisa che deve fare il pisolino? Non possiamo lasciarla da sola.

— Be’, no…

— Tu stai con lei, va bene? — LuAnn diede un bacetto a Lisa e una strizzatina al braccio di Charlie. — Io faccio in fretta e ci vediamo presto.

Charlie la osservò andarsene. Poi, come da programma, prese una birra dal frigobar e si mise a guardare la televisione con Lisa sulle ginocchia. Ma la sua fronte rimase corrugata. E il suo umore perplesso.

Attraversare la strada. Risparmiare soldini. Bambina grande…

Charlie decise di fare del proprio meglio per coinvolgere Lisa nelle delizie dello zapping.

14

Il monolite incombeva su di lei. La guglia sulla sommità era simile alla punta di una lancia che perforava il cielo.

LuAnn Tyler non ebbe né il tempo né la possibilità di ammirare la temeraria architettura dell’Empire State Building. Il braccio estraneo venne a infilarsi sotto il suo nell’attimo stesso in cui lei scendeva dal taxi.

— Da questa parte.

Una voce d’uomo levigata, confortante. Ma anche del tutto raggelante.

— Facciamo due chiacchiere.

LuAnn si liberò dalla stretta. L’uomo era alto, dalle spalle larghe. Folti capelli scuri intorno a un volto rasato di fresco, occhi neri pieni di determinazione.

— Cosa vuoi da me? — Adesso che LuAnn poteva vederlo, la sua paura sembrò diminuire.

— La sai una cosa, signorina Tyler — disse Anthony Romanello gettando un’occhiata intorno — perfino a New York finiremmo con attirare l’attenzione facendo questo genere di conversazione qui in strada. Lo vedi quel bar sull’altro marciapiede? Suggerisco di fare là la nostra chiacchierata.

— Perché?

— Perché tu hai letto sia il mio bigliettino sia l’articolo su quel giornaletto di provincia. — Romanello incrociò le braccia e le offrì un sorriso mellifluo. — Altrimenti non ti troveresti qui.

— Li ho letti. — LuAnn fece uno sforzo per mantenere ferma la voce.

— Allora muoviamoci.

— E tu che diavolo c’entri? Spacci anche tu droga?

Il sorriso svanì dal volto di Romanello. — Ora stammi a sentire…

— Io non ho ammazzato nessuno — dichiarò LuAnn con durezza.

— Abbassa la voce, cazzo!

LuAnn lo folgorò con un’occhiata. Poi si girò e cominciò ad attraversare la strada, puntando verso il bar. Romanello la seguì da vicino.

Si sedettero a un tavolo verso il fondo del locale, nella parte meno illuminata.

Romanello ordinò del caffè. Con fare ospitale, tese a LuAnn il menù. — Mangi un boccone?

— Mangiatelo tu, il boccone.

— E va bene, piantiamola con i preamboli e veniamo dritti al punto…

— Tu come ti chiami?

La domanda colse Romanello in contropiede. — Perché?

— Dammene uno. Da queste parti sembra che hanno tutti un nome inventato.

— Di che accidenti vai… — Romanello s’interruppe, ci pensò su e fece retromarcia. — D’accordo, chiamami Arcobaleno.

— Ma che carino, tutto colorato. Mai visto un arcobaleno come te prima di oggi.

— Ed è qui che ti sbagli — gli occhi di Romanello si accesero di un lampo avido. — Perché c’è sempre una pentola piena d’oro alla fine dell’arcobaleno.

— E allora?

— E allora la mia pentola piena d’oro sei proprio tu, signorina Tyler — disse Romanello rilassandosi contro lo schienale.

LuAnn fece per alzarsi.

Siediti!

La parola era risuonata come uno schiocco di frusta. LuAnn si bloccò a metà del movimento.

— Siediti, cara, a meno che tu non preferisca passare il resto della tua vita in galera piuttosto che alle Bahama.

LuAnn tornò a sedersi, senza togliergli gli occhi di dosso. — A me, signor Arcobaleno, i giochini non sono mai piaciuti. Quindi vieni al punto così la facciamo finita.

La cameriera arrivò con il caffè. Romanello attese che se ne fosse andata, poi si protese verso LuAnn fissandola negli occhi da pochi centimetri: — Sono stato alla tua roulotte. Ho visto i cadaveri.

— E tu che cosa ci facevi alla roulotte?

Romanello si ritrasse. — Passavo da quelle parti.

— E io sono Marilyn Monroe.

Romanello la ignorò. — Il fatto è che io ti ho visto arrivare con la macchina del ciccione, quella della foto sul giornale. E poi ti ho vista fare un sacco di telefonate.

— E allora? Non posso fare telefonate?

— E dopo, alla stazione ferroviaria di Atlanta ti ho visto tirare fuori una bella mazzetta di grana dal seggiolino della tua piccola. E tu venivi dalla roulotte, LuAnn, con dentro due cadaveri e un bel po’ di droga. La tua roulotte.

LuAnn socchiuse gli occhi. Forse era una trappola. Forse Arcobaleno era un poliziotto incaricato di strapparle una confessione.

— Io non so di cosa stai parlando — disse LuAnn agitandosi sulla sedia. — Io di cadaveri non so niente. Chissà chi credi di aver visto a guidare quella macchina. E chi sei tu per dire a me che non posso tenere i miei soldi dove voglio? — Tirò fuori di tasca l’articolo di giornale accartocciato. — Questo te lo puoi riprendere. Vai a far paura a qualcuno che ci casca.

Romanello prese il foglio accartocciato, lo dispiegò e gli diede un’occhiata distratta, infine se lo mise in tasca. Quando la mano riapparve, c’era qualcos’altro stretto nel suo pugno. Qualcosa di strappato e chiazzato di rosso.

— Questo lo riconosci, LuAnn?

— Sembra un pezzetto di stoffa macchiato. — LuAnn dovette lottare con se stessa per restare impassibile. — E allora?

— Ma brava, la ragazzina — disse Romanello sorridendo di nuovo. — Non mi aspettavo che una fighetta scema scappata dalla campagna si sarebbe controllata così. Mi ero immaginato di vederti cadere in ginocchio invocando pietà.

— Mi dispiace di non essere quella che avevi immaginato. Ma se mi chiami ancora fighetta scema, giuro che ti mollo qui all’istante.

— L’ultima cosa che vuoi fare, LuAnn — disse Romanello con calma glaciale — è rendermi nervoso.

Ciò detto, abbassò la cerniera del giubbotto abbastanza per mostrare a LuAnn la 9mm semiautomatica che sporgeva dalla cinta dei pantaloni.

— Perché se divento nervoso, posso diventare un individuo quanto mai spiacevole.

LuAnn rivolse all’arma solo una fugace occhiata. — Che cosa vuoi da me?

— Te l’ho già detto. — Romanello richiuse il giubbotto. — Tu sei la mia pentola piena d’oro.

— Io non ho soldi.

— Ah, no? — Romanello quasi le rise in faccia. — Dimmi una cosa, LuAnn, qual buon vento ti ha portato a New York City? Scommetto che in tutta la tua vita non avevi mai messo piede fuori da quella contea dimenticata da Dio. E allora, con tutti i posti di questo mondo, perché proprio New York? — Romanello inclinò la testa in attesa di una risposta.

— Va bene, forse sapevo quello che era successo nella roulotte — disse LuAnn senza guardarlo. — Però non ho fatto niente di sbagliato. Me ne sono andata via perché sapevo che laggiù poteva mettersi male per me. New York era un posto come un altro… — LuAnn alzò lo sguardo per valutare la sua reazione. Romanello stava ancora sogghignando.

— Che cosa ci farai con tutti quei soldi, LuAnn?

— Quali soldi? Quelli nel seggiolino di Lisa?

— Non credo che riuscirai a far stare cento milioni di dollari nella culla della piccola, LuAnn. Magari con il reggiseno potrebbe andare meglio — aggiunse Romanello sbirciando il seno formoso di lei.

LuAnn rimase a fissarlo con la bocca semiaperta.

— Per cui, vediamo un po’ — continuò Romanello — quale dici che potrebbe essere una decorosa percentuale per un ricatto, di questi tempi? Dieci per cento? Venti per cento? Cinquanta per cento? Voglio dire, anche con solo metà di quel malloppo, stiamo pur sempre parlando di decine di milioni di dollari. Più che sufficienti a te e alla piccola per comprarvi jeans, magliette e ciucciotti fino alla fine dei vostri giorni. — Romanello bevve un sorso di caffè, osservandola al di sopra dell’orlo della tazza. — O no?

Il pugno di LuAnn si serrò intorno al manico della forchetta. Per un attimo pensò di saltargli addosso, poi l’impulso si attenuò.

— Tu sei proprio pazzo, signor Arcobaleno.

— La conferenza stampa è per domani, LuAnn.

— Quale conferenza stampa?

— Ma sì, quella in cui tu riceverai l’assegno formato gigante e sorridendo lo sventolerai in faccia a quella massa di gente invidiosa.

LuAnn mise giù la forchetta. — Adesso devo andare.

La mano destra di Romanello si chiuse intorno al suo polso in una morsa. — Non penso che potrai spendere tutti quei soldi dalla cella di una galera.

— Ho detto che devo andare! — LuAnn si svincolò con uno strappo secco.

— Non fare stupidaggini, signorina Tyler. Ti ho visto comprare il biglietto della lotteria. E c’ero anch’io all’estrazione. Ho visto quel tuo enorme sorriso e come hai saltato e ballato per la strada. Ero nel palazzo della Commissione Lotterie quando il tuo biglietto è stato identificato e convalidato. So tutto, LuAnn. Per cui falla finita con le cazzate, d’accordo? Se tu te ne vai adesso, la prima cosa che farò sarà una telefonata allo sceriffetto della tua contea per raccontargli tutto quello che ho visto. E poi gli spedirò quel pezzettino di maglietta macchiato di rosso. Non hai idea di quali marchingegni elettronici ci siano nei laboratori della polizia, al giorno d’oggi. Metteranno insieme tutti i pezzi, LuAnn. E quando arriverò a dirgli che hai vinto cento milioni di dollari alla Lotteria Nazionale, be’, allora tu avrai chiuso, signorina LuAnn Tyler. Ti saranno addosso prima che tu prenda il volo per il paradiso, ti sbatteranno dentro e butteranno via la chiave. E la tua piccolina la scaricheranno in chissà quale cesso di orfanotrofio.

— Io non ho mai fatto niente di male.

— No, tu hai fatto la cretinata di scappare. E quando scappi, i poliziotti pensano subito che sei colpevole. Si convinceranno che ci sei dentro fino al collo. Per adesso, a te non sono ancora arrivati, ma ci arriveranno. Se questo accadrà tra dieci minuti oppure tra dieci giorni, dipende da te. Se è tra dieci minuti, sei morta e sepolta. Se è tra dieci giorni, probabilmente riuscirai a sparire. Perché quello è anche il mio programma: sparire. Mi dovrai pagare una volta sola. Te lo garantisco. Io non riuscirei a spendere tutto quel denaro nemmeno se non facessi altro. E nemmeno tu ci riusciresti. Alla mia maniera, siamo in due a vincere. Alla tua maniera, tu perdi e sei spacciata. Allora, qual è la tua decisione?

Per un momento interminabile, LuAnn rimase come cristallizzata. Poi, lentamente, centimetro dopo centimetro, tornò a sedersi.

— Saggia decisione, LuAnn.

— Non ti posso pagare la metà. Romanello si rabbuiò. — Non essere avida.

— L’avidità non c’entra. Ti posso pagare. Non so ancora quanto, ma sarà lo stesso un bel po’. Abbastanza per fare tutto quello che vuoi.

— Non capisco.

— Tu non devi capire niente — disse LuAnn prendendo in prestito le parole di Jackson. — Ma se io sto al tuo gioco, tu mi devi dare una risposta. E se non mi dirai la verità, potrai pure andare alla polizia perché a me non me ne fregherà più niente.

Romanello la scrutò con diffidenza. — Sentiamo la domanda.

— Che cosa ci facevi nella roulotte? Tu non stavi per niente passando da quelle parti, lo sappiamo tutt’e due.

