Andre Norton Il mondo delle streghe

PARTE PRIMA l’avventura di Forte Sulcar

Capitolo primo Il seggio periglioso

La pioggia era una cortina obliqua attraverso la viuzza squallida, e lavava la fuliggine dai muri della città, lasciandone il sapore metallico sulle labbra dell’uomo alto e magro che procedeva a grandi passi rasente agli edifici, scrutando le imboccature dei portoni, i varchi dei vicoli, ad occhi socchiusi, intento.

Simon Tregarth aveva lasciato la stazione ferroviaria due… oppure tre ore prima? Non aveva più motivo di seguire il trascorrere del tempo. Aveva smesso di avere un significato, e lui non aveva destinazione. Come gli individui braccati, i fuggiaschi… no, lui non si stava nascondendo. Camminava allo scoperto, vigile, pronto, con le spalle diritte, la testa eretta come sempre.

In quei primi giorni convulsi, quando aveva ancora un filo di speranza, quando aveva sfruttato ogni astuzia animale, ogni trucco che aveva imparato, quando aveva seguito percorsi tortuosi ed aveva confuso le proprie tracce… allora si era lasciato ossessionare dalle ore e dai minuti, allora era fuggito. Ma adesso camminava, ed avrebbe continuato a camminare fino a quando la morte, in agguato dentro uno di quei portoni, acquattata in qualche vicolo, lo avrebbe fronteggiato. E in quel caso, sarebbe caduto usando le zanne. La sua mano destra, sprofondata nella tasca infradiciata della giacca, accarezzava quelle zanne… un’arma levigata e mortale, che si adattava perfettamente al suo palmo, quasi facesse parte del suo corpo magnificamente addestrato.

Le luci al neon, rosse e gialle, tracciavano disegni inquieti sul marciapiedi reso lucido dall’acqua; la sua conoscenza di quella città era incentrata su un paio di alberghi situati al centro, alcuni ristoranti, qualche emporio, tutto quello che un viaggiatore poteva imparare a conoscere nel corso di due visite separate da una dozzina d’anni. E lui era ossessionato dall’impulso di restare allo scoperto, perché era convinto che la caccia avrebbe avuto termine quella notte o la mattina seguente.

Simon si sentiva stanco. La mancanza di sonno, la necessità di stare continuamente in guardia… Rallentò il passo davanti ad un portone illuminato, lesse la scritta sul tendone afflosciato dalla pioggia. Un portiere aprì l’uscio, e l’uomo sotto la pioggia accettò quell’invito tacito, entrando nel tepore e nell’odore fragrante dei cibi.

Il maltempo doveva aver scoraggiato i clienti. Forse fu per quello che il capocameriere l’accolse con tanta premura. O forse il taglio del suo abito, ancora presentabile, protetto dal soprabito che Simon si affrettò a togliersi, la sua arroganza vaga ma inequivocabile — il marchio tipico di un uomo che aveva comandato i suoi simili ed era stato obbedito prontamente — gli assicurarono quel tavolo ben situato e l’attenzione del cameriere.

Simon sorrise ironicamente, mentre scorreva il menù: e in quel sorriso c’era una sfumatura di autentica gaiezza. Il condannato avrebbe comunque mangiato di buon appetito. La sua immagine, riflessa e distorta dal fianco curvilineo della zuccheriera levigata, gli rimandò quel sorriso. Un volto lungo, disegnato finemente, con minuscole grinze agli angoli degli occhi, e linee più profonde incise intorno alle labbra: un viso bruno, segnato, e tuttavia senza età. Così era stato a venticinque anni, così avrebbe continuato ad essere fino a sessanta.

Tregarth mangiò lentamente, assaporando ogni boccone, mentre il tepore piacevole della sala e del vino meticolosamente scelto gli distendeva i muscoli, se non la mente ed i nervi. Ma quella distensione non alimentava un falso coraggio. Era la fine, lo sapeva… ed era arrivato ad accettarla.

«Mi scusi…»

La forchetta che Tregarth aveva sollevato, con il pezzetto di carne infilato sulle punte, non indugiò davanti alle sue labbra. Ma nonostante il ferreo autocontrollo di Simon, un muscolo fremette nella palpebra inferiore. Masticò, poi rispose, con voce normale.

«Sì?»

L’uomo che attendeva educatamente accanto alla sua tavola poteva essere un agente di cambio, il legale di una grande azienda, un medico. Aveva un’aria professionale, fatta apposta per ispirare fiducia nei suoi simili. Ma non era colui che Simon si aspettava: era troppo rispettabile, troppo cortese e corretto per essere… la morte! Anche se l’organizzazione aveva molti servitori in campi molto diversi.

«Il colonnello Simon Tregarth, immagino?»

Simon spezzò un panino e l’imburrò. «Simon Tregarth, ma non ’Colonnello’,» corresse; poi, aggiunse, ricambiando il colpo: «Come lei sa benissimo.»

L’altro si mostrò un po’ sorpreso, e poi sorrise, con quel sorriso impeccabile, suadente, professionale.

«Mi scusi, Tregarth. Ma mi permetta di precisarlo subito… io non faccio parte dell’organizzazione. Sono invece — se lei lo vuole, naturalmente — un suo amico. Mi consenta di presentarmi. Sono il dottor Jorge Petronius. Al suo servizio, posso aggiungere.»

Simon sbatté le palpebre. Aveva creduto che quel po’ di futuro che ancora gli restava avesse dimensioni precise; ma non aveva previsto quell’incontro. Per la prima volta, dopo tanti giorni di amarezza, sentì nel profondo del suo intimo un fremito di qualcosa che somigliava vagamente alla speranza.

Non pensò di mettere in dubbio l’identità dell’ometto che l’osservava attentamente dietro le lenti stranamente spesse, inquadrate da una montatura di plastica nera così pesante da apparire come una mascherina, di quelle usate nel diciottesimo secolo per camuffarsi. Il dottor Jorge Petronius era conosciuto molto bene nell’ambiente in cui Tregarth era vissuto per molti anni violenti. Se «scottavi», e se avevi la fortuna di essere ben provvisto di danaro, ti rivolgevi a Petronius. Coloro che lo facevano non venivano più ritrovati, né dalle forze dell’ordine, né dalla vendetta dei loro simili.

«Sammy è in città,» continuò quella voce meticolosa, segnata da un leggero accento.

Simon sorseggiò il suo vino. «Sammy?» Si adeguò al tono distaccato dell’altro. «Mi sento lusingato.»

«Oh, lei ha una notevole reputazione, Tregarth. Per lei, l’organizzazione ha sguinzagliato i migliori segugi. Ma dopo il modo efficiente con cui ha sistemato Kotchev e Lampson, restava solo Sammy. Tuttavia, è di stoffa un po’ diversa dagli altri. E lei, se mi perdona di essermi intrufolato nelle sue faccende personali, è in fuga da diverso tempo. È una situazione che non serve esattamente a rafforzare un individuo.»

Simon rise. Si stava godendo il vitto eccellente ed il buon vino, e persino le oblique punzecchiature del dottor Jorge Petronius. Ma non abbassò la guardia.

«Quindi, avrei bisogno di rafforzarmi? Ebbene, dottore, che rimedio mi propone?»

«C’è… il mio.»

Simon posò il bicchier di vino. Una goccia rossa colò lungo lo stelo e venne assorbita dalla tovaglia.

«Mi hanno detto che i suoi servigi costano cari, Petronius.»

L’ometto scrollò le spalle. «Naturalmente. Ma in cambio posso assicurarle la sicurezza totale. Quelli che si fidano di me ricevono un’assistenza che vale i dollari spesi. Non ho mai ricevuto reclami.»

«Purtroppo io non posso permettermi i suoi servigi.»

«Le sue attività recenti hanno eroso fino a tal punto le sue riserve in contanti? Ma certo. Tuttavia, lei è partito da San Pedro con ventimila dollari. Non può aver dato fondo completamente ad una simile somma, in questo breve tempo. E se incontrasse Sammy, ciò che resta verrebbe restituito a Hanson.»

Simon strinse le labbra. Per un istante assunse un’espressione che rispecchiava la sua pericolosità, la stessa che avrebbe veduto Sammy se si fossero incontrati faccia a faccia.

«Perché mi ha cercato… e come ha fatto?» chiese.

«Perché?» Petronius scrollò di nuovo le spalle. «Lo capirà più tardi. A modo mio sono uno scienziato, un esploratore, uno sperimentatore. Come ho fatto a sapere che era in città ed aveva bisogno dei miei servigi…? Tregarth, lei ormai dovrebbe sapere come si diffondono le voci. È un uomo segnato, e pericoloso. I suoi andirivieni vengono notati. È un peccato per lei che sia onesto.»

Simon strinse a pugno la destra. «Dopo le mie attività di questi ultimi sette anni, mi chiama onesto?»

Questa volta fu Petronius a ridere: una risatina che sembrava volere invitare l’altro ad apprezzare l’ironia della situazione. «Ma qualche volta l’onestà ha ben poco a che vedere con l’opinione della legge, Tregarth. Se lei non fosse stato un uomo essenzialmente onesto, se non avesse avuto i suoi ideali… non si sarebbe mai opposto a Hanson. È appunto perché lei è ciò che è, io la ritengo maturo per… Vogliamo andare?»

Simon pagò il conto e seguì il dottor Jorge Petronius, quasi senza rendersene conto. Accanto al marciapiedi attendeva una macchina, ma il dottore non rivolse la parola all’autista, quando si avviarono nella notte e nella pioggia.

«Simon Tregarth.» La voce di Petronius, adesso, era impersonale, come se recitasse dati importanti esclusivamente per lui. «Discendente da una famiglia della Cornovaglia. Arruolato nell’Esercito degli Stati Uniti il dieci marzo 1939. Promosso sul campo da sergente a tenente, e poi salito fino al grado di tenente-colonnello. Ha prestato servizio nelle forze d’occupazione fino a quando è stato privato del suo grado e arrestato per… Per cosa, colonnello? Ah, sì, per flagrante attività di mercato nero. Purtroppo il valoroso colonnello si accorse solo troppo tardi di essere stato visto mentre commetteva il reato. Fu questo, no, Tregarth, ad indurla a passare dall’altra parte della barricata? Poiché le avevano affibbiato quella qualifica, pensò che tanto valeva giocare quel gioco.

«Dopo Berlino, si è dedicato a diversi affari discutibili, fino a quando ha commesso l’imprudenza di infastidire Hanson. Un altro affare in cui si è trovato spinto a sua insaputa? Lei mi sembra un uomo sfortunato, Tregarth. Speriamo che questa notte la sua sorte cambi.»

«Dove stiamo andando… al porto?»

Udì ancora una volta la stessa risata soddisfatta. «Siamo diretti verso il centro, ma non al porto. I miei clienti viaggiano, ma non per mare, aria o terra. Che cosa sa delle tradizioni della sua patria d’origine, colonnello?»

«Matacham, in Pennsylvania, non ha tradizioni di cui…»

«Non mi riferisco ad una rozza cittadina mineraria di questo continente. Sto parlando della Cornovaglia, che è più antica del tempo… del nostro tempo.»

«I miei nonni venivano dalla Cornovaglia. Ma non so altro.»

«La sua famiglia era di sangue puro, e la Cornovaglia è antica, antichissima. Nelle leggende, è associata al Galles. Vi era nato re Artù, ed i romani ed i britanni si rifugiarono entro i suoi confini, quando le asce dei sassoni li spedirono al limbo. Prima dei romani vi furono altri: molti, molti altri, alcuni dei quali possedevano strane conoscenze. Lei mi renderà felice, Tregarth.» Vi fu una pausa, come per dargli il tempo di fare qualche commento: ma quando Simon non rispose, Petronius continuò.

«Sto per farle conoscere una delle tradizioni della sua terra d’origine, colonnello. Un esperimento molto interessante. Ah, eccoci arrivati.»

La macchina s’era arrestata davanti ad un vicolo buio. Petronius aprì la portiera.

«È l’unica lacuna della mia sede, Tregarth. Il vicolo è troppo stretto perché la macchina possa passare; dobbiamo andare a piedi.»

Per un momento Simon fissò l’imboccatura nera del vicolo, chiedendosi se il dottore l’aveva condotto al macello. Sammy lo stava aspettando lì? Ma Petronius aveva acceso una lampada tascabile e ne agitava il raggio, come in un cenno d’invito.

«Solo un paio di metri, le assicuro. Mi segua.»

Il vicolo era corto: uscirono in uno spiazzo vuoto tra gli edifici torreggianti. Rannicchiata in una depressione circondata da quei colossi, stava una casetta.

«Come vede, è un anacronismo, Tregarth.» Il dottore infilò una chiave nella serratura della porta. «Questa è una fattoria del tardo secolo decimosettimo nel cuore di una città del ventesimo secolo. Poiché i suoi titoli di proprietà sono in dubbio, continua ad esistere, come uno spettro molto concreto del passato rimasto ad infestare il presente. Entri, la prego.»

Più tardi, mentre si asciugava davanti al caminetto, tenendo in mano il bicchiere offertogli dal suo ospite, Simon pensò che era veramente esatto parlare di casa fantasma. Sarebbero bastati un cappellone a cono sulla testa del dottore ed una spada al suo fianco per completare l’illusione di essere passato da un’epoca all’altra.

«E da qui, dove andrò?» chiese.

Petronius smosse il fuoco con un attizzatoio. «Lei se ne andrà all’alba, colonnello, libero e sicuro, come le ho promesso. In quanto alla destinazione,» fece sorridendo, «vedremo.»

«Perché attendere fino all’alba?»

Come se fosse costretto a dire più di quanto desiderava, Petronius posò l’attizzatoio e si pulì le mani con un fazzoletto, prima di fronteggiare il suo cliente.

«Perché solo all’alba si apre la sua porta… la porta adatta a lei. È una cosa di cui forse riderà, Tregarth, fino a quando vedrà la prova con i suoi occhi. Cosa ne sa dei menhir?»

Simon si sentì assurdamente soddisfatto di poter dare una risposta che l’altro, era chiaro, non si attendeva.

«Erano pietre… erette in cerchi dagli uomini della preistoria… Stonehenge.»

«Erette in cerchi, qualche volta. Ma avevano anche altri usi.» Petronius, adesso, era animato da un’agitazione che non cercava di nascondere, e mirava a suscitare l’attenzione dell’ascoltatore. «Nelle antiche leggende, si parla di certe pietre dotate di un grande potere. La Lia Fail dei Tuatha De Danann, in Irlanda. Quando il legittimo re vi posava sopra i piedi, gridava a voce alta in suo onore. Era la pietra dell’incoronazione di quella razza, uno dei suoi tre grandi tesori. E ancora oggi, i re d’Inghilterra non tengono ancora sotto il trono la Pietra di Scone?

«Ma in Cornovaglia vi era un’altra pietra del potere… il Seggio Periglioso. Si diceva che fosse in grado di giudicare un uomo, di misurarne il valore, e di mandarlo al suo fato. Si diceva che Artù ne avesse scoperto le facoltà grazie al Veggente Merlino, e l’avesse incluso tra i seggi della Tavola Rotonda. Sei dei suoi cavalieri provarono a sedervisi… e scomparvero. Poi ne vennero due che conoscevano il suo segreto e rimasero: Percival e Galahad.»

«Mi stia a sentire,» Simon era amaramente deluso, tanto più che quasi aveva osato riprendere a sperare. Petronius era pazzo, e non c’era scampo, dopotutto. «Artù e la Tavola Rotonda… una favola per bambini. Lei parla come se…»

«Come se fosse storia autentica?» l’interruppe Petronius. «Ah, ma chi può dire che cos’è storico e che cosa non lo è? Ogni parola del passato che giunge fino a noi è colorata ed influenzata dalla cultura, dai pregiudizi, persino dalle condizioni fisiche dello storico che la tramanda alle future generazioni. La tradizione genera la storia: e cos’è la tradizione se non orale? Lei stesso ha visto cambiare tutta la sua vita a causa di una testimonianza menzognera. Tuttavia, quella testimonianza è stata inserita nella documentazione, e adesso è diventata storia, per quanto falsa. Come si può affermare che questa storia sia leggendaria e che quell’altra sia autentica, e come se ne può avere la certezza? La storia viene fatta e registrata da esseri umani, ed è piena di tutti gli errori cui va soggetta la nostra specie. Vi sono frammenti di verità nella leggenda, e molte menzogne nella storia accettata. Lo so bene… perché il Seggio Periglioso esiste!

«Vi sono teorie della storia estranee a quelle convenzionali, che apprendiamo da bambini. Ha mai sentito parlare dei mondi alternati che possono derivare da decisioni fatidiche? In uno di questi mondi, colonnello Tregarth, forse lei non girò gli occhi dall’altra parte, quella notte a Berlino. In un altro, lei non mi ha incontrato un’ora fa, ed ha proseguito verso l’incontro con Sammy!»

