PARTE PRIMA Il signore delle stelle

CAPITOLO PRIMO

Così termina la prima parte della leggenda; e tutto ciò che dice corrisponde al vero. Ora alcuni dati, altrettanto veritieri, tratti dal Manuale dell'Ottava Area Galattica, pubblicato dalla Lega di Tutti i Mondi.

Numero 62: FOMALHAUT II.

Tipo VT (Vecchia Terra), vita a base carbonio. Pianeta con nucleo in ferro, diametro 10.500 km, con atmosfera densa e ricca di ossigeno. Rivoluzione: 800 gt (giorni terrestri), 8 h, 11 m, 42 s. Rotazione: 29 h, 51 m, 02 s. Distanza media dal sole: 3,2 UA (unità astronomiche), leggera eccentricità orbitale. Inclinazione sull'eclittica 27° 20' 20", con conseguenti notevoli escursioni stagionali. Gravità 0,86 st (standard terrestre).

Quattro continenti: Nordoccidentale, Sudoccidentale. Orientale e Antartico. Terre emerse: 38% della superficie planetaria.

Quattro satelliti (tipo: Perner, Loklit, R-2 e Phobos). La Compagna dì Fomalhaut è visibile come stella superluminosa.

Mondo della Lega più vicino: Nuova Georgia del Sud, capitale Kerguelen (distanza 7,88 anni luce).

Dati storici: il pianeta è stato scoperto dalla spedizione Elieson del 202, ispezionato da una nave sonda automatica nel 218.

Prima spedizione geografica, anni 235–36. Direttore: J. Kiolaf. I continenti sono stati cartografati su fotografie aeree (vedi cartine 3114a, b, c, 3II5a, b). Gli atterraggi, gli studi geologici e biologici e i contatti con le forme di vita a intelligenza elevata hanno interessato soltanto i continenti Orientale e Nordoccidentale (per la descrizione delle specie intelligenti vedi oltre).

Missione per l'Incremento Tecnologico: specie I-A/ anni 252–54. Direttore J. Kiolaf (solamente il Continente Nordoccidentale).

Missioni erariali e di controllo sulle specie I-A e II eseguite sotto l'egida della Fondazione Area Ottava di Kerguelen, N. Ge. S., negli anni 254, 258, 262, 266, 270: nel 275 il pianeta venne Interdetto da parte dell'Ente Universale per le Forme Intelligenti, in attesa di un più approfondito esame delle sue specie a intelligenza elevata.

Prima spedizione etnologica, 321. Direttore: G. Rocannon.


Un albero altissimo di accecante luce bianca spuntò improvvisamente al di là della Catena Meridionale, e si alzò con rapidità, senza rumore, nel cielo. Le sentinelle poste di vedetta sulle torri del Castello di Hallan lanciarono un grido, si misero a battere la spada contro lo scudo. Le loro minuscole voci e i clangori dell'allarme vennero poi inghiottiti dal ruggito del suono, dal colpo di maglio del vento, dal fremito della foresta.

Mogien di Hallan incontrò il suo ospite, il Signore delle Stelle, mentre questi si precipitava di corsa verso la corte del volo. — Signore delle Stelle, la tua nave era dietro la Catena Meridionale?

Con la faccia molto pallida, ma nel suo solito tono pacato, l'altro rispose: — Era laggiù.

— Vieni con me. — Mogien fece salire l'ospite sulla sella a postiglione del destriero del vento che attendeva, già pronto per il volo, nel cortile. Poi planarono sui mille scalini, sul Ponte sull'Abisso, sulla foresta digradante che circondava il Castello di Hallan: il destriero volò come una foglia grigia trasportata dal vento.

Quando giunsero sulla Catena Meridionale, i cavalieri videro un filo di fumo azzurrino che s'innalzava nell'aria, attraverso i dorati raggi radenti dell'alba. L'incendio stava ancora consumando il sottobosco umido e fresco, vicino al letto di un torrente.

Poi, d'improvviso, videro spalancarsi sotto di loro un grosso foro, che deturpava il fianco della montagna: un pozzo oscuro, pieno di polvere nera e fumante. Sull'orlo del vasto cerchio di distruzione giacevano alberi ormai ridotti a lunghe aste di carbone: le cime cadute si allontanavano dal pozzo oscuro, su tutta la circonferenza.

Il giovane Signore di Hallan mantenne immobile il grigio destriero sul vento ascendente che giungeva dalla valle distrutta, e guardò in basso, senza parlare. Pensava a vecchie storie, risalenti all'epoca di suo nonno e del suo trisavolo, all'epoca della venuta dei Signori delle Stelle: storie di come avessero spianato intere montagne con il loro fuoco, di come avessero fatto ribollire il mare con le loro armi terribili. Sotto la minaccia di quelle armi, avevano costretto tutti i Signori degli Angien a giurare fedeltà e a versare un tributo. Ora, per la prima volta, Mogien capì che quei racconti erano veritieri. Per qualche istante rimase senza parole. — La tua nave era…

— La nave era qui. Avevo un appuntamento con gli altri, qui alla nave; era fissato per oggi. Lord Mogien, di' alla tua gente di evitare questa zona. Per qualche tempo: fino a dopo le piogge, il prossimo annofreddo.

— Incantesimo?

— No, veleno. La pioggia pulirà il terreno. — La voce del Signore delle Stelle era ancora tranquilla; stava guardando verso il basso, e all'improvviso riprese a parlare: ora non si rivolgeva a Mogien, ma al nero pozzo sottostante, che si andava sempre più illuminando con il sorgere del sole. Ma Mogien non capì le parole, perché parlava nella sua lingua madre, la lingua dei Signori delle Stelle. Non rimaneva un solo uomo, nell'Angien o nel resto del mondo, che conoscesse ancora quella lingua.

Il giovane Angya tirò la briglia del nervoso destriero. Alle sue spalle, il Signore delle Stelle trasse infine un respiro profondo e disse: — Ritorniamo a Hallan. Qui non c'è più niente…

Il destriero virò sulle pendici fumanti. — Lord Rocannon, se il tuo popolo è in guerra tra le stelle, voto alla tua difesa le spade di Hallan!

— Ti ringrazio, Lord Mogien — disse il Signore delle Stelle, afferrandosi più saldamente alla sella. Il vento del volo gli sferzava la testa china in avanti, i capelli già macchiati di grigio.

Il lungo giorno era terminato. Il vento della notte soffiava contro le imposte di legno della finestra, nella sua stanza della torre del Castello di Hallan, facendo guizzare le fiamme dell'ampio focolare. Tra poco sarebbe finito l'annofreddo: l'aria era già mossa dall'irrequietudine della primavera. Nel sollevare la testa fiutò la dolce, muschiosa fragranza dei tappeti d'erba appesi alle pareti, il profumo fresco e dolce della notte, proveniente dalle vicine foreste. Provò ancora una volta ad accendere il trasmettitore: — Qui Rocannon. Qui Rocannon. Siete in grado di rispondere? — Rimase molto tempo in ascolto, ma l'altoparlante tacque. Quindi provò ancora una volta a trasmettere sulla frequenza della nave: — Qui Rocannon… — Quando si accorse di parlare a voce bassissima, quasi bisbigliando, cessò i tentativi e spense l'apparecchio. Erano morti: tutti e quattordici i suoi compagni e amici. Erano tutti sull'astronave, perché li aveva convocati lui. Erano su Fomalhaut II da metà di uno dei lunghi anni locali, ed era giunto il momento di riunirsi per confrontare gli appunti. Smate e il suo gruppo avevano lasciato il Continente Orientale, facendo tappa per raccogliere la squadra dell'Artico, ed erano venuti a Hallan, per incontrarsi con Rocannon, Direttore della prima Missione Etnologica: l'uomo che li aveva portati sul pianeta. E adesso erano morti.

E il loro lavoro… tutti gli appunti, le fotografie, i nastri: il materiale per cui sarebbero stati disposti a rischiare la morte… anche quello era scomparso, si era ridotto in polvere insieme con loro, si era perso con loro.

Rocannon accese di nuovo la radio, sintonizzandola sulla frequenza di soccorso; ma non attivò il trasmettitore. Chiamando, avrebbe ottenuto un unico risultato: quello di informare il nemico della presenza di un superstite. Rimase immobile, come in attesa di una decisione. E quando si udirono alla porta i colpi robusti di qualcuno che bussava, disse nella lingua straniera che da quel momento in poi era destinata a essere la sua: — Avanti.

Entrò a grandi passi il giovane Signore di Hallan, Mogien, che era stato il suo più prezioso informatore per ciò che riguardava usi e costumi della Specie II, e che adesso era l'uomo che teneva in pugno il suo destino.

Al pari di tutta la sua gente, Mogien era molto alto, aveva i capelli chiari e la pelle scura; il suo bel volto era allenato a mostrare una calma e un'austera sicurezza di sé che talvolta però si squarciavano per l'improvvisa irruzione di qualche lampo emotivo: collera, ambizione, gioia.

Alle sue spalle veniva un Olgyior, Raho, che era il suo cameriere personale: quest'ultimo posò sulla cassapanca una fiaschetta gialla e due tazze, e le riempì fino all'orlo; ciò fatto, si ritirò. Un attimo più tardi, il Signore Ereditario di Hallan parlò: — Desidero bere con te, Signore delle Stelle.

— E che la mia gente beva con la tua, insieme con i nostri figli, Signore — rispose l'etnologo, che non era certamente vissuto su nove pianeti esotici diversissimi tra loro senza imparare l'importanza delle buone maniere. Lui e Mogicn sollevarono le coppe di legno bordate d'argento e bevvero.

— La scatola parlante — disse Mogien, indicando la radio.

— Non parlerà più. Non con la voce dei miei amici.

Sul volto, scuro come un guscio di noce, di Mogien non comparve alcuna emozione. Disse: — Lord Rocannon, l'arma che li ha uccisi oltrepassa ogni immaginazione.

— La Lega di Tutti i Mondi ha armi come quella, da usare nella Guerra che Verrà. Non contro i nostri mondi.

— Siamo arrivati alla Guerra, dunque?

— No, non credo. Yaddam, l'uomo che tu hai conosciuto, era stazionato sulla nave; avrebbe saputo la notizia grazie all'ansible, e me l'avrebbe comunicata via radio, subito. Guerre come quella hanno sempre dei preavvisi. Dev'essere una rivolta contro la Lega. C'erano fermenti di ribellione su un mondo chiamato Faraday, quando ho lasciato Kerguelen: e calcolando con i nostri anni, sono passati nove anni da allora.

— La tua piccola scatola parlante non può parlare con la città di Kerguelen?

— No, e anche se potesse, le parole impiegherebbero otto anni per arrivare laggiù, e la risposta ne impiegherebbe altri otto per arrivare a me.

Parlando, Rocannon aveva usato il suo solito tono cortese e serio, e si era servito di concetti semplici; ma ora la sua voce si rattristò, mentre spiegava il suo esilio.

— Ricordi l'ansible — continuò, — la grande macchina che ti ho mostrato, all'interno della nave? Quella che può parlare subito con gli altri mondi, senza perdita di anni… penso che abbiano voluto distruggere proprio quella. È soltanto da imputare alla sfortuna, se in quel momento erano presenti nella nave tutti i miei amici. Senza l'ansible, non posso fare niente.

— Ma se il tuo clan, i tuoi amici, della città di Kerguelen, ti chiamano con l'ansible e non ottengono risposta, non verranno poi a vedere… — Lo stesso Mogien arrivò alla risposta mentre Rocannon terminava la frase per lui:

— Sì, ma tra otto anni.

Quando aveva accompagnato Mogien a visitare la nave del Servizio Esplorazione, e gli aveva mostrato il trasmettitore istantaneo, l'ansible, Rocannon gli aveva anche parlato del nuovo tipo di nave che poteva recarsi da una stella all'altra senza divario di tempo.

— La nave che ha ucciso i tuoi amici viaggiava più veloce della luce? — domandò il Signore della Guerra degli Angyar.

— No, era una nave con equipaggio umano. Ci sono dei nemici su questo mondo, in questo momento.

Quest'ultima affermazione gli divenne chiara ricordando le parole di Rocannon: nessuna creatura vivente poteva sopravvivere a un viaggio più veloce della luce; quelle navi erano usate soltanto come bombardieri robot: armi capaci di apparire, colpire e svanire, tutto in un solo istante.

Era una storia ben strana, ma certo non più strana di un'altra storia, che Mogien sapeva essere la verità: che, anche se le navi come quella di Rocannon impiegavano molti anni per superare la notte che si stende tra un mondo e l'altro, quegli anni sembravano solo poche ore agli uomini che stavano dentro la nave. Nella città di Kerguelen della stella Forrosul, lo stesso uomo che stava di fronte a lui, Rocannon, aveva parlato con Semley di Hallan e le aveva restituito il gioiello Occhio del Mare, quasi mezzo secolo prima. Semley, che aveva trascorso sedici anni in una sola notte, era morta da tempo: sua figlia Haldre era una donna già attempata; suo nipote Mogien era uomo fatto, eppure Rocannon era lì davanti a lui, e non era vecchio. Per lui, gli anni erano passati in viaggi tra le stelle. La cosa era molto strana, ma si raccontavano vicende ancor più strane.

— Quando la madre di mia madre, Semley, viaggiò attraverso la notte… — Cominciò Mogien, senza terminare la frase.

— Non ci fu mai una dama così bella, in nessuno dei mondi — disse il Signore delle Stelle, e per un istante il suo volto si addolcì.

— Il Signore che le offerse amicizia è il benvenuto tra la sua famiglia — disse Mogien. — Ma intendevo parlare, Lord Rocannon, della nave su cui viaggiò. È ancora in mano agli Uomini d'Argilla? Contiene anch'essa un ansible, con cui potresti dare al tuo clan la notizia della presenza di questi nemici?

Per un istante, Rocannon rimase a bocca aperta, colpito da quella possibilità; ma subito si calmò.

— No — disse. — Non ha l'ansible. Hanno dato quella nave al Popolo d'Argilla settant'anni fa; all'epoca non era ancora stata inventata la trasmissione istantanea.

«Ed è impossibile che abbiano installato un ansible in seguito, perché l'intero pianeta è sotto Interdizione da quarantacinque anni. Per causa mia. Perché me ne sono interessato io. Perché, dopo avere incontrato Lady Semley, mi sono recato dalla mia gente e ho detto: Cosa stiamo facendo su quel mondo che non conosciamo neppure? Perché prendiamo i loro tributi e gli diamo ordini? Che diritto abbiamo di farlo? Se invece avessi lasciato le cose come stavano, qualcuno verrebbe ancora qui ogni due anni; non sareste totalmente alla mercé dell'invasore…

— E che cosa potrebbe volere, da noi, un invasore? — domandò Mogien. Non lo domandò per fare mostra di modestia: era spinto dalla curiosità.

— Vuole il vostro pianeta, credo. Il vostro mondo. La vostra terra. Forse intende farvi suoi schiavi. Non saprei.

— Se il Popolo d'Argilla ha ancora quella nave, Rokanan, e se vola fino alla città di Kerguelen, tu puoi usarla per raggiungere il tuo popolo.

Il Signore delle Stelle lo fissò per un lungo istante.

— Penso che potrei farlo — disse. Il suo tono di voce era tornato triste. Cadde nuovamente tra i due uomini un lungo istante di silenzio; poi Rocannon riprese in tono appassionato:

— Sono stato io, a esporre il tuo popolo a questo rischio. Ho portato qui i miei compagni, e sono morti. Non voglio fuggire da questa situazione, rifugiandomi nel futuro, tra otto anni, per scoprire cosa succederà!

«Ascolta, Lord Mogien, se tu potessi aiutarmi a raggiungere gli Uomini di Argilla, nel Sud, potrei farmi dare la nave per usarla sul pianeta, servendomene per effettuare ricerche. Oppure, se non riuscissi a disinserire il pilota automatico, potrei mandarla a Kerguelen con un messaggio. Ma io non mi allontanerò dal pianeta.

— A quanto dicono le leggende, Semley trovò la nave nelle grotte degli Gdemiar, presso il Mare di Kirien.

— Potresti prestarmi un destriero del vento, Lord Mogien?

— E la mia compagnia, se l'accetti.

— L'accetto, e ti ringrazio!

— Gli Uomini d'Argilla sono cattivi padroni di casa per gli ospiti solitari — disse Mogien, con un'espressione soddisfatta sulla faccia. Neppure il ricordo dello spaventevole foro nero scavato sul fianco della montagna riusciva a spegnere il desiderio di mettere mano alle due lunghe spade che portava alla cintura. Era passato molto tempo dall'ultima scorreria.

— Che i nostri nemici muoiano senza figli — disse l'Angya, con voce cupa, riempiendo le coppe e sollevando la sua.

Rocannon, i cui amici erano stati uccisi senza preavviso, in una nave disarmata, non ebbe esitazioni.

— Che muoiano senza figli — disse, e bevve con Mogien, alla luce giallastra delle lucerne e delle due lune, nell'Alta Torre di Hallan.

CAPITOLO SECONDO

La sera del secondo giorno, Rocannon aveva i muscoli indolenziti e la pelle irritata dal vento, ma aveva imparato a stare seduto senza fatica sull'alta sella e a guidare con una certa abilità la grande bestia volante proveniente dalle scuderie di Hallan.

L'aria arrossata dal sole che tramontava molto lentamente si stendeva sopra e sotto di lui, come una serie di strati di luce, simili a cristalli rosati. I destrieri volavano molto in alto, per rimanere quanto più possibile al sole, poiché, come grandi gatti, amavano il caldo.

Mogien, sul suo nero animale da caccia (come definirlo, si chiedeva Rocannon, uno stallone o un micio?), si sporgeva dalla sella per osservare il terreno sottostante, alla ricerca di un luogo adatto per accamparsi: i grifoni non amavano volare al buio. Due plebei volavano dietro di loro, montati su animali bianchi, più piccoli, le cui ali, al riverbero del grande sole Fomalhaut, assumevano un colore rosato.