— Che importanza ha? — ribatté lui stringendosi nelle spalle con noncuranza.

LuAnn allungò una mano, gli afferrò il polso e lo strinse, con una forza che Anthony Romanello non si sarebbe mai aspettato.

— Ti ho detto che voglio una risposta. — LuAnn continuò a stringere. — E sarebbe meglio una risposta esatta.

— Mi guadagno da vivere… — cominciò Romanello con un sorrisetto acido, poi si corresse: — mi guadagnavo da vivere occupandomi dei problemi di certe persone.

— Che problemi? Di che persone? — LuAnn non lo mollava. — C’entrano con la droga di Duane?

Romanello scosse il capo con vigore. — Di droga non ne so niente. Duane era già morto. Forse stava facendo il furbetto, tagliando la merce o tenendosi più soldi del dovuto, e l’altro tipo lo ha fatto fuori. Chi lo sa? E chi se ne frega?

— Cos’è successo all’altro?

— A me lo chiedi? Non sei tu quella che gli ha sfondato il cranio? Non l’hai letta la mia letterina? Anche lui era morto stecchito.

LuAnn non rispose. Romanello abbassò lo sguardo al pugno di lei, ancora serrato intorno al suo polso.

— Ora puoi anche mollare.

— Tu non mi hai ancora risposto. E finché non rispondi, non vedi il becco di un quattrino.

Romanello esitò, ma solo finché la sua avidità non ebbe la meglio.

— Ero alla roulotte per ucciderti — dichiarò in tono piatto.

LuAnn diede un’ultima stretta e finalmente lo lasciò andare. Romanello contrasse le dita più volte per riattivare la circolazione.

— Perché? — domandò LuAnn in un sibilo.

— Non faccio mai domande. Loro pagano e io eseguo.

— Chi ti ha detto di uccidermi?

LuAnn si protese nuovamente verso il polso, ma lui riuscì a ritrarsi in tempo. — Ti ho detto che non lo so. Cosa credi, che ci sediamo a bere un caffè e a discutere di chi devo liquidare? Mi è arrivata una telefonata, e metà del compenso in anticipo. L’altra metà sarebbe arrivata a lavoro finito. Tutto per posta.

— Ma il lavoro tu non lo hai finito.

— Solamente perché il tizio ci ha ripensato.

— Il tizio…

— Quello che mi ha commissionato il contratto.

— E quand’è che ci ha ripensato?

— Quando ti stavo aspettando nella roulotte. Ti ho visto ritornare in macchina e poi andare via a piedi. Sono andato alla mia auto per seguirti e a quel punto il tizio mi ha chiamato sul cellulare. Saranno state le dieci e un quarto.

LuAnn si appoggiò allo schienale… Quindici minuti dopo la scadenza del termine ultimo di Jackson! Ecco come lui si prendeva cura di quelli che non volevano stare al suo gioco.

— E adesso che hai avuto la tua risposta — rispose Romanello sporgendosi in avanti — perché non passiamo a discutere i dettagli del nostro piccolo affare?

LuAnn rimase a guardarlo in silenzio per un buon minuto prima di rispondere. — Se scopro che mi hai raccontato delle balle…

— La sai una cosa? — La sua mano si infilò sotto il giubbotto e si contrasse sul calcio della pistola. — Mi hai proprio rotto i coglioni!

LuAnn lanciò un’occhiata sprezzante alla pistola, prima di tornare a fissarlo negli occhi. — Io sono cresciuta in mezzo a gente fuori di testa, signor Arcobaleno. Gente ubriaca marcia che punta una calibro 12 in faccia a chi capita e che poi tira il grilletto, giusto per sentire il botto. Gente che fa a pezzi qualcuno con un coltellaccio da cucina e che poi scommette su quanto tempo ci mette a crepare dissanguato. E c’era quel ragazzino nero che hanno tirato fuori da un lago, con la gola tagliata e con via tutto quello che aveva fra le gambe. E lo sai perché? Perché qualcuno pensava che girava troppo intorno a una ragazzina bianca. Sono anche abbastanza sicura che mio padre c’entrasse qualcosa. Sai, laggiù non è che la polizia ci diventasse matta. E allora non me ne frega proprio niente della tua pistolina e delle tue cazzate da superuomo. Perciò adesso noi concludiamo la faccenda, e poi, signor Arcobaleno, tu uscirai per sempre dalla mia vita.

Negli occhi di Romanello la minaccia si andò rapidamente dissipando. — D’accordo — disse con tutta calma nel richiudersi il giubbotto.

15

Mezzora più tardi Romanello e LuAnn uscirono dal bar. LuAnn prese un taxi e ritornò all’albergo. E al salone di bellezza, in modo da condurre fino in fondo la sua messinscena con Charlie.

Romanello se ne andò fischiettando, superando l’ombra dell’Empire State Building che si allungava attraverso la strada. Era stata una buona giornata. Gli accordi che aveva preso con LuAnn non erano garantiti al cento per cento, ma il suo istinto gli diceva che lei li avrebbe onorati. Se la prima fetta dei soldi della vincita alla lotteria non fosse stata depositata sul suo conto in banca entro le quarantott’ore successive, lui si sarebbe messo in contatto con la polizia di Rikersville. Avrebbe pagato, Romanello ne era sicuro. Che altra scelta aveva?

Prima di rientrare nel suo appartamento, Romanello si fermò a comprare una bottiglia di buon Chianti. C’era da festeggiare. E si lasciò trasportare da incalzanti fantasticherie sull’incantevole dimora in cui si sarebbe ritirato in qualche angolo del mondo. Nei molti anni passati a fare il killer aveva messo insieme un gruzzolo più che decente. Ma era anche stato costretto a fare bene attenzione a come spenderlo e soprattutto a dove metterlo al sicuro. L’ultima cosa che gli serviva erano gli agenti del fisco a ficcare il naso nei suoi introiti. Con questo memorabile giro di boa, sarebbe stato tutto quanto alle sue spalle. Niente più mestieraccio, niente più cadaveri ingombranti, niente più agenti del fisco. Sì, concluse Romanello, era stata proprio un’ottima giornata.

Non gli riuscì di trovare un taxi una volta fuori dal negozio di liquori, così prese la metropolitana. I treni erano così affollati che a stento trovò posto in piedi. Parecchie fermate dopo, Romanello riuscì a farsi largo nella massa e a riguadagnare la superficie, raggiungendo finalmente casa. Chiuse tutte e tre le serrature, si tolse il giubbotto e si preparò a festeggiare.

Il suono del campanello lo inchiodò con il cavatappi in mano. Romanello scrutò dallo spioncino. L’uniforme marrone di un fattorino della UPS fu tutto ciò che vide.

— Che cosa vuole? — domandò attraverso la porta.

— Ho una consegna per il signor… — Il fattorino controllò nome e indirizzo sulla bolla. — Anthony Romanello.

Romanello notò fra le sue mani un pacchetto squadrato, con un rigonfiamento nel centro. Si decise ad aprire la porta.

— È lei il signor Romanello? — chiese il fattorino. Lui annuì.

Il fattorino gli porse la bolla di consegna. — Soltanto una firma qui, per favore.

— Non sarà una citazione del tribunale? — Romanello sogghignò mentre scribacchiava il suo cognome.

— E no! Non mi pagherebbero abbastanza — disse il fattorino scuotendo il capo. — Mio cognato era un messo della corte civile, su a Detroit. Alla seconda volta che gli spararono addosso, decise che guidare il camion del lattaio era un lavoro molto più sicuro. Tutto a posto. Buona giornata.

— Lo è di già.

Romanello chiuse la porta e tastò il contenuto del pacco attraverso l’involucro. Un sorriso affiorò sulle sue labbra. La seconda metà del suo compenso per il contratto annullato di LuAnn Tyler. Il suo datore di lavoro gli aveva accennato alla possibilità di un annullamento, ma gli aveva assicurato che sarebbe stato comunque pagato per intero. Il suo sorriso svanì di colpo non appena gli venne in mente che quel pagamento doveva essere fatto attraverso la sua casella postale. Nessuno conosceva il suo indirizzo di casa. Nessuno conosceva nemmeno il suo vero nome.

Romanello ruotò su se stesso nell’udire un rumore alle proprie spalle.

La penombra che avvolgeva il soggiorno si animò, e sulla soglia della cucina apparve Jackson. Era vestito in modo inappuntabile, come per l’incontro con LuAnn. Ma era l’unica analogia tra quel Jackson e questo. Occhiali scuri, impenetrabili, celavano i suoi occhi. Tra i capelli adesso c’era del grigio, ed erano diversamente pettinati. Sul volto era apparsa una barba ben curata, grigia anch’essa. Le guance erano più larghe e paffute, le orecchie arrossate e aderenti ai lati del capo. Erano entrambi gli efficaci effetti del lattice e della cosmetica.

— Chi cazzo sei e cosa ci fai qui dentro? — ruggì Romanello.

Per tutta risposta, con la mano destra guantata Jackson indicò il pacco. — Lo apra.

— Che cosa?…

— Conti i suoi soldi e si assicuri che ci siano tutti. Non si preoccupi, non la considererò un’offesa personale.

Jackson si tolse gli occhiali con un gesto misurato. — Lo apra — disse una seconda volta, e nella sua voce non c’era alcuna minaccia.

Negli ultimi tre anni Anthony Romanello aveva assassinato a sangue freddo e con piena premeditazione sei persone. Non aveva paura di niente, né di nessuno. Allora perché si sentiva pervadere da quello strano brivido?

Strappò la carta da pacchi, e parte del contenuto nel fuoriuscire cadde sul pavimento: cartaccia, vecchi giornali tagliati nel formato delle banconote.

— Dovrebbe essere divertente — disse Romanello a denti stretti — ma non mi fa affatto ridere.

Jackson scosse la testa. — Quando annullai il contratto, non avrei mai dovuto dirle di LuAnn Tyler e dei soldi nel suo futuro. Passo falso da parte mia, lo ammetto. Soldi. Una parola magica che fa fare strane cose alle persone.

— Di cosa stai parlando?

— Signor Romanello, lei era stato assunto per eseguire un lavoro per me. Una volta annullato il contratto, il rapporto tra lei e me doveva terminare. Mi correggo: sarebbe dovuto terminare.

— E terminato. La donna non l’ho uccisa, e da te ho ricevuto solo pezzi di carta. Quello che dovrebbe essere incazzato sono io, amico, non tu!

Jackson cominciò a enumerare, toccandosi un dito dopo l’altro: — Lei ha seguito la donna da Rikersville fino a New York. Ha continuato a seguirla in tutta la città. Le ha mandato un messaggio. Si è addirittura incontrato con lei, e non ritengo che il vostro sia stato un incontro di cortesia.

— Come sai tutto questo?

— C’è ben poco che io non sappia, signor Romanello. — Le lenti impenetrabili risalirono a nascondere nuovamente gli occhi di Jackson. — Ben poco.

— Tu non puoi dimostrare niente.

Jackson esplose in una risata che fece rabbrividire Romanello. La mano del killer scese a cercare la sua 9mm, ma nella cinta dei pantaloni non c’era alcuna pistola. Svanita.

Jackson notò il suo sbigottimento e scosse la testa: — Che posto infido è la metropolitana di New York, non trova anche lei, signor Romanello? Infestato da ladri e borseggiatori. Le cose spariscono e nemmeno ci si rende conto…

— Lascia che ti ripeta una cosa: tu non puoi dimostrare niente. E adesso vorresti andare alla polizia, proprio tu che mi hai assunto per far fuori qualcuno. Non sei il massimo della credibilità!

— Non ho il benché minimo interesse nell’andare alla polizia. Lei ha violato le mie precise istruzioni, e con ciò ha messo a rischio i miei piani. Sono venuto a comunicarglielo. E non solo la seconda metà del suo pagamento non avrà luogo, ma lei incorrerà anche nelle appropriate sanzioni punitive. Delle quali io ora mi occuperò personalmente.

Romanello si drizzò nel suo metro e novanta di statura, e torreggiando su Jackson disse con un ghigno: — Allora è meglio che chiami rinforzi.

