Roger Zelazny Io, Nomikos, l’immortale

— Tu sei un kallikanzaros — affermò lei improvvisamente.

Mi girai sulla sinistra e sorrisi nell’oscurità.

— Ho lasciato corna e zoccoli in Ufficio.

— Allora conosci la leggenda!

— Mi chiamo «Nomikos».

La cercai, la trovai.

— Questa volta distruggerai il mondo?

Risi e me la strinsi contro.

— Ci penserò. Se la Terra è destinata a finire così…

— Sai che i bambini che nascono qui il giorno di Natale sono di sangue kallikanzaroi — disse lei, — e tu una volta mi hai detto che il tuo compleanno…

— D’accordo!

Mi resi conto che stava scherzando solo a metà. Conoscendo alcune delle cose che s’incontrano talora nei Vecchi Posti, nei Posti Caldi, si può quasi credere nei miti senza sforzi eccessivi. Come la storia di quegli spiriti alla Pan che si radunano ogni primavera e passano dieci giorni a segare l’Albero del Mondo, solo per essere dispersi all’ultimo momento dal suono delle campane pasquali. (Din-don-dan, le campane, gnash, gnash, i denti, clacke-ti-clack, gli zoccoli, eccetera). Cassandra ed io non avevamo l’abitudine di discutere religione, politica, o folklore egeo a letto; ma dato che io sono nato da queste parti, le memorie sono ancora vive, in qualche modo.

— Sono offeso — dissi, scherzando solo a metà.

— Anche tu stai offendendo me…

— Mi spiace.

Mi rilassai di nuovo.

Dopo un po’ spiegai: — Quand’ero ancora un marmocchio, gli altri bambini mi prendevano in giro, mi chiamavano «Konstantin, Kallikanzaros». Quando sono diventato più vecchio e più brutto hanno smesso di farlo. Per lo meno non me lo dicevano più in faccia…

— Konstantin? Era il tuo nome? Mi sono chiesta…

— Adesso è «Conrad», e quindi dimenticatene.

— Ma mi piace. Preferirei chiamarti «Konstantin» piuttosto che «Conrad».

— Se la cosa ti fa felice…

La luna spinse la sua faccia butterata sul davanzale della finestra per canzonarmi. Non potevo raggiungere la luna, e nemmeno la finestra, così distolsi lo sguardo. La notte era fredda, era umida, era nebbiosa, come sempre da queste parti.

— Il Commissario per le Arti, i Monumenti e gli Archivi del pianeta Terra non è proprio il tipo da abbattere l’Albero del Mondo — gracchiai.

Mio caro kallikanzaros — rispose lei troppo in fretta, — non ho detto questo. Ma ogni anno ci sono sempre meno campane, e non sono solo i desideri che contano. Ho questa sensazione che tu cambierai le cose, in qualche modo. Forse…

— Ti sbagli, Cassandra.

— E ho paura, e freddo…

E lei era deliziosa nell’oscurità, e così la strinsi nelle mie braccia per tenerla lontana da quel freddo tanto nebbioso.


Nel tentare di ricostruire gli avvenimenti dei sei mesi scorsi, capisco adesso che, mentre noi creavamo mura di passione attorno al nostro Ottobre e all’isola di Kos, la Terra era già caduta nelle mani di quei poteri che distruggono ogni Ottobre. Schierate in buon ordine, le forze della distruzione finale avanzavano col passo dell’oca tra le rovine: prive di volto, ineluttabili, le braccia alzate. Cort Myshtigo era atterrato a Port-au-Prince sul vecchio Sol-Bus Nine, che lo aveva portato da Titano assieme ad una quantità di camicie e scarpe, biancheria intima, calze, vini assortiti, medicinali vari, e le ultime notizie del mondo civile. Un ricco ed influente galatto-giornalista, l’amico. Quanto ricco, non l’avremmo saputo per diverse settimane; quanto influente, l’ho scoperto solo cinque giorni fa.

Mentre vagavamo tra gli uliveti inselvatichiti, ci avventuravamo tra le rovine del castello Franco, o mescolavamo le nostre tracce con le impronte a forma di geroglifico dei gabbiani, là sulle umide sabbie della spiaggia di Kos, bruciavamo il tempo in attesa d’un riscatto che non poteva arrivare, che non avremmo mai dovuto aspettare, in realtà.

I capelli di Cassandra sono del colore delle olive di Katamara, e lucidi. Le sue mani sono morbide, le dita corte, delicatamente palmate. I suoi occhi sono molto scuri. È più piccola di me di solo dieci centimetri, il che rende pressoché totale la sua bellezza, dato che io sono più alto d’un metro e ottanta. Naturalmente qualsiasi donna sembra graziosa, ben fatta ed attraente quando cammina al mio fianco, dato che io non sono nessuna di queste cose: la mia guancia destra era allora una mappa dell’Africa disegnata in varie tonalità di rosso purpureo, a causa di quel fungo mutante che m’ero preso da una tela muffosa quando dissotterravo il Guggenheim per il New York Tour; la linea dei capelli mi arriva fin sulla fronte per un buon paio di centimetri; i miei occhi sono scompagnati. (Fisso la gente con quello blu e freddo di destra quando voglio intimidirla; quello castano è per gli Sguardi Sinceri ed Onesti). Porto uno stivale rinforzato perché la gamba destra è un po’ più corta dell’altra.

Cassandra non ha bisogno di contrasti, comunque. È bella.

L’ho incontrata per caso, l’ho inseguita con disperazione, l’ho sposata contro la mia volontà. (L’ultima parte è un’idea sua). Io, per me, non pensavo proprio al matrimonio; nemmeno quel giorno che portai la mia scialuppa in porto e la vidi là, a prendere il sole come una sirena vicino all’albero d’Ippocrate, e decisi che la volevo. I Kallikanzaroi non sono mai stati troppo inclini a mettere su famiglia. Penso di esserci cascato di nuovo.

Era una mattina chiara. Stava cominciando il nostro terzo mese assieme. Era il mio ultimo giorno a Kos, a causa d’una chiamata che avevo ricevuto la sera prima. Tutto era ancora bagnato della pioggia notturna, e noi sedevamo nel patio bevendo caffè turco e mangiando arance. Il giorno cominciava ad aprirsi la strada nel mondo. La brezza era intermittente, era umida, ci faceva venire la pelle d’oca sotto i maglioni neri che indossavamo e soffiava via il vapore che saliva dal caffè.

— «Rodos dactylos Aurora…» — disse lei, con un cenno.

— Sì — dissi io, annuendo, — dita rosa e affascinanti.

— Godiamocela.

— Sì. Scusa.

Finimmo il caffè e restammo seduti a fumare.

— Mi sento depresso — dissi.

— Lo so — ribatté lei, — ma non lo devi essere.

— Non posso farci niente. Devo andarmene e lasciarti, e questo è deprimente.

— Potrebbero essere solo poche settimane. L’hai detto tu stesso. Poi tornerai.

— Lo spero — dissi. — Se ci vuole più tempo, comunque, ti manderò a prendere. Non so ancora dove mi sbatteranno.

— Chi è Cort Myshtigo?

— Un tizio vegano, giornalista. Un tipo importante. Vuole scrivere qualcosa su quello che resta della Terra. E così devo andarglielo a mostrare. Io. Personalmente. Maledizione!

— Uno che si prende una vacanza di dieci mesi per andare a fare un giro in barca non può lamentarsi d’aver troppo lavoro.

Io posso lamentarmi, e lo farò. Il mio lavoro dovrebbe essere una sinecura.

— Perché?

— Principalmente perché io l’ho organizzato in questo modo. Ho lavorato duro per venti anni per rendere com’è adesso il Dipartimento Arti, Monumenti e Archivi, e dieci anni fa sono giunto a far sì che il mio staff fosse in grado di cavarsela da solo in quasi tutte le situazioni. Così me ne sono andato in santa pace, tornando solo di tanto in tanto per firmare qualche documento, e facendo ciò che più mi aggrada nel frattempo. E adesso quest’umiliazione! Io, un Commissario, devo far da guida ad uno scribacchino vegano in un tour che qualsiasi impiegato del mio staff potrebbe dirigere! I Vegani non sono dèi!

— Aspetta un attimo — intervenne lei. — Venti anni? Dieci anni!

La sensazione di sprofondare.

— Se non hai nemmeno trent’anni.

Sprofondai di più. Attesi. Mi ritirai su.

— Uh… C’è qualcosa che… be’, è tutta colpa della mia reticenza, mi pare di non avertene mai fatto cenno… Tu quanti anni hai, Cassandra?

— Venti.

— Uh-huh. Be’… Io ho circa il quadruplo della tua età.

— Non capisco.

— E nemmeno io. O i dottori. Semplicemente è come se mi fossi fermato, in qualche punto tra i venti e i trent’anni, e fossi rimasto così. Penso che sia una specie di, be’… una parte della mia particolare mutazione, suppongo. Fa qualche differenza?

— Non lo so… Sì.

— Non t’importa che io zoppichi, o che sia eccessivamente villoso, non t’importa nemmeno la mia faccia. Perché dovrebbe preoccuparti la mia età? Io sono giovane, da tutti i punti di vista.

— È semplicemente che non è lo stesso — disse lei con chissà quale scopo. — E se non diventassi mai vecchio?

Mi leccai le labbra. — Succederà, presto o tardi.

— E se fosse tardi? Io ti amo. Non voglio sorpassarti in età.

— Arriverai a centocinquant’anni. Ci sono quelle cure SS. Le prenderai.

— Ma non mi conserveranno giovane, come te.

— Io non sono giovane per davvero. Sono nato vecchio.

Nemmeno questo funzionò. Lei cominciò a piangere.

— Ci mancano ancora tanti anni — la consolai. — Chi sa cosa succederà nel frattempo?

Questo la fece piangere ancora di più.

Io sono sempre stato impulsivo. Di solito ragiono abbastanza bene, ma sembra che lo faccia sempre dopo aver parlato; e generalmente mi trovo ad aver distrutto ogni base per ulteriori stadi di conversazione. Questa è una delle ragioni per cui ho un gruppo competente, una buona radio, e me ne sto per la maggior parte del tempo fuori dai piedi.

Ma ci sono certe cose che uno deve fare da solo, no?

Così dissi: — Senti, anche tu hai dentro un po’ di Roba Calda. Mi ci sono voluti quarant’anni per capire che non stavo invecchiando. Forse tu sei della stessa stoffa. Dopo tutto siamo più o meno delle stesse parti…

— Conosci qualche altro caso come il tuo?

— Be’…

— No, non ne conosci.

— No. Non ne conosco.

Ricordo che allora desiderai essere nuovamente a bordo della mia nave. Non la grande spartiacque. La mia vecchia carcassa, la Golden Vanitie, fuori sul mare della baia. Ricordo che desiderai poterla riportare nel porto, e vedere lei per la prima splendente volta, ed essere capace di ricominciare tutto dall’inizio; e parlargliene subito, oppure ripercorrere tutto il tempo già trascorso e tenere la bocca chiusa sulla mia età.

Era un bel sogno, ma porco mondo, la luna di miele era finita. Aspettai finché ebbe smesso di piangere e sentii i suoi occhi su di me. Poi attesi ancora un poco.

— Allora? — chiesi, finalmente.

— Tutto bene, grazie.

Trovai e strinsi la sua mano passiva, me la portai alle labbra.

— Rodos dactylos — sospirai, e lei disse: — Forse è una buona idea che tu te ne vada… per un po’ almeno… — e la brezza che soffiava via il vapore ritornò, ed era umida, e ci fece venire la pelle d’oca, e fece vibrare la sua mano o la mia; non sono sicuro quale. Smosse anche le foglie, che rovesciarono sulle nostre teste la pioggia raccolta nella notte.

— Hai esagerato la tua età? — chiese lei. — Anche solo un poco?

Dal tono della sua voce era chiaro che la cosa più saggia sarebbe stata una risposta affermativa.

Così: — Sì — le dissi, sinceramente.

Lei allora tornò a sorridermi, rassicurata in qualche modo della mia umanità.

Ah!

E così restammo seduti lì, stringendoci le mani e scrutando il mattino. Dopo un po’ lei cominciò a canticchiare. Era una canzone triste, vecchia di secoli. Una ballata. Narrava la storia d’un giovane lottatore di nome Temocle, un lottatore che non era mai stato sconfitto. Alla fine giunse a credersi il migliore lottatore vivente. Alla fine gridò la propria gloria dalla cima d’una montagna, e siccome era troppo vicino alla loro dimora, gli dèi agirono in fretta: il giorno seguente arrivò in città un ragazzo zoppo, sulla schiena corazzata d’un enorme cane selvatico. Lottarono per tre giorni e tre notti, Temocle e il ragazzo, e al quarto giorno il ragazzo gli spezzò la schiena e lo lasciò lì nel campo. Ovunque cadde il suo sangue nacque lo strige-fleur, come lo chiama Emmet, il fiore succhia-sangue che di notte si muove sulle radici, cercando nel sangue della sua vittima lo spirito perduto del campione sconfitto. Ma lo spirito di Temocle se n’è andato dalla Terra, e così loro devono muoversi e cercare, per sempre. Più elementare di Eschilo, ma adesso siamo un popolo più semplice di quanto non fossimo una volta, specialmente quelli del continente. E d’altra parte, non è che sia andata davvero così.

— Perché stai piangendo? — mi chiese lei d’improvviso.

— Sto pensando al dipinto dello scudo d’Achille — dissi, — e a che terribile cosa sia essere una bestia educata, e non sto piangendo. Mi stanno cadendo addosso le foglie.

— Farò ancora un po’ di caffè.

Intanto che lei lo preparava io lavai le tazzine, e le dissi di prendersi cura della Vanitie mentre ero fuori, e di tenerla pronta nel bacino di carenaggio nel caso l’avessi mandata a chiamare. Lei disse che l’avrebbe fatto.

Il sole si alzava sempre più nel cielo, e dopo un po’ giunse un rumore di martello dal cortile del vecchio Aldones, il costruttore di bare. I ciclamini s’erano svegliati e la brezza ci portava la loro fragranza dai campi. Alto sopra di noi, come un nero segno di sventura, un pipiragno attraversò il cielo verso la terraferma. Avrei dato la testa per poter stringere le dita sul calcio d’una calibro trentasei, fare un bel po’ di rumore, e vederlo cadere. Ma le uniche armi da fuoco, per quello che sapevo, erano a bordo della Vanitie, e così mi limitai a vederlo svanire.

— Dicono che non sono nativi della Terra — m’informò lei, guardandolo sparire, — e che sono stati portati qui da Titano, per zoo e cose del genere.

— È vero.

— … E che sono sfuggiti al controllo durante i Tre Giorni e sono diventati selvatici, e qui sono cresciuti in grandezza molto più che sul loro mondo.

— Una volta ne ho visto uno con un’apertura alare di nove metri e mezzo.

— Il mio prozio mi ha raccontato una volta una storia che aveva sentito ad Atene — ricordò lei, — su un uomo che ne uccise uno senza armi. Il pipiragno l’aveva preso su dal molo dov’era seduto, nel Pireo, e lui gli ruppe il collo con le mani. Caddero giù nella baia per una trentina di metri. L’uomo sopravvisse.

— È stato molto tempo fa — rammentai — prima che l’Ufficio iniziasse la sua campagna per lo sterminio di quelle creature. Ce n’erano molti di più in giro, e in quei giorni erano piuttosto audaci. Adesso si tengono lontani dalle città.

— Il nome dell’uomo era Konstantin, se ricordo bene la storia. Non potresti essere stato tu?

— Il suo cognome era Karaghiosis.

— Tu sei Karaghiosis?

— Se così vuoi. Perché?

— Perché più tardi fu uno dei fondatori della Radpol (Radical policy, gruppo politico radicale) Ritornista ad Atene, e tu hai mani molto forti.

— Tu sei Ritornista?

— Sì. E tu?

— Io lavoro per l’Ufficio. Non ho opinioni politiche.

