Il cielo primaverile era azzurro e profondo su Aalborg, Danimarca. Nella piazza, intorno alla statua del Toro Cimbriano, la folla era silenziosa; e sul muro di mattoni rossi scoloriti dal tempo, un uomo stava morendo sulla triplice lama, secondo una legge aliena. Le due autorità, giudici ed esecutori di quella legge, sedevano sulle loro cavalcature, impassibili a meno di due lunghi passi dal punto in cui si trovava Shane Evert, tra la folla di uomini a piedi.
— Figlio mio — stava dicendo il più vecchio e massiccio dei due al più giovane, nella pesante lingua Aalaag, del tutto ignaro che là vicino ci fosse un umano che poteva capirlo, — come ti ho detto svariate volte, non c’è creatura che si domi in una notte. Eri stato avvisato che quando viaggi con la famiglia il maschio difende la compagna, e maschio e femmina difendono i loro piccoli.
— Ma, padre mio — disse il più giovane, — non ce n’era motivo. Io ho solo spinto da un lato la femmina con la mia lancia ad energia per impedirle di essere travolta. Intendevo usare una gentilezza, non era una punizione o un attacco…
Le loro parole rombavano nelle orecchie di Shane e si stampavano nella sua mente. Come giganti in forma umana, medievali e fuori posto, i due enormi Aalaag torreggiavano accanto a lui, la limpida luce solare che splendeva sul metallo verde e argenteo delle loro armature, e sulle creature scarlatte, simili a cammelli, che servivano loro da cavalcature. Erano occupati a conversare e a sorvegliare la folla di umani in questa esecuzione pubblica autorizzata. Guardavano appena l’uomo che avevano infilzato sulle lame.
Pietosamente, sia per lui che per gli umani obbligati ad assistere alla sua morte, il danese condannato era stato paralizzato dalla lancia ad energia degli Aalaag prima di essere gettato sui tre affilati pali di metallo che sporgevano dal muro, a tre metri e mezzo dal suolo. Le lame lo avevano trafitto mentre era ancora privo di conoscenza; ed immediatamente era entrato in coma. Così ora non era cosciente della sua morte; né di sua moglie, la donna per cui aveva meritato la condanna, che giaceva morta sotto di lui alla base del muro. Adesso anche lui era quasi morto. Ma finché era ancora in vita tutti quelli nella piazza erano obbligati ad osservare, secondo la legge Aalaag.
— … Nonostante ciò — stava ribattendo il padre alieno, — il maschio ha equivocato. E quando la mandria commette errori, il padrone ne è responsabile. Tu sei responsabile della morte di questo e della sua femmina — che è stata necessaria, per mostrare che noi non sbagliamo mai, e non dobbiamo mai essere attaccati da coloro che abbiamo soggiogato. Ma la responsabilità è tua.
Sotto il sole sfolgorante, il metallo che ricopriva la coppia di alieni scintillava, antico e primitivo come la statua di bronzo del toro o le lame che sporgevano dal modesto muro di mattoni. Ma d’ora in poi gli spettatori umani avrebbero imparato bene a non lasciarsi ingannare dalle apparenze.
La tradizione, e qualcosa di simile alla superstizione tra gli irreligiosi Aalaag, li aveva indotti a conservare le armi e l’armatura di un periodo della loro storia già antico e perduto da più di cinquantamila anni terrestri, sul pianeta che aveva generato questi conquistatori dell’umanità alti due metri. Ma le loro vesti ed armi arcaiche erano solo un fatto esteriore.
Il vero potere dei due osservatori non era nelle loro spade o nelle lance ad energia; ma nelle bacchette nere e dorate che portavano alle cinture, nelle pietre degli anelli ai loro indici massicci, e nel piccolo orifizio sul pomo della sella, sempre in movimento, che oscillava tra la folla a destra e a sinistra senza posa.
— … Allora è vero. La colpa è mia — disse il figlio Aalaag umilmente. — Ho sprecato dei buoni sudditi.
— È vero, sono stati sprecati dei buoni sudditi — rispose il padre. — Sudditi innocenti che originariamente non avevano intenzione di sfidare la nostra legge. E per questo pagherò una multa, perché io sono tuo padre ed è colpa mia se hai commesso un errore. Ma tu mi ripagherai cinque volte tanto, perché il tuo errore è più grave della perdita di buoni sudditi.
— Più grave, padre?
Il viso di Shane rimase assolutamente immobile, celato dall’ombra del cappuccio del suo mantello da pellegrino. I due non potevano sospettare che uno della mandria di Lyt Ahn, il Governatore Aalaag della Terra Intera, si trovasse a meno della lunghezza di una lancia da loro, in grado di cogliere ogni parola che essi si scambiavano. Ma era saggio non attrarre la loro attenzione. Un padre Aalaag in genere non rimprovera il figlio in pubblico, o in presenza di sudditi che non appartengono alla sua casa. Le poderose voci continuavano a rombare, e il sangue a ronzare nelle orecchie di Shane.