Il dottore si dondolò sui tacchi, come se fosse agitato dalla forza delle sue parole e della sua fede. E nonostante tutto, Simon si sentì contagiare un po’ da quell’ardente entusiasmo.

«E quale di queste teorie ha intenzione di applicare al mio problema?»

Petronius rise: era di nuovo a suo agio. «Abbia la pazienza di ascoltarmi fino in fondo, senza mettersi in mente che si trova di fronte a un pazzo, e le spiegherò.» Deviò lo sguardo dall’orologio che portava al polso a quello che si trovava appeso alla parete dietro di lui. «Ci resta ancora qualche ora. Dunque, ecco di che si tratta…»

Mentre l’ometto cominciava a dire cose che apparivano assurde, Simon ascoltava obbediente. Il tepore, il liquore, la possibilità di riposare bastavano a ripagarlo. Forse più tardi avrebbe dovuto affrontare Sammy: ma scacciò dalla mente quella possibilità, concentrandosi su quanto stava dicendo Petronius.

Il vecchio orologio suonò dolcemente le ore per tre volte, prima che il dottore avesse finito. Tregarth sospirò: forse era stato ridotto alla condiscendenza solo da quel torrente di parole, ma se era vero… E poi, c’era la reputazione di Petronius. Simon si sbottonò la camicia, e tirò fuori la cintura in cui portava il danaro.

«So che non si è più sentito parlare di Sacarsi e di Wolverstein, da quando si sono messi in contatto con lei,» ammise.

«No, perché se ne sono andati attraverso le loro porte: hanno trovato i mondi cui avevano sempre aspirato, inconsciamente. È come le ho detto. Basta che qualcuno sieda sul Seggio Periglioso, perché davanti a lui si schiuda l’esistenza in cui si troverà perfettamente a suo agio il suo spirito, la sua mente… la sua anima, se preferisce chiamarla così. E va a cercarvi la fortuna.»

«Perché non ha provato anche lei?» Per Simon, quello era il punto debole del racconto. Se Petronius possedeva la chiave di quella porta, perché non se ne era servito lui stesso?

«Perché?» Il dottore abbassò lo sguardo sulle mani grassocce che aveva posato sulle ginocchia. «Perché è impossibile ritornare… e solo un uomo disperato sceglie un futuro irrevocabile. In questo mondo, ci aggrappiamo sempre alla convinzione di poter dominare la nostra vita, prendere decisioni. Ma tramite il Seggio Periglioso, cominciamo una scelta irrevocabile. Sto usando molte parole, ma so che non riesco a sceglierle esattamente per esprimere ciò che provo. Vi sono stati molti Guardiani del Seggio… e solo pochissimi l’hanno usato personalmente. Forse un giorno… Ma per ora non ne ho il coraggio.»

«Quindi vende i suoi servigi agli individui braccati? Be’, è un modo come un altro per guadagnarsi da vivere. L’elenco dei suoi clienti dovrebbe essere una lettura interessante.»

«Infatti! Molti uomini famosi hanno fatto ricorso al mio aiuto. Soprattutto alla fine della guerra. Forse non mi crederebbe, se le rivelassi l’identità di alcuni che allora si rivolsero a me, dopo che la ruota della fortuna aveva girato in modo per loro sfavorevole.»

Simon annuì. «Vi furono effettivamente diverse lacune notevoli, nelle catture dei criminali di guerra,» osservò. «E se quanto lei dice è vero, la sua pietra deve avere aperto alcuni mondi molto strani.» Si alzò, stirandosi. Poi si avvicinò al tavolo e contò il danaro estratto dalla cintura. Erano quasi tutte vecchie banconote, sudice, chiazzate di unto, come se gli affari per cui erano state usate avessero lasciato un po’ della loro sporcizia su quelle superfici grinzose. Gli rimase in mano solo una moneta. Simon la gettò in aria e la lasciò ricadere sul legno lucido. Vide l’aquila: la fissò per un momento e poi riprese la moneta.

«Questa la tengo.»

«Un portafortuna?» Il dottore era occupato ad ammucchiare ordinatamente le banconote. «La tenga pure: un uomo non ha mai abbastanza fortuna. Ed ora… mi dispiace far fretta ad un ospite in partenza, ma il potere del Seggio è limitato. Ed è molto importante scegliere il momento opportuno. Da questa parte, prego.»

Lo disse con lo stesso tono con cui l’avrebbe fatto accomodare nello studio di un dentista o nella sala di un consiglio d’amministrazione, pensò Simon. E forse lui era uno sciocco a seguirlo.

La pioggia era cessata, ma era ancora buio nel giardinetto quadrato dietro la vecchia casa. Petronius premette un interruttore, ed una luce sventagliò dalla porta posteriore. Tre pietre grige formavano un arco che superava di pochi centimetri la testa di Simon. E davanti all’arco stava una quarta pietra, grezza, informe e angolosa come le altre. Oltre l’arco c’era una staccionata di legno, alta, non verniciata, imputridita dagli anni, incrostata dalla sporcizia della città, e mezzo metro di terriccio: null’altro.

Simon rimase immobile per un lungo istante, irridendo mentalmente la parziale convinzione di pochi momenti prima. Era il momento più opportuno perché comparisse Sammy e Petronius si guadagnasse veramente l’onorario.

Ma il dottore si era piazzato a fianco della pietra posata sul terreno. La indicò.

«Il Seggio Periglioso. Se vuol sedersi, colonnello… è quasi ora.»

Un sogghigno amaro che commentava la sua follia torse le labbra sottili di Simon, mentre si accostava alla pietra e restava immobile per un istante sotto l’arco, prima di sedersi. C’era una depressione rotonda, che si adattava ai suoi fianchi. Stranamente, con un bizzarro presentimento, tese le mani. Sì: c’erano altri due incavi più piccoli per posare le palme, come aveva spiegato Petronius.

Non accadde nulla. La staccionata lignea, la striscia di terreno muffito rimasero dov’erano. Stava per alzarsi quando…

«Ecco!» La voce di Petronius risuonò, flautata, in una parola che era quasi un richiamo.

Vi fu un turbinio entro l’arco di pietra, una dissoluzione.

Simon vide un tratto di brughiera, sotto il grigio cielo dell’alba. Un vento fresco, carico di uno strano aroma tonificante, gli sfiorò i capelli. Qualcosa, dentro di lui, si tese come un segugio tenuto a guinzaglio per seguire il vento fino alla sua origine, attraverso la brughiera.

«Il suo mondo, colonnello: e le auguro di essere felice!»

Simon annuì distrattamente, senza più badare all’ometto che gli aveva rivolto quelle parole. Forse era un’illusione: ma l’attraeva come null’altro l’aveva attirato in vita sua. Senza una parola di commiato, Simon si alzò e si avviò verso l’arco.

Provò un istante di panico immenso — una paura di cui non aveva mai immaginato l’esistenza, peggiore di qualunque sofferenza fisica — come se l’universo si fosse schiantato brutalmente ed egli fosse stato scagliato in un nulla spaventoso. Poi si accasciò bocconi sull’erba fitta e dura.

Capitolo secondo Caccia nella brughiera

La luce dell’alba non annunciava l’avvento del sole, poiché l’aria era saturata da una nebbia densa. Simon si alzò in piedi e si guardò alle spalle. C’erano due rozze colonne di pietra rossastra, e più oltre non c’era un cortiletto, ma un tratto della stessa brughiera verdegrigia che si perdeva nella muraglia di nebbia. Petronius aveva avuto ragione: quello era un mondo che non conosceva.

Stava rabbrividendo. Sebbene avesse portato con sé il soprabito, non aveva il cappello, e l’umidità gli incollava i capelli sulla testa, e gli scorreva sul collo e sulle guance. Aveva bisogno di un rifugio… di una meta. Lentamente, Simon girò su se stesso. Entro il cerchio dell’orizzonte non si scorgeva neppure un edificio. Con una scrollata di spalle, decise di allontanarsi in linea retta dalle colonne di roccia: una direzione valeva l’altra.

Mentre procedeva sulle zolle fradice, il cielo si rischiarò, la nebbia si alzò, e il territorio cambiò lentamente. C’erano altri ammassi di pietre rosse, e il terreno ondulato presentava un maggior numero di salite e discese. Davanti a lui, ad una distanza che non era in grado di giudicare, una linea accidentata tagliava il cielo e suggeriva la presenza di colline o montagne. E l’ultimo pasto se lo era concesso molte ore prima. Strappò una foglia da un arbusto e la masticò distrattamente: aveva un sapore pungente, ma non sgradevole. Poi udì i suoni della caccia.

Un corno echeggiò, in una serie di note ascendenti, cui risposero un latrato ed un grido soffocato. Simon si mise a correre. Quando giunse sul ciglio di un burrone, ebbe la certezza che il chiasso proveniva dall’altra parte della spaccatura, e si avviò in quella direzione. Con la prudenza ispiratagli dall’addestramento nei commandos, si nascose a terra fra due macigni.

La donna irruppe per prima dagli arbusti sulla scarpata di fronte. Correva: le lunghe gambe mantenevano il ritmo costante ed ostinato di chi ha alle spalle un lungo inseguimento, e davanti una meta lontana. Sul limitare della stretta valle, esitò e si guardò indietro.

Contro lo sfondo verdegrigio della vegetazione, lo snello corpo eburneo, nascosto a malapena dagli stracci che erano tutto il suo vestiario, parve spiccare nella luce fioca dell’alba. Con un gesto impaziente, si ributtò all’indietro le ciocche dei lunghi capelli neri, si passò le mani sul viso. Poi cominciò a procedere lungo la cresta del pendio, in cerca di un punto dove fosse possibile scendere.

Il corno squillò, e gli rispose il latrato. La donna trasalì convulsamente, e Simon si rialzò a mezzo dal nascondiglio, quando si rese conto all’improvviso che, in quella caccia feroce, lei doveva essere la selvaggina.

Si lasciò cadere di nuovo su un ginocchio, mentre la donna liberava freneticamente i suoi stracci impigliati in un roveto. La forza dello strattone la fece sdrucciolare oltre il ciglio della scarpata. Non gridò, ma le sue mani si protesero verso un arbusto, mentre cadeva: e i rami la sorressero. Quando cercò di trovare un appiglio per rimettersi in piedi, comparvero i segugi.

Erano animali bianchi e magri: i corpi scarni si girarono con fluidità incredibile, quando giunsero sull’orlo della valle. Con i nasi aguzzi puntati verso la donna, lanciarono ululati trionfanti.

La donna si contorse, tendendo convulsamente le gambe per trovare un appiglio sullo stretto cornicione sulla destra, il cornicione che poteva permetterle di discendere sul londovalle. Forse vi sarebbe riuscita, se non fossero sopraggiunti i cacciatori.

Erano a cavallo, e quello che portava sulle spalle il corno restò in sella, mentre il suo compagno smontava e andava ad affacciarsi, scostando i segugi a calci e sberle. Quando vide la donna, si portò la mano sulla fondina.

La donna lo vide, a sua volta, e interruppe i vani tentativi di raggiungere il cornicione: restò appesa all’arbusto, volgendo verso di lui il viso inespressivo. L’uomo sogghignò estraendo l’arma, come se assaporasse l’impotenza della sua preda.

Poi il proiettile sparato dalla pistola di Simon lo centrò. Con un urlo, l’uomo mosse qualche passo in avanti, barcollando, e precipitò dalla scarpata.

Prima che l’eco dello sparo e dell’urlo si fosse spenta, l’altro cacciatore si buttò al coperto, e Simon cominciò a capire meglio di che calibro fossero coloro che aveva affrontato. I segugi, impazziti, presero a correre avanti e indietro, riempiendo l’aria con i loro guaiti.

Ma la donna tentò un ultimo sforzo e trovò l’appiglio sul cornicione. Scese precipitosamente sul fondo del canalone, nascondendosi tra le rocce e gli arbusti. Simon vide un lampo nell’aria. Con la punta piantata nel suolo, a due pollici dal posto in cui s’era acquattato per sparare, un piccolo dardo vibrò e poi restò immobile. L’altro cacciatore era deciso a combattere.

Dieci anni prima, Simon aveva giocato a quel gioco quasi tutti i giorni, e ci si era divertito. E aveva scoperto che certe azioni, una volta apprese dai muscoli e dal corpo, non vengono dimenticate facilmente. Si trascinò fra gli arbusti più fitti per nascondersi ed attendere. I segugi cominciavano a stancarsi: molti si erano buttati a terra, ansimando. Ormai era solo questione di aver pazienza, e Simon ne aveva in abbondanza. Vide fremere la vegetazione e sparò una seconda volta… Gli rispose un grido.

Dopo qualche istante, messo in guardia dallo scricchiolio dei cespugli, si spinse strisciando sul ciglio della valle, e si trovò faccia a faccia con la donna. Gli occhi neri, obliqui nel viso triangolare, lo scrutarono intenti, acutissimi: Simon si sentì sconcertato. Poi, mentre le afferrava la spalla con la mano per trascinarla al coperto, provò una viva sensazione di pericolo, un bisogno disperato di continuare a muoversi attraverso la brughiera. La salvezza stava oltre il limitare della brughiera, nella direzione da cui era venuto.

La sensazione era così forte che Simon si sorprese a trascinarsi di nuovo tra le rocce, prima di alzarsi in piedi per mettersi a correre, misurando il passo su quello di lei, mentre l’abbaiare dei segugi diventava più debole dietro di loro.

Sebbene avesse già dovuto correre senza dubbio per molte miglia, la sua compagna manteneva un’andatura che gli costava fatica reggere. Finalmente giunsero in un luogo dove la brughiera cominciava a lasciar posto a stagni acquitrinosi circondati da erbe altissime. Fu allora che un soffio di vento portò di nuovo fino a loro il richiamo lontano di un corno. A quell’eco, la donna rise, lanciando un’occhiata a Simon, quasi chiedendogli di condividere la sua gaiezza. Indicò gli stagni, con un gesto, come per suggerire che là sarebbero stati al sicuro.

Un quarto di miglio più avanti, la nebbia si avvolgeva in spire, addensandosi, estendendosi per tagliare il loro cammino, e Simon la studiò. Forse sarebbero stati in salvo, entro quella cortina, ma forse si sarebbero perduti. E stranamente quella nebbia pareva provenire da un’unica sorgente.

La donna alzò il braccio destro. Da una larga fascia metallica che le cingeva il polso scaturì un lampo di luce, diretto verso la nebbia. Con l’altra mano, lei gli accennò di restare immobile, e Simon scrutò in quella coltre fitta, quasi certo di scorgervi il movimento di sagome scure.

Venne un grido: le parole erano incomprensibili, ma il tono di sfida era inequivocabile. La sua compagna rispose con una cadenza cantilenante. Ma quando giunse la risposta, lei vacillò. Poi si riscosse e guardò Simon, tendendo la mano in un gesto quasi supplichevole. Simon la prese, stringendola nel pugno: aveva intuito che l’aiuto richiesto era stato rifiutato.

«E adesso?» chiese. Forse la donna non riusciva a comprendere le parole, ma era certo che lei ne aveva indovinato il significato.

Delicatamente, la donna si inumidì la punta dell’indice e l’alzò nel vento che spirava ributtandole i capelli all’indietro, scostandoli dal volto segnato da un livido violaceo alla mascella e da ombre nere sotto gli zigomi. Poi, tenendo la mano di Simon, lo tirò sulla sinistra, immergendosi nelle pozzanghere fetide dove la schiuma verdastra si spezzava al loro passaggio, incollandosi in chiazze viscose alle gambe di lei ed ai calzoni infradiciati di Tregarth.

Girarono intorno all’acquitrino, e la nebbia che ne isolava la parte interna proseguì parallelamente a loro, escludendoli. La fame che Simon provava era ormai tormentosa, le scarpe fradice gli laceravano i piedi. Ma il suono del corno s’era disperso. Forse quel percorso aveva sconcertato i segugi.

La sua guida si fece largo tra le canne, ed uscì su una cresta sopraelevata dove c’era una specie di strada, indurita dall’uso, ma non più ampia d’un sentiero. La seguirono, procedendo più rapidamente.

Doveva essere pomeriggio avanzato, anche se in quella luce grigia e neutra era difficile valutare le ore, quando la strada cominciò a salire. Più avanti c’erano le scarpate di roccia rossa, che ascendevano quasi come una muraglia scabra, squarciata da un varco che accoglieva la strada.

Erano quasi arrivati a quella barriera quando la fortuna li abbandonò. Dall’erba, accanto al sentiero eruppe un piccolo animale scuro che passò correndo tra i piedi della donna, facendole perdere l’equilibrio: lei cadde sull’argilla battuta. Per la prima volta fece udire la sua voce, lanciando un grido di dolore, e si strinse la caviglia destra. Simon si affrettò a scostarle le mani e, attingendo alle conoscenze apprese sul campo di battaglia, si chinò per valutare la lesione. Non c’erano fratture: ma sotto il suo tocco la donna trattenne il fiato, bruscamente. Era chiaro che non avrebbe potuto proseguire. Poi, ancora una volta, giunse il suono del corno.

