Mentre si versava il caffè della prima colazione, John Redpath s’accorse di qualcosa di “strano”, di qualcosa che “non andava”, pur non riuscendo a capire che cosa fosse…
Restò un momento a guardarsi intorno, poi tese l’orecchio per sentire se tra i rumori familiari del mattino presto, nello stabile in cui abitava, ne mancasse qualcuno, ovvero ce ne fossero di insoliti. Il condominio tornava in vita nel solito modo che gli era familiare da mille mattine, tra esitazioni e sicurezze. Non c’era niente di strano. “Sentiva” la giovane coppia al piano di sopra fare l’amore in fretta, coi vestiti stesi ad asciugare che si stagliavano come fantasmi contro la porta, col pane già tostato e la marmellata e il burro, con la sacra trinità (sigarette, soldi e chiavi della macchina) disposta in bell’ordine sulla credenza. Sentiva che il vecchio signor Coates, nell’appartamento a fianco, riprendeva lentamente conoscenza, contento e al tempo stesso deluso di non essere morto nelle ore tranquille della notte. Sull’altro lato del corridoio, Harv Middleton si era già messo in moto per la giornata di lavoro, circondato da una nube di profumi diversissimi. Middleton girava per caffè e ristoranti a vendere insegne di plastica da esporre in vetrina, ma aveva il vezzo di raccontare che si occupava di “pubblicità”. Nel resto dell’edificio era tutto normale, per cui il qualcosa d’insolito doveva essere proprio lì, fra le quattro pareti del suo appartamento.
Controllò la cucina, verificò la presenza e la posizione di ogni singolo oggetto. Aveva sentito dire che a volte si subisce un furto e ci si accorge della mancanza di un oggetto familiare soltanto dopo mesi. Ma nemmeno lì scoprì qualcosa che giustificasse il suo stato d’animo. Era probabile che non esistesse una causa esterna, che quella sottile inquietudine si stesse sviluppando dietro i suoi occhi, fra le sue orecchie, nel suo cervello. Cercò di studiare le proprie reazioni. I raggi di sole che cadevano sul parquet erano troppo gialli, troppo luminosi, troppo vivaci? La decorazione blu e marrone sul boccale che usava per il caffè freddo era diventata più bella, evocava piaceri estetici eccessivi? Agli odori consueti dei cibi e delle bevande si mischiavano fragranze esotiche, come il profumo della Chamberyzette o dei fiori di magnolia gialla? Insomma, stava per avere una visione?
“No, per favore, no” pensò. “Non oggi.”
Si spostò in camera da letto, davanti al lungo specchio con la cornice cromata, e restò a guardarsi. L’immagine che lo fissava in una falsa intimità era quella di un uomo alto, magro, sulla trentina, coi capelli color castano chiaro e ondulati, una carnagione chiara, secca, lentigginosa; il tipo di carnagione che non sembra mai sudata. La bocca era di un’irrequietezza assoluta, per cui l’espressione della faccia poteva passare in un attimo dal divertimento all’irritazione, all’incupimento; gli occhi castani erano sinceri e curiosi. Nell’insieme, l’immagine dava l’impressione di buona salute, e Redpath di solito ne era felice, dal momento che soffriva di una malattia incurabile. Altre volte, però, se non altro per il semplice fatto che gli sarebbe stato più facile affrontare la situazione, gli sarebbe parso più giusto, e in un certo senso anche più soddisfacente, sembrare malato.
In quel momento non aveva modo di sapere se stesse sperimentando l’aura che precede un attacco di grande male, cioè se stesse subendo una lieve epilessia psicomotoria coi conseguenti disturbi all’attività cerebrale, o se si trattasse semplicemente di un periodo in cui le sue percezioni erano particolarmente acute, senza nessun nesso con attività neurologiche anormali. Decise di prendere qualche misura precauzionale.
Posò la tazza di caffè, andò in soggiorno, prese una scatola per sigari piena di freccette e si mise in posizione davanti al bersaglio appeso vicino alla finestra. Con la punta del piede all’estremità del tappeto era lontano dal bersaglio esattamente tre metri. Redpath si concentrò al massimo e cominciò a lanciare le freccette. Voleva piantarne una in ognuno dei venti settori di cui era composto il bersaglio. Sulla scatola c’erano ventun freccette; in quella battaglia con se stesso gli era concesso un solo errore. Dovette fare due tentativi col settore numero quattro (lo trovava sempre difficile), ma ripetere il colpo lo aiutò a migliorare la mira, e tutte le altre freccette andarono a segno. Al secondo tentativo gli occorsero due lanci sia per il quarto sia per il sedicesimo settore, ma al terzo non sbagliò nemmeno un colpo e restò con una freccetta in mano. Resistette alla tentazione di lanciarla al bersaglio, perché se l’avesse colpito si sarebbe eccitato, e l’eccitazione era pericolosa. Poi si rimise a fare l’inventario di tutti i fattori intangibili che formavano la sua autocoscienza.
Si sentiva calmo, rilassato, perfettamente immerso nella realtà.
Il dottor Hyall gli aveva raccomandato, come terapia per la prevenzione degli attacchi, di dedicarsi a un’attività manuale (“È un fatto ben noto che le crisi si verificano molto di rado quando si è impegnati in un lavoro”). Per un po’ Redpath aveva provato a lavorare come gioielliere e orologiaio, ma un’occupazione del genere aveva lo svantaggio di seguire ritmi molto lenti: da un giorno all’altro si perdevano le fila del lavoro, e occorreva troppo tempo per riprenderle in mano. Le freccette, invece, gli offrivano un coinvolgimento immediato e completo della vista, del tatto e del pensiero. Nonostante lo scetticismo del dottor Hyall e di altri, Redpath era convinto che scaricassero lungo canali innocui gli eccessi di energia neurale.
Andò a riprendere la tazza del caffè e si trasferì in cucina. Adesso si sentiva leggermente svuotato. “Non vincerò mai” pensò. “Ed è tutta colpa di Leila. Stamattina avrebbe dovuto essere qui.”
Redpath finì il caffè, mise la tazza nel lavandino, accanto alla ciotola per cereali, e lasciò scorrere un po’ d’acqua calda. Gli restavano ancora quindici minuti prima di dover partire per l’istituto. Adesso si sentiva abbastanza forte da affrontare il giornale e la posta, che lo aspettavano in corridoio da quando si era alzato. Uscì dalla cucina e si inginocchiò a raccogliere le carte sparse attorno alla porta. La busta marrone era in cima al mucchio e recava l’intestazione: “Harrup Phizackeley, Agenzia Immobiliare”. Capì subito che si trattava di un altro sollecito per il pagamento dell’affitto, ormai in arretrato di tre mesi. Palpò la busta, decise che doveva contenere più di un foglio, e si chiese se la situazione fosse degenerata oltre i limiti consueti. Comunque quello era un mistero che poteva risolvere in serata. Mise da parte la lettera senza aprirla. Guardò le altre tre buste: due avvisi pubblicitari e una bolletta della luce. Cosa diceva quell’inserzione che leggeva sempre sulle riviste americane? “Riceverete posta interessante.”
Con un sospiro, ancora inginocchiato, rivolse l’attenzione al giornale, che era l’“Haverside Herald”, un piccolo quotidiano diffuso nelle Quattro Città e nei pochi villaggi che formavano il distretto di Sud Haverside. Lo preferiva ai giornali a diffusione nazionale perché, nonostante l’“Herald” facesse di tutto per essere irritante come ogni quotidiano che si rispetti, di solito parlava di tragedie su scala minore, e così Redpath poteva cullarsi nell’illusione che esistessero vie d’uscita. Per esempio, quel mattino un articolo in prima pagina parlava di un allevatore di piccioni dei dintorni a cui era scomparsa un’intera nidiata di uccelli da competizione.
… «Si tratta senz’altro di sabotaggio» ci ha raccontato stasera il signor Giddings, che ha 54 anni. «I miei piccioni sono arrivati in perfetto orario dalla Francia, e senza ombra di dubbio sono stati visti passare sul punto di controllo di Tiverly Edge alle dieci di mattina di domenica, il che significa che avrebbero dovuto»…
Redpath smise di leggere. Si era accorto di qualcosa di strano. A quell’ora il corridoio davanti alla sua porta riceveva una splendida illuminazione naturale, e sotto la soglia correva una linea sottile di luce argentea. La linea di luce c’era, ma interrotta al centro, il che significava che c’era un oggetto appoggiato a ridosso della porta, oppure che in corridoio c’era qualcuno. La prima ipotesi era la più semplice (il postino abbandonava spesso i pacchi che non passavano sotto la porta), ma a Redpath sembrava che le estremità di quel segmento nero ondeggiassero lentamente, come succede con l’ombra di un essere vivente. D’altra parte non si sentiva nessun rumore, nessuno sembrava sul punto di suonare il campanello, e gli era difficile credere che qualcuno fosse tanto pazzo da mettersi di guardia davanti al suo appartamento. Doveva essere un pacco. Quelle leggere oscillazioni nella zona scura dovevano essere un gioco di luci: forse le foglie degli alberi davanti al condominio mosse dal vento, oppure il disco del sole oscurato dalle nubi.
Redpath si alzò, protese la mano verso il catenaccio; poi successe qualcosa dentro la sua testa. Avvertì un senso di turbamento, uno scivolare di prospettive, un evento psicologico. Senza rendersene conto si mise a guardare l’occhio magico installato nel mezzo della porta, un congegno assurdo che lui non aveva mai usato perché serviva solo alle vecchie signore sospettose e nevrotiche. Ma appoggiò l’occhio alla lente di vetro.
La faccia che apparve dall’altra parte non gli sembrò subito una faccia. Dapprima ebbe l’impressione di una cosa rossa e spugnosa, una specie di pomodoro gigantesco o di un frutto rosso sbucciato, di cui fosse visibile solo la polpa umida all’interno. Per un attimo emersero, da quella massa informe, tratti umani, e il cervello di Redpath si rifiutò di accettare il messaggio che stava ricevendo. Poi giunse l’istante della verità, terribile, mostruoso, abbagliante.
La faccia, l’intera testa erano state scorticate. Il risultato era un’allucinante scultura di sangue coagulato. Gli occhi e le palpebre, completi in ogni minimo dettaglio a eccezione delle ciglia, erano complesse sfere di sangue; la pelle viva delle labbra lasciava intravedere denti macchiati di sangue; il naso, reso pendulo dalla distorsione prodotta dalla lente dell’occhio magico, era di un rosso acceso, e sotto le narici si gonfiavano e sgonfiavano bolle rosse-blu, a indicare che il mostro era vivo…
Redpath si allontanò con un gemito dalla porta; poi entrò in azione un meccanismo di sopravvivenza che lo costrinse, contro la sua stessa volontà, a fare quello che doveva essere fatto. Redpath tornò indietro, abbassò la maniglia e spalancò la porta.
Il corridoio esterno era deserto.
Le gambe gli tremavano, ma uscì e si guardò attorno. A sinistra, il corridoio terminava poco dopo la porta dell’appartamento del signor Coates. A destra c’era la porta di Harv Middleton, e più oltre le scale che scendevano al pianterreno. Di fronte altre tre porte, tutte chiuse. Dalle finestre che si aprivano in corridoio vedeva alberi in fiore, parte di un parcheggio, il cortile sul retro di un negozio pieno di piedistalli per lampadari, e il retro di un gruppo di case e di garage. Il sole del mattino illuminava tutto con calma sublime. Il mondo sembrava allegro, tranquillo, normalissimo.
“È tutto normale tranne me” pensò Redpath. “Sto diventando pazzo al cento per cento.”
Tornò in soggiorno e si mise a tamburellare con le dita sul bracciolo di una poltrona. Doveva prendere una decisione importante riguardante il suo futuro. Il lavoro (il cosiddetto lavoro) che aveva all’istituto rappresentava la sua unica fonte di guadagno, ma se doveva attendersi altri fatti del genere non poteva tirare avanti per molto. D’altra parte lo pagavano poco. Quello che guadagnava non bastava per vivere, però era sufficiente a convincere quelli dell’assistenza sociale (che facevano addirittura pubblicità in televisione per spingere la gente ad accettare i loro soldi) che nel suo caso era inutile gettare denaro. Perdendo il lavoro si sarebbe iscritto all’assistenza sociale, gli avrebbero pagato gli arretrati d’affitto; e, soprattutto, sarebbe riuscito a condurre l’esistenza più normale in cui potesse sperare un uomo afflitto dal suo male.
Ebbe un pensiero improvviso: “Trovati una sistemazione meno cara. Un posto sicuro”.
“Ma dove potrei essere più al sicuro?”
“E al sicuro da cosa?”
— Ve l’avevo detto — disse Redpath, con aria indignata, ai mobili dell’appartamento. — Sto rimbecillendo. — Prese il giubbotto di pelle scamosciata, se l’infilò e uscì sbattendo la porta. Il corridoio era sempre deserto. Quando arrivò in strada, dal marciapiede si alzarono grandi nugoli di polvere e carte di caramella che si misero a danzargli attorno alle caviglie, come cagnolini affettuosi. Redpath fissò disgustato quella roba, e all’improvviso si accorse di detestare moltissimo il quartiere in cui viveva.
Bingham Terrace prendeva nome da un importante consigliere municipale di Calbridge, la più grande delle Quattro Città di Haverside. In un primo tempo quegli edifici così nuovi gli erano parsi attraenti. Aveva pensato che fosse divertente vivere in una strada di lusso, in un posto così ribollente di attività, e osservare le cose del mondo da un appartamento tanto accogliente, appollaiato sopra una fila di sei negozi. Per molto tempo aveva apprezzato il fatto che i negozi fossero così vicini e così comodi, e aveva fatto grandi sforzi per intrecciare rapporti amichevoli coi proprietari e coi commessi. Aveva a portata di mano una panetteria, un’edicola, una boutique, un caffè, una drogheria e una macelleria, tutte cose che sembravano scelte apposta per soddisfare le sue esigenze. Persino l’unica eccezione, la boutique per signora, si era trasformata in qualcosa di piacevole. Aveva un’insegna che diceva: “Il negozio della boutique”, e Redpath aveva fatto notare la tautologia alle ragazze che ci lavoravano. Dopo di che, si era costruito la fama di attore comico: una volta alla settimana infilava la testa in negozio e diceva di voler comprare una boutique.
Adesso, all’improvviso, era stanco di tutta quella modernità, del frastuono del traffico e del continuo sbattere delle portiere d’auto, della confusione creata dai ragazzi che ogni sera affollavano il caffè. Negli altri undici appartamenti, nessuno aveva accettato in pieno le sue offerte di amicizia; forse perché si era sparsa la voce che era epilettico e quindi avevano un po’ paura di lui, o più probabilmente perché si trattava di persone noiose e limitate che conducevano esistenze noiose e limitate. In ogni caso, non era mai riuscito, nemmeno una volta, a stabilire con loro un rapporto vero.
Fermo nel minuscolo corridoio che costituiva l’ingresso agli appartamenti dei piani più alti, Redpath guardò con una smorfia la boutique sulla destra, e il suo malumore divenne più intenso. Le due ragazze erano già arrivate, però stavano sistemando la merce sugli espositori e gli voltavano la schiena, il che rendeva impossibile uno scambio di cenni di saluto.
“Tanto non avranno nemmeno capito la battuta” pensò. “Problemi di comunicazione. Probabilmente ridono solo per cortesia. O per nervosismo. Dovevo spiegarglielo per bene la prima volta… State a sentire, in francese ‘boutique’ vuol dire negozio, per cui la vostra insegna dice che questo è un negozio del negozio, che voi vendete negozi. Chiaro? Afferrata la battuta?”
Redpath desiderò, in maniera intensissima, che Leila Mostyn avesse trascorso la notte con lui. Era convinto che non sarebbe successo niente se un’ora prima, quando si era svegliato, l’avesse trovata al suo fianco. E persino un’autorità come il dottor Hyall ammetteva che avrebbe tratto beneficio dal calore e dalla dolcezza di una relazione fissa. Raddrizzò le spalle e si incamminò in quella specie di tunnel che portava al parcheggio, sul retro dell’edificio. Dato che la legge gli proibiva di prendere la patente, Redpath godeva del privilegio di essere l’unica persona di Bingham Terrace (compreso il vecchio signor Coates) a non possedere l’auto. La sua bicicletta riposava, solitaria, sotto la tettoia in un angolo del parcheggio rettangolare. Sempre pensando a Leila, tolse la catena alla bicicletta e pedalò fino alla strada. Questa volta le ragazze della boutique lo videro, gli fecero un cenno di saluto. Redpath si fermò, alzò la mano a indicare l’insegna, e le ragazze si misero a ridere.
— Ma non saranno loro a prendere in giro me? — mormorò Redpath, e ricominciò a pedalare. Restò nel flusso del traffico diretto in centro per qualche centinaio di metri, poi svoltò a sinistra, in un quartiere residenziale. Adesso si trovava in una via più tranquilla, che l’avrebbe condotto quasi direttamente all’Istituto Jeavons. In genere, il fruscio delle ruote sull’asfalto e il ritmo costante delle pedalate lo aiutavano a pensare. Cercò di ripetersi mentalmente il discorso che avrebbe fatto a Henry Nevison per comunicargli che si licenziava, ma il suo cervello si spostava di continuo sull’altra fonte di complicazioni che gli stava avvelenando l’esistenza.
Leila Mostyn era laureata in matematica. Da sei mesi stava facendo studi di statistica nel reparto ricerche, dove Redpath passava quasi tutta la giornata. L’aveva conosciuto, era stata informata della sua professione, e per qualche settimana lo aveva trattato con una gentilezza impersonale, come un ricercatore di cancerologia estremamente corretto nei confronti di un animale da laboratorio destinato alla dissezione. Redpath era rimasto conquistato da quell’aria di distacco sessuale, da quelle labbra pallide, dal camice bianco, dai vestiti severi, dall’atteggiamento freddo.
Aveva deciso di corteggiarla, sfruttando tutte le risorse dell’immaginazione e dell’intelletto. Per un mese avevano trascorso assieme, di tanto in tanto, la notte; dopo di che, lui era piombato in piena atmosfera romantica. Sapeva benissimo di essere malato e di non avere prospettive economiche, per cui non le aveva chiesto di sposarlo; però sperava di arrivare poco per volta a una relazione stabile, anche perché il lato sensuale della personalità di Leila diventava sempre più forte. Era stato un bel periodo. Poi aveva scoperto che lei non era un tipo morigerato; era solo discreta, e molto indipendente. Se passava una sola notte alla settimana con lui era perché spesso preferiva restare sola; e ogni tanto si sentiva libera di scegliere un partner in una cerchia di amicizie maschili della cui consistenza Redpath aveva idee molto approssimative.
Si era sentito ferito, offeso, truffato dal suo stesso egocentrismo ingenuo. Aveva finito con l’accettare la situazione, scoprendovi addirittura dei vantaggi, ma si trattava di un equilibrio instabile. Capiva fin troppo bene che il minimo tentativo di monopolizzare Leila avrebbe significato la fine della loro relazione; eppure una volta al giorno, come minimo, sentiva l’impulso suicida di esprimere la propria gelosia, di rimproverarla perché non era innamorata quanto lui, di imporre regole al comportamento di un’altra persona. L’impulso si faceva più forte ogni volta che la sua routine quotidiana subiva variazioni: siccome Leila gli aveva negato senza motivo il paradiso terrestre, se succedeva qualcosa era colpa sua. Era giunto addirittura al punto di ritenerla responsabile delle variazioni del proprio stato di salute. Sapeva che era una reazione irrazionale, infantile, ma non riusciva a frenarsi.
“Basta, è troppo” pensò. “Devo trovare un posto più sicuro.”
Il reparto di psicofisiologia dell’Istituto Jeavons aveva sede in un edificio di arenaria marrone, costituito verso la metà del diciannovesimo secolo. Dava l’impressione di essere stato la casa di un ricco mercante. Una fila di pini e rododendri vecchissimi, che avevano raggiunto l’altezza di una casa di due piani, lo separavano dalla facciata di granito e dai chiostri in acciaio inossidabile dell’istituto. Anche nei giorni più caldi, in piena estate, l’ammasso di fronde lo rendeva umido e fresco come una caverna sotterranea; e sul prato c’erano diverse zone scure dove l’erba si rifiutava di crescere. Le pietre che lastricavano i sentieri erano sempre umide, per cui le impronte dei piedi e dei pneumatici resistevano per molto tempo, come immagini infrarosse. Scomparivano solo quando il sole asciugava le pietre.
Redpath arrivò sul sentiero in bicicletta, ridusse la velocità, scese e si avviò verso l’ingresso. Appoggiò la bicicletta a ridosso del balconcino in pietra a fianco degli scalini, ed entrò. Proprio in quel momento Leila Mostyn stava uscendo dal suo ufficio. Si fermò a salutarlo. Era una ragazza alta, coi capelli color biondo cenere tagliati corti, gli occhi grigi e due labbra deliziosamente piene che a Redpath ricordavano ogni possibile dote femminile, dall’intelligenza all’umorismo, dal calore alla generosità. Indossava una delle sue tenute più tipiche, almeno dal punto di vista di Redpath: una camicetta trasparente e un reggiseno a balconcino dalla linea decisamente provocante. Camicetta e reggiseno avrebbero messo fin troppo in mostra la sua figura, se lei non avesse aggiunto un’austera gonna di tweed e un camice bianco da laboratorio. Il camice in particolare era un suo tratto distintivo, perché nel lavoro di Leila non c’era niente che lo richiedesse, e in quel reparto nessun altro portava camici.
“Offri qualcosa, ma tieni sempre il grosso per te. Bisogna che la gente sappia cosa sta perdendo. Che ne direbbe se io non accettassi più ogni suo capriccio, ogni suo minimo desiderio? Se mi mettessi a usare la forza? Se la prendessi ogni volta che ne ho voglia, nel modo che preferisco, sia che a lei vada o…”
— John! — Leila gli rivolse un sorriso sorpreso. — Cosa stai sognando?
— Niente. — Redpath era sbalordito dalla visione di violenza selvaggia che gli aveva oscurato i pensieri. Rise imbarazzato.
— Stanotte hai dormito a sufficienza?
— Moltissimo — le rispose. Poi si lasciò vincere da un impulso di gelosia e aggiunse: — E tu?
Le tracce del sorriso di Leila svanirono all’istante. Fra loro c’era stata una comunicazione quasi telepatica. — Ho dormito sodo, grazie.