— Karaghiosis ha bombardato degli edifici.

— Certo che l’ha fatto.

— Ti spiace che li abbia bombardati?

— No.

— Non è che io sappia molto di te, no?

— Sai tutto di me. Non hai altro che da chiedere. Sono un tipo piuttosto semplice. Sta arrivando il mio aereo-taxi.

— Non sento niente.

— Sentirai.

Dopo un momento scese giù dal cielo su Kos, atterrando sulla pista che avevo preparata alla fine del portico. Mi alzai in piedi e feci alzare anche lei, mentre l’aereo ronzava piano. Una Lancia Radson: una conchiglia marina, sei metri di riflessi e trasparenze; fondo piatto, naso smussato.

— C’è qualcosa che vuoi prendere con te? — chiese lei.

— Sai cosa, ma non posso.

La Lancia si posò e il suo fianco s’apri. Il pilota, che portava occhiali da protezione, girò la testa.

— Ho la sensazione — disse lei, — che tu ti stia cacciando in un guaio.

— Ne dubito, Cassandra.

Nessuna pressione, nessuna osmosi potranno mai rimettere al suo posto la costola che Adamo perdette un giorno, grazie a Dio.

— Arrivederci, Cassandra.

— Arrivederci, mio Kallikanzaros.

E salii sulla Lancia e balzai su nel cielo, mormorando una preghiera ad Afrodite. Sotto di me, Cassandra faceva gesti di saluto. Sopra di me, il sole rafforzava la sua rete di luce. Ci dirigemmo verso ovest, e qui andrebbe bene un armonioso passaggio, ma non c’è. Da Kos a Port-au-Prince furono quattro ore, acqua grigia, stelle pallide, e io pazzo. Quelle luci colorate…


La sala era piena di gente, una grande luna tropicale riluceva alta nel cielo, e se potevo vedere entrambe le cose era perché ero finalmente riuscito a trasportare Ellen Emmet sul balcone e le porte erano aperte e bloccate in tale posizione.

— Di nuovo redivivo — mi salutò lei, sorridendo lievemente. — È passato quasi un anno, e nemmeno due righe di saluti da Ceylon per sapere se stavo bene.

— Sei stata malata?

— Potevo anche esserlo.

Era piccola e, come tutti coloro che odiano il giorno, aveva una carnagione crema sotto il suo simicolor. Mi ricordava un’elaborata bambola meccanica con un meccanismo difettoso: una grazia fredda, e la netta propensione a colpire la gente negli stinchi quando meno se l’aspettavano; e aveva mucchi e mucchi di capelli arancio-scuri, raccolti in una specie di nodo gordiano che mi scoraggiava mentre tentavo mentalmente di scioglierlo; i suoi occhi erano di qualunque colore il suo demone della scelta decidesse per quel particolare giorno; adesso me ne dimentico, ma sono sempre blu, in fondo in fondo. Qualunque cosa indossasse era verde-marrone, e ce n’era abbastanza per ricoprirla tutta un paio di volte e farla sembrare un paccone informe, il che era proprio una colossale bugia di sarto se mai ce n’è stata una, a meno che non fosse di nuovo incinta, del che dubitavo.

— Be’, stammi bene, allora — dissi, — se proprio hai bisogno dei miei auguri. Non sono stato a Ceylon. Sono rimasto nel Mediterraneo per quasi tutto il tempo.

Nell’interno risuonarono degli applausi. Ero felice di trovarmi fuori. I suonatori avevano appena terminato la Maschera di Demetra di Graber, che lui aveva scritto in pentametri in onore del nostro ospite vegano, ed era durata due ore, ed era brutta. Phil era molto ben educato e mezzo calvo, e faceva bene la sua parte, ma quando l’avevamo preso con noi avevamo una maledetta fretta di trovare un laureato. Aveva la mania di Rabindranath Tagore e Chris Isherwood, di scrivere poemi epico-metafisici spaventosamente lunghi, di parlare continuamente dell’Illuminismo, e di fare sulla spiaggia i suoi esercizi quotidiani di respirazione. Per il resto era abbastanza decente, come essere umano.

L’applauso si spense, e udii i tintinnii vetrosi della musica della telinstra e il rumore delle conversazioni che ricominciavano.

Ellen s’appoggiò all’indietro sulla ringhiera.

— Ho sentito che ti sei sposato, in questi giorni.

— Vero — convenni, — e sono anche abbastanza cotto. Perché mi hanno chiamato indietro?

— Chiedilo al capo.

— Gliel’ho chiesto. Ha detto che dovrò fare da guida. Ma quello che voglio sapere, accidenti, è perché? La vera ragione. Ci ho pensato, e la cosa diventa sempre più incomprensibile.

— E come faccio io a saperlo?

— Tu sai tutto.

— Soverchia stima di me, caro. Com’è lei?

— Una sirena, forse. Perché?

Lei scrollò le spalle.

— Pura curiosità. Agli altri come dici che io sono?

— Non vado in giro a raccontare a nessuno come sei tu.

— Mi sento insultata. Devo pur assomigliare a qualcuno, a meno che io sia unica.

— Ecco, appunto, sei unica.

— E allora perché non m’hai presa con te l’anno scorso?

— Perché a te piace la gente e hai bisogno d’aver attorno una città. Puoi esser felice solo qui al Porto.

— Ma non sono felice qui al Porto.

— Sei meno infelice qui al Porto di quanto lo saresti da qualsiasi altra parte del pianeta.

— Avremmo potuto tentare — disse, e mi girò le spalle per guardare giù in basso le luci della baia. — Sai una cosa — prosegui dopo un po’, — sei talmente brutto che sembri attraente. Dev’essere questo.

Stavo per toccarla, ma mi fermai a pochi centimetri dalle sue spalle.

— Sai — continuò lei, con voce piatta, priva d’emozioni, — sei un incubo che cammina come un uomo.

Lasciai ricadere le mani e feci una risatina sorda.

— Lo so — dissi. — Sogni d’oro.

Feci per andarmene e lei m’afferrò per la manica.

— Aspetta!

Le fissai la mano, poi gli occhi, poi di nuovo la mano. Mi lasciò andare.

— Sai che non dico mai la verità — disse. Poi rise di quel suo piccolo riso fragile. — … E ho pensato a qualcosa che dovresti sapere su questo viaggio. C’è qui Donald Dos Santos, e credo che verrà anche lui.

— Dos Santos? È ridicolo.

— Adesso è su nella libreria, con George e un pezzo grosso arabo.

Il mio sguardo la oltrepassò e si fissò sul paesaggio della baia sottostante, dove le ombre, come i miei pensieri, si muovevano in strade piccole, scure e pendenti.

— Un pezzo grosso arabo? — chiesi, dopo un po’. — Mani sfregiate? Occhi gialli? Si chiama Hasan?

— Sì, è esatto. L’hai già incontrato?

— Ha fatto qualche lavoro per me in passato — confermai. E così sorrisi, anche se il sangue mi si stava raffreddando, perché non mi piace che la gente sappia quello che sto pensando.

— Stai sorridendo — disse lei. — Cosa pensi?

È fatta così.

— Sto pensando che tu prendi le cose più seriamente di quanto io credessi.

— Che idiozia. T’ho detto un mucchio di volte che sono una bugiarda spaventosa. In effetti l’ho ripetuto solo un secondo fa, e mi riferivo ad uno scontro poco importante in una grande guerra. E hai ragione a dire che sono meno infelice qui che da qualsiasi altra parte della Terra. Così forse potresti parlare a George, mandarlo a lavorare su Taler, o Bakab. Forse? Eh?

— Certo — dissi. — Sicuro. Ci puoi scommettere. Proprio così. Dato che tu ci provi da dieci anni… Come va la sua collezione d’insetti, in questi giorni?

Lei fece un mezzo sorriso.

— Cresce — replicò, — a passi da gigante. Ci sono anche api e pidocchi, e alcuni di questi pidocchi sono radioattivi. Io gli dico: «George, perché non fai qualcosa con qualche altra donna invece di passare tutto il tempo con questi insetti?». Ma lui si limita a scrollare la testa, e ha un’aria così assorta. Allora gli dico: «George, un giorno o l’altro uno di questi pidocchi ti pungerà e ti renderà impotente. E allora cosa farai?». Al che lui mi spiega che non può succedere, e mi dà ragguagli sulle tossine degli insetti. Forse è in realtà una grossa cimice travestita. Penso che ci trovi una specie di piacere sessuale a guardarli agitarsi in quei contenitori. Non so cos’altro…

Allora mi girai e guardai dentro la stanza, perché il suo viso non era più il suo viso. Quando la sentii ridere un momento dopo, tornai a girarmi e le strinsi la spalla.

— D’accordo, adesso ne so più di prima. Grazie. Ci rivediamo appena posso.

— Devo aspettare?

— No. Buona notte.

— Buona notte, Conrad.

E me n’ero andato.


Attraversare una stanza può essere un affare molto lungo e penoso: se è piena di gente, se tutta la gente ti conosce, se tutta la gente stringe in mano un bicchiere, se tu hai anche la minima tendenza a soffermarti.

E le cose stavano proprio a questo modo. Così…

Pensando pensieri inutili, mi feci strada rasente al muro per sei metri buoni sino alla periferia di tutta quell’umanità, sino a raggiungere l’ammasso di giovani signore che i vecchi scapoli si trovano sempre sulle spalle. Lui era privo di mento, quasi senza labbra, e sempre più calvo; e l’espressione che un tempo viveva sulla pelle che gli copriva il cranio s’era ritirata da un pezzo nell’oscurità dei suoi occhi; e nei suoi occhi, quando mi scorsero, c’era già il sorriso dell’oltraggio imminente.

— Phil — feci io, annuendo, — non tutti possono scrivere una masque come quella. Ho sentito dire che è un’arte che va morendo ma adesso devo ricredermi.

— Sei ancora vivo — disse lui, con una voce più giovane di settant’anni di tutto il resto, — e di nuovo in ritardo, come al solito.

— Chiedo umilmente scusa — dichiarai, — ma sono stato trattenuto ad una festa di compleanno per una signora di sette anni, in casa d’un vecchio amico. (Il che era vero, ma la cosa non ha nulla a che fare con questa storia).

— Tutti i tuoi amici sono vecchi amici, non è vero? — chiese lui, e questo era colpire sotto la cintura, solo perché una volta avevo conosciuto i suoi semi-dimenticati genitori, e li avevo portati a fare un giro nel lato sud dell’Eretteo per mostrargli il Portico delle Vergini e fargli vedere quello che Lord Elgin aveva fatto con quei resti, tenendomi intanto sulle spalle il loro figliolo dagli occhi intelligenti e raccontandogli storie che erano già vecchie quando quel posto era stato costruito.

— … E ho bisogno del tuo aiuto — aggiunsi, ignorando il suo sarcasmo e facendomi gentilmente strada tra quel morbido, pungente circolo di femminilità. — Mi ci vorrà tutta la notte per attraversare questo posto fino a dove Sands sta parlamentando col vegano — mi scusi, signorina — e non ho tutta la notte a disposizione. — Pardon, signora. — Così voglio che tu mi crei una bella interferenza.

— Lei è Nomikos! — sospirò una piccola amabile ragazza, fissando la mia guancia. — Ho sempre desiderato…

Le presi la mano, me la portai alle labbra, notai che il suo anello era d’un rosa splendente, e dissi: — E finora l’è andata male, eh? — E lasciai cadere l’argomento.

— E allora? — chiesi a Graber. — Portami via di qui col minimo dispendio di tempo, facendo uso del tuo solito atteggiamento da cortigiano e di una bella conversazione-fiume che nessuno abbia il coraggio d’interrompere. Okay? Partiamo.

Lui annuì bruscamente.

— Scusatemi, signore. Tornerò presto.

Partimmo attraverso la stanza, facendoci strada nel mare di gente. Alti sopra di noi i candelieri scivolavano e giravano come sfaccettati satelliti di ghiaccio. La telinstra era un’intelligente arpa eolica che gettava i suoi brani di canto nell’aria: pezzi di vetro colorato. La gente ronzava e s’agitava come certi insetti di George Emmet, e noi evitavamo il loro sciamare mettendo un piede davanti all’altro senza mai fermarci, e producendo rumori per conto nostro. Non calpestammo nessuno, in quella calca.

La notte era calda. Quasi tutti gli uomini indossavano l’Uniforme Nera leggera come una piuma che il protocollo impone in occasioni del genere ai membri dello Staff. Quelli che non la portavano, non erano dello Staff.

Scomode nonostante tutta la loro leggerezza, le Uniformi Nere vanno giù a piramide lungo i fianchi, lasciando liscio il davanti, su cui, all’altezza del seno sinistro sta cucito il simbolo della Terra, verde-blu-grigio-bianco, un circolino di sette centimetri di diametro; sotto si trova il simbolo del dipartimento cui appartiene l’individuo, seguito dall’indicazione del grado; sulla destra invece si trovano tutte le maledette specie di merdose decorazioni che siano mai state inventate per dare un’apparenza di dignità umana. Tutto merito dell’altamente immaginoso Ufficio delle Decorazioni, Arricchimenti, Insegne, Simboli e Araldica (UDAISA, per brevità; il suo primo Direttore apprezzava molto la propria posizione). Il colletto ha la strana tendenza a diventare una garrotta dopo i primi dieci minuti; almeno è quello che succede al mio.

Le signore indossavano, o non indossavano, qualunque cosa andasse loro: roba generalmente sfavillante, o accompagnata da un sottofondo in simicolor (a meno che facessero parte dello Staff, nel qual caso erano impacchettate in Uniformi Nere con gonna corta, ma con colletti sopportabili); il che rendeva abbastanza facile distinguere i padroni di casa dagli ospiti.

— Ho sentito dire che c’è Dos Santos — affermai.

— Infatti.

— Perché?

— Proprio non lo so, e non m’importa.

— Al diavolo. Cos’è stato della tua stupefacente coscienza politica? Il Dipartimento della Critica Letteraria te ne faceva un gran merito.

— Alla mia età, l’odore della morte diventa sempre più preoccupante ogni volta che lo s’incontra.

— E Dos Santos odora?

— Tende a puzzare.

— Ho sentito che s’è portato dietro una nostra vecchia conoscenza. Uno dei tempi dell’Affare Madagascar.

Phil piegò la testa da una parte e mi lanciò un’occhiata interrogativa.

— Fai molto presto a sentire le cose. Ma d’altra parte sei amico di Ellen. Sì, Hasan è qui. È di sopra con Don.

— Chissà quale peso karmico dovrà aiutare a sopportare? E per conto di chi?

— Come ho già detto, non so niente di tutta la faccenda e non me ne interesso minimamente.

— Vuoi azzardare un pronostico?

— Non sento nessuna fretta.

Entrammo in una parte della foresta relativamente spoglia d’alberi, e io mi fermai ad arraffare un rum-e-qualcosaltro dal vassoio automatico sospeso nell’aria, che ci aveva seguito con tale costanza da spingermi alfine ad accontentarlo e ad afferrarlo per la sporgenza che gli pendeva sul retro. Al che esso s’era abbassato, aveva fatto un gran sorriso, rivelando i tesori che nascondeva nel suo stomaco gelato.

— Ah, che piacere! Un drink, Phil?

— Pensavo che tu avessi fretta.

— Sì, ma voglio dare un’occhiata alla situazione.

— Molto bene, Prenderò una similcoca.

