Gordon Dickson Il mantello e il bastone

Quando scese nella gelida, fredda alba di novembre dall’autobus affollato che aveva portato da Bologna i passeggeri della linea aerea (come succedeva spesso d’inverno, l’aeroporto di Milano era chiuso per la nebbia; e la nave-corriere, come i jet commerciali, era stata costretta ad atterrare a Bologna) Shane Everts scorse con la coda dell’occhio una piccola figura a bastoncino, incisa poco vistosamente sulla base d’un lampione.

Non osò guardarla direttamente, ma quell’occhiata di straforo bastò. Fermò un tassì che arrivava e diede l’indirizzo del Quartier Generale della Guardia Aalaag della città.

— È freddo, a Milano — disse il tassista, mentre guidava per le vie ancora semideserte.

Shane gli rispose con un monosillabo dall’accento svizzero, per dirsi d’accordo. In novembre, a Milano faceva davvero freddo. Un freddo crudo. Più a sud, a Firenze il clima era ancora dolce, con il cielo azzurro e il sole. Probabilmente il tassista voleva attaccare discorso per scoprire come mai il passeggero umano voleva andare al quartier generale alieno, ma era pericoloso. Gli umani normali non amavano quelli che lavoravano per gli aalaag. Se non dico niente, pensò Shane, può insospettirsi. No, pensandoci meglio, sentendo il mio accento svizzero crederà che abbia un parente nei guai qui in città, e che non me la senta di chiacchierare.

Il tassista parlò dell’estate appena passata. Rimpiangeva i bei tempi, quando arrivavano i turisti.

Shane rispose brevemente a entrambe le affermazioni. Poi vi fu silenzio, nel tassi, a parte i suoni del motore. Shane appoggiò il bastone più comodamente contro la gamba destra e la spalla sinistra, per sistemarlo meglio nel piccolo spazio. Si allisciò la veste marrone sulle ginocchia. L’immagine della figura che aveva veduto gli aleggiava ancora nella mente. Era identica a quella che lui stesso aveva tracciato la prima volta su un muro, sotto i tre ganci con il morto appeso, ad Aalborg, in Danimarca, più di sei mesi prima:



Ma non era stato lui a tracciare quella sul lampione. E non aveva tracciato nessuna delle altre figure che aveva scorto qua e là nel mondo durante gli ultimi otto mesi. Un momento di ribellione emotiva l’aveva spinto a creare un’immagine che adesso si stava apparentemente diffondendo e moltiplicando per riempire le sue ore di veglia e quelle del sonno con incubi ricorrenti. Non serviva a nulla dirsi che nessuno avrebbe potuto collegarlo con il primo graffito. Non serviva a nulla sapere che in tutti quegli otto mesi era stato un servitore irreprensibile di Lyt Ahn.

Nessuno di quei due fatti poteva essere del minimo aiuto se per qualche ragione Lyt Ahn, o qualche altro aalaag, avesse creduto che c’era qualche motivo per collegarlo ad una delle figure scarabocchiate.

Quale impulso insano ed egocentrico l’aveva spinto a usare il suo solito travestimento della setta dei pellegrini come simbolo di opposizione agli alieni? Qualunque altra figura sarebbe servita egualmente allo scopo. Ma allora aveva bevuto l’acquavite danese distillata clandestinamente; e con il ricordo dei colossi aalaag padre e figlio che, sulla piazza, assistevano alla morte dell’uomo che avevano condannato e giustiziato, e soprattutto con il ricordo della loro conversazione che lui, unico tra tutti gli umani presenti, aveva potuto comprendere, per un breve istante la ragione era fuggita dalla sua mente.

Dunque ora il suo simbolo era stato ripreso ed era diventato il simbolo di quello che, ovviamente, era un movimento clandestino umano già esistente che si opponeva agli aalaag, un movimento clandestino che non aveva mai sospettato. Il fatto stesso che esisteva preannunciava tragedie sanguinose per ogni umano tanto pazzo da essere collegato ad esso in qualche modo. Secondo i loro criteri, gli aalaag erano inflessibilmente giusti. Ma consideravano gli umani come bestiame, e un allevatore di bestiame non pensava al «giusto» nei confronti di un toro ammalato o potenzialmente pericoloso che era diventato un problema per la fattoria…

— Eccolo! — disse il tassista.

Shane guardò e vide il quartier generale alieno. Uno scudo d’energia riflettente lo copriva come un rivestimento di mercurio. Era impossibile capire che tipo di struttura fosse stato in origine: poteva essere stato qualunque cosa, da un palazzo d’ufficio a un museo. Lyt Ahn, Primo Capitano della Terra, nel suo quartier generale affacciato sulle cascate di St. Anthony in quello che un tempo era stato il cuore di Minneapolis, disprezzava quella dimostrazione così ovvia di potenza difensiva. I grigi muri di cemento della sua grande fortezza su Nicollet Island non avevano nulla che li proteggesse, eccettuate le armi portatili all’interno; ma sarebbero bastate quelle per spianare l’area metropolitana circostante nel volgere di poche ore. Shane pagò il tassista, scese e varcò l’ingresso principale del quartier generale milanese.

Le Guardie Ordinarie all’interno della grande porta a due battenti e quelle sedute al banco erano tutti umani. Quasi tutti giovani, come Shane, ma più grandi e grossi; perché anche l’umano più imponente appariva piccolo e fragile agli aalaag, che erano alti due metri e mezzo. Le guardie portavano le solite uniformi nere, linde ma scialbe, della polizia asservita. In mezzo a loro, benché si sentisse piccolo con il suo metro e ottanta di statura, Shane provò una bizzarra sensazione di conforto al pensiero d’essere tra quelle mura, circondato da quegli umani. Come lui, mangiavano alle tavole degli alieni; ed erano tenuti a difenderlo dagli umani non asserviti che l’avessero minacciato. Sotto il tetto dei padroni che gli ispiravano la nausea, era fisicamente protetto, sicuro.

Si fermò al banco, tolse la sua chiave dalla borsa di cuoio che portava alla cintura, senza estrarre i documenti. Il funzionario umano di turno prese la chiave e l’esaminò. Era di metallo, un metallo che nessun terrestre comune poteva possedere, e sul manico quadrato era impresso il Marchio di Lyt Ahn.

— Signore — disse l’ufficiale in italiano, vedendo il Marchio. Era diventato di colpo gentile. — Posso esserle d’aiuto?

— Mi fermo qui temporaneamente — rispose Shane in arabo, perché l’accento dell’ufficiale rispecchiava l’influsso delle consonanti gutturali di quella lingua. — Sono io che consegno i messaggi per conto del Primo Capitano della Terra, Lyt Ahn. Ne ho alcuni da consegnare al Comandante di questo Quartier Generale.

— La sua lingua è molto esperta — disse l’ufficiale in arabo, girando il registro di servizio e porgendo una penna.

— Sì — disse Shane, e firmò.

— Il Comandante, qui — disse l’ufficiale, — è Laa Ehon, Capitano del sesto rango. Accetta i suoi messaggi.

Si voltò e chiamò con un cenno una delle guardie.

— All’anticamera di Laa Ehon. Porta messaggi per il Comandante.

La guardia salutò militarmente e condusse via Shane. Salirono per diverse rampe di scale, accanto a un ascensore che Shane non avrebbe usato neppure se non ci fosse stato con lui la guardia. Arrivarono in un corridoio e in fondo, dietro un’altra porta a due battenti scolpiti, entrarono nell’anticamera dell’ufficio privato del Comandante aalaag di Milano.

La guardia salutò di nuovo e uscì. Non c’erano altri umani nella stanza. Un aalaag del ventiduesimo rango sedeva a una scrivania nell’angolo in fondo, e leggeva rapporti sui fogli di plastica che conservavano strati multipli di impressioni. Nella parete alla sinistra di Shane una finestra, con la leggera colorazione agli angoli che la rivelava come una versione aalaag dei finti specchi. La finestra mostrava un ufficio adiacente, dove c’erano panche per gli umani. Ma l’ufficio era vuoto: c’era soltanto una giovane donna bionda, che indossava un abito azzurro lungo e ampio, annodato intorno alla vita sottile.

Per Shane non c’era posto per sedersi. Ma dato che era abituato a frequentare Lyt Ahn e altri aalaag di rango elevato, s’era abituato anche ad attendere in piedi per ore.

E restò in piedi. Dopo una ventina di minuti, l’aalaag alla scrivania lo notò.

— Vieni — disse alzando il pollice, grosso come il paletto di una tenda.

Aveva parlato in aalaag, perché quasi tutti i servitori umani conoscevano i rudimenti della lingua dei padroni. Ma la sua espressione cambiò leggermente quando Shane rispose: perché c’erano pochi umani come Shane (e Shane lavorava e viveva con quei pochi) che sapessero parlare quella lingua correntemente e senza accento.

— Immacolato signore — disse Shane, avvicinandosi alla scrivania, — ho messaggi di Lyt Ahn, direttamente per il Comandante del Quartier Generale di Milano.

Non fece il gesto di estrarre dalla borsa i rotoli dei messaggi; e la mano massiccia dell’aalaag, che aveva incominciato a tendersi verso di lui con il palmo in alto alla parola messaggi, si ritrasse quando Shane pronunciò il nome di Lyt Ahn.

— Sei una bestia preziosa — disse l’aalaag. — Laa Ehon riceverà presto i tuoi messaggi.

— «Presto» poteva significare qualunque cosa, da «fra pochi minuti» a «fra qualche settimana». Ma poiché i messaggi erano di Lyt Ahn, e per giunta personali, era probabile che si sarebbe trattato di pochi minuti. Shane tornò nel suo angolo.