«Questo decide tutto!» disse Simon, più a se stesso che alla donna. Corse verso il varco. La strada si snodava fino a un fiume che scorreva nella pianura, allo scoperto. Eccettuati i pinnacoli di roccia che vigilavano il passo, non c’era nulla che rompesse la superficie piatta del terreno, per miglia e miglia. Si girò verso la scarpata e l’esaminò attentamente. Lasciò cadere il soprabito, si sfilò le scarpe scalciando e provò a cercare appigli. Dopo qualche secondo raggiunse un cornicione che, visto dalla strada, appariva solo come un’ombra. Ma era abbastanza largo per assicurare un riparo: e avrebbero dovuto accontentarsene.

Quando Simon scese, la donna si trascinò verso di lui, strisciando sulle mani e sulle ginocchia. Unendo le loro forze, raggiunsero il rifugio, e si acquattarono così vicini in quella depressione di roccia erosa dal vento che Simon sentì il calore del respiro affrettato di lei sulla guancia, quando si voltò a guardare il sentiero.

Si accorse che lei tremava, scossa da brividi che la squassavano dalla testa ai piedi quando il vento l’investiva. Goffamente, l’avvolse nella giacca bagnata, e la vide sorridere, sebbene la curva delle labbra fosse deturpata dalla lacerazione di un recente colpo. Non era bella, decise: era troppo magra, troppo pallida, troppo esausta. Anzi, sebbene il corpo fosse esposto dal disordine degli stracci, non provava per lei il minimo interesse maschile. E mentre quel pensiero gli attraversava la mente, si rese conto che in qualche modo lei comprendeva quella valutazione, e la trovava divertente.

La giovane donna si trascinò verso l’orlo della depressione, si mise a spalla a spalla con lui; poi rialzò il polso della giacca, appoggiandosi sul ginocchio il polso cinto dal bracciale. Di tanto in tanto, stropicciava le dita su un cristallo ovale incastonato nella fascia metallica.

Tra i sibili del vento, potevano udire il corno, la risposta dei segugi. Simon estrasse l’automatica. Le dita della sua compagna lasciarono il braccialetto per toccare brevemente l’arma, come se in quel modo lei potesse comprenderne la natura. Poi annuì, mentre i punti bianchi che erano segugi uscivano dagli alberi, in fondo alla strada. Li seguivano quattro cavalieri: Simon li osservò.

La tranquillità con cui si avvicinavano indicava che non si aspettavano difficoltà. Forse non conoscevano ancora la sorte toccata ai loro compagni, al burrone. Forse credevano di stare ancora inseguendo una sola preda e non due. E si augurò che fosse veramente così.

Avevano le teste coperte da elmi metallici crestati, con strane visiere abbassate per nascondere la metà superiore dei volti. Indossavano indumenti che sembravano una via di mezzo tra la camicia e la giacca, allacciati dalla cintola alla gola. Le cinture erano larghe una ventina di pollici e sostenevano armi chiuse nelle fondine, coltelli, e varie borse ed oggetti che Simon non seppe identificare. Le brache erano aderenti, e gli stivali terminavano a punta all’esterno delle gambe. Sembravano in uniforme: gli indumenti erano dello stesso taglio e della stessa stoffa verde-azzurra, e sul lato destro dei giachi spiccavano simboli identici.

I segugi scarni, dalle teste piatte come quelle dei serpenti, salirono turbinando la strada e si avventarono ai piedi della roccia: alcuni si rizzarono sulle zampe posteriori, raspando l’aria sotto il cornicione. Simon, ricordando il dardo che l’aveva mancato di poco, sparò per primo.

Con un grido soffocato, il primo dei cacciatori vacillò e sdrucciolò dalla sella; lo stivale s’impigliò nella staffa e il cavallo, proseguendo la corsa, trascinò il corpo inerte lungo la strada. Vi fu un grido, quando Simon sparò un secondo colpo. L’uomo si strinse il braccio mentre si buttava al riparo: il cavallo che trascinava ancora il morto superò il varco e si lanciò verso la pianura del fiume.

I segugi smisero di abbaiare. Ansimando, si buttarono ai piedi della guglia: i loro occhi sembravano scintille di fuoco giallo. Simon li scrutò con disagio crescente. Conosceva i cani da guerra: li aveva visti utilizzare come sentinelle. Questi erano grossi animali, capaci di uccidere: lo si capiva dalla loro postura mentre osservavano e attendevano. Avrebbe potuto centrarli uno ad uno, ma non osava sprecare le munizioni.

Sebbene la giornata fosse stata semibuia, si rendeva conto che la notte sarebbe stata anche peggio, con la totale oscurità: e stava scendendo rapidamente. Il vento che spirava dagli acquitrini investiva gelido il loro rifugio.

Simon si mosse, ed uno dei segugi balzò su, vigile, puntando le zampe anteriori sulla roccia e levando un ululato minaccioso. Una mano salda strinse il braccio di Simon, trascinandolo indietro nella posizione precedente. Ancora una volta, ricevette un messaggio attraverso quel contatto. Sebbene la loro situazione sembrasse disperata, la donna non appariva intimorita. Simon intuì che stava aspettando qualcosa.

Potevano sperare di arrampicarsi fino in cima alla scarpata? Nel crepuscolo, la vide scuotere i capelli scarmigliati, come se gli avesse letto nel pensiero.

I segugi tornarono a quietarsi, sdraiandosi ai piedi della parete, e tennero gli sguardi puntati in direzione delle loro prede. Chissà dove — Simon si sforzava di vedere nel crepuscolo — chissà dove i loro padroni dovevano essere in movimento, decisi a raggiungere i fuggitivi. Simon sapeva di essere un ottimo tiratore, ma le condizioni stavano rapidamente cambiando in favore degli altri.

Tenne stretta l’automatica, pronto ad agire al minimo suono. La donna si scosse, con un’esclamazione soffocata, un respiro ansimante. Simon non ebbe bisogno di sentirsi tirare per il braccio, per volgersi a guardarla.

Nella semioscurità, un’ombra si mosse all’estremità del cornicione. E la donna gli strappò dalla mano la pistola, di sorpresa, ne batté rabbiosamente il calcio su quella cosa strisciante.

Vi fu uno squittio acuto, troncato bruscamente. Simon si affrettò a riprendere l’arma e solo quando la riebbe saldamente in mano guardò l’essere che si contorceva con la schiena spezzata. Denti bianchi ed aguzzi in una testa piatta e stretta, saldata ad un corpo peloso, gli occhi rossi vivi di qualcosa che lo sbalordì… intelligenza animale! Stava morendo, ma si contorceva ancora per raggiungere la donna, esalando un lieve sibilo tra le zanne, con un intento maligno che traspariva da ogni linea del corpo straziato.

Disgustato, Simon mosse il piede di scatto, colpendo il fianco dell’essere, e lo scagliò nel vuoto, tra i segugi.

Li vide disperdersi, separarsi indietreggiando come se avesse gettato in mezzo a loro una bomba a mano. Tra i loro guaiti, udì un suono più incoraggiante, la risata della donna che gli stava accanto. Vide che aveva gli occhi illuminati da una luce di trionfo. Lei annuì e rise di nuovo, mentre Simon si sporgeva a scrutare quello stagno d’ombra che lambiva la base del pinnacolo, nascondendo il corpo dell’essere.

Gli uomini nascosti là sotto avevano forse sguinzagliato contro di loro un altro cacciatore? Eppure la paura, la rapida ritirata dei cani che adesso turbinavano a parecchi metri di distanza, sembravano indicare altrimenti. Se avevano cacciato in compagnia dell’essere ucciso, non l’avevano fatto per libera scelta. Accettando quella possibilità come un altro dei misteri del mondo in cui era finito — di sua volontà — Simon si preparò a vegliare per tutta la notte. Se l’attacco silenzioso del piccolo animale era stato una mossa degli assedianti, forse sarebbero usciti allo scoperto per insistere.

Ma, con l’infittirsi delle tenebre, dal basso non salirono altri suoni che Simon poteva interpretare come segnali d’attacco. I cani s’erano sdraiati in semicerchio ai piedi del pinnacolo, vagamente visibili a causa della pelle bianca. Tregarth pensò di nuovo alla possibilità di salire fino in cima alla roccia… avrebbero potuto anche attraversarla, se la caviglia della donna fosse migliorata. Quando fu completamente buio, lei si mosse. Gli posò per un momento le dita sul polso, poi gliele insinuò nel cavo della mano. Mentre vigilava e ascoltava, Simon si accorse di un’immagine che prendeva forma nella sua mente. Un coltello… lei voleva un coltello! Liberò la mano, estrasse il temperino, e se lo vide strappare ansiosamente dalle dita.

Quello che avvenne poi, Simon non riuscì a comprenderlo: ma ebbe il buon senso di non intromettersi. Il cristallo opaco incastonato nel bracciale irradiò una luce fioca, da fuoco fatuo. In quel barlume, vide che la donna si feriva con la punta del temperino alla base del pollice. Una goccia di sangue spicciò sulla pelle e cadde sul cristallo: per un momento, il liquido denso oscurò il chiarore.

Poi, dall’ovale uscì una luce più intensa, un raggio di fiamma. La sua compagna rise di nuovo: una risata sommessa, soddisfatta. In pochi secondi, il cristallo ridivenne opaco. Lei posò la mano sulla pistola, e Simon lesse in quel gesto un altro messaggio. L’arma non era più necessaria: sarebbero arrivati i soccorsi.

Il vento della palude, con i suoi sbuffi putridi, gemeva intorno alle lingue di roccia. La donna tremava di nuovo; la cinse con un braccio, attirandola a sé, per unire il calore di entrambi. Nell’arco del cielo balenò la spada zigzagante di un fulmine purpureo.

Capitolo terzo Simon prende servizio

Un altro lampo vivido lacerò il cielo, immediatamente sopra il pinnacolo. E fu l’inizio di una furiosa battaglia di cielo, terra, vento e tempesta, quale Simon non aveva mai visto. Si era mosso sui campi di battaglia, sotto la sferza dei terrori creati dall’uomo, ma questo era peggio, in un certo senso… forse perché sapeva che non c’era la possibilità di dominare quei lampi, quelle raffiche, quelle esplosioni.

La roccia tremava e sussultava sotto di loro che si tenevano aggrappati l’uno all’altro come bestiole impaurite, chiudendo gli occhi ad ogni scossa. Vi era un ruggito incessante, non il rombo normale del tuono, ma il rullare di un gigantesco tamburo battuto con un ritmo che cantava rabbiosamente nel sangue e faceva turbinare il cervello. La donna teneva il viso premuto contro di lui, e Simon stringeva quel corpo tremante come nell’ultima promessa di salvezza in un mondo squassato.

Continuò all’infinito: scrosci, schianti, lingue di luce, tonfi, raffiche di vento… Ma non pioveva ancora. Un tremito della roccia cominciò a riecheggiare gli schianti dei tuoni.

Un’ultima, spettacolare esplosione lasciò Simon accecato ed assordato per lunghi istanti. Ma quando i secondi divennero minuti senza che si udisse altro, quando persino il vento parve essersi esaurito in brevi soffi convulsi, rialzò la testa.

Il fetore della carne animale bruciata ammorbava l’aria. Un bagliore ondeggiante, non troppo lontano, indicava un incendio tra gli arbusti. Ma la quiete benedetta continuò, e la donna si mosse tra le sue braccia, si liberò. Ancora una volta, Simon ebbe una sensazione di sicurezza, una sicurezza frammista al trionfo, come se una partita si fosse conclusa vittoriosamente per lei.

Rimpianse che non vi fosse abbastanza luce per permettergli di vedere la scena sottostante. I cacciatori e i segugi erano sopravvissuti alla tempesta. Una luce rossa-arancio salì dalle fiamme lambenti verso la scarpata. Ai piedi del pinnacolo giaceva un groviglio di corpi bianchi, irrigiditi. Sulla strada c’era un cavallo morto: sul collo, era appoggiato il braccio di un uomo.

La donna si spinse avanti, scrutando con occhi ansiosi. Poi, prima che Simon potesse trattenerla, si calò oltre l’orlo: la seguì, temendo un attacco. Ma vide solo i corpi che giacevano nella luce dell’incendio.

Il calore della fiamma li raggiunse: era piacevole. La sua compagna tese entrambe le braccia verso quel chiarore. Simon girò intorno ai segugi morti, ustionati e sfigurati dal fulmine che li aveva uccisi. Si avvicinò al cavallo morto, pensando d’impadronirsi delle armi del cavaliere. E poi vide muoversi le dita strette nella ruvida criniera dell’animale.

Il cacciatore doveva essere ferito mortalmente, e certo Simon provava ben poca pietà per lui, dopo la caccia spietata attraverso la brughiera e l’acquitrino. Ma non poteva neppure lasciare quell’uomo così imprigionato. Lottò contro il peso del cavallo morto, e trascinò il corpo straziato dove la luce dell’incendio poteva mostrargli chi e che cosa aveva soccorso.

Il viso stravolto, macchiato di sangue, non dava segno di vita; ma il petto schiacciato si alzava e si riabbassava faticosamente, e di tanto in tanto l’uomo emetteva un gemito. Simon non avrebbe saputo dire a quale razza apparteneva. I capelli cortissimi erano molto chiari, quasi argentei: il naso era aquilino, grifagno tra gli zigomi ampi… uno strano abbinamento. E Simon pensò che doveva essere giovane, sebbene in quel volto non vi fosse nulla che facesse pensare al tipico soldatino.

Il corno ammaccato era ancora appeso alle sue spalle. E i ricchi ornamenti, la fibbia ingemmata, facevano capire che non si trattava di un semplice soldato. Simon, sapendo che non poteva far nulla per aiutarlo, rivolse l’attenzione alla cintura ed alle armi.

Prese il coltello e se lo mise al fianco. Estrasse dalla fondina la strana arma e l’esaminò attentamente. Aveva una canna, e qualcosa che doveva essere un grilletto. Ma la sentiva stranamente sbilanciata, nella mano; il calcio aveva una modellatura assurda. Se l’infilò nella camicia.

Stava per sganciare un altro oggetto, un cilindro sottile, quando una mano bianca passò fulmineamente al di sopra della sua spalla e se ne impadronì.

Il cacciatore si mosse come se quel tocco avesse raggiunto il suo cervello stordito. Gli occhi si aprirono, ferini, con uno scintillio di luce come quello che balena negli occhi d’una belva nel buio. E in quegli occhi c’era qualcosa che costrinse Simon ad arretrare.

Aveva incontrato uomini pericolosi, uomini che volevano la sua morte e che avrebbero cercato di realizzare il loro intento con spietata freddezza. Si era trovato faccia a faccia con uomini che gli ispiravano un odio fulmineo. Ma non aveva mai visto un’emozione simile a quella che scorgeva in fondo agli splendenti occhi verdi del cacciatore.

Ma Simon si accorse che quegli occhi non erano rivolti verso di lui. La donna stava lì accanto, un po’ sbilanciata perché cercava di non appoggiarsi alla caviglia dolorante, e rigirava tra le mani il cilindro che aveva strappato alla cintura del cacciatore. Simon si aspettava quasi di scorgere nella sua espressione una risposta al furore ardente e corrosivo con cui la fronteggiava il ferito. Lei stava fissando con fermezza il cacciatore, senza tradire la minima emozione. L’uomo mosse le labbra, convulsamente. Alzò la testa con uno sforzo tormentoso che lo straziò in tutto il suo essere e sputò. Poi lasciò ricadere la testa al suolo, e giacque immobile, come se quell’ultimo gesto di odio avesse prosciugato le sue ultime riserve d’energia. Nella luce dell’incendio ormai morente, il viso si decontrasse stranamente, la bocca si aprì. Simon non ebbe bisogno di notare l’interruzione del respiro faticoso per capire che era morto.

«Alizon…» La donna pronunciò quella parola scrupolosamente, guardando prima Simon, poi il cadavere. Si chinò, indicando l’emblema sulla giubba del morto. «Alizon.»

«Alizon,» ripeté Simon, rialzandosi in piedi. Non se la sentiva di prendere altro.

La donna si girò verso il varco da cui passava la strada per scendere verso la pianura del fiume.

«Estcarp…» Ancora una volta, quella pronuncia meticolosa di un nome: ma lei indicava con il dito la pianura. «Estcarp,» ripeté, ma questa volta si toccò il petto.

E come se quel nome avesse evocato una risposta, dall’altra parte del varco venne un pigolio acuto. Non era un richiamo interrogativo, come quello dei corni dei cacciatori, ma piuttosto un fischio, come potrebbe emetterlo un uomo, tra i denti, in attesa di agire. La donna rispose gridando una frase che venne portata via dal vento e riecheggiò tra le barriere rocciose.