Lo sbirciai di sottecchi e gli passai l’aggeggio. Poi, mentre si voltava, seguii la direzione del suo sguardo. Un mucchio di morbide poltrone stavano poggiate nell’alcova formata per due lati dai muri a nord della stanza, e per il terzo dalla telinstra. La suonatrice di telinstra era una vecchia signora con occhi sognanti. Lorel Sands, il Direttore della Terra, stava fumando la sua pipa…

Insomma, la pipa è una delle facce più interessanti della personalità di Lorel. È una vera Meerschaum, e non è che a questo mondo ne siano rimaste poi molte. Per il resto, la funzione principale di Lorel consiste nel fare da anticomputer: gli fate ingurgitare tutti i possibili tipi di fatti accuratamente vagliati, percentuali e statistiche, e lui li trasforma in spazzatura. Pungenti occhi neri, e un lento, minuzioso modo di parlare mentre quei suoi occhi vi tengono incatenati; piuttosto parco nei gesti, ma estremamente efficace quando taglia l’aria con l’ampia destra o punzecchia immaginarie signore con la pipa; bianco alle tempie e nero di capelli; ha la fronte alta e una carnagione che fa a pugni coi suoi vestiti (evita regolarmente le Uniformi Nere), e cerca sempre di sistemare la mascella troppo in avanti di qualche centimetro, in una posizione che sembrerebbe oltremodo scomoda. È un pezzo grosso della politica, alle dipendenze del Governo Terrestre di Taler, e prende molto sul serio il suo lavoro, al punto di dimostrare il proprio attaccamento con periodici attacchi d’ulcera. Non è il più intelligente uomo di questa Terra. È il mio capo. È anche uno dei migliori amici che ho.

Al suo fianco sedeva Cort Myshtigo. Potevo quasi sentire l’odio di Phil per quell’essere, dalle punte blu-pallide dei suoi piedi a sei dita ai suoi capelli colorati di rosa, a indicare l’appartenenza ad una casta superiore. Non lo odiava così tanto perché era lui; lo odiava, ne ero sicuro, perché era il più prossimo parente (nipote) di Tatram Yshtigo, che quarant’anni prima aveva cominciato a dimostrare che il maggior scrittore vivente di lingua inglese era un vegano. Le vecchie generazioni sono ancora ferme lì, e non credo che Phil gliel’abbia mai perdonato.

Con la coda dell’occhio (quello blu) vidi Ellen salire la grande, adorna scalinata che stava sull’altro lato della stanza. Con la coda dell’altro occhio vidi Lorel scrutare nella mia direzione.

— Sono stato individuato — dissi — e devo andare a porgere omaggio al Gran Signore di Taler. Vieni anche tu?

— Be’… Va bene — fece Phil, — all’anima fa bene soffrire.

Ci muovemmo verso l’alcova e ci fermammo davanti alle due poltrone, tra la musica e il rumore, abbagliati da tanta potenza. Lorel s’alzò lentamente e ci diede la mano. Myshtigo s’alzò più lentamente, e non ci diede la mano; ci fissava, gli occhi color ambra, il viso assolutamente privo d’espressione mentre gli eravamo presentati. La sua tunica color arancio fluttuava liberamente e in continuazione nell’aria; i suoi polmoni divisi a sezioni pompavano fuori un’incessante esalazione dalle narici anteriori, poste alla base dell’ampia cassa toracica. Annuì brevemente, ripeté il mio nome. Poi si girò verso Phil con qualcosa come un sorriso.

— Le spiacerebbe se traducessi la sua «masque» in inglese? — chiese, con la voce che vibrava come un diapason in fase calante.

Phil girò sui tacchi e s’allontanò.

Allora pensai per un secondo che il vegano stesse male, finché mi ricordai che la risata d’un vegano sembra la tosse d’un capro. Di solito mi tengo alla larga da queste creature e dai loro luoghi di soggiorno.

— Siediti — disse Lorel, piuttosto a disagio dietro la pipa.

Abbrancai una sedia e sedetti di fronte a loro.

— Okay.

— Cort scriverà un libro — asserì Lorel.

— Così hai detto.

— Sulla Terra.

Annuii.

— Ha espresso il desiderio che tu gli faccia da guida in un giro di certi Vecchi Posti…

— Sono onorato — dissi piuttosto rigidamente. — E sono anche curioso di sapere cos’ha determinato la sua scelta.

— E anche più curioso di sapere quello che io conosco di lei, eh? — replicò il vegano.

— Sì, certo — concessi. — Al duecento per cento.

— Ho chiesto ad una macchina.

— Bene. Adesso lo so.

M’appoggiai all’indietro e finii il liquore.

— Sono partito consultando il Registro Generale della Terra quando ho avuto l’idea di questo progetto, tanto per avere qualche dato indicativo sull’umanità: poi, quando ho trovato un esemplare interessante, mi sono rivolto ai Banchi-memoria del Personale Terrestre…

— Mm-hm — feci.

— … e mi ha più impressionato quello che non dicevano di lei di quello che dicevano.

Scrollai le spalle.

— Ci sono molti vuoti nella sua biografia. Anche adesso nessuno sa davvero cosa lei faccia per gran parte del suo tempo… E tanto per sapere, quand’è nato?

— Non lo so. Era un piccolo villaggio della Grecia, e quell’anno erano finiti i calendari. Comunque mi dicono che fosse Natale.

— Secondo la registrazione del Banco-memoria Personale, lei ha settantacinque anni. Secondo il Registro Generale, ne ha centoundici o centotrenta.

— Ho mentito sull’età per ottenere il lavoro. Eravamo in periodo di Depressione.

— … Così ho costruito un profilo-Nomikos, una cosa molto interessante, e ho ordinato al Registro Generale di cercare tutte le persone che presentino una rassomiglianza fisica con lei, fino allo 0,01 per cento d’approssimazione.

— Certa gente colleziona soldi, altri costruiscono modellini di razzi.

— Ho scoperto che lei potrebbe essere stato altre tre o quattro o cinque persone, tutte greche, una delle quali è veramente sorprendente. Ma, naturalmente Konstantin Korones, uno dei più vecchi, nacque duecentotrentaquattro anni fa. Di Natale. Un occhio blu, uno castano. Zoppo alla gamba destra. Stessa capigliatura, all’età di ventitré anni. Stesso peso, e stesso grado Bertillion.

— Stesse impronte digitali? Stessa struttura retinica?

— Questi dati non erano inclusi nelle vecchie Registrazioni. Forse in quei giorni erano più trascurati? Non lo so. Facevano meno attenzione, probabilmente, a chi avesse accesso alle registrazioni pubbliche…

— Lei sa che al momento esistono più di quattro milioni di persone su questo pianeta. Se ci mettiamo a cercare indietro nel tempo per tre o quattro secoli, sono certo che potremmo trovare quasi per ognuno di loro un duplicato, e forse anche un triplicato. E allora?

— Serve a renderla abbastanza sconcertante e interessante, ecco tutto, quasi un nume tutelare di questi luoghi e lei presenta gli stessi curiosi segni di rovina che si trovano qui in giro. Senza dubbio non riuscirò mai a raggiungere la sua età, qualunque sia, ed ero curioso di vedere che specie di sensibilità può sviluppare un essere umano con tanto tempo a disposizione. Specialmente considerando la sua posizione di preminenza riguardo alla storia e l’arte del pianeta. E così ecco perché ho richiesto i suoi servigi — concluse.

— Adesso che mi ha incontrato, rovinato come sono e tutto quanto, posso tornarmene a casa?

— Conrad! — Era la pipa ad attaccarmi.

— No, Mister Nomikos, ci sono anche considerazioni pratiche. Questo è un mondo selvaggio, e lei ha un alto potenziale di sopravvivenza. La voglio con me perché voglio sopravvivere.

Scrollai di nuovo le spalle.

— Be’, la questione è stata definita. E adesso?

Tossicchiò.

— Sento di non piacerle.

— Da dove le viene quest’idea? Solo perché lei ha insultato un mio amico, mi ha fatto domande impertinenti, mi ha costretto a servirla per capriccio…

— … Ho sfruttato i suoi compatrioti, trasformato il suo mondo in un bordello, e dimostrata la meschina provincialità della razza umana, se paragonata ad una civiltà galattica più vecchia di eoni…

— Non sto parlando di razze. Sto facendo un discorso personale. E lo ripeto, lei ha insultato un mio amico, mi ha fatto domande impertinenti, mi ha costretto a servirla per puro capriccio.

— (Tosse di capra)! A tutti e tre! È un insulto alle ombre di Omero e Dante far cantare quell’uomo per la razza umana.

— Al momento è il meglio che abbiamo.

— In tal caso dovreste farne a meno.

— Non è una buona ragione per trattarlo a quel modo.

— Io penso di sì, o non l’avrei fatto. In secondo luogo, io faccio qualunque domanda mi senta di fare, e sta a lei rispondere o non rispondere a seconda di come la vede: come in effetti ha fatto. Infine, nessuno l’ha costretta a niente. Lei è un impiegato statale. Le è stato affidato un incarico. Discuta col suo Ufficio, non con me.

«E, adesso che ci ripenso, dubito che lei possieda i dati necessari per usare la parola “capriccio” con la libertà che si permette» concluse.

Dalla sua espressione sembrava che l’ulcera di Lorel stesse silenziosamente commentando la situazione.

— Allora — osservai, — chiami pure sincerità la sua rudezza, se vuole, o mi dica che è il prodotto d’un’altra cultura, e giustifichi la sua influenza con sofismi e ripensi tutto quello che vuole; e mi bersagli pure con tutti i falsi giudizi che vuole, e anch’io la giudicherò di conseguenza. Lei si comporta come un Rappresentante del Re in una Colonia della Corona — decisi, pronunciando chiaramente le maiuscole, — e la cosa non mi piace. Ho letto tutti i suoi libri. Ho letto anche quelli di suo nonno, ad esempio il Lamento della Prostituta Terrestre, e lei non sarà mai l’uomo che lui era. Lui possedeva una cosa che si chiama compassione. Lei no. Tutto quello che lei prova per il vecchio Phil vale due volte anche per lei, nel mio libro.

Quella tirata sul nonno doveva aver toccato un punto dolente, perché indietreggiò leggermente quando il mio sguardo blu lo raggiunse.

— Perciò vada a farsi fottere — aggiunsi, o qualcosa del genere, in vegano.

Sands non sa tanto bene il Veggy da avermi capito, ma immediatamente cominciò a produrre grugniti di riconciliazione, guardandosi intorno per essere sicuro che nessuno ci stesse osservando.

— Conrad, per favore, ritrova il tuo atteggiamento professionale e mettilo in funzione. Srin Shtigo, perché non riprendiamo a discutere del piano di viaggio?

Myshtigo sorrise del suo sorriso verdebiu.

— Mettendo da parte questa piccola divergenza? — chiese. — D’accordo.

— Allora aggiorniamo la seduta nella libreria, dove c’è un po’ più di quiete e si può usare lo schermo-mappa.

— Perfetto.

Mentre ci alzavamo mi sentivo un poco rassicurato perché là sopra c’era Don Dos Santos e lui odia i vegani, e ovunque è Dos Santos c’è anche Diane, la ragazza con la parrucca rossa, e lei odia tutti; e sapevo che di sopra c’era George Emmet, e anche Ellen, e George è proprio molto freddo con gli estranei (anche con gli amici, per questo); e forse più tardi Phil avrebbe fatto un salto e avrebbe aperto il fuoco su quel vegano: e poi c’era Hasan (non parla un granché; se ne sta lì seduto a fumare la sua erba con aria opaca), e se gli stavate un po’ troppo vicino e tiravate un paio di respiri profondi non ve ne importava un accidenti di quello che potevate dire ai vegani, o alla gente.


Avevo sperato che la memoria di Hasan si trovasse nel mondo dei sogni, o da qualche altra parte tra le nuvole. La speranza morì come entrammo nella libreria. Se ne stava seduto rigido, e sorseggiava una limonata.

Ottanta o novant’anni che avesse, ne dimostrava circa quaranta, e poteva ancora agire da trentenne. Il trattamento Sprung-Samser aveva trovato in lui un soggetto altamente ricettivo. Il che non succede spesso. Quasi mai, in effetti. C’è un mucchio di gente che finisce in stato di shock anafilattico senza alcuna ragione apparente, e nemmeno una dose d’adrenalina intercardiale può riportarli indietro; certi altri, i più, rimangono congelati ad un’età che va dai cinquanta ai sessant’anni. Ma alcuni rari esemplari diventano più giovani quando si sottopongono al trattamento: circa uno su centomila.

Mi è sempre sembrato molto strano che i capricci del destino abbiano concesso a quello lì di farcela, e a quel modo. Erano passati oltre cinquant’anni dall’Affare Madagascar, nel quale Hasan era stato al servizio della Radpol per la vendetta contro i Taleriti. Era stato al soldo del (Riposi in Pace) grande K. d’Atene, che lo aveva spedito a spazzare via la Compagnia Immobiliare del Governo Terrestre. Hasan l’aveva fatto. E bene. Con un piccolo ordigno a fissione. Bum. Rinnovamento urbano istantaneo. Chiamato Hasan l’Assassino dai pochi, è l’ultimo mercenario della Terra.

E inoltre, insieme a Phil (che non era sempre stato il possessore della spada senza lama e senza impugnatura), Hasan era uno dei pochissimi che potesse ricordare il vecchio Karaghiosis. Così, mento in su e fungo in avanti, cercai di ottenebrare la sua mente al primo sguardo. O erano in azione antichi e misteriosi poteri, del che dubitavo, o lui era più pieno di droga di quanto avessi pensato, il che era possibile, o s’era dimenticato la mia faccia (il che poteva anche essere, per quanto mi sembrasse abbastanza improbabile), o stava seguendo l’etica professionale o un semplice istinto animale. (Possedeva entrambe le cose, con gradazione variabile, ma l’accento era decisamente sull’istinto animale). Quando ci presentarono non dette segno d’avermi riconosciuto.

— La mia guardia del corpo, Hasan — disse Dos Santos, sfoderando il suo sorriso al lampo di magnesio, mentre io stringevo la mano che una volta aveva scosso il mondo, per così dire. Era ancora una mano molto forte.

— Conrad Nomikos — disse Hasan, strabuzzando gli occhi come se stesse leggendo il mio nome su un rotolo di pergamena.

Conoscevo tutti gli altri occupanti della stanza, così mi precipitai sulla poltrona più lontana da Hasan, e mi tenni quasi sempre il secondo bicchiere davanti al viso, tanto per essere sicuro.

Diane dalla Rossa Parrucca mi stava vicino. Parlò e disse: — Buongiorno, Mister Nomikos.

Annuii col bicchiere.

— Buonasera, Diane.

Alta, magra, vestita quasi completamente di bianco, stava ritta accanto a Dos Santos come una candela. So che quella che porta è una parrucca, perché in certe occasioni l’ho vista scivolare giù, rivelando parte d’una brutta ma interessante cicatrice abitualmente coperta dal taglio dei capelli. Ho spesso fantasticato su quella cicatrice: a volte quando me ne stavo all’ancora fissando le costellazioni attraverso le nuvole, o quando disseppellivo statue danneggiate. Labbra color porpora (tatuate, penso), e non le ho mai viste sorridere; i muscoli della sua mascella sono sempre tirati, perché tiene sempre i denti serrati; e c’è una piccola «v» rovesciata tra gli occhi, nata da tutto quel suo accigliarsi; e il suo mento è proteso in avanti, alto: per sfida? Quando parla in quel suo modo stretto, incostante, muove appena la bocca. Davvero non potevo indovinare la sua età. Sopra i trenta, è tutto.

Lei e Don formano una coppia interessante. Lui è scuro, loquace, sempre occupato a fumare, incapace di stare tranquillo più di due minuti. Lei è più alta d’una dozzina di centimetri e brucia senza guizzi. Ancora non conosco per intero la sua storia. Immagino che non la saprò mai.

Lei s’avvicinò e si fermò di fianco alla mia poltrona, mentre Lorel presentava Cort a Dos Santos.

— Tu — iniziò.

— Io — dissi.

— … guiderai il giro.

— Sono l’unico a non saperne quasi niente, a quanto pare — replicai. — Immagino che tu non possa farmi partecipe di un po’ delle informazioni che hai.

— Niente informazioni, niente faccende segrete — ribatté lei.

— Sembri Phil — dissi.

— Non l’ho fatto apposta.

— Comunque l’hai fatto. E così, perché?

— Perché cosa?

— Perché te? Don? Qui? Stanotte?