— Molto più grave, figlio mio…
La vista della figura sulle lame davanti a lui nauseava Shane. Aveva cercato di allontanarla da sé con una delle sue fantasticherie private — l’immagine che aveva evocato era quella di un fuorilegge umano che nessun Aalaag poteva catturare o sconfiggere. Un umano che girava il mondo nell’anonimato, come Shane, in vesti da pellegrino; ma, a differenza di Shane, vendicandosi con gli alieni per ogni torto fatto a uomo, donna o bambino. Comunque, messa di fronte alla sanguinosa realtà sul muro davanti a lui, la fantasia aveva fallito. Ora, però, con la coda dell’occhio aveva visto qualcosa che momentaneamente aveva escluso quella realtà dalla sua mente, facendogli provare un brivido di irragionevole trionfo.
A circa quattro metri di distanza, oltre e ben al di sopra di lui e dei cavalieri sulle grandi bestie, il ramo inclinato di una quercia spingeva la sua punta quasi sulla linea immaginaria tra gli occhi di Shane e l’uomo trafitto; e all’estremità del ramo, tra le nuove foglie verdi, c’era una piccola forma a bozzolo, già rotta. Da essa era appena uscita con grandi sforzi la sagoma ancora accartocciata di una farfalla che ancora ignorava la funzione delle ali.
Come avesse fatto a superare l’inverno qui era impossibile dirlo. Teoricamente, gli Aalaag avevano sterminato tutti gli insetti in paesi e città. Ma eccola qui: una farfalla della Terra nata a dispetto di tutto e tutti, mentre un uomo della Terra stava morendo — una piccola vita per una più grande. Un senso di trionfo assolutamente sproporzionato echeggiava in Shane. Ecco una vita che era sfuggita alla sentenza di morte degli alieni e sarebbe sopravvissuta nonostante gli Aalaag — cioè, se i due che ora montavano la guardia sulle loro grandi cavalcature non l’avessero notata mentre agitava le ali, asciugandole per volare.
Non dovevano accorgersene. Con discrezione, confuso tra la folla col suo rozzo e grigio mantello da pellegrino e il bastone, indistinguibile tra gli altri umani trasandati, Shane scivolò sulla destra verso gli alieni, fino a che la punta del ramo con la farfalla appena nata non si trovò esattamente fra lui e l’uomo sul muro.
Era superstizione, magia… chiamatela come volete, era il solo aiuto che poteva dare la farfalla. Il pericolo per la piccola vita che stava sbocciando sulla punta del ramo, in forza di qualsiasi giustizia cosmica, doveva essere scongiurato dalla vita più grande che stava terminando per l’uomo sul muro. L’una avrebbe pareggiato l’altra. Shane fissò la sagoma più vicina della farfalla in modo da offuscare la figura più lontana dell’uomo sulle lame. Stava facendo un patto col destino. Non batterò ciglio, si disse; e la farfalla resterà invisibile agli Aalaag. Vedranno solo l’uomo…
Accanto a lui nessuna delle due massicce figure rivestite di metallo aveva notato il suo movimento. Stavano ancora parlando.
— … In battaglia — diceva il padre, — uno di noi vale quanto un migliaio di uomini come questi. Non saremmo nulla, se non fosse così. Ma anche se uno è superiore a mille, non ne consegue che i mille manchino di forza, contro uno. Non ti aspettare nulla, quindi, e non sarai deluso. Anche se ora è nostra, dentro di sé la massa resta la stessa di quando l’abbiamo conquistata. Animali, non ancora ammaestrati al dovuto amore per noi. Mi capisci, adesso?
— No, padre mio.
La gola di Shane bruciava; e i suoi occhi si annebbiarono, così che riuscì appena a intravedere la farfalla che si aggrappava con forza al suo ramo per poi cedere alla fine all’impulso istintivo di asciugare in tutta la loro estensione le sue ali umide e ripiegate. Queste si aprirono, arancioni, nere e marroni — quasi fosse un presagio, si trattava di quella specie di farfalla sub-artica chiamata «Pellegrino» — proprio come «Pellegrino» era chiamato Shane, a causa del mantello col cappuccio che indossava. Gli tornò in mente quel giorno di tre anni prima all’università del Kansas. Ricordò che si trovava nella sala dei convegni, tra la folla degli altri studenti e professori, ad ascoltare il comunicato che annunciava che la Terra era stata conquistata, prima che qualcuno di loro avesse avuto il tempo di rendersi conto che esseri di un altro pianeta erano sbarcati sulla Terra. Allora, non aveva provato altro che eccitazione, forse mista ad un senso di apprensione tutt’altro che sgradevole.
— Qualcuno di noi dovrà pur fare l’interprete con gli alieni — aveva detto agli amici allegramente. — Gli specialisti del linguaggio come me… be’, avremo parecchio lavoro.
Ma non era stato con gli alieni; era stato per gli alieni, per gli Aalaag stessi, che era stato necessario far da interprete — e lui, si era detto Shane, non aveva la stoffa del combattente clandestino. Solo che… negli ultimi due anni… Quasi direttamente sopra di lui, la voce dell’Aalaag più anziano continuava a rombare.
— … Conquistare è niente — diceva il vecchio Aalaag. — Chiunque abbia potere può conquistare. Noi governiamo… che è un’arte più grande. Governiamo perché alla fine cambiamo la natura stessa dei nostri sudditi.
— La cambiamo? — fece eco il più giovane.