— Preferisco arrangiarmi da me.

— Bene, sarà la tua ultima impresa. — Romanello si mosse rapido e preciso. Con la sinistra lanciò la cartaccia verso Jackson e con la destra strappò dal fodero alla caviglia il compatto coltello da combattimento a lama seghettata. Ma il suo slancio si spense quando vide qualcosa in mano a Jackson.

— Forza bruta ed elevata massa muscolare sono spesso sciocche sopravvalutazioni. Non ne conviene? — domandò filosoficamente Jackson.

Il doppio ago sparato dallo storditore elettrico centrò Anthony Romanello in pieno petto. Centoventimila volt di corrente fluirono lungo i tenui fili metallici direttamente nel suo sistema nervoso centrale.

Anthony Romanello schiantò a terra e restò immobile a fissare Jackson che lo sovrastava.

— Le sto somministrando una scarica della durata di sessanta secondi, la quale la metterà in condizione di non nuocere per i prossimi quindici minuti circa. Più che sufficienti per le mie necessità.

Poi Jackson interruppe la corrente e si chinò accanto a lui per rimuovere gli aghi dal petto. Romanello aveva sempre gli occhi sbarrati, del tutto impotente mentre dita guantate gli slacciavano la camicia.

— Petto villoso, signor Romanello. Dubito che il perito potrà rilevare i microscopici fori lasciati sul suo petto.

Jackson riassemblò lo storditore e tolse un altro oggetto dalla tasca interna della giacca. Romanello vide cos’era e fu pervaso dal panico, ma nella sua paralisi non poté fare altro che guardare. Non sentiva più le gambe, né le braccia, la sua lingua pareva essere diventata una foglia di cactus.

— Si tratta principalmente di una soluzione salina pressoché innocua — disse Jackson verificando in controluce il contenuto della siringa ipodermica che stringeva nella destra. — Innocua se non si considera il suo composto aggiuntivo. Il quale, in certe specifiche circostanze, può essere letale.

Jackson sorrise a Romanello facendo una pausa, considerando l’entità delle sue ultime parole.

— Detto composto si chiama prostaglandina, un ormone prodotto naturalmente dall’organismo umano. I suoi dosaggi ottimali si misurano in microgrammi. Il dosaggio di prostaglandina che io sto per somministrarle, signor Romanello, è dell’ordine dei milligrammi. Vale a dire un multiplo in migliaia della quantità presente in condizioni normali nel suo sistema cardiovascolare. — Jackson parlava con tono didattico, come un professore molto compreso nella sua lezione. — Nel momento in cui la prostaglandina raggiungerà il suo cuore, provocherà un’immediata contrazione delle coronarie, innescando quello che, in termini squisitamente medici, viene definito infarto del miocardio dovuto a occlusione delle arterie coronariche. In verità, non ho mai combinato gli effetti dell’alto voltaggio con questo specifico metodo per provocare il decesso e sarà interessante osservare tale processo.

Jackson non manifestava maggior emozione di quella che avrebbe provato nel sezionare una rana davanti a una classe di studenti di biologia.

— In ogni caso, considerando che la prostaglandina è naturalmente prodotta dall’organismo, da questo è anche metabolizzata, ragion per cui l’autopsia non ne rileverà un tasso elevato che possa così risultare sospetto. Ma la ricerca non può, non deve fermarsi. Al momento, signor Romanello, sto perfezionando un nuovo veleno che conterrà un enzima incapsulato da una membrana protettiva. Una volta inoculato, le reazioni chimiche primarie nel flusso sanguigno scompongono rapidamente la membrana, ma a quel punto il veleno avrà già fatto effetto. La rottura della membrana permetterà però all’enzima di reagire con il veleno, cancellando ogni traccia della sua esistenza. E il medesimo principio dei reattivi che demoliscono le chiazze galleggianti dell’inquinamento da petrolio. Ingegnoso, non trova? Era questo il veleno che contavo di sperimentare su di lei oggi. Malauguratamente, sono rimasto un po’ indietro sulla tabella di marcia. La chimica, dopotutto, richiede grande pazienza ed estrema precisione. E lei non può avere idea di quanto io aborrisca fare lavori affrettati. Nessun problema. La buona, vecchia prostaglandina servirà alla bisogna.

Le dita di Jackson scesero sulla gola di Romanello, cercando il pulsare della giugulare.

— La troveranno qui: un uomo ancora giovane improvvisamente morto per cause naturali. Un ulteriore argomento statistico per il dibattito sulla salute al giorno d’oggi.

Romanello riprese a lottare per sollevarsi, ma l’unico esito furono i suoi occhi che parevano voler schizzare fuori dalla sua testa. Le vene del suo collo si gonfiarono sotto la pelle madida di sudore gelido, e Jackson gli fu grato per quell’aiuto non richiesto.

Jackson infilò l’ago nella giugulare sinistra, premette lo stantuffo a fondo e i cinque centimetri cubici di soluzione letale fluirono nel sistema circolatorio di Anthony Romanello. Quindi estrasse l’ago e diede un paio di amichevoli buffetti sulla guancia della sua vittima. Le pupille dilatate di Romanello seguivano i suoi movimenti come un metronomo impazzito.

— Ora, un anatomo-patologo attento potrebbe però individuare il foro di entrata dell’ago — disse Jackson prendendo dalla tasca un rasoio a lama. — E noi non vogliamo che un simile spiacevole inconveniente abbia luogo. Non è d’accordo, signor Romanello?

Jackson praticò una piccola incisione sulla gola dell’uomo a terra. Due o tre millimetri, esattamente sul punto in cui l’ago era penetrato. Una minuscola goccia di sangue scuro ribollì dalla ferita. Jackson la coprì con un cerotto medicato.

— Un vero peccato, signor Romanello — Jackson gli rivolse un sorriso in qualche modo triste. — I suoi servizi potevano tornarmi utili anche in futuro.

Poi sollevò una delle mani inerti dell’uomo morente e tracciò il segno della croce sul suo petto.

— So che lei è stato educato nella religione cattolica, ma ha chiaramente fatto la scelta di voltare le spalle al suo dio. Purtroppo è da escludere che un prete possa celebrarle gli ultimi riti. Non ritengo comunque che abbia molta importanza. Inferno, Purgatorio, Paradiso… — Jackson raccolse il coltello da combattimento e lo infilò di nuovo nella fondina alla caviglia di Romanello — sono nozioni prive di senso.

Quando fece per rialzarsi, notò la carta stropicciata che sporgeva dalla tasca di Romanello. La prese e lesse l’articolo sul duplice delitto della roulotte di Rikersville, la droga, la scomparsa di LuAnn Tyler e le ricerche della polizia.

Ecco quindi la risposta. Romanello stava ricattando LuAnn. O ci stava provando.

Se Jackson avesse avuto quelle informazioni un giorno prima, la soluzione sarebbe stata semplice: eliminare LuAnn Tyler. Ora non poteva più farlo, e non sopportava l’idea di non avere il pieno controllo della situazione. LuAnn era già stata proclamata vincitrice della lotteria, e nel giro di ventiquattr’ore sarebbe apparsa al mondo intero in televisione. Certo, ora quelle sue particolari richieste avevano un senso. Jackson piegò la pagina di giornale e se la mise in tasca. La cruda verità era che adesso lui e LuAnn Tyler erano legati a doppio filo. Una nuova sfida. Quanto meno, lui amava le sfide. Avrebbe comunque ripreso il pieno controllo. Le avrebbe detto esattamente che cosa fare, quando farlo, come farlo. E se lei non avesse ubbidito alla lettera, l’avrebbe mandata a tenere compagnia ad Anthony Romanello.

Jackson raccolse da terra tutte le finte banconote e l’involucro stracciato del pacchetto. Dopodiché si tolse l’abito scuro che indossava, con le imbottiture che gli avevano conferito una corporatura massiccia. Il naso finto scomparve, insieme con la barba finta. Le orecchie finte vennero staccate. Tutto finì all’interno di un contenitore per pizze da asporto precedentemente nascosto nell’appartamento. Jackson verificò la propria immagine allo specchio: ora era un uomo magro con una camicia blu e bianca con tanto di scritta sulla schiena: DOMINO PIZZA — CONSEGNE A DOMICILIO.

Ma Jackson non aveva ancora finito.

Dopo aver rimosso con dell’alcol le finte rughe connesse al suo precedente aspetto, si applicò sottili baffi finti e un finto codino. Con un gel eliminò il grigio dai capelli e con la brillantina li sistemò all’indietro, coprendoli con un berretto da baseball dei New York Yankees. Scarpe da tennis sostituirono quelle di cuoio. Un diverso paio di occhiali scuri nascose il colore dei suoi occhi. L’uomo che si faceva chiamare Jackson si sorrise nel guardarsi un’ultima volta allo specchio.

Quando poco dopo lasciò tranquillamente l’appartamento, anche Anthony Romanello, immobile a terra, sembrava sorridere.

Sarebbe andato avanti a sorridere per l’eternità.

16

— Tutto andrà benissimo, LuAnn.

Roger Davis, il presentatore che aveva condotto l’estrazione della lotteria, le diede un paio di rassicuranti colpetti sulla mano.

— È più che naturale che lei si senta nervosa. Ma la prego, non si preoccupi. Ci sarò io accanto a lei.

LuAnn Tyler annuì lentamente. Anche visto a distanza così ravvicinata, Roger Davis continuava a essere giovane, alto e bello come una star di Hollywood, ma molto più cordiale, molto più galante.

— Renderemo la cosa quanto più rapida e indolore possibile. Ha la mia parola.

Erano in un confortevole salotto nel palazzo della Commissione Lotterie, non lontano dal vasto auditorium già nuovamente pieno di gente: stampa curiosa, troupe televisive e un’animata folla che reclamava l’arrivo dell’ultimo vincitore della lotteria.

LuAnn indossava un abito azzurro al ginocchio, scarpe in tinta con il tacco alto. Grazie alla sala trucco della commissione, la sua acconciatura e il suo make-up erano impeccabili. La ferita al mento si era rimarginata abbastanza da permettere a LuAnn di lasciare perdere il cerotto e di optare per la cosmesi.

— Bellissima — continuò Davis. — Non riesco a ricordare nessuna vincitrice altrettanto splendida. — Le sedette accanto, il suo ginocchio che sfiorava quello di lei. — Dico sul serio.

LuAnn gli rivolse un fugace sorriso, ristabilendo con discrezione le distanze, e si concentrò su Lisa.

— Non voglio che la mia bambina venga là fuori, con tutta quella gente e tutte quelle luci… Finisce che me la spaventano a morte.

— Nessun problema. Può rimanere qui. E naturalmente, con lei ci sarà sempre qualcuno. Come può immaginare, la sicurezza è per noi una questione fondamentale. — Davis indugiò sulle curve di lei, accentuate dal vestito azzurro. — Ma diremo lo stesso che ha una figlia. Proprio per questo la sua storia personale è così fantastica. Una giovane mamma, la sua bambina… e tutta questa incredibile ricchezza! Dev’essere tremendamente felice… — La mano di Davis scese sul ginocchio di LuAnn e ci rimase per qualche secondo di troppo.

LuAnn si chiese di nuovo se anche lui facesse parte della colossale frode organizzata da Jackson. Era proprio il tipo che per un manciata di soldi avrebbe fatto qualsiasi cosa. E Jackson l’avrebbe pagato molto bene per una cosa così grossa.

— Quanto manca? — chiese LuAnn.

— Una decina di minuti. — Davis le elargì un sorriso da manuale. — Oh, una cosa, LuAnn… Lei non è stata molto chiara in merito alla sua situazione coniugale. Cioè, suo marito…

— Non sono sposata — rispose lei prontamente.

— Ah, ecco. E… il padre della bambina sarà presente? Lo domando solo per motivi strettamente organizzativi.

LuAnn lo guardò dritto negli occhi. — No, non ci sarà.