La porta si aprì ed entrarono altri due aalaag. Erano entrambi maschi di mezza età, uno del dodicesimo e l’altro del sesto rango. Quello del sesto rango poteva essere soltanto Laa Ehon. Un Capitano d’un rango così elevato era anzi troppo qualificato per comandare un unico Quartier Generale come quello. Era impensabile che ce ne fossero due, lì.

I nuovi venuti ignorarono Shane. No, pensò lui, mentre quelli distoglievano lo sguardo: non l’avevano ignorato. I loro occhi l’avevano notato, catalogato e accantonato in fretta. Si avviarono insieme verso la falsa finestra, e quello che doveva essere Laa Ehon parlò in aalaag:

— Questa?

Stavano osservando la ragazza dalla veste azzurra, che sedeva nell’altra stanza, ignara della loro attenzione.

— Sì, immacolato signore. L’ufficiale di servizio nella piazza l’ha vista allontanarsi dal muro di cui ti ho parlato, poco prima di notare il graffito. — Il Capitano del dodicesimo rango indicò la ragazza con il pollice. — Poi ha esaminato il graffito, ha visto che era stato fatto di recente ed è andato a cercarla. Per un momento ha pensato che si fosse confusa nel branco sulla piazza, poi l’ha vista di spalle a una certa distanza, mentre si allontanava in fretta. L’ha stordita e l’ha portata qui.

— Il suo rango?

— Trentaduesimo, immacolato signore.

— E questa è stata interrogata?

— No, signore. Ho atteso per parlarti della procedura.

Laa Ehon restò immobile per un momento senza rispondere, a guardare la ragazza.

— Trentaduesimo, hai detto? Conosceva questa particolare bestia Prima di vederla nella piazza?

— No, signore. Ma ricordava il colore del rivestimento. Non ce n’erano altri eguali nei pressi.

Laa Ehon si staccò dalla finestra.

— Vorrei prima parlare con lui. Mandalo da me.

— Signore, in questo momento è in servizio.

— Ah.

Shane capiva la momentanea pensierosità di Laa Ehon. Nella sua qualità di comandante, poteva facilmente ordinare che l’ufficiale in questione venisse sollevato dal servizio il tempo sufficiente per riferire a lui in persona. Ma l’indole degli aalaag era tale che solo una ragione gravissima gli avrebbe permesso di giustificare un simile ordine. Un aalaag in servizio, indipendentemnete dal rango, era sempre sacro.

— Dove? — chiese Laa Ehon.

— All’aeroporto locale, immacolato signore.

— Andrò a parlargli sul posto. Capitano Otah On, hai l’ordine di accompagnarmi.

— Sì, immacolato signore.

— Allora muoviamoci cercando di perdere meno tempo possibile. È improbabile che questa faccenda sia più importante di quanto appaia ora, ma dobbiamo accertarci.

Si girò verso la porta, con Otah On alle calcagna. Ancora una volta passò lo sguardo su Shane. Si fermò e si voltò a guardare l’aalaag.

— Questo chi è? — chiese.

— Signore. — L’aalaag alla scrivania era in piedi. — Un corriere che porta messaggi di Lyt Ahn per la tua mano.

Laa Ehon tornò a guardare Shane.

— Riceverò i tuoi messaggi fra un’ora, non di più, quando sarò tornato. Capisci ciò che ti ho appena detto?

— Capisco, immacolato signore — rispose Shane.

— Fino a quel momento, rimani in servizio. Ma mettiti comodo. Laa Ehon uscì per primo, seguito da Otah On. L’aalaag alla scrivania tornò a sedersi e riprese a esaminare i fogli.

Shane guardò di nuovo la ragazza al di là della vetrata. Era seduta, e non sapeva cosa sarebbe accaduto tra un’ora. L’avrebbero interrogata ricorrendo a sostanze chimiche, dapprima. Ma poi avrebbero usato metodi fisici. Non c’era sadismo nel carattere degli aalaag. Se qualcuno degli alieni l’avesse manifestato, i suoi simili l’avrebbero considerata una debolezza indecorosa e l’avrebbero eliminato. Ma si sapeva che i capi di bestiame potevano essere indotti a dire tutto ciò che sapevano se venivano sottoposti a disagi sufficienti. Un aalaag, naturalmente, era inaccessibile a questo genere di persuasione. La morte sarebbe venuta molto prima che il disagio potesse cambiare il carattere del singolo alieno al punto d’indurlo a rivelare ciò che desiderava tener nascosto.

Shane sentì che la veste gli aderiva addosso, incollata dal sudore. La donna era seduta quasi di profilo, con i capelli biondi sciolti sulle spalle; il viso, dalla carnagione sorprendentemente chiara per quella latitudine, era liscio e gentile. Non poteva avere molto più di vent’anni. Shane avrebbe voluto distogliere lo sguardo da lei, per non pensare più a ciò che l’attendeva, ma, come gli era accaduto un anno prima con l’uomo sui triplici uncini, quando aveva creato per la prima volta il simbolo, Shane non riusciva a girare la testa.

Ora lo riconosceva per ciò che era… una pazzia. Una pazzia nata dalla sua ripugnanza segreta e dal suo terrore per gli umanoidi massicci calati sulla Terra per impadronirsene. Erano i padroni che serviva, che gli permettevano di stare al caldo e di mangiare bene mentre il resto dell’umanità soffriva il freddo e aveva poco da mangiare. Che gli elargivano qualche complimento condiscendente… come se fosse realmente un animale, il cane di casa pronto a scodinzolare per un’occhiata o una parola gentile. La paura della morte era come un lingotto di ferro gelido, dentro di lui, quando pensava agli aalaag; e la paura d’una morte lenta e dolorosa era come lo stesso lingotto con gli orli affilati come rasoi. Ma nello stesso tempo c’era quella follia… quella follia che, se non l’avesse controllata con qualche piccola azione, sarebbe esplosa e l’avrebbe spinto a gettare i suoi dispacci in faccia a qualche aalaag, ad avventarsi un giorno, come un terrier contro una tigre, alla gola del suo Padrone, il Primo Capitano della Terra, Lyt Ahn.

Era una realtà, quella follia. Persino gli aalaag ne conoscevano l’esistenza nei loro popoli soggetti. C’era persino una parola per indicarla, nella loro lingua… Yowaragh. Lo yowaragh aveva indotto l’uomo morto un anno prima sui ganci a compiere un tentativo disperato per difendere la moglie contro quella che aveva interpretato come brutalità degli aalaag. Lo yowaragh, ogni giorno, faceva sì che almeno un umano, in qualche angolo del mondo, scagliasse inutilmente un bastone o un sasso contro un conquistatore schermato e intoccabile o in una situazione in cui la fuga era impossibile e la fine era certa. Lo yowaragh aveva bussato una volta alla mente di Shane, un anno fa, minacciando di erompere. Adesso stava bussando di nuovo.

Non poteva fare a meno di guardare la giovane donna, e non sopportava di guardarla… e l’unica alternativa alla fine per entrambi era impedire che accadesse… il ritorno di Laa Ehon, la tortura della ragazza e lo yowaragh che avrebbe portato alla morte anche lui.

Laa Ehon aveva detto che sarebbe tornato tra un’ora. Rivoli di sudore scorrevano sui fianchi nudi di Shane sotto la tunica. La sua mente aveva innestato le marce alte, e correva come un cuore che palpitasse incontrollato. Che via d’uscita c’era? Doveva essercene una… se fosse riuscita a trovarla. L’altra faccia della medaglia di ciò che avrebbero fatto alla ragazza era fondata sulla stessa assenza di sadismo. Gli aalaag distruggevano la loro proprietà soltanto per uno scopo. Se lo scopo non c’era, non sprecavano una bestia utile. Non avrebbero avuto un motivo per trattenerla solo perché era stata arrestata. La ragazza era troppo insignificante; gli aalaag erano troppo pragmatici.

La mente di Shane era febbricitante. Non era sicuro di ciò che stava progettando, ma tutta la conoscenza intima degli aalaag acquisita nei tre anni vissuti vicino a loro ribolliva in fondo ai suoi pensieri. Andò a piazzarsi davanti all’aalaag alla scrivania.

— Sì? — chiese l’aalaag dopo un po’, alzando gli occhi.

— Immacolato signore, il Capitano Comandante ha detto che sarebbe tornato fra un’ora per ricevere i miei messaggi, e che nel frattempo dovevo restare in servizio a mettermi comodo.

Gli occhi dalle pupille grigio-nere lo fissarono, alla stessa altezza dei suoi.

— Vuoi metterti comodo, è così?

— Immacolato signore, se potessi sedermi o sdraiarmi, sarei molto grato.

— Sì. Sta bene. Il Comandante ha ordinato così. Vai a cercare le attrezzature per tali attività nelle aree del nostro bestiame. Ritorna fra un’ora.

— Sono grato all’immacolato signore.

Le pupille grigio-nere vennero ombreggiate dalle sopracciglia nerissime che si contraevano.

— È questione di ordini. Non sono il tipo che permette alle bestie di adularmi.

— Signore, io obbedisco.

Le sopracciglia si decontrassero.

— Così va meglio. Va’.

Shane uscì. Si mosse rapidamente. Come quando, in Danimarca, si era finalmente reso conto di ciò che stava facendo. Non aveva più dubbi o esitazioni. Si avviò in fretta lungo il corridoio esterno che era deserto, con gli orecchi e gli occhi intenti per captare la presenza di qualcuno, ma soprattutto di qualche alieno. Quando passò accanto agli ascensori si fermò e guardò intorno.

Non c’era nessuno di guardia; e una volta a bordo dell’ascensore avrebbe potuto scendere da quel piano al pianterreno e anche più in basso senza essere visto. Ci sarebbero state altre porte che comunicavano con l’esterno, oltre a quella da cui era entrato; e le avrebbe forse trovate ad altri piani, ai piani sotterranei. Dovevano esserci porte usate soltanto dagli stessi aalaag e dai loro servitori più fidati: e quelli erano senza dubbio liberi di andare e venire senza essere notati.