Simon udì lo scalpiccio degli zoccoli, il tintinnio del metallo contro il metallo. Ma poiché la sua compagna stava rivolta verso il basso in atteggiamento di benvenuto, si accontentò di attendere. Ma la sua mano si strinse intorno all’automatica, dentro la tasca, e ne puntò la canna verso lo spazio tra i pinnacoli.

I cavalieri avanzarono uno alla volta. Passarono tra le guglie, ed i primi due si disposero ai lati, con le armi in pugno. Quando videro la donna le rivolsero un richiamo: evidentemente erano amici. Il quarto si avviò direttamente verso il punto in cui attendevano Simon e la sua compagna. Il suo cavallo era alto, massiccio, come se fosse stato selezionato per la sua capacità di reggere il peso. Ma il cavaliere era così piccolo di statura che Simon lo credette un ragazzetto… fino a quando balzò a terra.

Nella luce del fuoco, il suo corpo era lucente, e riflessi scintillanti brillavano sull’elmo, la cintura, la gola e il polso. Era basso, ma le spalle ampie facevano spiccare ancora di più la modesta statura, perché le braccia ed il torace sembravano più adatti ad un uomo alto almeno un terzo di più di quanto fosse lui. Portava un usbergo di maglia metallica, che gli aderiva addosso come se fosse una stoffa, e cedeva ad ogni movimento delle sue membra con estrema elasticità. L’elmo aveva un cimiero raffigurante un uccello ad ali protese. Oppure era un uccello vero, cristallizzato da un incantesimo in quell’immobilità innaturale? Gli occhi che brillavano nella testa protesa parevano fissare Simon con cupa ferocia. La liscia calotta metallica su cui stava posato terminava in una sorta di sciarpa di maglia, avvolta intorno al collo ed alla gola dell’uomo. Questi la tirò, impaziente, mentre camminava, liberando il volto. E Simon vide che non si era ingannato, dopotutto, nella sua prima impressione. Il guerriero dall’elmo ornato di un falco era giovane.

Giovane, sì, ma anche duro. La sua attenzione era divisa tra la donna e Simon; le rivolse una domanda mentre scrutava attento Tregarth. Lei rispose con un torrente di parole, tracciando segni nell’aria. Il nuovo arrivato, allora, si toccò l’elmo, in un evidente saluto allo straniero, Ma era la donna a dominare la situazione.

Indicando il guerriero, continuò la lezione linguistica: «Koris.»

Non poteva essere altro che un nome proprio, decise Simon. Si puntò il pollice sul petto:

«Tregarth. Simon Tregarth.» Attese che la donna dicesse il suo nome.

Ma lei si limitò a ripetere quanto aveva udito. «Tregarth, Simon Tregarth,» come se si imprimesse nella mente quelle sillabe. Vedendo che non reagiva in altro modo, le rivolse una domanda.

«Chi?» chiese, indicandola.

Il guerriero Koris trasalì, e si portò la mano all’arma appesa alla cintura. E la donna corrugò la fronte, e poi la sua espressione divenne così fredda e distante che Simon si rese conto di aver commesso un grave errore.

«Chiedo scusa.» Allargò le mani in un gesto che sperò di vedere interpretato come una richiesta di perdono. Aveva fatto qualcosa che non doveva, ma aveva agito per ignoranza. E la donna doveva averlo compreso, perché diede qualche spiegazione al giovane ufficiale, anche se questi non guardò Simon con troppa simpatia, durante le ore che seguirono.

Koris, mostrando una deferenza che non s’intonava con gli abiti laceri della donna ma che appariva giustificata dalla sua aria autorevole, la fece salire dietro di lui sul grande cavallo nero. Simon montò dietro una delle altre guardie, infilando le dita nella cintura del cavaliere per tenersi saldo, mentre si dirigevano verso la pianura del fiume, ad una velocità cui neppure l’oscurità della notte impediva di avvicinarsi al galoppo.

Molto tempo dopo, Simon giaceva immobile in un nido di lenzuoli e coperte e fissava, senza vederla, la curva del baldacchino di legno scolpito. Se non avesse tenuto gli occhi spalancati, sarebbe sembrato addormentato, come lo era pochi minuti prima. Ma la vecchia capacità di passare dal sonno alla veglia non era andata perduta con il suo ingresso in quel nuovo mondo. Era impegnato ad analizzare le impressioni ed a classificare ciò che aveva scoperto, cercando di sommare un fatto all’altro per ricavare un quadro concreto di ciò che stava intorno a lui, al di là di quel letto massiccio e dei muri di pietra della stanza.

Estcarp non era semplicemente la piana del fiume: era una serie di fortezze, solide roccheforti disposte lungo una strada che segnava la frontiera. Le fortezze dove avevano cambiato i cavalli, avevano mangiato per poi proseguire, spinti da una necessità di affrettarsi che Simon non aveva capito. E alla fine erano giunti ad una città dalle torri rotonde, grigioverdi come il suolo in cui erano radicate sotto il sole pallido di un nuovo giorno: torri e mura ed altri edifici di una razza alta e fiera, dagli occhi scuri e dai capelli neri come i suoi; una razza di umani dal portamento regale che sembravano portare addosso uno strano peso d’antichità.

Ma quand’erano entrati in Estcarp, Simon era così stravolto dalla stanchezza, così stordito dalle esigenze del suo corpo dolorante che ricordava solo poche immagini. E su tutte dominava la sensazione dell’antichità, di un passato così remoto che le torri e le mura avrebbero quasi potuto essere parte dell’ossatura montuosa di quel mondo. Aveva camminato per le vecchie città dell’Europa, aveva visto strade percorse un tempo dalle legioni romane. Eppure l’atmosfera aliena d’antichità che aleggiava in quel luogo era ancora più opprimente, e Simon doveva lottare contro quella sensazione per riordinare i fatti.

Era stato alloggiato al centro della città, in una struttura massiccia che aveva la solennità di un tempio e la saldezza di un fortino. Ricordava appena l’ufficiale, Koris, che lo accompagnava in quella stanza e gli indicava il letto. E poi… più nulla.

Più nulla?

Simon aggrottò la fronte. Koris, quella stanza, il letto… Eppure, mentre fissava gli intagli del baldacchino, trovò qualcosa che gli era familiare, stranamente familiare… come se i simboli avessero un significato in procinto di rivelarsi.

Estcarp… una terra e una città antichissime, e un modo di vivere! Simon si tese. Come l’aveva capito? Eppure era vero, reale come il letto su cui riposava il suo corpo intormentito dalla cavalcata, come gli intarsi sopra la sua testa. La donna inseguita… apparteneva alla razza di Estcarp… come il cacciatore morto alla barriera era appartenuto ad un altro popolo, un popolo ostile.

Le guardie dei posti di frontiera erano tutti uomini dello stesso stampo, alti, bruni, alteri. Solo Koris, con il suo corpo deforme, era diverso da coloro che comandava. Eppure i suoi ordini venivano obbediti; e solo la donna sembrava avere una maggiore autorità.

Simon sbatté le palpebre; le sue mani si mossero sotto le coperte, e si sollevò a sedere, volgendo gli occhi verso le tende alla sua sinistra. Aveva captato quel passo lieve, e non si stupì quando gli anelli della cortina tintinnarono, e la stoffa azzurra si aprì. Vide l’uomo cui aveva pensato fino a quel momento.

Senza armatura, Koris appariva ancora più strano. Le spalle troppo larghe, le braccia troppo lunghe sembravano pesare più del resto del suo corpo. Non era alto: e la vita sottile, le gambe snelle apparivano ancora più minute in confronto alla parte superiore del corpo. Ma su quelle spalle c’era la testa dell’uomo che Koris avrebbe potuto essere se la natura non gli avesse giocato quello scherzo crudele. Sotto la calotta di folti capelli color grano c’era il volto di un ragazzo appena divenuto uomo… di un ragazzo che non era soddisfatto di ciò che era. Era un volto di una bellezza sorprendente, in contrasto con quelle spalle: la testa di un eroe abbinata al corpo di uno scimmione.

Simon gettò le gambe giù dal letto e si alzò: per un momento gli spiacque di costringere l’altro a guardarlo di sotto in su. Ma Koris era arretrato con la prontezza di un gatto, e s’era seduto sotto un largo cornicione di pietra che correva sotto una feritoia, ed i suoi occhi erano ancora all’altezza di quelli di Tregarth. Con un’eleganza che contrastava con l’eccessiva lunghezza del braccio indicò un cassettone, su cui stava un mucchio d’indumenti.

Non era l’abito di tweed che si era tolto prima di buttarsi nel letto, notò Simon. Ma vide qualcosa d’altro, una sottile conferma della sua posizione. La pistola automatica e il contenuto delle sue tasche erano stati disposti in ordine meticoloso accanto agli abiti nuovi. Non era prigioniero, qualunque fosse il suo status sociale in quella fortezza.

Infilò le brache di morbido cuoio, simili a quelle che ora portava Koris. Morbide come guanti, erano di un colore azzurro cupo. E c’era un paio di stivali di una sostanza grigioargentea che sembrava pelle di rettile. Indossò anche quelli, poi si rivolse a Koris e gesticolò per indicare che desiderava lavarsi.

Per la prima volta, l’ombra di un sorriso sfiorò la bocca della guardia, che indicò un’alcova. La fortezza di Estcarp poteva apparire medievale, ma Simon scoprì che i suoi abitanti avevano idee moderne in fatto d’igiene. L’acqua prese a scorrere calda da un tubo, quando venne girata una semplice leva; e c’era un barattolo di crema dal lieve profumo, che applicata e rimossa toglieva il prurito della barba lunga. E insieme a quelle scoperte venne una lezione di lingua, fino a quando Simon poté disporre di un crescente vocabolario di parole che Koris gli ripeteva pazientemente fino a quando lui le aveva imparate.

L’ufficiale aveva un atteggiamento di studiata neutralità. Non mostrava iniziative amichevoli, a parte l’insegnamento della lingua. E non accettò i tentativi di Simon per una conversazione più personale. Mentre Tregarth indossava il giaco, Koris si girò sul cornicione per guardare, fuori, il cielo diurno.

Simon soppesò nella mano l’automatica. L’ufficiale escarpiano sembrava non preoccuparsi che lo straniero fosse armato o no. Alla fine, Tregarth l’infilò nella cintura, sopra lo stomaco vuoto, e fece segno di essere pronto.

La stanza dava su un corridoio: poco più avanti c’era una scala che scendeva. L’impressione di antichità incommensurabile trovò conferma nei gradini consunti, nel solco che correva lungo la parete sinistra, dove per chissà quanti secoli era stata sfiorata dalle dita di coloro che passavano di lì. Una luce pallida s’irradiava da globi posti in alto, entro canestri metallici: ma l’origine di quel chiarore restava misteriosa.

Ai piedi della scala c’era un corridoio più ampio: e c’erano uomini che lo percorrevano. Alcuni, dagli usberghi a scaglie, erano guardie in servizio; altri portavano abiti più comodi, come quelli indossati da Simon. Salutavano Koris e guardavano lui con una curiosità un po’ cupa che gli pareva vagamente sconcertante: ma nessuno parlava. Koris toccò il braccio di Tregarth, indicò un passaggio chiuso da una tenda, e scostò un lembo della stoffa in un modo che esprimeva un ordine.

Oltre la tenda c’era un altro corridoio. Ma qui la pietra nuda delle pareti era coperta da arazzi ornati degli stessi simboli che Simon aveva veduto sul baldacchino del letto, per metà familiari e per metà alieni. Una sentinella si mise sull’attenti sul fondo, portandosi alle labbra l’elsa della spada. Koris scostò un’altra tenda, ma questa volta accennò a Simon di precederlo.

La sala sembrava più grande di quanto fosse in realtà, perché aveva una volta altissima. La luce dei globi era più forte, e i loro raggi, sebbene non riuscissero a penetrare fra quelle ombre, mostravano chiaramente la scena.

C’erano due donne ad attenderlo… le prime che avesse viste all’interno della fortezza. Ma dovette guardare più attentamente per riconoscere in quella che stava in piedi, con la destra posata sulla spalliera di un seggiolone su cui sedeva l’altra, la donna che aveva visto fuggire inseguita dai cacciatori di Alizon. I capelli che allora le pendevano sulle spalle in ciocche fradice erano raccolti severamente in una reticella d’argento, e la sua figura era coperta dalla gola alle caviglie da una pudica veste dello stesso colore nebbioso. L’unico ornamento era un cristallo ovale come quello che allora aveva portato sul bracciale: ma era appeso ad una catena, e riposava tra le piccole curve dei seni.

«Simon Tregarth!» Fu la donna seduta a rivolgersi a lui: la guardò, e non riuscì a distoglierne gli occhi.

La donna aveva lo stesso volto triangolare, gli stessi occhi indagatori, gli stessi capelli neri ravvolti in una reticella. Ma il potere che irradiava da lei era violento come una folgore. Simon non avrebbe saputo dirne l’età, perché in un certo senso quella donna poteva avere visto posare l’una sull’altra le prime pietre di Estcarp. Ma a lui sembrava senza età. Alzò la mano di scatto e lanciò verso di lui una sfera che sembrava dello stesso cristallo nebuloso che lei e la sua compagna portavano come gemme.

Simon l’afferrò al volo. Sotto le sue dita non era fredda come aveva immaginato, ma tiepida. E mentre la circondava istintivamente con le palme, la mano della donna si chiuse sulla gemma, in un gesto subito imitato dall’altra.

Tregarth non riuscì mai a spiegare, neppure a se stesso, ciò che avvenne allora. Stranamente, raffigurò nei propri pensieri la serie di azioni che l’avevano condotto nel mondo di Estcarp, e nello stesso istante comprese che quelle due donne silenziose vedevano ciò che lui aveva visto, e in una certa misura condividevano le sue emozioni. Appena ebbe finito, un torrente d’informazioni fluì verso di lui.

Si trovava nella fortezza principale di una terra minacciata, forse condannata. L’antichissimo paese di Estcarp era minacciato dal nord e dal sud, e anche dal mare, a occidente. Solo perché erano eredi di una sapienza antichissima, gli abitanti dei suoi campi, dei villaggi e delle città erano riusciti a resistere alla pressione. Forse la loro era una battaglia perduta, ma sarebbero caduti combattendo fino all’ultimo colpo di spada, fino all’ultima arma che un uomo od una donna potesse impugnare.

E la stessa ansia che aveva trascinato Simon sotto il rozzo arco nel cortile di Petronius, si riaccese di nuovo dentro di lui. Le due donne non gli chiedevano nulla: il loro orgoglio era inflessibile. Ma Simon Tregarth promise la sua devozione alla donna che l’aveva interrogato, e in quel momento scelse, con uno slancio d’entusiasmo sincero e fanciullesco. Senza che fosse stata pronunciata una parola, Simon entrò al servizio di Estcarp.

Capitolo quarto L’appello di Forte Sulcar

Simon si portò alle labbra il pesante boccale, e osservò attentamente la scena. All’inizio, aveva giudicato gli abitanti di Estcarp cupi e malinconici, oppressi dal peso schiacciante degli anni, ultimi resti d’una razza morente che aveva dimenticato tutto, tranne i sogni del passato. Ma durante quelle ultime settimane aveva scoperto poco a poco che quel giudizio era stato superficiale. Adesso, nella mensa delle Guardie, la sua attenzione vagava da un viso all’altro, valutando — e non per la prima volta — gli uomini con cui partecipava ogni giorno al servizio ed agli svaghi.

Le loro armi erano strane, certamente. Aveva dovuto imparare a maneggiare una spada nella mischia, ma i lanciadardi erano abbastanza simili alla sua automatica per non causargli problemi. Non avrebbe mai potuto eguagliare Koris, come guerriero… il suo rispetto per la destrezza di quel giovane era sconfinata. Tuttavia Simon conosceva le tattiche di altri eserciti e di altre guerre, e questo gli consentiva di dare consigli che persino l’altero comandante aveva finito per apprezzare.

Simon si era chiesto quale accoglienza gli avrebbero riservato le Guardie… dopotutto, stavano tentando una resistenza contro forze superiori, e per loro uno straniero poteva rappresentare un nemico, una breccia nel muro difensivo. Ma non aveva tenuto conto delle consuetudini di Estcarp. Unica tra le nazioni di quel continente, Estcarp era disposta ad accogliere un individuo dai precedenti assurdi quanto i suoi. Perché il potere di quell’antica fortezza era basato sulla… magia!

Tregarth assaporò il vino prima di trangugiarlo, riflettendo obiettivamente sulla questione della magia. Quella parola poteva indicare trucchi da prestigiatore, o superstizioni confuse… oppure poteva riferirsi a qualcosa di più potente. La volontà, l’immaginazione e la fede erano le armi della magia, così come l’usava Estcarp. Naturalmente, gli abitanti di quella terra avevano certi metodi per concentrare o intensificare la volontà, l’immaginazione e la fede. Ma il risultato era che essi si dimostravano molto aperti nei confronti di tutte le cose che non si potevano vedere o toccare e che non avevano un’esistenza visibile.