— La modifichiamo — disse il più anziano. — Nel corso delle generazioni insegnamo loro ad amarci. Li addomestichiamo per farne un buon gregge. Sempre bestie, ma piegate all’obbedienza. Per questo fine conserviamo le loro leggi, religioni, usanze. Solo una cosa non tolleriamo — il concetto di sfida alla nostra volontà. E col tempo vengono addomesticati a questo.
— Ma… sempre, padre mio?
— Sempre, ti dico! — La grande cavalcatura del padre spostava di continuo il suo peso sugli zoccoli, allontanando Shane di qualche centimetro. Lui si spostò di lato, ma continuò a fissare la farfalla. — Quando siamo arrivati, qualcuno ha osato combatterci… ed è morto. Più tardi, altri come quest’individuo sul muro, ribelli… e sono morti anch’essi. Solo noi sappiamo che è il cuore della bestia che alla fine deve essere schiacciato. Così prima insegnamo loro la superiorità delle nostre armi, poi del nostro corpo e della nostra mente; infine quella della nostra legge. Alla fine, privati di tutto ciò che essi possedevano, senza nulla a cui aggrapparsi, i loro cuori si incrinano; ed essi ci seguono senza pensare, amando e fidandosi ciecamente, come cuccioli dietro la loro madre, incapaci persino di immaginare una ribellione alla nostra volontà.
— E tutto ciò è bene?
— Tutto è bene per mio figlio, suo figlio, e il figlio di suo figlio — disse il padre. — Ma fino a quel lieto giorno in cui il cuore della massa non sarà schiacciato, ogni piccola scintilla della fiamma della ribellione ritarda l’arrivo del loro definitivo ed assoluto amore per noi. Qui, inavvertitamente, hai permesso a quella fiamma di ravvivarsi ancora una volta.
— Ho sbagliato. In futuro eviterò simili errori.
— Non mi aspetterò nulla di meno — disse il padre. — E adesso, l’uomo è morto. Proseguiamo.
Spronarono le loro cavalcature e si allontanarono. Intorno a loro la folla degli umani sospirò per l’allentarsi della tensione. Sulla lama tripla, la vittima ora pendeva immobile. Gli occhi erano fissi, mentre penzolava senza un sussulto o un suono. Le ali della farfalla, che stavano asciugandosi, si agitavano lentamente. Tra il viso di Shane e quello del morto. Senza preavviso, l’insetto si alzò come un’ombra colorata e svolazzò via, librandosi sulla piazza nella luce abbagliante del sole fino a che Shane le perse di vista. Un senso di vittoria esplose dentro di lui. Sottrai un uomo, pensò con un pizzico di follia. Aggiungi una farfalla — un piccolo Pellegrino per sfidare gJi Aalaag.
Intorno a lui la folla si stava disperdendo. La farfalla era scomparsa. Il febbrile sollievo per la sua fuga si raffreddò, e Shane osservò la piazza. Gli Aalaag, padre e figlio, la avevano già percorsa a metà, diretti più avanti, verso una strada che portava fuori città. Una delle poche nuvole in cielo passò davanti al disco solare, smorzando la luce nella piazza. Shane sentì un fresco alito di vento sulle mani e sul viso. Intorno a lui, ora, la piazza era quasi vuota. In pochi secondi sarebbe rimasto solo con il morto e il bozzolo vuoto che aveva generato la farfalla.
Guardò ancora una volta il cadavere. Il viso era immobile, ma la leggera brezza agitava qualche ciocca dei lunghi capelli biondi che penzolavano sciolti.
Shane rabbrividì per l’improvviso raffreddarsi del vento e la scomparsa del sole. Il suo morale scese vertiginosamente e precipitò nel dubbio e nella paura. Ora che tutto era finito, sentiva dentro di sé un tremito, ed un senso di nausea… aveva visto troppe esecuzioni degli alieni in questi ultimi due anni. Non osava ritornare al Quartiere Generale Aalaag nello stato in cui si trovava.
Avrebbe dovuto informare Lyt Ahn dell’incidente che aveva ritardato i suoi doveri di corriere; e mentre lo diceva non avrebbe dovuto tradire in nessun modo i suoi sentimenti naturali verso quanto aveva visto. Gli Aalaag esigevano che i loro sudditi privati fossero come loro — spartani, insensibili al dolore proprio e degli altri. I sudditi umani che lasciavano trasparire le loro emozioni, in termini Aalaag erano «malati». Se il padrone Aalaag avesse ospitato nella sua casa qualche creatura malata, questa avrebbe intaccato la sua reputazione — anche se era Governatore di Tutta la Terra.
Shane poteva finire anche lui sulle lame, nonostante la simpatia che Lyt Ahn sembrava dimostrargli a livello personale. Doveva riprendere il controllo delle sue emozioni, e il tempo a disposizione era poco. Al massimo poteva rubare mezz’ora in più dal suo programma, in aggiunta al tempo già perso per assistere all’esecuzione — e in quei trenta minuti doveva cercare di ricomporsi. Si voltò, dirigendosi verso una strada alle sue spalle che l’avrebbe portato lontano dalla piazza, seguendo gli ultimi resti della folla.