Si toccò con la lingua il labbro superiore, poi chiuse con forza la bocca, come per sputare fuori il suo mosto o lasciarlo filtrare nelle parole. Poi gettò un’occhiata a Don, ma lui era troppo lontano per aver sentito, e comunque stava guardando da un’altra parte. Era impegnato a versare a Myshtigo una vera Coca dall’interno del vassoio automatico. La formula della Coca era la scoperta archeologica del secolo, secondo i Vegani. Andò perduta durante i Tre Giorni, ed è stata recuperata solo dieci anni fa. Esistevano diverse specie di similcoca in circolazione, ma nessuna aveva sul metabolismo vegano lo stesso effetto di quella vera. «Il secondo contributo della Terra alla cultura galattica» l’aveva chiamata uno dei loro storici. Il primo contributo, ovviamente, era quel particolare tipo d’interessantissimo problema sociale che i filosofi vegani avevano atteso per generazioni.

Diane tornò a fissarmi.

— Ancora non so — disse. — Chiedi a Don.

— Lo farò.

Lo feci davvero. Più tardi, però. E non rimasi deluso, dal momento che non m’aspettavo nulla. Ma, mentre me ne stavo seduto e cercavo con tutte le mie forze di origliare, caddi improvvisamente in preda ad una visione. Un dottore m’aveva detto una volta che si trattava d’una realizzazione pseudotelepatica di un desiderio. Funziona a questo modo:

voglio sapere cosa sta succedendo da qualche parte. Ho quasi i dati sufficienti per fare una supposizione. Di conseguenza la faccio. Soltanto che mi arriva come se la stessi vivendo e ascoltando attraverso gli occhi e gli orecchi di una delle parti in causa. Comunque non è vera telepatia, non lo credo, perché a volte posso sbagliare. Certo che sembra maledettamente reale. Il dottore riuscì a dirmi tutto sul fenomeno, tranne il perché.

E così io

me ne stavo nel mezzo della stanza,

fissavo Cort Myshtigo,

ero Dos Santos,

stavo dicendo:

— … verrò con lei, per la sua sicurezza. Non come Segretario della Radpol, ma come privato cittadino.

— Non ho sollecitato la sua protezione — stava dicendo il vegano, — comunque, la ringrazio. Accetterò la sua offerta di prevenire la mia morte per mano dei suoi camerati — e sorrideva dicendolo, — se dovessero cercare di fare qualcosa durante i miei viaggi. Dubito che ci proveranno, ma dovrei essere un pazzo per rifiutare l’aiuto di Dos Santos.

— Lei è saggio — dicemmo, chinando un po’ il capo.

— Indubbiamente — disse Myshtigo. — Adesso mi dica… — Accennò nella direzione di Ellen, che aveva appena finito di litigare con George e si stava allontanando da lui sbattendo forte i tacchi per terra. — Chi è quella?

— Ellen Emmet, la moglie di George Emmet, Direttore del Dipartimento per la Protezione degli Animali Selvatici.

— Qual è il suo prezzo?

— Non credo che ne abbia fissato uno, di recente.

— Be’, qual era prima?

— Non ne ha mai avuto.

— Sulla Terra tutto ha un prezzo.

— In questo caso, suppongo che dovrà scoprirlo da solo.

— Lo farò — disse.

Le femmine terrestri hanno sempre avuto una strana attrattiva sui Vegani. Un Veggy m’ha detto una volta che lo facevano sentire zoofilo. Il che è interessante, perché una ragazza di piacere al Coté d’Or, m’ha detto una volta, ridacchiando, che i Vegani la facevano sentire une zoophiliste. Immagino che la respirazione poderosa dei vegani debba fare il solletico o qualcosa del genere, e scatenare la bestia in entrambe le razze.

— Tanto per sapere — dicemmo, — ha smesso di picchiare sua moglie?

— Quale? — chiese Myshtigo.

Dissolvenza, e mi ritrovo nella poltrona.

— Cosa ne pensi? — stava chiedendo George Emmet.

Lo fissai. Un secondo prima non era lì. Era arrivato d’improvviso e s’era spaparanzato sul bracciolo libero della mia poltrona.

— Torna indietro, per piacere. Sonnecchiavo.

— Ho detto che abbiamo sconfitto i pipiragni. Cosa ne pensi?

— Suona bene — osservai. — Così raccontami com’è che abbiamo sconfitto i pipiragni.

Ma lui stava ridendo. È uno di quei tipi con cui una risata è un fenomeno imprevedibile. È capace di andarsene in giro per giorni con un’aria da funerale, e poi una cosa da niente lo fa scoppiare a ridere. Boccheggia un po’ quando ride, come un bambino, e questa impressione è aumentata dalla sua flaccidità rosa e dai suoi capelli radi. Così aspettai. Ellen stava insultando Lorel, e Diane s’era girata a leggere i titoli sugli scaffali dei libri.

Finalmente: — Ho sviluppato un nuovo ceppo di slishi - sbuffò confidenzialmente.

— Accidenti, è grande! Cosa sono gli slishi? — chiesi poi dolcemente.

— Lo slish è un parassita bakabiano — spiegò, — una specie di grossa zecca. I miei sono lunghi quasi un ottavo di centimetro — disse con orgoglio, — e penetrano in profondità nella pelle producendo un velenosissimo siero.

— Fatali?

— I miei sì.

— Puoi prestarmene uno? — gli chiesi.

— Perché?

— Voglio infilarlo nella schiena di qualcuno. Ripensandoci, fanne una mezza dozzina. Ho tanti amici.

— I miei non danno fastidio alla gente, solo ai pipiragni. Hanno discriminazioni contro la gente. Gli uomini avvelenerebbero i miei slishi — (Disse «I miei slishi» con tono molto possessivo).

— Il metabolismo ospite deve essere basato sul rame, non sul ferro — spiegò, — e i pipiragni ricadono in questa categoria. Ecco perché voglio venire con voi in questo viaggio.

— Vuoi che ti trovi un pipiragno e te lo tenga fermo mentre tu gli butti addosso gli slishi? È questo che stai cercando di dire?

— Be’, mi piacerebbe avere un paio di pipiragni sotto mano: i miei li ho usati tutti il mese scorso. Comunque sono già sicuro che gli slishi funzioneranno. Voglio solo dare il via all’epidemia.

— Quale epidemia?

— Tra i pipiragni. Gli slishi si moltiplicano molto rapidamente nel clima terrestre, se gli si dà l’ospite adatto, e dovrebbero essere estremamente contagiosi se li facciamo partire nella stagione adatta. Avevo in mente la stagione degli amori dei pipiragni, nel sudovest. Comincerà tra sei o otto settimane nel territorio della California, in un Vecchio Posto — comunque non più caldo — che si chiama Capistrano. Ho sentito che il vostro giro ci passerà più o meno in quel periodo. Quando i pipiragni ritornano a Capistrano, voglio essere lì con i miei slishi. Inoltre, mi farebbe bene una vacanza.

— Mm-Mm. Ne hai parlato con Lorel?

— Sì, e pensa che sia una buona idea. In effetti vuole che ci fermiamo un po’ a fare qualche ripresa. Può darsi che in futuro non ci saranno tante opportunità di rivederli. Sono anche un bello spettacolo: riempiono di nero il cielo coi loro voli, fanno i nidi nelle rovine, mangiano i maiali selvatici, sporcano di rifiuti verdi le strade.

— Uh-huh, una specie di Halloween. Cosa succederà a quei maiali selvatici se uccidiamo tutti i pipiragni?

— Oh, ce ne saranno di più in giro. Ma prevedo che i puma gli impediranno di moltiplicarsi come i conigli australiani. Comunque è sempre meglio avere maiali che pipiragni, no?

— Non è che vada matto per nessuno dei due, ma adesso che ci penso in effetti preferirei i maiali ai pipiragni. D’accordo, certo, puoi venire con noi.

— Grazie — disse. — Ero sicuro che mi avresti aiutato.

— Non pensarci nemmeno.

A quel punto Lorel produsse dal fondo della gola grugniti di scusa. Stava a fianco della grande scrivania nel centro della stanza, e l’ampio schermo posto dinanzi si stava srotolando da solo. Era un aggeggio stereometrico, e tutti dovevano mettersi a sedere comodamente e non muoversi più. Lorel schiacciò un bottone sul fianco della scrivania, e le luci s’abbassarono un poco.

— Uh, sto per proiettare una serie di mappe — spiegò — se riesco a sistemare questa sincro-cosa… Ecco. Ora è a posto.

Sullo schermo apparvero a colori la parte superiore dell’Africa e quasi tutto il bacino del Mediterraneo.

— Era questa che voleva per prima? — chiese a Myshtigo.

Era questa, ma più tardi — rispose il grande vegano, abbandonando una sommessa discussione con Ellen, che aveva intrappolato nell’alcova della Storia Francese, sotto un busto di Voltaire.

Le luci si abbassarono ancora un po’ e Myshtigo si diresse alla scrivania. Guardò prima la mappa, e poi nessuno in particolare.

— Voglio visitare certi posti-chiave, che per una ragione o per l’altra sono importanti nella storia del vostro mondo — disse.

— Mi piacerebbe partire con l’Egitto, la Grecia e Roma. Poi mi piacerebbe passare velocemente per Madrid, Parigi e Londra. — Le mappe s’alternavano mentre lui parlava, ma non abbastanza velocemente da tenere il suo passo. — Poi voglio retrocedere su Berlino, dare un’occhiata a Bruxelles, visitare Pietroburgo e Mosca, riattraversare l’Atlantico e fermarmi a Boston, New York, Washington, Chicago — (a quel punto Lorel si stava facendo una bella sudata), — passare nello Yucatan, e ritornare al territorio della California.

— In quest’ordine? — chiesi.

— Più o meno — rispose.

— Cosa c’è che non va nell’India e nel Medio Oriente, o nel Lontano Oriente, se è per questo? — chiese una voce che riconobbi per quella di Phil. Era entrato dopo che le luci s’erano abbassate.

— Nulla — disse Myshtigo, — a parte il fatto che c’è solo fango e sabbia calda, e non hanno niente a che vedere con quello che m’interessa.

— E cos’è che le interessa?

— Una storia.

— Che tipo di storia?

— Le manderò una copia autografata.

— Grazie.

— Ma prego.

— Quando vorrebbe partire? — gli chiesi.

— Dopodomani — rispose.

— Okay.

— Le ho fatto preparare mappe dettagliate dei vari posti. Lorel mi dice che sono state recapitate nel pomeriggio al suo ufficio.

— Okay di nuovo. Ma c’è qualcosa di cui lei potrebbe non essere bene al corrente. È che tutto quello di cui lei ha parlato è continente. Oggi la nostra civiltà è quasi tutta sulle isole, e per ragioni molto buone. Durante i Tre Giorni il continente s’è preso una bella suonata, e quasi tutti quei posti sono tendenzialmente caldi. Questa, comunque, non è l’unica ragione per cui sono considerati insicuri…

— Ho una certa familiarità con la vostra storia e sono al corrente delle precauzioni contro le radiazioni — m’interruppe. — Inoltre, sono al corrente delle varie forme mutate di vita che abitano i Vecchi Posti. Tengo tutto nel debito conto, ma non mi preoccupo.

— Per me va bene… — scrollai le spalle nel crepuscolo artificiale.

— Ottimo. — Bevve un altro sorso di Coca. — Mi faccia un po’ di luce, Lorel.

— Subito, Srin.

Fu di nuovo la luce.

Mentre lo schermo veniva risucchiato in su, Myshtigo mi domandò:

— È vero che lei è in contatto con diversi mambos e houngans, qui al Porto?

— Certo, sì — replicai. — Perché?

S’avvicinò alla mia poltrona.

— Ho sentito — spiegò, — che il voodoo è sopravvissuto ai secoli pressoché senza mutamenti.

— Forse — dissi. — Non ero da queste parti quand’è cominciato, così non ne sono molto sicuro.

— Ho sentito che i partecipanti non apprezzano molto la presenza di intrusi…

— Anche questo è esatto. Ma potrebbero metterle in scena un buon spettacolo, se riesce a scegliere l’hounfor giusto e se gli porta qualche regalo.

— Ma mi piacerebbe moltissimo osservare una cerimonia vera. Se mi presentassi con qualcuno conosciuto ai partecipanti, forse potrei ottenere una cosa genuina.

— Perché dovrebbe farlo? Morbosa curiosità per i nostri costumi barbari?

— No. Studio religioni comparate.

Studiai il suo viso, ma non riuscii a capirne nulla.

Era passato un pezzo da che m’ero fatto vedere da Mamma Julie o Papà Joe o qualcuno degli altri, e l’hounfor non era poi tanto distante, ma non sapevo come mi avrebbero accolto se avessi portato un vegano. Naturalmente non facevano mai obiezioni quando portavo della gente.

— Be’… — cominciai.

— Voglio solo vedere — disse. — Me ne starò fuori dai piedi. Non si accorgeranno nemmeno che ci sono.

Mugugnai un poco e alla fine cedetti. Conoscevo abbastanza bene Mamma Julie e non mi pareva che ci fosse alcun pericolo, a parte tutto.

Così dissi: — D’accordo, la porterò a una cerimonia. Stanotte, se vuole.

Quello annuì, mi ringraziò, e sparì alla ricerca di un’altra Coca. George, che non s’era allontanato dal bracciolo della mia poltrona, si piegò verso di me e osservò che sarebbe stato molto interessante dissezionare un vegano. Concordai con lui.

Quando Myshtigo ritornò, Dos Santos era al suo fianco.

— Cos’è questa storia di voler portare Mister Myshtigo ad una cerimonia pagana? — chiese, con le narici che gli fremevano.

— È esatto — risposi, — lo porterò ad una cerimonia pagana.

— No, senza una guardia del corpo no.

Voltai in alto le palme della mano.

— Sono in grado di tenere sotto controllo qualsiasi eventualità.

— Hasan ed io t’accompagneremo.

Ero sul punto di protestare quando Ellen s’insinuò tra loro.

— Anch’io voglio venire — disse. — Non ne ho mai vista una.

Scrollai le spalle. Se veniva Dos Santos, sarebbe venuta anche Diane, ed era un bel mucchio di gente. Così uno in più non faceva nessuna differenza, o almeno non avrebbe dovuto farne. Era già tutto rovinato prima dell’inizio.

— Perché no? — dissi.


L’hounfor era situato dalla parte del porto, forse perché era dedicato ad Agué Woyo, dio del mare. Ma più probabilmente perché la gente di Mamma Julie era sempre stata gente di porto. Agué Woyo non è un dio geloso, così ci sono mucchi di altri dèi commemorati sui muri in colori brillanti. Nell’entroterra esistono altri hounfors più elaborati, ma hanno tendenza a commercializzarsi.

La grande barca di Agué era blu e arancione e verde e gialla e nera, e pareva abbastanza inadatta a prendere il mare. Damballa Wedo, scarlatto, si contorceva e occupava con la sua lunghezza quasi tutto il muro opposto. Papà Joe batteva con ritmo diversi grandi tamburi rada, sulla destra della porta dalla quale eravamo entrati (l’unica porta). Parecchi santi cristiani fissavano con espressione imperscrutabile gli splendenti cuori e fucili e croci tombali, bandiere, machete e stendardi che ricoprivano tutt’attorno quasi ogni centimetro di muro, fissi in una surreale atmosfera da dopo-l’uragano (avete presente il quadro di Tiziano?). E che i santi fossero d’accordo o meno, proprio non si poteva capire: fissavano in giù dalle loro scadenti cornici come se fossero finestre su un mondo straniero. Sul piccolo altare si trovavano diverse bottiglie di bevande alcooliche, zucche cave, ricettacoli consacrati allo spirito del loa, ciondoli, pipe, bandiere, foto tri-di di persone sconosciute e tra le altre cose, un pacchetto di sigarette per Papà Legba.