Premette il pulsante per chiamare l’ascensore. Arrivò dopo un momento e le porte si aprirono. Shane si voltò dall’altra parte, per fingere (se a bordo ci fosse stato un aalaag) che lui stava semplicemente passando di lì. Ma la cabina era vuota.

Entrò. L’unico pericolo, adesso, era che qualche aalaag, a un piano inferiore, avesse chiamato l’ascensore. Se si fosse fermato per prendere a bordo uno degli alieni e la porta, aprendosi, l’avesse rivelato all’interno, sarebbe stato in trappola… doppiamente colpevole, perché era dove non doveva essere e perché era assente dal suo dovere, che al momento consisteva nello sdraiarsi o riposarsi in altro modo. Solo gli aalaag potevano usare gli ascensori.

Per un momento gli sembrò che la cabina rallentasse al primo piano. In fondo alla sua mente i piani saettavano come lampi di calore in una sera d’estate. Se si fosse fermato, se la porta si fosse aperta e fosse entrato un aalaag, intendeva gettarsi alla gola dell’alieno. Con un po’ di fortuna, l’altro l’avrebbe ucciso istintivamente e lui non sarebbe stato interrogato perché rivelasse come mai era lì.

Ma l’ascensore non si fermò. Continuò la discesa, e la spia luminosa che indicava i piani mostrò finalmente che si stava avvicinando al primo seminterrato. Shane premette il pulsante e l’ascensore si fermò. La porta si aprì, e uscì in un corridoietto che conduceva direttamente a una porta di vetro e a una rampa di scale che saliva. Aveva trovato una delle uscite degli alieni.

Lasciò l’ascensore e percorse a passo svelto il corridoio, fino alla porta. Era chiusa, ovviamente; ma lui aveva in tasca la Chiave di Lyt Ahn, o almeno la chiave che erano autorizzati a portare gli speciali servitori umani di Lyt Ahn: avrebbe aperto ogni porta normale in un edificio appartenente agli alieni.

Provò a usare la chiave, e funzionò. La porta si aprì senza far rumore. Dopo un istante Shane uscì, salì la scala e raggiunse la strada.

S’incamminò lungo la strada, a un passo svelto e quasi di corsa, e al primo incrocio svoltò a destra, in cerca d’una zona commerciale. Quattro isolati più avanti trovò una grande piazza con molti negozi. C’era un unico aalaag, in groppa alla sua cavalcatura, e torreggiava indifferente tra la folla, davanti al colonnato del portico che chiudeva un’estremità della piazza. Era impossibile capire se l’alieno era in servizio o se stava aspettando qualcosa o qualcuno. Ma per Shane, adesso, non sarebbe stato prudente servirsi di un negozio di quella piazza.

Proseguì in fretta. Qualche strada più avanti trovò alcuni negozi sui due lati di un vicolo cieco, e uno vendeva i semplici capi di abbigliamento che gli aalaag permettevano agli umani di indossare. Entrò, e il campanello sopra la porta tintinnò leggermente.

— Signore? — disse una voce.

Gli occhi di Shane si abituarono alla semioscurità dell’interno. Vide un banco carico di indumenti piegati dietro il quale stava un uomo basso e bruno con il naso affilato. Stranamente, in quei tempi d’occupazione aliena, il proprietario aveva un po’ di pancetta sotto il camice giallo.

— Voglio una veste lunga — disse Shane. — Double-face.

— Certo. — Il negoziante girò intorno al banco. — Di che tipo?

— Quanto costa il tipo più caro?

— Settantacinque nuove lire o l’equivalente, signore.

Shane frugò nella borsa appesa al cordiglio della cintura, e buttò sul banco le monete metalliche emesse dagli aalaag come valuta internazionale… i rettangoli d’oro e d’argento con i quali veniva pagato il suo lavoro come dipendente di Lyt Ahn.

Il negoziante si fermò di colpo. Fissò lo sguardo sulle monete, poi tornò a guardare in faccia Shane con un’espressione diversa. Solo gli umani molto potenti, sotto l’autorità aliena, o quelli che trafficavano ai mercato nero avevano di solito quelle monete per pagare i conti; e molto raramente uno di loro sarebbe entrato in un piccolo negozio.

L’uomo si mosse per avvicinarsi alle monete. Shane le coprì con una mano.

— Scelgo io la veste — disse. — Mi mostri l’assortimento.

— Ma certo, certo, signore.

Il negoziante passò oltre le monete e usci dietro il banco. Aprì la porta del retro e invitò Shane a entrare. All’interno c’erano tavoli carichi di indumenti e stoffe. In un angolo, sotto una lampada al cherosene, c’era un tavolo da sarto con pezze di tessuto, arnesi da lavoro, filo, e gessetti bianchi e blu.

— Ecco le vesti sono qui, su questi due tavoli — disse l’uomo.

— Bene — disse Shane in tono aspro. — Vada là nell’angolo e si volti. Sceglierò quello che voglio.

Il negoziante si mosse in fretta, incurvando le spalle. Se il visitatore era nel giro del mercato nero, sarebbe stato imprudente contraddirlo o farlo irritare.

Shane trovò le vesti double-face in mezzo alle altre, frugò, e scelse la più ampia che riuscì a trovare e che fosse azzurra da una parte. L’interno era marrone. L’infilò sulla sua veste, con la parte azzurra all’esterno, e tirò il cordone della cintura. Si avvicinò al tavolo da lavoro e prese un gessetto bianco.

— Lascerò cento lire sul banco — disse, rivolgendosi alla schiena del negoziante. — Non si volti e non esca se non quando me ne sarò andato da cinque minuti. Capito?

— Capito.

Shane girò sui tacchi e uscì. Nel passare diede un’occhiata al banco. Aveva estratto le monete a casaccio dalla borsa, e aveva messo sul piano l’equivalente di centocinquanta lire in oro e argento. Non era il caso di far apparire l’episodio ancora più importante del necessario agli occhi del negoziante. Shane riprese l’equivalente di cinquanta lire e uscì, ritornando verso la piazza dove aveva visto l’aalaag sulla cavalcatura.

Si rendeva perfettamente conto che il tempo passava in fretta. Non poteva di stare lontano dal quartier generale più dell’ora concessagli dal funzionario di turno. Se l’aalaag aveva lasciato la piazza…

Ma non l’aveva lasciata. Quando Shane, sudando, uscì nuovamente sulla piazza, la figura massiccia era ancora lì, indifferente come prima.

Shane, date le sue mansioni, era autorizzato a portare uno degli orologi perpetui degli aalaag. Adesso l’aveva nella borsa, ma non osava consultarlo per vedere quanto tempo gli restava. Gli umani comuni che gli stavano intorno, vedendolo, avrebbero capito che era un servitore degli alieni, e questo gli avrebbe attirato la loro ostilità… un’ostilità che poteva essere fatale.

Passò in fretta tra la folla che brulicava nella piazza. Quando si avvicinò all’aalaag in groppa alla cavalcatura, il coraggio ispirato dall’adrenalina quasi gli venne a mancare. Ma il ricordo della prigioniera al quartier generale riaffiorò nella sua mente, spingendolo a proseguire.

Volutamente, passò proprio sotto la testa massiccia della cavalcatura, e quella alzò il muso. Il movimento fu minimo, pochi centimetri, ma bastò per attirare l’attenzione dell’aalaag. L’aalaag abbassò gli occhi su Shane.

Continuando a muoversi, Shane tenne la testa bassa. Si era tirato i capelli sulla fronte, il più possibile, per nascondere la faccia alla vista dell’alieno… ma non era su questo che contava, per conservare l’anonimato. Pochi aalaag sapevano distinguere un umano da un altro… anche dopo due anni di stretto contatto, Lyt Ahn riconosceva Shane dagli altri corrieri-interpreti più per gli orari in cui Shane. si presentava che per qualche individualità fisica.

Shane passò oltre in fretta: e l’alieno, indifferente a qual capo di bestiame che si allontanava, levò di nuovo gli occhi verso l’infinito e ritornò ai suoi pensieri. Shane proseguì solo per qualche passo, fino alla colonna più vicina, e si fermò. Lì, nascondendo con il proprio corpo i movimenti all’alieno che stava dietro di lui, prese dalla borsa il gessetto bianco da sarto e con mano tremante tracciò sulla pietra la figura ammantata con il bastone.

Arretrò, e l’improvviso, quasi inudibile gemito di riconoscimento della folla attirò, come aveva previsto, l’attenzione dell’aalaag. Immediatamente l’alieno fece girare la cavalcatura e impugnò lo stesso tipo di paralizzatore con il quale era stata catturata la prigioniera.

Ma Shane era già in movimento. Corse in mezzo alla folla, si buttò a terra in modo che gli altri lo nascondessero agli occhi dell’aalaag, e rotolò via, sfilandosi freneticamente la veste double face.

Istintivamente, gli altri umani gli si strinsero intorno, nascondendolo all’alieno che adesso, con l’arma stretta nella mano massiccia, stava cercando di localizzarlo. La veste s’impigliò e gli si avvolse intorno alle ascelle, ma finalmente Shane riuscì a toglierla. Lasciandola a terra, con la parte azzurra all’esterno, si allontanò carponi fino a quando, arrivato sul bordo della piazza, si azzardò ad alzarsi in piedi e ad allontanarsi più in fretta che poteva senza attirare l’attenzione.