Una volta la strada era stata una via di piccoli negozi, intervallati da qualche grande magazzino o qualche centro commerciale. Fisicamente non era cambiata. Sui marciapiedi e sull’asfalto non c’erano né crepe né rifiuti. Le vetrine dei negozi erano intatte, ma non vi erano merci in mostra. Gli Aalaag non tolleravano sporcizia o macerie; avevano spazzato via con eguale efficienza ed imparzialità i quartieri popolati delle grandi città e le rovine del Partenone ed Atene; ma il livello di vita permesso a gran parte dei loro sudditi umani era il minimo bastante a vivere, anche per quelli capaci di lavorare molte ore.
Ad un isolato e mezzo dalla piazza, Shane si infilò in una porta sotto la sagoma ora inerte di quella che era stata l’insegna al neon di un bar. Si trovò in un grande locale tetro che era rimasto pressoché immutato, a parte gli scaffali dietro il banco svuotati dalla moltitudine di bottiglie di liquore che una volta vi facevano bella mostra. Al giorno d’oggi era permesso fabbricare solo piccole quantità di liquore distillato. La gente beveva vino del posto o birra.
In quel momento il locale era affollato, in gran parte da uomini. Tutti erano silenziosi dopo l’episodio nella piazza; e tutti bevevano birra alla spina a sorsi rapidi e abbondanti da boccali di vetro alti e spessi. Shane si fece strada verso il punto di mescita nell’angolo in fondo, dove il barista disponeva i boccali pieni sui vassoi per l’unica cameriera che faceva la spola tra i tavoli e i separé sul retro del bar.
— Una — disse.
Un attimo dopo gli fu servito un boccale pieno. Pagò e appoggiò i gomiti sul banco, la testa fra le mani, fissando la profondità del liquido scuro.
Il ricordo dell’uomo morto sulle lame, coi capelli mossi dal vento, riaffiorò nella mente di Shane. Certo, pensò, non ci sarà qualche portento nella farfalla detta anche Pellegrino? Cercò di mettere l’immagine dell’insetto fra sé e il ricordo del condannato, ma qui, lontano dal cielo azzurro e dalla luce del sole, la piccola figura non prendeva forma nella sua mente. Per disperazione, Shane pensò ancora all’immagine che costituiva la sua consolazione privata — la visione dell’uomo incappucciato che poteva sfidare gli Aalaag e ripagarli per quello che avevano fatto. Riuscì quasi ad evocarla. Ma l’immagine del Vendicatore non voleva fissarsi nella sua mente. Continuava ad essere scacciata dal ricordo dell’uomo sulle lame…
— Undskylde! — gli disse una voce all’orecchio. — Herre… Herre!
Per una frazione di secondo le parole furono solo rumori estranei. Nell’emozione del momento era tornato a pensare in inglese. Poi i suoni si tradussero. Alzò lo sguardo sul viso del barista. Al di là, il bar era di nuovo già mezzo vuoto. Poca gente al giorno d’oggi poteva sottrarre più di qualche minuto al lavoro costante richiesto per non venire ridotti alla fame — o anche peggio, per non essere scacciati dal lavoro e diventare così dei vagabondi legalmente eliminabili.
— Mi scusi — ripeté il barista; e questa volta la mente di Shane era tornata in Danimarca. — Signore, lei non sta bevendo.
Era vero. Davanti a Shane il bicchiere era ancora pieno. Dietro di esso, la faccia del barista era magra e curiosa, lo fissava con la curiosità amorale di un furetto.
— Io… — Shane si controllò. Aveva quasi cominciato a spiegare chi era — il che non sarebbe stato prudente. Pochi tra i comuni esseri umani avevano in simpatia i loro simili che erano diventati servitori in qualche casa Aalaag.
— È scosso da quello che ha visto nella piazza, signore? È comprensibile — disse il barista. Si sporse in avanti e sussurrò, — Forse qualcosa di più forte della birra? Da quanto tempo non assaggia un po’ di schnapps?
Il gusto del pericolo si risvegliò nella mente di Shane. Una volta Aalborg era famosa per la sua acquavite, ma questo prima dell’arrivo degli Aalaag. Il barista doveva averlo preso per uno straniero, forse pieno di soldi. Poi all’improvviso Shane si rese conto che non gli importava cosa pensasse il barista, o dove avesse preso il liquore distillato. Era quello di cui aveva bisogno ora — qualcosa di esplosivo per combattere la violenza a cui aveva appena assistito.
— Le costerà dieci… — mormorò il barista.
Dieci unità monetarie erano la paga di un giorno di lavoro per un abile falegname, ma solo una piccola frazione della paga di Shane per le stesse ore lavorative. Gli Aalaag pagavano bene i sudditi delle loro case. Troppo bene, secondo la maggior parte degli altri umani. Questa era una delle ragioni per cui Shane viaggiava per il mondo per conto del suo padrone indossando l’abito povero e dimesso da Pellegrino.
— Va bene — disse. Mise mano alla borsa appesa al cordone che portava intorno alla vita ed estrasse il fermamonete. Il barista si lasciò sfuggire un fischio sommesso.
— Signore — disse, — non vorrà mettersi di questi tempi a sventolare proprio qui dentro quel rotolo, soprattutto un rotolo come quello?