Era già in corso una cerimonia quando noi fummo introdotti da un giovane hounsi di nome Luis. La stanza era lunga circa otto metri e larga cinque e aveva un soffitto alto e un pavimento lurido. I danzatori si muovevano attorno al palo centrale con passi lenti e solenni. La loro pelle era nera e luccicava nella luce incerta delle vecchie lampade a kerosene. La nostra presenza servì a riempire definitivamente la stanza.

Mamma Julie mi prese la mano e sorrise. Mi condusse in un punto a lato dell’altare e disse: — Grazie per Erzulie.

Annuii.

— Tu le piaci, Nomikos. Tu vivi a lungo, viaggi molto, e ritorni.

— Sempre — soggiunsi.

— Quella gente…?

Indicò i miei compagni con un guizzo dei suoi occhi neri.

— Amici. Non daranno fastidio.

Lei rise mentre parlavo. Risi anch’io.

— Li terrò fuori dai piedi se ci lasci restare. Ci fermeremo nell’ombra ai lati della stanza. Se mi dici di portarli via, lo farò. Vedo che avete già danzato molto, vuotato parecchie bottiglie…

— Fermatevi — disse. — E qualche volta vieni a parlare con me di giorno.

— Senz’altro.

S’allontanò, e le fecero posto nel cerchio dei danzatori. Era piuttosto grossa, nonostante la sua voce fosse una cosuccia. Si muoveva come una gigantesca bambola di pezza, non senza una certa grazia, seguendo coi piedi il monotono brontolio dei tamburi di Papà Joe. Dopo un po’ quel suono riempiva tutto, la mia testa, la terra, l’aria; forse il battito del cuore della balena aveva fatto lo stesso effetto a Giona quando si era trovato nel suo stomaco. Guardavo i danzatori. E guardavo quelli che guardavano i danzatori.

Bevvi una pinta di rum per cercare di tirarmi su, ma non ci riuscii. Myshtigo continuava a sorseggiare una bottiglia di Coca che s’era portata dietro. Nessuno si accorse che lui era blu, ma d’altronde eravamo arrivati piuttosto tardi e le cose s’erano già messe in moto, da qualunque parte stessero andando.

Parrucca Rossa se ne stava in un angolo, accigliata e spaventata. Aveva a fianco una bottiglia, ma comunque non si mosse mai di lì. Myshtigo aveva a fianco Ellen, e nemmeno lei si mosse mai di lì. Dos Santos stava vicino alla porta e osservava tutti, persino me. Hasan, accucciato contro il muro di destra, fumava una pipa dal lungo cannello e dal fornello piccolo. Sembrava in pace.

Mamma Julie, immagino fosse lei, cominciò a cantare. Altre voci la seguirono:


Papà Legba, ouvri bayé!

Papà Legba, Attibon Legba ouvri bayé pou pou passé! Papà Legba…


Il coro continuava, e continuava e continuava. Cominciai a sentirmi assonnato. Bevvi dell’altro rum e mi venne ancor più sete, così ne bevvi dell’altro.

Non sono sicuro di quanto tempo fosse passato, quando successe. I danzatori avevano baciato il palo e cantato e scosso zucche e versato dell’acqua, e un paio di hounsi erano posseduti e parlavano con completa incoerenza, e il disegno fatto a farina sul pavimento era tutto confuso, e c’era un mucchio di fumo nell’aria, e io stavo appoggiato contro il muro e immagino che gli occhi mi si erano chiusi per un minuto o due.

Il suono nacque da un angolo inaspettato.

Hasan gridò.

Un lungo urlo penetrante che mi spinse in avanti, mi fece perdere l’equilibrio, e mi ributtò di nuovo contro il muro con un tonfo.

Il tamburo continuò a risuonare, senza perdere una sola battuta. Però alcuni dei danzatori si fermarono a guardare.

Hasan era balzato in piedi. Aveva i denti scoperti e gli occhi ridotti a fessure, e sul suo viso si leggevano, sotto la pellicola di sudore, i segni evidenti d’uno sforzo enorme.

La sua barba era una punta di lancia arroventata.

Il suo mantello, disteso alto contro certe decorazioni murali, era un paio d’ali nere.

Le sue mani, in un’ipnosi di lenti movimenti, stavano strangolando un uomo inesistente.

Suoni animaleschi venivano dalla sua gola. Continuò a strozzare l’essere inesistente.

Alla fine sobbalzò e le sue mani s’aprirono. Dos Santos gli fu quasi immediatamente a fianco, a parlargli, ma ormai abitavano due mondi differenti.

Uno dei danzatori prese a lamentarsi morbidamente. Altri si unirono a lui, e altri ancora.

Mamma Julie si staccò dal cerchio e venne verso di me, mentre Hasan ricominciava da capo tutta quanta la pantomima, questa volta però con una mimica più elaborata.

Il tamburo continuò il suo ritmo regolare e ossessionante.

Papà Joe non alzò nemmeno lo sguardo.

— Un brutto segno — asserì Mamma Julie. — Cosa sai di quest’uomo?

— Molte cose — risposi, schiarendomi il cervello con uno sforzo di volontà.

— Angelsou — disse lei.

— Cosa?

— Angelsou — ripeté. — È un dio nero, un dio da temere. Il tuo amico è posseduto da Angelsou.

— Spiegati, per favore.

— Viene raramente al nostro hounfor. Non è desiderato, qui. Coloro che egli possiede diventano assassini.

— Penso che Hasan stesse provando una nuova miscela per pipa. Oppio mutante o qualcosa del genere.

— Angelsou — disse lei di nuovo. — Il tuo amico diventerà un assassino, perché Angelsou è un dio della morte, e fa visita solo ai suoi simili.

— Mamma Julie — replicai, — Hasan è un assassino. Se tu avessi un pezzo di gomma per ogni uomo che ha ucciso e tentassi di masticarli tutti, sembreresti uno scoiattolo. È un assassino professionista; nei limiti consentiti dalla legge, di solito. Dato che il Codice del Duello domina sul continente, svolge qui gran parte del suo lavoro. Si mormora che in certe occasioni commetta uccisioni illegali, ma la cosa non è mai stata provata.

«Così dimmi — terminai, — Angelsou è il dio degli assassini dilettanti o dei professionisti? Ci dovrebbe essere una differenza tra le due cose, non è vero?».

— Non per Angelsou — rispose lei.

Allora Dos Santos, nell’intento d’interrompere lo spettacolo, afferrò entrambi i polsi di Hasan. Provò a staccargli le mani l’una dall’altra, ma be’… provate a piegare una volta o l’altra le sbarre d’una gabbia, e vi farete un’idea.

Attraversai la stanza, seguito da diversi altri. Fu un evento fortunato, perché Hasan si era finalmente accorto che gli stava di fronte qualcuno, e sciolse il nodo delle sue mani. Poi estrasse da sotto il mantello uno stiletto a lunga lama.

Che poi avesse effettivamente intenzione o no di usarlo su Dos Santos o su qualcun altro è argomento di poca importanza, perché in quel momento Myshtigo s’infilò sul pollice la sua bottiglia di Coca e colpì Hasan sotto l’orecchio. Quello cadde in avanti e Dos Santos lo afferrò, e io gli tolsi la lama che stringeva tra le dita, e Myshtigo finì la sua Coca.

— Interessante cerimonia — osservò il vegano, — non avrei mai sospettato che quell’omaccione avesse sentimenti religiosi tanto forti.

— Questo dovrebbe insegnarle che non si può mai essere troppo sicuri, no?

— Sì. — Con un gesto circolare della mano indicò i presenti. — Sono tutti panteisti, non è vero?

Scossi la testa. — Animisti primitivi.

— Che differenza c’è?

— Be’, quella bottiglia di Coca che lei ha appena vuotata finirà sull’altare, o come lo chiamano, e servirà da ricettacolo per Angelsou, dato che ha avuto una mistica relazione col dio. Questo è il modo di vedere degli animisti. Un panteista si sarebbe arrabbiato vedendo arrivare alla cerimonia persone non invitate, tanto più con la confusione che abbiamo fatto. Un panteista poteva addirittura sentirsi spinto a sacrificare gli intrusi ad Agué Woyo, dio del mare, pestandogli per bene la scatola cranica col dovuto cerimoniale e scaraventandoli poi giù dal molo. Comunque non ho intenzione di andare a spiegare a Mamma Julie che tutta questa gente che ci sta fissando è animista. Mi scusi un attimo.

Non è che le cose fossero tanto spaventose, ma volevo scuoterlo un po’. Penso d’esserci riuscito.

Dopo essermi scusato ed aver augurato la buona notte, raccattai Hasan. Era svenuto al cento per cento, e io ero l’unico abbastanza robusto da poterlo trascinare.

Nelle strade non c’era nessuno all’infuori di noi; e il grande bastimento di Agué Woyo stava fendendo le onde al disotto del bordo orientale del mondo, e innaffiava il cielo di tutti i suoi colori preferiti.

Dos Santos, al mio fianco, disse: — Forse avevi ragione. Forse non dovevamo venire.

Non mi preoccupai di rispondergli, ma Ellen, che camminava avanti con Myshtigo, si fermò, si girò e replicò: — Sciocchezze. Se non ci fossimo stati, avremmo perso il magnifico, drammatico monologo di quel beduino. — Ormai ero a pochi centimetri da lei, e le sue mani batterono e si strinsero attorno alla mia gola. Non esercitò alcuna pressione, ma fece smorfie orribili e disse: — Uh! Mm! Sono posseduta da Angelsou, e la tua ora è venuta. — Poi rise.

— Lasciami andare la gola o ti butto addosso quest’arabo — ribattei, paragonando il color arancio-scuro dei suoi capelli con quello arancio rosa del cielo dietro di lei e sorrisi. — È anche pesante — aggiunsi.

Un secondo prima di mollare la presa, lei esercitò una piccola pressione (leggera ma troppo forte per essere uno scherzo), e poi fu di nuovo al braccio di Myshtigo e riprendemmo a camminare. Be’, le donne non mi schiaffeggiano mai perché io porgo sempre l’altra guancia e loro hanno paura del fungo, e immagino che quindi una breve stretta alla gola sia l’unica alternativa.

— Paurosamente interessante — disse Parrucca Rossa. — Mi sentivo strana. Come se dentro di me qualcosa stesse danzando con loro. Era una strana sensazione. Ballare non mi piace proprio; no, non mi piace nessun tipo di ballo.

— Che razza d’accento hai? — l’interruppi. — Sono anni che cerco d’identificarlo.

— Non so — disse. — Sono un misto d’irlandese e francese. Sono vissuta nelle Ebridi, e anche in Giappone, e in Australia, fino a diciannove anni…

Hasan rantolò proprio allora e mosse i muscoli e io sentii un notevole dolore nella spalla.

Lo adagiai per terra e gli diedi una frugatina. Trovai due coltelli da lancio, un altro stiletto, un elegantissimo coltello gravitazionale, un pugnale seghettato, lacci da strangolamento, e una cassettina di metallo contenente diversi veleni e fialette di liquido che non desideravo studiare troppo da vicino. Mi piaceva il coltello gravitazionale, così lo tenni per me. Era un Coricama e molto elegante.

Il giorno dopo sul tardi (di sera, se volete) andai a raccogliere il vecchio Phil, ben deciso ad usarlo come permesso d’ingresso all’appartamento di Dos Santos al Royal. La Radpol riverisce ancora Phil come una specie di Tom Paine Ritornista, anche se lui ha cominciato a fare l’innocente circa mezzo secolo fa, quando s’è buttato nel misticismo e nella rispettabilità. D’accordo che Il Richiamo della Terra è probabilmente la miglior cosa che abbia mai scritto; ma è stato lui a buttare giù gli Articoli del Ritorno, che hanno fatto nascere tutti i disordini che volevo. Adesso può anche fare il santerellino, ma a quell’epoca era un gran fomentatore d’agitazioni, e sono sicuro che si mette da parte tutti gli sguardi adoranti e le parole d’ammirazione che quel passato gli procura ancora, li tira fuori ogni tanto, se li spolvera, e li considera con qualcosa di molto simile al piacere.

Oltre a Phil mi portai anche un pretesto: volevo vedere come stava Hasan dopo la gran botta che aveva ricevuto all’hounfor. In realtà quella che cercavo era la possibilità di parlare con Hasan e scoprire quanto voleva dirmi dei suoi ultimi lavori; ammesso che volesse dirmi qualcosa.

Così Phil ed io ci facemmo una passeggiata. Non c’era molto tra l’Ufficio e il Royal: sette minuti, ad andatura moderata.

— Non hai ancora finito di scrivere la mia elegia? — chiesi.

— Ci sto ancora lavorando.

— Sono vent’anni che mi dici la stessa cosa. Vorrei che ti sbrigassi un po’ per poterla leggere.

— Te ne potrei mostrare alcune molto belle… Quella di Lorel, di George, persino una per Dos Santos. E ho diversi stereotipi, roba da riempire all’ultimo momento, per personaggi meno notevoli. Ma la tua è un problema.

— Diavolo! Perché?

— Devo continuare ad aggiornarla. Tu sei un bisonte, vai sempre avanti, vivi, fai delle cose.

— Mi disapprovi?

— La maggior parte della gente ha la decenza di fare qualcosa per una cinquantina d’anni, e poi se ne sta tranquilla. Le loro elegie non presentano problemi. Ne ho a quintali. Ma temo che la tua sarà completa solo all’ultimo minuto, e con un finale confuso. Non mi piace lavorare in queste condizioni. Preferisco avere a disposizione un’ordinata sequenza d’anni, poter valutare accuratamente la vita d’una persona, e senza fretta. Voialtri che vivete le vostre vite come personaggi da ballata mi mettete nei guai. Credo tu stia cercando di costringermi a scriverti un poema epico, ma io sono troppo vecchio per cose del genere. A volte mi addormento sul foglio.

— Penso che tu sia un po’ scortese nei miei riguardi — replicai. — Gli altri hanno tutti la loro elegia, e personalmente m’accontenterei anche d’un paio di buoni versi.

— Be’, ho la sensazione che la tua sarà finita tra non molto — mi confidò. — Cercherò d’inviartene una copia in tempo.

— Oh? Da dove fiorisce questa sensazione?

— Chi può isolare la fonte d’un’ispirazione?

— Sei tu che me lo devi dire.

— Mi è venuta mentre meditavo. Stavo componendone una per il vegano (per puro esercizio, s’intende) e mi sono trovato a pensare: «Presto finirò quella del greco». — Dopo un momento, continuò: — Concettualizza questa cosa: tu visto come due persone distinte, una più alta dell’altra.

— Sarebbe possibile se me ne stessi di fronte ad uno specchio e spostassi in continuazione il mio peso da un piede all’altro. Ho questa gamba più corta. Dunque, sto concettualizzando. E adesso?

— Nulla. Non t’avvicini a queste cose nel modo dovuto.

— È una tradizione culturale contro cui non sono stato mai immunizzato a dovere. Nodi, cavalli: Gordia, Troia. Lo sai. Siamo furtivi, insinuanti.

Lui rimase in silenzio per i dieci passi seguenti.

— Ala o piombo? — gli chiesi.

— Prego?

— È l’indovinello del kallikanzaros. Scegli.

— Ala?

— Hai sbagliato.

— Se avessi detto piombo…?

— Uh-uh. Hai un solo colpo a disposizione. La risposta esatta è quella che vuole il kallikanzaros. Hai perso.

— Mi sembra un poco arbitrario.

— I Kallikanzaroi sono fatti così. Sottigliezza greca, diversa da quella orientale. Ma anche meno imperscrutabile. Perché spesso la tua vita dipende dalla risposta, e il kallikanzaros in genere vuole che tu perda.

— Perché mai?

— Chiedilo al prossimo kallikanzaros che incontri, se ne hai la possibilità. Sono spiriti spregevoli.

Infilammo la strada giusta, svoltando al primo angolo.

— Cos’è questo improvviso ritorno d’interesse per la Radpol? — mi chiese. — È un pezzo che l’hai abbandonata.

— Me ne sono andato al momento opportuno, e l’unico interesse che ho attualmente è di sapere se sta ritornando in vita. Come ai vecchi giorni. Hasan viene stimato molto perché esegue sempre i suoi incarichi, e io voglio sapere cosa bolle in pentola questa volta.