— Guarda laggiù, Signore delle Stelle!

Il grifone di Rocannon ringhiò e sollevò la testa, scorgendo l'oggetto indicato da Mogien: un piccolo oggetto nero che attraversava lentamente il cielo davanti a loro, a un'altitudine assai inferiore, e che interrompeva la quiete del tramonto con un rumore di pale.

Rocannon, con un braccio, fece segno di scendere subito a terra. Nella radura dove atterrarono, Mogien domandò: — Era una nave come la tua, Signore delle Stelle?

— No, è una nave che non può lasciare il pianeta: un elicottero. Se e qui, devono averlo portato con una nave molto più grande della mia, una fregata stellare o un trasporto. Devono essere arrivati in forze. E devono essere arrivati prima di me. Comunque, mi chiedo che intenzioni possano avere, per venire qui con bombardieri ed elicotteri… Possono colpirci mentre siamo in volo, da una distanza grandissima. Dovremo stare molto attenti a non farci scorgere, Lord Mogicn.

— Quella macchina veniva dalla direzione dei Campi d'Argilla. Spero che non ci abbiano preceduto laggiù.

Rocannon si limitò ad assentire con il capo, profondamente incollerito alla vista di quella macchia nera sul chiarore del tramonto, di quello scarafaggio su un mondo lindo e pulito. Coloro che avevano bombardato a vista una nave esploratrice disarmata, evidentemente avevano l'intenzione di esplorare a loro volta il pianeta e di prenderne possesso, per colonizzarlo o per adibirlo a usi militari. Quanto alle forme di vita a intelligenza elevata presenti sul pianeta, che ammontavano ad almeno tre specie, tutte a basso livello tecnologico, le avrebbero ignorate, oppure le avrebbero rese schiave o le avrebbero spazzate via, a seconda della propria convenienza. Per un popolo aggressivo, infatti, solo la tecnologia aveva importanza.

E a questo proposito, pensava Rocannon, mentre i plebei toglievano le selle ai destrieri e li lasciavano liberi per la caccia notturna, ecco forse il punto di debolezza della Lega. Solo la tecnologia aveva importanza. Le due missioni giunte su quel mondo nei cent'anni precedenti avevano subito cominciato a spingere una delle specie verso la tecnologia preatomica, prima ancora di esplorare gli altri continenti, addirittura prima di essere entrati in contatto con tutte le altre razze intelligenti che esistevano su quel mondo.

Rocannon aveva messo fine a un simile stato di cose, e infine era riuscito a portare sul pianeta la propria Missione Etnografica, incaricata di imparare finalmente qualcosa sui suoi abitanti; ma non si illudeva. Anche il suo lavoro, in ultima analisi, sarebbe servito unicamente come base informativa per spingere al progresso tecnologico le specie e le culture più adatte. Era questo il modo in cui la Lega di Tutti i Mondi si preparava a combattere il suo nemico finale.

Cento mondi erano stati addestrati e armati, altri mille apprendevano l'uso della ruota e dell'acciaio, del trattore e del reattore. Ma Rocannon l'etnologo, il cui lavoro consisteva nell'imparare, non nell'insegnare, e che era vissuto su molti mondi tecnologicamente arretrati, non era convinto che la soluzione più saggia consistesse nel puntare ogni cosa sull'uso delle armi e delle macchine.

Dominata dalle specie umanoidi aggressive e tecniche del Centauro, della Terra e di Tau Ceti, la Lega aveva trascurato certe altre capacità, certi altri poteri, certe potenzialità della vita intelligente, e dava i propri giudizi in base a criteri troppo ristretti.

Quel pianeta, che non aveva neppure un nome diverso dalla sua sigla, Fomalhaut II, non avrebbe mai richiamato molta attenzione su di sé, poiché, prima dell'arrivo della Lega, nessuna delle sue specie sembrava essersi spinta molto più in là della leva e della forgia. Altre razze di altri mondi potevano venir fatte progredire più rapidamente, per contribuire alla lotta contro il nemico proveniente dall'esterno della Galassia, una volta che questi tornasse.

Del resto, questo stato di cose era inevitabile. Pensò a Mogien, che si offriva di combattere con le spade di Hallan contro una flotta di bombardieri a velocità-luce. Ma che dire, se i bombardieri a velocità-luce, e perfino quelli ultra-luce, si fossero rivelati poco più efficaci delle spade di bronzo, al confronto con le armi del Nemico? E se le armi del Nemico fossero state armi mentali? Non sarebbe stato meglio imparare qualcosa sulle varie forme in cui si presenta la mente, e sui suoi poteri?

La politica della Lega era troppo limitata; portava a un eccessivo spreco, e adesso, evidentemente, aveva condotto alla ribellione. Se la tempesta che covava su Faraday dieci anni prima era adesso scoppiata, ciò significava che un giovane mondo della Lega, dopo avere imparato rapidamente l'arte della guerra, dopo avere ricevuto le armi, stava ora cercando di costruirsi un proprio impero tra le stelle.

Egli, Mogien e i due servitori dai capelli bruni consumarono pagnotte di buon pane nero cotto nelle cucine di Hallan, bevvero giallo vaskan da una borraccia di pelle, e presto s'addormentarono. Tutt'intorno al loro piccolo fuoco sorgevano altissimi gli alberi della foresta: rami scuri carichi di lunghe pigne chiuse, scure anch'esse. Nella notte, una pioggia fredda e sottile bisbigliò attraverso la foresta. Rocannon si infilò ancor più profondamente nel sacco a pelo di piumosa pelliccia di helidor, e dormì per tutta la lunga notte, accompagnato dal bisbiglio della pioggia. I destrieri del vento fecero ritorno all'alba, e alle prime luci del giorno i quattro viaggiatori erano già in volo, portati da un vento che spirava in direzione dei pallidi territori vicino al golfo dove abitavano gli Uomini d'Argilla.

Atterrando verso mezzogiorno su un campo di grezza argilla, Rocannon e i due servitori, Raho e Yahan, si guardarono attorno con sorpresa, non scorgendo segno di vita. Mogien, con l'assoluta certezza della sua casta, si limitò a dire: — Arriveranno…

E infatti arrivarono: i tozzi ominoidi che Rocannon aveva già visto nel museo, anni prima. Ne arrivarono sei, la cui statura giungeva al petto di Rocannon, o alla cintura di Mogien. Erano nudi, avevano la pelle di un colore grigiastro simile a quello dei loro campi d'argilla, e tutto sommato il loro aspetto era poco invitante. Quando parlarono, Rocannon provò una strana impressione: era impossibile determinare chi parlasse. Sembrava che parlassero tutti insieme, con un'unica voce profonda.

Parziale telepatia coloniale. Rocannon ricordò le parole della Guida, e guardò con rispetto gli ometti sgraziati e il loro raro dono. I suoi tre alti compagni non condividevano il suo entusiasmo. Avevano un aspetto irritato.

— Che cosa cercano gli Angyar e i servi degli Angyar nei campi dei Signori della Notte? — domandò uno degli Uomini d'Argilla (o tutti insieme), parlando in Lingua Comune, un dialetto Angyar usato da tutte le specie.

— Sono il Signore di Hallan — disse Mogien, che appariva gigantesco. — Con me è qui Rokanan, padrone delle stelle e delle strade, che attraversano la notte, servitore della Lega di Tutti i Mondi, ospite e amico del Clan di Hallan. Grandi onori gli sono dovuti! Conduceteci da chi è adatto a parlare con lui. Ci sono parole che dovranno essere pronunciate, perché presto nevicherà nell'annocaldo, i venti soffieranno al contrario e gli alberi cresceranno con la cima piantata nella terra, e le radici nell'aria! — Le parole dell'Angyar costituivano un vero piacere per l'orecchio, pensò Rocannon, anche se non erano certamente capolavori di diplomazia.

Gli Uomini d'Argilla rimasero immobili davanti a loro, perplessi e in silenzio. — È davvero così? — domandò infine uno di loro.

— Sì, e il mare si trasformerà in legno, e le pietre metteranno i piedi! Portateci dai vostri capi, i quali sanno cos'è un Signore delle Stelle, e non perdiamo altro tempo!

Cadde nuovamente il silenzio. Fermo in mezzo ai piccoli trogloditi, Rocannon provò una strana sensazione, come di ronzii di mosche che gli volassero intorno alle orecchie. Gli Gdemiar stavano confabulando con la mente.

— Venite — dissero gli Uomini di Argilla, a voce alta, e si incamminarono sul campo coperto di leggera fanghiglia. Raggiunto un punto in mezzo alla spianata, si chinarono fino a terra e poi si scostarono, rivelando un foro nel terreno e una scala a pioli che ne usciva: l'ingresso al Regno della Notte.

I servitori rimasero in attesa con i grifoni, mentre Rocannon e Mogien scesero in un labirinto sotterraneo di gallerie scavate nel tufo e con il pavimento di cemento, illuminate dalla luce elettrica, in cui stagnava un forte odore di sudore e di cibi ammuffiti. Camminando silenziosamente dietro di loro, le guardie li condussero in una camera male illuminata, sferica, simile a una bolla in uno spesso strato di roccia, e li lasciarono soli.

Rimasero in attesa. L'attesa si prolungò.

Perché diavolo, si domandava Rocannon, la prima missione esplorativa aveva scelto proprio quella razza come possibili futuri membri della Lega? E pensava di avere la spiegazione, anche se si trattava di una considerazione un po' maliziosa. Le prime missioni provenivano dal freddo Centauro, e gli esploratori si erano affrettati a precipitarsi nelle caverne degli Gdemiar, felici di sottrarsi alla luce accecante, e al calore del grande sole di tipo A-3. Secondo i centauriani, le razze dotate di buon senso vivevano sottoterra, su mondi come quello.

Per Rocannon, invece, il sole caldo e bianco e le notti illuminate da un sistema di quattro lune, le grandi escursioni climatiche e i venti perennemente agitati, l'aria ricca di aromi vegetali e la gravità leggera, che aveva portato allo sviluppo di numerosissime specie animali capaci di volare, risultavano perfettamente compatibili, e anzi, molto piacevoli. Ma questo, si sentì in dovere di aggiungere, significava che anche lui aveva le sue prevenzioni, e che il suo giudizio sugli Gdemiar era ancor meno corretto di quello dei centauriani.

Gli Gdemiar erano molto intelligenti, di questo non c'era dubbio. Inoltre, erano telepatici: un potere assai più raro, e assai meno conosciuto, dell'elettricità, ma le prime spedizioni non avevano dato peso alla cosa. Avevano dato agli Gdemiar un generatore e una nave a circuito chiuso, qualche libro di matematica, una pacca sulla spalla, e poi se ne erano andate. Che cosa aveva fatto, da quel momento in poi, il piccolo popolo? Lo domandò a Mogien.

Il giovane signore, che in tutta la sua vita non doveva avere visto molto più che una candela o una torcia impregnata di resina, lanciò uno sguardo privo di interesse alle lampadine che pendevano dal soffitto. — Sono sempre stati bravi a fabbricare le cose — disse, con la sua sorprendente, incisiva arroganza.

— E negli ultimi tempi hanno prodotto nuovi generi di oggetti?

— Noi acquistiamo le spade dagli Uomini d'Argilla; già all'epoca di mio nonno avevano fabbri capaci di lavorare l'acciaio; non so se li avessero prima. La mia gente coabita da molto tempo con gli Uomini d'Argilla, li lascia scavare i loro buchi nelle nostre terre di confine, e paga in argento le spade.

«Si dice che siano ricchi, ma il codice d'onore proibisce di assalirli. Le guerre tra specie diverse sono disonorevoli, lo sai anche tu. Perfino mio nonno Durhal, quando venne qui a cercare sua moglie, pensando che gli Uomini d'Argilla l'avessero rapita, non volle rompere il divieto costringendoli a parlare con la forza. Gli Uomini d'Argilla, se gli lasci la possibilità, non ti diranno mai una menzogna, ma neppure ti diranno l'intera verità. Noi non abbiamo molta simpatia per loro, e loro non ne hanno per noi; credo che ricordino vecchi tempi in cui non c'era ancora il divieto d'onore di assalirli. Sono senza coraggio.

Una voce poderosa rimbombò alle loro spalle: — Inchinatevi al cospetto dei Signori della Notte!

Rocannon e Mogien si voltarono di scatto: il primo portò la mano alla pistola laser, il secondo impugnò entrambe le spade; ma Rocannon scorse immediatamente l'altoparlante inserito nella parete, e mormorò a Mogien: — Non rispondere.

Parlate, o stranieri nelle Caverne dei Signori della Notte! — Il solo rumore sarebbe risultato intimidatorio, tanto era alto il volume dell'altoparlante, ma Mogien non tradì alcuna sorpresa: si limitò ad atteggiare le sopracciglia a un'espressione indolente, e dopo qualche momento domandò, con il tono di chi fa conversazione:

— Ora che hai viaggiato sul destriero del vento per tre giorni, Lord Rokanan, cominci ad apprezzare il piacere del volo?

Parlate, e sarete ascoltati! — latrò l'altoparlante.

— Oh, certamente — disse Rocannon, rispondendo alla domanda del Signore di Hallan. — E il destriero dal mantello a strisce è agile come la brezza dell'ovest in pieno annocaldo. — Quest'ultimo era un complimento origliato da Rocannon qualche giorno prima, mentre era a tavola nella Sala dei Banchetti.

— È di un ottimo sangue.

Parlate! Vi ascoltiamo!

Continuarono a chiacchierare affabilmente, con l'allevamento dei destrieri come argomento principale, mentre l'altoparlante li interrompeva di tanto in tanto con il suo suono assordante.

Infine, dalla galleria spuntarono due Uomini d'Argilla. — Venite — dissero, con voce opaca. Li condussero attraverso un altro labirinto di gallerie, fino a giungere ad una piccola linea ferroviaria elettrica, molto ben costruita e assai lustra, che sembrava un gigantesco giocattolo, ma che funzionava in modo perfetto. Percorsero un buon numero di chilometri a ottima andatura, lasciando la zona tufacea per addentrarsi in un'area dove le gallerie erano scavate nel calcare. La stazione d'arrivo era situata ai confini di una grande sala illuminata a giorno: all'opposta estremità della sala, su un'alta predella, c'era un terzetto di trogloditi, in piedi, che parevano in attesa del loro arrivo.

A tutta prima, Rocannon non riuscì a distinguerli l'uno dall'altro (cosa poco onorevole per un etnologo, ma che aveva già avuto numerosi precedenti storici: i cinesi che erano sembrati tutti uguali agli occhi degli olandesi, i russi che lo erano sembrati ai centauriani…). Poi osservò l'Uomo d'Argilla al centro del terzetto: una faccia pallida e coperta di rughe, uno sguardo fiero sotto la coroncina d'acciaio che portava sulla fronte.

— Che cosa cerca il Signore delle Stelle nelle Caverne dei Possenti?

I formalismi della Lingua Comune erano perfettamente adatti a esprimere le idee di Rocannon. Egli disse: — Speravo di poter venire come ospite nelle vostre caverne, per apprendere gli usi dei Signori della Notte e per rimirare le meraviglie che essi sanno costruire. E ancora spero di poterlo fare in futuro. Ma si stanno consumando atti scellerati, e devo presentarmi di fretta, spinto dalla necessità. Sono un funzionario della Lega di Tutti i Mondi. Vi chiedo di accompagnarmi alla nave che la Lega vi ha affidato come prova della sua fiducia.

I tre Gdemiar continuarono a fissarlo, impassibili. La pedana li portava al livello di Rocannon, e, visti da pari a pari, i loro volti larghi, dall'età imprecisabile, i loro occhi dallo sguardo di pietra, erano impressionanti. Poi, grottescamente, quello più a sinistra disse, in Galattico commerciale: — Niente nave.

— Eppure, la nave c'è — obbiettò Rocannon.

Dopo qualche attimo, colui che aveva parlato ripeté, con tono ambiguo: — Niente nave.

— Parlate la Lingua Comune. Chiedo il vostro aiuto. Su questo mondo c'è un nemico della Lega. Non sarà più il vostro mondo, se aiuterete quel nemico.

— Niente nave — disse l'Uomo d'Argilla a sinistra. Gli altri due rimasero immobili come stalagmiti.

— Allora, dovrò dire agli altri Signori della Lega che il Popolo dell'Argilla ha tradito la loro fiducia e che dunque è indegno di combattere nella Guerra che Verrà?

Silenzio.

— La fiducia deve esserci da entrambe le parti, altrimenti non può esistere — disse l'Uomo d'Argilla posto al centro, parlando in Lingua Comune. Era quello che portava la coroncina.

— Verrei a chiedere il vostro aiuto se non mi fidassi di voi? Vi chiedo di fare almeno una cosa per me: mandate la nave a Kerguelen con un messaggio. Non c'è bisogno che vi salga una persona, perdendo gli anni; la nave può andarci da sola.

Ancora silenzio.

— Niente nave — disse quello a sinistra, con la sua voce dura.

— Vieni, Lord Mogien — disse Rocannon, e voltò le spalle ai tre Gdmiar.

— Coloro che tradiscono i Signori delle Stelle — disse Mogien, con la sua voce chiara e arrogante, — tradiscono patti ancora più antichi. Un tempo ci avete fabbricato le spade, Uomini d'Argilla. Quelle spade non sono arrugginite. — Si allontanò a grandi falcate, a fianco di Rocannon. Seguirono le loro guide tozze e grige, che li accompagnarono in silenzio, fino alla ferrovia, poi nel labirinto di corridoi umidi; infine uscirono nuovamente alla luce del giorno.

Volarono verso ovest per qualche chilometro, allo scopo di allontanarsi dal territorio degli Uomini d'Argilla, e atterrarono sugli argini di un fiume, per fare il punto della situazione.

Mogien sentiva di avere deluso le aspettative dell'ospite; non era abituato a vedere ostacolata la sua generosità, e la sua sicurezza di sé era un po' scossa.