— Grazie. Io… — Shane abbassò il fermamonete sotto la banco mentre sfilava una banconota. — Prendine uno con me.
— Ma certo, sì, signore — disse il barista. I suoi occhi scintillavano come il metallo del toro Cimbriano al sole. — Dato che se lo può permettere…
La sua mano magra si allungò e fece sparire la banconota offertagli da Shane. Si chinò sotto il registratore di cassa e riemerse con due di quei grossi bicchieri, ciascuno pieno per circa un quinto di un liquido incolore. Tenendo i bicchieri tra il suo corpo e quello di Shane, in modo da sottrarli alla vista degli altri clienti, gliene passò uno.
— A giorni migliori — disse, e alzò il bicchiere vuotandolo in un fiato. Shane lo imitò; e l’aspra oleosità del liquore gli fiammeggiò in gola, mozzandogli il respiro. Come aveva sospettato era un liquore grezzo, distillato illegalmente, di gradazione alcolica altissima, che non aveva niente in comune con l’acquavite di una volta, se non il nome. E anche dopo averlo inghiottito, continuò ad infiammare l’interno della sua gola come brace ardente.
Shane prese automaticamente il suo bicchiere di birra ancora pieno per lenire il bruciore. Il barista aveva già tolto i due bicchieri di liquore e si era spostato più in là per servire un altro cliente. Shane inghiottì con sollievo: la densa birra era leggera come acqua dopo il grezzo alcool di contrabbando. Un senso di calore cominciò a diffondersi lentamente nel suo corpo. I ricordi più acuti e dolorosi si smussarono; e sulla scia di questo conforto, stavolta ottenuto senza fatica, riaffiorò la sua fantasticheria consolatrice del Vendicatore. Il Vendicatore, si disse, era stato là nella piazza durante le esecuzioni senza farsi notare, e adesso era in attesa di qualche luogo dove poter assalire gli Aalaag, padre e figlio, per poi fuggire prima che si potesse chiamare la polizia. Aveva in mano una bacchetta nera e dorata, rubata da un arsenale Aalaag, e attendeva accanto ad una finestra aperta, guardando la strada in basso dove due figure in armatura verde e argento cavalcano verso di lui…
— Un altro, signore?
Era di nuovo il barista. Sorpreso, Shane guardò il suo bicchiere di birra e vide che anche quello era vuoto, ora. Un altro sorso di quella dinamite liquida? Oppure un altro bicchiere di birra? Non poteva rischiare nessuno dei due. Esattamente tra un’ora, davanti a Lyt Ahn, doveva essere sicuro di non tradire alcuna emozione nel riferire a che cosa aveva dovuto assistere nella piazza, e non doveva nemmeno mostrare il minimo segno di ubriachezza o dissipazione. Anche queste erano debolezze non permesse ai servitori dell’alieno, dato che l’alieno non le permetteva a se stesso.
— No — disse. — Devo andare.
— Un bicchiere le è bastato? — Il barista inclinò la testa. — Lei è fortunato, signore. Alcuni di noi non dimenticano così facilmente.
Il tocco di sarcasmo di quell’amara osservazione urtò i nervi già troppo tesi di Shane. Un’ira incontenibile, improvvisa, cominciò a scuoterlo, che ne sapeva quest’uomo di quello che voleva dire vivere con gli Aalaag, essere sempre trattato con quella specie di affetto indifferente che è peggio del disprezzo — quello stesso tipo di affetto che un umano potrebbe dare a un bravo animale domestico — e assistere sempre a scene come quella nella piazza, non una o due volte all’anno, ma ogni settimana, forse ogni giorno?
— Sta a sentire… — ribatté seccamente, ma si trattenne. Ancora una volta, aveva rischiato di rivelare chi era e cosa faceva.
— Sì, signore? — disse il barista dopo averlo guardato un momento. — Sto ascoltando.
Shane credette di percepire un’ombra di sospetto nella voce dell’altro. Quella percezione poteva essere solo un’eco del suo tumulto interiore, ma non poteva rischiare.
— Sta a sentire — ripeté, abbassando la voce, — Perché crede che io mi vesta così?
Indicò il suo abito da Pellegrino.
— Ha fatto un voto. — Ora la voce del barista era asciutta, remota.
— No. Non capisci… — L’insolito calore del liquido dentro di sé gli diede un’ispirazione. L’immagine della farfalla si insinuò — e si confuse — con l’immagine del Vendicatore. — Tu credi che sia stato solo un brutto incidente oggi, là fuori nella piazza? Be’, non lo è stato. Non è stato accidentale, voglio dire… non dovrei parlarne.
— Non è stato un incidente? — Il barista corrugò la fronte; ma quando riprese a parlare la sua voce, come qualla di Shane, si abbassò su un tono più cauto.
— Certo, la fine dell’uomo sulle lame… non era previsto che andasse in quel modo — borbottò Shane, sporgendosi verso di lui. — Il Pellegrino… — si interruppe. — Tu non sai del Pellegrino?
— Il Pellegrino? Che Pellegrino? — Il barista si avvicinò. Ora stavano quasi sussurrando.
— Se non lo sai, non dovrei parlartene…
— Ma ha già detto così tanto…
Shane allungo la mano e toccò il suo bastone di quercia levigata, lungo due metri, appoggiato contro il banco accanto a lui.