Davis sorrise, come rinfrancato, e le si fece un po’ più vicino. Poco dopo, con un movimento apparentemente casuale, appoggiò un braccio sul bordo dello schienale della poltroncina su cui sedeva LuAnn e disse: — Non ho idea di quali siano i suoi progetti, LuAnn, ma in caso le servisse qualcuno che le faccia da guida in città, be’, io sono a sua completa disposizione. Ventiquattr’ore su ventiquattro. Immagino che dopo tutto il tempo che ha passato in provincia, ritrovarsi in un posto come New York… — Davis fece un ampio gesto teatrale — dev’essere un’esperienza quanto meno sorprendente. Io conosco questa città come le mie tasche. I migliori ristoranti, i migliori teatri, i migliori atelier. Mi prometta che ci farà un pensierino.

Ormai erano pressoché a contatto diretto, lui se la mangiava con gli occhi mentre le sue dita continuavano ad avanzare verso la spalla di lei.

— Mi dispiace, signor Davis. Mi sa che si è fatto un’idea sbagliata. Il papà di Lisa non viene alla conferenza stampa, però viene dopo. Gli dovevano dare la licenza.

— Che licenza?

— È in Marina. Fa parte di un reparto speciale di volontari. — LuAnn scosse il capo come per allontanare dei ricordi spiacevoli. — Lei non ha idea di quello che mi ha raccontato dei marines. Da far venire la pelle d’oca. Ma se c’è uno che sa badare a se stesso, questo è proprio il mio Frank. Pensi che una volta in un bar ha spaccato la faccia a sei buzzurri, dico sei, perché loro facevano gli scemi con me. E mi sa che li faceva anche fuori se non venivano i poliziotti a levarglieli da sotto le mani. E ce ne sono voluti cinque di poliziotti, tutti belli grossi.

— Buon Dio… — mormorò Davis con un tremito nel labbro inferiore, scostandosi sensibilmente da lei.

— Ma alla conferenza stampa non racconti niente di quello che le ho detto adesso, signor Davis. Perché quello che fa Frank è tutto top-secret. — LuAnn studiò le grinze di terrore che distorcevano la faccia d’angelo di Davis.

— Non una sola parola, LuAnn! — la rassicurò Roger Davis schizzando in piedi e passandosi una mano tremante tra i capelli pieni di gel. — Anzi, adesso è meglio che io verifichi come stiamo andando con il programma.

Appena Davis se ne fu andato, LuAnn prese Lisa e se la mise in grembo: — Tu non avrai bisogno di fare queste stupidate, tesoro. E presto neanche la mamma dovrà più farle.

Ninnò la sua bambina, tenendo lo sguardo fisso all’orologio sulla parete di fronte.


Charlie fu costretto ad aprirsi la strada tra la gente che riempiva l’auditorium a forza di spintoni e di gomitate. Riuscì a raggiungere una posizione dalla quale poteva avere una buona visione del palco e rimase in attesa.

Gli sarebbe piaciuto essere lassù con lei, giusto per esserle vicino, per darle appoggio. Nemmeno a parlarne. Doveva rimanere dietro le quinte. Sollevare sospetti non faceva parte dei suoi compiti professionali. Avrebbe visto LuAnn più tardi, alla fine della conferenza stampa. Sarebbe stato quello il momento in cui le avrebbe comunicato la sua decisione, se andare con lei oppure no. Il problema era che non aveva ancora nessuna decisione da comunicare. Fece per prendere una sigaretta, ma si bloccò con la mano affondata in tasca. In quel palazzo era vietato fumare. Per un attimo, considerò la possibilità di uscire per qualche minuto. Ma non c’era abbastanza tempo.

Charlie trasse un profondo respiro, e le sue larghe spalle da pugile si afflosciarono come una vela in bonaccia. Per la maggior parte della sua vita non era stato altro che un nomade. Una migrazione senza fine da un posto all’altro, senza nessuna strategia globale, senza nessun obiettivo preciso. I bambini gli piacevano, però non si era mai sentito pronto per averne. Aveva fatto soldi, questo sì. Anche tanti. E questo gli aveva consentito un certo lusso e un certo benessere. Ma la felicità vera era tutt’altra cosa. E adesso, passati i cinquant’anni di età, pensava che ciò che si era conquistato era il meglio che avrebbe mai avuto. Le strade imboccate nei suoi anni verdi avevano definito il percorso successivo. Fin lì. Fino a quel momento. Perché adesso LuAnn Tyler gli aveva offerto una via d’uscita. Non c’era assolutamente niente di erotico nella proposta. Su questo Charlie non si faceva la minima illusione. In realtà, per quanto attraente e sensuale lei fosse, nemmeno lui ci aveva pensato. Quella ragazzina poteva tranquillamente essere sua figlia. Ciò che voleva da lei erano la sua amicizia e la sua bontà d’animo, due cose che gli erano sempre mancate. Tornò bruscamente alla decisione che non aveva ancora preso. Andare con lei o no? Charlie sentiva che sarebbe stata un’esperienza incredibile. Per prima cosa avrebbe protetto LuAnn, e poi sarebbe stato una specie di figura paterna per Lisa. Almeno per i primi anni. Ma dopo? Che cosa sarebbe accaduto dopo?

LuAnn Tyler era giovane e bella, e adesso estremamente ricca. Nel tempo quella ricchezza avrebbe generato cultura, gusto e raffinatezza. LuAnn Tyler sarebbe divenuta preda di dozzine fra gli uomini più desiderabili del mondo. Dopo Lisa avrebbe di sicuro voluto altri figli, finendo con lo sposare uno di quegli uomini. Qualcuno che si sarebbe assunto tutte le responsabilità di fare da padre anche a Lisa, giustamente. Sarebbe stato l’uomo nella vita di LuAnn Tyler. E che fine avrebbe fatto Charlie? A un certo momento se ne sarebbe dovuto andare, sparire. Era inevitabile. Lui non faceva parte della famiglia. E quando quel momento fosse arrivato, sarebbe stato molto più doloroso di quando incassava cazzotti dai giovani stalloni del ring. Sebbene fosse stato sposato con sua moglie per dieci anni, dopo solo due giorni sentiva verso LuAnn e Lisa un legame molto più forte. E dopo tre, quattro anni insieme, come sarebbe diventato quel legame? Sarebbe riuscito a lasciare LuAnn e Lisa senza ritrovarsi con le ossa rotte e con il sistema nervoso a pezzi? Sarebbe stato veramente in grado di tornare a essere un nomade?

Charlie s’infilò a forza tra due operatori televisivi della CNN, scuotendo la testa tra sé. Era un duro, lui. Certo, come no. Soltanto quarantott’ore prima aveva incontrato questa ragazza-madre, una povera sempliciotta uscita da una sperduta contea del Sud, con una figlia illegittima, e già si ritrovava invischiato in un dilemma la cui soluzione poteva rivoltargli l’intera esistenza come un guanto.

Ma perché diavolo farsi tanti problemi? Possono scoppiarti le coronarie fra sei mesi. Andare, non andare… Che cazzo di differenza fa? Ma l’altra metà di sé, quella che aveva i dubbi, riusciva a spuntarla. Com’era possibile rimanere a fianco di LuAnn e di Lisa, vivere con loro, essere felice con loro… con la consapevolezza che tutto poteva svanire in un batter d’occhi?

— Merda — biascicò Charlie a denti stretti.

Ecco, invidia. Inutile girarci intorno: era pura e semplice invidia il motore di tutti i suoi dubbi. Se solo avesse avuto ancora vent’anni… Ma non li aveva più. Ed ecco l’invidia per l’uomo che alla fine sarebbe stato al fianco di LuAnn Tyler, l’uomo che avrebbe conquistato il suo cuore. Un amore in grado di resistere al tempo, ne era certo, perlomeno da parte di lei. E se lui l’avesse tradita, sarebbe stato il suo ultimo errore. Quella ragazzina era una vera tigre, anche se con un cuore d’oro. Forse era proprio questo a renderla così irresistibile.

Quando Charlie tornò a guardare verso il palco, il flusso dei suoi pensieri si interruppe di colpo. Intorno a lui, la folla si era tesa, simile a un fascio di fibre muscolari che s’irrigidiscono a formare un blocco compatto. Le telecamere si erano spostate sul palcoscenico, sull’alta figura vestita d’azzurro che avanzava nella luce dei riflettori.

LuAnn Tyler, calma e regale, andò a fermarsi di fronte a loro, a tutti loro. Charlie scosse il capo. — Dannazione! — mormorò a denti stretti. Quell’apparizione rendeva la sua decisione ancora più difficile.


Gesù, Giuseppe e Maria!…

Roy Waymer, sceriffo di Rikersville, sputò l’intera boccata di birra che stava mandando giù. Sua moglie era rimasta come paralizzata, con lo sguardo incollato al video.

— Ma pensa te, Roy. Tu la stai cercando per mare e per terra, ed eccola lì proprio a New York City. Quel diavolo di ragazza… E ha appena vinto tutti quei soldi!

Doris scosse il capo, piena di livore. In quel preciso momento, i frammenti di ventiquattro biglietti della Lotteria Nazionale si trovavano nel bidone dei rifiuti dietro casa.

Lo sceriffo Waymer sradicò la sua considerevole mole dalla poltrona reclinabile e caracollò verso il telefono.

— Avevo chiamato tutte le stazioni ferroviarie qui intorno. Avevo telefonato perfino all’aeroporto di Atlanta — protestò.

— Niente di niente. Non avevo emesso un ordine di ricerca su LuAnn perché mai avrei pensato che fosse capace di scappare fuori dalla contea, men che meno dallo Stato della Georgia. Non ha neanche la macchina. E poi si tira dietro la poppante e tutto il resto. Pensavo che sarebbe finita a casa di qualche sua amica. Come potevo immaginare che LuAnn Tyler stava andando a New York?

— Be’, di sicuro t’è scappata, o no? — Doris indicò LuAnn sullo schermo. — E di sicuro non ce ne sono mica tante di ragazze come lei.

— Cosa vorresti dire? — Roy era scocciato. — Non siamo mica l’Fbi, da queste parti. Con Freddie che s’è beccato il colpo della strega, mi restano solo due poliziotti per coprire tutta la contea. E la polizia di Stato ne ha fin sopra i capelli. — Tirò su il ricevitore. — Non mi avrebbero dato nessuno nemmeno se li pregavo in ginocchio.

— Ma tu cosa pensi? — domandò Doris guardandolo con una certa ansia. — Che LuAnn ha fatto fuori davvero Duane e quell’altro?

— LuAnn può spaccare la faccia a quasi tutti gli uomini che conosco — rispose Waymer scuotendo il capo mentre si portava il ricevitore all’orecchio. — Di certo ha spaccato la faccia a Duane. Ma quell’altro era un bel bestione, almeno centocinquanta chili. — Compose il numero. — Però poteva prenderlo da dietro e pestargli il telefono sul cranio. Comunque sappiamo per certo che ha fatto a cazzotti. Più d’uno l’ha vista con un cerotto sul mento.

— C’è dietro la droga — affermò Doris. — Poco ma sicuro. Ma ci pensi, quella povera bambina nella roulotte con tutta quella droga in giro…

— Lo so, lo so…

— Mi sa che dietro tutta la faccenda c’è LuAnn. Sappiamo che è una svelta di cervello, giusto? E poi abbiamo sempre saputo che non era fatta per stare quaggiù a Rikersville. Voleva andare via ma non aveva i soldi per andare da nessuna parte. Soldi della droga, ecco il suo sistema. Ricordati quello che ti dico, Roy.

— Solo che adesso i soldi della droga non le servono più — disse Waymer accennando alla televisione. — O no?

— E allora faresti meglio a darti una mossa, prima che quella furbina ti scappa via.

— Adesso sento la polizia di New York. La beccheranno loro.

— E tu pensi che lo faranno?

— Doris, sto parlando di qualcuno che è un possibile sospetto in un’indagine per duplice omicidio — disse Waymer con aria solenne. — Anche se LuAnn non ha fatto niente di male, è quella che si chiama un testimone chiave.

— Ah, sì? E tu credi che a quegli yankee lassù interessi qualcosa di noi del Sud?

— Ehi, Doris, Nord o Sud, la legge è legge.