Ansimante e fradicio di sudore, lasciandosi indietro gli umani che evitavano studiatamente di guardarlo e incominciando a muoversi tra altri che lo guardavano con un interesse del tutto normale, Shane si avviò in fretta verso il quartier generale degli aalaag. Soggettivamente gli sembrava che fosse passata almeno un’ora dal momento in cui era passato sotto il muso della cavalcatura dell’aalaag: ma la ragione gli diceva che l’intero episodio non poteva aver occupato più di qualche minuto. Si fermò a una fontana (era una fortuna, pensò, che in Italia ci fossero tante fontane) per lavarsi la faccia, il collo e le ascelle. Ufficialmente gli aalaag erano indifferenti al lezzo del bestiame; ma in pratica preferivano gli umani che puzzavano il meno possibile… anche se non pensavano mai che loro stessi erano sgradevoli per l’olfatto degli umani quanto gli umani lo erano per il loro. Ma se Shane fosse tornato con un forte odore di sudore da quello che in teoria era stato un periodo di riposo avrebbe potuto attirare l’attenzione sul tempo che aveva trascorso fuori dall’ufficio.

Si servì della chiave per entrare dalla stessa porta da cui era uscito: e questa volta salì la scala, anziché prendere l’ascensore, per arrivare al piano dell’entrata del quartier generale. Nessuno lo vide. Si fermò per controllare il cronometro e vide che mancava ancora una dozzina di minuti allo scadere dell’ora.

Ne approfittò per chiedere a una delle Guardie Ordinarie dov’erano i locali di riposo per il bestiame, vi andò, e da lì ritornò nell’ufficio dove aveva atteso la prima volta. Quando fu davanti alla porta dell’ufficio si accorse che gli restavano ancora quattro minuti, e restò dov’era fino a quando poté entrare nel momento preciso in cui gli era stato detto di ripresentarsi.

L’ufficiale alieno alla scrivania alzò la testa quando Shane entrò, lanciò un’occhiata all’orologio sopra la porta e tornò a esaminare le sue carte in silenzio. Tuttavia, Shane era soddisfatto. L’obbedienza puntuale era un segno in favore degli umani, agli occhi degli aalaag. Ritornò nel punto dove aveva atteso prima, in piedi, e riprese ad attendere.

Circa tre quarti d’ora dopo la porta si aprì e Laa Ehon entrò con Otah On. Con l’osservazione acuta di un essere soggetto, rafforzata dall’esperienza acquisita nei due anni di stretto contatto con gli alieni, Shane riconobbe immediatamente i due ufficiali. Andarono subito alla finestra per guardare la prigioniera umana; e il cuore di Shane si strinse per il panico.

Era inconcepibile che la sua azione sulla piazza, compiuta un’ora prima, non fosse stata segnalata nel frattempo. Tuttavia sembrava che i due alti ufficiali stessero per procedere con la giovane donna come se non fosse accaduto nulla. Poi Laa Ehon parlò.

— In effetti il colore è lo stesso — disse il Comandante del quartier generale. — Devono esserci molti capi di bestiame vestiti così.

— Verissimo, immacolato signore — rispose Otah On.

Laa Ehon studiò ancora per un momento la giovane donna.

— È mai stata informata della ragione specifica per cui è stata portata qui? — chiese.

— Non le è stato detto nulla, immacolato signore.

— Sì — disse pensosamente Laa Ehon. — Bene, allora. È una bestia giovane e sana. Non è il caso di sprecarla. Lasciatela andare.

— Sarà fatto.

Laa Ehon si staccò dalla finestra e girò gli occhi intorno a sé, fissando lo sguardo su Shane. Poi si avvicinò.

— Tu sei la bestia con i dispacci di Lyt Ahn?

— Sì, immacolato signore — disse Shane. — Li ho qui.

Li estrasse dalla borsa e li posò nell’enorme mano del Comandante. Laa Ehon li prese, li aprì e lesse. Poi li passò a Otah On.

— Eseguire.

— Sì, immacolato signore.

Otah On portò i dispacci alla scrivania dell’ufficiale di servizio, gli parlò e gli diede i fogli. Gli occhi di Laa Ehon si fissarono su Shane con un barlume d’interesse.

— Tu parli con grande purezza — disse il Comandante. — Appartieni al gruppo speciale di bestie del Primo Capitano, che usa per parlare e portare messaggi, non è così?

— Sì, immacolato signore.

— Da quanto tempo parli la vera lingua?

— Da due anni di questo mondo, immacolato signore.

Laa Ehon continuò a guardarlo, e un rivolo di sudore gelido scorse lungo la spina dorsale di Shane.

— Sei una bestia che val la pena di possedere — disse lentamente il Comandante. — Non pensavo che uno come te potesse imparare a parlare in modo tanto chiaro. Quanto sei valutato?

Shane si sentì mozzare il respiro in gola. L’esistenza era a malapena tollerabile per chi faceva parte del gruppo privilegiato di umani appartenenti all’alieno padrone della Terra. La follia che tanto temeva sarebbe venuta presto, se invece fosse rimasto imprigionato lì, in quell’edificio, tra i bruti che formavano la Guardia Interna.

— A quanto ne so, immacolato signore… — Shane non osò esitare prima di rispondere. — … sono valutato metà possesso di terreno…

Otah On, che era tornato a fianco del comandante, alzò le sopracciglia nere nel sentire quel prezzo; ma la faccia di Laa Ehon rimase pensierosa.

— … e il favore del mio padrone Lyt Ahn.

L’aria pensierosa abbandonò la faccia di Laa Ehon. Il cuore di Shane martellava. Era vero che aveva premesso alla risposta la frase «a quanto ne so», ma in realtà non aveva mai saputo ufficialmente che una parte del suo prezzo comportasse il favore del suo padrone. La valutazione che sapeva di avere, mezzo possesso di terreno (circa quaranta miglia quadrate di quella che gli aalaag chiamavano «buona campagna») era un prezzo enormemente alto in se stesso per una bestia umana. Era l’equivalente approssimativo di quello che, nei tempi pre-aalaag, sarebbe stato il costo di una lussuosa macchina sportiva fuori serie placcata d’oro e ornata di gemme. Ma Laa Ehon era sembrato disposto a considerare anche quello. Non era la prima volta che Shane si rendeva conto di godere della posizione di una specie di giocattolo di lusso. Ma questa volta aveva accennato che il suo prezzo includeva il favore di Lyt Ahn. «Favore» era un termine che trascendeva qualunque prezzo. La designazione indicava che il suo padrone era personalmente interessato a tenerlo, e che il prezzo di vendita poteva includere qualsiasi cosa… ma probabilmente qualcosa che Lyt Ahn avrebbe gradito almeno quanto ciò a cui rinunciava. Quel «favore», incluso in una vendita, poteva costituire in effetti un assegno in bianco firmato dal compratore, incassabile in qualunque momento futuro da parte del venditore, in merci o azioni, e garantito secondo l’inflessibile codice di obbligazioni degli aalaag.

A Shane nessuno aveva mai detto che aveva il favore di Lyt Ahn. Aveva semplicemente sentito, una volta, Lyt Ahn dire al suo capo di stato maggiore che doveva decidersi a estendere il suo favore a tutte le bestie del gruppo speciale al quale apparteneva Shane. Se Laa Ehon avesse chiesto conferma a Lyt Ahn, e questo non era mai stato fatto, allora Shane sarebbe stato spacciato perché aveva dimostrato d’essere una bestia bugiarda e indegna di fiducia. Anche se il favore era stato concesso, Lyt Ahn avrebbe potuto chiedere come mai Shane ne era venuto a conoscenza.

D’altra parte poteva darsi che il Primo Capitano, preso com’era dagli impegni importanti del governo, concludesse semplicemente che doveva averlo detto a Shane, a un certo momento, e poi l’aveva dimenticato. Rivendicarlo adesso era uno dei rischi quotidiani necessari all’esistenza umana in mezzo agli alieni.

— Dagli la ricevuta — disse Laa Ehon.

Otah On consegnò a Shane la ricevuta dei dispacci, preparata un attimo prima dall’ufficiale di servizio. Shane la mise nella borsa.

— Torni direttamente da Lyt Ahn? — disse Laa Ehon.

— Si, immacolato signore.

— I miei ossequi al Primo Capitano.

— Sarà fatto.

— Puoi andare.

Shane si voltò e uscì. Quando la porta si chiuse dietro di lui, trasse un profondo respiro e scese in fretta la scala, fino all’ingresso.

— Torno alla residenza del Primo Capitano — disse all’ufficiale delle Guardie Ordinarie in servizio all’entrata. Era l’uomo che parlava l’italiano con accento arabo. — Vuol prenotarmi il posto sull’aereo? Ho la precedenza, naturalmente.

— È già stato provveduto — disse l’ufficiale. — Viaggerà con uno dei Padroni in servizio di corriere su un piccolo aereo militare che parte fra due ore. Devo ordinare un mezzo di trasporto per condurla all’aeroporto?

— No — rispose laconicamente Shane. Non era tenuto a spiegare le ragioni delle sue azioni a quel lacché in uniforme. — Ci andrò da solo.

Gli sembrò di scorgere un lampo di ammirazione nello sguardo dell’ufficiale. Ma del resto, se l’altro pensava mai di aggirarsi da solo per le vie di Milano, l’avrebbe fatto con l’uniforme regolamentare che non era mai autorizzato a togliersi. Un tipo come l’ufficiale non poteva immaginare di quale libertà godeva Shane muovendosi, apparentemente come uno di loro, tra gli umani normali della città… e non poteva immaginare quanto gli fossero necessari quei pochi momenti di libertà illusoria.

— Sta bene — disse l’ufficiale. — Il Padrone che la porterà è Enech Ajin. Il banco dei Padroni, all’aerostazione, le indicheranno come raggiungerlo, quando arriverà.

— Grazie — disse Shane.

— Prego.