— Insetti delle caverne! — esclamò. — Vermi codardi! Non sono mai capaci di dire schiettamente ciò che hanno fatto o che intendono fare. Tutti i Piccoli Popoli sono come loro, perfino i Fiia. Ma almeno dei Fiia ci si può fidare. Pensi che gli Uomini d'Argilla abbiano consegnato la nave al nemico?

— Come potrei dirlo?

— Io so una cosa, comunque: non la darebbero a nessuno, a meno che non gliela pagassero il doppio del suo valore! La roba, la roba… pensano soltanto ad accumulare roba. Cosa diceva quello più vecchio, che la fiducia deve esserci da entrambe le parti?

— Penso che volesse dire questo: che la sua gente ritiene che noi, intendo dire la Lega, l'abbiamo ingannata. Prima li abbiamo incoraggiati, poi, da un momento all'altro, li abbandoniamo per cinquant'anni, non gli mandiamo nessun messaggio, scoraggiamo la loro venuta, gli diciamo di provvedere a se stessi.

«E il responsabile di questo voltafaccia sono io, anche se quelli non lo sanno. Perché dovrebbero venirmi incontro, in fin dei conti? Non credo che abbiano parlato con il nemico, almeno per ora. Ma anche se gli avessero dato la nave, la cosa sarebbe poco importante. Il nemico non può farne molto uso: la può usare meno ancora di me. — Rocannon fissò lo sguardo sulle acque luminose del fiume, chinando la testa.

— Rokanan — disse Mogien, parlandogli per la prima volta come si parlava a un consanguineo, senza titoli onorifici. — Vicino a questa foresta abitano i miei cugini di Kyodor. È un forte castello, trenta spade Angyar e tre villaggi di plebei. Ci aiuteranno a punire il Popolo d'Argilla della sua insolenza…

— No — disse Rocannon. — Di' alla tua gente di tenere d'occhio gli Uomini d'Argilla, certo, perché potrebbero farsi comprare dal nemico. Ma non dovete infrangere il codice d'onore; non devono scoppiare guerre per me. Non servirebbe a niente: in momenti come questo, Mogien, il destino di un singolo uomo non ha importanza.

— Se non ha importanza quello — disse Mogien, fissandolo con la sua faccia scura, — che cosa ha importanza, allora?

— Signori — intervenne a quel punto uno dei due plebei, Yahan, che era giovane e snello, — laggiù c'è qualcuno, fra gli alberi.

Indicò un punto sulla riva opposta del fiume: un guizzo di colore che si poteva scorgere in mezzo alle conifere scure.

— Fiia! — disse Mogien. — Tenete alla briglia i destrieri. — Tutt'e quattro le grandi bestie stavano guardando l'altra sponda, con le orecchie ritte.

— Mogien, Signore di Hallan, attraversa in amicizia le strade dei Fiia! — La voce di Mogien echeggiò lungo l'ampio, basso ruscello, e dopo qualche istante, nella zona in cui il sole giocava con l'ombra, ai piedi degli alberi, comparve una minuscola figura. Parve danzare mentre le macchie di luce guizzavano su di essa: era difficile tenerla sotto lo sguardo, perché il gioco di luce la faceva cambiare continuamente. Quando venne verso di loro, Rocannon credette che camminasse sull'acqua, senza disturbarne la superficie, tanto aveva il passo leggero. Il grifone dal manto a strisce si alzò sulle zampe larghe, ma leggere poiché avevano le ossa cave come quelle degli uccelli, e si diresse verso l'acqua con passo felpato. Quando il Fian giunse sotto l'argine, la grande bestia piegò la testa: il Fian allungò il braccio e accarezzò le orecchie. Poi si diresse verso i quattro uomini.

— Salute a te, Mogien erede di Hallan, Capelli di Sole, Portatore di Spade! — Il timbro della sua voce era sottile e dolce come quello di un bambino; anche la sua corporatura era minuta e leggera come quella di un bambino, ma la faccia era quella di un adulto. — Salve a te, ospite degli Hallan, Signore delle Stelle, Errante!

Un paio di occhi strani, grandi, chiarissimi, si fissò per un istante in quelli di Rocannon.

— I Fiia conoscono sempre i nomi, e sanno tutte le notizie — disse Mogien, sorridendo. Ma il piccolo Fian non ricambiò il sorriso; perfino Rocannon, che aveva visitato una sola volta, per un breve periodo, uno dei loro villaggi durante una ricognizione della sua squadra, rimase sorpreso di tale comportamento.

— Signore delle Stelle — disse la voce leggera, che ora tremava per l'emozione, — chi cavalca le navi del vento che vengono a uccidere?

— Uccidere… la tua gente?

— Tutto il mio villaggio — disse il piccolo uomo. — Io ero sui monti, con il gregge. Ho sentito nella mente il mio popolo chiamare aiuto, e sono accorso, e li ho trovati fra le fiamme, che bruciavano e gridavano. C'erano due navi con le ali che girano. Sputavano fuoco.

«Adesso sono rimasto solo, e devo parlare da solo. Nella mia mente, dove prima c'era il mio popolo, adesso ci sono solo il fuoco e il silenzio. Perché è successo, Signori?

Il suo sguardo correva da Rocannon a Mogien. Entrambi erano senza parole. Il Fian si piegò su se stesso, come un uomo colpito mortalmente, sedette in terra e si nascose la faccia tra le mani.

Mogien si avvicinò a lui, con le mani sull'elsa di entrambe le spade. Tremando dall'ira, disse: — Qui, ora, giuro vendetta su coloro che hanno ucciso i Fiia! Rokanan, come può essere? I Fiia non hanno spade, non hanno ricchezze, non hanno nemici! Guarda, tutto il suo popolo è morto, tutti coloro con cui parlava senza parole, i compagni della sua tribù. Nessun Fian vive da solo. Da solo morirebbe. Perché hanno distrutto il suo popolo?

— Per farvi conoscere la loro potenza — disse Rocannon, in tono arcigno. — Portiamolo a Hallan. Mogien.

L'alto Signore si chinò sulla piccola figura accovacciata. — Fian, amico dell'uomo, monta in sella con me. Non posso parlarti nella mente come facevano i tuoi compagni, ma vedrai che non tutte le parole che viaggiano nell'aria sono vuote.

Montarono in sella in silenzio, e il Fian si sistemò davanti a Mogien, come un bambino: in breve i quattro animali furono nuovamente in volo. Un vento dal sud, carico di una leggera pioggia, favorì la loro andatura, e l'indomani, verso la fine del pomeriggio, tra un battito e l'altro delle ali possenti, Rocannon scorse la scalinata marmorea che attraversava la foresta, il Ponte sull'Abisso, sovrastava le verdi piante, e le torri di Hallan illuminate dagli ultimi raggi del sole.

La gente del castello, biondi signori e servitori dai capelli neri, si raccolse intorno a loro nella corte del volo; ogni bocca era piena della notizia dell'assalto al castello più vicino, a oriente. Reohan, i cui abitanti erano stati massacrati fino all'ultimo.

Anche questa volta erano stati due elicotteri e alcuni uomini armati di pistole laser. I guerrieri e i contadini di Reohan erano stati massacrati senza poter restituire neppure un colpo. La gente del castello di Hallan impazziva di rabbia per l'offesa; a questo sentimento si aggiunse anche lo stupore, quando videro il Fian che aveva viaggiato con il loro giovane signore e vennero a conoscenza dei motivi che l'avevano portato al castello.

Molti di loro, infatti, abitando nelle fortezze più settentrionali degli Angien, non avevano mai visto in precedenza un Fian, ma tutti li conoscevano attraverso le leggende, e sapevano che era vietato ucciderli. Un assalto contro uno dei loro castelli, per sanguinoso che potesse essere, rientrava nel loro modo guerriero di vedere, ma un attacco contro i Fiia era un sacrilegio. La collera si mescolava allo stupore.

Più tardi, quella sera, nella sua stanza della torre, Rocannon udì il tumulto proveniente dalla sottostante Sala dei Banchetti, dove tutti gli Angyar di Hallan si erano radunati per giurare di sterminare il nemico, fra torrenti di metafore e tuoni di iperboli.

Gli Angyar erano una razza di spacconi: vendicativi, arroganti, ostinati, analfabeti, e privi delle forme in prima persona del verbo «non essere capace di». Nelle loro leggende non c'erano dèi; c'erano soltanto eroi.

In mezzo a quel chiasso lontano, Rocannon notò una voce che parlava da distanza ravvicinata. Rimase scosso, e la sua mano sobbalzò sulla radio. Finalmente era riuscito a trovare la banda di comunicazione del nemico. Una voce continuava a parlare, in una lingua che Rocannon non conosceva. Sarebbe stata una vera fortuna, se il nemico avesse parlato in Galattico, ma purtroppo non era così; si parlavano migliaia di lingue, sui mondi della Lega. Inoltre c'erano quelle di pianeti che, come il mondo su cui si trovava Rocannon, non ne facevano parte, e quelle di pianeti ancora da cartografare.

La voce cominciò a leggere un elenco di numeri, e Rocannon riuscì a capirli, perché erano in Celiano, lingua di una razza famosa per i suoi successi nel campo della matematica: la superiorità della matematica di Tau Ceti aveva portato alla diffusione dei nomi cetiani dei numeri. Ascoltò con attenzione, ma l'ascolto non gli rivelò nulla: si trattava di semplici serie di cifre. La voce s'interruppe bruscamente, lasciando soltanto il sibilo del rumore di fondo.

Rocannon guardò il piccolo Fian, all'altro capo della stanza. La piccola creatura aveva chiesto di rimanere con lui, e ora sedeva a gambe incrociate sul pavimento, accanto alla finestra.

— Era la voce del nemico, Kyo.

La faccia del Fian rimase immobile

— Kyo — disse Rocannon (si usava parlare ai Fiia chiamandoli con il nome Angyar del loro villaggio, poiché i singoli membri della specie forse avevano nomi di persona, forse non li avevano), — Kyo, se tu cercassi di farlo, potresti ascoltare con la mente il nemico?

Basandosi sulle osservazioni da lui compiute nella breve visita al villaggio dei Fiia, Rocannon aveva notato che raramente la Specie I-B rispondeva in modo diretto a una domanda; ricordava ancora la loro evasività, condita di grandi sorrisi. Ma Kyo, rimasto solo e abbandonato nel paese a lui sconosciuto del linguaggio verbale, rispondeva sempre alle domande di Rocannon. — No, Signore — disse, passivamente.

— E riesci a udire con la mente altri della tua razza, di villaggi diversi dal tuo?

— Un poco. Se abitassi tra loro per qualche tempo, forse… A volte i Fiia vanno ad abitare in villaggi diversi dal loro. Si dice anche che un tempo Fiia e Gdemiar parlassero tra loro con la mente, come un singolo popolo, ma da allora è passato molto tempo. Si dice… — Qui s'interruppe.

— In effetti — commentò Rocannon, — il tuo popolo e gli Uomini d'Argilla sono una sola razza, anche se oggi avete abitudini diverse. Cosa stavi dicendo, Kyo?

— Si racconta che molto tempo fa, nel Sud, nelle terre alte, nelle terre grige, vivessero coloro che parlavano con la mente a tutte le creature. Gli antichi erano capaci di ascoltare ogni pensiero… Ma siamo scesi dalle montagne, siamo andati ad abitare nelle valli e nelle grotte, e abbiamo dimenticato quel faticoso modo di vivere.

Rocannon si soffermò a riflettere per qualche istante. Non c'erano montagne nel continente a sud di Hallan. Si alzò con l'intenzione di prendere il Manuale, con le sue cartine geografiche, allorché la radio, che continuava a trasmettere nella stessa banda, lo fece fermare.

Si udiva una voce, debole, disturbata da scariche, che però parlava in Galattico: — Numero Sei, rispondete. Numero Sei, rispondete. Qui Foyer. Rispondete, Numero Sei. — Dopo una serie interminabile di pause e di ripetizioni, la voce continuò: — Qui Friday. No, qui Friday… Qui Foyer; siete in contatto, Numero Sei? Le navi ultra-luce arriveranno domani; voglio un completo rapporto sui collegamenti Sette-Sei e sulle reti. Lasciate il piano intimidatorio al Distaccamento Orientale. Mi ricevete, Numero Sei? Saremo in comunicazione ansible con la Base domani. Datemi subito queir informazione sui collegamenti Sette-Sei. Le attività non strettamente necessarie…

Una scarica di disturbi inghiottì il resto del discorso, e quando la scarica terminò, si udirono soltanto brevi frasi interrotte. Passarono dieci minuti tra disturbi, silenzi, frasi incomplete, poi si inserì una seconda voce, che trasmetteva da un punto più vicino a Rocannon, e che parlava nella lingua sconosciuta già ascoltata in precedenza. Continuò a parlare per diversi minuti, e Rocannon ascoltò immobile, con la mano sul Manuale, un minuto dopo l'altro. Altrettanto immobile era il Fian seduto nell'ombra, dall'altra parte della stanza. Due coppie di numeri vennero pronunciate, poi vennero ripetute; la seconda volta, Rocannon udì anche la parola «grandi», in Cetiano. Rocannon spalancò il bloc-notes e scrisse i numeri; poi, finalmente, senza cessare l'ascolto, aprì il Manuale e cercò le carte geografiche di Fomalhaut II.

I numeri da lui uditi erano 28° 28, 121° 40. Se si fosse trattato di coordinate di latitudine e longitudine… Studiò per qualche momento le cartine, e individuò con la punta della matita alcuni punti. I primi due corrispondevano a posizioni nel mare aperto, ma poi, provando 121 Ovest con 28 Nord, trovò una zona situata a poca distanza da una catena di montagne, circa nel centro del Continente Sudoccidentale. Rimase per lungo tempo a fissare la carta geografica. La radio taceva.

— Signore delle Stelle? — domandò il Fian.

— Credo che mi abbiano rivelato dove sono. È possibile. E laggiù hanno un ansible. — Alzò gli occhi in direzione di Kyo, fissando lo sguardo nel vuoto, poi ritornò a guardare la carta. — Se sono laggiù… se potessi arrivare laggiù per rompergli le uova nel paniere, se riuscissi a trasmettere anche un solo messaggio con il loro ansible alla Lega, se…

Il Continente Suboccidentale era stato cartografato dall'aria, e sulla carta erano tracciati soltanto i fiumi principali e le catene montuose: le terre inesplorate si stendevano per centinaia e centinaia di chilometri. E la sua meta era soltanto un'ipotesi.

— Non posso star qui ad aspettare con le mani in mano — disse. Alzò di nuovo gli occhi e incontrò lo sguardo chiaro, perplesso del Fian.

Cominciò a passeggiare avanti e indietro. La radio sibilava e fischiava.

Aveva un solo elemento a suo favore: il nemico ignorava la sua esistenza. Il nemico pensava di avere l'intero pianeta. Ma era l'unico elemento a suo favore.

— Mi piacerebbe usare contro di loro le loro stesse armi — disse. — Penso che andrò a cercarli. Nella terra del sud… La mia gente è stata uccisa da questi stranieri, esattamente come la tua, Kyo. Sia tu che io siamo soli, e parliamo una lingua che non è la nostra. Sarei felice di averti con me.

Non sapeva che cosa lo spingesse a suggerirgli di accompagnarlo.

Sulla faccia del Fian comparve l'ombra di un sorriso. Sollevò le mani, tenendole parallele tra loro, senza che si toccassero. La luce delle candele infilate nei candelabri delle pareti guizzò e cambiò colore. — È stato predetto che l'Errante avrebbe scelto i suoi compagni — disse, — Per qualche tempo.

— L'Errante? — domandò Rocannon, ma questa volta il Fian non rispose.

CAPITOLO TERZO

La Signora del Castello attraversava lentamente la grande sala, e la sua veste frusciava sulle pietre. Con l'età, la sua pelle era diventata ancora più scura, fino a raggiungere il nero di un'icona. I suoi capelli chiari erano bianchi. Ma conservava ancora la bellezza caratteristica dei suoi antenati. Rocannon si inchinò davanti a lei, salutandola all'uso della sua gente: — Salve. Signora di Hallan. figlia di Durhal, Haldre la Bella!

— Salve, Rokanan, mio ospite — disse lei, fissandolo tranquillamente dall'alto. Come molte donne Angyar e come tutti gli uomini della sua razza, Haldre era più alta di lui. — Dimmi perché vai a sud.

Continuò a passeggiare avanti e indietro nella sala, e Rocannon camminò accanto a lei. Attorno a loro c'erano l'aria scura e la pietra, le scure tappezzerie che pendevano dalle alte pareti, la fredda luce del mattino che penetrava dalle finestre a mansarda ricavate nel soffitto e che illuminava le travi sovrastanti.

— Vado a cercare il mio nemico, Signora.

— E quando lo avrai trovato?

— Spero di entrare nel suo… castello, e di usare il suo… trasmettitore di messaggi, per dire alla Lega che si trova su questo mondo. Si nasconde qui, e la Lega ha scarse possibilità di trovarlo: i pianeti sono numerosi come i granelli di sabbia. Eppure bisogna trovare quegli uomini. Qui hanno commesso azioni malvage, e altre pensano di compierne su altri pianeti, più malvage ancora.

Haldre annuì con un cenno del capo; uno solo. — È vero che vuoi viaggiare leggero, con pochi uomini?

— Sì, Signora. Il viaggio è lungo, e occorre attraversare il mare. L'astuzia, non la forza, è la mia sola speranza contro la potenza del nemico.

— Ti occorrerà ben più dell'astuzia, Signore delle Stelle — disse l'anziana donna. — Bene, ti farò accompagnare da quattro fedeli plebei, se pensi che ti siano sufficienti, e ti darò due bestie da carico e sei da sella, qualche pezzo d'argento, nel caso che i barbari di terre lontane vogliano essere pagati per darti ospitalità, e mio figlio Mogien.