“È follia allo stato puro” pensò Redpath. “Sto commettendo un suicidio.” Sorrise e disse: — Che peccato. Che peccato.
Leila strinse i bordi del camice. — Cosa vuoi dire?
— Voi due che ve ne state lì tutta la notte, e non succede niente. Mi sembra uno spreco.
Leila lo esaminò freddamente. — Penso che consiglierò a Henry di darti un mese di ferie. — Cercò di andarsene, ma Redpath l’afferrò per il braccio. Il calore della sua pelle sotto il cotone bianco gli comunicò un senso di eccitazione e di frustrazione nello stesso tempo.
— A proposito, chi era? — le chiese, continuando a sorridere. — Lo conosco?
— Te l’ho già detto John. Devi cercare di superare le fobie sessuali dell’adolescenza.
— Ci sto provando. Ti ho chiesto con estrema franchezza con chi hai dormito stanotte, e se tu non hai fobie sessuali dovresti rispondermi con altrettanta franchezza. Giusto?
— Vai a farti friggere, John.
— Rifiuto e ostilità. — Redpath le lasciò andare il braccio, mimò l’atto di scrivere qualcosa su un blocco per appunti. Leila si voltò e si avviò verso le stanze sul fondo dell’edificio, lasciandosi dietro una densa scia di profumo. Redpath si sentiva trionfante. Di solito era Leila a usare la terminologia psicologica per le frecciate più pungenti, e le aveva dato molto fastidio che questa volta se ne fosse servito lui. Tutto questo, ovviamente, significava che in meno di un minuto Redpath aveva distrutto mesi di lavoro per costruire e conservare quella relazione; però si era accorto che era giunto il momento di operare grandi cambiamenti. Era una sensazione che avvertiva nell’aria. Se lasciava l’istituto, fra loro due si sarebbe inevitabilmente creata una frattura. Era meglio prendere l’iniziativa, liberarsi di lei quando ancora possedeva orgoglio e dignità, anziché aspettare che Leila gli concedesse sempre meno del proprio tempo, che lo privasse della sua virilità.
“Orgoglio? Dignità? Vuoi vedere che adesso monto pneumatici d’un bianco immacolato sulla bicicletta? Chi se n’è mai fregato di idiozie come l’orgoglio e la dignità?”
Redpath scosse la testa, fece una smorfia, salì di corsa le scale, e arrivò davanti all’ufficio di Nevison, al primo piano. Bussò leggermente alla porta a pannelli bianchi ed entrò senza attendere risposta. Nevison, seduto alla scrivania sotto il bovindo, alzò gli occhi, sorpreso. Era un uomo sulla cinquantina, magro, molto distinto, coi capelli grigi. Sembrava un tipo atletico, se non fosse stato per il colorito cianotico e per quelle sue narici blu-rossastre. Godeva di un’eccellente reputazione accademica, eppure si rivolgeva sempre a Redpath in un inglese ultra-semplice, disadorno. Redpath gliene era stato riconoscente per un po’; poi aveva cominciato a sospettare che Nevison si inorgoglisse al pensiero di riuscire a comunicare con un uomo semplice come lui, che lo considerasse una specie di allenamento.
— Ciao, John — disse Nevison. — Oggi sei in anticipo. Siediti.
— Grazie. — Redpath si accomodò su una poltroncina, e in quel momento capì che Nevison lo invitava sempre a sedersi per evitare che fosse lui a sedersi di propria iniziativa. Pensò di alzarsi e di restare in piedi per un po’, in modo che il fatto di sedersi sembrasse un’azione estremamente unilaterale da parte sua; poi capì che preoccupazioni del genere erano da nevrotico. “Un anno fa ero così? Rientra tutto in uno schema generale?”
Nevison restò in silenzio per un attimo. Poi, come se nel frattempo avesse concluso una linea di pensiero di estrema importanza, si rischiarò in faccia e disse: — Allora, John, cosa posso fare per te?
— Voglio lasciare il progetto — rispose Redpath. Riesaminò la frase e decise di non essere stato abbastanza chiaro. — Insomma, ho deciso di andarmene.
Nevison parve preoccupato. — Ho l’impressione che si tratti di una decisione improvvisa. Ho ragione?
— Ecco… — Redpath era restio a rispondere; gli sembrava di perdere terreno. — Che differenza farebbe?
— Nessuna, forse. Tu sei libero al cento per cento di lasciarci quando vuoi, lo sai, ma se esiste una causa specifica sarei lieto di discuterne con te e vedere se possiamo fare qualcosa per eliminarla. Non vogliamo perderti, John.
— Grazie, ma ormai ho deciso.
Nevison ebbe un sorriso pensieroso. — Se la nostra fosse una ditta privata, a questo punto ti offrirei un aumento di stipendio. Però credo che tu conosca benissimo la tua posizione e la nostra disponibilità di fondi. Io vivo nel terrore che un giorno o l’altro il consiglio comunale di Sud Haverside venga a sapere che ci occupiamo di telepatia. Se dovesse succedere, ci troveremmo tutti a mangiare tozzi di pane.
— Non si tratta di soldi — disse Redpath. — Cioè, i soldi sono solo una parte del problema.
— Oh. — Nevison incrociò le dita e guardò fuori della finestra. I raggi del sole, riflessi dall’architettura modernissima degli edifici dell’istituto, creavano scintillii incredibili sul fogliame verde scuro.
Redpath si sentì costretto a parlare. — Sto crollando. Forse è l’effetto cumulativo delle droghe, non so… Però so di sicuro che non riesco a tirare avanti.
— Hai riscontrato una reazione? — chiese Nevison, protendendosi in avanti.
— Una reazione! — Redpath sbuffò, visibilmente contrariato. — Stamattina, mentre raccoglievo la posta, ho guardato dall’occhio magico della porta e ho visto una cosa che sembrava uscita da un film dell’orrore. Una faccia scorticata. C’era solo la carne viva, e il sangue che scorreva. Non sono obbligato a sopportare cose del genere, Henry. Nessuno mi ci può costringere.
— Dà l’idea di un’apparizione piuttosto mostruosa — ammise Nevison — ma sono sicuro che si possa trovare una spiegazione molto prosaica. Era un’immagine più netta di quelle che hai avuto durante i test?
— Era assolutamente reale. Era come se… Un attimo. Vorresti dire che ho ricevuto una immagine telepatica?
— Può esistere un’altra spiegazione?
— Un’altra? Io non ho ancora sentito nessuna spiegazione. — Redpath si agitò sulla poltroncina, che scricchiolò. — Vorresti dirmi che nelle mie vicinanze, magari nel mio palazzo, qualcuno stava guardando una faccia del genere? E che io ho ricevuto l’immagine mentale? Guarda, mi conviene di più credere che sto impazzendo.
— Non se ne parla nemmeno. Tu non stai impazzendo — ribatté Nevison, assumendo un atteggiamento professionale. — Ti dico solo di considerare le circostanze e di paragonarle ad alcuni risultati ottenuti coi test. Ti eri appena svegliato, per cui il tuo cervello era sgombro dai ricordi residui della giornata. Se non ricordo male la topografia del condominio dove vivi, il corridoio esterno è piuttosto buio, quindi hai avuto un altro fattore scatenante: il calo improvviso dell’intensità d’illuminazione. E hai guardato attraverso l’occhio magico, cioè hai limitato al minimo il tuo campo visivo. Ricordi che abbiamo scoperto già da molto tempo il cosiddetto “effetto piccolo schermo”? È tutto molto logico.
— Quella faccia — gli fece notare tranquillamente Redpath — che cosa mi dici di quella faccia?
— Sì, c’è il problema della faccia. — Nevison si grattò il mento per un attimo. — Però abbiamo anche registrato un caso o due di trasmissioni doppie, no? Tu abiti sopra alcuni negozi… Non c’è una macelleria?
— Sì, però vende quello che vendono tutte le altre macellerie. Nel mio isolato, nessuno nutre predilezioni per l’homo sapiens scorticato.
— Pensavo, anche se si trattava solo di un’ipotesi, che forse il tuo macellaio aveva in mente qualcuno mentre sistemava la carne in negozio, e tu potresti aver ricevuto una trasmissione doppia.
— Non va — disse Redpath, debolmente. — Non va proprio.
— Cos’è che non ti conviene nella mia idea?
— È troppo complicata.
— Non vuol dire che non sia vera.
— Non so, però… — Redpath s’interruppe. La sua memoria stava registrando un dato nuovo, la prima fiamma che annunciava l’inferno. — L’effetto piccolo schermo non c’entra niente. Le cose si sono messe in moto prima che io guardassi nell’occhio magico. Quando mi sono chinato a raccogliere la posta, mi sono accorto subito che davanti alla porta c’era qualcosa, ed è per questo che ho guardato fuori… E poi posso aggiungere un’altra cosa! Le lenti dell’occhio magico distorcono tutto, e quella faccia era distorta…
Nevison uscì in un sorriso estremamente gentile, per fargli capire che aveva detto qualcosa di eccezionalmente stupido. — Allora vorresti raccontarmi che quella creatura uscita da un film dell’orrore se ne stava davanti alla porta di casa tua. In carne e ossa, anche se sarebbe meglio dire in sangue e ossa.
— Non volevo dire una cosa del genere — rispose Redpath, e si chiese cosa volesse dire.
— Certo, scusa. Hai aperto la porta, hai visto che in corridoio non c’era niente di strano, per cui saprai benissimo che deve per forza trattarsi di un fenomeno soggettivo. Hai controllato che non ci fosse niente, no?
— Sì.
— Eccoci al punto, John. E la prova definitiva.
Redpath annuì. — La prova che sto impazzendo.
— Scusa se te lo dico, ma mi sembra che le tue idee sulla pazzia derivino direttamente da Charlotte Brontë e da Edgar Allan Poe, e questi due signori non erano psichiatri di chiara fama. — Nevison schioccò le labbra. Una bella frase, una frase di cui compiacersi, da mandare a memoria per ripeterla in occasioni future.
— Di’ un po’ quello che vuoi. — Redpath stava perdendo la calma. — Io so solo che mi sono spaventato a morte, che cose del genere non mi vanno a genio, e che probabilmente sono solo conseguenze dei nostri esperimenti.
— Lo penso anch’io — disse Nevison. Imprevedibile come sempre, tentava un’altra tattica. — Devi ammettere, John, che da quando abbiamo cominciato a somministrarti il Composto Centottantatré le tue doti telepatiche, che all’inizio erano solo latenti, si sono sviluppate in maniera enorme. Certo, non conosciamo ancora le tecniche per controllare queste doti, però tu diventi sempre più cosciente dei tuoi mezzi, non è vero? La settimana scorsa mi raccontavi che la mattina, quando ti svegli, “senti” cosa succede negli altri appartamenti del condominio. Giusto?
— Non vedo cosa c’entri con…
— Voglio solo dirti che per noi si tratta di una faccenda del tutto nuova. A quanto sembra, cominciamo a capire che i contatti mente-a-mente non si verificano sempre a livello cosciente… E tutti noi abbiamo i nostri mostri sepolti in fondo alla coscienza, John. Tu non hai mai incubi?
— Qualche volta. — Redpath si sentiva in balìa di Nevison.
— Li ho anch’io. Dobbiamo accettarli, e immagino che basti un po’ di sforzo per accettare eventuali incubi diurni.
— Dobbiamo? Cioè io li devo accettare?
— Tu sei il punto focale dell’esperimento, John. — Nevison si alzò, fece il giro della scrivania e si sedette sull’orlo, di fronte a Redpath. La manovra aveva lo scopo di creare un’atmosfera di amicizia serena, informale. — Senti, capisco benissimo che un’esperienza del genere ti abbia scosso, però non è giusto che tu prenda una decisione sul tuo futuro mentre sei ancora sconvolto. Non è giusto nei nostri confronti. Per oggi salta i test. Scrivi oppure detta un rapporto completo su quello che ti è successo stamattina, e fa’ conto che si tratti di dati sperimentali. Non dovresti metterci molto. Poi ti lascio libero per tutto il giorno. Fai quello che vuoi, pensaci. Domattina ne riparliamo. Che ne dici?
— D’accordo. — Redpath, riluttante, si alzò.
“Scriverò le mie dimissioni. Così sarà tutto a posto. Senza stare a discutere. E non mi fregheranno più con tutte le loro moine, non cancelleranno le mie parole.”
Se ne andò senza dire altro. Attraversò un corridoio, raggiunse lo stanzone sul retro dell’edificio che nessuno usava come ufficio fisso, e che serviva da base operativa per tutti coloro che non avevano abbastanza autorità da meritarsi un ufficio tutto loro. Su sei tavoli, quel mattino uno solo era occupato: da Terry Malan, laureando in psicologia che avrebbe dovuto lavorare alla tesi, ma che in realtà passava gran parte del tempo a riparare pezzi di motocicletta. Davanti a sé aveva una dinamo a pezzi, e la fissava con espressione torva.
Redpath gli passò accanto silenziosamente, sedette al suo tavolo e prese una penna. Decise che dieci minuti erano più che sufficienti per un rapporto a Nevison, dopo di che si sarebbe messo in ferie per quel giorno; ma si accorse subito che gli era difficile concentrarsi.
“Bolle di sangue che si gonfiano sotto le narici…”
“In un rapporto si parla di cose del genere? È attenzione ai particolari, o curiosità morbosa? Do prova di mentalità scientifica o di follia? Quanti uomini ha Leila? E a che ritmo li vede? Dove riuscirò a trovare un altro lavoro? Perché continua a guardarmi quel mostriciattolo di Malan? Non lo vedo, però so che mi sta guardando. Ogni volta che alza gli occhi e mi fissa la nuca è come finire sotto la luce di un faro. Devo mettere anche questo nel rapporto?”
Dopo un’ora di tentativi sporadici, Redpath aveva riempito una pagina. La chiuse in una busta e ci scrisse sopra: “Confidenziale — All’attenzione del dottor Nevison” e la sistemò al centro della scrivania, sotto il fermacarte di ardesia verde. Si stava comportando come se avesse intenzione di non tornare mai più. Dal cassetto centrale della scrivania prese le sue poche cose personali (francobolli, la scorta d’emergenza di fenobarbitone, il tagliaunghie) e se le mise in tasca. Quando si alzò, scoprì che Malan lo stava fissando intensamente. Redpath gli strizzò l’occhio, abbracciò un’immaginaria compagna di danza e arrivò alla porta mimando un tango alla George Raft. Non disse niente.
Sul pianerottolo si fermò un attimo, la mano sulla fronte, improvvisamente spaventato. Gli venne in mente che era follia lasciare l’esperimento per un solo incidente che forse non si sarebbe più ripetuto; una follia diversa da quella di cui aveva parlato Nevison, una follia economica e sociale senza rimedio. Circolavano un sacco di battute su come fosse facile ottenere soldi dall’assistenza sociale; ma se le sue esperienze passate avevano qualche valore, probabilmente l’impiegato gli avrebbe spiegato, con grande pazienza, che se il suo cognome cominciava per R e se aveva lo stesso numero di dita su entrambe le mani non potevano pagargli niente fino al prossimo transito di Mercurio. E poi c’era il pericolo di tagliare i ponti con Leila, l’ultima cosa al mondo che desiderasse.
Si passò una mano tra i capelli, tolse qualche granello di polvere dal giubbotto di pelle scamosciata e scese le scale, in cerca di Leila. Gli si stendeva davanti il pavimento del corridoio, una scacchiera di mattonelle verde pallido e crema su cui si muovevano le ombre proiettate dalle foglie all’esterno. E all’improvviso il corridoio s’inondò di sangue.
Non era lo stesso sangue rosso acceso, ben ossigenato, che aveva visto sull’apparizione davanti alla porta di casa sua. Era sangue vecchio: marrone, in via di coagulazione, traversato da venature nere in certi punti, e in altri pieno di grandi grumi simili a lumache. I grumi avevano lo stesso colore della carne cruda. E, come se il pavimento si fosse improvvisamente inclinato, sembrava che quell’orribile poltiglia organica avanzasse verso di lui…
— Ah, no — sussurrò. Con una mano si aggrappò alla ringhiera e con l’altra si coprì gli occhi. Restò immobile per un momento, chiamando a raccolta tutte le sue forze, e quando riaprì gli occhi il pavimento del corridoio era di nuovo normale. Le mattonelle erano perfettamente pulite, come nuove, come appena lucidate dalle cameriere dell’era vittoriana che un tempo lavoravano lì. Il resto del mondo pareva in ordine. In uno degli uffici vicini, una macchina per scrivere cominciò a ticchettare, monotona.
Redpath completò la discesa della scala e si avviò pensoso verso il fondo dell’edificio. Domande urgenti si agitavano nel suo cervello. Gli avevano detto che il Composto Centottantatré era un derivato innocuo dell’encefalina, modificata in modo da poter scegliere con precisione estrema le cellule cerebrali su cui doveva agire… Ma cosa significava? Per quanto tempo sarebbe durato l’effetto? E chi gli garantiva che Nevison, Magill e gli altri sapessero di cosa stavano parlando? Dopo tutto, il termine stesso “esperimento” significava che tiravano a indovinare, che provavano cose diverse, nella speranza che la cavia non facesse qualcosa d’irritante come prendersi un tumore, o impazzire, o morire senza preavviso.
“Lo stipendio dovrebbe essere più alto. Devo trovare un posto più sicuro.”
Aprì la porta dell’ufficio di Leila Mostyn e scoprì che non era sola. Marge Rawlings, la segretaria di Nevison, stava usando la fotocopiatrice, sistemata lì in un angolo per lasciare più spazio libero in altri locali. A giudicare dal fascio di carte che aveva davanti, non se ne sarebbe andata tanto presto.
— Buongiorno, signore — disse Redpath, mascherando la delusione. — Come andiamo, oggi?
— Stiamo cercando qualcuno che ci dia una mano con le fotocopie, e mi sembra che tu abbia due braccia perfettamente a posto. — Marge gli lanciò un’occhiata speranzosa da dietro gli occhiali ottagonali, con la montatura in oro. — Che ne dici, John?
— Mi spiace, ma con le macchine non ci so fare. — Redpath le girò le spalle e si avvicinò a Leila, che era seduta alla scrivania e teneva gli occhi puntati su un blocchetto di carta millimetrata. Lei lo ignorò.
— Leila — le sussurrò, toccandole il polso — devo parlarti.
Leila scostò il polso. — Ho da fare.
— Senti, mi spiace per quello che ho detto.
— Dal punto di vista del lavoro non fa nessuna differenza. Ho sempre da fare.
Lui la fissò, con un desiderio disperato. — Possiamo mangiare assieme?
Leila scosse la testa. — Nell’intervallo di pranzo devo tornare a casa a prendere certe carte.
— Be’… — Redpah si girò a scoccare un’occhiata di fuoco a Marge Rawlings, che aveva smesso di fotocopiare e manteneva un silenzio attentissimo. — Potrei venire con te.
— Solo se la tua bicicletta riesce a stare al passo con la mia macchina — rispose Leila, con crudeltà improvvisa.
— Leila. — Redpath abbassò ancora di più la voce. — Mi sta succedendo qualcosa.
— Non preoccuparti. È un fenomeno che si chiama pubertà.
— Vedo. — Redpath tentò inutilmente di trovare una risposta degna. — Se le cose stanno così…
Leila prese una penna e cominciò a tracciare punti su un foglio di carta millimetrata. Redpath aspettò un attimo prima di accettare l’invito a congedarsi, poi si tirò su e uscì dall’ufficio. Appena ebbe chiuso la porta, dentro scoppiò una cascata di risate. Si fermò in quell’oscurità verdastra, umiliato. Adesso Leila stava parlando di lui con una semplice collega di lavoro. Strinse le mani a pugno. Gli venne un’idea disperata: era molto facile mettere fine a quelle risate, a quei discorsi velenosi. Nella guerra dei sessi le donne avevano ottenuto la vittoria, ma proprio perché erano donne non avevano accettato il peso di qualcosa d’ingombrante come un codice d’onore. E se fosse stato “lui”, una volta tanto, a infrangere le regole della cavalleria? Le donne sanno di essere uguali agli uomini nei campi in cui per un filo non riescono a essere superiori; ma nessuna donna è brava a fare a pugni. Fare a pugni! Redpath abbassò gli occhi sull’arma complessa, pericolosa, che era attaccata all’estremità del suo braccio. Un ticchettio martellante gli risuonava in testa. Le risate di compatimento e le chiacchiere velenose si sarebbero interrotte subito, se lui avesse spalancato la porta dell’ufficio e avesse riempito Leila di pugni. Il primo pugno l’avrebbe fatta volare giù dalla poltrona, mandandola lunga distesa per terra; il secondo avrebbe distrutto quel sorriso arrogante al gin and tonic; il terzo avrebbe fatto nascere nei suoi occhi la paura, e paura significa rispetto…
L’ingresso principale dell’edificio si apri. Un fascio di luce penetrò fino nel corridoio sul retro dove era fermo Redpath, e lui si sentì osservato. Si avviò verso la porta, oltrepassò i due uomini che erano entrati, uscì nell’aria che sapeva di muffa.
Un jet volava alto nel sole. La sua scia bianca si allargava e si spezzettava in tante nuvolette ricurve. Redpath prese la bicicletta e la condusse a mano sulle pietre del sentiero. Quando raggiunse la strada asfaltata montò in sella, oltrepassò il cancello dell’istituto e girò verso il centro cittadino. A quell’ora il traffico era alquanto ridotto. Riuscì a viaggiare spedito, con la bicicletta che oscillava da una parte e dall’altra a ogni pedalata.
Era quasi arrivato al centro commerciale di Calbridge quando gli venne in mente che non aveva idea di dove stesse andando. Frenò di colpo, rischiando di essere travolto dal camioncino Ford sporco di fango che lo seguiva, e svoltò nel cortile sul davanti di un pub in stile Tudor. Un uomo corpulento stava aprendo il locale. Fece un breve cenno di saluto a Redpath, scrutò il cielo e tornò dentro, a cominciare il lavoro della giornata. Redpath scese dalla bicicletta, sedette sul muretto di mattoni che circondava il cortile e cercò di decidere cosa fare. Provava una sensazione stranamente simile a quella dell’unico giorno in cui aveva marinato la scuola: poteva andare dove più gli piaceva, ma gli sembrava che non ne valesse più la pena.