Avevano inevitabilmente assimilato entrambi, pensò con amarezza Shane, i convenevoli e le intonazioni dei padroni…

Uscì passando dalla pesante porta di destra dell’entrata e scese i gradini. Non c’erano tassì in vista… naturalmente. Nessun umano avrebbe ronzato intorno al quartier generale alieno se non in caso di necessità. Si avviò per la stessa strada che aveva percorso per raggiungere la piazza.

Aveva superato due incroci quando un tassì gli passò accanto, lentamente. Lo fermò e salì a bordo.

— All’aeroporto — disse. Guardò l’uomo magro e infagottato al volante, mentre apriva automaticamente la portiera. Salì… e incespicò su qualcosa che stava sul tappetino.

La portiera sbatté e il tassì sfrecciò via a tutta velocità. Shane si ritrovò bloccato da due uomini che prima stavano acquattati accanto al sedile posteriore. Lo tenevano immobilizzato, e gli puntavano contro la gola qualcosa di acuminato.

Abbassò lo sguardo e vide un cosiddetto coltello di vetro, ricavato da una scheggia di vetro legata fra le due metà di un manico di legno. Il vetro formava il filo tagliente e poteva essere acuminato come un rasoio… e quello lo era.

— Fermo! — ringhiò in italiano uno dei due uomini.

Shane non si mosse. Sentiva il puzzo degli abiti sporchi dei due che lo tenevano immobilizzato. Il tassì lo portava via, velocemente, per strade sconosciute, verso una destinazione inimmaginabile.

Viaggiarono almeno per una ventina di minuti: era impossibile capire se fosse il tempo necessario per coprire la distanza fino alla meta, o se in parte avesse lo scopo di confondere i suoi tentativi di calcolarla. Finalmente il tassì svoltò, sobbalzò sull’asfalto molto dissestato, e passò sotto l’ombra di un voltone. Poi si fermò e i due uomini trascinarono fuori Shane.

Intravvide appena un cortile buio e non troppo pulito circondato da edifici, e quindi fu spinto su per due gradini, oltre una porta e in un corridoio lungo e stretto saturo degli odori di cucina e di vernice vecchia.

Shane era più stordito che spaventato. Provava qualcosa di molto simile a un’accettazione fatalistica. Per due anni aveva vissuto con il pensiero che un giorno o l’altro gli umani comuni l’avrebbero identificato per uno di quelli che lavoravano per gli alieni; e allora avrebbero sfogato su di lui la paura e l’odio che tutti nutrivano per i conquistatori e che non osavano manifestare direttamente. Con l’immaginazione aveva vissuto molte volte quella scena. Era egualmente spiacevole, adesso che si era realizzata: ma era una situazione che aveva già esaurito le sue emozioni. Alla fine, era quasi un sollievo vedere che i giorni della mascherata erano finiti e che era stato scoperto per ciò che era in realtà.

I due uomini si fermarono di colpo. Shane fu spinto oltre una porta, sulla destra, in una stanza illuminata da un’unica, potente lampadina. Il contrasto con il cortile in penombra e il corridoio ancora più buio rese per un momento accecante quella luce. Quando i suoi occhi si abituarono, vide che era di fronte a un tavolo rotondo, e che la stanza era grande, con il soffitto alto e i muri ingrigiti dal tempo e un’unica alta finestra chiusa da una tenda per l’oscuramento. Il cordone della lampadina non spariva sotto traccia nel soffitto, ma passava accanto a un tubo del gas tappato, scendeva lungo la parete di fronte ed era collegata a un generatore a pedali. Un giovane dai capelli neri sedeva sul sellino e, quando la luce della lampadina incominciava ad affievolirsi, pedalava energicamente fino a che si ravvivava di nuovo.

C’erano altri uomini in piedi nella stanza, e due erano seduti al tavolo in compagnia dell’unica donna visibile. Shane la riconobbe: era la prigioniera che aveva visto attraverso la finestra. Lei lo guardò negli occhi con l’espressione di un’estranea, e sebbene fosse stordito Shane pensò che era strano che lui la riconoscesse con un’emozione tanto profonda, mentre la donna non lo conosceva affatto.

— Dov’è il proprietario del negozio d’abbigliamento? — disse uno degli uomini seduti al tavolo con un accento dell’Italia settentrionale sfumato da un altro accento, quello londinese. Era giovane, giovane come Shane; ma diversamente da Shane era asciutto e atletico con il naso diritto, la mascella quadrata, le labbra sottili e i capelli biondi molto corti.

— Fuori, in magazzino — disse una voce in italiano, ma senza accento inglese.

— Allora portatelo qui! — disse l’uomo dai capelli corti. L’altro seduto a tavola accanto a lui non disse niente. Era tondo e solido, oltre la quarantina, e portava una logora giacca di pelle. Teneva in bocca una pipa a canna corta. Sembrava italiano.

Alle spalle di Shane, la porta si aprì e si chiuse. Dopo un minuto si aprì e si chiuse di nuovo, e un uomo bendato, nel quale Shane riconobbe il proprietario del negozio dove aveva comprato la veste doublé face, venne condotto avanti e girato verso di lui. Gli tolsero la benda.

— Dunque? — chiese il giovane dai capelli corti.

Il negoziante batté le palpebre sotto la luce intensa. I suoi occhi si fissarono su Shane e subito si distolsero.

— Che cosa volete, signori? — chiese. La voce era appena un bisbiglio.

— Nessuno gliel’ha detto? Lui! — disse spazientito l’uomo dai capelli corti. — Lo guardi. Lo riconosce? Dove l’ha visto?

Il negoziante si umettò le labbra e alzò gli occhi.

— Oggi, signore — disse. — È venuto nel mio negozio e ha comprato un abito doublé face, azzurro e marrone…

— Questo? — L’uomo dai capelli corti fece un gesto. Uno di quelli che stavano in fondo alla stanza si fece avanti e mise un indumento avvoltolato nelle mani del negoziante, che lo spiegò e lo guardò.

— Questo è mio — disse con un filo di voce. — Sì. È quello che ha comprato.

— Bene, allora può andare. Tenga il vestito. Voi due… non dimenticate di bendarlo. — L’uomo dai capelli corti si rivolse al giovane seduto al generatore. — Allora, Carlo? È lui che hai seguito?

Carlo annuì. Aveva uno stuzzicadenti in un angolo della bocca. Stordito, Shane lo guardava stranamente affascinato, perché lo stuzzicadenti sembrava dargli un’aria bricconesca, infallibile.

— Ha lasciato piazza San Marco ed è tornato direttamente al Quartier Generale degli alieni — disse Carlo. — In tutta fretta.

— Allora non ci sono dubbi — disse l’uomo dai capelli corti. Squadrò Shane. — Bene, vuoi dirci che cosa ti avevano incaricato di fare gli aalaang? O dobbiamo aspettare che Carlo ti lavori un po’?

All’improvviso, Shane si sentì sopraffare da una stanchezza nauseata… era stanco dei sudditi umani e dei padroni alieni. Una furia inaspettata ribollì dentro di lui.

— Maledetto stupido! — gridò all’uomo dai capelli corti. — Stavo salvando lei!

E indicò la donna che ricambiò il suo sguardo aggrottando la fronte, intenta.

— Idioti! — sibilò Shane. — Stupidi imbecilli con i vostri giochetti della resistenza! Non sapete che cosa le avrebbero fatto? Non sapete dove sareste adesso tutti quanti, se non avessi dato loro un motivo per pensare che fosse stato qualcun altro? Per quanto tempo credete che avrebbe resistito a non dire tutto quello che sa di voi? Ve lo dico io, perché l’ho visto… quaranta minuti in media!

Tutti guardarono la donna, istintivamente.

— Non è vero — disse lei con voce esile. — Non hanno minacciato di farmi niente. Mi hanno tenuta lì un po’ ad aspettare e poi rilasciata per mancanza di prove.

— L’hanno lasciata libera perché io ho dato loro un motivo di dubitare che fosse stata lei a tracciare quel segno! — Il furore stava trascinando Shane come una marea scura e inesorabile. — L’hanno rilasciata perché è giovane e sana, e loro non sprecano le bestie utili senza una ragione. Mancanza di prove! Credete ancora di aver a che fare con gli umani!

— Sta bene — disse l’uomo dai capelli corti, in tono secco. — Tutto questo è molto bello, ma adesso spiegarci dove hai imparato il nostro Segno.

— Imparato? — Shane rise, una risata simile a un singulto di rabbia soffocata. — Buffoni! L’ho inventato io. Io! Lo incisi su un muro di mattoni ad Aalborg, due anni fa, per la prima volta. Dove l’ho imparato! Come l’avete imparato voi? Come l’hanno scoperto gli aalaang? Vedendolo inciso in qualche posto, naturalmente!

Vi fu un momento di silenzio, nella stanza, quando si spense l’eco della voce di Shane.

— Allora è pazzo — disse l’uomo con la pipa.

— Pazzo — ripeté Shane, e rise di nuovo.

— Un momento — disse la donna. Girò intorno al tavolo e si fermò di fronte a lui. — Chi sei? Cosa fai con gli aalaag?

— Sono un traduttore, un corriere — disse Shane. — Appartengo a Lyt Ahn… io e una trentina di altri uomini e donne come me.

— Maria… — disse l’uomo dai capelli corti.

— Aspetta, Peter. — Lei alzò la mano e continuò senza staccare gli occhi da Shane. — Sta bene. Raccontaci cos’è successo.

— Stavo consegnando dispacci speciali a Laa Ehon… conoscete il vostro Comandante locale, immagino…

— Conosciamo Laa Ehon — disse bruscamente Peter. — Continua.