E l’odio e la paura dei loro vicini avevano la stessa base… la magia. Per Alizon, al nord, per Karsten al sud, il potere delle Streghe di Estcarp era maledetto. «Tu non permetterai che una strega rimanga in vita.» Quante volte quella frase era risuonata nel suo mondo come una maledizione contro colpevoli ed innocenti, e con giustificazioni assai meno convincenti.

Il matriarcato di Estcarp, infatti, possedeva poteri che trascendevano ogni spiegazione umana, e li usava spietatamente, quand’era necessario. Simon Tregarth aveva contribuito a condurre una strega fuori dal territorio di Alizon, dove si era avventurata a spiare per la sua gente.

Una strega… Simon bevve di nuovo. Non tutte le donne di Estcarp avevano il Potere. Era una dote che passava capricciosamente da una famiglia all’altra, da una generazione all’altra. Coloro che davano prova di possederla in tenera età venivano portate nella città centrale, e là venivano istruite e si votavano al loro ordine. Persino i nomi sparivano, perché rivelare ad un altro il proprio nome significava cedergli una parte della propria identità, e chi lo riceveva acquisiva potere su chi lo rivelava. Ora Simon poteva capire l’enormità della sua richiesta, quando aveva domandato il nome della donna che aveva aiutato a fuggire dalla brughiera.

Inoltre, il Potere non era costante. Usarlo oltre un certo limite poteva sfinire la strega. E poi, non era possibile evocarlo a volontà. Talvolta veniva a mancare in un momento cruciale. Perciò, nonostante le sue streghe e la sua sapienza, Estcarp aveva anche le Guardie dagli usberghi di maglia metallica, la fila di fortezze lungo i confini, le spade pronte ad uscire dai foderi.

«Sa…» Lo sgabello accanto a lui venne scostato dal tavolo, mentre un nuovo arrivato si metteva a sedere. «Fa caldo, per questa stagione.» Un elmo sbatté sul tavolo, e un lungo braccio si allungò per afferrare il boccale di vino.

Il falco che sovrastava l’elmo fissò Simon con gli occhi vitrei: il piumaggio metallico splendidamente lavorato imitava alla perfezione la realtà. Koris bevve, mentre veniva tempestato di domande. C’era disciplina, tra le forze di Estcarp, ma fuori servizio le differenze di rango non esistevano più, e gli uomini seduti intorno al tavolo erano avidi di notizie. Il comandante sbatté il boccale, energicamente, e rispose in tono vivace:

«Secondo me, sentirete il corno dell’adunata prima dell’ora della chiusura delle porte. Magnis Osberic ha chiesto il permesso di passare dalla strada occidentale. E aveva un seguito in pieno assetto di guerra. Secondo me, Gorm gli sta causando guai.»

Le sue parole caddero nel silenzio. Tutti, incluso Simon, ormai, sapevano cosa significava Gorm per il Capitano delle Guardie. Legalmente, la signoria di Gorm sarebbe spettata a Koris. La sua tragedia personale non aveva avuto inizio là, ma si era conclusa su quell’isola quando, ferito e solo, si era allontanato dalle sue rive, sospinto dalla corrente, disteso su una malconcia barca da pescatore.

Hilder, Sire Difensore di Gorm, era stato bloccato dal temporale nelle brughiere che rappresentavano una specie di terra di nessuno fra Alizon e le pianure di Estcarp. Separato dai suoi uomini, era caduto dal cavallo e si era spezzato un braccio, e poi aveva continuato a vagare, stordito dalla sofferenza e dalla febbre, nelle terre dei Tormen, la strana razza che occupava gli acquitrini resistendo a tutti gli intrusi, e non permetteva ad alcuna razza umana di stabilirsi in quella zona paludosa.

Non si era mai saputo perché mai Hilder non fosse stato ucciso o scacciato. Ma la sua storia aveva continuato a restare un mistero anche quando era tornato a Gorm, diversi mesi dopo, guarito, portando con sé la novella sposa. E gli uomini di Gorm — più esattamente, le donne di Gorm — non avevano approvato quel matrimonio, e mormoravano che era stalo imposto a Hilder in cambio della sua vita. La donna che aveva condotto con sé, infatti, aveva il corpo deforme, e la mente ancora più strana, poiché era del più puro sangue di Tor. Gli aveva dato Koris, e poi era scomparsa. Forse era morta, o forse era fuggita di nuovo tra la sua gente. Hilder doveva aver saputo la verità, ma non aveva mai più parlato di lei; a Gorm, erano stati così felici di sbarazzarsi della sovrana che non avevano fatto domande.

Era rimasto soltanto Koris, con la testa di un nobile di Gorm ed il corpo di un abitatore delle paludi: e nessuno aveva mai permesso che lo dimenticasse. A suo tempo, quando Hilder aveva preso una seconda moglie, Orna, figlia riccamente dotata di un armatore, a Gorm avevano ricominciato a mormorare ed a sperare. I sudditi furono ben lieti di accettare il secondogenito di Hilder, Uryan, che evidentemente non aveva una sola goccia di sangue sospetto nelle vene del suo corpo giovane e diritto.

Poi Hilder era morto. Ma aveva impiegato molto tempo a morire, e coloro che mormoravano avevano avuto la possibilità di prepararsi in vista di quel giorno. Quelli che pensavano di servirsi di Orna e di Uryan per i loro scopi s’erano sbagliati, perché la Dama Orna, astuta figlia di mercanti, non era una donna che si lasciava ingannare facilmente. Uryan era ancora un bambino, e lei sarebbe stata la reggente… sebbene vi fossero molti che si sarebbero opposti, a meno che lei avesse dato un’adeguata prova di forza.

Orna aveva messo abilmente i signori di Gorm l’uno contro l’altro, indebolendoli tutti e conservando intatte le sue forze. Ma commise un errore gravissimo quando cercò appoggio altrove. Era stata Orna ad attirare la rovina su Gorm, quando aveva chiamato segretamente la flotta di Kolder per appoggiare il suo potere.

Kolder si estendeva oltre il bordo del mondo marino, dove si poteva trovare solo un uomo su diecimila, tra i naviganti, che fosse in grado di parlarne. Gli uomini onesti — o gli uomini umani — si tenevano lontani da quel tetro porto e non attraccavano ai suoi moli. Dovunque si sapeva che gli abitanti di Kolder non erano come gli altri uomini, e che avere contatti con loro significava la dannazione.

Al giorno della morte di Hilder era seguita una notte di sanguinoso terrore. E solo un essere dotato della forza sovrumana di Koris avrebbe potuto sfuggire alla rete gettata per catturarlo. Poi vi fu solo morte, perché quando i Kolder giunsero a Gorm, Gorm cessò di esistere. Se adesso vi vivevano ancora alcuni di coloro che avevano conosciuto la vita sotto il regno di Hilder, non avevano speranze. Perché adesso Kolder era Gorm, sì, e non soltanto l’isola di Gorm, perché entro un anno cupe torri erano sorte in un altro tratto della costa, ed era nata una città chiamata Yle. Ma nessun uomo di Estcarp andava ad Yle… volontariamente.

Yle si estendeva come una chiazza sempre più ampia di putredine fra Estcarp e i suoi unici alleati, ad occidente… gli scorridori del mare di Forte Sulcar. Quei commercianti-guerrieri che conoscevano località selvagge e terre tanto diverse avevano costruito la loro roccaforte, per concessione di Estcarp, su una lingua di terra che si protendeva nel mare, la strada che permetteva loro di circumnavigare il mondo. I marinai di Forte Sulcar erano maestri del commercio, ma erano anche combattenti che si aggiravano incontrastati in mille porti. Nessun fante di Alizon, nessuno scudiero di Karsten rivolgeva la parola ad un uomo di Sulcar se non in tono gentile; e quei marinai erano considerati fratelli di spada dalle Guardie di Estcarp.

«Magnis Osberic non è il tipo da lanciare la freccia della chiamata, se non ha già munito le sue mura,» osservò Tunston, un ufficiale anziano, istruttore di tiro delle forze di Estcarp. Si alzò e si stirò. «Faremmo meglio a dare un’occhiata al nostro equipaggiamento. Se Forte Sulcar chiede aiuto, dovremo tenerci pronti a sguainare le spade.»

Koris si limitò a rispondere con un cenno del capo. Aveva intinto un dito nel boccale e stava tracciando righe sul tavolo lucido, mentre masticava distrattamente un pezzo di pane scuro. Quelle righe avevano un senso preciso per Simon, che guardava al di sopra delle spalle dell’altro: riproducevano mappe che aveva visto nella sala delle adunanze della fortezza cittadina.

La lingua di terra che recava Forte Sulcar all’estremità s’inarcava per cingere un’ampia baia, così che, attraverso la distesa delle acque, la città dei mercanti fronteggiava — a parecchie miglia di distanza — Aliz, il porto principale di Alizon. Entro i confini della baia era racchiusa l’isola di Gorm. E su questa, Koris tracciò scrupolosamente un punto per indicare Sippar, la città più importante.

Stranamente, Yle non si trovava sul lato della penisola rivolta verso la baia, ma sulla parte sudoccidentale della costa, verso il mare aperto. Poi c’era un lungo tratto accidentato che si estendeva verso sud, nel Ducato di Karsten, formato da scogliere rocciose che non offrivano ancoraggi sicuri alle navi. La baia di Gorm era stata il migliore sbocco della vecchia Estcarp sull’oceano occidentale.

Il Capitano delle Guardie studiò per un lungo istante lo schizzo, poi, con un’esclamazione d’impazienza, vi passò sopra la mano, cancellando le linee.

«C’è una sola strada che porta a Forte Sulcar?» chiese Simon. Dato che Yle si trovava a sud e Gorm a nord, gli eventuali contingenti partiti da uno dei due avamposti di Kolder avrebbero potuto tagliare in due la penisola senza troppa fatica.

Koris rise. «C’è una sola strada, e vecchia quanto il tempo. I nostri antenati non avevano previsto che Kolder s’insediasse in Gorm… chi avrebbe potuto immaginare una cosa simile? Per rendere sicura la strada,» proseguì, posando il pollice sul punto che aveva tracciato per indicare Sippar e premendolo sul legno levigato come se schiacciasse senza pietà un insetto, «dovremmo agire qui. Si cura una malattia colpendola all’origine, non occupandosi della febbre e del deperimento che segnano la sua presenza nell’organismo. E in questo caso,» concluse, alzando cupamente lo sguardo verso Tregarth, «non abbiamo elementi su cui basarci.»

«Una spia…»

L’ufficiale delle Guardie rise di nuovo. «Venti uomini si sono recati da Estcarp a Gorm. Uomini che si erano sottoposti al mutamento d’aspetto senza sapere se avrebbero mai più potuto vedere i loro volti in uno specchio, e tuttavia lieti di farlo… uomini fortificati da tutti gli incantesimi che la sapienza di questa terra poteva evocare per armarli. E da Sippar non si è saputo più nulla. Perché i Koldar non sono come gli altri uomini, e noi non sappiamo nulla dei loro mezzi di accertamento, a parte il fatto che sono infallibili. Alla fine, la Guardiana ha vietato altre iniziative del genere, poiché il consumo del Potere era troppo grande per quei risultati invariabilmente negativi. Io stesso ho tentato di andare laggiù, ma avevano gettato un incantesimo ai confini, e non sono stato in grado di spezzarlo. Sbarcare su Gorm significherebbe la morte, per me, e sono più utile ad Estcarp da vivo. No, non elimineremo questa piaga fino a che Sippar non sarà caduta, e non abbiamo ancora speranze di riuscirvi.»

«Ma… e se Forte Sulcar è minacciato?»

Koris riprese l’elmo. «Allora, amico Simon, entreremo in azione! Perché in questo sta la stranezza dei Kolder: quando combattono sulla loro terra o sulle loro navi, vincono sempre. Ma quando assalgono un territorio pulito, su cui non è ancora caduta la loro ombra, c’è speranza di sconfiggerli. E quando combattono gli uomini di Sulcar, i corvi della guerra hanno di che nutrirsi bene. Mi piacerebbe scontrarmi con i Kolder, appena possibile.»

«Verrò con te.» Era un’affermazione, più che una domanda. Simon si era accontentato di attendere e d’imparare. Aveva studiato con la pazienza appresa faticosamente negli ultimi anni, sapendo che fino a quando non avesse conosciuto le nozioni che qui significavano vita o morte non avrebbe potuto sperare di acquisire l’indipendenza. E qualche volta, durante i turni di notte, si era chiesto se per caso il tanto vantato Potere di Estcarp non era stato usato per indurlo ad accettare lo status quo senza discussioni e ribellioni. Ma se era così, ormai l’incantesimo stava cessando i suoi effetti; era deciso a vedere, di quel mondo, qualcosa di più della città; e sapeva che, se non fosse partito ora con la Guardia, sarebbe andato da solo.

Il Capitano lo scrutò. «Non si tratta di una rapida sortita.»

Simon rimase seduto: sapeva che all’altro non faceva piacere trovarsi di fronte a qualcuno più alto, e desiderava propiziarselo con quella cortesia che non gli costava nulla.

«Ti ho mai dato l’impressione di aspettarmi solo facili vittorie?» chiese in tono caustico.

«E allora, affidati ai dardi. Come spadaccino, non sei ancora migliore d’uno stalliere di Karsten!»

Simon non s’irritò per quelle parole: sapeva che era la verità. Come tiratore, con i lanciadardi era in grado di tener testa ai migliori del forte, ed a vincere di stretta misura. La lotta ed il combattimento senz’armi, in cui aveva introdotto i trucchi del judo, gli avevano assicurato una reputazione che ormai era arrivata sino alle fortezze del confine. Ma nell’uso della spada era di poco superiore alle reclute quasi imberbi. E quando maneggiava una delle mazze che Koris usava con agilità felina, lo faceva con estrema goffaggine.

«Userò il lanciadardi,» si affrettò a rispondere. «Ma verrò.»

«Così sia. Ma prima resta da vedere se dobbiamo metterci in marcia.»

La decisione fu presa nella riunione cui parteciparono gli ufficiali agli ordini di Koris e le streghe in servizio nel forte. Sebbene Simon non avesse un rango ufficiale, si azzardò a seguire il comandante e non venne respinto; sedette sul muretto, sotto una delle finestre, studiando con attenzione i presenti.

Presiedeva la Guardiana che governava il forte ed Estcarp, la donna senza nome che l’aveva interrogato all’arrivo. E dietro il suo seggio stava in piedi la strega sfuggita ai segugi di Alizon. Erano presenti altre cinque streghe, senza età — e senza sesso, si sarebbe detto — ma attente e vigili. Simon avrebbe preferito combattere con il loro appoggio piuttosto che avversarle. Non aveva mai conosciuto nessuno che somigliasse a loro, e non aveva mai visto personalità tanto poderose.

Adesso, di fronte a loro, stava un uomo che faceva apparire più piccolo tutto ciò che gli stava intorno. In qualunque altro luogo avrebbe potuto dominare la scena. Gli uomini di Estcarp erano alti e magri: ma questo sembrava un toro bronzeo, e accanto a lui essi apparivano come adolescenti che non avessero ancora finito di crescere. La corazza che gli copriva il petto sarebbe bastata quasi a ricavare due scudi per le Guardie; le spalle e le braccia erano poderose come quelle di Koris, ma il resto del suo corpo era in perfetta armonia.

Aveva il mento rasato, ma sul labbro superiore spuntavano baffi ispidi che si allungavano sulle guance coriacee. Le sopracciglia erano come una seconda barra pelosa sulla parte superiore del viso. L’elmo era sormontato da una testa d’orso, modellata splendidamente, con il muso contratto in un ringhio minaccioso. Un’enorme pelle d’orso, conciata e foderata di stoffa zafferano, formava il mantello: le zampe anteriori, ornate d’artigli d’oro, erano allacciate sotto il mento squadrato.

«Noi del Forte Sulcar rispettiamo la pace dei mercanti.» Evidentemente si sforzava di dominare la propria voce, ma riecheggiava tra le pareti della saletta. «È la manteniamo con le nostre spade, se si presenta la necessità. Ma contro gli stregoni della notte, a cosa serve l’acciaio? Non contesto l’antica sapienza,» disse, rivolgendosi direttamente alla Guardiana, come se si fronteggiassero attraverso il banco di una bottega. «Ognuno ha i suoi dei ed i suoi poteri, ed Estcarp non ha mai imposto ad altri la sua fede. Ma Kolder si comporta in modo ben diverso. Dilaga, ed i suoi nemici scompaiono! Ti assicuro, signora, che il nostro mondo morrà, se non ci leviamo insieme per erigere una barriera contro questa marea.»

«E tu, Mastro Mercante,» chiese la Guardiana, «hai mai veduto un uomo nato da donna che potesse controllare le maree?»