— Hai paura che ti abbiano scoperto?

— No. Sarebbe una cosa spiacevole, ma dubito che potrebbe paralizzarmi del tutto.

Il Royal ci si presentò davanti, ed entrammo. Ci dirigemmo direttamente all’appartamento. Mentre percorrevamo il corridoio coperto di tappeti Phil osservò, in un lampo di autocritica: — Sto di nuovo ficcanasando, eh?

— Già.

— Okay. Scommetto uno a dieci che non scoprirai un accidente.

— Non accetto. È probabile che tu abbia ragione.

Bussai alla porta di legno scuro.

— C’è nessuno? — chiesi, mentre la porta si apriva.

— Avanti, avanti.

Ed eravamo dentro.

Mi ci vollero dieci minuti per portare la conversazione sulla deplorevole botta presa dal Beduino, dato che lì c’era anche Parrucca Rossa che continuava a distraimi per il semplice fatto di esserci.

— Buon mattino — salutò lei.

— Buonasera — replicai.

— Niente di nuovo nelle Arti?

— No.

— Monumenti?

— No.

— Archivi?

— No.

— Come dev’essere interessante il tuo lavoro!

— Oh, è stato pubblicizzato e valorizzato in maniera assolutamente falsa da certi romantici dell’Ufficio Informazioni. In realtà non facciamo altro che localizzare, riparare e conservare i dati e le costruzioni che l’umanità ha lasciato sulla faccia della Terra.

— Sareste delle specie di spazzini culturali?

— Mm, sì. Penso che sia un’espressione efficace.

— Be’, perché?

— Perché cosa?

— Perché lo fai?

— Qualcuno deve pur farlo, dato che si tratta di pattume culturale. Il che lo rende degno d’essere raccolto. Io conosco il mio pattume meglio di chiunque altro sulla Terra.

— Senti la tua missione, e sei anche modesto. È molto bello.

— Per di più non c’era tanta gente tra cui scegliere quando mi misi in lista per quel lavoro; e io sapevo dov’era sepolto un mucchio di pattume.

Lei mi tese un drink, bevve un sorso e mezzo del suo, e chiese: — Sono davvero ancora in circolazione?

— Chi? — m’informai.

— Le divinità SPA. I vecchi dèi. Come Angelsou. Credevo che tutti gli dèi avessero lasciato la Terra.

— No, non è vero. Molti di loro ci assomigliano, ma questo non significa che si comportino come noi. Quando gli uomini se ne sono andati non si sono offerti di prenderli con sé, e anche gli dèi hanno una loro dignità. E del resto, forse dovevano fermarsi in ogni modo: l’ananke, il destino mortale, sai. Nessuno può sconfiggerlo.

— Come il progresso?

— Già. Parlando di progresso, come va Hasan? L’ultima volta che l’ho visto era completamente fuori uso.

— È in piedi. Ha un gran bernoccolo in testa, ma il suo cranio è robusto. Nulla di serio.

— Dov’è?

— Su nel corridoio, a sinistra. Nella Stanza dei Giochi.

— Credo che andrò a porgergli i miei rispetti. Mi scusi?

— Scusato — rispose, annuendo, e se ne andò a sentire Dos Santos che parlava a Phil, il quale, naturalmente, fu ben lieto dell’intrusione.

Nessuno alzò lo sguardo quando me ne andai.

La Stanza dei Giochi si trovava all’altro capo del lungo corridoio. Mentre m’avvicinavo, udii un tang seguito da un silenzio, seguito da un altro tang.

Aprii la porta e guardai dentro.

Era solo. Mi dava di schiena, ma sentì la porta aprirsi e si girò rapidamente. Indossava una lunga toga color porpora e bilanciava un coltello nella destra. Aveva un grosso cerotto sulla nuca.

— Buonasera, Hasan.

Al suo fianco si trovava una fila di coltelli, e lui aveva appeso un bersaglio sul muro opposto. Due lame erano già piantate nel bersaglio: una nel centro e l’altra a circa venti centimetri di distanza. Fosse stato un orologio, avrebbe segnato le nove.

— Buonasera — disse lentamente. Poi, dopo averci pensato, chiese: — Come stai?

— Oh, bene. Ero venuto a farti la stessa domanda. Come va la testa?

— Il dolore è grande, ma passerà.

Mi chiusi la porta alle spalle.

— Devi aver avuto una bella allucinazione, ieri notte.

— Sì. Mister Dos Santos mi ha raccontato che combattevo coi fantasmi. Ma non ricordo.

— Non stavi certo fumando quella che il nostro dottor Emmet chiamerebbe Cannabis sativa, è chiaro.

— No, Karagee. Fumavo uno strige-fleur che aveva bevuto sangue umano. L’ho trovato vicino al Vecchio Posto di Costantinopoli, e ho essiccato con molta cura i suoi fiori. Una vecchia m’ha detto che mi avrebbe fatto vedere il futuro. Mentiva.

— … E il sangue di quel vampiro induce alla violenza? Be’, ecco un’altra cosa da tener presente. En passant, noto che mi hai chiamato Karagee. Vorrei che non lo facessi. Il mio nome è Nomikos, Conrad Nomikos.

— Sì, Karagee. Mi ha sorpreso vederti. Pensavo che fossi morto da parecchio tempo, quando la tua imbarcazione esplose nella baia.

— È Karagee che è morto. Non hai detto a nessuno che gli somiglio, no?

— No. Non faccio discorsi inutili.

— È una buona abitudine.

Traversai la stanza, scelsi un coltello, lo soppesai, e lo lanciai, facendolo finire ad una ventina di centimetri dal centro, sulla destra.

— È da molto che lavori per Mister Dos Santos? — gli chiesi.

— Da circa un mese — rispose.

Lanciò il suo coltello. Si piantò dieci centimetri sotto il centro.

— Sei la sua guardia del corpo, eh?

— È esatto. Faccio la guardia anche al tipo blu.

— Dos Santos dice di temere un attentato alla vita di Myshtigo. C’è davvero pericolo, o è solo una misura di sicurezza?

— Sono possibili entrambe le cose, Karagee. Non lo so. Mi paga solo per fare la guardia.

— Se ti pagassi di più, mi diresti chi devi uccidere?

— Sono stato assunto solo per fare la guardia, ma anche se fosse altrimenti non te lo direi.

— Non lo pensavo, infatti. Torniamo ai coltelli.

Andammo a staccare le lame dal bersaglio.

— Senti, se per caso fossi io quello che devi uccidere, il che è possibile, perché non sistemiamo subito la faccenda? — gli proposi. — Abbiamo entrambi due pugnali. Quello che uscirà vivo dalla stanza dirà che l’altro l’ha attaccato, e che s’è trattato d’auto-difesa. Non ci sono testimoni. La notte scorsa ci hanno visti tutti e due ubriachi o sovreccitati.

— No, Karagee.

— No cosa? No, non sono io? O no, non vuoi farlo a questo modo?

— Potrei dire di no, non sei tu. Ma non sapresti se sto dicendo la verità o una bugia.

— È vero.

— Potrei dire che non voglio farlo a questo modo.

— È vero?

— Non voglio dirlo. Ma per darti la soddisfazione d’una risposta, senti questa: se volessi ucciderti, non ci proverei con un coltello, e nemmeno mi metterei a fare a pugni o lottare con te.

— Perché mai?

— Perché molti anni fa, quand’ero un ragazzo, lavoravo nella zona di Kerch: accudivo alle tavole dei ricchi vegani. Allora non mi conoscevi, ero appena arrivato da Pamir. Tu e il tuo amico poeta giungeste a Kerch.

— Adesso mi ricordo. Sì… I genitori di Phil erano morti quell’anno; erano miei buoni amici, e avevo promesso di portare Phil all’università. Ma c’era un vegano che gli aveva rubato la sua prima donna, e se l’era portata a Kerch. Sì, il buffone. Ho dimenticato il nome.

— Era Thrilpai Ligo, il pugile shajadpa, e sembrava una montagna alla fine d’un’immensa pianura: grande, inamovibile. Combatteva con i cesti vegani: quelle cinghie di cuoio con dieci chiodi appuntiti tutt’attorno, a mani aperte…

— Sì, ricordo…

— Non avevi mai tirato di shajadpa prima, ma combattesti con lui per la ragazza. Si radunò una gran folla di vegani e di ragazze terrestri, e io me ne stavo su un tavolo a guardare. Dopo un minuto la tua faccia era tutta coperta di sangue. Quello cercava d’infilzarti gli occhi coi chiodi, e tu continuavi a scuotere la testa. Allora avevo quindici anni, ed avevo ucciso appena tre uomini e pensavo che tu saresti morto perché non l’avevi nemmeno toccato. E poi la tua mano destra gli arrivò addosso come un martello da un quintale, talmente veloce! Lo colpisti nel centro di quel doppio osso che i blu hanno nel petto, nel loro punto debole, e lo frantumasti come un uovo. Io non ci sarei mai riuscito, ne sono sicuro; ed ecco perché ho paura delle tue mani e delle tue braccia. Più tardi seppi che avevi ucciso anche un pipiragno. No, Karagee, se dovessi farti fuori mi terrei distante.

— È passato tanto tempo… Non credevo che qualcuno se ne ricordasse.

— Vincesti la ragazza.

— Sì. Non ricordo il nome.

— Ma non la restituisti al poeta. La tenesti per te. Ecco perché probabilmente ti odia.

— Phil? Quella ragazza? Non mi ricordo nemmeno che faccia avesse.

— Lui non ha mai dimenticato. Per questo penso che ti odi. Io riesco a sentire l’odio, a fiutare le sue radici. Gli hai rubato la sua prima donna. L’ho visto da me.

— È stata un’idea della ragazza.

— … E lui diventa vecchio e tu resti giovane. È molto brutto, Karagee, quando un amico ha motivi per odiare un amico.

— Sì.

— E non risponderò alle tue domande.

— È possibile che tu sia pagato per uccidere il vegano.

— È possibile.

— Perché?

— Ho detto solo che è possibile, non che è la verità.

— Allora ti farò ancora un’altra domanda, e poi la piantiamo lì. Che bene verrebbe dalla morte del vegano? Il suo libro potrebbe essere un grande passo avanti nelle relazioni umani-vegani.

— Non so che bene o che male ne verrebbe, Karagee. Facciamo ancora qualche tiro coi coltelli.

Tirammo. Presi la mira, bilanciai le armi, e ne piantai due giuste nel bersaglio. Poi Hasan infilzò altri due coltelli tra i miei. Il secondo produsse uno stridente rumore metallico, mentre vibrava contro uno dei miei.

— Ti dirò una cosa — dissi, mentre li staccavamo dal bersaglio. — Sono il capo della spedizione, e responsabile della sicurezza dei partecipanti. Farò da guardia anch’io al vegano.

— Eccellente, Karagee. Ha bisogno di protezione.

Rimisi i coltelli nel contenitore e mi diressi verso la porta.

— Partiremo domattina alle nove, lo sai. Un convoglio di Lance ci aspetterà nella prima sezione, dalla parte dell’Ufficio.

— Sì. Buonanotte, Karagee.

— … E chiamami Conrad.

— Sì.

Aveva un coltello pronto per il bersaglio. Chiusi la porta e cominciai a ripercorrere il corridoio. Quasi subito sentii un altro tang, e sembrava molto più vicino di tutti i precedenti. Continuò ad echeggiarmi attorno, lì nel corridoio.


Mentre le sei grandi Lance sorvolavano l’oceano in direzione dell’Egitto rivolsi i miei pensieri dapprima a Kos e Cassandra; e poi, con notevole difficoltà, li proiettai in avanti sulla terra di sabbia: il Nilo, coccodrilli mutanti, e diversi Faraoni morti che i miei attuali progetti stavano disturbando. («La morte arriva su ali veloci a colui che sfida…» ecc). E poi pensai all’umanità, rannicchiata sulla colonia di Titano, occupata negli Uffici Terrestri, prostituita su Taler e Bakab, abulica su Marte, arrangiata alla bell’e meglio su Rylpah, Divbah, Litan e altre due dozzine di mondi dell’Unione Vegana. Poi pensai ai vegani.

Quelle creature dalla pelle blu e i nomi buffi e le fossette come pustole di vaiolo ci avevano dato ospitalità quando avevamo freddo, ci avevano nutriti quando eravamo affamati. Già. Apprezzavano il fatto che le nostre colonie su Marte e Titano avessero sofferto di circa un secolo di penosa e forzata autosufficienza, dopo l’incidente dei Tre Giorni, prima che riuscissimo a costruire un veicolo interstellare decente. Come i curculionidi del lino (il paragone me l’ha suggerito Emmet) stavamo cercando una casa nuova, perché avevamo esaurito le risorse della vecchia. Ma i vegani avevano preso in mano l’insetticida? No. Dato che sono una razza tanto antica e saggia, ci avevano permesso di insediarci nei loro mondi, di vivere e lavorare nelle loro città di terra, nelle loro città di mare. Perché anche una cultura avanzata come quella dei vegani aveva bisogno di lavoro manuale (la solita vecchia storia del pollice opponibile). Le macchine non possono sostituire dei buoni domestici, fare la guardia come si deve, coltivare a puntino un giardino, pescare in alto mare, compiere lavori difficili e pericolosi sottoterra e sott’acqua, fare da buffoni per un’altra razza. D’accordo, la presenza di abitazioni umane abbassa il valore delle adiacenti proprietà vegane, ma d’altronde gli umani offrono con il loro contributo al benessere dei vegani, un’ampia ricompensa per la svalutazione.

Il che mi riportò alla Terra. I vegani non avevano mai visto prima una civiltà completamente devastata, sicché erano affascinati dal nostro pianeta natale. Abbastanza affascinati da tollerare il nostro assente governo di Taler. Abbastanza da comperare i biglietti dei giri turistici terrestri per vedere le rovine. Persino abbastanza da acquistare appezzamenti di terreno e costruire nuove abitazioni. C’è una certa dose di fascino in un pianeta che sembra un museo vivente. (Cos’era che James Joyce diceva di Roma?). Comunque, la morta Terra regala ancora ai suoi sfortunati pronipoti una piccola ma apprezzabile rendita ad ogni anno fiscale vegano. E questa è la ragione per cui esistono l’Ufficio, Lorel, George, Phil, e tutto il resto.

Magari anch’io, più o meno.

In basso, l’oceano era un tappeto grigio-azzurro che ci veniva portato continuamente via da sotto i piedi. Poco per volta il continente lo sostituì. Filavamo a tutta velocità verso Nuova Cairo.

Ci posammo all’esterno della città. Non esiste un vero aeroporto. Semplicemente scendemmo su un campo vuoto senza chiedere nessun permesso, e lasciammo George di guardia.

Vecchia Cairo è ancora calda, ma la gente con cui si può fare affari vive quasi tutta a Nuova Cairo, e così le cose erano okay per la nostra spedizione. Myshtigo voleva vedere la moschea di Kait Bey nella Città dei Morti, che era sopravvissuta ai Tre Giorni; comunque gli bastò che lo portassi a sorvolare il posto sulla mia Lancia. Mentre io m’abbassavo lentamente, in circolo, lui continuava a guardare e a scattare fotografie. Tra i monumenti, quelli che gli interessavano sul serio erano le piramidi e Luxor, Karnak, e la Valle dei Re e la Valle delle Regine.

Fu un bene limitarci ad osservare la moschea dall’alto. Sotto di noi correvano forme nere, che si fermavano solo per tirare sassi alla nave.

— Cosa sono? — chiese Myshtigo.

— Gente Calda — gli dissi. — Specie d’esseri umani. Variano in grandezza, forma e crudeltà.

Dopo qualche giro si ritenne soddisfatto, e ritornammo al campo.