Tutt’altro che convinta delle virtù dei colleghi del Nord, Doris Waymer tornò a fissare la televisione con aria speranzosa. — Ma tu cosa dici, Roy, che poi i soldi della lotteria LuAnn li deve ridare indietro?

Nessuna risposta. Doris osservò sullo schermo il volto sorridente di LuAnn e considerò l’idea di andare a frugare tra il pattume del bidone per cercare di rimettere insieme i biglietti che aveva strappato in mille pezzi.

— Cioè, che cosa se ne fa LuAnn di tutti quei soldi se è in galera? Roy, dico bene o no?

Di nuovo, nessuna risposta. Lo sceriffo Roy Waymer era troppo occupato a cercare di mettersi in contatto con New York.


LuAnn sorrideva alla folla ostentando l’assegno gigante, sventolandolo per il fuoco di sbarramento dei flash dei fotografi e delle telecamere. La sua immagine di leggendaria vincitrice volò prima ai quattro angoli d’America e poi fino agli estremi confini del mondo.

Le domande le arrivavano addosso a valanga.

Che cosa ha in mente di fare con tutti questi soldi, signorina Tyler? Ha idee, signorina Tyler? Progetti? Sogni?

— Certo che ho dei progetti. Dovete solo aspettare e vedere.

Poi quella domanda d’insuperabile stupidità: Ci dica, signorina Tyler, si sente fortunata?

— È incredibile: più di quanto ci si possa immaginare.

Come li spenderà, signorina Tyler, tutti in una volta o un po’ per volta?

La sua famiglia, signorina Tyler? Aiuterà la sua famiglia?

— Aiuterò le persone alle quali voglio bene.

Per tre volte le fu addirittura rivolta una proposta di matrimonio, e lei rispose ai tre pretendenti in modi diversi e con una certa dose di ironia.

Nell’udire quell’indecente sequela di domande, a Charlie andò rapidamente il sangue alla testa. Diede un’occhiata all’orologio e uscì dall’auditorium.

Dopo infinite altre domande e altre foto, e risate e congratulazioni e baci sulle guance, LuAnn venne finalmente scortata al riparo e poté fare ritorno nel salotto dove la sceneggiata aveva avuto inizio.

Si tolse il vestito azzurro e le scarpe con il tacco alto. Si ripulì dal trucco. Indossò un paio di pantaloni e una camicetta poco appariscenti. Fece sparire i suoi lunghi capelli in un cappello da cowboy e poté infine riprendere in braccio Lisa. Osservò l’orologio a parete. Venti minuti. Erano passati solamente venti minuti dal momento in cui era stata presentata al mondo intero come nuova vincitrice della lotteria. Le erano sembrati venti secoli. A Rikersville tutti seguivano religiosamente ogni estrazione della Lotteria Nazionale e la successiva conferenza stampa con il vincitore. Tutti, compreso lo sceriffo Roy Waymer. A quel punto LuAnn si aspettava che il suo autorevole concittadino avesse già contattato la polizia di New York. La testa di Roger Davis sbucò dalla porta.

— Signorina Tyler, la limousine l’aspetta all’uscita posteriore dell’edificio. Se è pronta, la faccio accompagnare.

— Prontissima. — Quando lui fece per andarsene, lei lo richiamò. — Se qualcuno chiede di me, io sono al mio albergo.

Lui le rivolse un’occhiata fredda. — Aspetta qualcuno?

— Frank, il papà della mia bambina.

— E qual è il suo albergo?

— Il Plaza.

— Naturalmente.

— Però, per piacere, non dica a nessun altro dove sono. È da un po’ che non vedo Frank. È andato in missione quasi tre mesi fa e non vogliamo essere disturbati. — LuAnn gli rivolse un sorriso sensuale. — Mi capisce, no?

— La sua macchina la sta aspettando, signorina Tyler. — Anche Roger Davis sorrise, ma in tutt’altra maniera.

Adesso LuAnn era sicura che quando la polizia fosse arrivata, sarebbe stata immediatamente indirizzata al Plaza. E questo le avrebbe fatto guadagnare tempo, tanto tempo prezioso.

Per andarsene molto ma molto lontano da New York.

La sua nuova vita stava per cominciare.

17

L’uscita posteriore del palazzo della Commissione Lotterie era molto appartata e di conseguenza tranquilla. La limousine nera stretch pareva uno squalo di metallo.

L’autista in divisa si portò cortesemente la mano alla visiera del berretto e le tenne aperta la portiera posteriore. LuAnn penetrò nell’abitacolo avvolto nell’oscurità e sistemò Lisa sul morbido cuoio del sedile accanto al suo.

— Ottimo lavoro, LuAnn.

La portiera si richiuse di schianto alle sue spalle, bloccando l’unica via d’uscita. LuAnn rimase inchiodata contro lo schienale, scrutando nel buio intorno.

Improvvisamente una luce interna si accese sopra di lei, abbagliandola. Si sentì come se fosse di nuovo sul palco dell’auditorium. Riusciva appena a scorgere di fronte a sé una sagoma, che riprendeva a parlare con la voce di Jackson.

— Lei si è lanciata in un’esibizione di tutto rispetto. Composta quanto basta, dignitosa al necessario, spiritosa al momento giusto. Non solo: la sua splendida presenza fisica è stata il diamante nel diadema.

La macchina si mise in movimento. LuAnn strinse le palpebre nel fascio di luce, cercando vanamente di mettere a fuoco la figura che aveva di fronte.

— Quei giornalisti se la sono bevuta come nettare. E poi, addirittura tre proposte di matrimonio nel corso di una conferenza stampa sono un autentico record.

LuAnn si rilassò appoggiandosi allo schienale e mormorò: — Grazie.

Con tono quasi paterno, Jackson continuò: — In tutta franchezza, LuAnn, devo confessarle che mi ero convinto che lei, su quel palcoscenico, avrebbe commesso qualche follia. Ma, come accennavo prima, lei è intelligente. Perché chiunque, indipendentemente dal proprio livello culturale, una volta calato in un contesto così particolare avrebbe quasi sicuramente finito con il commettere qualcosa di inopportuno. Lei no…

— Be’, ho un po’ di esperienza.

— Prego? — fece Jackson sporgendosi pur restando sempre nell’ombra. — Esperienza di cosa?

Seguitando a scandagliare inutilmente il buio, LuAnn rispose: — Di situazioni strane.

— Sa, LuAnn, talvolta lei riesce proprio a sorprendermi. In alcuni limitati frangenti la sua perspicacia adombra la mia, e non lo dico alla leggera.

Jackson rimase a osservarla per un po’, infine si decise ad aprire una valigetta sul sedile accanto al suo e ne estrasse alcuni documenti.

— A questo punto, LuAnn — riprese lasciandosi sfuggire un sospiro quasi annoiato — è arrivato il momento di parlare delle condizioni.

— Prima dobbiamo parlare di un’altra cosa — intervenne LuAnn interrompendolo.

— Davvero? E di cosa si tratterebbe?

LuAnn accavallò le gambe e respirò a fondo. Era stata sveglia pressoché tutta la notte alla ricerca del modo giusto per dirgli di Arcobaleno. Forse non c’era alcun bisogno che Jackson sapesse. Ma Arcobaleno voleva una parte della sua vincita. Prima o poi Jackson l’avrebbe comunque saputo. Tanto valeva che fosse lei stessa a dirglielo.

— È venuto uno a parlarmi, ieri.

— Di che cosa?

— Voleva dei soldi.

Jackson scoppiò a ridere. — Mia cara, LuAnn, l’universo intero vorrà dei soldi da lei.

— No, non in questo modo. Quest’uomo voleva metà della vincita.

— Scusi? Ma è assurdo!

— No, il fatto è… — LuAnn esitò — è che lui ha delle informazioni su di me, certe cose che mi sono successe, e che lui andrà in giro a raccontare se non gli darò i soldi che chiede.

— Santo cielo, e quali sarebbero queste certe cose?

Lei guardò fuori dal finestrino affumicato: — C’è qualcosa da bere?

Una mano guantata di nero sbucò dal buio e accennò al frigobar incassato nella fiancata della limousine. — Si serva pure.

LuAnn evitò di guardare verso Jackson nell’aprire lo sportello e prese una lattina di Coca-Cola. Bevve una lunga sorsata, si passò la lingua sulle labbra e fece lo sforzo di andare avanti.

— Mi è successo qualcosa proprio prima di chiamarla per dirle che accettavo la sua proposta. Qualcosa di brutto.

— Riguarda forse quei due cadaveri nella sua roulotte? Oppure la droga che vi si trovava? Il fatto che la polizia la sta cercando?…

LuAnn, con le dita contratte ad artiglio intorno alla lattina e lo sbigottimento dipinto in volto, scrutò verso la sagoma impenetrabile che le stava di fronte.

— O forse, LuAnn, si tratta addirittura di qualcos’altro che lei si è ben guardata dal dirmi?

— Io non c’entro per niente con quella storia della droga! E quell’altro uomo stava cercando di uccidermi… Io mi sono soltanto difesa!

— Avrei dovuto rendermi conto, quando lei ha lasciato così precipitosamente Rikersville e poi ha così fortemente insistito per cambiare nome, che ci doveva essere qualcosa di storto. — Jackson scosse il capo con aria triste. — Mia povera, piccola LuAnn. Anch’io me la sarei data a gambe levate, in quelle medesime circostanze. E chi mai avrebbe sospettato una cosa del genere da parte del nostro Duane Harvey? Droga! Mio Dio… Tuttavia le dico, in tutta sincerità, che ci passerò sopra. Ciò che è stato è stato. Comunque — e il tono della sua voce si fece chiaramente minaccioso — non tenti mai più di celarmi qualcosa. Non commetta questo errore una seconda volta, signorina Tyler.

— Ma quell’uomo…

— Quale uomo, signorina Tyler? — disse Jackson con impazienza. — Sta parlando di quello che mai più le chiederà dei soldi?

— Come mai più?… — LuAnn fissò nel buio, deglutendo a vuoto. — Ma come ha fatto?

— Che domanda sciocca e inutile continua a farsi la gente al mio riguardo: Come ha fatto? — Jackson pareva divertito. — Io posso fare qualsiasi cosa, LuAnn, non l’ha ancora capito? Qualsiasi cosa. Questo forse la spaventa? Dovrebbe, perché a volte spaventa perfino me stesso.

— Quell’uomo diceva che era stato incaricato di uccidermi!…

— Davvero?

— Ma poi lo hanno fermato.

— Oh, che bizzarria.

— In pratica lo hanno fermato appena dopo che io l’ho chiamata per dire che ci stavo.

— Quale imprevedibile, affascinante vortice di coincidenze — commentò Jackson, decisamente divertito.

Ora i lineamenti di LuAnn si indurirono in un’espressione di ferocia. — Quando qualcuno mi morde, allora io mordo più forte. Solo in questo modo noi due ci possiamo capire, signor Jackson.

— Io e lei, signorina Tyler, ci siamo già perfettamente capiti. — Nel buio ci fu un fruscio di carte. — Comunque, adesso è tutto più complicato. Quando lei mi disse di voler cambiare nome, pensavo che avremmo ancora potuto procedere agendo alla luce del sole.

— Cosa vuole dire?

— Tasse, LuAnn. Quelle che il governo federale degli Stati Uniti esige sui cento milioni di dollari che le ha elargito.

— Ma io credevo di potermi tenere tutti i soldi. Che il governo non poteva toccarmeli. Non è questo che dice la pubblicità della lotteria?

— Non è del tutto vero. Infatti la pubblicità della lotteria è molto fuorviante. Ed è curioso che il governo possa farlo, non trova? Il concetto di fondo non è esenzione dalle tasse, bensì differimento delle tasse. E solamente per il primo anno.

— E che diavolo significa?