«Controllarle, no: ma sfruttarle, sì! Questa è la mia magia!» Il colosso si batté la mano sulla corazza in un gesto che sarebbe apparso teatrale in un altro, ma che in lui era naturale. «Ma non abbiamo simpatie per i Kolder, e quelli ora intendono colpire Forte Sulcar! Lascia che quegli sciocchi di Alizon credano di poter tenersi fuori: a tempo debito, verranno trattati come Gorm. Ma gli uomini di Sulcar hanno munito le loro mura… e combatteranno. E quando il nostro porto sarà caduto, le maree si avvicineranno a voi, signora. Dicono che possediate la magia del vento e della tempesta, e gli incantesimi che mutano la forma e la mente degli uomini. La vostra magia può resistere a Kolder?»

La donna si portò le mani alla gemma che le brillava sul petto e la sfiorò.

«Ti sto dicendo la verità, Magnis Osberic… non so. Kolder è un’incognita: non siamo riusciti a violarne le mura. Per il resto… sono d’accordo. È venuto il momento di resistere. Capitano,» disse, rivolgendosi a Koris, «qual è la tua opinione?»

Il bel volto di Koris non perse l’espressione amareggiata, ma i suoi occhi brillarono.

«Dico che dobbiamo usare le spade, finché possiamo! Con il tuo permesso, Estcarp andrà in soccorso di Forte Sulcar.»

«Le spade di Estcarp andranno in soccorso di Forte Sulcar, se questa è la tua decisione, Capitano, perché tua è la via delle armi. Ma verrà anche l’altro Potere, affinché possiamo offrire tutta la forza che è a nostra disposizione.»

La donna non fece alcun gesto, questa volta, ma la strega che era stata a spiare in Alizon girò intorno al seggio e si portò alla destra della Guardiana. I suoi scuri occhi obliqui scrutarono i presenti, fino a quando incontrarono Simon, che sedeva in disparte.

Forse l’ombra di un sorriso, svanita dopo un istante, s’era diffusa dagli occhi alle labbra? Simon non avrebbe potuto giurarlo, ma pensava che fosse così. Senza comprenderne il perché, sentì in quel momento un filo sottile che si tendeva tra loro; e non sapeva se quel legame lo irritasse o no.

Quando uscirono dalla città, a metà del pomeriggio, Simon si accorse che il suo cavallo procedeva al passo con quello di lei. Come gli uomini della Guardia, la donna portava l’usbergo di maglia e l’elmo con la lunga sciarpa metallica. Non c’erano differenze esteriori tra lei e gli altri, perché portava a fianco una spada ed un lanciadardi come quello di Simon.

«Dunque, guerriero venuto da un altro mondo…» La voce di lei era sommessa, e Simon pensò che volesse farsi udire da lui soltanto. «Ancora una volta percorriamo la stessa strada.»

Qualcosa, nella serena compostezza della donna, lo irritò. «Speriamo che, questa volta, saremo i cacciatori e non la selvaggina.»

«A ciascuno la sua giornata,» disse lei, indifferente. «In Alizon ero stata tradita, ed ero disarmata.»

«Mentre ora cavalchi con spada e lanciadardi.»

Lei diede un’occhiata al suo equipaggiamento e rise. «Sì, Simon Tregarth, con spada e lanciadardi… ed altre cose. Ma hai ragione di pensare a ciò che pensi: ci avviamo verso un incontro tenebroso.»

«È precognizione, signora?» La sua impazienza crebbe. In quel momento, era un miscredente. Confidare nell’acciaio era più facile che affidarsi alle intuizioni, agli sguardi, alle sensazioni.

«Precognizione, Simon.» Gli occhi obliqui lo guardarono con quell’ombra d’un sorriso. «Non ti impongo impegni, straniero. Ma so questo: i fili delle nostre due vite sono stati raccolti insieme nella Mano della Guardiana Celeste. Ciò che desideriamo e ciò che si avvererà possono essere due cose ben diverse. Dirò questo, e non solo a te, ma a tutti questi guerrieri… guardatevi dal luogo dove le rocce s’inarcano alte e risuona il grido delle aquile di mare!»

Simon sorrise forzatamente. «Credimi, signora, in questa terra io sto in guardia come se avessi occhi anche sulla nuca. Non è la mia prima spedizione.»

«Questo è noto. Altrimenti non saresti partito con il Falco.» La donna indicò Koris con un cenno del mento. «Se tu non fossi fatto di stoffa adatta non ti avrebbe voluto con sé. Koris è di stirpe guerriera, ed è un condottiero nato… per buona sorte di Estcarp!»

«E tu prevedi pericolo a Forte Sulcar?» insistette Simon.

Lei scosse il capo. «Tu sai com’è il Dono. Ci sono concessi solo frammenti… mai l’intero quadro. Ma nella mia immagine mentale non vi sono le mura d’una città. Tieni pronto il lanciadardi, Simon, e snuda i tuoi pugni esperti.» Sembrava di nuovo divertita, ma la sua risata non era ironica… era piuttosto la gaiezza del cameratismo. Simon sapeva che doveva accettarla alle sue condizioni.

Capitolo quinto Battaglia di demoni

Le truppe di Estcarp affrettarono l’andatura; ma li attendeva ancora un giorno di viaggio, quando ebbero superato l’ultimo posto di frontiera e si diressero verso la curva della strada che conduceva al porto. Avevano cambiato regolarmente i cavalli alle fortezze della Guardia ed avevano trascorso la notte nell’ultima, procedendo ad un trotto costante che divorava le miglia.

Sebbene gli uomini di Sulcar non cavalcassero con la stessa disinvoltura delle Guardie, restavano ostinatamente piazzati sulle selle che sembravano troppo piccole per la loro mole — Magnis Osberic non era il solo gigante, tra loro — e procedevano con la rabbiosa decisione di chi vede nel tempo un nemico minaccioso.

Ma il mattino era luminoso, e distese di arbusti dai fiori purpurei traevano splendore dal sole. L’aria portava la promessa delle onde salmastre e Simon provò un senso d’esaltazione che credeva di aver perduto ormai da molto tempo. Non si accorse di canticchiare sino a quando una voce un po’ roca, alla sua sinistra, lo interruppe.

«Gli uccelli cantano prima che il falco attacchi.»

Simon accettò quella frase ironica con buona grazia. «Mi rifiuto di ascoltare il gracchiare degli annunci di sventura… è una giornata troppo bella.»

La donna scostò la sciarpa di maglia metallica che le avvolgeva le spalle e la gola, come se quelle pieghe morbide l’imprigionassero. «Il mare… è nel vento…» Il suo sguardo vagò verso il punto dove la strada s’increspava all’orizzonte. «Noi di Estcarp abbiamo un po’ di mare nelle vene. È per questo che il sangue di Sulcar può mescolarsi con il nostro, come è avvenuto spesso. Un giorno mi piacerebbe avventurarmi sul mare. C’è un’attrazione nel movimento delle onde che si ritraggono dalla riva.»

Le sue parole erano un mormorio canoro, ma all’improvviso Simon si scosse: la melodia che aveva canticchiato gli si inaridì in gola. Non possedeva i doni delle streghe di Estcarp: ma nel profondo del suo essere qualcosa fremette, prese vita, e prima che avesse compreso la ragione del suo gesto, levò di scatto la mano in un segnale del suo passato, mentre tirava le redini del cavallo.

«Sì!» La donna alzò la mano a sua volta, e gli uomini che li seguivano si fermarono. Koris girò fulmineamente la testa: diede il segnale e l’intera compagnia si arrestò.

Il Capitano passò momentaneamente il comando a Tunston e tornò indietro. Avevano inviato esploratori lungo i fianchi della colonna: non si poteva certo parlare di scarsa vigilanza.

«Che c’è?» domandò Koris.

«Stiamo per imbatterci in qualcosa.» Simon scrutò il terreno più avanti: era scoperto, sotto il sole, e non sembrava nascondere insidie. Non si muoveva nulla, eccetto un uccello che volteggiava altissimo. Il vento era caduto, e i suoi refoli non scuotevano più gli arbusti. Eppure Simon avrebbe scommesso che davanti a loro c’era una trappola in attesa di scattare.

Lo stupore di Koris fu transitorio. Aveva già deviato lo sguardo da Simon alla strega. Lei stava protesa in avanti sulla sella, con le narici dilatate, ed aspirava profondamente. Sembrava che cercasse un’usta, come un segugio. Lasciò cadere le redini, mosse le dita tracciando certi segni, e poi annuì bruscamente, con profonda convinzione.

«Ha ragione lui. C’è uno spazio vuoto, più avanti, e non riesco a penetrarlo. Può essere una barriera di forza… o può nascondere un agguato.»

«Ma come ha potuto… non possiede il dono!» La protesta di Koris fu immediata ed aspra. Lanciò un’occhiata a Simon, che non riuscì ad interpretarla: ma non era certo un’espressione di fiducia. Poi impartì gli ordini, spronando il cavallo per guidare personalmente una di quelle manovre avvolgenti ideate per attirare allo scoperto un nemico troppo impaziente.

Simon estrasse il lanciadardi. Come aveva compreso… come sapeva che stavano avanzando nel pericolo? Già in passato aveva notato qualche indizio di quella facoltà precognitiva… come la notte in cui aveva incontrato Petronius: ma non era mai stata così nitida e chiara, carica di una forza che aumentava mentre lui procedeva.

La strega restò accanto a lui, dietro la prima schiera delle Guardie, e prese a cantilenare. Aveva estratto dal giaco di maglia metallica la gemma offuscata che era nel contempo un’arma e l’emblema del suo ministero. Poi la sollevò sopra la testa, tendendo le braccia, e gridò un comando, in una lingua diversa da quella che Simon aveva faticosamente imparato.

Apparve una formazione naturale di rocce che puntavano verso il cielo come le zanne d’una mandibola gigantesca; la strada passava tra due di esse, che si congiungevano formando un arco. Ai piedi delle pietre erette c’era una massa di cespugli, morti e bruni o vivi e verdi, che formavano uno schermo.

Un sottile raggio di luce, irradiato dalla gemma, colpì la roccia più alta: e nel punto di contatto tra la pietra e la luce si levò una spira di nebbia che si addensò, avvolgendo le colonne e la vegetazione.

E da quella coltre di vapore biancogrigiastro eruppe l’attacco: un’ondata di uomini armati e corazzati che avanzavano correndo, nel silenzio più totale. Gli elmi coprivano le teste, con le visiere abbassate, e conferivano a quegli esseri l’aspetto di uccelli rapaci. E quell’avanzata, senza ordini gridati e senza richiami, accresceva la stranezza dell’improvvisa sortita.

«Sul… Sul… Sul!!!» Gli scorridori del mare avevano sguainato le spade, e le facevano roteare al ritmo del grido tonante, mentre si disponevano in formazione a cuneo: Magnis Osberic era alla loro testa.

Le Guardie non lanciarono grida, e Koris non impartì ordini. Ma i tiratori scelti presero la mira e spararono, gli uomini armati di spada avanzarono al galoppo, levando alte le lame. E avevano il vantaggio di essere a cavallo, mentre i nemici silenziosi erano a piedi.

Simon aveva studiato le armature di Estcarp, e ne conosceva i punti deboli. Non sapeva se si poteva dire altrettanto delle armature di Kolder: comunque, mirò all’ascella di un uomo che stava sferrando un colpo alla prima Guardia giunta a contatto con l’ondata nemica. Il Kolder roteò su se stesso e crollò di schianto: la visiera appuntita si piantò nella terra.

«Sul… Sul… Sul…!» Il grido di guerra degli uomini di Sulcar era come il rombo della risacca, quando le due schiere s’incontrarono, si mescolarono, turbinarono in un rabbioso combattimento corpo a corpo. Nei primi istanti della mischia, Simon non badò a nulla, solo a ciò che doveva fare lui stesso, solo alla necessità di trovare un bersaglio. E poi cominciò a notare le caratteristiche degli uomini contro cui si battevano.

I guerrieri di Kolder non cercavano di difendersi. Uno dopo l’altro, si avventavano ciecamente verso la morte, senza passare in tempo dall’attacco alla difesa. Nessuno schivava, nessuno alzava lo scudo o la spada per evitare i colpi. I fanti si battevano con torva ferocia, ma quasi meccanicamente. Sembravano giocattoli ad orologeria, pensò Simon, caricati e messi in moto.

Eppure, avevano fama di essere i nemici più formidabili conosciuti su quel mondo! Ma ora venivano abbattuti con la stessa facilità con cui un bambino avrebbe potuto rovesciare una fila di soldatini di plastica.

Simon abbassò il lanciadardi. Qualcosa, dentro di lui, si ribellava all’idea di prendere di mira quei guerrieri. Spronò il cavallo verso destra, e vide una delle teste dalla visiera a becco girarsi nella sua direzione. Il Kolder avanzò al piccolo trotto, ma non impegnò Simon come questi si attendeva. Invece, si avventò come una tigre… sulla strega.

La perfezione con cui lei controllava il suo cavallo la salvò dalla violenza dell’urto: la sua spada descrisse un arco dall’alto in basso. Ma il colpo non era perfetto: urtò la visiera appuntita del Kolder e venne deviato oltre la spalla.

Anche se quell’individuo poteva essere cieco sotto altri aspetti, era esperto nella scherma. La lunga lama azzurra lampeggiò, superò la spada della strega e gliela fece sbalzare dalla mano. Allora il Kolder gettò via la sua arma, e la mano coperta dal guanto di nera maglia metallica l’afferrò alla cintura, strappandola dalla sella nonostante la sua resistenza, con la stessa facilità con cui avrebbe potuto farlo Koris.

Simon si avventò sul Kolder: e la bizzarra carenza che stava facendo perdere lo scontro ai suoi camerati era presente anche in quell’uomo. La strega lottava così disperatamente nella sua stretta che Simon non osò servirsi della spada. Sfilò il piede dalla staffa, mentre spingeva avanti il cavallo, e sferrò un calcio con tutte le sue forze.

La punta dello stivale colpì la parte posteriore dell’elmo rotondo del Kolder, e l’urto intorpidì il piede di Simon. L’uomo perse l’equilibrio e crollò in avanti, trascinando con sé la strega. Simon balzò dalla sella, barcollando, temendo che la gamba informicolita cedesse. Le sue mani brancolanti scivolavano sulle spalle corazzate del Kolder, ma riuscì a strapparlo via dalla donna ansimante ed a scagliarlo riverso sul dorso: quello restò là, come uno scarafaggio, agitando debolmente le mani e le gambe e volgendo verso l’alto la visiera appuntita.

La donna si sfilò i guanti e s’inginocchiò accanto al Kolder, per slacciargli le fibbie dell’elmo. Simon l’afferrò per le spalle.

«Monta!» ordinò, conducendo il cavallo verso di lei.

La donna scosse il capo, e continuò quel che stava facendo. La cinghia cedette, e lei strappò via l’elmo. Simon non sapeva che cosa si fosse aspettato di vedere. La sua immaginazione, più vivida di quanto lui stesso fosse disposto ad ammettere, aveva evocato diverse immagini mentali degli odiati alieni… ma nessuna corrispondeva alla realtà.

«Herlwin!»

L’elmo di Koris, con il cimiero a forma di falco, si interpose tra Simon e quella faccia: il Capitano della Guardia s’inginocchiò a fianco della strega. Le sue mani si protesero verso le spalle del caduto come per stringerlo in un abbraccio amichevole.

Gli occhi erano azzurroverdi come quelli del Capitano, in un volto altrettanto bello e regolare: ma non fissavano colui che l’aveva chiamato, e neppure gli altri due che gli stavano intorno. La strega staccò le mani di Koris. Sollevò con le dita il mento dell’uomo, tenendo ferma la testa ondeggiante e scrutando quegli occhi ciechi. Poi lo lasciò e si scostò, pulendosi vigorosamente le mani sull’erba ruvida. Koris la guardò.

«Herlwin?» Era più una domanda rivolta alla strega che un appello all’uomo chiuso nell’armatura dei Kolder.

«Uccidilo!» ordinò lei, a denti stretti. La mano di Koris scattò verso la spada che aveva lasciato cadere sull’erba.

«Non puoi!» protestò Simon. Herlwin era ormai innocuo, stordito dal tonfo. Non potevano trafiggerlo a sangue freddo. Lo sguardo della donna cercò il suo: era gelido come l’acciaio. Poi lei indicò la testa del caduto, che ondeggiava di nuovo avanti e indietro.

«Guarda, uomo di un altro mondo!» E lo tirò giù, accanto a sé.

Con una strana riluttanza, Simon fece ciò che aveva fatto lei: prese tra le mani la testa dell’uomo. E nell’istante del contatto sussultò violentemente. Non c’era calore umano in quella pelle: non aveva il freddo del metallo o della pietra, ma di una sostanza immonda e flaccida, sebbene apparisse compatta allo sguardo. Quando fissò lo sguardo in quegli occhi vitrei sentì, più che non vedesse, un nulla totale che non poteva essere il risultato di un colpo, per quanto energico e ben centrato. Era qualcosa che non aveva mai conosciuto… un pazzo ha ancora l’umanità, un corpo mutilato o storpiato può suscitare una pietà che attenua l’orrore. Ma lì era la negazione di tutto ciò che era giusto, una cosa atrocemente isolata dal mondo, e Simon non poteva credere che fosse destinata a vedere il sole ed a camminare sulla terra.