Così, atterrando di nuovo sotto un sole dardeggiante, mettemmo al sicuro quell’ultima Lancia e sbarcammo. Prendemmo a muoverci tra sabbia e pavimentazioni divelte, in uguali proporzioni. Eravamo in otto: due assistenti temporanei, io, Myshtigo, Dos Santos e Parrucca Rossa, Ellen, Hasan. Ellen aveva deciso all’ultimo momento d’accompagnare il marito nel viaggio. Su entrambi i lati della strada c’erano campi di canne da zucchero, alte e snelle. In un momento ce li eravamo lasciati alle spalle, e attraversavamo i bassi edifici periferici della città. La strada s’allargò. Qua e là una palma gettava un po’ d’ombra. Due bambini dai grandi occhi castani alzarono lo sguardo quando passammo. Stavano osservando una stanca mucca a sei zampe che faceva girare una grande ruota sakieh, comportandosi come qualsiasi altra mucca che abbia mai fatto girare una grande ruota sakieh da che mondo è mondo, solo che questa lasciava più impronte.

Il mio supervisore per quell’area, Rameses Smith, ci aspettava alla locanda. Era un uomo massiccio e corpulento, e la sua faccia dorata era chiusa in una fittissima, delicata rete di rughe; e aveva due occhi maledettamente tristi, ma il suo continuo ridacchiare lo faceva sembrare subito più allegro.

Sedemmo a bere birra nel salone principale della locanda, mentre aspettavamo George. Avevamo mandato guardie del luogo a dargli il cambio.

— Il lavoro procede bene — m’informò Rameses.

— Ottimo — dissi, abbastanza compiaciuto che nessuno m’avesse chiesto cosa fosse «il lavoro». Volevo fare una sorpresa. — Come stanno sua moglie e i bambini?

— Stanno bene — dichiarò.

— Il nuovo nato?

— È sopravvissuto, e senza difetti — rispose con orgoglio. — Ho mandato mia moglie in Corsica fino al momento del parto. Ho qui una sua fotografia.

Finsi di studiarla, producendo i soliti borbottii di apprezzamento di rito. Poi chiesi: — Parlando di fotografie, avete bisogno di altro materiale per le riprese?

— No, siamo bene attrezzati. Va tutto bene. Quando vuole vedere il lavoro?

— Non appena avrò messo qualcosa sotto i denti.

— Lei è mussulmano? — c’interruppe Myshtigo.

— Sono di fede copta — replicò Rameses, senza sorridere.

— Oh, davvero? Era l’eresia Monofisita, no?

— Noi non ci consideriamo eretici — disse Rameses.

Dopo di che cominciai a chiedermi se noi greci avessimo fatto davvero bene a sguinzagliare la logica in un mondo talmente scalognato, mentre Myshtigo si lanciava in un divertente (per lui) catalogo delle eresie cristiane. In un accesso di rabbia per dover guidare un giro del genere, le registrai tutte nel Diario di Viaggio. Più tardi, Lorel mi disse che si trattava d’un documento interessante e ben tenuto. Il che dimostra appunto quanto devo essermi sentito arrabbiato in quel momento. Parlai persino dell’accidentale canonizzazione di Budda, scambiato per San Giosafat nel sedicesimo secolo. Alla fine, mentre Myshtigo se ne stava lì a farsi beffe di noi, capii che se non avessimo cambiato argomento gli sarei saltato addosso. Io non sono cristiano, e quindi la sua rassegna dei nostri grotteschi errori teologici non mi colpiva nel plesso religioso. Ma m’irritava vedere che un membro d’un’altra razza s’era preso la briga di fare tante ricerche solo per farci sembrare un mucchio d’idioti. Riconsiderando adesso la cosa, mi rendo conto di aver avuto torto. Il successo dei videonastri di cui m’occupavo a quell’epoca («il lavoro» cui aveva fatto allusione Rameses) mi ha portato a formulare una nuova ipotesi sui vegani. Erano così maledettamente annoiati di se stessi e noi costituivamo una tale novità che si sono gettati a corpo morto sui nostri problemi di perenne attualità e su quelli classici, nonché su quello costituito dalla nostra presente esistenza carnale. S’ingolfavano in vasti studi e speculazioni su chi avesse realmente scritto le tragedie di Shakespeare, se Napoleone fosse morto o no a S. Elena, chi fossero stati i primi europei a mettere piede in America, e se i libri di Charles Fort indicassero che la Terra era stata visitata da una razza intelligente sconosciuta anche a loro; e via di seguito. Le alte caste vegane si sono digerite anche le nostre dispute teologiche medievali. Divertente.

— A proposito del suo libro, Srin Shtigo… — intervenni.

Il titolo onorifico lo fermò.

— Sì? — rispose.

— La mia impressione — dissi, — è che adesso lei non ne voglia discutere affatto. Naturalmente rispetto questa volontà, ma la cosa mi mette in una posizione piuttosto imbarazzante, come capo della spedizione. — Sapevamo entrambi che avrei dovuto parlargliene in privato, specialmente dopo la sua risposta a Phil al nostro primo incontro, ma mi sentivo idrofobo e volevo che se ne accorgesse; e inoltre volevo dare un altro indirizzo alla discussione. Così dissi: — Sono curioso di sapere se sarà principalmeate una descrizione dei posti che visiteremo, o se lei ha bisogno di una mano per individuare particolari situazioni locali correnti di qualche tipo. Politiche, per esempio, o culturali.

— Il mio interesse principale è quello di scrivere un libro di viaggio, descrittivo — asserì, — ma gradirò qualsiasi suo commento. Pensavo che questo fosse proprio il suo compito, comunque. Ora come ora ho una certa conoscenza delle tradizioni terrestri e della situazione attuale, sicché la cosa non m’interessa troppo.

Dos Santos, che passeggiava fumando mentre ci preparavano il pranzo, si fermò d’improvviso e disse: — Srin Shtigo, quali sono i suoi sentimenti nei confronti del Movimento Ritornista? È d’accordo con le nostre richieste? O le considera un vicolo cieco?

— Risposta affermativa — replicò, — alla sua ultima frase. Io credo che quando uno è morto abbia l’unico dovere di obbedire al becchino. Rispetto le vostre richieste, ma non vedo come possiate sperare di realizzarle. Perché mai la vostra gente dovrebbe rinunciare alla sicurezza che attualmente possiede per ritornare a questo posto? Quasi tutti gli appartenenti alla nuova generazione non hanno mai visto la Terra, se non in film; e deve ammettere che non si tratta di pellicole propriamente incoraggianti.

— Non sono d’accordo con lei — disse Dos Santos, — e trovo troppo aristocratico il suo atteggiamento.

— Ma deve essere così — replicò Myshtigo.

George e il cibo arrivarono press’a poco nello stesso tempo.

I camerieri cominciarono a servirci.

— Preferirei mangiare da solo ad un tavolo piccolo — ordinò Dos Santos ad un cameriere.

— Sei qui perché hai chiesto di esserci — gli feci notare.

Si fermò a metà della fuga e gettò uno sguardo furtivo a Parrucca Rossa, che sedeva alla mia destra. Credo d’aver scorto un impercettibile movimento della sua testa, prima a sinistra, poi a destra.

Dos Santos si ricompose con un piccolo sorriso e s’inchinò lievemente.

— Perdoni il mio temperamento latino — osservò. — È stupido aspettarmi di convertire qualcuno al Ritornismo in cinque minuti, come mi è stato difficile nascondere i miei sentimenti.

— È abbastanza ovvio.

— Ho fame — dissi.

Sedette di fronte a noi, accanto a George.

— Osservate la Sfinge — disse Parrucca Rossa, gesticolando verso un’incisione sul muro, — che pronuncia i suoi discorsi tra un lungo periodo di silenzio e un indovinello gettato per caso. Vecchia come il tempo. Molto rispettata. Indubbiamente senile. Tiene chiusa la bocca ed aspetta. Cosa? Chi lo sa? I suoi gusti artistici tendono al monolitico, Srin Shtigo?

— Talora — replicò lui, dalla mia sinistra.

Dos Santos guardò una volta, rapidamente, dietro le spalle, poi di nuovo verso Diane. Non disse nulla.

Chiesi a Parrucca Rossa di passarmi il sale, e lei me lo passò. Avrei voluto rovesciarglielo addosso, per immobilizzarla e poterla studiare a mio piacimento; invece mi limitai ad usarlo sulle patate.

Osservate la Sfinge, proprio vero!


Sole alto, ombre corte, caldo: ecco com’era. Non volevo in giro ragni-della-sabbia o Lance a rovinare la scena, così costrinsi tutti a farsela a piedi. Non era molto distante, e scelsi un percorso lievemente circolare per ottenere l’effetto calcolato.

Camminammo per un chilometro, un po’ salendo, un po’ scendendo. Confiscai la rete per farfalle di George onde evitare pause irritanti, e oltrepassammo i diversi campi di trifoglio che incorniciavano il percorso.

Tornando indietro nel tempo, era proprio così: uccelli scintillanti che svanivano in un lampo (cra! cra!), e una coppia di cammelli che si stagliava contro l’orizzonte distante ogni volta che salivamo una piccola duna. (Profili di cammello, in effetti, schizzati a carboncino; ma era più che sufficiente. Chi se ne frega dell’espressione d’un cammello? Nemmeno gli altri cammelli, in realtà. Che bestie nauseanti…). Una piccola donna dalla pelle scura ci passò accanto, tenendo un’alta giara sulla testa. Myshtigo annotò questo fatto nel suo registratore tascabile. Io annuii alla donna e le feci un saluto. La donna restituì il saluto ma non annuì, naturalmente. Ellen, già tutta bagnata, continuava a farsi aria con un grande ventaglio verde a triangolo; Parrucca Rossa camminava altera, con le piccole gocce di sudore che le inumidivano il labbro superiore, gli occhi nascosti dietro un paio d’occhiali da sole neri quant’era possibile. Finalmente arrivammo. Salimmo l’ultima, bassa collina.

— Guardate — disse Rameses.

Madre de Dios! - esclamò Dos Santos.

Hasan grugnì.

Parrucca Rossa si girò velocemente verso di me, poi dall’altra parte. Non potevo leggere la sua espressione a causa degli occhiali. Ellen continuò a farsi vento.

— Cosa stanno facendo? — chiese Myshtigo. Era la prima volta che lo vedevo genuinamente sorpreso.

— Cavolo, stanno smantellando la grande piramide di Cheope — dissi.

Dopo un po’ Parrucca Rossa lo chiese.

— Perché?

— Stammi a sentire — le spiegai — da queste parti sono a corto di materiale da costruzione, dato che la roba che viene da Vecchia Cairo è radioattiva; così si procurano il necessario mandando in pezzi questo vetusto esempio d’architettura geometrica.

— Stanno dissacrando un monumento alle glorie passate della razza umana! — esclamò lei.

— Nulla è più inutile delle glorie passate — osservai. — Adesso è il presente quello che c’interessa, e hanno bisogno di materiale da costruzione.

— Da quanto va avanti questa faccenda? — chiese Myshtigo, gettando fuori tutte le parole in un colpo.

— È stato tre giorni fa — rispose Rameses, — che abbiamo iniziato lo smantellamento.

— Cosa vi dà il diritto di fare una cosa del genere?

— È stata autorizzata dal Dipartimento per le Arti, Monumenti ed Archivi terrestri, Srin.

Myshtigo si girò verso di me, e i suoi occhi color ambra avevano uno strano lampo.

— Lei! — disse.

— Io — concessi, — sono effettivamente Commissario. È esatto.

— Perché nessun altro ha sentito parlare di questa sua azione?

— Perché c’è pochissima gente che viene ancora qui — spiegai. — Un’altra buona ragione per smantellare quell’accidente. Di questi tempi non è oggetto d’una grande attenzione. E io ho l’autorità per autorizzare azioni del genere.

— Sono venuto da un altro mondo per vederla!

— Be’, allora si sbrighi a darle un’occhiata — gli raccomandai. — Sta partendo in fretta.

Si girò a fissarla.

— Ovviamente lei non ha idea del suo valore intrinseco. O, se l’ha…

— Al contrario, so esattamente quanto vale.

— … E queste infelici creature che lei ha messo a lavorare qui — la sua voce s’alzò mentre studiava la scena, — sotto i raggi di questo sole implacabile… Lavorano nelle condizioni più primitive immaginabili! Non ha mai sentito parlare di macchine da trasporto?

— Naturalmente. Troppo care.

— E i guardiani hanno delle fruste! Come può trattare a questo modo la sua gente? È pura perversione!

— Tutti questi uomini si sono offerti volontari per il lavoro, con un salario simbolico; e l’Equità degli Attori non ci permetterebbe di usare le fruste, anche se gli uomini fossero d’accordo. Ci è permesso solo farle schioccare nell’aria vicino alle loro schiene.

— L’Equità degli Attori?

— Il loro sindacato. Vuol vedere un po’ di macchinari? — Gesticolai. — Guardi su quella collina.

Guardò.

— Cosa succede lassù?

— Stiamo registrando tutto su videonastro.

— A che scopo?

— Quando avremo finito metteremo in circolazione il film a velocità normale, ma proiettandolo dalla fine all’inizio. Lo chiameremo «La Costruzione della Grande Piramide». Dovrebbe servire a fare qualche risata, e un po’ di soldi. I vostri storici si sono messi a discutere su come avessimo fatto a costruirle dal primo giorno che ne hanno sentito parlare. Questo dovrebbe renderli un po’ più felici. Personalmente ho deciso che un’operazione F.B.I.M. sarebbe stata la soluzione migliore.

— F.B.I.M.?

— Forza Bruta e Ignoranza di Massa. Dia un’occhiata a come si danno da fare, per piacere. Seguono gli spostamenti delle telecamere, mostrando il viso e alzandosi appena s’accorgono d’essere inquadrati. A prodotto finito li mostreremo tutti quanti stramazzati al suolo. D’altra parte è il primo film terrestre dopo anni e anni. Sono proprio eccitati.

Dos Santos scrutò i denti serrati di Parrucca Rossa, e i muscoli tirati sotto i suoi occhi. Gettò un’occhiata alla piramide.

— Sei pazzo! — stabilì.

— No — replicai. — A modo suo, anche l’assenza d’un monumento può essere un monumento.

— Un monumento a Conrad Nomikos — affermò.

— No — disse allora Parrucca Rossa. — È indubbio che esiste un’arte distruttiva, come esiste un’arte costruttiva. Penso che stia tentando una cosa del genere. Recita la parte del Caligola. Forse posso addirittura capire perché.

— Grazie.

— Niente prego. Ho detto «forse». Un artista lo fa con amore.

— L’amore è una forma negativa d’odio.

— Sto morendo, Egitto, morendo — disse Ellen.

Myshtigo rise.

— Lei è più duro di quanto pensassi, Nomikos — osservò. — Ma non indispensabile.

— Provi a far licenziare un impiegato statale. Specialmente me.

— Potrebbe essere più facile di quanto lei pensi.

— Vedremo.

— Può essere.

Ci girammo verso il restante 90 per cento della grande piramide di Cheofe-Khufu. Myshtigo ricominciò a prendere note.

— Ho preferito che la vedeste da qui, per adesso — dissi. — La nostra presenza distruggerebbe la credibilità del film e farebbe sprecare metri e metri di pellicola. Siamo degli anacronismi. Potremo scendere durante la pausa per il caffè.

— Sono d’accordo — assentì Myshtigo, — e sono sicuro di saper riconoscere un anacronismo, quando ne vedo uno. Ma qui ho già visto tutto quello che m’interessa. Torniamo alla locanda. Voglio parlare con gli indigeni.

Dopo un momento disse, pensoso: — Allora vedrò Sakkara prima del previsto. Non ha ancora cominciato a smantellare tutti i monumenti di Luxor, Karnak e della Valle dei Re, spero.

— Non ancora, no.

— Bene. Allora li visiteremo in anticipo.

— Muoviamoci di qui — disse Ellen. — Il caldo è bestiale.

Così ritornammo.

— Credi davvero a tutto quello che dici? — mi chiese Diane mentre ripercorrevamo il cammino.

— A modo mio.

— Com’è che pensi a cose del genere?