— Questo è uno dei simboli del Pellegrino — disse. — Ce ne sono altri. Vedrete il suo marchio uno di questi giorni, e saprete che l’attacco agli Aalaag nella piazza non è successo solo per sbaglio. Questo è tutto quello che posso dire.
Era un buon finale ad effetto. Shane prese il bastone, si girò rapidamente e se ne andò. Non si rilassò fino a che la porta del bar non si chiuse alle sue spalle. Restò un attimo a respirare l’aria più fresca della strada, schiarendosi le idee. Vide che le mani gli tremavano.
A mano a mano che la mente riacquistava un po’ di lucidità, il buon senso ritornò. Con l’aria esterna, sentì un sudore freddo coprirgli la fronte. Che gli era preso? Rischiare tutto soltanto per mettersi in mostra con uno sconosciuto barista? Favole come quella a cui aveva accennato potevano arrivare fino alle orecchie degli Aalaag — specificamente alle orecchie di Lyt Ahn. Se gli alieni avessero sospettato che sapeva qualcosa su un movimento di resistenza tra gli umani, avrebbero voluto saperne molto di più da lui; nel qual caso la morte sulla triplice lama poteva diventare qualcosa da desiderare, non da temere.
Eppure, aveva provato un gran senso di esaltazione in quei pochi secondi nei quali aveva diviso col barista la sua fantasticheria, come se fosse stata una cosa reale. Un entusiasmo grande quasi come il trionfo che aveva provato vedendo sopravvivere la farfalla. Per pochi istanti era quasi ritornato a far parte di un mondo che aveva un Pellegrino-Vendicatore in grado di sfidare gli Aalaag. Un Pellegrino che lasciava il suo marchio sulla scena di ogni crimine Aalaag come promessa di una futura vendetta. Il Pellegrino che alla fine avrebbe sollevato il mondo per rovesciare il tiranno, gli alieni assassini.
Si voltò e si mise a camminare in fretta verso il lato opposto della piazza, in direzione della strada che l’avrebbe portato all’aeroporto, dove la nave-corriere Aalaag lo avrebbe preso a bordo. Avvertiva un senso di vuoto allo stomaco al pensiero di dover affrontare Lyt Ahn, ma allo stesso tempo la sua mente era in fermento. Se solo fosse nato con un corpo più atletico e con quello sprezzo del pericolo che facevano il vero combattente della resistenza… Gli Aalaag pensavano di avere eliminato tutte le cellule di resistenza umane già da due anni. Il Pellegrino poteva essere una realtà. Il suo era un ruolo che qualsiasi uomo bene informato sugli alieni poteva sostenere — a patto che non avesse paura, né immaginazione per sognare di notte quello che gli avrebbero fatto gli Aalaag se, come doveva succedere alla fine, lo avessero preso e smascherato. Sfortunatamente, Shane non era un uomo del genere: anche adesso, si svegliava bagnato di sudore, scosso da incubi in cui gli Aalaag lo sorprendevano in qualche piccola mancanza e per la quale stava per essere punito. Alcuni uomini e donne, e Shane fra loro, provavano orrore per le sofferenze inflitte deliberatamente… Rabbrividì, cupamente, mentre l’ira e la paura formavano un miscuglio acido nelle sue viscere, bloccando la sua attenzione al mondo circostante.
Questo ribollire di sentimenti lo lasciò indifferente a ciò che accadeva intorno a lui, il che poteva costargli la vita. Questo, e il fatto che lasciando il bar si era istintivamente alzato sul capo il cappuccio del suo mantello per nascondere i lineamenti; in particolare da chiunque avesse potuto in seguito riconoscerlo per averlo visto in un locale dove avevano raccontato al barista di qualcuno chiamato «Il Pellegrino». Si scosse dai suoi pensieri solo al lieve rumore di passi strascicati sull’asfalto alle sue spalle.
Si fermò, voltandosi rapidamente. A meno di due metri da lui, un uomo con un coltello di legno ed una mazza incrostata di pezzi di vetro, il corpo magro avvolto in stracci come armatura, avanzava furtivamente verso di lui.
Shane si voltò di nuovo per fuggire. Ma ora, nell’improvviso silenzio di tomba e nel vuoto della strada, altri due uomini armati di mazze e pietre stavano uscendo da vie traverse per bloccarlo da entrambi i lati. Era intrappolato fra l’uomo alle sue spalle e i due davanti.
All’improvviso, la sua mente si scoprì brillante e fredda come il ghiaccio. Con un unico balzo era passato attraverso un lampo di paura verso qualcosa al di là del timore, che vibrava come una corda tesa, simile all’effetto sui nervi di una dose massiccia di stimolanti. Automaticamente, i due anni di allenamento presero il sopravvento. Gettò indietro il cappuccio perché non gli bloccasse la visione laterale ed afferrò il bastone nel mezzo con entrambe le mani, a circa mezzo metro l’una dall’altra, tenendolo davanti a sé di traverso, e disponendosi in modo da tenere d’occhio tutti gli attaccanti contemporaneamente.
I tre si fermarono.