Come aveva fatto poco prima la strega, si ripulì le mani sull’erba, cercando di liberarsi dalla contaminazione. Si rialzò in piedi e voltò le spalle, mentre Koris brandiva la spada. Ciò che il capitano aveva colpito era già morto… morto da molto tempo… e dannato.

C’erano soltanto morti nell’esercito di Kolder, adesso, e due guardie erano state uccise, ed il cadavere d’un uomo di Sulcar legato sulla sella del suo cavallo. L’attacco era stato d’una inefficienza così sorprendente che Simon poteva soltanto chiedersi perché fosse stato lanciato. Seguì il Capitano, e si accorse che stava cercando di scoprire qualcosa.

«Togliete gli elmi ai caduti!» L’ordine passò da un gruppo di Guardie all’altro. E sotto ognuno di quegli elmi dalla visiera appuntita videro gli stessi volti pallidi, con i corti capelli biondi: i lineamenti indicavano che erano della stessa razza di Koris.

«Midir!» Il capitano si soffermò accanto ad un altro caduto. Una mano si mosse: dalla gola dell’uomo uscì un rantolo di morte. «Uccidetelo!» L’ordine del capitano era spassionato: e venne eseguito con rapida efficienza.

Koris andò ad esaminare ognuno dei caduti, e altre tre volte ordinò di dare il colpo di grazia. Una muscolo tremava all’angolo della bocca ben modellata, e ciò che ardeva nei suoi occhi era ben diverso dal nulla che si era rispecchiato negli occhi dei nemici. Dopo aver completato il giro, il comandante tornò da Magnis e dalla Strega.

«Sono tutti di Gorm!»

«Erano tutti di Gorm,» lo corresse la donna. «Gorm è morta quando ha aperto le porte ai Kolder. Coloro che giacciono qui non sono gli uomini che tu ricordi, Koris. Non sono più uomini da molto tempo… molto, molto tempo! Sono mani e piedi, macchine da combattimento al servizio dei loro padroni, ma non hanno vita. Quando il Potere li ha costretti ad uscire dal nascondiglio, hanno potuto solo obbedire all’unico ordine che avevano ricevuto… attaccare ed uccidere. I Kolder possono servirsi di queste loro creature per indebolire le nostre forze prima di sferrare i colpi peggiori.»

La bocca del Capitano si contrasse in qualcosa che sembrava un sorriso, ma non lo era.

«Quindi, in un certo senso, tradiscono una loro debolezza. È possibile che siano a corto di combattenti?» Poi si corresse, rinfoderando la spada, bruscamente. «Ma chi può sapere cosa c’è nella mente di un Kolder… Se sono in grado di far questo, forse hanno in serbo per noi altre sorprese.»

Simon procedette all’avanguardia, quando lasciarono il campo di battaglia. Non aveva potuto collaborare nell’esecuzione del compito finale che la strega aveva imposto, e adesso preferiva non pensare ai cadaveri decapitati. Era difficile accettare quella che sapeva essere la verità.

«I morti non combattono!» Non si era accorto di aver proferito a voce alta quella protesta, se non nel momento in cui Koris gli rispose.

«Herlwin sembrava nato dal mare. L’ho visto dare la caccia al pesce lancia armato soltanto di un coltello. Midir era una recluta della guardia, e inciampava ancora per la fretta quando suonava la tromba dell’adunata, al tempo in cui i Kolder vennero a Gorm. Li conoscevo bene entrambi. Eppure i corpi che abbiamo lasciato dietro di noi non erano né Herlwin né Midir.»

«Un uomo è tre cose.» Era la strega a parlare, adesso. «È un corpo che agisce, una mente che pensa, uno spirito che sente. Oppure nel tuo mondo gli uomini sono costruiti in modo diverso, Simon? Non posso crederlo, perché tu agisci, pensi e senti! Uccidi il corpo e libererai lo spirito; uccidi la mente, e spesso il corpo deve continuare a vivere per qualche tempo in una dolorosa schiavitù, suscitando la pietà altrui. Ma uccidi lo spirito e permetti che continui a vivere il corpo, forse anche la mente…» La sua voce tremava. «È un peccato che trascende la capacità di comprensione della nostra razza. Ed è appunto la sorte toccata agli uomini di Gorm. Ciò che appare sotto il loro aspetto non dovrebbe neppure essere veduto dagli esseri viventi! Soltanto l’empio commercio con le cose più proibite poteva produrre una simile morte.»

«E sarà il modo in cui morremo noi, signora, se i Kolder entreranno nel Forte Sulcar, come entrarono in Gorm.» Il Mastro Mercante spinse il robusto cavallo al loro fianco.

«Qui li abbiamo sconfitti: ma che accadrà, se potranno radunare legioni di uomini semivivi per assaltare le nostre mura? Vi sono solo pochi guerrieri nel forte, poiché questa è la stagione dei commerci, e i nove decimi delle nostre navi sono in mare. La fortezza è pressoché sguarnita. Un uomo può avere la volontà di mozzare molte teste, ma il suo braccio si stanca. E se i nemici continueranno ad affluire, potranno sopraffarci grazie alla sola superiorità numerica. Infatti non hanno paura per se stessi, e continuano ad avanzare anche quando uno di noi, al loro posto, si comporterebbe diversamente!»

Koris e la strega non risposero. Simon si sentì un po’ rassicurato quando, ore dopo, scorse per la prima volta il porto mercantile. Anche se la prima vocazione degli uomini di Sulcar era la navigazione, erano anche abili costruttori, e avevano sfruttato tutti i vantaggi naturali del luogo che avevano scelto per erigere la fortezza. Verso terra, c’erano le mura con le torri di guardia e feritoie in abbondanza. Solo quando Magnis Osberic li condusse all’interno poterono rendersi conto della potenza della fortezza.

Due bracci di rocce si protendevano incurvandosi verso il mare, come le chele di un granchio: e in mezzo c’era il porto. Ma ognuna delle chele era stata rinforzata con muri, tratti di mattoni, posti d’osservazione, piccoli fortini, collegati alla massa centrale da un labirinto di passaggi sotterranei. Dov’era possibile, le mura esterne scendevano fino all’acqua, in modo da non offrire appigli agli assedianti.

«Si direbbe,» commentò Simon, «che il Forte di Sulcar sia stato costruito in previsione di una guerra.»

Magnis Osberic rise, bruscamente. «Mastro Tregarth, la Pace delle Strade può essere valida per la nostra gente entro i confini di Estcarp, e in una certa misura anche entro quelli di Alizon e di Karsten… purché noi facciamo risuonare il tintinnio dell’oro all’orecchio di certe persone. Ma altrove, in tutto il mondo, noi mettiamo in mostra le spade, insieme alle nostre merci, e questo è il cuore del nostro regno. Nei magazzeni c’è il nostro sangue vitale… perché le merci che barattiamo sono la nostra esistenza. Saccheggiare Forte Sulcar è il sogno di tutti i signorotti e di tutti i pirati di questo mondo!

«Può darsi che i Kolder siano una razza di demoni, come si vocifera: ma non disdegnano le cose belle di questa terra. Anch’essi vorrebbero tuffare le zampe nelle nostre ricchezze. È per questo che noi abbiamo, qui, anche un’ultima difesa… se Forte Sulcar cadesse, i suoi conquistatori non ne trarrebbero profitto!» Batté il grosso pugno sul parapetto, violentemente. «Forte Sulcar fu costruito ai tempi del mio bisavolo, per assicurare alla nostra razza un porto sicuro in caso di tempesta… la tempesta della guerra, e non soltanto del vento e delle onde. Ed ora sembra che ne abbiamo veramente bisogno.»

«Tre navi in porto.» Koris le aveva contate. «Un mercantile e due vascelli armati.»

«Il mercantile partirà per Karsten all’alba. Poiché trasporta merci per il Duca, potrà battere la sua bandiera, e il suo equipaggio non avrà bisogno di armi nel porto d’arrivo,» osservò Osberic.

«Si dice che il Duca intenda sposarsi. Ma c’è un monile samiano, in uno scrigno caricato a bordo, destinato al collo candido di Aldis. Si direbbe che Yvian sia intenzionato a mettere il braccialetto nuziale al polso di un’altra: ma non ha intenzione di portarne uno anche lui.»

La strega scrollò le spalle; e Koris sembrava interessato alle navi, più che ai pettegolezzi del regno vicino. «E i vascelli armati?» chiese.

«Quelli resteranno, per un po’.» Il Mastro Mercante divenne evasivo. «Svolgeranno servizio di pattuglia. Preferisco sapere chi si avvicina per mare.»

Un bombardiere avrebbe potuto ridurre in macerie il guscio esterno di Forte Sulcar con un paio di passaggi, l’artiglieria pesante avrebbe potuto sfondarne le mura massicce in poche ore, pensò Simon mentre continuava il giro d’ispezione insieme a Koris. Ma c’era un labirinto di gallerie e di camere, sotto le fondamenta, e alcune portavano al mare. Gli accessi erano chiusi da porte sbarrate. A meno che i Kolder disponessero di armi molto superiori a quelle che aveva avuto modo di vedere su quel mondo, il nervosismo dei mercanti era ingiustificato. E lo si poteva anche credere, fino a quando si ricordavano i guerrieri di Gorm.

Simon notò poi che, sebbene vi fossero numerosi corpi di guardia, ed arsenali piene di panoplie cariche d’armi, e soprattutto di pesanti asce, c’erano pochi uomini, sparsi qua e là, e le pattuglie di guardia erano molto distanziate, sulle mura. Forte Sulcar era in grado di accogliere e di equipaggiare migliaia di uomini, ma lì erano poco più di cento.

Koris, la strega e Simon salirono su una torre affacciata sul mare, e il vento della sera li investì.

«Non oso spogliare Estcarp dei suoi uomini,» disse rabbiosamente Koris, come se rispondesse ad una osservazione che i suoi compagni non avevano formulato, «per concentrare qui il grosso delle nostre forze. Sarebbe come invitare Alizon ed il Ducato ad invaderci da nord e da sud. Osberic è protetto da un guscio che neppure le fauci dei Kolder potrebbero stritolare, secondo me; ma, dentro, gli uomini mancano. Ha atteso troppo a lungo: con tutti i suoi, se li avesse tenuti in porto, avrebbe potuto spuntarla. Ma così, ne dubito.»

«Ne dubiti, Koris, ma combatterai,» disse la donna. Il suo tono non era né incoraggiante né scoraggiante. «Perché è quel che bisogna fare. E può darsi che questa fortezza spezzi le fauci dei Kolder. Ma Kolder si avvicina… in questo la previsione di Magnis è esatta.»

Il Capitano la guardò, ansiosamente: «Hai una precognizione da annunciarmi, signora?»

Lei scosse il capo. «Non pretendere da me quello che non posso dare, Capitano. Quando siamo finiti in quell’imboscata, non riuscivo a vedere altro che un vuoto, davanti a noi. Ho riconosciuto Kolder da quel segno negativo. Ma non posso fare di meglio. E tu, Simon?»

Tregarth trasalì. «Io? Ma io non possiedo il tuo Potere…» incominciò; poi aggiunse, sinceramente: «Non posso dire nulla… Solo, come soldato ritengo che questo forte sia efficiente: ma ora mi ci sento prigioniero.» Aveva aggiunto quelle parole quasi senza riflettere, ma sapeva che erano esatte.

«Questo non lo diremo ad Osberic,» decise Koris. Continuarono, insieme, ad osservare il porto mentre il sole tramontava, e la città perse sempre di più il suo aspetto di rifugio ed assunse quello di una gabbia.

Capitolo sesto La nebbia

Cominciò un poco dopo mezzanotte… quella linea strisciante che avanzava attraverso il mare, cancellando le stelle e le onde, e sospingendo davanti a sé un soffio gelido che non era creato dal vento né dalla pioggia, ma che si insinuava insidiosamente nelle ossa, ricopriva gli usberghi di gocce oleose, aveva un sapore salmastro e tuttavia leggermente putrido.

La fila dei globi luminosi che seguivano le curve delle fortificazioni del porto venne sommersa. Una ad una, le chiazze di luce venivano soffocate, e restavano solo vaghe screziature giallognole. Era come vedere un mondo cancellato spanna a spanna.

Simon camminava avanti e indietro sulla piccola piattaforma di guardia della torre centrale. Metà delle fortificazioni esterne, ormai, era stata inghiottita, perduta. Uno degli agili vascelli attraccati nel porto era tagliato in due da quella cortina. Non somigliava alle nebbie naturali che aveva visto: neppure alle famosi coltri di nebbia di Londra, o i velenosi smog industriali del suo mondo. Il modo in cui avanzava da occidente faceva pensare ad una sola cosa… era una cortina dietro la quale poteva prepararsi un attacco.

Stordito e turbato, udì il clamore dei segnali d’allarme delle mura, i grandi gong bronzei piazzati lungo i bracci del porto. L’attacco! Mentre raggiungeva la porta della torre, incontrò la strega.

«Stanno attaccando!»

«Non ancora. Sono i segnali della tempesta, per guidare le navi che potrebbero trovarsi nelle vicinanze del porto.»

«Una nave Kolder!»

«Può darsi. Ma non si possono sovvertire in un’ora le tradizioni dei secoli. Nella nebbia, i gong di Forte Sulcar sono al servizio dei marinai, e solo gli ordini di Osberic potrebbero cambiare la situazione.»

«Allora si conoscono già nebbie come questa?»

«Si conoscono le nebbie. Come questa… è un’altra faccenda.»

Gli passò accanto per uscire, volgendosi verso il mare come aveva fatto Simon qualche momento prima, e scrutò il porto che scompariva rapidamente.

«Noi che possediamo il Potere siamo in grado di esercitare un certo controllo sugli elementi naturali, anche se, come tutto il resto, il successo o l’insuccesso esorbitano dalle nostre capacità di previsione. Ognuna delle mie sorelle è capace di produrre una nebbia che confonde non soltanto gli occhi degli incauti, ma anche le loro menti… per un certo tempo. Ma questa è diversa.»

«È naturale?» insistette Simon, certo che non lo fosse. Non avrebbe saputo spiegare il perché di quella convinzione.

«Quando un vasaio crea un vaso, dispone l’argilla sulla ruota e la modella con mani esperte, facendola corrispondere al progetto che ha nei suoi pensieri. L’argilla è un prodotto della terra, ma ciò che ne cambia la forma è il prodotto dell’intelligenza e dell’esperienza. Sono certa che qualcuno — o qualcosa — ha raccolto ciò che fa parte del mare, o dell’aria, e l’ha modellato secondo i suoi scopi.»

«E tu che cosa farai, signora?» Koris si era avvicinato. Si diresse al parapetto e batté le mani sulla pietra imperlata di gocce d’acqua. «In questa nebbia, saremo praticamente ciechi?»

La strega non distolse lo sguardo dalla nebbia, scrutandola con l’attenzione di un assistente di laboratorio impegnato in un esperimento decisivo.

«Forse i Kolder cercano la cecità; ma la cecità può essere un’arma a doppio taglio. Se creano un’illusione… allora è meglio combatterli con lo stesso trucco!»

«Combattere la nebbia con la nebbia?» chiese il Capitano.

«Non si può combattere un trucco con un trucco identico. I Kolder attingono all’aria e all’acqua. Perciò anche noi dobbiamo usare acqua ed aria, ma in modo diverso.» La strega si batté contro i denti l’unghia del pollice. «Sì, potrebbe essere una mossa capace di sconcertarli,» mormorò, voltandosi. «Dobbiamo scendere al porto. Chiedi a Magnis un quantitativo di legna: rami ben secchi, se ne ha. Ma, se non ne ha, procurati i coltelli per poter tagliare il legno. E anche qualche straccio. E porta tutto al molo centrale.»

Il clamore soffocato dei gong continuava ad echeggiare attraverso il porto mentre il gruppetto di uomini di Sulcar e di Guardie usciva sul molo. Portavano bracciate di pezzi di legno, e la strega scelse il più piccolo. Impugnando il coltello, si sforzò di scolpire i rozzi contorni di una barca, con la prua appuntita e la poppa arrotondata. Simon gliela tolse dalle mani, staccando con facilità i trucioli bianchi: vedendo l’approvazione della donna, altri lo imitarono.

Fabbricarono una flotta di dieci, e poi di venti, e poi di trenta barchette minuscole che stavano nel cavo di una mano; ognuna aveva un albero fatto con uno stecco, ed una vela di stoffa che la strega aveva provveduto a legare. Lei s’inginocchiò davanti alla fila e, chinandosi, soffiò scrupolosamente su ogni piccola vela, premette per un istante il dito sulla prua d’ogni minuscola imbarcazione.