Il classico rifugio per un uomo nella sua situazione era la birreria, e l’interno in penombra del pub gli appariva invitante; ma lui non infrangeva mai la regola che dice che l’alcol non va d’accordo con l’epilessia. Già l’alcol di per sé poteva scatenare un attacco; l’ingestione di quantità notevoli di liquidi era un altro fattore potentissimo; e per finire c’era il rischio che le droghe anticonvulsive presenti nel suo corpo reagissero. Si era abituato a sopportare le restrizioni imposte dalla malattia. Si ripeteva sempre che se era ancora così magro e in buona forma era solo perché non poteva bere né guidare, ma quel mattino sarebbe stato bello, bellissimo, poter essere come tutti. Concluse che tutti, prima o poi, hanno bisogno di una valvola di sfogo, e si alzò in piedi. La sua valvola di sfogo sarebbe stata una giornata di aria fresca e solitudine al parco pubblico.
Dieci minuti dopo arrivò al Giardino Churchill di Calbridge, un rettangolo di verde di quaranta acri che esisteva solo perché durante la seconda guerra mondiale gli edifici che sorgevano nella zona erano stati abbondantemente bombardati. Le scuole non avevano ancora iniziato le vacanze estive, per cui il parco era tranquillo e quasi deserto. Redpath legò la catena della bicicletta a una ringhiera e si avviò verso il centro del parco, in cerca di un posto dove rilassarsi. Trovò una panchina davanti a un cespuglio di fiori disposti in ordine geometrico, e si sedette. D’improvviso si sentì stanco e deluso. Da quando si era alzato la vita lo aveva assalito in maniera alquanto dura, tanto da dargli l’impressione di essere un palo che due operai piantassero nel terreno a martellate; e adesso che era scesa la pace, la trovava estremamente irritante. Sembrava il preludio a disastri ancora maggiori.
“Pensa” si disse. “Fai progetti. Questo è il primo giorno della tua nuova vita.”
Però era difficile proiettare i pensieri nel futuro, quando il passato immediato e il presente erano così pieni di dolore e confusione. La domanda centrale era: cos’è andato storto? Tutto quello che gli era successo in mattinata sembrava derivare dall’apparizione di quell’orrore a casa sua, ma l’apparizione che origine aveva?
Due anni prima, disoccupato e senza la minima prospettiva di trovare un lavoro, si era offerto volontario per una serie di esperimenti sulla telepatia all’Istituto Jeavons. I suoi risultati con le carte Zener erano stati i migliori fra qualcosa come ottocento soggetti, e lui era stato felicissimo che Henry Nevison gli proponesse quello che sembrava il lavoro più facile di tutti i tempi. Gli avrebbero pagato un salario mensile solo per continuare gli esperimenti di telepatia qualche ora al giorno, cinque giorni la settimana. Un colpo di fortuna straordinario anche perché, per la prima volta in vita sua, un datore di lavoro non si lasciava impressionare dal fatto che lui soffrisse di epilessia.
Sua madre si era allarmata all’idea che i test prevedessero anche esperimenti con una nuova famiglia di droghe psicotropiche, di cui si volevano studiare gli effetti sulla telepatia, ma Redpath era riuscito a calmare le sue paure. Sua madre era una donna reticente per natura, che conduceva una vita da semireclusa per i sensi di colpa irrazionali scatenati dalla malattia del figlio; per lei era stato un sollievo enorme scoprire che Redpath poteva guadagnare soldi come un uomo “normale”. Lui era quasi certo che sua madre avesse raccontato agli amici che il figlio si dedicava alla ricerca medica, ma non aveva sollevato obiezioni. I suoi pensieri erano concentrati solo sul nuovo lavoro, sulla nuova missione della sua vita.
I primi tempi aveva continuato ad aspettarsi risultati sperimentali eccezionali; dopo qualche mese l’eccitazione era scomparsa, sostituita da un senso di noia. Venne stabilito senza ombra di dubbio che lui possedeva doti telepatiche latenti, ma in forma talmente ridotta che di solito i matematici dovevano fare calcoli complicati per operare una distinzione fra i suoi risultati e le probabilità statistiche. Poi era intervenuto il Composto Centoottantatré, portando cambiamenti graduali non solo nei risultati dei test, ma anche nella natura stessa delle sue esperienze soggettive. A volte, anziché dover cercare di visualizzare una carta aveva cominciato a “vederla”. Era una dote sporadica e per larga parte incontrollabile; però si era convinto che cominciassero a succedere cose significative e che a lui fosse stato riservato il privilegio (per usare una frase che Nevison ripeteva sempre) di estendere i limiti del sapere.
Le cose stavano a quel punto quando, meno di tre ore prima, si era alzato per affrontare quella che sembrava la mattina di un martedì perfettamente normale…
Redpath interruppe le sue meditazioni. Una donna sulla quarantina, mora, si avvicinava già da un po’, e adesso era venuta a sedersi al suo fianco. Lui provò subito una doppia sensazione di meraviglia. In primo luogo, si stupì che la sua mente, che sino a quel momento aveva vagato fra i terrori più oscuri e le macchinazioni del fato, fosse così pronta ad abbandonare pensieri così esotici e astratti per concentrarsi su questioni di etichetta; e anche il suo secondo motivo di meraviglia apparteneva a quello stesso piano concreto, circoscritto. Redpath era cresciuto nel Sud Haverside, e per quanto avesse cercato di liberarsi dal provincialismo, certe convenzioni sociali facevano parte della sua natura. Secondo il protocollo delle Quattro Città, una donna sola in un parco che volesse restarsene tranquilla avrebbe sempre scelto una panchina o un sedile vuoti, e se proprio fosse stata costretta a dividere la panchina con uno sconosciuto si sarebbe seduta lontano da lui.
In questo caso, non solo la donna aveva evitato numerose panchine vuote, ma si era accomodata a fianco di Redpath, così vicina che i loro gomiti quasi si toccavano. E a Calbridge, persino una prostituta (tranne forse le più audaci) sarebbe stata più contegnosa. Redpath lanciò un’occhiata alla donna, con un certo interesse. Aveva una faccia scura e graziosa, occhi neri dalle grandi palpebre, e labbra generose dipinte di viola. Redpath pensò che sembrava una regina degli zingari; una regina i cui sudditi dovevano aver subìto brutte vicende, a giudicare dall’espressione di tristezza rassegnata. Era stata quell’espressione, più di ogni altra cosa, a fargli pensare che lei fosse sulla quarantina, perché in realtà possedeva il corpo pieno, rigoglioso di una giovane donna quasi arrivata al punto di dover intraprendere una dieta. Portava una giacca di velluto blu, una maglietta cremisi, jeans scoloriti e sandali marroni sporchi di polvere.
— Muoio dalla voglia di fumare — gli disse lei, con aria indifferente. — Hai una sigaretta, tesoro?
Redpath, che si era quasi convinto che la donna fosse davvero di origini zingare, fu sorpreso dal suo accento, tipicamente locale. — Mi spiace, non fumo.
Lei lo guardò alzando le sopracciglia, gli sorrise come se lo avesse sentito confessare un’eccentricità vergognosa che era disposta a perdonargli. — Allora fumerò la mia. — Tirò fuori un pacchetto, prese l’ultima sigaretta che restava, appallottolò il pacchetto e lo lanciò in mezzo al sentiero.
— Potrebbero darti una multa di cento sterline — disse Redpath.
— Se qualcuno riuscisse a farmi sganciare cento sterline sarebbe proprio un tipo eccezionale, tesoro. — Accese la sigaretta con un accendino da due soldi e aspirò profondamente.
Redpath notò che le unghie delle sue dita erano sporche e che le aveva dipinte con uno smalto marrone, in stridente contrasto col rosso delle unghie dei piedi. Per uno scherzo della memoria, gli venne in mente un compagno di classe delle superiori che si era costruito la fama di libertino ripetendo periodicamente: — Io vado forte con le puttane. — Al tempo stesso, e la cosa fu più sorprendente, sentì una forte attrazione sessuale nei confronti della donna, che sembrava l’antitesi di Leila Mostyn sotto ogni punto di vista.
“Calma, John” pensò, preoccupato. “Tu non sei il tipo che passa da una donna all’altra. Hai sempre sostenuto di essere un uomo, non una pallina da ping pong. Ricordi?”
— Che c’è? Oggi non lavori? — chiese la donna. — Sei in ferie?
— No. Ho deciso di prendermi un giorno di vacanza.
— Senza problemi? È proprio vero che certa gente se la passa bene.
— Avevo bisogno di un po’ di riposo. — Redpath si chiese quanto sarebbe durata quella conversazione dall’andamento bizzarro.
La donna sospirò. — Un po’ di riposo servirebbe anche a me. Lavoro sette giorni la settimana.
— Oh! E cosa fai?
— Ho una pensione, ci crederesti? — Lei uscì in una risata depressa. — Tengo gente in casa.
— Ma guarda! lo sto proprio cercando un nuovo alloggio. — Le parole gli erano uscite di bocca prima che riuscisse a soppesarne le conseguenze. Redpath si fissò le mani con una sensazione di estremo nervosismo.
— Sul serio? Ho il posto che fa per te. Come ti chiami?
— John. — Resistette all’impulso infantile di darle un nome falso. — John Redpath.
— Io sono Betty York. — La donna gli mise una mano sul braccio. — Ho il posto che fa per te, John.
— Io… — Redpath cercò di costringere il cervello a mettersi in azione. Era perfettamente convinto che la pensione di Betty York non gli sarebbe piaciuta, ma gli era difficile trovare un modo cortese per respingere l’offerta. — Pensavo a un monolocale.
— Non fa per te, tesoro. Troppe spese, e… — Le dita gli strinsero il braccio. — Non ci sono tutti i comfort di una vera casa.
— Sono abituato a prendermi cura di me.
— Ah, ma non è la stessa cosa, non credi? — Lo sfiorò col fianco, per rendere più chiaro il messaggio.
Redpath si sentì eccitato. Aveva bisogno di una sosta, di una vacanza dall’oneroso compito di essere John Redpath; e aveva bisogno di vendicarsi di Leila. A quanto pareva, gli si offriva l’occasione di prendere due piccioni con una fava. Con Leila tutto, specialmente il sesso, doveva essere soffuso della luce bianca della razionalità, reso asettico, ripulito di quegli elementi che potevano far sorgere sentimenti antichi come la passione, la vergogna, la collera, il desiderio, la gelosia, l’odio, il disgusto, il senso del peccato: tutti quei sapori amari che potevano mutare il vino dell’amore in una birra scura e pericolosa, rendendolo infinitamente migliore. Immaginava già l’espressione di Leila se le avesse detto che preferiva stare con una donna come Betty York, che traeva piacere dalla sua rozzezza e dalle sue battute volgari, dalle sue unghie dipinte tanto volgarmente, dalla sua convinzione di lawrenciana memoria che il sesso è sporco, e per questo meraviglioso. Leila avrebbe mostrato ripugnanza, ma per lo meno lui avrebbe saputo che si trattava di una reazione scatenata da lui solo. Avrebbe saputo su quale terreno si stava muovendo. Non sarebbe più stato costretto a restarsene in disparte mentre lei, una notte alla settimana, trovava altri uomini ripugnanti…
— Per te ho una stanza grande e bella — disse Betty. — Ci puoi vivere per sole venti sterline la settimana, da signore, tutto compreso.
— Tutto? — Redpath fece la sua imitazione di Groucho Marx, soffocando una punta di tristezza.
— Maiale! — Lei si allontanò un poco, rassicurata di vederlo comportare secondo una linea perfettamente comprensibile.
“Perché mai non c’è qui Boswell a registrare questo dialogo per i posteri?” Redpath guardò in giro per il parco, combattendo la sensazione d’irrealtà. I suoi occhi si posarono sulle isole di cespugli, sulle giovani signore con carrozzine, sul perimetro di case più avanti. Poi il suo sguardo incontrò la figura di un uomo, fermo all’ombra di un cespuglio a una ventina di passi da loro, e lui rabbrividì. L’uomo, che indossava una tuta marrone, aveva spalle grandi e curve, e un mento mostruosamente sporgente. Guardava Redpath e Betty York con un sorriso fisso, avido, che lo faceva sembrare quasi subnormale.
— Non guardare subito, però vorrei la tua opinione — sussurrò Redpath, abbassando gli occhi. — Quello è Igor o Quasimodo?
Come succede spesso quando si dice a una persona di non guardarsi attorno, Betty girò immediatamente la testa. — Di chi stai parlando, tesoro?
Redpath guardò di nuovo, e fu sorpreso di scoprire che quell’uomo strano era scomparso. I cespugli non erano abbastanza fitti da poterlo nascondere; per cui dovette concludere che l’uomo, ansioso di non farsi vedere, era fuggito al riparo dietro un albero.
“Cristo, ma questo posto sarà sempre così? Forse mi conviene tornare con una cinepresa e girare dal vivo il film più bizzarro di tutti i tempi.”
— Credevo di aver visto un guardone — disse.
— Sarà la tua cattiva coscienza. — Betty esalò una boccata di fumo nella sua direzione. — Hai una cattiva coscienza, John?
— Non ancora, però la sto cercando.
Betty gettò la sigaretta fumata a metà con un’aria talmente decisa da farlo sussultare. — È meglio che tu venga a vedere la stanza. Prima di prendere una decisione, insomma. Che ne dici?
— E lontano?
— Non molto. Woodstock Road.
— Non è molto vicino — disse Redpath, in un ultimo sforzo di allontanarsi dall’orlo del precipizio. — Capisci…
— Ti do un passaggio io. Ci vorranno dieci minuti. Poi ti riporto in città. — Betty si alzò, puntando il petto verso di lui. Nell’insieme, fra i seni sporgenti, i pantaloni con la vita bassa, la cintura di pelle e le borchie di rame sembrava un cowboy da rodeo. I suoi capelli neri, ondulatissimi, erano ricchi di oli naturali e le arrivavano molto sotto le spalle.
Redpath sentì ritornare il desiderio nudo, istintivo, che aveva provato prima. “Roba da morirci” pensò, usando la terminologia che era in voga anni fa tra i suoi compagni di scuola. “Roba da uscire di testa. Ottima per dimenticare quel pezzo di ghiaccio di Leila e le facce scorticate.”
Si alzò in piedi, sorridente, deciso, e si avviò verso il cancello del parco con Betty. In lontananza passò un treno, lasciandosi dietro una nube di fumo bianco. Camminando, Redpath tracciò un elenco mentale delle tre possibilità relative a quella donna. Poteva darsi che fosse solo una prostituta, e che la storia della pensione fosse una precauzione a uso della polizia; poteva darsi che effettivamente avesse la pensione, che i suoi appetiti fossero molto sviluppati, che non avesse inibizioni e che seguisse la pratica di unire l’utile al dilettevole; e poteva anche darsi che possedesse la pensione e un marito di dimensioni gigantesche, ma che usasse metodi poco scrupolosi per attirare gli ospiti. Stava soppesando la terza possibilità (dopo tutto Betty aveva pronunciato frasi estremamente ambigue) quando raggiunsero una fila di auto parcheggiate.
Togliendo di tasca un mazzo di chiavi, Betty si fermò accanto a un camioncino Ford grigio, sporco di fango. — E aperta — gli disse, indicando la portiera di destra.
— Okay. — Chiedendosi perché mai il camioncino gli sembrasse familiare, Redpath aprì la portiera. Restò di stucco. L’uomo che aveva visto al parco, lo sconosciuto col mento enorme, gli sorrideva dal sedile passeggeri. Redpath restò in silenzio per un attimo, senza capire.
Betty spalancò l’altra portiera, vide l’uomo e si fermò. — Cosa ci fai qui? — chiese con una certa esasperazione, ma niente affatto sorpresa.
— Dammi un passaggio, Betty — rispose l’uomo. La sua voce era dolce, quasi melodiosa, in netto contrasto col suo aspetto stranissimo. — Dammi un passaggio fino a casa.
Lei si portò le mani ai fianchi. — Albert, mi hai seguita?
— No, Betty, giuro. Ho solo visto il tuo camioncino. — L’uomo fece un cenno vago con le sue mani enormi. — Voglio un passaggio fino a casa.
— Va bene, però devi metterti dietro.
— Sì, Betty, sì. — L’uomo indirizzò un sorriso di trionfo a Redpath e cominciò ad arrampicarsi sul sedile, fra le tenebre del vano posteriore. Si muoveva goffamente, impedito dalla mancanza di spazio e dalla tuta aderente. Da una tasca della tuta usciva, stranamente, un pacchetto di sigarette americane. Redpath distolse gli occhi dall’uomo, guardò verso il parco. Quel tipo, Albert, in effetti stava seguendo Betty, che forse era la sua padrona di casa; ma una sua caratteristica ancora ‘più notevole era che, nonostante il fisico tanto goffo, doveva essere riuscito a percorrere diverse centinaia di metri senza farsi vedere, e alla velocità di un atleta olimpionico. Tra la panchina su cui sedeva Redpath e il cancello si stendeva una zona di terreno allo scoperto, per cui Albert doveva aver fatto un giro piuttosto lungo, eppure era arrivato al camioncino prima di loro. Era davvero difficile capire come ci fosse riuscito.
— Sali, tesoro — disse Betty, e accese il motore.
Redpath fece una smorfia, poi salì e chiuse la portiera. Betty partì subito. Maneggiava il volante e il cambio con competenza assoluta. Redpath rimase in attesa, ma passarono diversi minuti e non successe niente. Allora intuì che lei non gli avrebbe presentato l’altro passeggero e non avrebbe spiegato la sua presenza. Albert si era sistemato sullo strato di sacchi di patate, giornali e brandelli di tappeto che ricoprivano il retro dell’automezzo, e sembrava contento di restarsene tranquillamente in silenzio.
“Un’altra luce che mi fruga la nuca. Nei patti non era previsto.”
Redpath si mise a fissare il panorama che aveva attorno e si ritirò nei propri pensieri. Visto che, per decisione cosciente, era passato da un gruppo di consumatori a un altro gruppo (processo che normalmente si chiama farsi strada, ovvero passare dalla classe operaia alla media borghesia), si reputava uomo di due mondi, ma si era scordato di certe cose. Una delle battute che ripeteva più spesso diceva che la differenza principale tra la classe operaia e la media borghesia consiste nel fatto che gli operai non si sentono obbligati a rispondere alle lettere; ma adesso gli veniva in mente un’altra caratteristica più saliente. Nella sua infanzia, e nei primi anni di gioventù, non aveva mai assistito a una presentazione fra due persone. Lui stesso, a quindici anni, aveva incontrato una ragazza, era uscito tre volte con lei spassandosela per bene, e l’aveva lasciata senza nemmeno sapere come si chiamasse. Riflettendoci, gli sembrava che solo nelle classi “alte” la gente si sentisse a disagio in presenza di qualcuno che non fosse stato presentato e chiaramente identificato, forse perché le classi alte avevano più da perdere, e ogni sconosciuto costituiva una minaccia potenziale…
“Impossibile. Io non ho un accidente di niente da perdere, eppure non mi va di stare chiuso in uno scatolone di latta con qualcuno che non conosco. Specialmente se sembra uscito da un telefilm della famiglia Addams. È ora di tagliare la corda, vecchio mio.”
Il camioncino raggiunse Woodstock Road, un canyon di vecchi edifici di mattoni rossi, molti dei quali, specialmente agli incroci, erano stati trasformati in botteghe e filiali di banche o di compagnie d’assicurazione. Poco dopo, svoltando prima a sinistra e poi a destra in strade ancora più strette, Betty York fermò il camioncino davanti a una casa alta, vicina a una fila di costruzioni vittoriane. L’edificio apparteneva alla vasta e intramontabile famiglia di case che nel secolo passato si stendevano da un capo all’altro dell’Inghilterra. Costruite secondo criteri migliori, da parecchi punti di vista, di quelli dell’edilizia moderna, praticamente identiche come dimensioni e disposizione generale, abbondantemente diffuse in ogni paese e città, quelle case servivano soprattutto a ospitare studenti, giovani coppie e persone anziane; callisti, massaggiatori, architetti alle prime armi, agenzie pubblicitarie di dimensioni modeste, istituti di carità non troppo ricchi; servivano da sfondo suggestivo agli scandali più sordidi e ai delitti più sensazionali. Ed erano il tipo di casa che Redpath aveva sempre odiato.
Scese dal camioncino, si fermò sul marciapiede. Scrutò la porta marrone scuro e le finestre, il numero 131 scolpito sulla traversa, il muschio che si insinuava fra i mattoni, il fazzoletto di giardino col terreno nero ma sterile e i ciuffi d’erba rada. Albert gli passò di fianco strascicando gli stivali, scomparve in casa lasciando aperta la porta. Redpath guardò la facciata ed ebbe uno strano brivido, un tocco gelido alla nuca, quando si accorse che la porta interna, appena intravista, aveva al centro dei pannelli di vetro un grande giglio color ambra.
“Quando entrerò,” pensò, “sulla mia destra ci sarà una scalinata, e in cima alla scalinata ci sarà un lungo pianerottolo che arriva fin sul dietro della casa, con una finestra all’estremità, e su quella finestra ci sarà un altro giglio identico a questo.”
— È un posto molto carino — disse Betty, apparsa al suo fianco. — Carino e tranquillo. Nessuno ti disturberà.
Redpath guardò oltre la sua testa. Vide l’insegna in ferro battuto, vecchia ma non antica, appesa all’ultima casa della fila. L’insegna diceva: “Raby Street”. Il nome non gli diceva niente; eppure la visione dell’interno della casa aveva qualcosa di molto particolare, forse era più intensa del solito, tanto che gli sembrava di riconoscerla, non di vederla o intuirla per la prima volta.
“Eppure, questa non è la mia zona. Non sono mai stato qui. Dev’essere ancora colpa di quella porcheria che Nevison e i suoi scagnozzi mi hanno iniettato…”
Betty lo prese per il braccio, e per un attimo lo sfiorò il calore morbido del suo seno. — Ti faccio vedere la stanza, tesoro. È sul retro, dove c’è più sole.
Redpath si lasciò spingere avanti come un bambino trascinato a scuola il primo giorno. Betty gli aprì la porta interna, e lui si trovò nell’atrio. La scalinata alla sua destra terminava su un lungo pianerottolo, e all’estremità del pianerottolo c’era una finestra con un giglio istoriato sui vetri. I raggi di luce che entravano dalla finestra sottolineavano l’oscurità del resto della casa. Quando gli giunse alle narici il profumo di chiodi di garofano, Redpath rovesciò la testa all’indietro, allarmato. L’aroma intenso svanì in un secondo e lui capì che si era trattato di una sensazione sinestetica, di un’impressione falsa scatenata dal fatto che la finestra fosse esattamente come aveva previsto. Rabbrividì. All’improvviso pensò che quello fosse un avvertimento.