— Mogien verrà con me? Sono grandi doni, Signora, ma questo è il più grande!

Lei lo studiò per qualche istante con il suo sguardo chiaro, triste, inesorabile. — Sono lieta del tuo gradimento, Signore delle Stelle — disse poi, riprendendo a misurare a lenti passi la sala. Rocannon si mantenne al suo fianco. — Mogien desidera venire, per amicizia verso di te e per amore dell'avventura; e tu, un grande Signore votato a una missione pericolosa, desideri la sua compagnia. Penso quindi che la sua giusta strada consista nel seguirti; di questo non ho dubbi. Ma ti dico ora, questa mattina, nella Sala Lunga, affinché tu ricordandolo non tema il mio biasimo al tuo ritorno: non credo che farà ritorno con te.

— Ma, Signora, è l'erede di Hallan.

Haldre continuò a passeggiare in silenzio per qualche tempo, si voltò quando giunse in fondo alla sala, dove pendeva un arazzo ingiallito con il passare del tempo e raffigurante una battaglia tra uomini dai capelli biondi e giganti alati, e infine riprese a parlare.

— Hallan troverà altri eredi — disse. La sua voce era tranquilla, ma fredda e amara. — Voi Signori delle Stelle siete nuovamente tra noi, e ci portate nuove usanze e nuove guerre. Reohan è ridotto in polvere; quanto resisterà Hallan? Il mondo stesso è diventato un granello di sabbia sulle rive della notte. Oggi tutte le cose stanno cambiando. Io sono certa di un fatto: che sulla mia famiglia pesa un'ombra oscura. Mia madre, che tu hai conosciuto, si perse nella foresta, seguendo la propria follia; mio padre venne ucciso in battaglia, mio marito dal tradimento; quando mi nacque un figlio, il mio spirito pianse, pur tra la gioia, prevedendo che avrebbe avuto vita breve. Una simile sorte non è motivo di afflizione per lui; è un Angya, porta due spade. Ma la parte d'oscurità a me spettante consiste nel reggere da sola un dominio in via di estinzione, di continuare a vivere, sopravvivendo a tutti…

Rimase in silenzio per qualche istante, poi riprese:

— Ti occorrerà certamente un tesoro più grande di quanto ti possa dare io, per aprirti la strada o per salvarti la vita. Prendi questa. La do a te, Rokanan, non a Mogien. Essa non comporta alcuna oscurità, per te. Era tua un tempo, nella città all'altro capo della notte. Per noi è stata soltanto un peso e un'ombra. Riprendila, Signore delle Stelle, Usala come riscatto, o come dono.

Sfilò dal collo l'oro e la grande pietra azzurra della collana che era costata a sua madre la vita, e la porse a Rocannon. Egli l'accettò, ascoltando quasi con terrore il gelido tintinnio delle maglie, e sollevò lo sguardo in direzione di Haldre. Lei lo fissò, alta, con gli occhi azzurri che sembravano scuri nella penombra della sala.

— Ora prendi con te mio figlio, Signore delle Stelle — disse, — Che il tuo nemico possa morire senza figli.

Luci di torce, fumo, ombre che si affrettavano nella corte del volo del castello, voci di bestie e di uomini, chiasso e confusione, tutto scomparve in pochi battiti d'ala del grifone dal manto a strisce cavalcato da Rocannon. Hallan giacque dietro di loro, simile a un debole punto di luce sullo sfondo della scura curva delle montagne, e l'unico suono era il fruscio delle grandi ali che si sollevavano per poi ridiscendere.

Il cielo, dietro le loro spalle, a occidente, era chiaro, e Grandestella ardeva come un cristallo luminoso, annunciando il levar del sole, ma mancava ancora molto tempo al sorgere dell'alba. I giorni, le notti e i crepuscoli erano lenti e maestosi, su quel pianeta che impiegava trenta ore per una rotazione intorno all'asse. E anche l'incedere delle stagioni era altrettanto lento: si era all'alba dell'equinozio di primavera, e li attendevano quattrocento giorni di primavera e d'estate.

— Nei castelli dei monti canteranno ballate su di noi — disse Kyo, che cavalcava a postiglione dietro Rocannon. — Racconteranno che l'Errante e i suoi compagni cavalcarono verso sud, attraverso il cielo, nell'oscurità che precede la primavera… — Rise piano. Sotto di loro, le montagne e le ricche pianure dell'Angien si stendevano come un paesaggio dipinto su seta grigia, rischiarandosi a poco a poco; e infine risplendettero di colori vivaci e d'ombra quando, alle loro spalle, sorse il sole maestoso.

A mezzogiorno riposarono un paio d'ore sulla riva del fiume di cui stavano seguendo il corso fino al mare; al tramonto presero terra nella corte di un piccolo castello, costruito, come tutti i castelli degli Angyar, sulla cima di un monte, accanto a una curva del fiume. Vennero accolti dal Signore del luogo e dai suoi vassalli. Il Signore del castello era visibilmente incuriosito, vedendo un Fian che volava su un destriero del vento, insieme con il Signore di Hallan, con quattro plebei, e con un individuo che parlava in modo strano, che vestiva come un Signore, ma che non portava spade e che era pallido come un plebeo. In realtà, tra le due caste, quella degli Angyar e quella degli Olgyior, le mescolanze erano più diffuse di quanto fossero disposti ad ammettere molti Angyar: c'erano guerrieri dalla pelle chiara, e servitori dai capelli biondi. Ma queir «Errante» si scostava un po' troppo dalle norme. Non volendo diffondere ulteriormente la notizia della sua presenza sul pianeta, Rocannon non parlò di sé, e il padrone di casa non osò rivolgere domande all'erede di Hallan; fu così che, se mai venne a sapere l'identità di quegli strani ospiti, la seppe da qualche menestrello che cantava la storia della spedizione, qualche anno più tardi.

Il giorno successivo trascorse nello stesso modo per i sette viaggiatori, che volarono alti sull'incantevole paesaggio. Passarono la notte in un villaggio Olgyior situato accanto al fiume, e il terzo giorno giunsero in una zona sconosciuta allo stesso Mogien. Il fiume, curvando verso sud, disegnava cerchi e anse, le montagne si erano distese, dando Luogo a vasti pianori, e dinanzi a loro, mollo lontano, il ciclo rifletteva una pallida luce. Nel pomeriggio inoltrato giunsero a un castello isolato che sorgeva su una bianca scogliera, al di là della quale si stendevano una lunga distesa di lagune e di sabbia grigia, e infine il mare aperto.

Smontando di sella anchilosato, stanco, e con gli orecchi che gli ronzavano a causa del moto e del vento, Rocannon la giudicò la più miserabile fortezza Angyar che avesse mai visto: un gruppetto di capanne simili a pulcini bagnati, raccolte sotto le ali di un forte tozzo e dall'aspetto logoro. Dalle stradicciole li osservavano certi plebei pallidi, di bassa statura. — Sembra che abbiano fatto razza con il Popolo d'Argilla — disse Mogien, con una smorfia. — Questa è l'entrata, e il castello si chiama Tolen, se il vento non ci ha portato fuori strada. Ehi! Signori di Tolen, ci sono ospiti alla porta!

Dal castello non giunse alcun rumore.

— Le porte di Tolen dondolano al vento — disse Kyo, e tutti, solo allora, si accorsero che le doppie porte di legno rinforzato da lastre di bronzo erano scardinate, e lasciavano entrare nel castello il freddo vento marino che soffiava fra le casupole. Mogien le spalancò con la punta della spada: all'interno c'erano solo l'oscurità, un frullo d'ali, come di piccoli animali disturbati dal rumore, e un odore sgradevole.

— I Signori di Tolen non hanno aspettato l'arrivo degli ospiti — disse Mogien. — Bene, Yahan, parla a quella brutta gente e trovaci un riparo per la notte.

Il giovane plebeo si recò a parlare con gli abitanti del villaggio, che si erano radunati in un angolo del cortile per osservare i nuovi venuti. Uno di loro raccolse il coraggio necessario per farsi avanti, si inchinò, e, camminando di lato come una creatura degli scogli marini, parlò in tono deferente con Yahan. Rocannon riuscì a seguire solo in parte il dialetto Olgyior dell'uomo; comprese che il vecchio si scusava perché il villaggio non aveva alloggi degni dì ospitare pedanar, qualunque cosa essi fossero.

L'alto plebeo Raho si unì a Yahan, parlando in tono imperioso, ma il vecchio si limitò a inchinarsi, ad alzare le spalle e a mormorare, cosicché fu Mogien stesso a doversi fare avanti. Secondo l'etichetta Angyar, un signore non poteva parlare di persona ai servi di un dominio diverso dal suo, ma Mogien sguainò una delle spade e la brandì, facendola scintillare nella scarsa luce della sera.

Il vecchio allargò le braccia, e con un'ultima protesta si avviò zoppicando tra le stradine del villaggio. I viaggiatori lo seguirono; le ali ripiegate dei loro destrieri sfioravano i bassi tetti rossi, da entrambi i lati del passaggio.

— Kyo, cosa sono i pedanar?

L'ometto sorrise, e non disse nulla.

— Yahan, cosa significa quella parola, pedanar?

Il giovane plebeo, una persona tranquilla e candida, parve imbarazzato. — Be', Signore, un pedan è… uno che cammina in mezzo agli uomini…

Rocannon annuì, facendo tesoro di quell'informazione, per piccola che fosse. Allorché egli studiava la specie, prima di allearsi militarmente ad essa, aveva continuato a cercare dati sulla sua religione; sembrava che non avesse alcuna fede. Eppure era una specie disposta a credere ai più disparati aspetti del sovrannaturale. Accettavano gli incantesimi, le maledizioni, gli strani poteri come realtà, e il loro rapporto con la natura era profondamente animistico. Ma non avevano dèi. E adesso, finalmente, ecco una parola che faceva pensare al sovrannaturale. Non gli venne in mente, sul momento, che quella parola si riferisse a lui.

Occorsero tre di quelle miserevoli capanne per ospitare i sette viaggiatori; i destrieri, troppo grossi per entrare in una casa del villaggio, dovettero rimanere fuori, legati. Le bestie si raccolsero tutte insieme, arruffando il pelo per proteggersi dal vento gelido proveniente dal mare. Il destriero di Rocannon, quello con il manto a strisce, continuò a grattare il muro e a lamentarsi con lunghi miagolii, finché Kyo non uscì ad accarezzargli le orecchie.

— Presto gli capiterà anche di peggio, povera bestia — disse Mogien, seduto con Rocannon accanto al focolare che riscaldava la capanna. — Odiano l'acqua.

— A Hallan mi hai detto che non volano al di sopra dell'acqua, e questi contadini non hanno navi capaci di trasportarli. Come attraverseremo il canale?

— Hai con te il ritratto della regione? — domandò Mogien. Gli Angyar non avevano carte geografiche, e Mogien era affascinato dalle cartine della Spedizione Geografica stampate nel Manuale. Rocannon estrasse il libro dalla vecchia borsa a tracolla di cuoio che lo aveva accompagnato da un mondo all'altro e che conteneva le poche cose che aveva con sé a Hallan, quando la nave era stata distrutta. Il Manuale e i bloc-notes, la tuta e la pistola, l'astuccio del pronto soccorso e la radio, una scacchiera della Terra e un volume di poesia Hainila, mezzo squinternato. Dapprima aveva tenuto nella borsa anche la collana con lo zaffiro, ma la sera precedente, preoccupato per il valore del gioiello, aveva cucito intorno al pendente un sacchetto di soffice pelle di barilor, e si era messo al collo la collana, sotto la tunica e la camicia, cosicché ora sembrava un amuleto; d'ora in poi, perché potesse perderla, occorreva che perdesse anche la testa.

Con il lungo, sottile dito indice, Mogien seguì sulla cartina la costa dei due continenti occidentali, nel tratto dove erano separati da un braccio di mare: la regione all'estremo sud di Angien, con due profondi golfi e un grasso promontorio che puntava a sud. Indicò, sull'altra sponda del canale, il capo più settentrionale del continente di sudovest, che Mogien chiamava «Fien».

— Noi siamo qui — disse Rocannon, prendendo, dagli avanzi del pasto, una vertebra di pesce e appoggiandola sulla punta del promontorio.

— E qui, se questi contadinacci fifoni e mangiapesci dicono la verità, c'è un castello chiamato Plenot. — Mogien posò sulla carta una seconda vertebra, un centimetro a est della precedente, e si soffermò a contemplarla. — Una torre ha un aspetto molto simile, vista dall'alto. Quando ritornerò a Hallan, manderò cento uomini in ricognizione, in volo, perché osservino il territorio: i loro disegni ci aiuteranno a scolpire un grande ritratto in pietra di tutto l'Angien. A Plenot troveremo le navi: probabilmente tutte le navi di questo villaggio, Tolen, e quelle del signore locale. Tra questi due Signori poveri c'è stata una faida, e per questo adesso Tolen è il dominio del vento e della notte. Così raccontava a Yahan quel vecchio.

— Plenot ci presterà le navi?

— Plenot non ci presterà un bel niente. Il signore di Plenot è un Esterno.

Questo significava, nelle complicate regole che stabilivano i rapporti tra i feudi degli Angyar, un signore bandito dagli altri, fuorilegge, non legato al codice di ospitalità, di vendetta, di restituzione.

— Ha solo due destrieri — continuò Mogien, slacciandosi il cinturone per la notte. — E il suo castello, dicono, è di legno.

Il mattino seguente, mentre volavano sottovento in direzione del castello di legno, una guardia li avvistò quasi nello stesso momento in cui essi avvistavano la torre. I due destrieri del castello furono in volo pochi istanti più tardi, e continuarono a girare in cerchio intorno alla torre. Qualche istante ancora e si poterono distinguere anche alcune piccole figure con archi, dietro le feritoie. Chiaramente, un signore Esterno non si aspettava che le visite fossero amichevoli. Rocannon capì anche perché i castelli degli Angyar fossero coperti da tetti che rendevano cupo e cavernoso il loro interno, ma che li proteggevano dagli attacchi aerei. Plenot era un piccolo castello, addirittura più rustico di quello di Tolen; gli mancava il villaggio di plebei, ed era appollaiato su una rupe nera sovrastante il mare; ma per povero che fosse, la fiducia di Mogien che sei uomini riuscissero a conquistarlo sembrava un po' eccessiva. Rocannon controllò le cinghie che gli assicuravano le cosce alla sella, impugnò più saldamente la lancia da volo che Mogien gli aveva dato, e imprecò contro se stesso e il proprio destino. Non era il posto adatto per un etnologo di quarantatré anni.

Mosien, che volava in testa a tutti sul suo animale nero, sollevò la lancia e gridò. La bestia di Rocannon abbassò la testa e si buttò anch'essa in pieno volo. Le ali bianche e grige salivano e scendevano come pale; il corpo lungo, ampio e leggero della bestia era teso e pulsava tutto, sotto i battiti del cuore possente. Il vento fischiava intorno a loro, e la torre di Plenot, coperta di paglia, sembrava avvicinarsi precipitosamente. I due grifoni che volavano intorno alla torre sollevarono la testa. Rocannon si appiattì sulla schiena della bestia, preparandosi all'urto della sua lunga lancia. Sentiva crescere in sé una felicità, un antico piacere: rise, per la gioia di essere portato dal vento. La torre e le sue due guardie alate si fecero sempre più vicine, finché, d'improvviso, con un grido in falsetto, acutissimo e penetrante, Mogien scagliò la lancia, che attraversò l'aria come un fulmine argenteo.

L'arma colpì in pieno petto uno dei difensori del castello; la forza dell'impatto fu tale da spezzargli le cinghie da coscia: l'uomo scivolò sui fianchi dell'animale e, con una traiettoria netta, apparentemente lenta, toccò terra fra le onde che s'infrangevano tranquillamente sugli scogli coperti di spuma, cento metri più in basso. Senza badare al grifone privo di cavaliere, Mogien ingaggiò subito un duello con l'altra guardia, a corpo a corpo, cercando di colpire con la spada, schivando la lancia che l'altro, invece di lanciare, usava di punta e per parare.

I quattro servitori di Mogien, montati sui loro grifoni bianchi e grigi, si libravano intorno ai combattenti come terribili colombe, pronti a intervenire, ma senza intromettersi nel duello del loro signore. Badavano soltanto a mantenersi fuori tiro, per evitare che le frecce, dal castello, forassero la cotta di cuoio che proteggeva la pancia dei grifoni.

Ma d'improvviso tutti e quattro, lanciando l'urlo acutissimo che già aveva colpito sgradevolmente i timpani di Rocannon, si scagliarono verso i duellanti. Per un attimo ci fu una confusione di ali bianche e di lame scintillanti sospese a mezz'aria. Poi, da quel mucchio indistinto, cadde una figura che sembrava voler dormire nell'aria, rigirando le braccia e le gambe intorpidite per trovare la posizione giusta, e che infine urtò contro il tetto del castello e rimbalzò in basso, finendo la traiettoria su un duro letto di scogli.

Ora Rocannon capì perché si fossero intromessi nel duello: la guardia, infrangendo le regole, aveva colpito il destriero invece del cavaliere. L'animale di Mogien, con un'ala nera macchiata di sangue rosso e cupo, cercava con fatica di raggiungere le dune. Accanto a Rocannon sfrecciarono i quattro plebei, lanciati all'inseguimento delle due bestie senza cavaliere, che stavano tornando indietro per raggiungere il castello e le sue tranquille scuderie. Rocannon bloccò la strada ai due animali, ponendosi tra loro e il cortile. Vide che Raho ne catturava uno lanciando abilmente una fune, e nello stesso momento sentì un urto al polpaccio. Sussultò, e con il suo brusco movimento impauri l'animale già eccitato; poi, per tenerlo a bada, tirò troppo forte le redini, e la bestia curvò la schiena: per la prima volta da quando Rocannon era salito sulla sua groppa, il destriero cercava di disarcionarlo, saltando e impennandosi nell'aria, in alto sul castello.