«Vento ed acqua, vento ed acqua,» cantilenò. «Vento per affrettare, acqua per portare, mare per sostenere, nebbia per intrappolare!»

Le sue mani si mossero rapidamente, gettando uno dopo l’altro i rozzi simulacri delle acque del porto. La nebbia li aveva quasi raggiunti, ma non era ancora abbastanza densa per impedire a Simon di scorgere uno spettacolo sorprendente. Le minuscole barche si erano disposte in una formazione a cuneo, puntata direttamente verso il largo. E quando la prima varcò la linea della cortina di nebbia, non fu più un ninnolo intagliato frettolosamente, ma una nave agile e splendente, più bella dei vascelli che Osberic aveva mostrato con orgoglio.

La strega si aggrappò al polso di Simon per rialzarsi in piedi. «Non credere a tutto ciò che vedi, uomo di un altro mondo. Noi che abbiamo il Potere creiamo illusioni. Ma speriamo che questa illusione sia efficace quanto la loro nebbia, e spaventi gli invasori.»

«Non possono essere navi vere!» Simon protestò ostinatamente, incapace di credere ai propri occhi.

«Noi contiamo troppo sui nostri sensi esteriori. Se si possono ingannare gli occhi, le dita, il naso… allora la magia è concreta, per qualche tempo. Dimmi, Simon, se intendessi entrare in questo porto per attaccarlo, e poi vedessi intorno alle tue navi, nella nebbia, una flotta di cui non avevi sospettato la presenza, non ci penseresti due volte, prima di dare inizio alla battaglia? Io ho solo cercato di guadagnare tempo, perché l’illusione si infrangerà, quando verrà messa alla prova della realtà. Se un vascello dei Kolder tentasse di andare all’arrembaggio d’una di queste navi, si rivelerebbe per ciò che è. Ma talvolta è utile guadagnare un po’ di tempo.»

In un certo senso, aveva ragione lei. Almeno, se il nemico aveva progettato di servirsi della coltre di nebbia per coprire un attacco contro il porto, l’attacco non lo realizzò. Quella notte non venne dato l’allarme dell’invasione, e la densa coltre di nebbia non si sollevò neppure dopo l’alba.

I comandanti delle tre navi in porto andarono a chiedere ordini ad Osberic: ma quello poté dir loro soltanto di attendere che la nebbia diradasse. Simon fece il giro delle Guardie, accodandosi a Koris; qualche volta era necessario che gli uomini si tenessero stretti per i cinturoni, per non perdersi sulle postazioni esterne della diga. Venne dato l’ordine di continuare a suonare i gong ad intervalli regolari, non più per guidare coloro che potevano trovarsi in mare, ma semplicemente perché un posto di guardia potesse tenersi in contatto con gli altri. Gli uomini volgevano i volti esausti e tirati quando venivano a sostituirli, e bisognava gridare la parola d’ordine e farsi riconoscere per non venire trafitti dalla lama di una sentinella innervosita.

«Se continua così,» commentò Tregarth, mentre si scostava per evitare un uomo di Sulcar che avevano incontrato all’improvviso, salvandosi così da un colpo violento sferrato alla cieca, «non avranno bisogno di attaccare, perché finiremo per sbranarci tra di noi. Basta che un uomo sembri avere addosso un elmo con la visiera a punta, in questa nebbia, perché si ritrovi senza testa.»

«L’ho pensato anch’io,» rispose laconicamente il Capitano. «I Kolder contano anche sulle illusioni create dai nostri nervi e dalle nostre paure. Ma cosa possiamo fare, più di quanto abbiamo già fatto?»

«Chiunque abbia buone orecchie può captare le nostre parole d’ordine,» disse Simon, deciso ad affrontare il peggio. «Un intero tratto delle mura potrebbe cadere in loro mano, postazione per postazione.»

«E come possiamo essere certi che questo sia un attacco?» ribatté amaramente l’altro. «Uomo d’un altro mondo, se sei in grado di dare ordini migliori, fallo, ed io sarò ben lieto di accettarli! Sono un militare, e conosco bene la guerra… o credevo di conoscerla! E credevo anche di conoscere le usanze degli incantatori, poiché servo Estcarp con sincera devozione. Ma questo non l’avevo mai visto: posso fare solo del mio meglio.»

«Neppure io ho mai visto un simile modo di combattere,» ammise prontamente Simon. «Sconcerterebbe chiunque. Ma ora sto pensando una cosa… loro non verranno dal mare.»

«Perché noi guardiamo da questa parte, aspettando di vederceli piombare addosso?» Koris lo comprese al volo. «Non credo che il forte possa venire attaccato da terra. Questi marinai hanno edificato abilmente la loro rocca. Sarebbero necessarie macchine che richiederebbero settimane di preparazione.»

«Mare e terra… che cosa resta?»

«Suolo ed aria,» rispose Koris. «Il sottosuolo! I passaggi sotterranei!»

«Ma non possiamo disperdere gli uomini per sorvegliare tutte le gallerie.»

Gli occhi verdemare di Koris brillarono della stessa luce ferina che Simon aveva scorto in occasione del loro primo incontro.

«Possiamo sorvegliarle, anche senza bisogno di uomini. È un trucco che conosco. Andiamo da Magnis.» Si mise a correre, mentre la punta del fodero della spada tintinnava di tanto in tanto contro le mura di pietra, quando svoltava agli angoli dei corridoi del forte.


Su un tavolo erano allineati bacili di tutte le grandezze e di diverse forme: ma erano tutti di rame e anche le sfere che Koris aveva scrupolosamente ripartito, una per bacile, erano di metallo. Una combinazione di bacile e sfera, installata nella parte del muro posta sopra una galleria sotterranea, avrebbe tradito ogni movimento di forzare la porta, là sotto, mediante l’oscillazione della palla nel recipiente.

I sotterranei, quindi, erano salvaguardati per quanto era possibile. Restava… l’aria. Forse perché conosceva bene la guerra aerea, Simon si sorprendeva ad ascoltare e ad osservare, fino a farsi venire il torcicollo, l’oscurità che avvolgeva le torri del porto. Eppure una civiltà che si affidava ai lanciadardi relativamente primitivi, alle spade, agli scudi ed agli usberghi per la difesa e per l’offesa — fosse pure con l’aiuto di sottili trucchi della mente — non poteva produrre anche attacchi aerei.

Grazie all’idea di Koris ebbero qualche momento di preavviso quando venne l’attacco dei Kolder. Ma da tutti i cinque punti in cui erano stati piazzati i bacili, l’allarme venne quasi nello stesso istante. I corridoi che conducevano alle porte erano stati riempiti, in lunghe ore di attività frenetiche, con tutto il materiale combustibile esistente nei magazzini del porto. Stuoie di lana di pecora e di pelli bovine, intrise d’olio e di catrame, che venivano usate per calafatare le navi, erano legate intorno a balle di tessuti finissimi, a sacchi di cereali e di semi, e l’olio e il vino erano stati versati a rivoli per inzuppare quei tappi giganteschi.

Quando i bacili diedero l’avvertimento, venne appiccato il fuoco con le torce e le altre porte furono chiuse, isolando dal nucleo centrale le gallerie invase dalle fiamme.

«Che ci sbattano pure il naso!» gridò Magnis Osberic, battendo con esultanza l’ascia sul tavolo nella sala principale del grande forte. Per la prima volta da quando la nebbia aveva imprigionato il suo regno, il Mastro Mercante parve perdere la sua aria preoccupata. Da buon marinaio, odiava e temeva la nebbia, naturale o innaturale che fosse. Adesso che c’era la possibilità di entrare in azione, era nuovamente animato dall’energia e dall’entusiasmo.

«Ahhhhh!» Nel frastuono, l’urlo risuonò tagliente come un colpo di spada. Non esprimeva soltanto la sofferenza del corpo, perché soltanto una paura suprema poteva averlo strappato ad una gola umana.

Magnis, con la testa taurina abbassata come se si accingesse a caricare il nemico, Koris, con la spada in pugno, un po’ curvo affinché il suo corpo di gnomo traesse energia dalla terra, e tutti gli altri presenti rimasero agghiacciati per un lungo istante.

Forse perché in tutto quel periodo di attesa se l’era quasi aspettato, Simon fu il primo a identificarne la provenienza, e si precipitò verso la scala che, tre piani più sopra, portava al bastione del tetto.

Non vi arrivò. Le grida e le urla che scendevano dall’alto, il clangore del metallo contro il metallo furono un avvertimento sufficiente. Rallentando il passo, Simon estrasse il lanciadardi. Fu un bene per lui, essere così cauto, perché mentre stava salendo verso il secondo piano, un corpo rotolò dalla scala, mancandolo di pochissimo. Era un uomo di Sulcar: dalla gola squarciata usciva a fiotti il sangue che spruzzava le pareti ed i gradini. Simon alzò gli occhi, verso quella confusione atroce.

Due Guardie e tre marinai combattevano ancora, con le spalle contro la parete del pianerottolo, tenendo a bada gli invasori che attaccavano con la ferocia maniacale dimostrata dai loro simili nell’imboscata. Simon sparò un colpo, poi un altro. Ma dall’alto continuava a scendere, incessante, un’ondata di elmi con la visiera a punta. Si poteva solo pensare che il nemico fosse giunto per via aerea ed avesse occupato i piani superiori del forte.

Non c’era tempo per formulare ipotesi sul modo in cui erano giunti fin lì… bastava sapere che erano riusciti a passare. Altri due marinai ed un uomo della Guardia erano caduti. Gli assalitori ignoravano i morti e i feriti, amici o nemici che fossero. I corpi scivolavano lungo le scale… era impossibile arrestarli in quel punto. Bisognava fermarli più in basso.

Simon si lanciò verso il primo pianerottolo, spalancò a calci le due porte che si fronteggiavano. I mobili preferiti dagli abitanti di Sulcar erano molto pesanti: ma quelli più piccoli si potevano spostare. Simon chiamò a raccolta un’energia che non sapeva di possedere e cominciò a tirare e a spingere le suppellettili per ostruire la tromba della scala.

Una testa protetta dalla visiera a punta lo fronteggiò al di là delle gambe della sedia che aveva sollevato per coronare la barricata, e la punta di una spada si avventò verso i suoi occhi. Simon abbatté la sedia sull’elmo. La sua guancia bruciava per la ferita, ma l’assalitore era crollato sulla barriera.

«Sul! Sul!» Simon si sentì spingere da parte e vide la faccia di Magnis, rossa quanto i suoi baffi ispidi, sollevarsi mentre il mercante sferrava colpi all’impazzata contro la prima ondata di invasori che aveva raggiunto la barricata e cercava di smuovere i mobili che la componevano.

Simon prese la mira, sparò, mirò di nuovo. Gettò via un caricatore vuoto, ricaricò il lanciadardi per riprendere a sparare. Scavalcò una Guardia che era caduta a terra gemendo, e difese il ferito fino a quando fu possibile trascinarlo via, al sicuro nell’interno del forte. E continuò a sparare…

Simon era ritornato nel corridoio: poi il gruppo di cui faceva parte giunse ad un’altra scala, difendendo accanitamente ogni gradino. C’era un fumo sottile… tentacoli di nebbia? No, perché quando li avvolgeva era acre, e pungeva la gola e le narici. Simon prese la mira… sparò… strappò i caricatori dalla cintura di una Guardia caduta che non avrebbe più potuto usare un’arma.

La scala, ormai, era dietro di loro. Gli uomini lanciavano grida rauche, e il fumo era più fitto. Simon si passò la mano sugli occhi che lacrimavano, allentò la sciarpa di maglia metallica dell’elmo. Ansimava.

Ciecamente, seguì i suoi compagni. Dietro di loro venivano chiuse e sbarrate porte dello spessore d’una decina di centimetri. Una… due… tre… quattro barriere. Poi entrarono in una stanza, di fronte ad una installazione sistemata in una cassa più alta dell’uomo gigantesco che vi stava appoggiato. Le Guardie ed i marinai che l’avevano costruita si disposero intorno alla stanza, lasciando la strana macchina al capo della città.

Magnis Osberic aveva perduto l’elmo con il cimiero a testa d’orso, e la pelle che gli fungeva da mantello era sbrindellata. La sua ascia era posata sopra la cassa, e dalla lama un filo rosso colava lentamente sul pavimento di pietra. Il suo volto aveva perso il colorito rubizzo, ed appariva contratto, sciupato. Gli occhi spalancati fissavano i guerrieri senza vederli… Simon intuì che l’uomo era in uno stato di choc.

«È finita!» Magnis riprese l’ascia, la fece passare sulla mano callosa. «Sono venuti dall’aria, come demoni alati! Nessuno può battersi con i demoni.» Poi rise sommessamente, con calore, come un uomo che prende tra le braccia la sua donna innamorata. «Ma esiste un modo per rispondere degnamente ai demoni. Forte Sulcar non diventerà il nido di quella genìa generata dall’inferno!»

La testa taurina si abbassò di nuovo, girò lentamente mentre gli occhi cercavano, tra i suoi seguaci, gli uomini di Estcarp. «Avete combattuto bene, voi del sangue delle streghe. Ma non v’impongo di finire come noi. Scateneremo l’energia che alimenta la città, e faremo saltare in aria il porto. Andatevene: forse potrete regolare i conti in un modo che gli stregoni volanti possano capire. Siatene certi: ne porteremo con noi più che potremo, e il giorno della resa dei conti si ritroveranno a ranghi ridotti! Andatevene, uomini delle streghe, e lasciate che noi di Forte Sulcar facciamo ciò che dobbiamo fare!»

Sospinti dai suoi occhi e dalla sua voce, come se Magnis li avesse afferrati uno ad uno e li avesse scagliati lontano da sé e dai suoi, gli uomini della Guardia si radunarono in gruppo. Koris era ancora con loro: il cimiero a forma di falco aveva perduto un’ala. E la strega, serena in volto, muoveva tuttavia le labbra mentre attraversava la stanza. Altri venti uomini… e Simon.

Le Guardie scattarono sull’attenti, levando le armi insanguinate per salutare coloro che restavano. Magnis grugnì.

«Bello, bello, uomini delle streghe. Ma non è il momento delle parate. Uscite!»

Uscirono dalla porticina che veniva loro indicata; Koris passò per ultimo, per chiuderla e sbarrarla. Si avviarono a corsa per la galleria. Fortunatamente, c’erano globi luminosi fissati al soffitto, e il pavimento era levigato, e potevano procedere velocemente.

Il rumore del mare divenne più forte: uscirono in una grotta dov’erano ormeggiate alcune barche.

«Giù!» Simon venne spinto a bordo insieme ad altri, e la mano di Koris lo colpì tra le scapole, facendolo cadere bocconi. Altri uomini balzarono intorno a lui, addosso a lui, inchiodandolo sul fondo oscillante dell’imbarcazione. Vi fu il tonfo di un’altra porta che si chiudeva… oppure era un boccaporto, sopra le loro teste? La luce era scomparsa, ed anche l’aria. Simon restò disteso, immobile, senza sapere che cosa sarebbe accaduto.

La barca si mosse, i corpi degli uomini rotolarono; Simon si sentì urtare più volte e nascose il viso nel cavo del braccio. L’imbarcazione girò, rivoltandogli lo stomaco. Non era mai stato un buon marinaio. Troppo impegnato a lottare contro la nausea, non era preparato all’esplosione che parve segnare la fine del mondo con un colpo ciclopico di frastuono e di pressione.

Stavano ancora oscillando sulle onde, ma quando Simon alzò la testa, inalò una boccata d’aria pura. Si dibatté, si mosse, senza prestare attenzione ai borbottii ed alle proteste degli altri. Non c’era più nebbia… quello fu il suo primo pensiero confuso. E poi… era giorno! Il cielo, il mare intorno a loro, la costa dietro di loro erano nitidi, luminosi.

Ma quando si era levato il sole dalla riva, balzando in fiamme verso il cielo? Era stato assordato dall’esplosione, ma non accecato. Erano diretti verso l’alto mare, lasciandosi alle spalle la fonte di quel calore e di quella luce.

Contò una… due… tre imbarcazioni. Non avevano vele: e quindi dovevano avere qualche altro mezzo di propulsione. Un uomo sedeva eretto a poppa di quella su cui si trovava Simon: la forma delle spalle lo rendeva riconoscibile. Koris era al timone. Erano usciti dall’inferno che era stato il porto di Forte Sulcar: ma dov’erano diretti?

La nebbia era scomparsa, e il fuoco che divampava sulla costa li illuminava. Ma le onde che li trasportavano non erano nate in un mare tranquillo. Forse la violenza dell’esplosione con cui Magnis aveva distrutto il forte si era comunicata all’oceano. Il vento piombò su di loro come se una mano gigantesca cercasse di sospingerli a fondo, e i passeggeri delle imbarcazioni cominciarono a rendersi conto che avevano guadagnato forse qualche minuto di vita, ma non la salvezza.

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