— Di qui, tesoro. — Betty gli fece strada su per le scale. A ogni passo, il suo sedere e le sue cosce ondeggiavano, come animati di vita propria. Lui la seguì, aspettandosi di veder comparire Albert da un momento all’altro, magari con la faccia sorridente affacciata a una porta; ma la casa pareva aver assorbito in sé quello strano individuo. L’unico rumore che si udiva erano i loro passi sulla stuoia sottile che ricopriva la seconda serie di scalini. Sul pianerottolo al piano di sopra si aprivano due porte, tutte e due stranamente dipinte di rosa.
“Forse in un posto come questo sono cresciuti dei bambini. Dio li aiuti.”
Betty aprì la porta più vicina al retro della casa, entrò in una camera da letto quadrata, alquanto grande. Sul pavimento era steso un linoleum rosa, sfigurato da linee marroni, parallele, che seguivano l’andamento delle assi sottostanti. Redpath avanzò nella stanza e vide che conteneva un letto matrimoniale, un armadio, due cassettoni e un comodino, tutti di foggia antiquata, diversi fra loro anche nella qualità del legno. Dal centro del soffitto pendeva un lampadario, storto a causa del filo che lo collegava a una seconda luce sistemata sulla parete a ridosso del letto.
— Non sarà il palazzo reale — commentò Betty — però qui starai comodissimo, John. Il bagno è ai piedi delle scale.
“Vuole affittarmi la stanza sul serio” pensò Redpath, avvicinandosi alla finestra. “E adesso come me la cavo?”
Sotto la finestra c’era il tetto grigio del primo piano, e ancora più in basso un cortile interno con tettoie di mattoni e un’asciugatrice vecchio stile a fianco di due pattumiere. Oltre il muro che cingeva il cortile c’era un’altra fila di case a due piani, però la visibilità non ne risentiva perché, sulla sua sinistra, due delle case erano crollate, forse travolte in tempo di guerra dai bombardamenti. Attraverso quell’apertura Redpath scorgeva le ciminiere, le gru, le torri e gli alberi di Calbridge, vicini come in un quadro, splendidamente normali. Provò il desiderio fortissimo di essere là fuori, di fare cose normali come sedersi al bar o farsi tagliare i capelli o riportare un libro in biblioteca. Udì uno scricchiolio alle sue spalle, si girò. Betty si era seduta sull’orlo del letto.
— Materasso morbido — gli disse, fissando gli occhi nei suoi con espressione solenne. — Mi piacciono i materassi morbidi.
Redpath attraversò la stanza, le si fermò davanti, le mise le mani sulle spalle. Si sentiva febbricitante, malato. Lei cercò di rovesciarsi sul letto e di trascinare Redpath sopra di sé, ma lui strinse le dita sulle sue spalle e fece forza, costringendola a restare seduta.
— Allora è così, eh? — disse Betty, alzando gli occhi sulla cintura di Redpath che era allo stesso livello della sua faccia. Poi mise le mani sulla fibbia della cintura e cominciò a slacciarla.
Redpath restò immobile per un attimo. Il suo corpo era una colonna di sangue pulsante. Poi si liberò dalle mani di Betty e corse fuori dalla stanza, attraversò l’oscurità della casa con le gambe che tremavano, e fuggì come se stesse vivendo un incubo. Rallentò solo quando arrivò all’aperto, nella luminosità arancione della strada. Giunse all’angolo, svoltò nella strada che incrociava Raby Street senza mai guardare indietro, ansioso di interrompere il contatto visivo con la casa. Ma se la sentiva addosso, appiccicosa come una matassa di fili di ragnatela.
“Ti serva di lezione.” Redpath camminò per più di un chilometro e mezzo continuando a ripetere fra sé la stessa frase, facendone una specie di canto silenzioso. Più si allontanava dalla casa di Raby Street, più rallentava il passo. “Ti serva di lezione.” Tremante di sollievo, cominciò a guardare le vetrine dei negozi, a trovare interessanti cose di cui non si era mai occupato: i diversi modelli di radio a transistor, i prezzi della tappezzeria, le capacità cubiche dei frigoriferi. “Ti serva di lezione.”
Trascorse una mezz’ora prima che lui riuscisse a mettere a fuoco la morale degli ultimi avvenimenti, ed era una morale che riguardava Leila. Adesso capiva perfettamente che la amava, che l’ammirava e che aveva bisogno di lei; che litigare con Leila era stato un atto di stupidità monumentale; che la cosa più urgente in assoluto era trovare il modo di ristabilire la relazione. Scrutò intensamente la vetrina di una panetteria, quasi a cercare un significato nella disposizione di torte e biscotti, e decise che affrontare Leila nel suo ambiente era una necessità tattica. Aveva già avuto la dimostrazione di quanto fosse inutile cercare di parlarle in ufficio.
“Ha fatto male a ridere di me. Molto male. Forse devo insegnarle la lezione. Insomma, io sono sempre stato favorevole al movimento di liberazione femminile, ma a volte liberarsi significa castrare qualcun altro. C’è di che riflettere…”
Redpath guardò l’orologio. Se andava subito al parco a recuperare la bicicletta, poteva arrivare all’appartamento di Leila a Leicester Road prima di lei. Aveva detto che faceva un salto a casa solo per prendere delle carte; ma lui sarebbe riuscito a convincerla a preparare il caffè, e con un po’ di tempo a disposizione, nella calma assoluta del suo appartamento, avrebbe chiarito le cose. Avrebbe fatto tutto il possibile per convincerla che sarebbe stato lieto di tornare alle vecchie abitudini, che non si sarebbe mai più dimostrato geloso o possessivo.
“Ma è vero, John? È proprio vero? Se tu riesci a rifiutare altre donne, perché lei non deve rifiutare altri uomini? Perché non deve imparare la lezione come l’hai imparata tu?”
Quando Redpath tornò a prendere la bicicletta, la scarsa popolazione del Giardino Churchill era mutata. Le giovani signore con carrozzelle e bambini erano state sostituite dagli operai delle acciaierie e delle fabbriche vicine. Nell’aria c’era il profumo di cibi caldi e d’aceto, e Redpath ricordò di avere fame. Trovò la bicicletta, si chinò a slacciare la catena e s’immobilizzò in quella posizione, fissando il lucchetto. I quattro numeri della combinazione che usava praticamente tutti i giorni, da anni, erano svaniti dalla sua memoria.
— È stupido — disse ad alta voce. — Conosco quei numeri. — Scrutò il lucchetto a occhi socchiusi, sforzandosi di ricordare; poi le sue dita si mossero, quasi da sole, a formare la combinazione 1-2-1-6. Non era per niente certo che fosse la sequenza esatta di numeri. Provò a tirare il lucchetto, che si aprì. Montò in sella, stranamente avvilito, e si mise a pedalare verso Leicester Road.
L’appartamento di Leila Mostyn si trovava al secondo piano di una casa situata a discreta distanza dalla strada. La piacevole architettura dell’edificio era parzialmente sfigurata dall’aggiunta recente di scalini di cemento, e quasi tutto il giardino sul davanti aveva lasciato posto a un parcheggio; però la casa aveva ancora un’aria di dolce isolamento. La prima volta che l’aveva vista, si era reso conto che corrispondeva perfettamente ai suoi preconcetti sul tipo di casa in cui Leila avrebbe accettato di vivere.
Oltrepassò il cancello, smontò all’ombra degli olmi superstiti, pensando con nostalgia ai primi giorni, a quel periodo troppo breve di intesa con Leila. La sua mini color rosso ciliegia era parcheggiata al solito posto, il che significava che Leila era ripartita dall’istituto prima di quanto lui avesse previsto. Tanto meglio: sarebbe stato più facile convincerla a lasciarlo entrare, se le si presentava davanti all’improvviso. Appoggiò la bicicletta a un albero, si girò verso la casa, e restò come paralizzato. La sua mente aveva registrato la presenza di una Triumph sportiva verde a fianco della mini di Leila. A Redpath le macchine non interessavano molto; per esempio, non guardava mai le targhe. Però sapeva che ogni auto assorbe dal proprietario una specie di pseudo-identità, e in questo caso c’era qualcosa di familiare nella posizione del bollo, nei segni di sporcizia che la pioggia aveva tracciato sul parabrezza e sulla carrozzeria. Si avvicinò alla macchina, guardò dentro, e vide sul sedile una cartelletta rosa contrassegnata dal marchio dell’Istituto Jeavons.
Henry Nevison!
Redpath tornò alla bicicletta e restò un attimo incerto, il palmo di una mano premuto sulla fronte. Le pietre a terra sembravano ondulare dolcemente, come se le stesse guardando attraverso alcuni centimetri di acqua chiara.
“Non significa niente. Soprattutto non significa che Leila ed Henry stiano… Insomma, Leila doveva tornare a casa a prendere alcune carte. Giusto? Carte urgenti. Carte che avrebbe dovuto portare all’istituto stamattina, perché Henry ne ha bisogno. Con ogni probabilità oggi lui ha una riunione da qualche parte, ed ecco spiegato il motivo per cui è venuto qui con lei, anziché aspettare che Leila gli portasse tutto nel pomeriggio. È perfettamente normale e ragionevole e innocente.”
“Ma chi vuoi prendere in giro, povero amico mio? E chi ha bisogno d’imparare la lezione?”
Redpath portò la bicicletta sul retro della casa, l’appoggiò a un capannone usato per riporre gli arnesi da giardino. Si inginocchiò e cominciò ad armeggiare col freno posteriore: dalla casa non potevano vederlo, e aveva anche una scusa se si fosse fatto vivo qualcuno. Comunque c’erano poche probabilità che lo scoprissero, perché a quell’ora la casa era praticamente deserta e il retro era ben nascosto da siepi e arbusti. Il rischio maggiore, per lui, era di trovarsi in una zona in ombra, con un notevole calo dell’intensità luminosa e una visuale limitata. In condizioni simili, il rischio di subire un attacco era forte; e probabilmente anche lo stare inginocchiato, posizione che creava scompensi di pressione, era pericoloso. La giornata aveva preso quella piega spaventosa proprio quando lui si era chinato a raccogliere la posta; e adesso non se la sentiva di avere altre visioni, fossero o non fossero telepatiche. Avrebbe fatto volentieri a meno di facce scorticate e di masse di sangue semi-coagulato. Soprattutto, non voleva vedere Henry attraverso gli occhi di Leila, o Leila attraverso gli occhi di Henry, se quei due stavano facendo quello che lui pensava, nella quiete immobile, atemporale, della camera da letto di Leila.
Redpath si guardò le mani, cercando di decidere se tremavano davvero o se gli ballavano gli occhi.
“Non mi piace questo effetto di ondulazione. Sembra tutto irreale, sembra di vedere solo immagini proiettate su uno schermo. Certo, è l’unico contatto che abbiamo col mondo esterno: due minuscole immagini proiettate su due minuscoli schermi dietro gli occhi. Chissà cosa si prova quando si staccano le retine, quando si arrotolano in su e anche il mondo si arrotola e scompare. ‘Chiediamo scusa’ ti dicono dalla sala di proiezione. ‘Interruzione tecnica. Lo spettacolo è terminato.’ Roba da morire…”
Il rombo del motore della Triumph si unì al battito del sangue che martellava nelle orecchie di Redpath. Alzò gli occhi e vide la macchina sportiva che si immetteva in Leicester Road, in un alone accecante di luce solare riflessa dai finestrini laterali. Nella sua testa restarono a danzare cerchi di fuoco viola.
Redpath si alzò, corse all’ingresso sul retro che immetteva in casa. Divorò gli scalini, che giravano sotto i suoi occhi come uno stroboscopio impazzito. Non c’era tempo da perdere. Doveva suonare subito alla porta di Leila, in modo che lei pensasse che Nevison era tornato e gli aprisse senza essere preparata mentalmente o fisicamente. “Così scoprirò la verità.” Arrivò al pianerottolo del secondo piano, alla porta verde oliva, e suonò. Non ebbe risposta. Cominciò a dondolarsi prima su un piede, poi sull’altro. Passava troppo tempo, si perdeva l’elemento sorpresa.
La chiave! Dov’era la chiave di cui Leila non gli aveva mai detto niente, la chiave che riponeva sempre senza farsi vedere da lui? Non sotto lo zerbino: troppo ovvio. Redpath alzò il vaso da fiori in plastica, ma sulla mensola non c’era niente. Stava per rimettere giù il vaso quando gli venne un’altra idea. Guardò sotto il vaso. La chiave era lì, tenuta ferma da un pezzetto di scotch. “Accidenti se è furba!” Prese la chiave, l’infilò nella serratura, e un attimo dopo era nel breve corridoio che si apriva su tutte le stanze dell’appartamento. Il suo respiro era affannoso, sibilante.
Leila apparve dalla cucina. Aveva in mano un bicchiere di latte ed era nuda, a parte un paio di pantofole e un triangolo di nylon bianco sul ventre. Spalancò occhi e bocca (due cerchi bianchi di paura, un cerchio rosa di colpa) appena vide Redpath.
— John! — Cercò di coprirsi il seno. — Cosa fai? Non hai il diritto!
Redpath le si avvicinò. — Non ne ho il diritto? Avrò almeno gli stessi diritti di Henry. Quindi tu devi essere giusta, devi fare parti uguali. E così che si comporta una donna liberata, no?
— Esci subito di qui.
— Inutile, Leila.
— Vuoi che chiami la polizia?
— Hanno diritto a qualcosina anche loro?
— Pazzo! Sei così… — Leila indietreggiò, poi improvvisamente si voltò e corse in cucina. Gettò il bicchiere di latte nel lavandino, rompendolo.
Redpath la seguì. Arrivò in tempo per vederla scomparire oltre la porta che dava in soggiorno. Il telefono suonò lievemente quando lei alzò la cornetta. Redpath trovò un coltello da cucina col manico di palissandro, lo prese. La lama scintillava gloriosamente.
Il coltello della liberazione!
“Se vuoi essere liberata, cara, ti libererò. Hai scelto l’uomo giusto.”
Balzò in soggiorno. Si muoveva così in fretta, così agilmente, che gli sembrava di volare. Leila era al telefono, girata di schiena. La sua schiena era morbida, liscia, immacolata, bella in modo quasi doloroso. Redpath la trafisse col coltello, in basso, a destra della spina dorsale. La forza della sua spinta mandò Leda a precipitare sul divano. Gemette raucamente, e il telefono le sfuggì di mano. Si voltò, lo guardò, tentò di spingerlo via, ma lui continuò a colpirla con furia mortale, alzando e abbassando il coltello all’infinito. Poco per volta, l’espressione offesa dei suoi occhi si mutò in sorpresa; e poi lei non fu più Leila, diventò una bambola a grandezza naturale che fissava il soffitto con uno sguardo vitreo, preoccupato.
“Ecco fatto! Adesso sai cosa significa essere liberata. Spero che tu abbia imparato la lezione, ragazza mia.”
Redpath si alzò, trionfante, si allontanò dal divano. Il telefono faceva le fusa sul pavimento.
“Devo trovare un posto più sicuro.”
Guardò quelle due cose oscene, scarlatte, che erano le sue mani, e sentì nascere una fretta gelida. Muovendosi con lentezza estrema, tornò in cucina e cominciò a lavarsi le mani. L’acqua fredda gli causò una fitta improvvisa alla sinistra, e scoprì di essersi ferito. Sul pollice aveva un profondo taglio diagonale da cui il sangue usciva di continuo, più in fretta di quanto riuscisse a lavarlo. Strappò un foglio di carta dal distributore appeso alla parete, tamponò la ferita al pollice e corse all’ingresso. La porta era ancora leggermente aperta. Guardò fuori, scrutò il mondo con gli occhi di uno sconosciuto, si assicurò che non ci fosse nessuno sulle scale o sul retro della casa. Nel giro di un minuto aveva recuperato la bicicletta e pedalava verso il centro di Calbridge, sicuro, tranquillo. Il sole gli scaldava la schiena.
Il ritorno alla normalità fu come il cozzo contro una barriera invisibile.
Frenò di colpo. La bicicletta si impennò, e lui si trovò sbalzato sul manubrio. Sentì un colpo al petto. Precipitò sulla ruota anteriore e si trovò a fissare il mosaico grigio della strada. La sua faccia si contorse, diventò una maschera di orrore e d’incredulità. Un filo sottile di saliva uscì dalla sua bocca spalancata.
“Cos’hai fatto?”
“Cos’hai fatto?”
— Problemi, signore? — La voce del giovane poliziotto sembrava molto cordiale; però i suoi occhi scrutavano Redpath con freddo interesse professionale. La sua faccia era rosea e decisa, rasata alla perfezione; la faccia di un uomo che non si sarebbe cacciato da solo nei guai, ma che non si sarebbe mosso di un millimetro per evitarli.
— Cosa? — Redpath spostò lo sguardo dal poliziotto alla macchina di pattuglia, arrivata senza che lui se ne accorgesse.
— Vi ho chiesto se avete problemi. State bene?
— Sto… Sto benissimo. — Redpath si tirò su, si pulì le labbra e tentò di sorridere. — Non è niente.
— Siete caduto dalla bicicletta?
— Un piccolo incidente, ma va tutto bene.
— Vi siete ferito alla mano. — Ora la voce del poliziotto era meno comprensiva, e i suoi occhi erano irrequieti. — C’è del sangue anche sul giubbotto.
— Lo so, ma è solo…
— Dovete andare lontano, signore?
— Non molto. Bingham Terrace.
“Una mossa maledettamente astuta” pensò Redpath, sconvolto. “Voleva sapere dove abito senza chiedermelo direttamente, e io gli ho risposto come un cretino.” — È in Disley High Street — disse.
— Lo so dov’è, signore. I: dall’altra parte della città.
— Sì, però Calbridge è piccola, no? Non è mica come attraversare Londra o Los Angeles.
Il poliziotto non sembrava divertito. — Quando fa così caldo, a girare in bicicletta viene sete.
— Io non bevo. — Redpath si accorse che il poliziotto non era soddisfatto, che si agitava troppo, e capì che era il momento di giocare il vecchio asso nella manica. — Sono epilettico. Non posso proprio ubriacarmi. — I muscoli di quella faccia gelida si tesero leggermente, e negli occhi del poliziotto balenarono paure antiche.
— Non me n’ero accorto, signore.
Redpath gli mostrò il braccialetto di Allarme Medico come se si trattasse di un attestato d’autorità. — Ci si abitua a vivere anche da epilettici.
— Adesso come state?
— Oh, bene. Non ho avuto un attacco, non preoccupatevi.
— Allora potete tornare a casa da solo. — Il sollievo del poliziotto era evidentissimo. — Cioè, potremmo darvi un passaggio se…
— No, sto bene. Sul serio. — Redpath gli indirizzò un sorriso tranquillizzante. Il poliziotto tornò in macchina. Lui spostò la bicicletta e rimase immobile finché non vide ripartire l’auto; poi si accorse di avere le gambe bagnate, e si vergognò immensamente. A fianco del suo piede destro s’era formata una minuscola pozzanghera di urina. La guardò, e i suoi occhi si riempirono di lacrime.
“Lo sapevo che stavo diventando maniaco. Sono un maledetto maniaco omicida. E adesso che ne sarà di me?”
Una parte della sua mente, la parte che restava sempre staccata dai problemi di coscienza, gli disse che tra poco avrebbero scoperto il cadavere di Leila, e che lui sarebbe stato l’indiziato numero uno. Marge Rawlings sarebbe stata ben felice di raccontare che lui sapeva che Leila doveva rientrare a casa all’ora di pranzo, e che era roso dalla gelosia; ma probabilmente la testimonianza di Marge sarebbe stata superflua. L’arma del delitto era piena delle sue impronte, e per di più si era fatto notare da quel poliziotto all’ora esatta e nel posto migliore per metterlo in relazione col delitto. A meno di invitare un po’ di gente ad assistere all’omicidio, era impossibile fornire prove migliori alla polizia. Tenuto conto del tempo che avrebbe impiegato, forse non era nemmeno prudente tornare a casa per cambiarsi d’abito…
“Devo trovare un posto più sicuro!”
Distrutto, stordito, confuso, spinto dal desiderio istintivo di trovare un rifugio, Redpath montò in sella e ricominciò a pedalare. Si rese conto solo vagamente di essere diretto verso la casa di Raby Street.
Gli venne ad aprire un uomo lustro, grasso, ben pasciuto, che lo guardò senza nascondere la sua gioia. — Ve l’avevo detto che era lui — urlò l’uomo girando la testa, facendo rimbombare la voce nell’interno della casa. — Non ve l’avevo detto? — L’unica risposta immediata fu il lieve sbattere di una porta interna.
— Chiedo scusa — disse Redpath, colto alla sprovvista. — C’è… C’è Betty?
— Certo, amico, certo — gli rispose il grassone, con un accento fasullo da cowboy dello schermo. — Per di qua. — Si tirò da parte per lasciare entrare Redpath, poi chiuse la porta esterna. L’illuminazione dell’ambiente si ridusse a un chiarore biancastro che filtrava dall’esterno. Il giglio sui vetri della porta sembrava diventare più scuro. Guardando quel disegno, Redpath sentì di nuovo il profumo di chiodi di garofano che non esisteva.
— Ah… — Tentò disperatamente di dire qualcosa, e uscì nella più classica delle banalità: — Bella giornata.
— Sono Wilbur Tennent — disse il grassone. Adesso gli sorrideva e non usava più l’accento da cowboy. Possedeva quei tratti piacevoli, regolari, che spesso derivano dall’obesità. I suoi denti erano piccoli e regolari. I capelli brizzolati ben tagliati, il vestito grigio e le guance piene gli davano l’aspetto di un allibratore di successo. A Redpath sembrava che la sua presenza stonasse in quella casa semi-buia.
— Immagino che Betty ti abbia raccontato tutto di me — aggiunse Tennent. — Di solito non accetto clienti nuovi, ho già un sacco di gente che aspetta da anni, sai com’è, ma nel tuo caso devo proprio fare un’eccezione, John. Dopo tutto stai per diventare un membro della famiglia, per così dire.