— Significa che, per il primo anno, il vincitore non paga né tasse federali né tasse statali. Ma tale pagamento è semplicemente spostato all’anno successivo. Le tasse vanno comunque pagate, così dice la legge. È chiaro che non ci sono né multe per ritardato pagamento né richieste per interessi passivi. Questo, però, a patto che il pagamento venga effettuato secondo le scadenze stabilite nel corso del successivo anno fiscale. La legge dice che le tasse vanno pagate in uguale ammontare per un periodo di dieci anni. Su cento milioni di dollari, giusto per dire una cifra a caso, tra tasse federali e statali lei dovrà pagare cumulativamente circa cinquanta milioni di dollari, ovvero, come le ho già precisato, cinque milioni all’anno per dieci anni. Lei ora si trova nella fascia di massimo reddito fiscale. Inoltre, qualsiasi profitto ricaverà da interessi e investimenti è tassabile appieno, senza proroga alcuna.

LuAnn stava fissando a bocca semiaperta la sagoma che parlava nell’ombra.

— Ed è su questi investimenti successivi, LuAnn, che io ho dei progetti. Grandi progetti. Negli anni a venire, la sua ricchezza continuerà a crescere. Al tempo stesso, nelle varie forme di rendita da buoni del tesoro, azioni, obbligazioni e proprietà immobiliari, sarà una ricchezza sulla quale andranno pagate le tasse. In condizioni normali, questo non costituirebbe un problema. I cittadini ossequenti alle leggi non hanno bisogno di nomi fittizi e non sono ricercati dalla polizia. Possono quindi presentare regolari denunce dei redditi, fare felice e contento il Dipartimento del Tesoro pagando quanto va pagato e infine vivere felici e contenti a loro volta. Ma lei, LuAnn, non è assolutamente in condizione di fare una cosa del genere. Un’ipotetica denuncia dei redditi a nome LuAnn Tyler, comprensiva di indirizzo e informazioni personali, sarebbe l’equivalente di un biglietto di sola andata per un carcere federale.

— Embé? Non posso pagare le tasse con il mio nuovo nome?

— LuAnn, lei ha vent’anni, non ritiene che l’Amministrazione delle Imposte Federali degli Stati Uniti sarebbe un minimo curiosa nei confronti di un cittadino poco più che adolescente il quale inoltri la sua prima denuncia dei redditi con una cifra dell’ordine di milioni di dollari? Non ritiene che vorrebbero scoprire quale manna dal cielo lei ha ricevuto per essere diventata più ricca di Rockefeller? Prima o poi, l’Fbi verrebbe a farle una visita. No, non è possibile.

— E allora cosa facciamo?

— Molto semplice: lei farà tutto quello che io le dirò di fare.

Jackson aveva parlato senza minimamente alzare la voce. Eppure LuAnn non resistette all’impulso di stringere Lisa a sé.

— Lei salirà su un aereo che la porterà molto lontano dal territorio degli Stati Uniti. Ci salirà stanotte. Dopo il piccolo pasticcio che si è lasciata dietro in Georgia, sul territorio degli Stati Uniti lei non rimetterà mai più piede. La sua sarà un’esistenza suscettibile di continui spostamenti. Per sempre, temo.

— Ma…

— Non c’è nessun ma, LuAnn, questa è l’unica possibilità. Mi ha capito?

— Io adesso i soldi li ho — disse LuAnn appoggiandosi allo schienale con aria battagliera — e non mi piace la gente che mi dice quello che devo fare.

— È così? — La mano di Jackson impugnò la pistola che aveva appena tolto dalla sua valigetta. Con il favore dell’oscurità si sarebbe potuto sbarazzare in un istante di entrambe, madre e figlia. — Bene, allora perché non tentare l’espatrio ricorrendo alle sue sole forze, signorina Tyler? Vuole provarci?

— Posso badare a me stessa.

— Non è questo il punto. Lei ha fatto un accordo con me. Io e lei siamo legati da un contratto che io mi aspetto lei onori. A meno che lei non sia pazza, le conviene lavorare con me, non contro di me. Vedrà che alla lunga i nostri interessi finiranno col coincidere. Altrimenti, posso far fermare la macchina proprio qui, sbattere giù lei e sua figlia e telefonare alla polizia di venirvi a raccogliere. Dipende da lei. Si decida. Subito!

Atterrita da quell’eventualità, LuAnn si guardò disperatamente attorno. Il suo sguardo si posò infine su Lisa. La piccola la stava a sua volta guardando con occhi grandi e teneri, pieni di fiducia. Lu Ann sbuffò sonoramente. Che scelta aveva, di fatto?

— Va bene.

Ci fu di nuovo un frusciare di carte. — Dunque, LuAnn, abbiamo il tempo appena sufficiente per esaminare questi documenti. Alcuni li dovrà firmare, ma prima di procedere alla firma, mi consenta di illustrarle i termini principali del meccanismo finanziario per il futuro. Cercherò di essere il più chiaro possibile.

“Lei ha appena vinto oltre cento milioni di dollari. In questo momento il denaro sta per essere trasferito in uno speciale conto fiduciario aperto a suo nome dalla Commissione Lotterie. Indulgendo nella sua richiesta, ho ottenuto per lei una tessera della Sicurezza Sociale con la sua nuova identità. Le quotidianità sono molto più semplici quando si ha un numero della Sicurezza Sociale. Nel momento in cui lei firmerà questi documenti, i miei uomini saranno in grado di trasferire fondi da quel particolare conto fiduciario a un conto diverso. Del quale io mantengo il completo e assoluto controllo.”

— Ma i soldi, a me, quando li danno?

— Pazienza, LuAnn. Tutto le sarà spiegato. Il denaro verrà investito nei tempi e nei modi che io riterrò più opportuni. Al tempo stesso, dai predetti investimenti, lei otterrà un ritorno annuo garantito pari almeno al venticinque per cento, il che equivale a venticinque milioni di dollari. All’anno. Somma della quale lei avrà una disponibilità ripartita sull’arco dei dodici mesi. Contabili e consiglieri finanziari, parimenti sotto il mio controllo, si occuperanno per lei dell’amministrazione della somma stessa. Non si preoccupi.

A quel punto Jackson alzò un dito ammonitore.

— È essenziale che lei afferri con la massima chiarezza un punto chiave: sto parlando solamente di profitti generati dal capitale iniziale, non del capitale stesso. I cento milioni di dollari della vincita non verranno mai intaccati. Io controllerò quel capitale per un periodo di dieci anni e lo investirò dove e come lo riterrò più opportuno. Ci vorrà tempo perché i miei programmi d’investimento siano completamente operativi, svariati mesi, forse addirittura un anno. Ciò implica che l’arco finanziario di dieci anni di cui le parlo avrà inizio approssimativamente nell’autunno di quest’anno. Le comunicherò la data esatta in seguito. A partire da quella data, dieci anni più tardi, le saranno erogati tutti i cento milioni di dollari. Ogni profitto che lei avrà accumulato nel frattempo a seguito di investimenti personali sarà comunque suo completo appannaggio. Mi occuperò io di fare investire i cento milioni di dollari del capitale iniziale in modo più che proficuo, senza che lei debba rifondermi parcelle o interessi. Dubito molto, LuAnn, che lei sia in grado di afferrare la complessità di un calcolo degli interessi composti. Sappia però che il suo denaro, anche considerando le spese di un generoso tenore di vita, raddoppierà ogni tre anni circa. In altre parole, alla fine dei dieci anni, secondo una proiezione cauta e ragionevole, il valore della sua ricchezza personale potrebbe arrivare a centinaia di milioni di dollari. A rischio zero.

LuAnn deglutì a vuoto nel sentir parlare di somme di quell’entità.

— Impressionante, non trova, LuAnn? Quale abissale differenza dalla paga oraria minima nella sua tavola calda per camionisti! Ben altra cosa che un centinaio di dollari al giorno, non è vero? Pensi a quanta strada ha fatto in meno di una settimana… — Jackson le rise in faccia. — Le anticiperò la somma di cinque milioni di dollari, sempre a interesse zero, giusto per coprire le piccole spese fino al momento in cui non cominceranno ad apparire i profitti degli investimenti iniziali.

— Ma io non ne so niente d’investimenti. Come fa a garantirmi così tanti soldi all’anno?

Jackson parve contrariato da quella domanda. — Nello stesso modo in cui sono stato in grado di garantirle che lei avrebbe vinto la Lotteria Nazionale. Se io ho potuto fare quella magia, posso anche manovrare Wall Street.

LuAnn rimase a fissare la sagoma nelle tenebre, mentre lo squalo d’acciaio nero continuava a scivolare attraverso altre tenebre.

— E se mi succede qualcosa?

— Uno dei documenti che lei firmerà indica chi saranno i suoi eredi. — Jackson fece un cenno in direzione di Lisa. — Sua figlia. Tutto quanto andrà a lei, sia gli investimenti parziali sia il capitale iniziale, alla fine del periodo di dieci anni. C’è anche un modulo per la concessione di una procura legale. Mi sono preso la libertà di riempire gli spazi riservati al notaio. Sono un uomo di svariati talenti. — Dall’oscurità Jackson le tese un fascio di documenti e una penna. — È chiaramente indicato dove lei deve firmare. Ritengo che sia soddisfatta delle condizioni, LuAnn. Le avevo detto fin dall’inizio che sarebbero state alquanto generose. Non è così?

LuAnn esitò un istante.

— Qualche problema, signorina Tyler?

— No.

LuAnn firmò tutto quello che c’era da firmare e restituì i documenti.

Jackson li prese e aprì un compartimento nella parete divisoria della limousine. Vi fu un rapido battere di tasti, alcuni beep elettronici e un frusciare di carta.

— Che prodigioso ritrovato è il fax — disse Jackson. — Specialmente quando il tempo è un fattore essenziale. Entro dieci minuti il capitale verrà trasferito su uno dei miei conti.

Prelevò i fogli nel momento in cui venivano espulsi dal fax e li rimise nella valigetta.

— I suoi bagagli sono già nel baule di quest’auto — riprese Jackson con tono affabile. — Con me ho anche i biglietti aerei e le prenotazioni negli alberghi. Ho interamente pianificato il suo intinerario per i primi dodici mesi. Lei viaggerà molto. Confido però che la varietà degli scenari, e l’alta classe dell’ospitalità, la compenseranno ampiamente del disagio degli spostamenti. Consideri il tutto come una lunga, lunghissima vacanza. Ho onorato la sua richiesta di cominciare dalla Svezia, terra dei suoi antenati materni. Quindi farà tappa nel Principato di Monaco, felice paese nel quale non esistono imposte dirette. In ogni caso, per coprire tutte le evenienze, ho messo insieme, e dettagliatamente documentato, la sua storia personale. In breve, lei ha lasciato gli Stati Uniti in tenera età, finendo con lo sposare un facoltoso imprenditore europeo. Per quanto riguarda il fisco, tutto il denaro appartiene a questo fantomatico signore. Mi segue, LuAnn? I fondi verranno tenuti esclusivamente in conti su banche estere e conti offshore. Questo perché le banche americane devono sottostare alla rigida normativa tributaria. Mai, in nessun momento e per nessuna ragione, anche solo una piccola parte del suo denaro verrà depositato in un’istituzione bancaria americana. Al tempo stesso, non dimentichi che lei viaggerà con un passaporto americano, e resterà una cittadina americana. È possibile che un’aliquota dei suoi profitti finisca per rientrare comunque negli Stati Uniti. Eventualità alla quale lei deve essere preparata. In ogni caso, il denaro appartiene a suo marito, il quale non è un cittadino degli Stati Uniti né ha residenza permanente negli Stati Uniti. E il quale soprattutto non ricava profitti o interessi generati da investimenti negli Stati Uniti. In sintesi, LuAnn, il fisco americano non può toccarla. Non sprecherò il mio tempo a tentare di illustrarle le complessità concernenti le fonti di profitto nella legislazione finanziaria di questo paese. Fonti di profitto quali obbligazioni, dividendi pagati da società, interessi di proprietà immobiliari eccetera eccetera. Il mio sistema si occuperà di tutto. Lei non avrà alcuna preoccupazione.

— Dove sono i biglietti dell’aereo?

— A suo tempo, LuAnn. A suo tempo. Abbiamo ancora alcune cautele da prendere… La polizia.

— Ci ho già pensato io, alla polizia.