Le frecce fischiavano intorno a Rocannon come una grandinata al contrario. Davanti a lui passarono come saette i quattro plebei e Mogien, che adesso era montato su una bestia dagli occhi feroci e dal manto giallo. Gridavano e ridevano. Il destriero di Rocannon si calmò e seguì i compagni. — Prendi, Signore delle Stelle! — esclamò Yahan, e Rocannon scorse una sorta di cometa dalla coda nera, lanciata verso di lui. La afferrò istintivamente, per autodifesa, e vide che era una torcia di resina, accesa. Si unì agli altri, che volavano in cerchio intorno alla torre, a distanza ravvicinata, con l'intenzione di appiccare fuoco al tetto di paglia e ai travicelli di legno che lo sorreggevano.

— Hai una freccia nella gamba sinistra — Mogien gridò, mentre lo sorpassava. Rocannon si limitò a ridere allegramente, lanciando la torcia dritta in una feritoia, dove era appostato un arciere. — Bel colpo! — fece Mogien, e andò a gettarsi a capofitto sul tetto della torre, per rialzarsi poi tra un mare di fiamme.

Yahan e Raho erano ritornati con fasci di torce fumanti, dopo essere andati sulle dune ad accenderle, e le gettavano dovunque ci fossero canne e legno da incendiare. La torre era ormai una cascata di scintille, e i destrieri, infuriati sia perché venivano continuamente trattenuti con le redini, sia perché si sentivano colpire dalle scintille, cercavano di tuffarsi verso i tetti del castello, ruggendo in modo orribile.

I difensori del castello avevano smesso di lanciare frecce, e dopo qualche momento un uomo uscì nel cortile: aveva un elmo che sembrava un'insalatiera di legno, e sollevava sulla testa un oggetto che dapprima parve a Rocannon uno specchio, ma che era una bacinella piena d'acqua.

Dando uno strattone alle redini dell'animale giallo su cui era montato, e che cercava ancora di ritornare alla scuderia, Mogien si portò al di sopra dell'uomo ed esclamò: — Parla, presto! I miei uomini sono andati ad accendere altre torce!

— Di quale feudo sei, Signore?

— Hallan!

— Il Signore-Esterno di Plenot chiede una tregua per spegnere l'incendio, Signore di Hallan!

— In cambio della vita e dei beni degli uomini di Tolen, te la concedo.

— Così sia — esclamò l'uomo, e, sempre tenendo alta la bacinella piena d'acqua, rientrò nel castello. Gli assalitori si ritirarono sulle dune, e la gente di Plenot corse alle pompe, formando una fila che si passava i secchi d'acqua. La torre bruciò totalmente, ma le pareti e i tetti del castello si salvarono. Gli abitanti del castello erano una ventina o poco più, comprese le donne. Quando i fuochi furono spenti, un gruppo di persone uscì dal portone, attraversò il promontorio roccioso e raggiunse le dune. Davanti a tutti veniva un uomo alto e magro, che aveva la pelle color guscio di noce e i capelli di fiamma degli Angyar; dietro di lui venivano due soldati che ancora portavano il loro curioso elmo a insalatiera, e per ultimo un gruppetto di sei, tra uomini e donne, vestiti di stracci, che si guardavano intorno con aria rassegnata. L'uomo alto teneva ancora nelle mani la ciotola piena d'acqua.

— Sono Ogoren di Plenot — disse, — Signore-Esterno di questo feudo.

— Sono Mogien, erede di Hallan.

— La vita della gente di Tolen è tua, Signore. — Indicò con un cenno del capo il gruppo lacero. — A Tolen non c'erano beni.

— C'erano due navi, Esterno.

— Dal nord viene volando il drago, e tutto vede — borbottò Ogoren, irritato. — Le navi di Tolen sono tue.

— E tu riavrai i destrieri quando le navi saranno ormeggiate a Tolen — disse Mogien, magnanimo.

— Da quale altro signore ho avuto l'onore di essere sconfitto? — domandò Ogoren, adocchiando Rocannon, che indossava l'equipaggiamento e la corazza di bronzo dei guerrieri Angyar, ma che non aveva spada. Anche Mogien fissava l'amico, e Rocannon rispose con il primo appellativo che gli venne in mente: il nome con cui lo chiamava Kyo.

— Sono Olhor — disse, — l'Errante.

Ogoren lo fissò con un'espressione strana, poi rivolse un inchino a tutt'e due e disse: — La ciotola è piena, Signori.

— Che l'acqua non si versi, e che il patto non sia spezzato!

Ogoren voltò loro le spalle e ritornò con i suoi due uomini al forte che ancora fumava. Non degnò di una sola occhiata i prigionieri liberati, che si erano raccolti in un gruppetto. A questi ultimi, Mogien disse soltanto: — Conducete con voi il mio destriero; ha un'ala ferita. — Poi, risalendo sulla bestia gialla del castello di Plenot, si alzò in volo. Rocannon lo seguì, voltandosi indietro a guardare il triste gruppetto che faceva lentamente ritorno a casa, nel castello in rovina.

Quando raggiunsero Tolen, il suo spirito combattivo si era ormai spento; aveva ripreso a darsi dello sciocco. C'era davvero una freccia, piantata nel suo polpaccio sinistro: la vide quando smontò di sella, sulla duna. Non sentì alcun dolore, finché non fece una sciocchezza: la strappò via, senza prima assicurarsi che la punta non fosse uncinata (come era in realtà). Gli Angyar non usavano veleno, ma c'era sempre il rischio di un'infezione. Influenzato dal coraggio dei compagni, si era vergognato di indossare la sua tuta difensiva, quasi invisibile, in occasione dell'incursione. Pur possedendo un'armatura capace di resistere a un laser, aveva rischiato di morire in quel maledetto tugurio per la scalfittura di una freccia dalla punta di bronzo. Era partito per salvare un pianeta, e a malapena era riuscito a salvare la pelle.

Il più vecchio dei quattro servitori venuti da Hallan, un individuo tranquillo e tarchiato chiamato Iot, entrò nella capanna, e quasi senza fare parola, gentilmente, si inginocchiò e lavò la ferita di Rocannon, coprendola con una fasciatura. Poi giunse Mogien, che era ancora vestito da battaglia: sembrava alto tre metri a causa dell'elmetto con la cresta, e largo un metro e mezzo a causa delle grandi spalline rigide, simili ad ali.

Dietro di lui venne Kyo, silenzioso come un bambino in mezzo ai guerrieri di una razza più forte. Poi entrarono Yahan, Raho e il giovane Bien; il pavimento cigolò sotto tutto quel peso, quando si sedettero attorno al focolare.

Yahan riempì sette coppe dall'orlo d'argento, e Mogien, con gravità, le passò agli altri. Tutti bevvero. Rocannon cominciò a sentirsi meglio. Mogien gli domandò della sua ferita, e Rocannon si sentì ancora meglio.

Bevvero altro vaskan, mentre gli abitanti del villaggio, timorosi e ammirati, sbirciavano per un istante attraverso la porta, dalla stradicciola buia. Rocannon si sentiva eroico e magnanimo. Mangiarono, bevvero ancora, e poi, nella capanna soffocante e piena di fumo, fra l'odore del pesce fritto e del sudore, Yahan si alzò in piedi, prese una cetra di bronzo con le corde d'argento, e cominciò a cantare.

Cantò di Durholde di Hallan che aveva liberato i prigionieri di Korhalt, al tempo del Signore Rosso, oltre le paludi di Born; e quando ebbe descritto la stirpe di ciascun guerriero che aveva preso parte alla battaglia, nonché ciascun colpo da lui sferrato, attaccò con la liberazione della gente di Tolen e con l'incendio della Torre di Plenot, con la torcia dell'Errante che ardeva in mezzo a una pioggia di frecce, con il possente colpo inferto da Mogien erede di Hallan, con la lancia scagliata nel vento che raggiungeva il suo bersaglio come l'infallibile lancia di Hendin nei giorni antichi.

Semiubriaco, soddisfatto, Rocannon si lasciò portare dal fiume del canto, ormai convinto di essere totalmente legato, con un patto sancito dal sangue versato quel giorno, al pianeta dove si trovava: un mondo su cui era giunto come uno straniero, dall'abisso della notte. Solo di tanto in tanto, accanto a lui, percepiva la presenza del piccolo Fian, sorridente, estraneo, sereno.

CAPITOLO QUARTO

Sul mare scendeva una pioggia battente, e l'acqua aveva l'aspetto di una distesa di lunghe onde coperte di vapore. Il mondo aveva perso ogni tono di calore.

Due destrieri, con le ali legate e incatenati alla poppa della nave, gemevano e ululavano; dalle onde gonfie del mare, attraverso la pioggia e la nebbia, giungeva, come un'eco dolorosa, lo stesso tipo di suoni, proveniente dall'altra imbarcazione.

Avevano trascorso vari giorni a Tolen, aspettando la guarigione della gamba di Rocannon e aspettando che il grifone nero fosse nuovamente in grado di volare. Sebbene si trattasse di valide ragioni per attendere, la verità era che Mogien provava riluttanza a partire, ad attraversare il mare che pur doveva valicare. Vagava per la sabbia grigia, tra le lagune sotto Tolen, completamente solo, forse per liberarsi della premonizione avuta da sua madre Haldre. A Rocannon poteva solamente dire che la vista e il suono del mare rendevano pesante il suo cuore.

Quando infine il destriero nero fu pienamente guarito, decise improvvisamente di rimandarlo a Hallan, affidato a Bien, come se volesse salvare dal pericolo almeno una cosa preziosa. Avevano anche deciso di lasciare al vecchio Signore di Tolen e ai suoi nipoti le due bestie da soma e la maggior parte del carico, per aiutarli a rimettere in sesto il castello male in arnese. Così, ora, a bordo delle due navi con le teste di drago sogghignanti scolpite sulla prua, c'erano soltanto sei viaggiatori e cinque grifoni, tutti bagnati fino all'osso, e quasi tutti intenti a lamentarsi.

Due pescatori di Tolen, dall'aria ottusa, governavano la nave. Yahan cercava di consolare le due bestie incatenate cantando loro una ballata, lunga e monotona, in elegia di un Signore morto nel lontano passato; Rocannon e il Fian, con un mantello sulle spalle e con il cappuccio sulla testa, erano a prua.

— Kyo, una volta mi hai parlato di montagne che sorgevano a sud.

— Sì — disse il piccolo uomo, lanciando un rapido sguardo al nord, in direzione della costa dell'Angien da cui si erano staccati.

— Sai qualcosa delle popolazioni che abitano nel continente sud… nel Fiern?

La sua Guida gli dava poco aiuto; del resto, la sua squadra era giunta sul pianeta proprio per riempire le lacune della Guida stessa. Si supponeva che esistessero cinque forme di vita a intelligenza elevata sul pianeta, ma la Guida ne descriveva solo tre: gli Angyar/Olgyior; i Fiia e gli Gdemiar; e una specie non umanoide scoperta sul grande Continente Orientale, sull'altra faccia del pianeta. Le note dei geografi sulle altre specie del Continente Sudoccidentale erano semplici voci: Specie non confermata 4?: Grandi umanoidi che abiterebbero città di grande estensione (?). Specie non confermata 5?: Marsupiali alati. Complessivamente, la sua utilità non superava quella di Kyo, che spesso pareva convinto che Rocannon conoscesse già la risposta, tutte le volte che gli faceva una domanda.

Adesso il Fian rispose, in tono da scolaretto: — Nel Fiern abitano le Razze Antiche, vero? — Rocannon doveva limitarsi a guardare verso sud, attraverso la nebbia che nascondeva il continente sconosciuto, mentre le grandi bestie legate ululavano e la pioggia gelida gli scivolava lungo la schiena.

Una volta, durante la traversata, gli parve di udire il rumore di un elicottero che passava sopra di loro, e si rallegrò del fatto che la nebbia li nascondesse; ma poi alzò le spalle. Perché nascondersi? L'esercito che usava quel pianeta come base per combattere una guerra tra le stelle non si sarebbe eccessivamente allarmato nel vedere dieci uomini e cinque gatti fuori misura che viaggiavano sotto la pioggia, su due barche piene di buchi…

Continuarono a navigare in un costante succedersi di pioggia e di onde. Dall'acqua si alzava una caligine oscura. Trascorse lentamente una notte fredda. Si alzò infine una luce grigia, che rivelò soltanto nebbia, pioggia, onde.

Poi, all'improvviso, i due taciturni marinai di ciascuna nave si animarono, facendo forza sul timone e fissando ansiosamente davanti a sé. Davanti alle navi, tutt'a un tratto, comparve una scogliera, parzialmente visibile in mezzo alla nebbia. Mentre costeggiavano la sua base, rupi e alberi resi deformi dal vento si protesero sulle loro vele.

Yahan interrogò uno dei marinai. — Dice che qui troveremo la foce di un grande fiume, che dovremo superarla, e che dall'altra parte c'è l'unico possibile approdo, per un lungo tratto di costa.

Mentre riferiva le parole del marinaio, le alte rocce vennero nuovamente inghiottite dalla nebbia, e la barca venne avvolta da una foschia più densa; si udì il cigolio del legno, investito da una nuova corrente subacquea. La minacciosa testa di drago, a prua, ondeggiò e si voltò. L'aria era bianca e opaca; l'acqua che s'infrangeva e turbinava contro la carena della nave era opaca e rossa. I marinai si gridavano qualcosa l'un l'altro, dall'una all'altra nave.

— Il fiume è in piena — disse Yahan. — Cercano di virare di bordo… Tenetevi forte!

Rocannon afferrò il braccio di Kyo mentre la nave beccheggiava, si sollevava e ruotava su se stessa, controcorrente, compiendo una sorta di pazza danza e i marinai lottavano per mantenerla sulla rotta, con la nebbia che nascondeva l'acqua e con i destrieri che si agitavano per liberare le ali, ringhiando atterriti.

La testa di drago parve nuovamente avanzare sicura, quando a causa di un soffio del vento carico di nebbia, la barca poco maneggevole s'impuntò e si inclinò. La vela toccò l'acqua con uno schiaffo, rimase trattenuta come se fosse caduta nella colla, e non permise alla barca di raddrizzarsi. Un'acqua rossa e tiepida giunse lentamente fino alla faccia di Rocannon, gli riempì la bocca e gli occhi. Egli si afferrò a tutto ciò che aveva tra le mani, e si dibatté per trovare di nuovo l'aria. Ciò che aveva afferrato era il braccio di Kyo, ed entrambi si dimenavano nel mare mosso, tiepido come sangue, che li faceva girare su se stessi e li portava lontano dalla nave rovesciata. Rocannon gridò aiuto, e la sua voce si spense nel silenzio della nebbia che ricopriva le acque. C'era una spiaggia? Da che parte, e quanto era lontana? Nuotò verso la sagoma indistinta della nave, con Kyo aggrappato al suo braccio.

— Rokanan!

Nel bianco caos apparve sogghignando la testa di drago dell'altra nave. Mogien si era lanciato in acqua, lottava contro la corrente, accanto a lui, gli metteva in mano una cima e la passava intorno al petto di Kyo. Rocannon vide distintamente la faccia di Mogien, le sopracciglia arcuate, i capelli gialli resi più scuri dall'acqua. Vennero issati sulla nave. Mogien per ultimo.

Yahan e uno dei marinai di Tolen erano stati ripescati immediatamente. L'altro marinaio e i due destrieri erano affogati, imprigionati sotto la nave. Ormai si erano allontanati a sufficienza dalla riva, e le correnti d'acqua e i venti della foce erano più deboli. Affollata di uomini silenziosi e bagnati, la nave continuò ad avanzare attraverso l'acqua rossa e la nebbia impenetrabile.

— Rokanan, perché sei asciutto?

Ancora intontito, Rocannon abbassò gli occhi sul suo vestito inzuppato, e non capì.

Kyo, tremante per il freddo, rispose sorridendo per lui: — L'Errante porta una seconda pelle. — Rocannon finalmente capì, e mostrò a Mogien la «pelle» della sua tuta: l'aveva indossata la sera prima, per ripararsi dal freddo e dall'umidità della notte; rimanevano scoperti soltanto la testa e le mani. Così, si disse, l'aveva ancora, e l'Occhio del Mare era ancora nascosto sul suo petto; ma la radio, le carte geografichc, la pistola, tutto il resto che lo collegava alla sua civiltà era sparito.

— Yahan, tu ritornerai a Hallan.

Servitore e padrone erano fermi sulla riva del continente meridionale, faccia a faccia, nella nebbia, con la risacca che echeggiava sotto di loro. Yahan non rispose.

Erano rimasti in sei cavalieri, con tre soli grifoni. Kyo poteva cavalcare con uno dei plebei, e Rocannon con un altro, ma Mogien era troppo pesante per cavalcare con un compagno per lunghe distanze; allo scopo di non affaticare i destrieri, era preferibile che il terzo plebeo ritornasse a Tolen con la barca. Mogien decise di rimandare indietro il più giovane, Yahan.

— Non ti mando indietro per qualcosa di male che tu abbia fatto o non abbia fatto, Yahan. Ora vai, i marinai aspettano.

Il servitore non accennò a muoversi. Dietro di lui, i marinai stavano spegnendo, a calci, il fuoco presso cui avevano mangiato. Qualche pallida scintilla si alzò per breve tratto nella nebbia.

— Signore Mogien — bisbigliò Yahan, — mandate indietro Iot.

Mogien aggrottò la fronte, e portò la mano all'elsa della spada. — Va', Yahan!

— Non andrò, Signore.

La spada uscì sibilando dal fodero, e Yahan, con un grido disperato, fece un balzo indietro, si voltò e scomparve nella nebbia.