— Davvero? — Redpath guardò i polsini della camicia dell’altro, immacolati, coi gemelli d’oro, e si sentì improvvisamente inquieto. I suoi vestiti erano sporchi, forse puzzavano. “Ma cosa diavolo succede, qui? Come fa a sapere che entrerò a far parte della famiglia? E che razza di famiglia può desiderare uno come me?”
— Ho un cavallo sicuro al cento per cento nell’ultima corsa di Aintree, e ti cedo l’informazione per dieci sterline — disse Tennent, sorridendogli con un’aria di amicizia sconfinata. — Che te ne pare?
Redpath scosse la testa. Cominciava a capire. — Non ho soldi.
Il sorriso di Tennent era imperturbabile. — Facciamo così, John. Io scommetto i soldi per conto tuo e poi dividiamo la vincita a metà. Naturalmente mi riprenderò le dieci sterline. Tanto per darti il via. Mi sembra una buona proposta, no?
— Io non gioco.
— Ma questo non è giocare, John. Si tratta solo di spillare un po’ di soldi agli allibratori, di fargli sganciare qualcosa per una buona causa. Allora, dieci sterline su Swordsmith, d’accordo?
— Senti, ti ho già detto… — Redpath s’interruppe a metà della frase, irritato, improvvisamente conscio della mostruosa ingiustizia di quello che gli stava succedendo. Aveva un bisogno estremo di prendere fiato, di nascondersi anche solo per un giorno o due, di pensare e di venire a patti con se stesso. Un omicidio non è una sciocchezza, e un omicida, perdio, ha diritto a un po’ di solitudine, di riflessione, senza essere disturbato dal primo cretino che passa. Redpath soffocò il desiderio di scappare, alzò gli occhi sulle scale e vide due donne che lo scrutavano dal pianerottolo.
Una era Betty York, vestita esattamente come quando si erano incontrati al parco, con la giacca di velluto e i jeans stinti. L’altra, per quanto non la vedesse molto bene, era una vecchietta molto alta e curva, col vestito lungo fino alle caviglie. I suoi capelli bianchi erano raccolti a crocchia. Aveva un paio di occhiali senza montatura, assicurati al collo da un nastro di stoffa nera. Dava l’idea di essere una donna fragile, dolce; eppure nel suo aspetto c’era qualcosa di sottilmente sbagliato, qualcosa che Redpath. per quanto confuso, trovò pauroso.
“Non può essere un uomo travestito. Non può essere Anthony Perkins che si prepara a uccidere Janet Leight. Sarebbe troppo, persino in questa casa balorda.”
— Ma guarda chi c’è — disse Betty York, scendendo verso di lui. — Sei andato a fare le valigie, tesoro? — Nel suo comportamento non c’era proprio niente che lasciasse intendere che fra di loro, di sopra, era successo qualcosa di strano. Redpath ne fu profondamente sollevato.
— Non ho valigie — mormorò. — Ho solo la bicicletta.
— Dirò ad Albert di sistemarla sul retro della casa.
— Grazie.
— Sei arrivato al momento giusto, sai. — Betty lo prese per il gomito, lo trascinò su per le scale. — Una stanza così carina, in una zona come questa, va a ruba. Se avessi messo un annuncio sul giornale l’avrei già affittata una decina di volte. E a un prezzo molto alto.
“Soldi” pensò Redpath. “La gente usa ancora quei pezzi di carta che si chiamano soldi.”
— Volevo proprio parlare dell’affitto — disse. — Temo di non avere…
— Non preoccuparti per l’affitto, figliolo. — Tennent gli rivolse un cenno d’intesa, una strizzatina d’occhi incredibilmente lenta. — Il tuo affitto lo pago io. Domani avrai tutti i soldi che vuoi.
— Lascialo in pace — disse Betty. — Non gli interessano i tuoi sistemi per arricchire in fretta. Vieni, John.
Redpath annuì, remissivo. “Ha cambiato ruolo. Non è più l’adescatrice, è la chioccia. Cos’è successo?” Seguì Betty su per le scale, arrivò al pianerottolo, fece in tempo a vedere la vecchietta che scompariva nella prima camera da letto a destra. La vecchietta non chiuse la porta. Restò a guardare Redpath che passava, con la faccia incartapecorita coperta di cipria che spuntava da dietro il battente.
— La signorina Connie — disse Betty, sottovoce. — Non farle caso.
Redpath, che stava tentando di distogliere lo sguardo dalla signorina Connie, lanciò una occhiata involontaria nella sua direzione. La stanza della vecchietta era coloratissima, un insieme di rettangoli dai colori abbaglianti e di scintillii metallici. La scena scomparve prima che lui avesse il tempo di interpretarla; ma quando cominciò a salire la seconda rampa di scalini capì che la stanza della signorina Connie era piena zeppa di cibi in scatola, in quantità sufficiente a riempire un negozio di dimensioni modeste. Sul letto c’erano dei cartoni vuoti, e l’aria lì attorno aveva gli stessi odori di un negozio d’alimentari: pancetta, caffè, arance, detersivi.
“Forse è un negozio sul serio. Ricordi la signora Crangle, che aveva messo un bancone in soggiorno e vendeva mele cotte? E Gus Minihan, che aveva cercato di trasformare il suo garage in una birreria? Però la signorina Connie dovrebbe mettersi a vendere al pianterreno…”
— Eccoci qua, tesoro. — Betty si fermò davanti alla porta della camera da letto, si voltò a guardare Redpath. Le scale le avevano messo il fiatone. I suoi seni abbondanti si alzavano e si abbassavano sotto la camicetta. Redpath notò il fenomeno con distacco assoluto, protese le dita verso la maniglia, ansioso di entrare in camera e chiudere la porta a chiave e restare solo con se stesso.
Betty gli guardò la mano. — Ti sei tagliato?
— Non è niente. Un pezzo di vetro.
— Mi faccio dare un cerotto dalla signorina Connie.
— No, non preoccuparti. Sono solo un po’ stanco, è tutto. Vorrei riposare. — Redpath entrò nella stanza. Era un sollievo che Betty non cercasse di seguirlo. — Se riesco a dormire per un paio d’ore, poi possiamo parlare dell’affitto e di tutto il resto. Okay?
Betty annuì, gli rivolse un sorriso comprensivo. — Sei nei guai, tesoro?
— Perché me lo chiedi? — Redpath cercò di mostrarsi indignato.
— Qui sarai al sicuro, tesoro. Qui nessuno può trovarti.
— Grazie. — Redpath chiuse la porta. Assalito dal panico, cominciò a dondolare la testa. “È incredibile, maledizione. Va bene che a volte le padrone di casa esagerano, ma questo è un po’ troppo. Perché mi ha detto che qui sono al sicuro? Che razza di posto è questo? Cosa ci faccio qui?”
Scrutò la stanza, studiò il linoleum sporco, i mobili tutti diversi, le due luci; poi si avvicinò alla finestra. Fuori, l’unica cosa diversa era l’angolazione delle ombre. C’era sempre quell’interruzione nella fila di case che gli lasciava vedere Calbridge, e, come già era successo prima, lui pensò che il panorama della città fosse meravigliosamente attraente; però adesso tutte quelle cose, tutta quella normalità, erano lontanissime, irraggiungibili. Impossibile sedersi al tavolino di un bar, sfogliare i settimanali spiegazzati del barbiere, riportare un libro in quel santuario di quiete che era la biblioteca pubblica…
Si aggrappò alla traversa centrale della finestra e spinse con tutta la sua forza, quasi sperando che il legno cedesse. La finestra tremò leggermente. Un pezzetto di carta, che forse serviva a impedire le vibrazioni, cadde da un cardine. Lo raccolse soprappensiero, lo srotolò. Sul foglio era stampata un’intestazione: Commodore Hotel, Hastings, Sussex. Automaticamente, i suoi occhi lessero le parole scritte con un pennarello verde.
“La cheratina è una proteina fibrosa che contiene quantità notevoli di zolfo. È presente nell’epidermide dei vertebrati e forma gli strati esterni della pelle, molto resistenti; inoltre forma capelli, piume, scaglie, unghie, artigli, zoccoli e i rivestimenti esterni delle corna dei buoi, dei montoni, eccetera. Il che significa che, a parità di peso, probabilmente un volatile è un migliore…”
Redpath fissò quelle righe, rabbioso perché non avevano il minimo rapporto con la sua odissea; poi appallottolò il foglio. Si girò, si buttò sul letto, e immerse la faccia nei cuscini.
— Mi spiace tanto, Leila — mormorò. — Mi spiace di essere possessivo, mi spiace di aver pensato che sei fredda come il ghiaccio, mi spiace di averti trafitta con quel coltello… Leila! Leila!
L’incubo cominciò in sordina. Sembrava un incubo di seconda classe.
Redpath, che era un esperto in faccende del genere, aveva studiato il suo sistema di classificazione in gioventù. Gli incubi di prima classe erano i peggiori, quelli che violentavano l’anima, che distruggevano la mente; erano i sogni da cui si svegliava urlando e che lo costringevano a vedere l’alba leggendo giornali in cucina. Rimettersi a dormire sarebbe stato un rischio, perché il suo inconscio era stato contaminato da qualcosa di orribile, da una presenza mostruosa che solo la luce del mattino poteva disperdere. Redpath sapeva benissimo che gli incubi di prima classe erano tanto terribili perché all’inizio non sembravano incubi, e così lui si trovava del tutto indifeso, era portato a credere che si trattasse di avvenimenti reali.
Un incubo di seconda classe poteva essere altrettanto spaventoso; solo che in quel caso entrava in gioco una sorta di sdoppiamento di coscienza, e lui sapeva che si trattava di un sogno, e quindi era al sicuro. Era in grado di affrontare gli incubi di seconda classe, di interessarsi da un punto di vista distaccato, quasi accademico, a quel gioco d’ombre. Sì, era impaurito; ma era la stessa paura piacevole, normale, che provava da ragazzo quando andava a vedere un film dell’orrore, perché allora poteva sempre staccare gli occhi dallo schermo e guardare le insegne luminose delle uscite di sicurezza, o il soffitto del cinematografo.
Si trovava sulle scale della casa di Raby Street, guardava giù nell’atrio, e sapeva che si trattava di un sogno perché il pavimento dell’atrio era stranissimo. Troppo grande, troppo spazioso; e al posto del linoleum grigio c’erano mattonelle color verde pallido e crema, con disegni in rilievo. Si trattava ovviamente del pavimento dell’atrio del reparto di psicofisiologia dell’Istituto Jeavons.
“Attenzione! Pericolo!”
Redpath ricordò la visione del mattino, l’ammasso di sangue semicoagulato che avanzava verso di lui, e si tese; ma il pavimento era di uno splendore immacolato. Stava succedendo qualcos’altro, però. Alcune mattonelle diventavano blu e trasparenti come ametiste, e sembrava che sotto, più in basso, ci fossero delle luci accese. Sotto il pavimento si muovevano cose strane, minuscole.
“Strano! Inquietante, ma non pauroso. Davvero strano!”
Si girò, si trovò sul pianerottolo. Si avviò verso la finestra col giglio. Alla sua sinistra c’erano due porte: una camera da letto e un bagno. Alla sua destra, una sola porta, la camera da letto di Albert. La porta era leggermente aperta. Guardò nella stanza e vide che Albert, che indossava ancora la tuta grigia e gli stivali, dormiva sul letto. Non esattamente sul letto, però. Fluttuava per aria, a circa un metro dalle lenzuola, e sotto il suo corpo filtravano i raggi del sole. Le sue mani enormi si contraevano ogni tanto.
“Curioso, davvero curioso!”
Adesso Redpath era di nuovo sul pianerottolo, scendeva le scale verso l’atrio, che aveva ripreso il suo aspetto normale. La casa era immersa in un silenzio assoluto. Sembrava che ci fossero solo lui e Albert. Betty dov’era? In cucina? Arrivò a pianterreno, fece sei passi in direzione della cucina e aprì la porta. La stanza era lunga e deserta. I piatti scolavano sul lavandino di porcellana, il frigorifero ronzava assorto in un angolo. Sulla sua destra c’era un’altra porta, verniciata d’un rosso scarlatto completamente assurdo. Non era certo il colore più adatto per una cucina. Cosa si trovava dietro quella porta? La dispensa?
Redpath si sentì spinto verso la porta, fu costretto ad aprirla. Trovò scalini di pietra che portavano nel buio di una cantina.
“Ehi, comincia a non piacermi. Sta diventando troppo vero. È possibile che un incubo di seconda classe si trasformi in un incubo di prima classe, che degeneri a questo punto?”
Redpath cominciò a scendere gli scalini, a passi lentissimi. Adesso il suo respiro era affannoso, una paura mostruosa gli stringeva il petto, eppure non riusciva a tornare indietro. La mancanza di illuminazione rendeva difficile capire dove finissero gli scalini e dove cominciasse il pavimento della cantina.
“Stai pronto a correre via, questo è l’importante. Non fidarti. Al primo segno di vita, fosse anche un topolino, scappa subito, e ti salverai. La paura ti mette le ali ai piedi, lo sai.”
Si fermò sull’ultimo gradino, appena visibile, aspettando che i suoi occhi si abituassero all’oscurità. La cantina era più calda del previsto, e l’aria pesante. Pesante, dolciastra, nauseante…
“Attento!”
Redpath girò la testa cercando disperatamente di scorgere un movimento; e quando lo percepì, si rese conto che quel movimento esisteva da sempre, che non se n’era accorto perché si aspettava un movimento minimo, localizzato, mentre fin dall’inizio le pareti e il soffitto e il pavimento della cantina si stavano muovendo. Erano di un colore rosso scuro e risplendevano nel buio, e palpitavano dolcemente, avidi. E adesso si protendevano verso di lui, volevano stringerlo in una morsa invisibile…
“Dio, questa cantina è uno stomaco!”
“Sono finito nello stomaco della casa!”
Redpath fu salvato dai gemiti che uscivano dalla sua bocca, da quei suoni di una paura estrema, viscerale, incontrollabile. Si svegliò. Si trovò a faccia in giù sul letto, semiasfissiato dal suo stesso respiro. Stava agitando braccia e gambe, come se nuotasse. La stanza era calda, luminosissima, inondata dalla luce del sole.
Si era trattato solo di un incubo, certo, ma come mai non si sentiva sollevato? In quel momento avrebbe dovuto sentirsi felice del contatto con la realtà, avrebbe dovuto capire che persone come Stan Laurel, Albert Schweitzer e Richmal Crompton occupavano il posto che loro spettava nel pantheon umano, debitamente vistato dalle autorità competenti, e che quindi il mondo era perfettamente in ordine. Però il fardello della paura era ancora lì, si era solo spostato di qualche metro…
“Leila! Ho ucciso Leila! Non sono l’uomo che credevo di essere. Sono un assassino!”
Redpath gemette di nuovo, sottovoce; poi si spostò verso l’orlo del letto e restò seduto, coi gomiti sulle ginocchia e la faccia nelle mani. In quella posizione riusciva a vedere la stanza attraverso le dita, e i suoi occhi si posarono su un pezzetto di tappeto blu ai piedi del letto. Lo fissò per una ventina di secondi prima di accettare l’idea che fosse davvero un tappeto blu, e non il linoleum rosa che copriva il pavimento poco tempo prima, quando si era coricato.
“Ma che diavolo…?”
Redpath alzò gli occhi e guardò la stanza. Sempre più sorpreso, scoprì che era tutto diverso. Al posto del vecchio armadio che ricordava c’era un armadio a muro, e gli altri mobili, più moderni, erano tutti bianchi e di stile uniforme. Il lampadario che pendeva dal soffitto era stato sostituito da un gigantesco tubo al neon. Ma il cambiamento più straordinario riguardava l’illuminazione che entrava da fuori. Dalla finestra filtrava la luce del mattino; e quando lui si era messo a dormire, era già pomeriggio avanzato.
Redpath capì cosa doveva essergli successo, e si sentì terribilmente depresso. Nell’altra esistenza, a colazione si era dimenticato di prendere la dose quotidiana di Epanutin, e quindi si era esposto al rischio di un attacco. Gli avvenimenti accaduti in seguito non rispondevano certo all’esigenza di una vita calma, tranquilla, che i medici raccomandavano per il controllo dell’epilessia. Date le circostanze, era naturale che il filo degli eventi gli sembrasse interrotto, che si svegliasse in un ambiente sconosciuto. Gli era già successo, e avrebbe continuato a succedergli se dimenticava di…
Le domande nacquero all’improvviso nel suo cervello, lo colpirono con tutta la loro forza.
Se gli era venuto un attacco, perché mai dovevano essersi presi il disturbo di trasportarlo in un’altra stanza?
Se aveva avuto un attacco, come mai non sentiva il solito mal di testa, il dolore fisico e la confusione?
Se aveva avuto un attacco, passando dall’incoscienza improvvisa al sonno, perché era convinto di essersi addormentato solo da pochi minuti?
Dove erano gli altri?
Redpath, spinto da un sospetto vago, si alzò, raggiunse la finestra. Spostò le tendine bianche e per un attimo restò immobile, irrigidito, mentre i suoi occhi, increduli, gli trasmettevano il messaggio.
Il paesaggio esterno gli era del tutto sconosciuto. Sotto di lui si stendeva uno spazio triangolare delimitato da case molto alte, in arenaria, un materiale da costruzione che certo non era tipico di Woodstock Road. Attorno erano disseminati garage, ripostigli, muri, cancelli di ferro arrugginito, fili per stendere la biancheria, pali del telefono, alberi. Nel mezzo di quell’ammasso di edifici si distinguevano due autosaloni, apparentemente abbandonati. Al di sopra dei tetti, al di sopra delle antenne televisive, il cielo era di un blu così intenso da sembrare stratosferico.
“Non sono più nella stessa casa! Non sono più nello stesso posto!”
Redpath lasciò andare le tendine, si premette il palmo di una mano sulle labbra.
“Forse sono rimasto svenuto per ore e ore, e loro mi hanno portato via e io non me ne sono accorto. Forse non sono più nemmeno a Calbridge, e per quanto ne so potrebbero aver pensato che sono morto, e forse mi hanno scaricato da qualche parte, e non avevano nessun diritto di trattarmi così… non avevano proprio nessun diritto!”
Redpath corse alla porta, la aprì e uscì sul pianerottolo, facendo deliberatamente molto rumore.
— C’è qualcuno? — urlò, accorgendosi quasi automaticamente che la casa era molto simile a quella di Raby Street. — C’è qualcuno in casa?
Il silenzio era assoluto, a parte il ronzio attutito del traffico che filtrava dalla strada. Redpath, esitante, accettò il fatto curioso che la posizione della sua stanza corrispondeva esattamente alla posizione della sua camera da letto nell’altra casa. Quel pensiero lo trascinò in un vortice di dubbi e confusione. Era impazzito del tutto? Si trovava ancora nella stessa casa? Le sue idee sul mobilio e sul panorama esterno erano solo ricordi di un’altra epoca, di un altro posto? Non gli era mai successo, nemmeno con un attacco di grande male, di trovarsi così disorientato al risveglio; ma chi poteva dire quali effetti avesse il maledetto Composto Centottantatré di Nevison su un cervello già minato da tempeste nervose?
Un po’ più calmo, un po’ meno furioso, Redpath scese all’altro pianerottolo. Il pianerottolo arrivava fin sul retro della casa, terminava in una finestra senza vetri istoriati. L’assenza del giglio dimostrava qualcosa? Redpath pensò che forse quello era un indizio importante, ma non riusciva ad afferrarne il significato.
Scese a pianterreno, arrivò davanti alla stanza che secondo lui era la cucina e bussò alla porta. Non ci fu risposta. Entrò, ma si fermò sulla soglia per studiare nei particolari quel locale lungo, con gli armadietti color grigioverde. Il lavandino era in acciaio cromato, non in porcellana, e il frigorifero, molto più grande, si trovava in un altro angolo… Tutto era sempre più diverso dalla casa di Raby Street. Sembrava quasi che…
“Un momento, imbecille! Non hai mai visto la cucina dell’altra casa. Il lavandino e il frigorifero li hai visti solo in un incubo!”
“Stai attento!”
Redpath si voltò verso destra e vide, nella stessa identica posizione dell’incubo, una porta che forse portava in dispensa, e forse in cantina. Socchiuse gli occhi, mentre un brivido di freddo gli correva lungo la schiena. La porta era assolutamente diversa (era di plastica bianca, e invece nel suo sogno si trattava di legno dipinto di rosso), però era quasi mostruoso trovarla esattamente nella stessa posizione. Tese la mano, afferrò la maniglia cromata e aprì la porla. Vide scalini di cemento che portavano nel buio d’una cantina.
Redpath, contro la stia stessa volontà, raggiunse il primo gradino. (,’aria che saliva dalle tenebre era troppo calda. Viziata e pesante. All’improvviso notò qualcosa sul muro alla sua destra: un interruttore. Tese la mano ad abbassarlo, ma non successe niente: e in quel momento si accorse che era già abbassato, in posizione di funzionamento. Quindi, o la lampadina era saltata, oppure i fili dell’interruttore erano collegati alla rovescia. Gli venne in mente una terza ipotesi, che in fondo alle scale ci fosse un altro interruttore a circuito alternato, ma la scartò subito.
“Non vorrai dirmi, vecchio mio, che una persona sana di mente metterebbe in questa cripta infestata dai ragni un interruttore che si spegne in basso.”
Tornando alla seconda ipotesi, Redpath provò a spingere verso l’alto l’interruttore, che si mosse subito. Una luce al neon si accese in fondo alle scale. Lui scese metà degli scalini, poi si sedette sui talloni per avere una visuale completa della cantina. Il locale era di forma quadrata, in cemento, ed era del tutto vuoto. Mancavano i vecchi oggetti, le cianfrusaglie abbandonate che di solito si trovano nelle cantine. L’unico contenuto visibile erano una decina di oggetti color rosso scuro, grandi come un pugno, disseminati sul pavimento.
Spinto da un insieme di curiosità e masochismo, Redpath scese fino in fondo e si chinò a esaminare l’oggetto più vicino. Era un uccello, forse un piccione, scorticato a morte. Del corpicino era rimasta intatta solo la struttura muscolare, mentre piume e pelle erano state tolte con estrema precisione. Redpath fece una smorfia quando si accorse che erano scomparsi anche il becco e le unghie delle zampe. Per un attimo, l’apparizione che aveva intravisto davanti al suo appartamento a colazione, quella faccia fatta di carne viva, si riaffacciò ai margini della sua percezione.
“Adesso devo uscire di qui.”