— Davvero? — Jackson parve di nuovo divertito. — Be’, sarei alquanto sorpreso se la polizia di New York non stesse già sorvegliando porti, aeroporti, stazioni ferroviarie e degli autobus. Dal momento che lei è una criminale in fuga che ha varcato i confini di svariati Stati, probabilmente anche l’Fbi starà scendendo in campo. E quella è gente piuttosto in gamba. Non si limiterà ad aspettarla nell’atrio del suo albergo bevendo scotch e sfogliando riviste di moda. — Jackson scrutò oltre il cristallo affumicato. — È essenziale adottare certi ulteriori accorgimenti. Accorgimenti che daranno alle autorità più tempo per stringere il cerchio, ma è un baratto che siamo costretti a fare.

La limousine rallentò fino a fermarsi. Dall’esterno, venne un suono metallico, come di spessi portali che si aprivano. Quando il rumore cessò, la macchina avanzò un poco e si fermò nuovamente.

Il telefono cellulare di bordo trillò e Jackson prese il ricevitore. Ascoltò per qualche secondo, poi riappese.

— La conferma che i cento milioni di dollari mi sono stati accreditati.

— Ma adesso le banche non sono chiuse?

— Le mie banche non chiudono mai, LuAnn. — Jackson diede un paio di colpetti sul sedile accanto al suo. — E ora si accomodi qui vicino a me. Prima chiuda gli occhi, poi mi dia la mano e si lasci guidare.

— Perché devo chiudere gli occhi?

— Mi accontenti, LuAnn. Non so resistere al fascino discreto di un pizzico di melodramma! E comunque le assicuro che quanto sto per fare sarà fondamentale per consentirle di sfuggire alla rete della polizia e cominciare una nuova vita.

Per un momento LuAnn pensò di opporsi, quindi acconsentì. Prese la mano guantata di lui, chiuse gli occhi e andò a sedersi al suo fianco.

All’improvviso sentì scendere sul suo volto il calore di una luce. Poi udì gli scatti ritmici delle forbici che cominciavano a tagliarle i capelli ed ebbe un sussulto istintivo. L’alito caldo di Jackson le investì l’orecchio mentre diceva: — Le suggerisco di controllarsi, LuAnn. In questo spazio ridotto e con questo equipaggiamento ancora più ridotto è già di per sé difficile compiere questa operazione, e non vorrei procurarle alcun danno.

Jackson continuò a tagliarle i capelli, preciso e sistematico, finché la lunghezza non fu a livello delle orecchie. Quindi le passò tra i capelli una sostanza umida, che si indurì assumendo una consistenza quasi simile a quella del cemento.

Si servì di una spazzola per sistemare le ciocche sfuggite al primo passaggio. Dopodiché applicò alla console della limousine uno specchio portatile, dotato di lampada a bassa intensità di calore. In circostanze normali, il lavoro di alterazione al naso che stava per eseguire avrebbe richiesto due specchi e costanti verifiche del profilo. Ma in una macchina sprofondata in un garage sotterraneo di Manhattan, non poteva permettersi quel lusso. Aprì la propria valigetta dei trucchi, con cosmetici e polverine magiche, ordini di vassoi zeppi di creme, tinture, pennelli e spatole.

LuAnn percepì sul proprio volto il tocco rapido delle dita di lui. Le vere sopracciglia vennero coperte con plastica Kryolan fissata da colla a presa rapida, e camuffate con make-up in crema e in polvere. Al loro posto, apparvero nuove sopracciglia, di forma completamente diversa. Quindi le preparò la parte inferiore del viso passandola interamente con del cotone imbevuto d’alcol. Al naso, Jackson applicò uno strato di collante e nell’attesa che questo asciugasse, si passò della vaselina sulle dita in modo da evitare che sì attaccassero con le operazioni successive. Lasciò che la gelatina cosmetica si riscaldasse nel pugno, e procedette ad applicarla al setto nasale di LuAnn, modellandola e deformandola finché non ebbe raggiunto la forma voluta.

— Il suo naso naturale è lungo e diritto, LuAnn. Un naso che non esito a definire classico. Un po’ troppo classico. Un minimo di colla qui, un po’ più di gelatina là, ed ecco fatto: questa specie di brutta protuberanza va molto meglio. Non si preoccupi, è solo temporaneo. E in fondo, che cosa non lo è?

Jackson fece una risatina e continuò a darsi da fare con il nuovo naso di LuAnn. Applicò fondotinta e rosso alle narici in modo da dare loro un aspetto naturale. Poi passò agli occhi. Con l’ombretto, li fece apparire più ravvicinati fra loro. Usò altra crema e altra polvere per modificare la linea decisa della mandibola. Altro fondotinta per smorzare la prominenza degli zigomi. LuAnn sentì le sue dita che seguivano la ferita al mento.

— Ma che brutto taglio. Un souvenir del suo incontro ravvicinato nella roulotte, forse?

LuAnn non rispose.

— Ci vorrebbero dei punti. E anche in quel caso, rimarrà una cicatrice. Ma non si preoccupi. Una volta che avrò finito, sarà invisibile. In futuro, però, consideri l’opportunità di un intervento di chirurgia plastica. Opinione professionale, è chiaro.

Venne il turno delle labbra.

— Ben disegnate ma sottili, LuAnn. Un po’ di infiltrazioni di collagene non guasterebbero.

LuAnn dovette compiere uno sforzo per non strapparsi da lui e scappare urlando. Non aveva idea di quale sarebbe stato il suo aspetto una volta che Jackson avesse completato l’opera. Forse era meglio non saperlo.

— Mettiamo anche un po’ di lentiggini sulla fronte, alla base del naso e qui sulle guance. Se volessimo lavorare rigorosamente, gliele applicherei anche sul dorso delle sue mani. Ma non lo farò. La maggior parte delle persone non fa caso a simili dettagli.

Le dita di lui le aprirono il colletto della camicetta, esponendo la gola. Jackson ricoprì anch’essa con altro fondotinta, scendendo fin quasi all’incavo tra i seni. Infine le riabbottonò la camicetta e guidò LuAnn a sistemarsi nuovamente sul sedile opposto.

— Non vuole darsi un’occhiata allo specchio? Ne può trovare uno nel compartimento al suo fianco.

LuAnn prese lentamente il piccolo specchio e lo resse di fronte al proprio viso. Respirò a fondo, quindi guardò… E adesso veramente avrebbe voluto urlare. C’era una sconosciuta nello specchio. Una donna dai corti capelli rossi, dalla carnagione tanto bianca da apparire cadaverica, dalle troppe lentiggini. Una donna con occhi piccoli e ravvicinati, con un naso largo deviato a destra, con il mento sfuggente e con labbra eccessive, vagamente negroidi. Una donna che LuAnn non aveva mai visto, che non aveva mai neppure ipotizzato potesse esistere.

— Che lavoro formidabile, non è d’accordo anche lei? — Jackson le gettò qualcosa in grembo.

Un passaporto. LuAnn lo aprì e studiò la foto. Era la faccia della sconosciuta nello specchio.

Quando alzò lo sguardo, Jackson fece scattare un interruttore e una luce lo illuminò.

LuAnn ebbe uno shock. C’era una seconda sconosciuta, identica alla prima, a fissarla dal lato opposto dell’abitacolo. Stessi capelli rossi, stessi lineamenti, stessa carnagione livida. Era come se avesse appena scoperto una gemella! L’unica differenza era che LuAnn indossava jeans e la gemella aveva un vestito.

— Gli applausi sono superflui — disse lentamente l’uomo, la donna, che si faceva chiamare Jackson. — Tuttavia, considerando le condizioni di lavoro disagevoli, ritengo che il mio lavoro su di lei meriti un certo riconoscimento.

LuAnn poté solo continuare a fissarlo a bocca semiaperta.

— Ho già impersonato delle donne, ma questa è la prima volta che impersono qualcuno che a sua volta impersona qualcun altro. La foto sul suo secondo passaporto falso è mia, scattata questa mattina. Solamente la misura del petto è un po’ diversa. In ogni caso, neppure i gemelli sono perfettamente identici. O no?

LuAnn chiuse gli occhi e li riaprì, tentando di accettare l’inaccettabile.

Jackson batté due brevi colpi sul cristallo divisorio tra il vano passeggeri e il sedile di guida e la limousine si rimise in movimento. Uscirono dal garage e in poco più di mezz’ora erano all’aeroporto John Fitzgerald Kennedy.

L’autista smontò per primo e si preparò ad aprire la portiera.

— Non indossi né cappello né occhiali scuri — intimò Jackson prima di scendere. — Potrebbero rovinare il trucco. Regola numero uno: quando si tenta di nascondersi, la migliore cosa da fare è esporsi al massimo. La vista di due gemelle in età adulta è una cosa piuttosto rara. La gente ci guarderà, anche la polizia ci guarderà. Ma nessuno sospetterà. Cercano una donna sola. Non due gemelle con una bambina in fasce. Verremo automaticamente escluse dalla lista dei sospetti. Atto del tutto coerente con la natura umana. Specialmente quando ci si trova sotto pressione.

Jackson allungò un braccio per prendere Lisa, ma LuAnn di scatto gli intercettò il polso.

— LuAnn, io sto solo facendo del mio meglio per mandare lei e la sua bambina molto lontano da questo paese. Tra breve, ci troveremo a superare cordoni di polizia e di agenti dell’Fbi. E tutti con un unico, preciso ordine: arrestare LuAnn Tyler. Mi creda, io non ho alcun interesse a tenere sua figlia, ma in questo momento ne ho bisogno per una ragione ben precisa.

LuAnn lo lasciò fare. Jackson prese Lisa tra le braccia e scesero dalla limousine. Con i tacchi, Jackson era un poco più alto di lei. LuAnn ne notò la figura alta e slanciata, addirittura sensuale nell’elegante vestito scuro da donna. Un lungo soprabito nero completava il suo abbigliamento.

— Muoviamoci — le disse voltandosi appena.

Lei ebbe un sussulto.

Jackson aveva parlato con la voce di LuAnn.


— Dov’è Charlie? — chiese LuAnn qualche minuto dopo, mentre entravano nel terminal.

— Che differenza fa? — Jackson si muoveva con disinvoltura sui tacchi alti, precedendo un corpulento facchino che spingeva il carrello con i bagagli.

— Così, mi chiedevo — rispose LuAnn scrollando le spalle. — È stato con me fino adesso. Pensavo di vederlo qui.

— Il compito di Charlie è concluso.

— Oh.

— Non se ne abbia a male, in questo momento lei si trova in mani molto migliori.

Lo sguardo di Jackson si focalizzò sui quattro agenti di polizia in divisa che scrutavano tutti i passeggeri in ingresso.

— Ora si comporti in modo naturale, LuAnn. Naturale e rilassato. Siamo sorelle gemelle. Semplice, no? Ho anche tutti i documenti necessari per confermarlo, in caso venissimo fermate. Cosa che comunque non accadrà. Lasci parlare me.

Superarono il cordone dei poliziotti, seguite dai loro sguardi intensi. Uno di loro sbirciò le lunghe gambe di Jackson tra le falde del soprabito. Lui parve decisamente compiaciuto per l’attenzione ricevuta. Un attimo dopo, come Jackson aveva previsto, i quattro poliziotti si disinteressarono di loro, tornando a scandagliare la folla con i loro sguardi.

— Penso io al biglietto — disse Jackson puntando alle postazioni del check-in. — Lei vada ad aspettarmi al bar.

— Perché non posso fare da me?

— Quante volte ha già proceduto al check-in di un volo internazionale?

— Be’, volare non ho mai volato.

— Appunto. Io posso espletare l’operazione molto più velocemente di lei. Intanto vada al bar. Si faccia un cappuccino e cerchi di non attirare l’attenzione con qualche iniziativa inopportuna. Il personale delle compagnie aeree non sarà composto da campioni di efficienza, ma non sono neppure degli idioti. Sarebbe sorpresa da quanti dettagli possono notare.

— D’accordo. Non voglio mica mandare a monte tutto.

— Benissimo. Ora mi dia il passaporto, quello che le ho appena dato io.

LuAnn glielo porse e osservò Jackson che cambiava di mano il seggiolino portatile di Lisa e si dirigeva al check-in, con il facchino sempre dietro. Aveva addirittura assunto la mimica di LuAnn. Restò a guardarlo ancora un attimo, poi andò al bar.