— Avevo da consegnare comunicazioni speciali. Ho guardato da un falso specchio e ti ho vista. — Shane guardò Maria. — Sapevo cosa ti avrebbero fatto. Laa Ehon stava parlando di te con uno dei suoi ufficiali. Avevano avvistato un umano con una veste azzurra. C’era la vaga possibilità che se fosse arrivata un’altra segnalazione di un umano con la veste azzurra che tracciava quel segno avrebbero avuto abbastanza dubbi per non voler sprecare una bestia giovane e sana come te. Perciò sono sgattaiolato via e ho fatto in modo che ricevessero un’altra segnalazione. Ha funzionato.

— Perché l’hai fatto? — Maria lo stava guardando con occhi penetranti.

— Un momento, Maria — disse Peter. — Lascia che gli faccia qualche domanda. Tu, come ti chiami?

— Shane Everts.

— E hai detto di aver sentito Laa Ehon parlare con uno dei suoi ufficiali. Come mai eri lì?

— Stavo aspettando di consegnare i dispacci.

— E Laa Ehon ha discusso tutto quanto davanti a te… è questo che stai cercando di raccontarci?

— Loro non ci vedono a non ci sentono, a meno che abbiano bisogno di noi — disse amaramente Shane. — Siamo oggetti… animali.

— Dunque — disse Peter, — in che lingua parlava Laa Ehon?

— In aalaag, naturalmente.

— E tu l’hai compreso tanto bene da intuire che c’era la possibilità di fargli credere che l’umano che cercavano fosse un altro e non Maria?

— Ve l’ho detto. — Una sorda stanchezza incominciava a impadronirsi di Shane, mentre la furia si spegneva. — Sono un traduttore. Faccio parte del gruppo speciale di traduttori umani di Lyt Ahn.

— Nessun umano sa parlare o capire veramente la lingua aalaag — disse in basco l’uomo con la pipa.

— Molti non ci riescono — rispose Shane, in basco. La stanchezza lo intontiva al punto che quasi non si accorgeva del cambiamento della lingua. — Vi dico che faccio parte di un gruppo speciale appartenente a Lyt Ahn.

— Che cosa? Cos’hai detto, Georges? — Peter stava girando lo sguardo dall’uno all’altro.

— Lui parla il basco — disse Georges, fissando Shane.

— Lo parla bene?

— Ecco… — Georges fece uno sforzo. — Lo parla… molto bene.

Peter si rivolse a Shane.

— Quante lingue parli?

— Quante? — ripeté stordito Shane. — Non lo so. Centocinquanta, duecento le parlo bene. Molte altre le parlo un po’…

— E parli l’aalaag come un alieno.

Shane rise.

— No — disse. — Lo parlo bene… per un umano.

— E giri il mondo come corriere… — Peter si rivolse a Maria e Georges. — State ascoltando?

Maria lo ignorò.

— Perché l’hai fatto? — chiese. — Perché hai cercato di salvarmi? — Lo guardava negli occhi.

Vi fu un nuovo silenzio.

— Yowaragh — disse Shane, cupamente.

— Che cosa?

— È una parola che usano loro — disse Shane. — Gli aalaag. Quando una bestia impazzisce improvvisamente e reagisce contro uno di loro. Fu così quella prima volta ad Aalborg, quando cedetti e misi il segno del pellegrino sul muro, sotto l’uomo che avevano gettato sui ganci per giustiziarlo.

— Non ti aspetterai che crediamo davvero che sei stato tu a inventare il simbolo della resistenza contro gli alieni.

— Vai all’inferno! — gli disse Shane in inglese.

— Cos’hai detto? — chiese prontamente Peter.

— Hai capito benissimo che cosa ho detto — ribatté Shane in tono rabbioso e sempre in inglese, con l’esatto accento della zona di Londra dov’era cresciuto l’altro. — Non m’importa se mi credi o no. Basta che la smetta di cercare di fingere che sai parlare italiano.

Un rossore cupo apparve sulle guance di Peter. Per un secondo i suoi occhi scintillarono. Shane l’aveva compreso alla perfezione. Era uno di quelli che riuscivano a imparare un’altra lingua abbastanza bene per illudersi… ma non la parlava come uno del posto. Shane l’aveva colpito in un punto vulnerabile.

Ma poi Peter rise, e il rossore e lo scintillio negli occhi scomparvero.

— Mi hai pescato, per Dio! Mi hai pescato! — disse in inglese. — Molto bene! Magnifico!

E non me lo perdonerai mai, pensò Shane, scrutandolo.

— Senti un po’… — Peter prese una sedia e la spinse avanti. — Siediti e parliamo. Dimmi, devi avere qualche credenziale che ti permette di passare liberamente attraverso le ispezioni e i controlli degli aalaag comuni, no?

— Ciò che porto — disse Shane, con improvvisa cautela, — rappresenta le mie credenziali. I dispacci del Primo Capitano della Terra permettono a un corriere di passare dovunque.

— Certo! — disse Peter. — Ora siediti…

Indicò a Shane la sedia; e Shane, che all’improvviso s’era accorto di avere le gambe stanchissime, vi si lasciò cadere. Sentì che l’altro gli metteva qualcosa fra le mani, e vide che era un bicchierino pieno per un terzo di un liquido marrone chiaro. Se l’accostò alle labbra: aveva odore di brandy… un brandy piuttosto scadente. Per qualche ragione misteriosa, questo lo rassicurò. Se avessero avuto intenzione di drogarlo, pensò, senza dubbio avrebbero messo la droga in un liquore un po’ più decente.

Il bruciore del brandy sulla lingua lo strappò allo stato d’animo in cui era piombato dal momento in cui era salito sul tassì e s’era accorto che l’avevano sequestrato. All’improvviso si rese conto che si era allontanato dalla minaccia insita nella cattura. All’inizio, quella gente aveva pensato semplicemente che fosse uno degli sciacalli umani degli aalaag. Adesso sembrava che si fossero accorti delle sue capacità e dei relativi vantaggi; e chiaramente Peter, almeno, pensava di sfruttarli nell’interesse del movimento della resistenza.

Ma la situazione era ancora incerta, e poteva evolversi in due modi molto diversi. Sarebbe stato sufficiente che commettesse una svista e, con le sue parole o le sue azioni, li inducesse a sospettare che rappresentava per loro un pericolo; e allora la decisione di eliminarlo si sarebbe riaffermata con forza raddoppiata.

Per il momento la cosa importante era che Peter, il quale sembrava l’elemento dominante del gruppo, pareva deciso a servirsi di lui. Dal canto suo, ora che aveva superato la disperata avventatezza iniziale, Shane si accorgeva che voleva vivere. Ma non voleva che si servissero di lui. Molto più chiaramente di tutti quelli che gli stavano intorno sapeva quanto fosse vano il loro sogno di resistere con successo agli aalaag, e sapeva quanto era inevitabile e atroce la fine alla quale erano destinati se si fossero ostinati a continuare.

Potevano scavarsi la tomba con le loro mani, se ci tenevano. Lui non voleva altro che uscire di là sano e salvo e, in futuro, stare alla larga da quella gente. Troppo tardi, ora che aveva risposto alle loro domande, si rese conto di aver dato loro un’arma di ricatto, dicendo il suo vero nome e la natura del lavoro che svolgeva per gli aalaag. Soprattutto, pensò, doveva conservare il segreto della Chiave di Lyt Ahn. Quelli si sarebbero venduti l’anima pur di avere qualcosa che poteva aprire tante porte degli alieni… le porte dei magazzeni, delle armerie, dell’equipaggiamento per le comunicazioni e i trasporti. E l’uso della Chiave da parte loro sarebbe stato il sistema più sicuro perché gli aalaag scoprissero i legami che avevano con lui. Si era reso troppo appetibile ai loro occhi, pensò rabbiosamente Shane. Era venuto il momento di disilluderli.

— Ho trenta minuti e non di più — disse, — per raggiungere l’aeroporto e presentarmi all’ufficiale aalaag che mi riaccompagnerà al Quartier Generale di Lyt Ahn. Se non arriverò in tempo, tutte le lingue che parlo non avranno più nessuna importanza.

Vi fu un silenzio. Shane vide che si scambiavano occhiate… in particolare Peter, Georges e Maria si stavano consultando con lo sguardo.

— Prendete la macchina — disse Maria in italiano, mentre Peter esitava ancora. — Portatelo all’aeroporto in tempo.

Peter si mosse immediatamente, come se le parole di Maria lo avessero svegliato dal sogno che lo teneva prigioniero. Si rivolse a Carlo.

— Prendi la macchina — disse. — Guida tu. Maria, tu verrai con me e Shane. Georges…

Parlò giusto in tempo per interrompere l’inizio d’una protesta dell’uomo con la pipa.

— … Voglio che chiuda questo posto. Definitivamente! Forse avremo bisogno di una sicurezza ben maggiore di quanto abbiamo avuto fino ad ora. Poi sparisci. Ti troveremo noi. Mi segui?

— Sta bene — disse Georges. — Non metteteci troppo a cercarmi.

— Un giorno o due. È tutto. Carlo… — Peter si guardò intorno.

— Carlo è andato a prendere la macchina — disse Maria. — Muoviamoci, Peter. Già così, ce la faremo appena ad arrivare all’aeroporto.

Shane li seguì lungo il corridoio dal quale era entrato. Incuneato sul sedile posteriore del tassì tra Maria e Peter, con Carlo al volante, all’improvviso provò uno strano senso di ridicolo, come se stessero recitando una folle farsa cinematografica.

— Dimmi un po’ — chiese Peter in inglese, nel tono più amichevole che avesse usato fino a quel momento, — come mai facesti quel primo segno in… dove hai detto che è stato?