Si alzò, camminò all’indietro finché non urtò con la caviglia contro il primo scalino, poi si girò e corse a perdifiato su per la scala. Era quasi arrivato in cima quando la porta bianca si mosse, bloccandogli parzialmente la strada. Redpath ebbe l’impressione di un’ala enorme che si agitasse. Senza fermarsi a pensare, spinse la porta e corse in cucina. Un attimo dopo era nell’atrio d’ingresso.
“Quella porta dev’essere rotta. Forse ha uno di quei meccanismi per la chiusura automatica e non funziona bene. Insomma, lo so che sono un assassino, che mi merito ogni punizione possibile, ma c’è un limite a tutto…”
Raggiunse la porta d’ingresso, i cui vetri non avevano nessuna decorazione, l’aprì e uscì in strada, in cerca di qualche indizio che gli facesse capire dove si trovava. La strada si offriva al sole del mattino in tutto il suo squallore, come un vagabondo vecchissimo che cercasse di nutrirsi di luce; ma quella era l’unica somiglianza che possedesse con Raby Street o con ogni altra zona di Calbridge. Redpath fissò le facciate di arenaria marrone, le scale corte e molto ampie che portavano agli ingressi degli edifici, i lampioni di forma strana, e fu costretto ad ammettere che non conosceva affatto quel posto. Chissà dov’era andato a finire.
“Prove” pensò. mentre nel suo cervello cominciavano ad agitarsi i demoni dell’indignazione e della rabbia. “Se mai dovessi fornire prove di quello che mi sta succedendo, voglio essere molto preciso. D’accordo, sono un assassino, merito di essere punito; ma non è un buon motivo per permettere che la Regina degli Zingari e i suoi amici la passino liscia.”
Si girò a guardare il numero della casa da cui era appena uscito. Sulla porta blu pallido c’era una fila di numeri di metallo, disposti in diagonale: 2224. Leggermente sorpreso da quel numero così alto (per quanto ne sapeva, i numeri civici arrivavano al massimo fino all’ordine di poche centinaia), Redpath si concentrò su uno strano oggetto metallico che sporgeva dal marciapiede. Era verde, e sopra era stampigliata la scritta GFD. Lo guardò per un attimo, perplesso, e finalmente riuscì a identificarlo: era un idrante antincendio di stile americano, e in vita sua aveva visto roba del genere solo nei film importati dagli USA.
Redpath, deciso a non lasciarsi distrarre da indizi banali, s’incamminò verso l’incrocio più vicino per vedere la targa coi nome della via. Superò tre macchine, e all’improvviso si accorse che tutte e tre: erano di forma e dimensioni insolite.
“Strano. Tre macchine americane in una sola strada. Forse da queste parti c’è un club dl amici delle auto straniere…”
Lungo lo spazio che lo separava dall’incrocio erano parcheggiate altre quattro macchine, e lui notò subito che erano tutte americane. Veicoli enormi, spaziosi, che solo gli eroi dei telefilm come Cannon, Rockford e Kojak usavano. Le targhe delle prime tre erano dell’Illinois; la quarta dello Iowa. Perplesso, intontito dal caldo e dalla luce intensa, Redpath arrivò all’incrocio e guardò la targa della via. C’era scritto: 13 AVE S.E.
“Un altro fatto strano. Sembra quasi…”
Redpath smise improvvisamente di pensare quando guardò con maggiore attenzione l’incrocio. La via che aveva davanti era una strada di grande traffico che svaniva in lontananza, perfettamente rettilinea. In fondo, lontana, una montagna bluastra coperta di neve, assolutamente diversa dalle montagne inglesi. E lungo la via si muovevano file apparentemente interminabili di autobus, automobili e camion, tutti di tipo americano, tutti che viaggiavano sul lato destro della carreggiata.
“Sembra quasi di essere…”
L’insegna sopra il negozio all’angolo diceva “Gruber’s Delicatessen”, e la vetrina era coperta quasi completamente da annunci di offerte speciali scritti a mano. I prezzi erano in dollari e cent. Vicino al negozio c’era un bar, “Pete’s Palace”, con la vetrina coperta per metà da un tendaggio e una piccola insegna al neon della Budweiser. Gli uomini e le donne che gli passavano accanto indossavano abiti diversi da quelli che era abituato a vedere a Calbridge o a Londra; non troppo diversi, ma inconfondibilmente diversi.
“Sembra quasi di essere negli Stati Uniti!”
Redpath premette le palme delle mani contro le tempie e cominciò a dondolare la testa da una parte all’altra, fissando con occhi spiritati quella scena incomprensibile. Una vecchia signora vestita di giallo gli si fermò vicino, lo scrutò sospettosa per qualche secondo, poi se ne andò borbottando sottovoce.
— Posso parlarvi, per favore? — disse Redpath, seguendola. Lei si mise a correre senza voltarsi a guardarlo. Redpath accelerò leggermente, poi si accorse che un uomo grassoccio, vestito di grigio, lo stava fissando. Era appoggiato alla vetrina del bar. Redpath cambiò direzione, si avvicinò all’uomo, che era sulla cinquantina e aveva una barba bianca e nera di forma irregolare. L’uomo lo fissò, tra l’inquieto e il divertito.
— Dove siamo? Che posto è questo? — chiese Redpath.
— Non lo sai? — L’uomo parlava con un accento che gli parve americano.
— Sentite, mi occorre aiuto… Non potete dirmi dove siamo?
— Ti occorre aiuto, è maledettamente vero. — L’uomo fece un sorriso d’intesa e ammiccò. — Di cosa ti sei imbottito, fra parentesi?
— Mi sono perso, è tutto. Dove sono? — Redpath abbassò le mani, le chiuse a pugno.
L’uomo smise di sorridere. — Gilpinston.
— Gilpinston cosa? Gilpinston dove?
In quel momento uscì dal bar un uomo più alto e più giovane, col giornale piegato sotto il braccio. Si affiancò all’altro, incuriosito. La sua presenza parve ringalluzzire l’uomo grasso.
— Perché vieni a scocciare proprio me? Trovati qualcun altro.
— Vi ho solo chiesto… — Redpath tirò un sospiro, si voltò verso l’uomo più giovane, si costrinse a sorridere. — Vi spiace se do un’occhiata al giornale”? Solamente un attimo.
— Sparisci. — L’uomo più giovane girò la schiena a Redpath e attaccò a discutere di corse di cavalli con l’altro. Redpath si sentì invaso dalla rabbia, dalla frustrazione, come se nel suo cervello si fosse accesa una fornace. Bestemmiò e afferrò il giornale nel preciso istante in cui il suo proprietario aveva deciso di toglierlo da sotto il braccio. Seguì, per qualche secondo, un assurdo tira-e-molla. La situazione mutò quando l’uomo grasso, furioso e indignato, colpì Redpath con un calcio al basso ventre. Redpath, paralizzato dal dolore improvviso, si aggrappò al giornale. Il giornale si strappò e lui cadde in ginocchio.
Alcuni passanti si fermarono a guardare che cosa stava succedendo. L’uomo grasso, assumendo l’atteggiamento di un osservatore estraneo, indietreggiò di qualche passo con le mani in tasca. Redpath si trovò a guardare un mondo distorto dalle lacrime e popolato di giganti malvagi.
— Cos’ha quel tipo? — chiese un uomo. — Sta male?
— Secondo me è pieno di roba fino al collo.
— È inglese? Ehi, non sarà mica uno di quei tali che sono venuti ad abitare nella casa dei Rodgers dietro l’angolo, eh?
— Chiamate la polizia.
— No… — Redpath puntò lo sguardo in direzione dell’ultimo uomo che aveva parlato, per assicurargli che l’intervento della polizia non era necessario; ma, per uno scherzo di prospettiva, vide una figura più lontana e più familiare, vestita di una tuta marrone. L’uomo, che aveva mento e mani enormi, se ne stava all’angolo della strada, ben lontano dal gruppetto di spettatori; però guardava in direzione di Redpath, e il suo atteggiamento lasciava intuire un’ansietà furtiva.
— Albert? — Redpath si tirò in piedi e si fece strada fra la barricata di corpi. L’angolo della strada era deserto. Corse all’incrocio, guardò nella via da cui era giunto poco tempo prima, aspettandosi di vedere un uomo in tuta marrone che fuggiva. Ma la strada era deserta, a parte un gruppo di bambini assorti nei loro giochi. Redpath si sforzò di pensare, sommerso com’era da un misto di dolore, nausea e sorpresa. Era possibile che Albert, ammesso che si trattasse proprio di Albert, fosse arrivato alla casa tanto in fretta? Che avesse percorso un centinaio di metri nel tempo che lui aveva impiegato per percorrerne una quindicina?
— Dove vai, amico? — gridò qualcuno alle sue spalle.
— Sto bene — farfugliò Redpath. — Va tutto benissimo. — Strinse le mani sul basso ventre e si mise a correre verso la casa. Il marciapiede battuto dal sole sembrava rollare come il ponte di una nave. Redpath aveva la folle impressione di essere seguito. Arrivò alla casa in cui si era svegliato, la riconobbe quasi istintivamente, salì gli scalini di corsa. La porta era leggermente aperta. Corse nell’atrio e mise il catenaccio alla porta, respirando affannosamente. La casa era silenziosa e deserta come prima.
— Albert! — La sua voce era quella di un pazzo, di uno sconosciuto. — Dove sei, bastardo?
Redpath si trascinò lungo la parete, raggiunse la prima porta interna, l’aprì: il soggiorno era deserto, le poltrone imbottite dormivano in un silenzio inquietante. Anche l’altra stanza, dotata d’un tavolo lungo e di sedie con le gambe all’insù, era deserta. Redpath si fermò, cercò di calmare l’affanno. Dal punto in cui si trovava riusciva a vedere che in cucina non c’era nessuno, e in quanto alla cantina… be’, in cantina c’era già stato, e non aveva intenzione di tornarci. Il dolore al basso ventre diventava sempre più forte, minacciava di travolgerlo. Corse fuori, continuando a stringersi i genitali con le mani, raggiunse le scale e salì… Salì per un tempo lunghissimo, fino al pianerottolo del primo piano. La parte di pianerottolo che girava attorno al retro della casa aveva una porta sulla destra e due sulla sinistra. La porta a destra era quella che, nel suo incubo, portava alla camera da letto di Albert. La spalancò e scrutò, stanchissimo, la stanza vuota, col letto su cui nessuno aveva dormito. Uscì, aprì la prima porta sul lato opposto del pianerottolo. Dava sulla stanza più piccola di tutta la casa; conteneva solo un tavolo da toeletta. Barcollando fece tre passi, arrivò all’ultima porta, la spalancò: era il bagno. Si trovò a guardare nella vasca. Conteneva due corpi umani orrendamente neri; uno, forse, era il corpo di una donna. E sembrava fossero stati scorticati…
“Oh, no!
“Oh, Cristo… NO!”
Il mondo scomparve, scivolò via su un’onda veloce, ripugnante, orribile, di forza irresistibile. Redpath cadde a terra di colpo, perdendo coscienza lentamente. L’ultima cosa che vide fu la finestra in fondo al pianerottolo, scintillante di luce. Sui vetri, un giglio giallo dispiegava i petali, come un uccello da preda sul punto di spiccare il volo. Lui sbatté gli occhi, terrorizzato, incapace di pensare, e scoprì che sul pianerottolo c’erano altre persone, che i loro corpi bloccavano la luce.
Erano tutti lì con lui, gli sorridevano.
Betty York, la Regina degli Zingari; Albert, strano e incomprensibile; la vecchia signorina Connie; e Wilbur Tennent, lo scommettitore grasso e benevolo.
Erano tutti e quattro con lui.
Sorridenti.
Redpath chiuse gli occhi e cercò di morire.
— Sei sicura di non volere un passaggio? — Henry Nevison aprì la portiera della sua Triumph verde, esitò un attimo prima di salire. — Leicester Road è praticamente sul mio percorso verso casa.
Leila Mostyn scosse la testa. — Grazie, Henry, ma devo fare un salto in un paio di negozi. L’autobus va benissimo.
— Pensi che per domattina ti avranno riparato la macchina?
— Spero di sì. Ho chiamato il mio elettrauto. Ha detto che faceva un salto dopo pranzo a cambiare la batteria.
— Bene. Comunque se hai problemi telefonami, e domattina passo io a prenderti.
— Grazie. — Leila restò a guardare Nevison che si infilava in macchina con una serie di contorcimenti faticosi. Chissà perché un uomo della sua età e del suo calibro aveva scelto un’auto così scomoda. Persino lei, tanto più giovane di Nevison e più bassa di una decina di centimetri, aveva trovato tutt’altro che facile salire e scendere dalla Triumph con disinvoltura. Henry le aveva prestato la macchina a mezzogiorno, visto che doveva tornare a casa a prendere i diagrammi di riscontro semestrale; e guidare la Triumph le era sembrato faticoso, le aveva fatto rimpiangere la comodità della sua mini. La spiegazione più ovvia era che Henry Nevison cercasse di ritrovare la gioventù perduta; però lei non si fidava di quelle analisi psicologiche sommarie, buone solo per i rotocalchi. Gli esseri umani sono troppo complicati per lasciarsi inquadrare in teorie così semplicistiche; ad esempio, bastava prendere John Redpath…
Al pensiero di Redpath Leila si guardò attorno, vide che la sua bicicletta non era al solito posto. Doveva essersene andato presto. Certo che quel mattino si era lasciata trascinare dalle sue provocazioni. Le risposte che gli aveva dato davanti a Marge Rawlings erano imperdonabili, degne di una ragazzina stupida; ma quello era uno dei suoi guai con John Redpath: lui era talmente vulnerabile che il semplice fatto di stargli vicino creava vuoti nelle difese psicologiche di Leila.
La macchina di Nevison le passò accanto. Leila agitò le mani, in risposta al suo saluto alquanto enfatico, e si avviò verso l’uscita. Il cancello era appena stato verniciato di verde, le decorazioni in ferro battuto erano dorate, e verso il tramonto i raggi del sole le facevano sembrare veramente d’oro. Guardandole, Leila provò una punta di nostalgia per i giorni della sua infanzia, così privi di complicazioni, quando era sempre estate o Natale, quando una passeggiata al parco diventava una spedizione all’altro capo di un mondo enorme, e ritornando a casa si era accolti dal profumo delizioso dei dolci appena cotti e della lavanda. In quei giorni non esistevano problemi d’indipendenza, di carriera, di sesso…
“Ridicolo” pensò, e per poco non lo disse ad alta voce. “lo non ho problemi di sesso, e non sarà certo un ciclista con la faccia piena di lentiggini a crearmeli.”
Si concentrò sulle spese che doveva fare. Attraversò la strada, camminò per cinque minuti, entrò in una piccola cooperativa dove comperò pane, yogurt, cipolline e candeggina. Un altro breve tragitto la portò all’incrocio con una delle strade principali di Calbridge. Il primo autobus per Leicester Road che arrivò era quasi vuoto (era ancora un po’ troppo presto per l’esodo generale dagli uffici). Si sedette vicino all’uscita. Case, alberi e strade cominciarono a muoversi sempre più in fretta dietro i finestrini, e lei si immerse nelle sue riflessioni.
Lasciarsi coinvolgere nella relazione con John era stato uno sbaglio fin dall’inizio, perché lui era (con tutta la dolcezza possibile, e senza che ne avesse colpa, e senza che lei volesse rimproverargli qualcosa) un perdente nato. Si metteva nell’atteggiamento del perdente, quasi spinto da un istinto suicida, e cercava di essere tutto quello che non sarebbe mai stato. Voleva essere sofisticato mentre era irrimediabilmente ingenuo, cosmopolita mentre non era che un provinciale; insomma, per usare una delle metafore cinematografiche che lui amava tanto, voleva essere un Bogart mentre era un Bambi. Non aveva denaro, non aveva prospettive; possedeva due cose sole, e tutti sanno che il coraggio e il senso dell’umorismo non bastano. Discorso chiuso.
Leila scese alla sua fermata, s’incamminò verso casa, con la borsa della spesa che le pendeva lungo un fianco. Sotto il tergicristalli della mini era infilato il conto dell’elettrauto. Lo prese, lo infilò nella tasca della giacca di cardigan e cominciò a salire le scale. Dentro faceva caldo come in una serra. Appena messo il latte in frigorifero, si sarebbe buttata subito sotto la doccia. Arrivata al pianerottolo del suo appartamento si immobilizzò davanti alla porta: nella serratura era infilata la seconda chiave.
Una visita di cortesia o un furto? Un amico o un nemico?
Appoggiò la borsa sul davanzale accanto alla porta, alzò il vaso di fiori e tastò sotto. La chiave era scomparsa, ma a pensarci bene quell’informazione non serviva a molto. Impossibile sapere se a prendere la chiave era stato un ladro intelligente o qualcuno che sapeva della sua esistenza; e impossibile sapere se il visitatore se n’era già andato oppure l’aspettava dentro.
Leila girò la chiave, aprì. Rimase un attimo sulla soglia, in ascolto, poi entrò con cautela in corridoio. Non si udiva nessun rumore. Sempre più sicura di sé, guardò in soggiorno, vide che non mancava niente e che la stanza non era sottosopra; poi controllò gli altri locali. L’appartamento era deserto. Probabilmente uno dei suoi amici, che erano una mezza dozzina, le aveva fatto visita e se n’era andato scordandosi di rimettere a posto la chiave.
Tornò sul pianerottolo, prese la borsa della spesa e la portò in cucina. Poi, prima di spogliarsi, fece il giro di tutte le finestre, sistemò le tapparelle in modo che la luce esterna entrasse, ma che da fuori non la potessero vedere. La finestra del soggiorno fu l’ultima. Leila si girò, cominciò a togliersi la giacca, e restò come paralizzata quando guardò il divano. Un cuscino era stato ridotto a brandelli dal coltello che ancora ne sporgeva; e, per aggiungere un ultimo tocco macabro, a batuffoli di cotone che fuoriuscivano come interiora erano macchiati di sangue.
Leila si portò le mani alla bocca, indietreggiò, fece il giro della stanza fino a trovarsi davanti alla cucina. Adesso i suoi sensi erano eccitati, più attenti. Quando guardò in cucina vide subito le tracce di sangue sul lavandino e sul rotolo di carta montato sulla parete. Traversò la cucina, tenendosi al centro della stanza come se temesse di contaminarsi toccando qualcosa, arrivò al telefono dell’entrata. Da buona matematica, aveva un’ottima memoria per i numeri. Riuscì a chiamare la polizia di Calbridge senza consultare l’elenco.
— Vorrei parlare col sergente Pardey — disse, senza lasciare che dalla sua voce trapelassero emozioni. Ci furono alcuni secondi di silenzio, e a lei venne in mente che aveva controllato l’appartamento in maniera molto superficiale. Ad esempio non aveva guardato sotto il letto, non aveva aperto l’armadio o il ripostiglio. Quel pensiero si insinuò nella sua mente, non se ne andò più. Si appoggiò alla parete, persa in un ambiente improvvisamente sconosciuto, e aspettò di udire la voce familiare di Pardey.
— Frank? Sono… — Deglutì. Era importante che la sua voce fosse calma. — Sono Leila Mostyn. Vuoi aiutarmi?
Pardey uscì in un sospiro esagerato. — Leila, te l’ho detto cento volte. Quando il vigile ha steso la multa non c’è nessuno, nemmeno Dio Onnipotente, che possa farci qualcosa.
— Non è per una multa, e lo sai — rispose Leila, quasi sorridendo. Era un grande conforto sentire la battuta che Pardey le ripeteva ormai da anni.
— Guarda, se è un rubinetto che perde o…
— Frank, sono appena rientrata. In casa mia c’è stato qualcuno.
— Oh? — Il tono di voce di Pardey era cambiato. — Hanno portato via qualcosa?
— Non credo.
— E allora come hai fatto…? Ti hanno buttato tutto per aria?
— Non proprio. — Leila gli raccontò tutto. Gli disse anche che probabilmente l’intruso era una persona che la conosceva.
— Pensi che sia uno scherzo cretino?
— Gli amici me li scelgo con una certa cura — ribatté lei, irritata.
— D’accordo. Non toccare niente. Fra un paio di minuti arriveranno i miei uomini.
— Frank, speravo che si potesse fare una cosa… fra noi. Per ora non vorrei mosse ufficiali.
— Insomma, non vuoi che dei poliziotti in uniforme vadano in giro a rompere le scatole ai tuoi vicini.
— Ecco, io…
— E ti piacerebbe che lasciassi perdere faccende più importanti e ti riservassi un trattamento da VIP.
Leila mormorò: — Probabilmente sì. Scusami.
— Non pensarci nemmeno, mia piccola patatina… A cosa servono gli amici? — Pardey era talmente gioviale che forse lo faceva apposta per far sbollire la tensione di Leila. — Ripeto, non toccare niente. Arrivo subito. Ci vediamo.
Leita mise giù il telefono e si guardò attorno, cercando di decidere la mossa successiva. Sarebbe stato il caso di controllare armadio e ripostiglio, ma Frank le aveva detto di non toccare niente, e lei gliene era profondamente grata. Uscì sul pianerottolo, lasciando la porta aperta. Da lì vedeva tutta fa periferia di Calbridge, una zona verdeggiante che le prime ombre della sera cominciavano a oscurare. Quel paesaggio le ricordava la casa dei suoi genitori, a Reading. Per un attimo, stranamente, provò il desiderio di essere a casa. Senz’altro suo padre e sua madre erano fuori in giardino, a curare l’erba e i fiori. L’immagine di quella tranquillità domestica venne sopraffatta dal ricordo improvviso di John Redpath. John odiava il giardinaggio, e lei lo rivide mentre pronunciava una delle sue battute alla Oscar Wilde. “C’è qualcosa di terribilmente triste nello spettacolo della più alta forma di vita animale del pianeta che dedica tanto tempo e tanta energia al benessere delle più basse forme di vita vegetale del pianeta. “Per un attimo se lo vide davanti, alto e magro com’era, intento a declamare, a spiegare il suo punto di vista. “Chissà chi è più furbo? Io o lui?”
In momenti del genere John cercava di essere stravagante, eccentrico. Ma in fondo era un tipo disperatamente normale, e, anche se non aveva mai dato voce ai suoi sentimenti, sarebbe stato ben felice di sposarla, di allevare una nidiata di figli e di curare il giardino di casa. Però lei, dopo essere sfuggita agli agguati dell’ambiente familiare, era più che decisa a evitare un destino del genere. Se proprio il matrimonio era inevitabile, avrebbe preteso il massimo in fatto di soldi, viaggi, e case che fossero decisamente in città o decisamente in campagna, non orribili vie di mezzo che la costringessero a una vita scialba e meschina.