Nel giro di pochi minuti Jackson l’aveva già raggiunta, con la carta d’imbarco. La fila della prima classe era sempre corta, e l’intera operazione era stata molto veloce.

— Per ora nessun problema, LuAnn. Ora, per i primi mesi non si dia troppo da fare a cambiare aspetto. La tintura con il tempo svanirà e i capelli le ricresceranno in fretta. A quel punto potrà cominciare a usare il passaporto che originariamente avevo preparato per lei.

— Ecco — riprese LuAnn. — Per tornare…

Ma Jackson la interruppe con un gesto secco. Con la coda dell’occhio aveva notato un terzetto, due uomini e una donna, in abiti civili. Nessuno aveva bagaglio. Tutti e tre si guardavano intorno con aria vigile. LuAnn vide che uno di loro aveva in mano un foglio. Con sopra una fotografia. Con la sua faccia, quella vera. Era una delle foto scattate alla conferenza stampa. Si sentì gelare, finché non avvertì la mano di Jackson scivolare fra le sue.

— Sono agenti dell’Fbi, ma si ricordi che stanno cercando un’altra donna. Non la donna che lei è ora, la donna in cui io l’ho trasformata.

La mano si ritrasse.

— Il suo volo decolla tra venti minuti. Mi segua.

Superarono i controlli, raggiunsero il cancello d’imbarco e si accomodarono nella sala d’attesa.

— Tenga.

Jackson le porse un pacchetto avvolto in carta anonima.

— Contante, carte di credito e patente internazionale di guida, tutto con il suo nuovo nome. La patente riporta le sue attuali sembianze.

Le dita di lui giocherellarono per un attimo con i capelli di LuAnn e scivolarono sui lineamenti finti di lei mentre l’imitazione di un sorriso appariva sul suo volto. — Be’, buona fortuna — le augurò. — Qualora si trovasse in difficoltà, qui c’è un numero di telefono al quale potrà trovarmi, giorno e notte, in qualsiasi punto del mondo mi trovi. Ma a meno che non sia una seria difficoltà, lei e io non c’incontreremo e non ci parleremo mai più.

LuAnn si ritrovò in mano un bigliettino con un numero.

— Non c’è qualcosa che vuole dirmi, LuAnn? — chiese Jackson con un sorriso affabile.

Lei lo guardò con curiosità. — Tipo cosa?

— Per esempio… grazie? — disse lui senza più sorridere.

— Gra… grazie. — LuAnn aveva parlato con estrema lentezza, e dovette compiere uno sforzo per distogliere lo sguardo dal volto di Jackson, per riportarlo sul bigliettino che lui le aveva appena dato. Sperava di non essere mai costretta a usarlo. E continuò a tenere lo sguardo abbassato. Perché se lo avesse alzato di nuovo su di lui, sapeva, sentiva, che avrebbe visto le medesime ombre maligne che avevano aleggiato vicino alla tomba di suo padre, inseguendola poi per il solitario Camposanto dei Pascoli del Cielo.

Quando rialzò gli occhi, Jackson era scomparso nella folla.

Si afflosciò contro lo schienale della poltrona. Era già stanca di fughe. E tuttavia, ciò che l’aspettava era nient’altro che una fuga senza fine.

LuAnn aprì il passaporto e guardò le pagine dei visti internazionali ancora immacolate. Non lo sarebbero rimaste a lungo. E anche quel nome estraneo, tra non molto sarebbe diventato parte di lei. Catherine Savage, di Charlottesville, Virginia. Sua madre era nata a Charlottesville, appena prima di trasferirsi con tutta la sua famiglia nel profondo Sud. LuAnn ricordava ancora i suoi racconti delle verdi, dolci colline della Virginia. Spostarsi in Georgia, diventare la moglie di Benny Tyler, aveva ammantato tutto nel sudario delle memorie perdute. Per questo LuAnn aveva voluto che il suo nuovo nome, la sua nuova persona, avesse quelle stesse origini. Savage, selvaggia. Lei era una selvaggia. Lo sarebbe sempre rimasta. A dispetto della colossale ricchezza, e di tutto quello che la ricchezza avrebbe portato. Osservò ancora una volta la faccia sulla foto, toccando la propria faccia, quella finta. La maschera che Jackson aveva creato per lei…

Un poliziotto in divisa era apparso nel perimetro dell’area d’imbarco, forse era uno dei quattro all’ingresso del terminal, forse no. Rapidamente, LuAnn fece sparire il passaporto. Quell’uomo poteva aver notato Jackson al check-in. E ora avrebbe potuto notare lei all’imbarco, stessa faccia, diversi abiti. Diversa donna. LuAnn deglutì a forza e arrivò a rimpiangere che Jackson se ne fosse andato. Mentre veniva annunciato l’imbarco, il poliziotto si diresse verso di lei.

LuAnn si alzò, afferrò la maniglia del seggiolino di Lisa, e nel movimento il pacchetto con dentro denaro, documenti e carte di credito le sfuggì di mano rotolando sotto la poltroncina. LuAnn si chinò goffamente, cercando di tenere la presa sul seggiolino e frugando alla cieca.

— Lasci che le dia una mano, signora.

LuAnn s’inchiodò, piegata in avanti a metà, in equilibrio precario. Dalle nere scarpe lucide del poliziotto, il suo sguardo risalì lungo la divisa blu scuro, il cinturone con la pistola, lo sfollagente, le manette. Raggiunse il volto dai lineamenti duri, squadrati dell’agente, che stringeva nella mano sinistra una foto di lei scattata alla conferenza stampa.

— Ehi, viaggiare con i bambini non è mai una cosa facile — commentò il poliziotto aprendosi in un sorriso. — Sapesse che ridere quando me la devo vedere con i miei, di marmocchi.

Raccolse il pacchetto e lo diede a LuAnn, che lo ringraziò.

— Mo… molte grazie.

— Di nulla — disse lui portandosi la mano alla visiera del berretto e sorridendo a Lisa. — E buon viaggio anche a te, piccolina.

LuAnn lo guardò mentre si allontanava, sentendo il sangue gelarsi nelle vene.

Poiché non c’era obbligo d’imbarco immediato per i passeggeri della prima classe, LuAnn rimase nella sala d’aspetto. Di tanto in tanto allungava il collo, alla ricerca di una sagoma familiare. Non la trovò. Evidentemente Charlie non era venuto. Alla fine, presentò la carta d’imbarco, superò la hostess di terra, percorse il tunnel di connessione e raggiunse l’interno del 747.

— Da questa parte, signorina Savage. Che bella bambina!

LuAnn venne fatta accomodare in uno degli ampi sedili. Sistemò Lisa accanto a sé e accettò un calice di champagne da uno degli steward. La sua attenzione venne attratta dal minischermo televisivo incassato nello schienale del sedile davanti al suo. Era la prima volta che si trovava su un aereo. E si stava godendo in modo davvero principesco questa sua prima esperienza.

Fuori dagli oblò, l’oscurità era fitta. Lisa era quieta, intenta a osservare ogni angolo di quello strano luogo. LuAnn continuò a sorseggiare il vino, gettando occhiate ai passeggeri che continuavano a imbarcarsi. Persone anziane dall’aria danarosa, uomini d’affari, un giovanotto in jeans e giubbotto di pelle. LuAnn credette di riconoscere in lui un celebre musicista rock. Le hostess eseguirono le consuete operazioni di controllo e in pochi minuti tutto fu pronto per il decollo.

Il 747 rullò lungo la pista, i reattori che salivano di giri verso la spinta massima. Il gigante alato schizzò in avanti, guadagnando velocità. LuAnn contrasse le mani sui braccioli, serrando i denti, neppure osando guardare fuori dal finestrino. Una delle sue braccia scivolò a circondare protettivamente Lisa, che peraltro appariva del tutto rilassata.

Poi, quando il 747 fu in volo, LuAnn si sentì come se stesse fluttuando nel cielo su un’enorme bolla. Anzi, un tappeto volante ad alta tecnologia, con sopra la nuova principessa delle Mille e una Notte. Si rilassò. Fuori dall’oblò, la cordigliera scintillante di New York City scomparve a poco a poco nelle tenebre e LuAnn ebbe un breve gesto d’addio. Per sempre. La volontà di Jackson.

— Meno male che almeno Lisa è rimasta la stessa.

LuAnn s’inchiodò contro il sedile. Una mano le era scesa sulla spalla, simile a una pressa. E sopra la mano un volto scavato, all’ombra di un fedora a tesa larga.

Il volto di Charlie.

L’uomo si aprì in un sorriso ancora più largo del cappello, tentando di allentare l’evidente nervosismo.

— Non ti avrei mai riconosciuta. LuAnn, che diavolo è successo?

— È una lunga storia. — Lei gli afferrò la mano con forza, sentendo allentarsi la tensione delle ultime ore. — Perché non cominci tu, Charlie, dicendomi il tuo vero nome?


Dal cielo nero come la pece, una pioggia insistente aveva preso a cadere appena dopo il decollo del 747.

L’uomo, con l’impermeabile nero e il capo protetto da un cappello di Gore-Tex, procedeva per la strada di Manhattan incurante del maltempo, appoggiandosi a un bastone d’ebano.

La donna dai capelli rossi e dalla carnagione livida era svanita. Al suo posto c’era un vecchio di almeno settant’anni, con pesanti borse sotto gli occhi e una corona di capelli stopposi intorno al cranio calvo, disseminato delle chiazze scure dell’età. Il naso era lungo e gibboso, il mento floscio. L’incedere esitante comunicava debolezza e stanchezza.

Jackson preferiva invecchiare quando calavano le tenebre. Voleva sentirsi sul confine del decadimento, sul limite della morte fisica. Alzò lo sguardo nella pioggia battente, frugando le nubi oscure. A quel punto il 747 della British Airways doveva aver raggiunto la Nuova Scozia, preparandosi alla trasvolata atlantica.

LuAnn Tyler non aveva preso il volo da sola. Jackson era rimasto a sorvegliare il cancello d’imbarco. Quando mancavano pochi minuti al decollo, aveva visto Charlie correre lungo il tunnel di collegamento e sparire al di là. Poteva non essere una cosa negativa. Continuava a nutrire dubbi su LuAnn Tyler, seri dubbi.

Lei gli aveva nascosto delle informazioni, cosa che lui normalmente considerava una colpa imperdonabile, ed eliminare Romanello era stata una diretta conseguenza di quelle menzogne. Anche se, doveva ammetterlo, le responsabilità erano in parte sue: era stato lui, in fondo, a ingaggiare quell’uomo. Comunque LuAnn Tyler era diventata il suo primo vincitore a essere ricercato dalla polizia. Il pericolo era ben lungi dall’essere cessato. Di fronte al potenziale disastro, Jackson si sarebbe regolato nel solo modo possibile. Aspettare. E osservare. Nel momento in cui avessero cominciato ad apparire delle linee di frattura, lui le avrebbe immediatamente richiuse. In questa prospettiva, avere con sé Charlie, così coscienzioso, responsabile e affidabile, poteva essere un’ottima cosa per lei. Perché LuAnn era diversa dagli altri, questo era assodato.

Jackson sollevò il bavero dell’impermeabile, continuando ad avanzare lungo la strada semibuia e deserta. Non aveva paura. Chiunque avesse voluto praticare il gioco pesante con quel povero vecchio si sarebbe amaramente pentito nello scoprire il proprio tragico errore. Jackson era armato ed era pronto a uccidere. Ma il delitto in realtà non gli interessava. Ciò che gli interessava era acquisire più denaro, più potere. Aveva di meglio da fare, che perdere il proprio tempo con gli omicidi.

Jackson sollevò nuovamente il volto posticcio nella pioggia. Leccò le gocce dal sapore asprigno che scendevano sulle sue labbra. Buon viaggio, LuAnn Tyler. Buon viaggio, Charlie. Sorrise al buio.

E Dio vi aiuti se commetterete l’errore di tradirmi.

Continuò lungo la sua strada, fischiettando. Era tempo di pensare al vincitore del mese successivo.

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