— Danimarca — disse Shane, rispondendo in inglese. — La città di Aalborg. Ero andato a consegnare i messaggi e mentre tornavo indietro vidi due alieni, padre e figlio, sulle loro cavalcature, attraversare la piazza dove c’è la statua del toro Cymri…

Gli sembrava di rivedere tutto, mentre raccontava. Il figlio, con l’asta della lancia a energia, aveva spinto bruscamente a lato una donna che altrimenti sarebbe stata calpestata dalla cavalcatura. Il marito della donna, improvvisamente invasato dallo yowaragh, l’aveva aggredito a mani nude ed era finito privo di sensi. La donna aveva cercato di soccorrerlo ed era stata uccisa… e tutti gli umani presenti sulla piazza in quel momento erano stati costretti ad assistere, secondo la legge aalaag, mentre l’uomo ancora privo di sensi era stato gettato sulle punte acuminate del triplice gancio sul muro di una costruzione all’angolo della piazza.

Shane era rimasto lì, per tutta la mezz’ora che l’uomo ci aveva messo a morire, s’era fermato a poca distanza dai due aalaag in sella alla cavalcatura. E aveva sentito mentre il più anziano dei due, che non poteva sospettare d’essere a portata d’orecchio d’uno dei rari umani che capivano veramente l’aalaag, rimproverava gentilmente il figlio per l’errore di giudizio che aveva commesso cercando di evitare che la donna venisse calpestata. Per questo erano stati costretti a uccidere non una, ma due bestie sane, e a intraprendere un rituale di giustizia che per quanto necessario aveva un effetto perturbatore sugli altri animali.

Al ricordo, Shane si sentì agghiacciare lo stomaco per l’orrore, rivisse l’appressarsi della sua follia. Raccontò che era andato al bar, aveva bevuto lo schifoso liquore di contrabbando che secondo il barista era acquavite, ed era stato aggredito da tre vagabondi e ne aveva uccisi o feriti gravemente due con il bastone prima che il terzo si desse alla fuga. Non aveva avuto intenzione di raccontare tutto, movimento per movimento; ma inspiegabilmente, quando ebbe incominciato, non riuscì a trattenersi. Raccontò che, quando aveva riattraversato la piazza ormai vuota, d’impulso aveva inciso il segno del pellegrino sotto il corpo sui ganci, prima di tornare all’aeroporto.

— Ti credo — disse Peter.

Shane non disse nulla. Stretti com’erano, sentiva il contatto della coscia morbida di Maria, premuta contro la sua; e anche il tepore di lei sembrava pervaderlo, e dissolvere il gelo che aveva dentro come se si fosse sperduto in una tormenta e adesso ritrovasse vita e calore grazie alla temperatura corporea di un altro essere umano.

Provava un improvviso, disperato desiderio per Maria come donna. Gli aalaag incoraggiavano gli animali a riprodursi, soprattutto quelli preziosi come gli speciali corrieri-traduttori di Lyt Ahn; ma quando si viveva di continuo sotto gli occhi degli alieni, come Shane e gli altri, sopravveniva la paranoia. Conoscevano tutti troppo bene gli innumerevoli modi che potevano portarli all’eliminazione per mano dei padroni; e quando avevano terminato i loro compiti, l’istinto suggeriva di separarsi, di rifugiarsi soli nei loro letti e chiudere le porte, per timore che lo stretto contatto con un altro potesse mettere in pericolo la loro sopravvivenza.

E comunque, Shane non voleva pensare a riprodursi. Voleva l’amore… almeno per un momento; e l’amore era l’unica cosa che i servitori umani ben pagati del Primo Capitano della Terra non potevano permettersi. All’improvviso, il tepore di Maria lo attraeva come un sogno di pace…

Si strappò ai suoi pensieri. Peter lo fissava incuriosito. Che cosa aveva detto? Che gli credeva?

— Chiedi a qualcuno di informarsi ad Aalborg per sapere come andarono le cose. Il segno che feci io forse c’è ancora, se gli aalaag non l’hanno cancellato.

— Non è necessario — disse Peter. — Il tuo racconto spiega come mai il segno si è diffuso nel mondo in quel modo. Ci voleva qualcuno che possa muoversi liberamente come te per fare in modo che venisse conosciuto dovunque come simbolo della resistenza. Ho sempre pensato che doveva esserci qualcuno, all’origine della leggenda.

Shane lasciò passare la prima parte del commento di Peter, senza rispondere. Ovviamente Peter non capiva ciò che Shane aveva imparato nei suoi viaggi… la rapidità con cui una diceria, una voce poteva spargersi in una popolazione assoggettata. Shane era stato presente all’origine delle voci a Parigi, che poi aveva sentito ripetere proprio lì a Milano meno di una settimana più tardi. E Peter sembrava convinto che fosse stato lui a continuare a diffondere il segno per il mondo: e forse era meglio non correggerlo.

— Ma credo che dovresti renderti conto di una cosa — disse Peter, appoggiandosi contro di lui per un secondo mentre Carlo affrontava una curva a tutta velocità. — È ora di fare qualcosa di più che accontentarti d’essere una leggenda, di creare un’organizzazione con finalità pratiche di resistenza contro gli alieni, per preparare il giorno in cui potremo sterminarli tutti o scacciarli dalla Terra.

Shane lo guardò di sottecchi. Era incredibile che quell’uomo potesse dire cose simili in tutta serietà. Ma naturalmente Peter non aveva visto da vicino la potenza degli aalaag come l’aveva vista lui. Era come se i topi avessero sognato di sterminare i leoni o di metterli in fuga. Stava per dirglielo, brutalmente, quando l’istinto di sopravvivenza gli suggerì di continuare ad essere prudente. Evitando una risposta diretta, cambiò argomento.

— È la seconda volta che hai parlato d’una leggenda — disse. — Quale?

— Non lo sai? — C’era una nota di trionfo nella voce di Peter, ma non diede spiegazioni.

— Dicono che tutti i segni sono tracciati da una stessa persona — disse Maria. Anche lei parlava inglese, adesso, con una vaga traccia di accento veneziano. — Da qualcuno che viene chiamato il Pellegrino, e che può andare e venire senza che gli aalaag riescano a impedirlo o a catturarlo.

— E tutti voi avete aiutato il Pellegrino, è così? — chiese Shane alzando la voce.

— Il fatto è — l’interruppe Peter, — che adesso il Pellegrino dev’essere associato a una organizzazione solida. Non lo pensi anche tu?

Shane si sentì riassalire dalla stanchezza che l’aveva preso nel momento in cui l’avevano sequestrato.

— Se riuscite a trovare il vostro Pellegrino, chiedetelo a lui — rispose. — Non sono io, e non ho opinioni in proposito.

Peter lo fissò per un momento.

— Che tu sia o no il Pellegrino non c’entra — disse. — L’importante è che puoi aiutarci e che noi abbiamo bisogno di te. Il mondo ha bisogno di te. Da quello che ci hai detto, è evidente che potresti essere prezioso già soltanto fungendo da collegamento tra i gruppi della resistenza.

Shane rise, tristemente.

— Neppure per sogno — disse.

— Non vuoi neppure pensarci — disse Peter. — Come mai sei tanto sicuro di non volerlo fare?

— Ho cercato di spiegarvelo dal momento in cui mi avete sequestrato — disse Shane. — E non vuoi ascoltare. Tu non conosci gli aalaag. Io sì. Siccome non li conosci, puoi illuderti che la vostra resistenza abbia qualche possibilità. Io so che non è cosi. Da millenni continuano a impadronirsi di mondi come questi e ad asservire le popolazioni indigene. Credevi che questo fosse il primo pianeta dove hanno provato il loro sistema? Non potete trovare un mezzo per attaccarli che loro non abbiano già visto e che non sappiano sventare. Ma anche se riusciste a trovare qualcosa di nuovo, non potreste vincere.

— Perché no? — chiese Peter, accostando la testa.

— Perché sono esattamente ciò che dicono di essere… conquistatori nati che non possono venir dominati o sconfitti. Non puoi torturare un aalaag e strappargli informazioni. Non puoi puntare un’arma contro uno di loro e costringerlo a indietreggiare o ad arrendersi. Tutto ciò che puoi fare è ucciderli… se hai fortuna. Ma hanno una tale potenza, una potenza militare talmente enorme, che funzionerebbe solo se li sterminaste tutti nello stesso momento. Se uno solo sfuggisse e fosse sull’avviso, avreste perso.

— Perché?

— Perché con un minimo di preavviso, chiunque di loro potrebbe rendersi invulnerabile e poi prendersi tutto il tempo necessario per spazzar via intere città e regioni della terra, una ad una, fino a quando gli altri umani rimasti consegnerebbero all’aalaag su un piatto d’argento voi e tutti quelli che hanno combattuto, pur di fare cessare lo sterminio.

— E a che servirebbe all’aalaag superstite — chiese Peter, — se fosse l’ultimo rimasto sulla Terra?

— Non crederai che tutti gli aalaag dell’universo siano qui, vero? — disse Shane. — La terra, con un unico aalaag rimasto vivo, rappresenterebbe soltanto un nuovo spazio vitale per la popolazione aalaag in soprannumero altrove. Entro un anno o anche meno avreste qui tanti aalaag quanti ce n’erano prima; e gli unici risultati sarebbero gli umani morti, le aree distrutte, e il fatto che allora gli aalaag creerebbero un sistema di controllo ancora più rigoroso per assicurarsi che non vi siano altre interruzioni in futuro.

Vi fu un silenzio. Carlo affrontò un’altra curva a tutta velocità e Shane vide sulla strada il cartello che annunciava che mancava appena un chilometro all’aeroporto. Il tepore del corpo di Maria lo pervadeva e sentiva l’odore aspro e pulito del sapone con il quale doveva essersi lavata i capelli quella mattina.

— Allora non alzerai un dito per aiutarci? — chiese Peter.

— No — disse Shane.

Carlo svoltò sulla rampa che immetteva sulla strada dell’aeroporto.

— Nessuno è disposto a far niente? — scattò all’improvviso Maria. — Nessuno? Nessuno?