Si accorse improvvisamente di pensare troppo a John Redpath, nonostante tutte le buone intenzioni. Era un’abitudine da eliminare. Appoggiò il gomito al davanzale della finestra e guardò giù, aspettando di veder comparire l’auto di Frank Pardey. Ci stava mettendo troppo.
Trascorsero più di venti minuti prima che la sua macchina grigia si fermasse nella strada sotto. Pardey scese e si avviò verso la casa. Era sulla quarantina, grosso, coi capelli chiari e due spalle robuste. Camminava a passi molto corti, sollevando ogni tanto il ginocchio, come se seguisse il ritmo di una fanfara militare.
— Scusa il ritardo — disse, raggiungendola sul pianerottolo. — Come va, Leila? Spero che tu non sia troppo sconvolta. — La baciò su una guancia e si tirò indietro, sorridendo. A livello di rapporti fisici, non si era mai spinto oltre. Era divorziato, e si dava molto da fare con le donne; ma aveva intuito a sufficienza per capire che lei lo considerava semplicemente un amico.
— Tutto a posto. È solo che… — Leila si strinse nella giacca, rabbrividì leggermente. — Non mi era mai successa una cosa (lei genere.
— Diamo un’occhiata — disse Pardey, con l’atteggiamento incoraggiante di un dentista che si apprestasse a fare la radiografia d’un dente. Entrò in casa, seguito da Leila, e girò a sinistra, verso il soggiorno. Lei rimase a guardarlo mentre si inginocchiava davanti al cuscino sventrato ed esaminava il coltello.
— È chiaro che voleva impressionarti — disse Pardey dopo qualche secondo. — Il coltello è tuo?
— Sì. In cucina ce ne sono altri.
— Capisco. — Pardey si alzò, le lanciò un’occhiata stranamente inquisitoria. — Come si chiama quel tipo che ti ha accompagnata al party di Vicki Simpson un paio di mesi fa? Redmayne? Qualcosa del genere?
— Redpath. John Redpath. — Leila uscì in una risata incerta. — Ma cosa c’entra?
— Abita dall’altra parte della città”? A Disley High Street?
— Sì, ma…
— Oggi è stato qui. Verso l’una.
— Come fai a saperlo?
— Ho i miei sistemi. — Pardey cercò di sembrare enigmatico. — Prima di venire qui ho sentito la macchina che è di pattuglia nella zona, per sapere se avessero notato qualcosa di strano. A volte otteniamo risultati favolosi con questa tattica, sai? Il capopattuglia mi ha detto di aver parlato con un uomo che corrisponde alla descrizione di Redpath, a quattrocento metri da qui. Viaggiava in bicicletta e ha detto di essere epilettico. Redpath è epilettico?
— Sì. — Leila scoprì che le dava fastidio sentir chiamare John per cognome, e con tanta freddezza. — Non sarà mica proibito dalla legge, no?
Pardey afferrò al volo. — Scusa, Leila. So che è tuo amico, ma se fa cose del genere… — I suoi occhi si posarono sul cuscino.
— E perché pensi che sia lui”?
— Aveva tracce di sangue sulle mani e sul giubbotto, parecchio sangue, e sembrava un po’ sconvolto. Ci scommetto l’anima che su quel coltello troveremo le sue impronte.
Leila cercò di immaginare John Redpath che si aggirava in quell’appartamento deserto con un coltello in mano, ma l’immaginazione le venne meno. Sì, era geloso, e magari infantile, ma la violenza, persino una violenza simbolica, non era nel suo carattere.
— Scusa, Frank — disse, tranquillissima — ma secondo me è una storia che non ha senso.
Pardey si avvicinò alla finestra, guardò fuori. — Devo sempre fare le stesse domande. Mi piacerebbe trovarle stampate su un modulo standard.
— Coraggio.
— Ultimamente hai litigato con Redpath?
Leila si sentì sfiorare da dita fredde. — Questa mattina abbiamo avuto una piccola discussione. Niente d’importante.
— Vuoi dirmi com’è successo?
— No.
— Capisco. — Pardey annuì, come se lei gli avesse fornito tutti i particolari possibili. — Ad ogni modo restano valide le accuse nei suoi confronti.
— Quali accuse?
— Violazione di domicilio, tanto per cominciare.
Leila scosse la testa. — John può andare e venire quando gli pare. Gli ho fatto vedere dove tengo la seconda chiave. E poi deve esserci una spiegazione semplicissima. — Prima che Pardey riuscisse a protestare, lei tolse il coltello dal cuscino e lo depose nel lavandino in cucina. Aprì l’acqua calda, cominciò a lavarlo.
— Ehi — disse dolcemente Pardey, avvicinandosi — io sono dalla tua parte, te lo ricordi?
— E sei contro John?
Pardey sospirò, si avviò verso l’atrio. — Uscirò dall’entrata di servizio.
— Scusa, Frank. — Leila lo afferrò per il braccio. — Voglio ringraziarti per essere venuto qui, sul serio. Forse sono più sconvolta di quanto credessi. È solo che sono sicura che John è migliore di tanta altra gente, e…
Pardey la scrutò. — Sei proprio innamorata, eh?
— No, certo che no. — Leila fu quasi sconvolta all’idea di nutrire un affetto particolare per John Redpath. — Però non vorrei che nessuno dei miei amici pensasse che l’ho denunciato alla polizia.
— D’accordo. Non hai denunciato nessuno, quindi non preoccuparti. Però fammi un piacere. Smettila di lasciare quella chiave a portata di tutti. D’accordo?
— Promesso. — Leila sorrise a Pardey, e fu molto contenta di tenere la conversazione a un livello neutro per tutto il resto della sua breve visita. Il sergente accettò una tazza di caffè, fece due chiacchiere, la chiamò diverse volte “Rostkartoffel” o “pomme frite” (erano i nomignoli che le affibbiava sempre). Evidentemente, anche lui voleva tenere tutto su un piano informale. Però, appena Pardey fu uscito, lei cominciò a chiedersi se davvero era stata tutta una commedia per alleviare le sue angosce. Gli aveva raccontato spontaneamente che John era libero di andare e venire dal suo appartamento; aveva mentito, forse spinta dal desiderio borghese di non attirare l’attenzione su di sé. Ma non poteva darsi che non conoscesse John Redpath a sufficienza? Cosa le aveva detto quella mattina?
“Mi sta succedendo qualcosa.
Cosa significava quella frase? Senza dubbio, John Redpath era un tipo troppo comune, troppo normale (a prescindere dalla psicologia freudiana e dalla filosofia manichea), per diventare il protagonista di uno di quegli episodi di furia selvaggia e di sadismo di cui a volte parlavano i giornali, e che lei non riusciva mai a studiare nei particolari. L’esistenza quotidiana si basa su certi assiomi; e uno di questi assiomi è che la gente che si conosce non cambia mai, resta sempre se stessa, non precipita mai nell’abisso e non arriva mai a vette eccelse, non fa mai niente di molto bello o di molto brutto.
Leila rifletté su quell’idea per un attimo, si consolò per quanto le era possibile; poi accese la radio e andò a controllare che la porta d’ingresso fosse chiusa a chiave.
Quando Redpath si svegliò, c’erano voci di donna che mormoravano lì vicino, e un lampadario di plastica rosa proiettava ombre sul soffitto in leggera pendenza. Si alzò a sedere sul letto e capì subito di trovarsi nella casa di Raby Street. Il linoleum sul pavimento e i mobili scompagnati erano familiari, rassicuranti, anche se non gli rimandavano ricordi. Betty York e la signorina Connie, avvolta in un cardigan grigio, sedevano al lato opposto della stanza. Tutt’e due lo guardavano con un misto d’interesse e preoccupazione. La stanza era fredda; la casa aveva già assorbito, vecchia com’era, tutto il calore del giorno. Quel freddo lo conosceva bene: era il freddo delle pensioni economiche.
— Stai meglio, tesoro? — Betty era vestita come quando l’aveva incontrata nel parco, solo che non portava più la giacca di velluto blu. — Ci hai proprio spaventati.
— Adesso sto bene — rispose Redpath, ricadendo sul cuscino. L’interruttore a pera della luce gli danzava davanti agli occhi, a pochi centimetri dalla fronte. Lo guardò. Era libero dal morso di una realtà, ma non aveva nessuna voglia di gettarsi fra le braccia di un’altra.
“Tutto questo, soprattutto il fatto che io mi trovi in questo letto, significa che era solo un incubo. L’incubo di prima classe più terribile che io abbia mai avuto. Terribilmente nitido, vero, ma solo un incubo. Sì, sono sceso nella cantina di quella casa e ho trovato un mostro, ma era solo un sogno. Sì, ero negli Stati Uniti, ma era solo un sogno. Sì, ho trovato quei cadaveri nella vasca, ma era solo un sogno. E cos’altro potrebbe essere?
“Ma perché non mi sento felice? Perché non provo la gioia estrema di essere tornato nel mondo dei vivi?
“Perché ho ucciso Leila, ecco perché. Dio, quando penso a cosa le ho fatto!”
Redpath alzò la mano sinistra, guardò il taglio sul pollice che sanguinava ancora, il taglio che stabiliva i confini tra la realtà e l’incubo. Quel taglio proveniva da un coltello vero, non dal “pugnale dell’immaginazione” di Macbeth; e ricordava benissimo altre ferite, altre lacerazioni, una donna trasformata in una bambola oscena. Né il sonno né la veglia lo avrebbero mai ripulito da quel ricordo; non sarebbe mai più stato tiri essere umano. Mai più. Nei secoli dei secoli…
— Sei sicuro di stare bene? — chiese Betty. La sua faccia dalle labbra piene si materializzò davanti ai suoi occhi. — Vuoi bere? Vuoi qualcosa?
Redpath guardò da un’altra parte. — Non voglio niente.
— Hai fatto brutti sogni, tesoro.
— Davvero? — “Raccontami qualcosa che non so.”
— Mentre dormivi parlavi di cose spaventose.
Redpath si sentì lievemente interessato. — Che cos’ho detto?
— Oh, non ho capito bene. — Betty guardò la signorina Connie, come in cerca d’un sostegno. — Se non sbaglio dicevi di esserti perso. E avevi la febbre. Volevamo chiamare il medico.
“Però non l’avete chiamato. Come mai? Il mercato non offre molti medici-fantasma? John Carradine e Walter Houston ed Elisha Cooker. sono già in catene nei sotterranei?”
— … Per un po’ siamo stati sulle spine, te lo assicuro — stava dicendo Betty. — Hai mai avuto attacchi del genere, tesoro?
— Ma di che attacco stai parlando? — Redpath si chiese se avessero notato il braccialetto da epilettico. Sospettoso, incerto, spinse il braccialetto su per il braccio; e solo in quel momento si accorse che qualcuno, mentre era svenuto, gli aveva tolto il giubbotto.
— L’importante è che adesso tu ti senta bene — disse Betty, sorridente. — Ti ci vuole una tazza di tè e qualcosa da mettere sotto i denti. Scendi a mangiare con noi.
Redpath fece per dire di no; poi si accorse, con sorpresa, di avere fame davvero. Il suo stomaco era un organo del tutto insensibile, voleva essere riempito a dispetto dei colpi e dei traumi sofferti dalle altre parti del corpo. L’idea di un tè caldo e forte era particolarmente attraente. Redpath si tirò un poco più su, e in quella posizione si accorse che i suoi calzoni erano sporchi e spiegazzati, quasi a pezzi. Lo sguardo di Betty non lo aveva abbandonato un attimo.
— Ho avuto… un incidente — spiegò Redpath, a disagio.
— Succede nelle migliori famiglie, tesoro. — Betty sembrava del tutto indifferente.
— Non posso scendere conciato così.
— No, certo. Che misura porti?
— Cosa?
Le labbra piene di Betty ebbero un sorriso indulgente. — Che misura di pantaloni porti?
— Quarantasei — rispose Redpath, e si chiese se per caso non fosse scivolato in un altro sogno in cui la realtà era ancora distorta. — Ma è impossibile…
— Ci pensa la signorina Connie. — Betty lanciò un’occhiata all’anziana signorina, che fece un cenno quasi impercettibile, si alzò e uscì senza dire una parola. Redpath ebbe di nuovo l’impressione che nella vecchietta ci fosse qualcosa di sbagliato, e questa volta capì che la signorina Connie, nonostante l’aria fragile e curva, si muoveva con l’agilità di una ballerina. Era un fatto alquanto strano.
— Immagino che vorrai fare il bagno — disse Betty, andando verso la porta.
Davanti agli occhi di Redpath balenò, per un attimo, la visione di due corpi neri, scorticati, in una vasca di porcellana. — Non vorrei darti troppo…
— Faccio scendere l’acqua e ti preparo l’accappatoio. Appena hai finito vieni giù, tesoro. — Betty uscì dalla stanza. Redpath si mise in ascolto. Sentì i suoi piedi che scendevano gli scalini. Un minuto dopo, in basso cominciò a scorrere l’acqua. Rotolò giù dal letto, e si alzò in piedi. Sentiva un dolore tremendo al basso ventre. Alla luce artificiale del lampadario, la sua camera era più triste e anonima che mai. Si portò sotto la finestra, scostò le tendine e guardò nelle tenebre. Le case attorno formavano un muro alto, buio, squarciato da un’apertura; e in quell’apertura intravedeva le luci di Calbridge, luminose, fosforescenti, lontane nel tempo e nello spazio come lo sfondo di un dipinto di Leonardo.
Prigioniero di una tristezza sconfinata, Redpath richiuse le tendine e scese al piano di sotto. Adesso era tutto tranquillo, in quel buio anonimo. Trovò subito il bagno, che in effetti era la prima porta a sinistra sul pianerottolo del primo piano. Gli avevano lasciato accesa la luce. Entrò, chiuse la porta col catenaccio traballante. L’acqua nella vasca era leggermente giallastra, però calda e abbondante; e vestiti puliti lo aspettavano su un sedile di giunco.
Redpath guardò i calzoni: erano color marrone rossiccio, nuovissimi, con l’etichetta del negozio Marks Spencer ancora attaccata alla cintura. Per di più, l’etichetta lo informò che i calzoni erano esattamente della taglia che aveva chiesto. Poi c’era una camicia sportiva, biancheria e calze; e tutto aveva ancora l’etichetta, tutto era nuovissimo.
“Come diavolo…?” Fissò i vestiti, incredulo. “La camera della signorina Connie dev’essere una specie di supermarket!”
Meccanicamente, cercando di soffocare la sensazione d’irrealtà che lo aveva assalito di nuovo, Redpath fece il bagno e indossò i vestiti nuovi. Poi salì in camera, a depositare i panni sporchi. Dopo un attimo d’esitazione scese a pianterreno. Sotto la porta del soggiorno s’intravedeva una linea sottile di luce. Si diresse verso la porta, ma prima che lui riuscisse a toccare la maniglia la porta si spalancò. Redpath si trovò davanti la figura enorme, appariscente, di Wilbur Tennent.
— Vieni, John, vieni — disse Tennent, espansivo. — Non fare cerimonie. Adesso sei di famiglia.
— Grazie — mormorò Redpath, avanzando nella stanza. Seduti attorno alla stufa a gas c’erano Betty York, la signorina Connie che lavorava a maglia, e la figura sproporzionata di Albert, ancora vestito della tuta marrone, con una tazza di tè fra le mani enormi. Al centro del gruppo c’era un carrello con panini imbottiti e dolci. Redpath notò che gli sorridevano tutti, e una paura nuova cominciò a destarsi in lui. Un serpente si mosse nel suo cervello.
“È quasi orribile quanto l’incubo. Pensano che io sia come loro, ma è impossibile. O è possibile? È possibile?”
— Prima di sederti, vecchio mio, prendi questi — disse Tennent, e gli mise in mano un mucchietto di carta.
— Cosa? — Redpath abbassò gli occhi: aveva in mano qualche banconota. — Non…
— È la vincita del tuo primo giorno di scommesse, vecchio mio. Te l’avevo detto che Swordsmith avrebbe vinto. — Tennent lo prese per il braccio, glielo strinse allegramente. — Te l’avevo detto che ad avere fiducia in me non ci si può sbagliare, e siamo appena all’inizio. Per domani ho messo gli occhi su un cavallo che si chiama Parsnip Bridge, e stai sicuro che…
— Lascialo in pace — ordinò seccamente Betty York. — Non è stato bene.
— Stavo solo cercando di…
— I cavalli non gli interessano. Vieni a sederti qui, tesoro. — Betty batté la mano sul sedile della poltrona vuota, vicino alla sua. Redpath mormorò una scusa a Tennent, andò a sedersi dove Betty gli aveva ordinato, si lasciò servire tè e sandwich e intanto quella sensazione di paura continuava ad agitarsi dentro di lui. Il serpente cresceva.
— Non è delizioso? — disse la signorina Connie. Era la prima volta che Redpath la sentiva parlare. Aveva una voce affettata, stridula.
— Proprio delizioso — dissero Albert e Betty York, all’unisono.
— Delizioso, sì. — La signorina Connie annuì e si mise a sferruzzare più in fretta, contenta. Redpath posò gli occhi sul lavoro che la vecchietta stava facendo. In un primo momento pensò che fosse una sciarpa grigia, ma si accorse subito che gli orli erano estremamente irregolari, come se la signorina Connie non stesse attenta a dare sempre lo stesso numero di punti. E poi, per essere una sciarpa era lunghissima: partiva dalla poltrona e arrivava fino al pavimento, dove si perdeva fra le ombre in un mucchio confuso. La signorina Connie intercettò il suo sguardo e gli sorrise mettendo in mostra i denti. Redpath guardò da un’altra parte.
“Forse non sta facendo niente di particolare. Non è mica necessario fare sempre qualcosa. Forse lavora a maglia e basta, perché le piace.”
Per un po’ Redpath si concentrò sul tè e sui panini di carne di maiale in scatola, ricordando all’improvviso che non mangiava più dal mattino. Per alcuni minuti continuò a sentirsi ossessionato dall’idea di aver dimenticato qualcosa d’importante; poi i suoi pensieri vennero distratti dall’odore del fumo di sigaretta. Era un fumo molto aromatico, quindi probabilmente la sigaretta era francese o americana. Si guardò attorno. Albert aveva finito il tè, stava fumando, e da una tasca della tuta spuntava un pacchetto di Lucky Strike. Redpath sapeva che in centro c’era una tabaccheria che vendeva sigarette e tabacchi americani, ma pensava che fosse roba molto costosa. Una scelta davvero insolita per un uomo come Albert, che sembrava il tipico artigiano della zona delle Quattro Città.
“Prima devo essermi accorto che aveva sigarette americane” rifletté “e il mio inconscio deve aver dato molta importanza a quel particolare. Ecco perché ho sognato Albert in quella città americana. È così che il cervello costruisce le illusioni più pazzesche.”
I minuti passavano e la stanza era immersa nel silenzio, a parte il tintinnio degli aghi della signorina Connie e gli scoppiettii occasionali del fuoco. Le tendine tirate riposavano tranquille sul bovindo. Redpath, intrappolato come un insetto nell’ambra, passò mentalmente da un livello di paura e disperazione a un altro. Sapeva di aver ucciso un essere umano, Leila; e quel fatto restava sempre dietro i suoi occhi, mostruosamente reale, un cancro terribile che nessuna operazione chirurgica avrebbe mai asportato. Di tanto in tanto i suoi pensieri mutavano direzione, si concentravano per un po’ su altre cose (facce scorticate che grondavano sangue, una poltiglia organica che strisciava su mattonelle trasparenti, cadaveri anneriti simili ai più raccapriccianti calchi di Pompei, cantine con le pareti che si protendevano verso di lui agitando i tentacoli, tutti incubi); e allora cercava di fuggire da quei ricordi, e fuggendo incontrava lo spettro più terrificante, lo spettro di Leila e dei suoi occhi diventati così vitrei; e la ruota dell’orrore ricominciava a girare. Quel tumulto di rimorsi e paure lo svuotò di ogni energia. Scoprì di avere sonno, nonostante avesse dormito qualche ora, nonostante il pericolo di nuovi incubi. Arrendendosi al tepore avvolgente della stanza, chiuse gli occhi un attimo. Quando li riaprì, Wilbur Tennent era chino verso di lui, gli puntava contro l’indice con un’aria allegra e accusatrice al tempo stesso.
— Sììììììììì — cantilenava Tennent con tono stridulo, gli occhi fissi su Redpath — sììì… Bisogna arrivare fino in fondo alla strada, sììì… Fino in fondo alla strada.
Redpath lo fissò, paralizzato.
— Ottima idea — disse Betty, e cominciò a cantare. — Anche se la strada è lunga il tuo cuore non si arrenda tieni duro fino in fondo… Perché non canti, tesoro? — Lanciò un’occhiata interrogativa a Redpath.
— Io… — Guardò la signorina Connie e Albert. Tutti e due cantavano quasi impercettibilmente a tempo con Tennent, e le loro facce avevano un’espressione di gioia sfrenata. — Non so cantare.
— Non devi aver vergogna di noi. Adesso fai parte della famiglia — disse Tennent. — Di sera ci mettiamo spesso qui a cantare, invece di guardare quelle porcate che danno in televisione. Dài, John! — Si mise a gesticolare come il direttore d’un coro. Le sue mani per poco non toccarono la faccia di Redpath. — E se la strada è dura il viaggio ti matura;/arrivi alla natura… Sììììììì…
“Io non faccio parte della vostra maledetta famiglia” pensò Redpath, ma le sue labbra avevano già cominciato a muoversi in risposta all’invito di Tennent. Il suono della propria voce che cantava quelle parole lo imbarazzava moltissimo. “Non è possibile che mi stia succedendo davvero. Cos’ho dimenticato di fare? Lasciatemi andare a letto, vi prego.”
Decise di alzarsi, di scusarsi con la massima cortesia possibile e ritirarsi in camera appena la canzone fosse finita; ma quando giunse il momento si trovò prigioniero dello stesso tipo di paralisi che lo afferrava da bambino e che lo aveva costretto ad assistere a innumerevoli funzioni religiose e concerti scolastici. Doveva solo alzarsi, mormorare le sue scuse e andare a letto; eppure, una cosa tanto semplice era al di là delle sue forze. Gli altri quattro lo opprimevano psichicamente, lo paralizzavano; e se avevano voglia di restare lì a cantare fino all’alba, lui sarebbe rimasto per forza con loro. Guardò l’orologio appeso sopra il caminetto, vide che mancava più di un’ora a mezzanotte; quasi gli sfuggì un gemito quando la compagnia finì la prima canzone e attaccò immediatamente “Lily della laguna”, con un affiatamento da maestri.