Evidentemente, capirono di aver fatto un errore. Vedendolo col cappuccio, e la testa china, dovevano averlo preso per un cosiddetto pellegrino-penitente; uno di quelli che portavano bastone e mantello come simbolo di accettazione non-violenta dello stato peccaminoso del mondo che aveva portato tutti sotto il giogo alieno. Esitarono.
— Va bene, Pellegrino — disse un uomo alto dai capelli rossicci, uno dei due che erano sbucati davanti a lui, — gettaci la borsa e te ne potrai andare.
Per un secondo, l’ironia fu come un acuto sapore metallico nella bocca di Shane. La borsa che un pellegrino teneva appesa al cordone intorno alla vita conteneva praticamente tutti i suoi beni materiali; ma i tre che lo circondavano ora erano «vagabondi» — Nonservi — individui che non avevano potuto o voluto svolgere il lavoro assegnato loro dagli alieni. Sotto il dominio Aalaag, questi reietti non avevano niente da perdere. Assalito da tre uomini del genere, qualsiasi pellegrino, penitente o no, avrebbe consegnato la sua borsa. Ma Shane non poteva. Nella sua borsa, a parte ciò che possedeva, c’erano i documenti ufficiali del governo Aalaag che stava portando a Lyt Ahn; e Lyt Ahn, guerriero per nascita e tradizione, non avrebbe capito né mostrato pietà ad un servo che non era riuscito a difendere gli oggetti che trasportava. Meglio le mazze e le pietre con cui Shane aveva a che fare adesso che il disappunto di Lyt Ahn.
— Venite a prendervela — disse.
La sua voce risuonò strana ai suoi stessi orecchi. Il bastone che teneva stretto fra le mani sembrava leggero come una canna di bambù. Ora i vagabondi gli si stavano avvicinando; era necessario uscire dal cerchio che stavano formando intorno a lui e mettersi con la schiena contro qualcosa, in modo da averli di fronte tutti insieme… C’era la facciata di un negozio alla sua sinistra, proprio al di là del vagabondo basso dai capelli grigi che si avvicinava da quella direzione.
Shane fece una finta all’uomo alto e rossiccio alla sua destra, poi balzò a sinistra. Il tipo più basso vibrò un colpo con la mazza, mentre Shane si avvicinava, ma il suo bastone riuscì a deviare il colpo, e la punta inferiore colpì con forza la parte bassa del corpo del vagabondo. L’uomo crollò senza un grido e giacque raggomitolato. Shane lo scavalcò, raggiunse la facciata del negozio e si voltò per affrontare gli altri due.
Mentre si girava, vide qualcosa nell’aria e si abbassò automaticamente. Una pietra vibrò contro il muro vicino alla vetrina, e rimbalzò indietro. Shane fece un passo di lato per avere il vetro alle sue spalle. I due che erano rimasti ora avevano raggiunto il bordo del marciapiede davanti a lui, ancora in posizione tale da impedirgli la fuga. L’uomo rossiccio fece una smorfia soppesando una pietra nella mano. Ma la fragile lastra di vetro alle spalle di Shane lo tratteneva. Un umano morto o malmenato era niente; ma una vetrina rotta voleva dire immediato allarme automatico alla polizia Aalaag; e gli Aalaag non erano pietosi nell’eliminazione dei Nonservi.
— È l’ultima possibilità — disse l’uomo rossiccio. — Dacci la borsa.
Mentre parlava, lui e il suo compagno si gettarono su Shane simultaneamente. Shane balzò a sinistra per prendere prima l’uomo su quel lato, ed allontanarsi dalla vetrina abbastanza per poter ruotare liberamente il bastone. Sollevò in alto il bastone e lo abbassò in un colpo che andò a scontrarsi con la mazza dell’altro, facendo cadere l’uomo a terra, dove vi rimase, stringendosi il braccio spezzato tra il gomito e la spalla.
Shane piroettò per affrontare l’uomo rossiccio, che si era sollevato sulla punta dei piedi, la pesante mazza alzata all’indietro con tutte e due le mani per vibrare un violento colpo dall’alto.
Di riflesso, Shane mulinò in alto la parte inferiore del suo bastone; e la punta massiccia, indurita a fuoco, colpì a velocità fantastica il punto di congiunzione tra il collo e la mascella dell’uomo.
Il vagabondo rotolò a terra; giacque immobile sulla strada, il capo piegato innaturalmente rispetto al collo.
Shane si voltò, ansimando, il bastone pronto a colpire. Ma l’uomo col braccio spezzato stava già correndo via nella direzione da cui era appena venuto Shane. Gli altri due erano ancora a terra, e non mostravano nessuna intenzione di alzarsi.
La strada era silenziosa.
Shane rimase là, respirando con grande affanno, appoggiato al suo bastone. Era incredibile. Aveva affrontato tre uomini armati — armati più o meno come lo era lui — e li aveva sconfitti. Guardò i corpi stesi a terra e stentò a crederci. Tutto il suo allenamento col randello… era stato a scopo di difesa; e lui aveva sperato di non doverlo usare mai nemmeno contro un solo avversario. Ora, ce n’erano stati tre… e lui aveva vinto.