— Aspettatelo per qualche tempo — disse Mogien, rivolto ai marinai. La sua faccia era impassibile. — Poi andate per la vostra strada. Noi adesso dobbiamo trovare la nostra. Piccolo Signore, preferisci stare in sella al mio destriero, finché procede al passo? — Kyo era tutto raggomitolato, come se avesse molto freddo; da quando erano approdati sulla costa del Fieni, non aveva mangiato e non aveva detto una parola. Mogien lo pose sulla sella del destriero grigio e s'incamminò alla testa dell'animale, allontanandosi dalla costa per dirigersi verso l'entroterra.

Rocannon lo seguì, guardandosi dietro per osservare Yahan e poi davanti per osservare Mogien, e meditando su quello strano essere, il suo amico, che un attimo prima avrebbe ucciso un uomo, in preda a una fredda collera, e un attimo dopo era capace di parlare con gentilezza e semplicità. Arrogante e fedele, spietato e gentile, proprio in questa sua mancanza di coerenza mostrava la sua natura di grande Signore.

I pescatori avevano detto che c'era un insediamento a est dell'insenatura dove erano sbarcati, e quindi si diressero a oriente nella pallida nebbia che li circondava come una cappa soffice di cecità. Con i destrieri avrebbero potuto innalzarsi al di sopra della coltre di nebbia, ma i grandi animali, esausti e imbronciati dopo essere rimasti legati due giorni sulla nave, non erano disposti a volare. Mogien, Iot e Raho li conducevano per la briglia, e Rocannon veniva per ultimo. Rocannon teneva d'occhio, senza farsene accorgere, il cammino già percorso, per vedere se comparisse Yahan, che gli era molto simpatico. Per riscaldarsi indossava la tuta, senza però mettere il cappuccio, che lo avrebbe isolato completamente dal mondo. Ma anche con la tuta, provava un certo disagio a camminare nella fitta nebbia su una spiaggia sconosciuta; mentre camminava, cercava fra la sabbia un qualsiasi tipo di bastone o di mazza. Tra i solchi lasciati dalle ali dei destrieri, festoni di alghe e di salsedine essiccata, vide un bastone lungo e bianco, trascinato fin lì dalle onde. Lo liberò dalla sabbia e subito si sentì meglio, adesso che era armato. Ma, fermandosi, era rimasto indietro: nella nebbia, si affrettò a seguire le orme lasciate dai compagni. Una figura si alzò alla sua destra. Capì subito che non era un suo compagno, e sollevò il bastone in posizione difensiva, ma qualcuno lo afferrò alle spalle e lo rovesciò a terra. Qualcosa che sembrava cuoio bagnato gli tappò la bocca. Riuscì a liberarsi, ma come ricompensa ricevette un colpo sulla testa che gli fece perdere i sensi.

Quando tornò in sé, dolorosamente e un poco alla volta, si accorse che giaceva supino sulla sabbia. Molto al di sopra di lui, due grandi e nebbiose figure discutevano gravemente. Riusciva a capire solo in parte il loro dialetto Olgyior: — Lasciamolo qui — diceva uno, e l'altro diceva qualcosa come: — Uccidiamolo subito, non ha niente.

A queste parole, Rocannon si rotolò sul fianco e riuscì a infilare la testa e la faccia nel cappuccio della tuta, e a chiuderla. Uno dei giganti si chinò per guardarlo, e Rocannon vide che era soltanto un corpulento plebeo infagottato in pelli di animale.

— Portalo da Zgama; forse Zgama lo vuole — disse l'altro. Dopo qualche ulteriore discussione, Rocannon venne sollevato per le braccia e portato via di peso. L'uomo che lo trasportava procedeva trotterellando, di buona lena; Rocannon cercò di liberarsi, ma la testa gli girava, aveva il cervello annebbiato. Si accorse confusamente che la nebbia diventava più scura, gli parve di udire alcune voci, di vedere un muro di bastoni, argilla e canne intrecciate e una torcia che ardeva, infilata in un anello. Poi un tetto sulla testa, altre voci e il buio. Infine, a faccia in giù su un pavimento di pietra riprese i sensi e sollevò la testa.

Presso di lui, in un focolare grande come una capanna, ardeva un fuoco di legna. Gambe nude e pelli stracciate formavano una siepe tra Rocannon e il fuoco. Alzò maggiormente la testa e vide una faccia: un plebeo dalla pelle bianca e dai capelli neri, con un copricapo di pelliccia. — Chi sei? — domandò con voce aspra e profonda, guardando torvamente Rocannon.

— Io… io chiedo l'ospitalità di questa casa — disse Rocannon, quando riuscì a mettersi in ginocchio. Per il momento non poté fare di più.

— Ne hai già assaggiato una prima dose — disse l'uomo barbuto, mentre Rocannon si toccava il gonfiore sull'occipite. — Ne vuoi ancora? — Il mucchio di gambe infangate e di brandelli di pelliccia intorno a lui si mosse: occhi scuri che sbirciavano, facce bianche che sogghignavano.

Rocannon si alzò in piedi. In silenzio, senza muoversi, attese che gli ritornasse l'equilibrio e che diminuisse un poco il dolore che gli martellava nel cervello. Poi sollevò la testa e fissò gli occhi lucidi e neri dell'uomo che lo teneva prigioniero. — Tu sei Zgama — disse.

L'uomo barbuto fece un passo indietro; sembrava spaventato. Rocannon, che su vari mondi si era già trovato in situazioni difficili, sfruttò al massimo questo vantaggio psicologico. — Io sono Olhor, l'Errante — disse. — Vengo dal nord e dal mare, dalla terra che giace al di là del sole. Vengo in pace e me ne vado in pace. Lasciata la casa di Zgama, me ne andrò verso sud. Che nessuno mi fermi!

— Ah — fecero tutte le bocche spalancate, nelle facce bianche, fissandolo. Lui continuò a guardare Zgama senza battere ciglio.

— Qui il padrone sono io — fece l'omone, con voce aspra e ansiosa. — Nessuno se ne va senza il mio permesso.

Rocannon non parlò, e non distolse lo sguardo.

Zgama vide che nella battaglia degli occhi era il perdente: tutta la sua gente continuava a guardare lo straniero, con gli occhi sgranati. — Smettila di fissarmi! — urlò. Rocannon non si mosse. Comprese di trovarsi davanti a un avversario ostinato, ma era troppo tardi per cambiare tattica. — Smettila di fissarmi! — urlò di nuovo Zgama, poi afferrò una spada da sotto il suo mantello di pelli, la sollevò dietro le spalle e, con un colpo tremendo, cercò di staccare dal collo la testa dello straniero.

Ma la testa dello straniero non si staccò. Lo straniero vacillò, ma la spada di Zgama rimbalzò come se avesse colpito una roccia. Tutta la gente raccolta intorno al fuoco bisbigliò: — Ahhh! — Lo straniero si raddrizzò e non si mosse, sempre con lo sguardo piantato su Zgama.

Zgama rimase un po' perplesso; per qualche istante fu tentato di lasciare libero quel suo prigioniero sovrannaturale. Ma l'ostinazione tipica della sua razza l'ebbe vinta sulla perplessità e sul timore.

— Prendetelo… Afferratelo per le braccia! — ruggì, e quando vide che i suoi uomini non si muovevano, prese Rocannon per una spalla e lo fece girare su se stesso. A questo punto si mossero anche gli altri, e Rocannon non fece resistenza. La tuta lo proteggeva dal mondo esterno: da sbalzi di temperatura, da radioattività, da urti e colpi aventi bassa velocità e scarsa forza d'urto, come i colpi di spada e i proiettili di arma da fuoco, ma non poteva sottrarlo alla presa di dieci o quindici uomini robusti.

— Nessuno lascia senza permesso la casa di Zgama, Signore della Baia Lunga! — L'omone diede totalmente sfogo alla sua rabbia, quando vide che i suoi bravacci, più coraggiosi di lui, avevano immobilizzato Rocannon. — Tu sei una spia delle Teste Gialle dell'Angyar, con i trucchi e le magie Angyar, e le navi-drago vi seguono dal nord.

«Ma non qui! Io sono il Signore dei senzapadrone. Che si provino, le Teste Gialle e i loro servitori lecca-stivali, che si provino a venire qui… gli faremo assaggiare qualche palmo di bronzo! Tu esci strisciando dal mare, e vieni a chiedermi un posto accanto al fuoco, vero? Ti riscalderò io, spia! Te lo do io, l'arrosto, spia. Legatelo al palo, svelti!

Quel brutale scoppio d'ira aveva rincuorato i suoi, che si accalcarono per legare lo straniero a uno dei due pali che, sul focolare, reggevano un lungo spiedo, e per ammucchiare legna intorno alle sue gambe.

Poi cadde il silenzio. Zgama si avvicinò, minaccioso e imponente nella sua pelliccia, prese un ramo acceso dal focolare e lo agitò davanti agli occhi di Rocannon, poi diede fuoco alla pira. Le fiamme divamparono. In un attimo i vestiti di Rocannon, il mantello scuro e la tunica di Hallan presero fuoco; le fiamme si levarono intorno alla sua testa, gli coprirono la faccia.

— Ahhh — mormorarono di nuovo i presenti, ma uno di loro disse: — Guardate! — Quando la fiammata si spense, essi videro in mezzo al fumo la figura dello straniero, ritta, impassibile, con le fiamme che gli lambivano le gambe: fissava ancora Zgama negli occhi. Sul petto nudo, appeso a una catena d'oro, splendeva un grande gioiello che sembrava un occhio spalancato.

Pedan, pedan — gemettero le donne, rifugiandosi negli angoli più scuri.

Zgama interruppe le grida di panico con la sua voce tonante: — Brucerà! Fatelo bruciare! Deho, porta ancora legna, la spia non brucia abbastanza in fretta!

Acciuffò un ragazzetto e lo trascinò alla luce del fuoco che rimbalzava senza posa, costringendolo ad aggiungere legna alla pira.

— Non c'è niente da mangiare? — scherzò. — Portate cibo, voi donne! Hai visto la nostra ospitalità, Olhor, hai visto come si mangia da noi? — Afferrò un trancio di carne dal tagliere che una donna si era affrettata a offrirgli, e si fermò davanti a Rocannon, addentando con ostentazione il pezzo d'arrosto e lasciando che il sugo gli scivolasse sulla barba. Un paio di bravacci si affrettarono a imitarlo, un passo dietro di lui.

La maggior parte dei presenti, però, si teneva alla larga dalla zona dove era legato Rocannon; Zgama li incitò ad avvicinarsi al fuoco quanto bastava per aggiungere un pezzo alla pira dove era fermo l'uomo calmo e taciturno, mentre le fiamme guizzavano sulla pelle arrossata, stranamente luccicante.

Il rumore e il fuoco si spensero, infine. Uomini e donne si addormentarono raggomitolati nei loro stracci di pelli: sul pavimento, negli angoli, sulle ceneri ancora calde. Un paio di uomini vegliava, con la spada sulle ginocchia e un fiasco a portata di mano.

Rocannon chiuse gli occhi. Incrociando due dita, aprì la tuta in corrispondenza della testa e poté di nuovo respirare aria fresca. La lunga notte si trascinò lentamente; tra molti indugi, anche il cielo si rischiarò alla luce dell'alba. Nella luce grigia del giorno, attraverso la nebbia che si insinuava nelle finestre, giunse Zgama, scivolando sulle macchie di unto e inciampando in corpi che russavano. Osservò il prigioniero: il suo sguardo era fermo e severo, quello dell'uomo che lo teneva legato al palo era carico di inutile minaccia. — Brucia, brucia — brontolò Zgama, e uscì.

Dall'esterno del rustico castello giunse a Rocannon il sommesso tubare degli herilor, i grassi e piumosi animali domestici da carne degli Angyar, che avevano le ali tarpate e che laggiù, probabilmente, venivano condotti al pascolo sulle scogliere. La stanza si svuotò: rimasero soltanto alcuni bambini in fasce e alcune donne, che si tennero a buona distanza da lui anche quando giunse l'ora di arrostire la carne per il pasto serale.

Rocannon era legato da una trentina di ore, e soffriva sia per il dolore, sia per la sete. Era appunto quello, il suo punto debole: la sete. Avrebbe potuto rimanere digiuno per vari giorni, e per altrettanto tempo avrebbe potuto rimanere legato, anche se già si sentiva girare la testa. Ma senza acqua non avrebbe potuto resistere per più di un altro di quei lunghi giorni.

Inerme come era, qualsiasi cosa avesse detto a Zgama, minacce o ricatti, si sarebbe limitata, semplicemente, ad accrescere l'ostinazione del barbaro.

Quella notte, mentre il fuoco danzava davanti ai suoi occhi ed egli scorgeva al di là delle fiamme la grossa faccia, bianca e barbuta, di Zgama, continuò a vedere con l'occhio della mente una faccia diversa, con i capelli biondi e la pelle scura: Mogien, che egli era giunto ad amare come amico, e anche un po' come figlio. Mentre la notte e il fuoco continuavano interminabili, pensò al piccolo Kyo, il Fian, dall'aspetto infantile e dall'espressione insondabile, legato a lui in modi ch'egli non tentava neppure di comprendere; rivide Yahan che cantava le gesta degli eroi; Iot e Raho che brontolavano e ridevano insieme mentre si prendevano cura dei grifoni dalle lunghe ali; Haldre che si sfilava dal collo la collana d'oro.

Non gli ritornò alla mente alcun ricordo della sua vita precedente, anche se era vissuto per molti anni, su molti pianeti, aveva imparato molto, fatto molte cose. Tutte le sue precedenti esperienze erano state cancellate, erano state bruciate via. Gli sembrò di essere ritornato a Hallan, nella lunga sala dove erano appesi gli arazzi che mostravano le lotte tra uomini e giganti alati, con Yahan che gli offriva una tazza d'acqua: — Bevi, Signore delle Stelle, bevi.

Ed egli bevve.

CAPITOLO QUINTO

Feni e Feli, le due lune più grandi, danzarono riflesse sulla superficie del liquido, quando Yahan gli portò una seconda tazza d'acqua da bere. Nel focolare ormai ardevano soltanto poche braci. La sala era buia, con l'eccezione di qualche macchia e di qualche raggio di luce lunare, e gli unici rumori che si udivano erano il respiro e i movimenti delle numerose persone che dormivano.

Quando Yahan sciolse cautamente le catene, Rocannon dovette appoggiare tutto il suo peso contro il palo, perché aveva le gambe intorpidite e non era in grado di reggersi in piedi senza sostegno.

— La porta esterna e sorvegliata tutta la notte — Yahan gli bisbigliò all'orecchio, — e le guardie non dormono. Domani, quando porteranno al pascolo le bestie…

— Domani sera. Non sono in grado di correre. Dovrò ricorrere a un bluff. Aggancia le catene tra loro, Yahan, in modo che reggano il mio peso. E metti il gancio qui in basso, accanto alla mia mano. — Uno dei dormienti si rizzò a sedere, sbadigliando; con un sogghigno che balenò per un istante nella luce lunare, Yahan si stese immediatamente a terra e parve svanire fra le ombre.

Rocannon lo vide uscire all'alba, insieme con gli altri, per condurre al pascolo gli herilor: anch'egli indossava una pelle d'animale sporca di fango, e i suoi capelli neri spuntavano fuori come una scopa. Di nuovo Zgama gli si avvicinò e lo guardò torvo. Rocannon era certo che sarebbe stato disposto a dare di buon grado metà delle sue greggi e delle sue mogli per sbarazzarsi di quel prigioniero sovrannaturale, ma era intrappolato dalla sua stessa ferocia: il carceriere è il prigioniero del prigioniero.

Zgama aveva passato la notte dormendo sulle ceneri calde, e aveva i capelli sporchi di cenere grigia, cosicché sembrava lui, l'uomo bruciato, e non Rocannon, la cui pelle nuda splendeva chiara. Uscì a grandi passi, e di nuovo la sala fu vuota per buona parte della giornata, anche se rimase un paio di guardie alla porta. Rocannon passò il tempo facendo esercizi isometrici di ginnastica, senza farsi notare. Quando una donna che passava davanti a lui lo sorprese mentre si stirava, continuò a stirarsi come se niente fosse, ondeggiando ed emettendo una bassa, arcana cantilena. La donna cadde a terra carponi e scappò via, piagnucolando.

Dalle finestre entrò la nebbia del crepuscolo, alcune donne accigliate fecero bollire una pignatta di carne e alghe marine, dall'esterno giunse il tubare di centinaia di animali, e Zgama e i suoi uomini fecero ritorno, con la barba e le pellicce luccicanti di goccioline di condensazione della nebbia. Sedettero sul pavimento per mangiare. La stanza era chiassosa, puzzava ed era satura di vapore. La tensione di ritrovarsi ogni notte davanti a un evento sovrannaturale cominciava a trasparire: le facce erano torve, le voci erano irascibili.

— Portate legna, questa volta lo faremo arrostire! — urlò Zgama, alzandosi per buttare sulla pira un ciocco acceso. Ma nessuno si mosse.

— Ti mangerò il cuore, Olhor, quando lo vedrò friggere tra le tue costole! Mi appenderò al naso la tua pietra azzurra! — Zgama schiumava di rabbia, reso frenetico dallo sguardo fisso e silenzioso che sopportava ormai da due notti. — Ti farò chiudere gli occhi! — urlò, e afferrato un pesante bastone che giaceva sul pavimento, lo calò con forza sulla testa di Rocannon, balzando però indietro nello stesso momento, come se avesse avuto paura del proprio gesto. Il bastone cadde fra i ceppi ardenti e rimase in bilico sopra il resto della legna.

Lentamente, Rocannon abbassò la mano destra, strinse il bastone e lo estrasse dal fuoco. La punta era già in fiamme. La sollevò finché non raggiunse il livello degli occhi di Zgama, e solo allora, con altrettanta lentezza, fece un passo avanti. Le catene che lo tenevano legato si sciolsero e caddero a terra. Il fuoco divampò e si aprì, in una pioggia di braci e di faville, intorno ai suoi piedi nudi.