Cantavano a voce bassa, quasi con riverenza, dominati dall’assurda musicalità di Albert, che fumava continuamente e sorrideva con quel suo sorriso acromegalico, canzone dopo canzone. La signorina Connie sferruzzava incessantemente, e la massa informe di lana grigia diventava sempre più lunga. Betty York gli sorrideva, calda e incoraggiante, ogni volta che i loro occhi si incontravano. Wilbur Tennent, elegante, impeccabile, ogni tanto si metteva a dirigere il coro, e i gemelli sfavillavano, e la sua faccia grassoccia era soffusa di bonomia. A Redpath venne in mente un gruppo di alcolizzati che tentasse disperatamente di convincersi che la felicità è stare tutti assieme in un locale squallido a bere cioccolata, e si sentì soffocare ancora di più. Un insetto atterrò sulla parete di fronte a lui e cominciò a ronzare a ritmo continuo, minuto dopo minuto, come un minuscolo meccanismo che si fosse rotto e non potesse più fermarsi…
— Gente, domani è un altro giorno — annunciò improvvisamente Betty, a mezzanotte meno un quarto. — E io ho bisogno di dormire, se no divento brutta.
Si alzò, passandosi distrattamente le mani sul petto alla Liz Taylor. Guardandola, Redpath ricordò che all’inizio, incredibilmente, aveva pensato di gettarsi in un’avventura con lei. E si erano conosciuti quello stesso giorno, poco più di dodici ore prima; ma da allora erano successe tante cose. Si alzò anche lui e si girò verso la porta, tenendosi ben lontano da Betty. Temeva che lei fraintendesse le sue intenzioni, che tentasse di riportare i loro rapporti sul piano della sessualità.
Wilbur Tennent lo stava fissando con un’espressione di perplessità addolorata, tra un sorriso e una smorfia di preoccupazione.
— John, vecchio mio — gli disse — non avrai intenzione di lasciarci eh?
Redpath si agitò per un attimo. Non sapeva cosa rispondere. — No. Certo che no. Insomma…
— Bravo, John. E non scordarti di Parsnip Bridge.
— Buonanotte — disse Redpath, salutando tutti in una volta, poi corse via nel buio della casa, salì gli scalini a due e tre per volta, silenzioso e agile come una belva. Arrivò al pianerottolo del secondo piano, entrò in camera, chiuse la porta, accese la luce. Il lampadario oscillò leggermente, creando ombre inquietanti. Il sollievo di essere solo era attenuato da un fatto sconvolgente: aveva davanti una notte intera, e doveva trascorrerla in quell’ambiente inospitale, fra mobili che sembravano scelti a caso e senza nessun gusto. Per quanto si sentisse stanco, era molto improbabile che riuscisse a dormire in una stanza del genere. Si fermò accanto alla porta: la camera da letto non era riscaldata, e gli era venuta la pelle d’oca. Poi si gettò sotto la trapunta senza nemmeno svestirsi.
Dopo un paio di minuti cominciò a scaldarsi; ma il calore del suo corpo, paragonato al freddo della casa, gli faceva sembrare ancora più ostile l’ambiente. Le sue membra calde erano un avamposto solitario, minacciato da nemici attenti e implacabili.
“Nemici? Non essere stupido. Non fare resistenza. Qui sei al sicuro. Adesso fai parte della famiglia…”
Restò ad ascoltare i rumori della casa che si preparava per la notte, lo scorrere dell’acqua nelle stanze, il ronzio delle tubature, le porte che si chiudevano. Qualcuno passò davanti alla sua porta; probabilmente Wilbur Tennent, diretto in camera da letto. Poi cadde il silenzio, e Redpath si accorse che il lampadario ronzava piano, segno che l’impianto elettrico era scadente.
Pensò di uscire dal letto per spegnere la luce, ma trovarsi immerso nelle tenebre era un fatto troppo estremo e pericoloso, una situazione da rimandare finché non avesse avuto il tempo di soppesarne tutte le conseguenze.
Si rimboccò la trapunta, si sistemò in una posizione più comoda; poi, a titolo puramente sperimentale, chiuse gli occhi, per vedere se riusciva a dormire…
Fu subito chiaro che l’incubo era un incubo, per cui si trattava di roba di seconda classe. In un angolo isolato della sua coscienza nacque un senso di gratitudine, ma solo per un attimo. Stando alle regole, sapere che un sogno era un sogno avrebbe dovuto diluirne l’effetto, permettergli di tirarsi indietro e osservare con interesse indulgente i parti più recenti del suo subconscio; ma questa volta, qualcosa non andava. Si trovava di nuovo in cima a una scala e guardava un pavimento a mattonelle verdi e crema, il pavimento dell’atrio del reparto di psicofisiologia dell’Istituto Jeavons; però sapeva che in realtà quel pavimento non esisteva, perché lui aveva dato le dimissioni e non sarebbe mai più tornato all’Istituto. Eppure l’immagine era chiara, nettissima. I suoi sensi la percepivano come una parte indiscutibilmente reale del mondo esterno.
“Cosa succede? Riesco a pensare come se fossi sveglio?”
Redpath, preso da un fascino irresistibile, restò a guardare il pavimento che cambiava colore. Alcune mattonelle diventavano blu e semitrasparenti; altre si trasformavano in pezzi di ambra, rubino e citrino. Sembravano illuminate dal basso da luci che variavano continuamente d’intensità, creando toni sempre diversi; e c’era di nuovo quella sensazione di movimento, come se in ogni mattonella fosse chiuso un animale che si agitava. La visione non aveva per lui nessun significato, anzi, a paragone di alcuni degli ultimi sogni era quasi bella; eppure, mentre osservava quelle geometrie cangianti, fu preso da un senso di apprensione che lo lasciò spossato, paralizzato. Stava per succedere qualcosa, qualcosa di orribile. Era sicuro che nessuno dei terrori già sperimentati lo avesse nemmeno lontanamente preparato a quello che lo attendeva ora.
“L’ultima volta mi è andata bene. L’incubo non è cominciato. Ma adesso sta cominciando.”
Ai margini della visione ci fu un movimento, uno spostamento continuo. Una massa scura stava avanzando verso di lui. Sembrava sangue vecchio, di consistenza molliccia. Milioni di filamenti simili a lumache, composti di qualcosa che ricordava il fegato, si contorcevano in superficie. Il fronte della massa tremolava, esitava, si riversava sul pavimento. Pseudopodi sottili, tremuli, si protendevano da una mattonella all’altra. A volte si ritiravano, come di fronte a condizioni sfavorevoli; più spesso avanzavano, si ricoprivano di fluidi neri, e l’orribile poltiglia organica invadeva un’altra parte di pavimento. Redpath, imprigionato nell’immobilità gelida di chi sta sognando, avrebbe voluto costringersi a fare qualcosa, qualsiasi cosa, pur di spezzare la paralisi, pur di far capire all’intero universo che quella situazione gli ripugnava, che non aveva nessuna voglia di morire, che non si sarebbe lasciato inghiottire supinamente da… Da cosa?
Un conato di vomito prese a scuotergli piano il corpo; e in quel momento capì, sbalordito, che essere divorato da quella massa di sangue senziente non era l’orrore definitivo. Lo aspettava qualcos’altro. Qualcosa di molto peggio.
I suoi occhi si posarono su quattro mattonelle al centro del pavimento, che fino ad allora non avevano subìto metamorfosi. Mentre guardava, il quadro formato dalle mattonelle divenne sempre più scuro, e all’improvviso si trasformò in un coperchio trasparente che chiudeva un pozzo di buio assoluto. Al centro del rettangolo di tenebre nacque un puntino di luce. Divenne più luminoso, si divise in due. Adesso stava fissando un piccolo disco blu e bianco e una macchia di luminosità bianca, intensa come una stella.
Per un attimo gli sembrò che gli avessero tolto un peso dalle spalle. “È come guardare in un telescopio astronomico” pensò. “Santo cielo, quella potrebbe essere la Terra, e quell’altra…
Di colpo, senza preavviso, il fragile edificio dei suoi pensieri fu travolto da un torrente di emozioni primitive. La paura si mischiò all’odio e al disgusto; ma la paura era sempre predominante, era la sensazione principale, il torrente che trascinava con sé tutte le altre emozioni verso quel pozzo buio e pulsante. La paura, la paura, la paura…
No! L’urlo gli fece quasi esplodere il cervello. “No! No! No!”
Si svegliò nel freddo della camera da letto, scosso dai brividi, e per un attimo gli venne quasi da sorridere ai mobili così brutti, alla lampada di plastica, alla tappezzeria a fiori. Il bello degli incubi è che quando ci si sveglia ci si sente benissimo. Il mondo vero era quello, un mondo che poteva anche sembrare vuoto e inutile; ma per lo meno c’era il vantaggio che a tenersi ben saldi entro i confini di quel mondo non sarebbe mai successo niente di particolarmente straor…
“Leila!”
Redpath spalancò gli occhi, gemette. Tutta la sua vita era diventata un incubo, un incubo che non concedeva tregue, da cui non ci si poteva né svegliare né addormentare. Gettò da parte la trapunta, scese dal letto, si portò davanti al cassettone con lo specchio, appoggiò i gomiti sul ripiano di legno e si protese in avanti, a guardarsi. La cosa sorprendente della faccia che lo fissava dall’universo capovolto dello specchio era che si trattava sempre della sua faccia, della faccia che John Redpath possedeva da anni. Sì, era più pallido del solito, si vedevano di più le lentiggini, e i capelli erano in disordine; ma gli occhi, in particolare, erano gli occhi di un uomo sano di mente. Il che gli sembrava vagamente impossibile, e anche piuttosto ingiusto dopo tutto quello che gli era successo; gli sembrava quasi che lo avessero derubato di qualcosa che gli spettava di diritto. Scrutando solennemente quella faccia indifferente, estranea, che lo guardava dallo specchio, Redpath si sentì costretto a parlare, a controllare se le due paia di labbra agivano in sincronia. Ormai tutto era possibile, non esistevano più regole fisse. Nelle sue orecchie risuonava un ronzio, come se da qualche parte fosse in funzione un generatore elettrico.
— Te l’avevo detto — sussurrò in tono d’accusa, assumendo il ruolo del suo alter ego — che hai dimenticato di fare qualcosa.
— Cosa? Cos’ho dimenticato?
— Guardami bene. Non hai ancora capito?
Per un attimo Redpath si sentì perduto; poi si accorse che il suo umore e le sue percezioni erano cambiati. Provò un’esaltazione quasi religiosa. Attorno a lui, l’aria vibrava, si accendeva di luminosità strane.
— No — disse, distrutto. — Non quello.
Si tirò su, cercò di voltare le spalle allo specchio. L’elenco degli orrori della giornata non era ancora completo: travolto dagli incubi e dalla follia dell’omicidio, aveva dimenticato di prendere la solita dose di Epanutin. Però il suo giubbotto riposava su una sedia, e se la sua memoria era ancora degna di fede doveva avere in tasca la scorta d’emergenza di capsule al fenobarbitone. Mosse un passo verso la sedia, già conscio dell’inutilità del tentativo. Poi nel suo cervello si scatenò la tempesta elettrica dell’attacco epilettico, cancellando tutto, annullando la realtà, privandolo dei pesi tremendi e delle responsabilità dell’autocoscienza.
Precipitò nelle tenebre, e le tenebre erano dolorose, ma anche dolci.
Fu un miracolo modesto, ma significativo.
Un miracolo così minimo che nessuno se ne sarebbe accorto; ma i suoi effetti erano enormi, e Redpath ne fu profondamente felice.
Si svegliò, ed era perfettamente normale. Sapeva chi era, dove si trovava, cosa doveva fare, ed era una sensazione estremamente confortante.
Dapprima vide solo un rettangolo d’un grigio pallido, un trapezio di luce perlacea, e per un secondo temette di essere ancora nella realtà dell’ultimo incubo; poi la sua mente e il suo corpo tornarono a orientarsi. Si trovava sul pavimento della camera da letto, nella casa di Raby Street, e dalla finestra stavano filtrando le luci dell’alba. Il mondo, il mondo vero, lo aspettava, e niente gli impediva di riprenderne possesso. Forse gli avrebbero chiesto un prezzo molto alto, ma era pronto ad affrontare tutto. Sapeva che sarebbe riuscito a saldare i debiti, perché era in gioco la cosa più preziosa della sua vita: la tranquillità interiore.
Redpath provò a muovere gambe e braccia prima di alzarsi. I muscoli erano un po’ intorpiditi, però non sentiva dolore. Quindi si era trattato solo di un attacco di piccolo male, subito seguito dal sonno. Anche di questo doveva ringraziare la sorte. Si attaccò all’orlo del letto e si alzò. La lampada appesa al soffitto era ancora accesa, e nel conflitto fra luce naturale e luce artificiale la stanza acquistava una aggressività squallida. Sembrava l’ambiente più adatto per una commedia stile “gioco di massacro”.
Con una mano sulla fronte, scrutò a fondo la stanza. Cercava di capire quanto fosse sconfinata la follia che si era impossessata di lui il giorno prima. Quelle ventiquattro ore gli sembravano lontane, oscure. Anche lo spaventoso omicidio di Leila era solo un incubo. L’unica spiegazione possibile era che si fosse trattato di un effetto collaterale, estremamente drastico, del Composto Centottantatré. La polizia avrebbe dovuto tenerne conto; Henry Nevison avrebbe dovuto fornire tutti i particolari possibili, anche se questo significava la fine di uno dei progetti che gli stavano più a cuore.
Al pensiero di recarsi alla polizia, di denunciare il delitto, di veder tutto ridotto alle dimensioni di una pratica chiusa in archivio, Redpath provò il desiderio di andarsene dalla casa, di tagliare i ponti con quella gente assurda. Guardò l’orologio, vide che erano le cinque e trentatré e cercò di caricarlo senza toglierlo dal polso. Le sue dita continuavano a scivolare sulla rotellina sporgente, e allora si accorse di essere gelato. Prese il giubbotto, se lo infilò, tirò la cerniera lampo fin sotto il mento, per intrappolare il calore del corpo. Stava battendo i denti, e nel silenzio della stanza il rumore che facevano era terribilmente forte.
“Eccoci qua, ragazzo mio. Sei libero di andartene.”
“Davvero?”
Era di nuovo un essere razionale, e ne era contento; però gli venne il sospetto che fosse tutto troppo facile, troppo semplice, che non gli avrebbero permesso di uscire e di immergersi nel grande fiume della normalità. La casa e le persone che ci vivevano sembravano possedere una personalità composita, sfaccettata; e l’istinto gli diceva che quella personalità mancava di qualcosa, e che non avrebbero acconsentito facilmente a lasciarlo andare. Forse era meglio rimandare la fuga fino a che non ricominciasse la vita della città. Sarebbe stato più tranquillo, più sicuro, se aveva attorno altra gente cui chiedere aiuto.
“Non dire idiozie, uomo! A cosa stiamo giocando?”
Redpath si maledisse: si lasciava sempre travolgere da fantasie infantili. Roba da film. Aprì la porta della stanza. Il pianerottolo era buio e deserto.
“Certo che è deserto! Chi ti aspettavi? Bela Lugosi? Oppure quella bambina dell’Esorcista, Linda Blair, con la testa girata dall’altra parte e la vestaglia sporca di vomito verde? Insomma, non dire idiozie!”
Curioso e un po’ intimidito, Redpath uscì sul pianerottolo e si fermò ad ascoltare i suoni della casa. Dalla porta di fronte giungeva un russare debole, segno che Wilbur Tennent stava ancora dormendo. Rassicurato da quel particolare normalissimo, Redpath scese piano le scale, arrivò al pianerottolo successivo. La porta della prima stanza, quella che secondo lui era occupata da Betty York. era leggermente aperta. L’oltrepassò in punta di piedi, per paura di svegliarla. La camera della signorina Connie, poi giù per tre gradini. Da lì poteva vedere tutto il retro della casa.
La finestra in fondo al pianerottolo era illuminata dal sole dell’alba. Il giglio giallo se ne stava immobile al centro, come un uccello da preda in agguato. Redpath sentì di nuovo l’aroma di chiodi di garofano, che svanì immediatamente. “È un profumo che non esiste” pensò. “Un aroma immaginario. Sinestesia.”
Distolse gli occhi dalla porta del bagno, leggermente socchiusa, lontana solo due passi, e scese al pianterreno. Adesso doveva solo oltrepassare le due porte, uscire (a meno che non fossero chiuse a catenaccio e che la chiave non fosse infilata nella serratura), incamminarsi per strada nella quiete del primo mattino, verso Woodstock Road. Era libero, libero! L’idea di dover perdere tempo con la serratura, col pericolo che qualcuno gli arrivasse alle spalle, lo spinse a voltarsi, a guardare verso la cucina. La porta della cucina era spalancata. Nel chiarore grigiastro della stanza, vide qualcosa di bianco sospeso a mezz’aria, come una falena gigantesca.
Redpath si portò una mano alla bocca, e anche l’oggetto bianco si mosse: stava guardando il riflesso della propria faccia in uno specchio. Si immobilizzò. Correre via in quel momento sarebbe stato come dichiararsi sconfitto. Poi, col cuore che batteva fortissimo, decise di fare un esperimento. Si spostò lentamente di lato, e l’immagine riflessa dallo specchio scomparve, in ossequio alle leggi dell’ottica. Lo specchio era davvero uno specchio, e le care vecchie leggi della fisica erano ancora valide. Dal punto in cui si trovava adesso, lo specchio gli rimandava l’immagine di una macchia color rosso scarlatto, che identificò subito: la porta che dava in cantina. Annuì, soddisfatto; si avviò verso l’ingresso, e si fermò di colpo.
“Ma cosa sta succedendo? Io non ho mai visto quella porta rossa. L’ho vista solo in un incubo, quando credevo di essere finito nello stomaco della casa!”
Redpath restò perfettamente immobile, cominciò a carezzarsi il mento ispido, cercando spiegazioni. La spiegazione più ovvia, quella che i ricercatori usavano sempre per mettere a tacere gli individui che sostenevano di fare sogni precognitivi, era che in realtà lui avesse intravisto la porta rossa, senza rendersene perfettamente conto. Una buona spiegazione. Un ragionamento lucido, impeccabile; ma il guaio era che non riusciva ad accettarlo. Era assolutamente sicuro che le poche volte in cui si era trovato nell’atrio la porta della cucina fosse chiusa, per cui gli sarebbe stato impossibile intravedere qualcosa.
Molto bene. Se una spiegazione non funziona, bisogna trovarne un’altra. Ma perché mai doveva cercare una spiegazione? Perché non si accontentava di uscire, visto che il momento era propizio?
Sapeva benissimo perché doveva indagare, sradicare ogni ombra di dubbio sugli avvenimenti del giorno prima e della notte. Quella casa lo aveva spaventato. Aveva preso d’assedio la roccaforte del suo materialismo, del suo buonsenso. Andarsene ora, quasi certo dell’esistenza di orrori soprannaturali, avrebbe significato concedere la vittoria alla casa. Sarebbe diventato un’altra persona. Davanti al buio avrebbe reagito come un bambino spaventato, come un selvaggio superstizioso. E la vita era già abbastanza dura…
Redpath si girò e si incamminò verso la porta della cucina.
La cucina era lunga. A metà della parete di sinistra si trovava un vecchio lavandino di porcellana, tutto crepato e pieno di piatti sporchi. Anche quel particolare corrispondeva esattamente al sogno, ma non lo turbò troppo perché poteva venire come logica deduzione dall’esperienza. Le vecchie case di quel tipo avevano tutte, più o meno, la stessa struttura; la mancanza di ammodernamenti lasciava supporre che probabilmente il lavandino era sempre lo stesso; e Betty York non gli sembrava così scrupolosa da mettersi a lavare i piatti dopo ogni pranzo. Nello stesso angolo del sogno c’era anche il frigorifero, ma era la posizione più naturale in cui sistemarlo. Tutto si riduceva alla porta che dava in cantina, ammesso che portasse davvero in cantina.
Redpath avanzò di due passi, guardò a destra, nel punto in cui dall’atrio la sua visuale era bloccata dalla porta. C’era un’altra porta, stranamente dipinta di rosso scarlatto. Come in sogno, con una sensazione d’irrealtà, Redpath protese la destra verso la maniglia.
“Ehi, amico, lascia stare! Mi è venuta in mente una spiegazione perfetta. È tutta colpa del Composto Centottantatré! Conosci i particolari della cucina perché li hai assorbiti, per via telepatica, da Betty York o dagli altri. È una cosa che ti succede già da un pezzo. Non è chiaro?
Redpath aprì la porta, vide solo vagamente gli scalini di pietra che scendevano giù nel buio. L’aria era più calda di quanto si aspettasse. Calda e pesante.
Scese due scalini, si fermò al limite della sua visuale, in ascolto.
“Ragazzo mio, ma lo stai facendo sul serio? Lo sai cosa stai facendo, no? È come in quei vecchi film dell’orrore, quando l’eroe è tanto stupido da andarsi a cacciare fra le zampe del mostro. E i bambini che guardano il film tremano di paura, gli urlano di tornare indietro, ma lui no, va avanti. Sul serio, John, credevo che tu avessi un po’ più di cervello…”
Redpath scese un altro gradino e si fermò di nuovo, cercando di penetrare le tenebre. Sotto, qualcosa si mosse con un risucchio viscido, ripugnante.
Slughhh. Slughhh. Slughhh.
Tornò indietro di uno scalino, scosse la testa. Fra le cose che in genere si trovano in una vecchia casa, cosa poteva produrre quel rumore?
Slughhh. Slughhh. Slughhh.
— D’accordo, casa. Hai vinto — mormorò Redpath. Risalì le scale e chiuse la porta rossa. Ormai non gl’importava più che lo sentissero. Corse nell’atrio, arrivò all’ingresso. La porta esterna era chiusa da due catenacci e da una serratura Yale, ma Redpath fu veloce, abilissimo.
Dopo qualche secondo era già sulla strada, sotto il sole timido dell’alba, e correva via.