Sentiva una strana sensazione di calore, forza e sicurezza. Forse, gli venne in mente all’improvviso, era così che si sentivano gli Aalaag. Nel qual caso, c’erano sensazioni peggiori di questa. Sapersi conquistatore e guerriero era qualcosa che gonfiava il petto e raddrizzava la schiena. Forse era questa la sensazione di cui aveva bisogno per capire gli Aalaag — aveva avuto bisogno di vincere con la forza, rischiando un poco, esattamente come loro…
Si sentì sul punto di respingere tutto l’odio e l’amarezza che aveva accumulato dentro di sé negli ultimi due anni. Forse la forza poteva davvero costituire un diritto.
Si avvicinò per studiare gli uomini che aveva sconfitto.
Erano tutti e due morti. Shane rimase a guardarli. Erano sembrati abbastanza magri, avvolti nei loro stracci, ma solo quando si trovò direttamente accanto a loro si accorse quanto fossero davvero magri e ossuti. Erano come scheletri con artigli.
Restò immobile, lo sguardo abbassato sull’ultimo che aveva ucciso; e lentamente il calore e l’orgoglio svanirono rapidamente. Vide le guance ispide e smunte, il collo filiforme, l’angolo aguzzo dell’osso mascellare che sporgeva da quel volto senza vita. Quei lineamenti lo colpirono profondamente. L’uomo doveva essere stato affamato — letteralmente affamato. Guardò l’altro cadavere e pensò all’uomo che era fuggito. Quei tre non avevano mangiato probabilmente da diversi giorni.
All’improvviso, il suo senso di vittoria lo abbandonò; e la disgustosa bile dell’amarezza gli salì un’altra volta in gola. Qui, aveva sognato di se stesso come un guerriero. Un grande eroe — l’uccisore di due nemici armati. Solo che le armi di quei nemici erano stati bastoni e pietre, e i nemici stessi erano uomini mezzi morti con appena la forza di usare le proprie armi. Non erano Aalaag, non erano i potenti conquistatori del mondo sfidati dal Pellegrino, ma umani come lui ridotti quasi allo stato animale da coloro che li consideravano, senza distinzione, come bestiame.
Shane si sentì inondare dal disgusto. Qualcosa come una bomba ad orologeria esplose dentro di lui. Si voltò e corse verso la piazza.
Quando arrivò, era ancora deserta. Respirando a fondo, rallentò il passo, e camminò attraverso la piazza, dirigendosi verso il corpo immobile sulla triplice lama, che giaceva insieme all’altro alla base del muro. Ora l’ira l’aveva abbandonato, e così il disgusto. Si sentiva vuoto, completamente vuoto — anche della paura. Era una strana sensazione, la mancanza di paura. Finalmente era riuscito a liberarsene; tutto il sudore e gli incubi degli ultimi due anni, tutto quel vacillare sull’orlo del precipizio dell’azione.
Anche adesso, non sapeva dire esattamente come era arrivato infine a saltare in quel precipizio. Ma non importava. E sapeva che la paura non se n’era andata, sarebbe tornata. Ma anche questo non importava. Niente importava, nemmeno la fine che ora certamente lo aspettava. L’unica cosa davvero importante era che finalmente aveva cominciato ad agire, a fare qualcosa per un mondo che non riusciva più a sopportare.
Con molta calma si avvicinò al muro, sotto le lame che reggevano il corpo dell’uomo. Si guardò intorno per vedere se era spiato: ma non c’era anima viva né sulla piazza né dietro le finestre che vi si affacciavano.
Infilò la mano in tasca per prendere l’unico pezzo di metallo che gli era permesso di portare. Era la chiave del suo appartamento privato nella residenza di Lyt Ahn a Denver — «schermata» come dovevano essere tutte le chiavi come quella, in modo da non interferire con il campo che gli Aalaag avevano attivato su ogni città e villaggio, per essere informati su qualsiasi metallo non autorizzato in possesso degli umani. Con la punta della chiave Shane incise una rozza figura sul muro sotto il corpo: il Pellegrino e il suo bastone.
La dura punta della chiave di metallo scavò facilmente la superficie annerita del mattone fino a scoprire il colore rosso originario. Shane si allontanò, rimettendo la chiave nella borsa. Le ombre del tardo pomeriggio avevano già cominciato ad allungarsi dagli edifici per nascondere quello che aveva fatto. E i corpi non sarebbero stati rimossi prima dell’alba — questo secondo la legge Aalaag. Quando la figura incisa sui mattoni sarebbe stata notata da uno degli alieni, lui si sarebbe già trovato nella «mandria» della casa di Lyt Ahn, confuso tra gli altri.
Confuso nella massa, ma diverso, d’ora in poi — in un modo che gli Aalaag ancora dovevano scoprire. Si voltò e si allontanò in fretta lungo la strada che doveva portarlo alla nave-corriere aliena che lo stava aspettando. Il tremolio colorato delle ali di una farfalla — o forse era solo il barbaglio di un riflesso di qualche finestra in alto che per un attimo era sembrata ammiccare di colori — lo colpì con la coda dell’occhio. Forse, pensò all’improvviso con calore, era proprio la farfalla che aveva visto emergere dal suo bozzolo nella piazza. Era bello sentire che poteva essere la stessa, piccola, libera creatura.
— Aggiungi un Pellegrino — le sussurrò trionfante. — Vola, fratellino. Vola!