— Fuori! — disse, dirigendosi verso Zgama, che indietreggiò prima di un passo e poi di un altro. — Tu non sci più il padrone. L'uomo senza legge è schiavo, l'uomo crudele è schiavo, lo stupido è schiavo. Tu sei mio schiavo, e io ti caccio via come una bestia. Fuori! — Zgama si afferrò ai due stipiti della porta, ma il bastone fiammeggiante puntava contro i suoi occhi: dovette uscire nel cortile. Le guardie, accovacciate a terra, non facevano una sola mossa. La nebbia era rischiarata da alcune torce di resina che splendevano presso la porta principale; gli unici rumori erano il mormorio degli animali nella stalla e il sibilo della risacca che giungeva dal basso. Un passo dopo l'altro, Zgama indietreggiò fino a raggiungere la porta con le due torce. La sua faccia bianca e nera aveva la fissità di una maschera, mentre il bastone rovente si avvicinava. Muto per la paura, si afferrò al tronco che faceva da pilastro alla porta, e bloccò il passaggio con il suo corpo massiccio. Rocannon, esausto e vendicativo, premette forte contro il suo petto la punta fiammeggiante, spinse Zgama a terra, e, camminando sul suo corpo, uscì nell'oscurità e nella nebbia, fuori della porta. Fece circa cinquanta passi nel buio: poi inciampò, e non riuscì a rialzarsi.

Nessuno lo inseguì. Nessuno uscì dal recinto dietro di lui. Rimase sdraiato sull'erba che copriva la duna, in stato di semicoscienza. Molto tempo più tardi le torce della porta si spensero o vennero spente; restò solo il buio. Il vento che soffiava tra l'erba aveva molte voci, e dal basso sibilava il mare.

Quando la nebbia si diradò, lasciando filtrare la luce delle lune, Yahan lo trovò laggiù, vicino all'orlo della scogliera. Con il suo aiuto, Rocannon si alzò in piedi e riprese il cammino. Procedendo a tastoni, inciampando, strisciando sulle mani e sulle ginocchia dove il percorso era accidentato e indistinguibile a causa del buio, si mossero verso sudest, allontanandosi dalla costa. Si fermarono un paio di volte per prendere fiato e per orientarsi, e Rocannon cadde addormentato quasi nello stesso momento in cui si fermarono. Yahan lo svegliò e lo costrinse a camminare, finché, poco prima dell'alba, scesero in una valle riparata da una foresta scoscesa.

Nell'oscurità nebbiosa, il regno degli alberi era nero come la pece. Yahan e Rocannon vi entrarono seguendo il letto di un torrente, ma non andarono lontano.

Rocannon si fermò e disse, nella sua lingua: — Non ce la faccio più. — Yahan trovò una striscia di sabbia sotto l'argine: laggiù si sarebbero potuti nascondere, almeno rispetto a chi guardasse dall'alto; Rocannon vi entrò strisciando, come un animale che ritornasse alla tana, e dormì.

Quando si svegliò, al tramonto, quindici ore più tardi, scorse Yahan, con una piccola raccolta di germogli verdi e di radici commestibili. — È ancora troppo presto, nell'annocaldo, per trovare frutti — spiegò, lamentandosi, — e quegli zotici del Castello degli Zotici mi hanno preso l'arco. Ho messo alcune trappole, ma prima di notte non prenderò nulla.

Rocannon consumò con avidità i vegetali, e dopo essersi dissetato al torrente ed essersi sciolto i muscoli, riuscì nuovamente a ragionare. Chiese: — Yahan, come hai fatto a trovarti laggiù, al… Castello degli Zotici?

Il giovane plebeo abbassò lo sguardo e, con il piede, seppellì accuratamente nella sabbia qualche cima di radice immangiabile. — Ecco, Signore, sai che io ho… disobbedito al mio Signore Mogien. Perciò, in seguito, ho pensato che mi sarei potuto unire ai Senza Padrone.

— Perché, avevi già sentito parlare della loro esistenza?

— Da noi, a casa, si parla di luoghi dove gli Olgyior sono i padroni e i servi. Si dice anche che, nei tempi antichi, nell'Angien ci fossimo soltanto noi plebei: eravamo cacciatori e abitavamo nelle foreste; poi vennero dal sud, sulle navi-drago, gli Angyar…

«Comunque, ho trovato il forte, e gli uomini di Zgama hanno pensato che fossi fuggito da qualche località lungo la costa. Mi hanno tolto l'arco e mi hanno messo al lavoro, e nessuno mi ha fatto domande. È stato così che ti ho trovato. Ma sarei fuggito in qualsiasi caso, anche se non avessi trovato te. Tra zoticoni come quelli, non ci resterei un minuto di più, neanche se mi facessero loro capo!

— E sai dove siano i nostri compagni?

— No. Intendi andare a cercarli, Signore?

— Chiamami per nome, Yahan. Sì, anche se la possibilità di trovarli fosse minima, li cercherei lo stesso. Non possiamo attraversare da soli un continente, a piedi, senza vestiti e senza armi.

Yahan non disse nulla; per qualche tempo continuò a lisciare la sabbia con il piede, a fissare il ruscello che scorreva nell'ombra, cristallino, sotto i pesanti rami di conifera.

— Non sei d'accordo? — fece Rocannon, infine.

— Se il mio Signore Mogien mi troverà, mi ucciderà. È suo diritto.

Secondo il codice Angyar era la verità; e se c'era una persona che non avrebbe mai infranto il codice, quella era Mogien.

— Se tu trovassi un nuovo padrone, quello vecchio non potrebbe più toccarti: è vero, Yahan?

Il ragazzo assentì. — Ma un servo ribelle non trova padroni.

— Dipende. Impegnati a servirmi, e io risponderò di te a Mogien… ammesso che lo troviamo. Non conosco la formula che usate…

— Noi diciamo — cominciò Yahan, parlando a voce molto bassa, — dono al mio Signore le ore delia mia vita e l'uso della mia morte.

— E io le accetto. E con esse anche la vita che tu mi hai ridato.

Il ruscello scorreva rumoreggiando dal fianco della montagna, e il cielo si era oscurato. Qualche tempo più tardi, Rocannon si tolse la tuta e si distese nell'acqua fredda, perché l'acqua, scorrendo lungo tutto il corpo, portasse via il sudore, la stanchezza, la paura e l'immagine delle fiamme che gli sfioravano gli occhi.

Una volta sfilata, la tuta era una manciata di tessuto trasparente e di tubi e di fili quasi invisibili, sottili come capelli, con due cubi traslucidi grossi come un'unghia. Yahan, a disagio, osservò Rocannon che si rimetteva la tuta (non aveva abiti, e Yahan era stato costretto a scambiare con un paio di pelli di herilor, sudice, le sue vesti Angyar).

— Signore Olhor — disse infine, — è stata quella pelle, che non ha permesso al fuoco di bruciarti? O è stato… il gioiello?

Adesso la collana era nascosta nel sacchetto degli amuleti di Yahan, intorno al collo di Rocannon. Rocannon rispose gentilmente: — La pelle. Non ci sono incantesimi. Si tratta solo di una corazza molto robusta.

— E il bastone bianco?

Rocannon abbassò gli occhi sul bastone, lo stesso che aveva raccolto sulla spiaggia, con l'unica differenza che adesso una delle estremità era carbonizzata. Yahan l'aveva trovato la notte prima, tra l'erba della scogliera, e lo aveva portato con sé, esattamente come avevano fatto in precedenza gli uomini di Zgama, i quali l'avevano portato al forte insieme con Rocannon; parevano convinti che dovesse tenerselo: che cos'era un mago senza la sua bacchetta?

— Be' — rispose, — è un buon bastone, se c'è da camminare. — Si distese nuovamente, e per mancanza di un pasto prima del sonno, si dissetò ancora con l'acqua del ruscello scuro, freddo e rumoroso.

Il mattino seguente, quando si svegliò, sul tardi, si era ristabilito ed era affamato. Yahan si era allontanato all'alba, sia per controllare le trappole sia perché aveva troppo freddo per rimaner e ancora a lungo in quell'umida tana. Quando fece ritorno aveva soltanto una manciata di erbe, e recava una cattiva notizia. Era salito fino alla cresta della montagna (si trovavano ancora sul versante rivolto verso il nord) e da lassù aveva visto che a sud si stendeva un altro largo braccio di mare.

— Quei maledetti mangiapesci di Tolen ci hanno lasciato su un'isola? — brontolò. Il suo solito ottimismo era messo a dura prova dal freddo, dalla fame e dal dubbio.

Rocannon cercò di ricordare com'era tracciata la costa nelle sue carte geografiche scomparse in mare. Un fiume che giungeva dall'ovest sfociava a settentrione di una lunga lingua di terra, la quale a sua volta faceva parte di una lunga catena montuosa parallela alla costa, che correva da ovest a est; tra la lingua di terra e la massa principale del continente si stendeva un braccio di mare abbastanza lungo e ampio, chiaramente delineato sulla cartina e nella memoria di Rocannon. Quanto poteva essere lungo? Cento, duecento chilometri?

— Quant'è largo? — domandò a Yahan.

Il giovane gli rispose tristemente: — Molto largo. Io non so nuotare, Signore.

— Possiamo camminare. Questo promontorio si unisce alla terraferma, a ovest. Probabilmente troveremo Mogien lungo la strada: ci starà aspettando. — Spettava a lui dare gli ordini (Yahan aveva già fatto la sua parte), ma aveva un tuffo al cuore quando pensava al lungo tragitto in un territorio sconosciuto e ostile. Yahan non aveva incontrato anima viva, ma aveva scorto sentieri tracciati, e in quei boschi doveva esserci qualche abitante, visto che la selvaggina era così scarsa e timorosa.

Ma per avere qualche possibilità di trovare Mogien (ammesso che Mogien fosse vivo, che fosse libero, e che avesse ancora i destrieri) si sarebbero dovuti dirigere verso sud, perché laggiù si trovava il loro obbiettivo. — Andiamo — disse Rocannon. e si avviarono.

Era da poco passato il mezzogiorno quando, guardando dalla cima di una montagnola, scorsero un'ampia insenatura che si stendeva a perdita d'occhio, da ovest a est, e che appariva plumbea sotto un ciclo di nuvole basse.

La costa, dall'altro lato del mare, era visibile unicamente come una fila di collinette basse e scure, indistinguibili nella distanza. Il vento proveniente dallo stretto soffiava freddo e pungente alle loro spalle mentre scendevano faticosamente verso la costa e si avviavano poi verso ovest. Yahan alzò gli occhi verso le nubi, chinò la testa fra le spalle e disse tristemente: — Tra poco nevicherà.

E infatti cominciò presto a nevicare: neve di primavera, umida e spinta dal vento, che svaniva immediatamente al contatto con la terra, così come svaniva subito quando veniva a cadere sull'acqua scura. La tuta difendeva Rocannon dal freddo, ma la fame e la fatica lo indebolivano. Anche Yahan era stanco, e aveva freddo. Continuarono a camminare, perché non c'era altro da fare. Guadarono un ruscello, si arrampicarono sulla riva, tra erba ruvida e raffiche di neve, e giunti sull'argine si trovarono a faccia a faccia con un uomo.

— Houf! — fece questi, sgranando gli occhi, prima per la sorpresa, e poi per lo stupore nel vedere quei due uomini: uno con le labbra livide, tremante, vestito di un paio di pelli lacere, e il secondo nudo.

— Ha, houf! — ripeté. Era un individuo irsuto, scarno, dalla schiena curva: aveva una grande barba e occhi scuri ed eccitati. — Ehi, voi, laggiù! — disse, nel dialetto Olgyior, — morirete assiderati!

— Siamo arrivati a nuoto… la nave è affondata — disse Yahan, improvvisando. — Hai una casa dove sia acceso un fuoco, cacciatore di pelliun?

— Venite da sud, dall'altra parte dello stretto?

L'uomo pareva preoccupato da questa prospettiva, e Yahan rispose, indicando con un gesto vago la zona alle sue spalle: — No, veniamo da est… intendevamo comprare pelli di pelliun, ma tutta la nostra merce da scambio è finita in acqua.

— Ahn, ahn — fece l'uomo selvaggio, avviandosi. Era ancora preoccupato, ma una qualche vena di cortesia pareva averla avuta vinta sulle sue paure. — Seguitemi; ho fuoco e cibo — disse, e voltatosi, riprese a camminare nella neve leggera che giungeva a folate.

Rocannon e Yahan lo seguirono, e presto giunsero alla sua capanna, appollaiata su un pendio, tra la cima della collinetta coperta d'alberi e lo stretto. All'interno e all'esterno era uguale alle capanne da caccia dei plebei delle foreste dell'Angien, e Yahan si accovacciò accanto al fuoco con un sospiro di sollievo, come se fosse ritornato a casa. Questo comportamento rassicurò il loro ospite, meglio di qualsiasi complicala spiegazione. — Accendi il fuoco, ragazzo — disse a Yahan, mentre cercava per Rocannon un mantello filato in casa, perché potesse coprirsi.

Toltosi il mantello, mise a riscaldarsi tra le ceneri una pentola di coccio piena di stufato e sedette amichevolmente accanto agli ospiti, fissando con curiosità prima l'uno e poi l'altro. — Nevica sempre, in questo periodo dell'anno, e presto nevicherà più forte. C'è tutto lo spazio che volete; d'inverno siamo solo in tre, qui dentro. Gli altri arriveranno questa sera o domani, o abbastanza presto; aspetteranno che finisca di nevicare, prima di scendere dalla montagna dove sono andati a caccia. Siamo cacciatori di pelliun, come avrai certo capito dai miei zufoli, vero, ragazzo? — Toccò la serie di massicci flauti di legno che portava appesi alla cintura, e sorrise. Aveva un'aria selvatica, feroce e un po' sciocca, ma era ospitale. Diede a tutti e due un'abbondante razione di stufato, e quando giunse la sera, indicò loro dove riposare. Rocannon non se lo fece ripetere due volte. Si avvolse nelle pelli sporche che costituivano il letto e si addormentò come un bambino.

L'indomani mattina la neve cadeva ancora, e il terreno era coperto da un'uniforme coltre di bianco. I compagni del padrone di casa non erano ancora ritornati.

— Avranno passato la notte oltre la Liscia, nel villaggio di Timash. Arriveranno quando sarà giorno.

— La Liscia? È quel tratto di mare?

— No, quello è lo Stretto… Dall'altra parte non c'è nessun villaggio! Ma voi, da dove venite? Tu parli come noi, più o meno, ma tuo zio parla in modo strano.

Yahan rivolse un'occhiata di scusa in direzione di Rocannon, che mentre dormiva aveva acquistato un nipote. — Oh, lui è del retroterra — disse; — laggiù parlano diverso. Anche noi lo chiamiamo lo Stretto, e mi piacerebbe trovare qualcuno con una barca, disposto a portarci dall'altra parte.

— Vuoi andare nella terra a sud dello Stretto?

— Be', ora che abbiamo perso tutto, qui siamo solo dei mendicanti. Preferiremmo cercare di ritornare a casa.

— C'è una barca, giù sulla riva, a qualche distanza da noi. Riparleremo della cosa quando il tempo migliorerà. Comunque, devo dirti una cosa, ragazzo: mi vengono i sudori freddi, nel sentirti parlare con tanta tranquillità di andare a sud. Tra lo Stretto e le grandi montagne, a quanto ho sentito raccontare da tutti, non abita nessuno, salvo forse Coloro di Cui Non Si Deve Parlare.

«Inoltre, si tratta di vecchie favole, e chi può dire che esistano davvero, quelle montagne? Io sono stato sull'altra sponda dello Stretto… e non sono molti, quelli che possono dire altrettanto! Io ci sono stato, ma solo sulle colline, a caccia. Laggiù è pieno di pelliun, vicino al mare. Non ci sono villaggi. Non ci sono uomini. Neppure uno. E io non sarei disposto a passarci la notte.

— Niente di tutto questo — fece Yahan, con un sorriso che voleva essere rassicurante. Proseguì in tono indifferente: — Ci limiteremo a seguire la costa, verso est. — Era un po' preoccupato: ad ogni domanda era costretto a inventare storie sempre più complicate.

Ma l'istinto che gli aveva suggerito di mentire sulla loro origine non aveva sbagliato. — Per fortuna non venite dal nord! — disse il loro ospite, che si chiamava Piai, affilando la lama del coltello, a forma di foglia larga e lunga, su una pietra bagnata. — Al di là dello Stretto non ci sono uomini, e dall'altra parte, a settentrione del mare ci sono solo quei miserabili schiavi delle teste gialle. La tua gente non ne ha mai sentito parlare? Nella terra del nord, dall'altra parte del mare, c'è una razza di uomini con i capelli gialli. Te lo assicuro. Si racconta che abitino in case grandi come alberi, che abbiano spade d'argento, e che volino seduti tra le ali dei grifoni!

«Io crederò a queste storie solo quando lo vedrò con i miei occhi! Le pelli di grifone hanno un buon valore su tutta la costa, ma sono bestie pericolose, anche solo a dare loro la caccia. Non parliamo poi di addomesticarle per cavalcarle! Non si può davvero credere a tutto quello che ti racconta la gente. Io vivo abbastanza bene vendendo pelli di pelliun. Riesco ad attirare quelle bestie a una giornata di volo di distanza. Ascolta!

Portò alle labbra irsute lo zufolo e cominciò a soffiare, dapprima molto debolmente: un sottile gemito, quasi inaudibile, esitante, che saliva e cambiava, vibrando e spezzandosi tra le note, e poi sollevandosi fino a diventare una quasi melodia che assomigliava al lamento di un animale selvatico. Rocannon si sentì accapponare la schiena da un brivido: aveva già udito quelle note nelle foreste di Hallan. Yahan, che era cresciuto tra i cacciatori, sorrise con eccitazione e a un certo punto proruppe, come se fosse stato a caccia e avesse scorto la preda: — Canta, canta! È laggiù che si alza! — Egli e Piai passarono il resto della giornata raccontandosi storie di caccia, mentre fuori la neve cadeva più fitta; il vento era cessato.