Una gelida scossa elettrica squassò Shane. Era come se una spada l’avesse trapassato. Affondava fino alle radici dell’istinto, fino agli antichi riflessi sessuali e razziali da cui scaturiva lo yowaragh. Le parole non erano nulla, il grido era tutto.

Per un momento rimase in silenzio, stordito.

— Sta bene — disse. — Lasciate che ci pensi, allora.

Sentì la propria voce lontana, remota.

— Non concluderete mai nulla, così come avete agito finore — disse. — Sbagliate tutto perché non capite gli aalaag. Io li capisco. Forse potrei dirvi che cosa fare… ma dovreste lasciare che sia io a dirvelo, e non cercare semplicemente di frugarmi nella mente, altrimenti non funzionerà. Siete disposti ad accettare? Se no, è inutile.

— Sì! — disse Maria.

Un altro breve silenzio.

— D’accordo — disse Peter. Shane si voltò a guardarlo.

— Altrimenti sarà inutile.

— Siamo disposti a tutto, pur di colpire gli aalaag — disse Peter, e questa volta la risposta fu immediata.

— Bene — disse Shane, stancamente. — Dovrò pensarci, comunque. Come posso mettermi in contatto con voi?

— Potremo trovarti noi, se sapremo in che città andrai quando viaggerai — disse Peter. — Pubblicheremo un annuncio convenzionale sul giornale locale prima che tu arrivi…

— Non ho mai un preavviso così lungo — disse Shane. — Ma potrei entrare in un negozio nel centro di una città, appena arrivo, e comprare una veste da pellegrino, grigia come quella che porto adesso… e pagarla in monete aalaag d’oro e d’argento. Potrete chiedere ai negozianti di informarvi. E se la descrizione corrisponde, tenete d’occhio il quartier generale locale degli aalaag, e prelevatemi mentre entro o esco.

— D’accordo — disse Peter.

— Un’altra cosa — disse Shane. Erano quasi arrivati all’aerostazione. Guardò Peter negli occhi. — Ho visto gli aalaag interrogare gli umani e so quello che dico. Se sospetteranno di me, mi interrogheranno. Se mi interrogheranno, scopriranno tutto quello che so. Dovete rendervene conto. Se tutti gli altri sistemi non servono, hanno droghe che ti inducono a parlare e a parlare fino alla morte. Non amano servirsene perché nel frattempo non sono efficienti: sono costretti ad ascoltare ore di chiacchiere prive di senso prima di ottenere le risposte che vogliono. Ma quando è necessario le usano. Capite? Se interrogano qualcuno, quello gli dice tutto. Non io soltanto… chiunque. È una delle cose di cui dovrete tener conto.

— D’accordo — disse Peter.

— Il che significa che, per quanto mi riguarda, non voglio che nessuno sappia della mia esistenza, a parte quelli che lo sanno già.

Fissò Peter negli occhi, lanciò un’occhiata significativa a Carlo e tornò a guardare Peter.

— E quelli che non dovranno più avere a che fare con me in futuro, ammesso che decida di avere qualcosa a che fare con voi, devono credere che adesso scenderò da questa macchina e che nessuno di voi mi rivedrà più.

— Capisco — disse Peter. Annuì. — Non preoccuparti.

Shane rise seccamente.

— Io mi preoccupo sempre — disse. — Sarei un pazzo se non lo facessi. Sono preoccupato per me stesso, in questo momento. Dovrei andare da uno psichiatra già solo perché ho accettato di pensare alle vostre richieste.

Il tassì si fermò accanto al lungo marciapiedi di cemento davanti all’aerostazione. Peter, che era dalla parte del marciapiedi, apri la portiera e scese per lasciar smontare Shane. Shane fece per seguirlo, esitò e per un istante si voltò verso Maria.

— Ci penserò — disse. — Farò tutto ciò che posso, meglio che posso.

Nella penombra del tassì, il viso di Maria era indecifrabile. Gli tese la mano. Shane la prese, la strinse per un secondo. Lei aveva le dita gelide com’era stata l’aria di Milano, quella mattina.

— Ci penserò — ripeté Shane, le strinse di nuovo la mano e scese. Sul marciapiedi si fermò per un secondo di fronte a Peter.

— Se non avrete mie notizie entro sei mesi, dimenticatemi — disse.

Peter socchiuse le labbra. Sembrò sul punto di dire qualcosa, poi richiuse la bocca.

Annuì.

Shane gli voltò le spalle ed entrò in fretta nell’aerostazione. Subito oltre la porta vide un poliziotto aeroportuale e si avvicinò; estrasse la Chiave dalla borsa e la mostrò nel palmo della mano.

— Questa è la Chiave di Lyt Ahn, Primo Capitano della Terra — disse frettolosamente in italiano. — Io sono uno dei suoi corrieri speciali, e ho bisogno d’un mezzo di trasporto per raggiungere la sezione riservata ai Padroni. Subito. Subito! È un’emergenza. Ma senza attirare l’attenzione.

L’agente scattò, si sganciò il telefono dalla cintura e cominciò a parlare. In meno di trenta secondi, un’auto elettrica arrivò tra la folla, planando sul cuscino d’aria. Shane saltò a bordo dietro l’autista e consultò l’orologio.

— Agli hangar degli aerei militari piccoli — disse. Esitò, poi decise: — Innesti la sirena.

L’autista innestò la sirena, la folla si aprì mentre girava l’auto e avanzava. Scivolarono sul pavimento lucido, uscirono da un passaggio per veicoli accanto all’ingresso della pista.

L’auto si sollevò più in alto sul cuscino d’aria e procedette più veloce. Fiancheggiarono due lati dell’aeroporto e si avvicinarono agli hangar argentei ben sorvegliati dove stavano i mezzi militari atmosferici degli aalaag. Rallentarono al cancello del recinto. Shane mostrò la chiave e spiegò la ragione della sua presenza alla Guardia Speciale umana in servizio.

— Siamo stati avvertiti del suo arrivo — disse la guardia. — Hangar Tre. L’aereo corriere è pilotato dal Padrone Enech Ajin, del trentacinquesimo rango.

Shane annuì e l’autista dell’auto elettrica, che aveva sentito, ripartì senza bisogno d’altri ordini.

Nell’hangar, la sagoma agile a manubrio dell’aereo corriere sembrava minuscola accanto ai grandi caccia degli aalaag che lo fiancheggiavano. Eppure, Shane lo sapeva, anche quegli aerei così grandi erano piccoli in confronto ai mezzi da combattimento dei Padroni. Quelli non toccavano mai la superficie, e restavano continuamente in orbita, pronti a entrare in azione… un po’ per ragioni di principio, e un po’ perché sulla Terra non esistevano aeroporti o spazioporti dove potessero posarsi senza causare danni gravissimi.

Balzò dall’auto che si era fermata accanto al portello dell’aereo corriere, salì in fretta la scaletta ed entrò. Non c’era molto spazio, all’interno: anche quel mezzo, destinato al trasporto dei dispacci, era armato in modo massiccio.

La schiena enorme di un aalaag torreggiava sopra uno dei tre sedili davanti ai comandi, a prua. Shane si avvicinò, si fermò dietro il sedile e attese. Non soltanto era il suo dovere, ma era tutto ciò che era necessario, anche se il pilota non l’aveva sentito arrivare. A quella distanza ridotta, sentiva nettamente il tipico odore dell’aalaag, e senza dubbio anche il pilota sentiva il suo. Dopo un momento, infatti, il pilota parlò.

— Vai a sederti là indietro, bestia. — Era la voce di una femmina aalaag. — Devo fare altre due fermate prima di portarti all’area del Primo Capitano.

Shane tornò indietro e sedette. Dopo un paio di minuti, l’aereo corriere si sollevò a circa tre metri dal pavimento dell’hangar, poi uscì nell’ultima luce del giorno, virò e andò a posarsi su una rampa di lancio. Si fermò e Shane espirò l’aria dai polmoni e appoggiò le braccia negli incavi dei braccioli.

Per un secondo non vi furono suoni né movimento. Poi venne qualcosa di simile a uno scrocio di tuono, un peso immane lo schiacciò sul sedile inchiodandolo per un lungo momento… quindi un senso di libertà e di leggerezza, e Shane ebbe l’impressione di potersi sollevare fluttuando dal sedile. Era un’impressione esagerata. Era ancora sotto l’effetto della gravità: ma il contrasto con la pressione del decollo creava l’illusione della leggerezza.

Guardò lo schermo sullo schienale del sedile davanti a lui e vide la superficie della Terra sottostante, l’orizzonte curvo, la screziatura delle nubi. Niente altro. Il viso impenetrabile di Maria riaffiorò nella sua immaginazione con estrema nitidezza, come se aleggiasse nell’aria davanti a lui. Sentiva il contatto delle dita fredde contro le sue, e la voce che riecheggiava nella memoria:

— Nessuno è disposto a far niente? Nessuno? Nessuno?

Erano tutti pazzi. Shane rabbrividì. Aveva fatto bene a stare al gioco e a fingere di prendere in considerazione la proposta di associarsi alla loro ridicola resistenza, che poteva condurre soltanto alla tortura e alla morte per mano degli aalaag. Non avevano nessuna speranza. Nessuna. Se avesse preso seriamente in considerazione la possibilità di unirsi a loro, sarebbe stato altrettanto pazzo.

Il cuore gli martellava nel petto. Il contatto freddo delle dita di Maria sulle sue dita sembrava dilagargli nelle braccia, in tutto il suo essere. No, era inutile. Non importava nulla, anche se erano pazzi.

Non aveva scelta. Qualcosa, dentro di lui, non gli lasciava scelta, benché sapesse che cosa significava. L’avrebbe fatto, anche se sapeva che alla fine l’avrebbe portato alla morte. Li avrebbe cercati di nuovo e sarebbe tornato. Per unirsi a loro.

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