Il mattino successivo, il ciclo si rischiarò. Come nelle mattinate dell'annofreddo, lo splendore bianco-rosso del sole era abbagliante, riflesso sulle distese nevose. Prima del mezzogiorno giunsero anche i due compagni di Piai, recando con sé alcune pelli di pelliun, grige e vellutate. Erano individui dalle sopracciglia folte, robusti come tutti gli Olgyior meridionali incontrati da Rocannon, e parevano ancora più selvatici di Piai: timorosi degli stranieri in modo quasi animalesco, li evitavano e rivolgevano loro soltanto qualche occhiata di sbieco.

— Chiamano schiavi la mia gente — disse Yahan, rivolto a Rocannon, in un momento in cui gli altri erano usciti dalla capanna. — Ma preferisco essere un uomo che serve altri uomini, piuttosto che una bestia che dà la caccia alle bestie, come questi tre. — Rocannon sollevò una mano, e Yahan tacque, mentre entrava uno dei compagni di Piai, guardingo e taciturno.

— Andiamo — disse Rocannon, nel dialetto degli Olgyior. Nel corso di quegli ultimi due giorni l'aveva imparato un po' meglio.

Si pentiva di essere rimasto nella capanna ad aspettare il ritorno dei due cacciatori, e anche Yahan era preoccupato. Il giovane si rivolse a Piai, che era entrato in quel momento:

— Adesso dobbiamo andare. Questo bel tempo dovrebbe reggere finche non avremo fatto il giro della baia. Se non ci avessi offerto rifugio, non saremmo mai riusciti a sopravvivere a queste due notti di geli. E io non avrei mai sentito suonare così bene la canzone del pelliun. Che tutte le tue cacce possano essere fortunate!

Ma Piai rimase fermo dov'era, senza parlare. Infine si raschiò la gola, sputò nel fuoco, strabuzzò gli occhi e brontolò: — Come, volete fare a piedi il giro della baia? Non volevate attraversare il mare con una barca? Andiamo.

— Benissimo — fece Yahan, lanciando un'occhiata a Rocannon, di soppiatto. Non avevano scelta.

— Allora, muoviamoci — brontolò Piai, e tutti lasciarono la capanna, subito, senza prendere provviste per il viaggio. Piai camminava davanti a tutti, e i suoi due compagni stavano alla retroguardia. Il vento era tiepido, il sole era luminoso, e anche se nei punti all'ombra rimaneva ancora la neve, il resto del terreno era umido e scintillante per il disgelo.

Seguirono per un lungo tratto la costa, in direzione ovest: il sole era prossimo al tramonto quando raggiunsero una piccola baia dove tra scogli e canne, in mezzo all'acqua, era ormeggiata una barca a remi. Il colore del tramonto arrossava l'acqua e il cielo a occidente; al di sopra del bagliore rosso splendeva la piccola luna Heliki, e ad oriente, nel cielo che andava oscurandosi, brillava Grandestella, la compagna di Fomalhaut, simile a un'opale.

Sotto il cielo luminoso, al di sopra della linea brillante dell'acqua, le lunghe colline della costa si stendevano indistinte e scure.

— Ecco la barca — disse Piai, fermandosi e voltandosi verso Rocannon e Yahan. La sua faccia era rossa al sole del tramonto. Gli altri due cacciatori si fecero avanti e si posero in silenzio al loro fianco.

— Al ritorno dovrete remare al buio — disse Yahan.

— Grandestella splende; sarà la nostra lampada. E adesso, ragazzo, parliamo del prezzo che pagherete per farvi traghettare da noi.

— Ah — fece Yahan.

— Piai lo sa… non abbiamo niente. Questo mantello è un suo dono — disse Rocannon, che, vedendo come giravano le cose, non si preoccupava di essere tradito dall'accento.

— Noi siamo poveri cacciatori. Non possiamo fare doni — disse Karrnik, che aveva un tono di voce più basso, e un'aria meno esaltata, più decisa di Piai e dell'altro.

— Non abbiamo niente — ripeté Rocannon. — Non possiamo pagare il trasporto. Lasciateci qui.

Intervenne Yahan, che disse le stesse cose, più speditamente, ma Karmik lo interruppe dicendo a Rocannon: — Tu, straniero, hai un sacchetto intorno al collo. Che cosa contiene?

— La mia anima — rispose Rocannon, senza battere ciglio.

Tutti lo fissarono ad occhi sgranati, perfino Yahan. Ma era in una pessima posizione per fingere, e la pausa durò poco. Karmik portò la mano al coltello da caccia dall'ampia lama, e si fece più vicino. Piai e l'altro cacciatore lo imitarono. — Tu eri nel forte di Zgama — disse. — Nel villaggio di Timash mi hanno raccontato una strana storia. Di un uomo che non è stato bruciato dal fuoco, che ha bruciato Zgama con un bastone bianco, e che è uscito dal forte portando al collo un grande gioiello appeso a una catena d'oro.

«Hanno detto che è stato per merito di magie e sortilegi. Io credo che siano degli sciocchi. Forse non ti si può colpire, ma lui… — Veloce come il fulmine, afferrò Yahan per i lunghi capelli e lo costrinse a torcere la testa, portando il coltello alla sua gola. — Ragazzo, dirai tu a questo straniero con cui viaggi di pagare per il vostro alloggio… vero?

Tutti rimasero immobili. Il rosseggiare del tramonto sull'acqua si spense, Grandestella si accese a est, un vento freddo soffiò su di loro, lungo la spiaggia.

— Non vogliamo fare del male al ragazzo — brontolò Piai, con la faccia fiera alterata e minacciosa. — Faremo come ho detto, vi porteremo dall'altra parte dello Stretto… ma dovrete pagarci. Non ci hai detto che possedevi dell'oro con cui avresti potuto pagarci. Mi hai detto che avevi perso tutto il tuo oro. Hai dormito sotto il mio tetto. Dacci quell'oggetto, e noi vi traghetteremo.

— Ve lo darò, ma quando saremo laggiù — disse Rocannon, indicando la riva opposta.

— No — disse Karmik.

Yahan, immobilizzato nelle sue mani, non aveva mosso un muscolo; Rocannon riusciva a distinguere le pulsazioni dell'arteria sulla gola, dove era puntata la lama.

— Laggiù — ripeté con espressione minacciosa, e sollevò leggermente il bastone, casomai la sua vista potesse spaventarli. — Traghettateci sull'altra riva; io vi darò l'oggetto. Questa è la mia promessa. Ma se gli farete del male, morirete qui, adesso. Questo ve lo garantisco!

— Karmik, è un pedan — mormorò Piai. — Fai come dice. Sono stati sotto il mio tetto con me, per due notti. Lascia andare il ragazzo. Ha promesso ciò che desideri.

Per qualche istante, aggrottando le ciglia, Karmik continuò a fissare alternativamente lui e Rocannon. Quando Karmik lasciò Yahan. gli rise in faccia e scagliò in alto il bastone, facendolo cadere nell'acqua.

Con i coltelli sguainati, i tre cacciatori spinsero Yahan e Rocannon fino alla barca; dovettero guadare un tratto di mare e salire a bordo passando sopra alcune rocce scivolose su cui si infrangevano le onde rossastre. Piai e il terzo uomo remavano, Karmik sedeva dietro i passeggeri, con il coltello in mano.

— Intendi davvero dargli il gioiello? — bisbigliò Yahan parlando in Lingua Comune, dialetto che gli Olgyior della penisola non conoscevano.

Rocannon assentì.

Il bisbiglio di Yahan era rauco e tremante. — Salta fuori dalla barca e porta via la collana con te, a nuoto, Signore. Quando saremo in vista della costa. Mi lasceranno libero, quando vedranno che la collana sarà svanita…

— No, ti taglieranno la gola. Shh!

— Stanno lanciando incantesimi, Karmik — disse il terzo uomo. — Vogliono affondare la barca.

— Rema, marcio figlio di pesce. E voi due, state zitti, oppure taglierò la gola al ragazzo.

Rocannon continuò a sedere pazientemente, guardando l'acqua che diventava grigia e nebbiosa a mano a mano che le rive, davanti e dietro di loro, si confondevano nella notte. I cacciatori, con quei loro coltelli, non potevano fargli del male, ma potevano uccidere Yahan prima che egli riuscisse a difenderlo. Avrebbero potuto salvarsi a nuoto senza fatica, ma Yahan non era capace di nuotare. Non c'era scelta. Se non altro, ricevevano il servizio per cui avrebbero dovuto pagare: venivano traghettati.

Lentamente, le colline della costa meridionale, che fino a quel momento erano indistinte, si alzarono e acquistarono sostanza. Deboli ombre grige si allontanarono verso ovest e nel cielo bigio si accesero alcune stelle: il lontano chiarore solare di Grandestella dominava perfino quello della luna Heliki, che in quel momento era in fase calante. Si poteva già udire lo sciabordio delle onde contro la riva. — Smettete di remare — Karmik ordinò; rivolgendosi a Rocannon, disse: — Consegnami l'oggetto, adesso.

— Quando saremo più vicini alla riva — disse Rocannon, impassibile.

— Da qui, Signore, posso farcela — mormorò Yahan, debolmente. — Da qui alla riva ci sono dei canneti…

La barca avanzò per pochi colpi di remo, poi si fermò di nuovo.

— Salta in acqua, quando te lo ordino — disse Rocannon, rivolto a Yahan. Lentamente, si alzò in piedi. Aprì il colletto della tuta, che ormai indossava da vari giorni, ruppe con uno strattone la striscia di cuoio che portava al collo, gettò sul fondo della barca il sacchetto contenente collana e gemma, richiuse la tuta, e nello stesso istante si tuffò nell'acqua.

Un paio di minuti più tardi era fermo con Yahan tra le rocce della spiaggia; la barca, una macchia scura sul riflesso dell'acqua, diventava sempre più piccola.

— Oh, che possano marcire, che gli vengano i vermi nella pancia, che le loro ossa diventino fango — disse Yahan, e cominciò a piangere. Si era spaventato a morte, ma c'era stato anche qualcosa d'altro che gli aveva fatto perdere il controllo. Vedere che un «Signore» rinunciava a un gioiello prezioso come il riscatto di un regno per salvare la vita a un plebeo, a lui, equivaleva a sovvertire ogni ordine, a richiamare su di sé una responsabilità insopportabile. — Avete fatto male, Signore — piagnucolò. — Avete fatto male.

— Riscattare la tua vita con una pietra? Su, Yahan, controllati. Congelerai, se non accenderemo un fuoco. Hai con te l'acciarino? Da questa parte c'è un mucchio di sterpi. Datti da fare!

Riuscirono ad accendere un fuoco sulla sabbia, e aggiunsero legna finché non fu abbastanza grande da allontanare la notte e il freddo penetrante. Rocannon diede a Yahan il mantello regalatogli dal cacciatore, e il giovane si raggomitolò in esso per dormire. Rocannon rimase a sedere accanto al fuoco, attizzandolo di tanto in tanto. Era inquieto e non aveva voglia di addormentarsi. Era rattristato dalla perdita della collana: non per il suo valore, ma perché un tempo l'aveva data a Semley, che con il ricordo della sua bellezza l'aveva portato su quel pianeta, molti anni più tardi; e perché Haldre l'aveva data a lui, sperando in tal modo, come egli sapeva, di riscattare l'ombra, la morte da lei temuta per il figlio. Forse era un bene che la collana fosse scomparsa: con essa era scomparso anche il peso, il pericolo rappresentato dalla sua bellezza. Forse, se le cose si fossero volte al peggio, Mogien non avrebbe mai saputo della sua perdita; perché Mogien non l'avrebbe trovato, o perché Mogien era già morto… Cercò di non pensarci. Mogien stava cercando lui e Yahan: questo doveva essere il suo punto di partenza. L'Angya li avrebbe cercati lungo le strade che andavano a sud. Infatti, l'unico loro piano consisteva nel dirigersi verso sud per trovare laggiù il nemico (oppure, se i suoi calcoli erano sbagliati, per non trovarlo affatto). Con Mogien o senza Mogien, Rocannon si sarebbe diretto a sud.

Partirono all'alba, e alla prima luce del mattino cominciarono a risalire le colline più vicine alla costa; raggiunsero la prima cresta verso la metà della mattina, e il sole rilevò un altipiano vuoto, che si stendeva fino all'orizzonte: rade macchie di boscaglia lasciavano lunghe ombre dietro di sé. A quanto pareva, Piai aveva detto la verità, affermando che a sud dello Stretto non abitava nessuno. Sull'altipiano, Mogien sarebbe stato in grado di scorgerli da una lunga distanza. Si avviarono verso sud.

Faceva freddo, ma per la maggior parte del tempo il ciclo rimase sereno. Yahan indossava tutti gli abiti che possedevano, Rocannon portava solo la tuta. Di tanto in tanto incontravano qualche ruscello che scendeva in direzione dello Stretto; quanto bastava per dissetarli. Continuarono per un paio di giorni, cibandosi delle radici di una pianta chiamata peya e di un paio di animali simili a conigli, dalle ali corte, che volavano a balzi sul terreno: Yahan li abbatté con il suo bastone, e li fece cuocere su un fuoco di sterpi, acceso con il suo acciarino. Non videro altre creature. La savana si stendeva da ogni lato fino al cielo, piatta, senza alberi, senza sentieri tracciati, muta.

Oppressi dall'immensità, i due uomini sedevano accanto al fuoco, minuscolo al confronto di quella infinita oscurità, e non sapevano cosa dire. Dall'alto, di tanto in tanto, giungeva un breve grido, simile a una pulsazione della notte: erano i barilor, grandi animali selvatici, cugini dei domestici herilor, che effettuavano la migrazione primaverile verso il nord. Per l'estensione di una mano, le stelle scomparivano dietro il grande stormo, ma il richiamo era sempre lanciato da una voce sola, rapida come un impulso nel vento.

— Da quale stella provieni, Olhor? — domandò a voce bassa Yahan. sollevando lo sguardo verso il cielo.

— Sono nato su un mondo chiamato Hain dal popolo di mia madre, e Davenant da quello di mio padre. Presso di voi, il suo sole è chiamato Corona dell'Inverno. Ma io l'ho lasciato molto tempo fa.

— Non siete una sola razza, voi Signori delle Stelle?

— Siamo molte centinaia di razze. Ma il mio sangue appartiene completamente al popolo di mia madre; mio padre, che era un terrestre, mi adottò. È la solita procedura seguita quando si sposano persone appartenenti a specie diverse, che quindi non possono avere figli. Come se uno dei vostri sposasse una donna Fian.

— Non è mai successo — disse Yahan, rigido.

— Lo so. Ma terrestri e davenantiani sono molto simili tra loro, come potremmo esserlo tu e io. Sono pochissimi i mondi che ospitano tante razze diverse come questo. Di solito c'è una sola razza, che assomiglia a noi, e il resto è costituito da animali privi di parola.

— Tu hai visto tanti mondi — disse il giovane, con voce sognante, cercando di immaginarli.

— Troppi — rispose Rocannon. — Io ho quaranta dei vostri anni, ma sono nato cento e quaranta anni fa. Cento anni li ho persi senza viverli, viaggiando tra i mondi. Se dovessi tornare su Davenant o sulla Terra, le persone che ho conosciuto sarebbero morte da un secolo. Io posso soltanto andare avanti; o fermarmi definitivamente in qualche posto… Che cos'è? — Il senso di una qualche presenza pareva far tacere anche il sibilo del vento attraverso l'erba.

C'era qualcosa che si muoveva, ai limiti della zona rischiarata dal fuoco: una sorta di grande ombra, di oscurità.

Rocannon si inginocchiò a terra, teso; Yahan si scostò dal fuoco.

Non si mosse nulla. Il vento continuò a sibilare tra l'erba, alla luce grigiastra delle stelle. Sull'orizzonte, le stelle avevano ripreso a brillare, chiare, senza ombre che le nascondessero.

I due fecero ritorno al falò. — Che cosa è stato? — domandò Rocannon.

Yahan scosse la testa: — Piai ha parlato di… qualcosa…

Dormirono a tratti, cercando di farsi coraggio l'un l'altro montando la guardia. Quando lentamente si alzò l'alba, entrambi erano molto stanchi. Cercarono qualche impronta o qualche segno nel punto dove avevano creduto di vedere l'ombra, ma l'erba era intatta. Spensero il fuoco e proseguirono, diretti verso sud guidati dal sole.

Contavano d'incontrare presto un ruscello, ma non ne trovarono alcuno. O il corso dei fiumi in quella zona si dirigeva da nord a sud. o semplicemente non ce n'erano più. La pianura o savana, che sembrava immutabile sotto i loro passi, da tempo era sempre un poco più secca, sempre un poco più grigia. Quella mattina non avevano visto piante di peya; solo la ruvida erba grigia che si stendeva fino all'orizzonte, in ogni direzione.

A mezzogiorno Rocannon si fermò.

— È inutile, Yahan — disse.

Yahan si strofinò il collo, si guardò intorno, poi voltò la faccia scarna e stanca verso Rocannon. — Se intendi proseguire, Signore, io proseguirò con te.

— Non possiamo continuare senza acqua e senza cibo. Torneremo sulla costa e ruberemo una barca per tornare a Hallan. Andare avanti non serve a niente. Seguimi.

Rocannon si voltò e s'incamminò verso nord. Yahan si mise al suo fianco. Il sole ardeva azzurrino, il vento sibilava interminabilmente sull'erba senza confine. Rocannon camminava deciso, con le spalle un poco curve, ed ogni suo passo ribadiva la sua sconfitta, l'irrimediabilità del suo esilio. Non si voltò quando Yahan si fermò.

— Destrieri del vento!

Solo allora alzò lo sguardo verso il ciclo e li vide, tre grandi felini alati che scendevano su di loro in grandi volute, con gli artigli protesi, le ali nere tese sullo sfondo del caldo cielo blu.

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