— In greco, ovviamente. Poi le traduco in inglese. Sono un mago, per le traduzioni.

— Chi sei?

— Ozimandia. Considera le mie opere e dispera, o grande.

— Non sono grande.

— Mi chiedo… — dissi, e la lasciai con una buffa espressione sulla parte del suo viso che potevo vedere, mentre camminavamo.


— Mi lasci parlare del boadrillo — dissi.

La nostra feluca si muoveva lentamente sull’abbagliante sentiero d’acqua che si snoda di fronte ai grandi colonnati grigi di Luxor. Myshtigo mi dava la schiena. Fissava le colonne, dettando a tratti le sue impressioni.

— Quando prenderemo terra? — mi chiese.

— Tra circa un miglio, in linea retta. Forse è meglio che le dica qualcosa del boadrillo.

— So cos’è un boadrillo. Le ho spiegato che ho studiato il vostro mondo.

— Uh-huh. Una cosa è leggerne…

— Ho anche visto dei boadrilli. Ce ne sono quattro nel Giardino Terrestre di Taler.

— … e un’altra cosa è vederli dal vivo.

— Tra lei e Hasan siamo un vero arsenale ambulante. Vedo tre granate nella sua cintura, e quattro in quella di Hasan.

— Le granate non si possono usare quando quelle bestie sono troppo vicine; si rischia di finire spappolati. E se sono distanti, non si riesce a colpirli. Si muovono troppo in fretta.

Finalmente si girò.

Cosa usa, allora?

Frugai nel mio mantello (m’ero vestito da indigeno) ed estrassi l’arma che cerco sempre d’aver sottomano quando vengo da queste parti.

Lui l’esaminò.

— Che roba è?

— Un mitra. Spara proiettili al meta-cianuro, con un impatto di una tonnellata a carica. Non è molto preciso nel tiro, ma non è necessario. È costruito sul modello d’una pistola-mitragliatrice del ventesimo secolo, la Schmeisser.

— Piuttosto ingombrante. Può fermare un boadrillo?

— Con un po’ di fortuna. Ne ho un altro paio in una delle casse. Ne vuole uno?

— No, grazie. — Fece una pausa. — Ma può dirmi ancora qualcosa dei boadrilli. Quel giorno gli ho dato solo un’occhiata, ed erano ben nascosti sott’acqua.

— Be’… La testa è un po’ come quella dei coccodrilli, solo più grossa. Lunghi una dozzina di metri. Capaci di trasformarsi in una specie di palla con tanti denti. Veloci sulla terra e in acqua, e un gran numero di zampe da tutte le parti.

— Quante zampe? — m’interruppe.

— Mh. — Mi fermai. — A dirle l’assoluta verità, non le ho mai contate. Solo un secondo. Ehi, George — gridai. L’eminente primo biologo della Terra si faceva un sonnellino nell’ombra dell’imbarcazione. — Quante zampe ha un boadrillo?

— Huh? — La sua testa si girò.

— Ho detto «Quante zampe ha un boadrillo?».

Si alzò in piedi, si stiracchiò un po’ e ci venne vicino.

— Boadrilli — mormorò, ficcandosi un dito nell’orecchio e frugando nei cataloghi del suo cervello. — Appartengono indubbiamente alla classe dei rettili; di questo almeno siamo certi. Se siano dell’ordine dei coccodrilli, di un loro sottordine, o dell’ordine degli squamata, sottordine lacertilia, famiglia neopoda, come sostiene in maniera semi-seria un mio collega di Taler, di questo non siamo certi. Secondo me ricordano parecchio le foto-riproduzioni del fitosauro mesozoico eseguite da certi artisti prima dei Tre Giorni; con in più, naturalmente, le zampe in soprannumero e la capacità di provocare soffocamento. Sicché io stesso sono in favore dell’ordine coccodrilia.

Si appoggiò al fianco dell’imbarcazione e prese a fissare l’acqua scintillante.

Capii allora che non avrebbe detto più niente, così chiesi ancora: — E quante zampe ne ha uno?

— Eh? Zampe? Non le ho mai contate. Se siamo fortunati potremmo avere una possibilità qui. Ce ne sono un mucchio in giro. Il piccolo che avevo io non è durato molto.

— Cosa gli è successo? — chiese Myshtigo.

— Se l’è mangiato il mio megadornito.

— Megadornito?

— Una specie d’ornitorinco provvisto di denti — spiegai, — alto un tre metri. Provi ad immaginarselo. Per quello che sappiamo, sono stati visti tre o quattro volte. Australiani. Il nostro ce lo siamo procurato per un caso fortunato. Probabilmente non resisteranno, come specie; non come i boadrilli, voglio dire. Sono mammiferi ovipari, e le loro uova sono troppo grosse perché questo mondo affamato permetta la sopravvivenza della specie. Ammesso che sia una vera specie. Forse sono deviazioni isolate.

— Forse — disse George, annuendo gravemente, — e forse no.

Myshtigo rivolse altrove la sua attenzione, scuotendo la testa. Hasan aveva liberato parzialmente dall’involucro il suo robot golem (Rolem), e giocherellava coi controlli. Ellen aveva infine rinunciato ai vestiti e si crogiolava al sole, lasciandosi tutta abbrustolire. Parrucca Rossa e Dos Santos stavano tramando qualcosa, dall’altra parte dell’imbarcazione. Quei due non hanno mai un semplice incontro: si tratta sempre d’appuntamenti. La nostra feluca si muoveva lentamente sull’abbagliante sentiero d’acqua che si snoda di fronte ai grandi colonnati grigi di Luxor e io decisi che era tempo di condurla a terra e vedere cosa ci fosse di nuovo tra le tombe e i templi in rovina.


I sei giorni seguenti furono pieni di fatti e, a modo loro, indimenticabili, estremamente attivi, e belli e brutti; come può esserlo un fiore, con i petali tutti intatti e una nera macchia di putrefazione nel centro. Proprio così…

Myshtigo deve aver osservato tutte le maledette pietre conficcate nei sei chilometri della Strada per Luxor. Nell’arsura del giorno e al chiaro delle torce circumnavigammo le rovine, disturbando pipistrelli, serpenti ed insetti; ossessionati dal monotono linguaggio del vegano che continuava a prendere note. Di notte ci accampavamo sulla sabbia, erigendo un perimetro di allarme elettronico di duecento metri e mettendo due guardie. Il boadrillo è un animale a sangue freddo; le notti erano gelide. Sicché il pericolo esterno era relativo.

Enormi fuochi da campo illuminavano la notte nelle zone che sceglievamo, perché il vegano voleva le cose primitive; tanto per creare dell’atmosfera, immagino. Le Lance erano parecchio indietro, a sud. Le avevamo sistemate in un posto che conoscevo, lasciandole alla sorveglianza dell’Ufficio, e avevamo affittato la feluca per il viaggio, ripetendo a modo nostro il percorso degli Dèi-Re da Karnak a Luxor. Di notte, Hasan faceva pratica con l’assagai che aveva barattato con un grosso nubiano, oppure si spogliava fino alla cintola e combatteva per ore col suo instancabile golem.

Degno avversario, il golem. Hasan lo aveva programmato sul doppio della forza media d’un uomo, e aveva accelerato del cinquanta per cento la velocità dei suoi riflessi. La sua «memoria» conteneva centinaia di prese, e il regolatore interno gl’impediva, almeno teoricamente, di uccidere o storpiare l’avversario; il tutto grazie ad una serie d’afferenti chimico-elettrici, equivalenti ai nostri nervi, che gli permettevano di calcolare perfettamente la pressione delle sue mani e di non arrivare mai a spezzare un osso o recidere un tendine. Rolem era alto circa un metro e sessantacinque e pesava una novantina di chili; costruito su Bakab, costava un sacco di soldi. Era colore del pane non ancora cotto, aveva un viso che era la caricatura d’un viso umano, e il cervello era sistemato in basso, dove si troverebbe l’ombelico se i golem avessero ombelico, per proteggere la materia cerebrale dai colpi della lotta greco-romana. Ma anche così, potevano succedere incidenti. Certa gente è stata uccisa da quegli affari, quando qualcosa va a pallino nel cervello o negli afferenti, o semplicemente perché tentavano di liberarsi o tirarsi indietro, fornendo al golem la pressione in più sufficiente per uccidere. Io ne avevo tenuto uno per quasi un anno, programmato per la boxe. Avevo l’abitudine di passarci un quarto d’ora o giù di lì ogni pomeriggio. Ormai lo consideravo quasi una persona. Poi un giorno tentò di farmi la forca e io gli restai addosso per più d’un’ora e alla fine gli staccai la testa. Quell’accidente continuò a tirare pugni, e allora smisi di pensare a lui come ad un amichevole avversario da allenamento. È una sensazione bestiale boxare con un golem senza testa, lo sapete? Un po’ come svegliarsi da un sogno delizioso e trovare un incubo accoccolato ai piedi del letto. Non è che «veda» sul serio l’avversario con quelle specie di occhi che ha; è tutto inguainato da un mesenterio-radar piezoelettrico, e «registra» le cose con l’intera superficie. Eppure la morte di un’illusione tende a sconcertarmi. Misi a riposo il mio, e non lo riaccesi mai più. Lo rivendetti ad un mercante di cammelli per una cifra piuttosto buona. Non so se sia mai riuscito a riattaccargli la testa. Ma era un turco: quindi, chi se ne frega?

Comunque Hasan combatteva con Rolem, e tutti e due splendevano nella luce del fuoco, e noi stavamo seduti su coperte a guardare, e ogni tanto i pipistrelli svolazzavano bassi, come grandi, veloci mucchi di cenere, e nubi emaciate coprivano la luna come pesanti tendaggi, e poi s’allontanavano di nuovo. Questa era la scena la terza notte, quando impazzii.

Me ne ricordo solo come ci si può ricordare un paesaggio di campagna intravisto di passaggio una sera di tarda estate, sotto un temporale: una serie d’istantanee isolate, traboccanti di luce…

Dopo aver parlato con Cassandra per quasi un’ora intera, conclusi la trasmissione con la promessa di recuperare il pomeriggio seguente una Lancia, e passare la notte a Kos. Ricordo le nostre ultime parole.

— Fai attenzione, Konstantin. Ho fatto brutti sogni.

— Tranquilla, Cassandra. Buonanotte.

E chi lo sa se i suoi sogni non erano davvero la manifestazione d’un’onda d’urto temporale, che si muoveva all’indietro da una scossa di 9,6 gradi Richter?

Con un certo bagliore di crudeltà negli occhi, Dos Santos applaudì quando Hasan rovesciò Rolem sul terreno, provocando una gigantesca scossa. Ma il movimento del terreno continuò anche parecchio tempo dopo che il golem s’era rimesso in piedi e si preparava ad un altro combattimento, muovendo a serpente le braccia in direzione dell’arabo. Il suolo continuava a sussultare.

— Che forza! La sento ancora! — gridò Dos Santos. — Olé!

— È un movimento sismico — disse George. — Anche se non sono un geologo…

— Il terremoto! — strillò sua moglie, lasciando cadere un dattero non pastorizzato con cui stava imboccando Myshtigo.

Non c’era ragione di correre, non c’era posto dove correre. Non c’era nulla nelle vicinanze che ci potesse crollare addosso. Il terreno era piatto e completamente spoglio. Così restammo seduti a sobbalzare in su e in giù, e a venire ogni tanto sbattuti forte a terra. I fuochi fecero cose sorprendenti.

Scaduto il tempo di programmazione Rolem si spense, e Hasan venne a sedere vicino a George e a me. Le scosse durarono quasi un’ora, e ritornarono con meno forza diverse altre volte, durante la notte. Cessata la prima ondata, prendemmo contatto con il porto. Ci dissero che gli strumenti indicavano l’epicentro del fenomeno ad una notevole distanza da noi, a nord.

Una bella distanza, accidenti.

… Nel Mediterraneo.

Nell’Egeo, per essere più precisi.

Mi sentii male, e stetti male.

Tentai di parlare con Kos.

Niente.

La mia Cassandra, la mia adorata signora, la mia principessa… Dov’era? Per due ore cercai di scoprirlo. Poi il porto mi chiamò.

Era la voce di Lorel, non quella di un qualsiasi operatore di guardia.

— Uh… Conrad, non so come dirti esattamente quello che è successo…

— Parla — dissi, — e fermati quando hai finito.

— Un satellite è passato dalle tue parti una dozzina di minuti fa — gracchiò tra le scariche. — Diverse isole dell’Egeo non erano più presenti nelle immagini che trasmetteva…

— No — dissi.

— Temo che Kos fosse una di quelle.

— No — ripetei.

— Mi spiace — continuò, — ma sembra che le cose stiano così. Non so che altro dire…

— Mi basta — dissi. — È tutto. È quanto. Arrivederci. Parleremo più tardi. No! Credo… No!

— Aspetta! Conrad!

Allora impazzii.

I pipistrelli, liberati dal ventre della notte, mi svolazzavano attorno. Stesi avanti la destra e ne uccisi uno mentre volava nella mia direzione. Aspettai qualche secondo e ne uccisi un altro. Poi raccolsi con entrambe le mani un grosso sasso e stavo per fracassare la radio quando George mi mise una mano sulla spalla, e allora lasciai cadere il sasso e scrollai via la sua mano e lo colpii sulle labbra col dorso della sinistra. Non so cosa successe di lui, ma mentre mi piegavo per tornare a raccogliere il sasso udii dietro di me il rumore di passi. Mi piegai su un ginocchio e mi ci bilanciai sopra, raccattando una manciata di sabbia per gettarla negli occhi di qualcuno. Erano tutti lì: Myshtigo e Parrucca Rossa e Dos Santos, Rameses, Ellen, tre impiegati statali indigeni, Hasan, e s’avvicinavano in gruppo. Qualcuno gridò «Separiamoci!» quando videro la mia faccia, e sparirono.

Allora diventarono tutti quelli che avevo odiato; potevo sentirlo. Vedevo altri visi, sentivo altre voci. Chiunque avessi mai conosciuto, odiato, desiderato d’uccidere, ucciso, era risorto lì davanti al fuoco, e soltanto il bianco dei loro denti si lasciava distinguere nell’ombra che s’addensava sui loro volti mentre sorridevano e mi venivano incontro, reggendo ciascuno in mano una condanna diversa, e morbide, persuasive parole sulle loro labbra; così gettai la sabbia sul più vicino e gli volai addosso.

Il mio pugno lo fece cadere all’indietro, e poi due egiziani mi furono addosso da entrambi i lati.

Li scrollai via, e con l’angolo del mio occhio più gelido vidi un enorme arabo stringere in mano qualcosa che sembrava un avocado nero. Lo stava agitando verso di me, così mi chinai verso il basso. Quello veniva diritto nella mia direzione: gli diedi una botta nello stomaco, e lo feci cadere disteso. Poi i due uomini che mi ero tolto di torno mi furono di nuovo addosso. Una donna stava gridando in distanza, da qualche parte, ma non riuscivo a vederla.

Mi liberai il braccio destro e lo usai per picchiare qualcuno, e l’uomo cadde e un altro prese il suo posto. Diritto davanti a me un uomo blu tirò una pietra che mi colpì sulla spalla, ed ebbe l’unico effetto di rendermi ancor più furioso. Sollevai nell’aria un corpo che scalciava e lo scaraventai contro un altro, poi colpii qualcuno col pugno. Mi diedi una scrollata. Il mio mantello era lacero e sozzo; lo strappai del tutto e me lo cavai di dosso.

Mi guardai attorno. Avevano smesso di venirmi incontro, e non era giusto. Non era giusto che la smettessero proprio allora, quando avevo tanta voglia di spaccare tutto. Così raccolsi l’uomo che giaceva ai miei piedi e lo riscaraventai per terra. Poi lo raccolsi di nuovo e qualcuno gridò: — Ehi! Karaghiosis! — e cominciò ad insultarmi in un greco approssimativo. Lasciai ricadere l’uomo sul terreno e mi voltai.

E là, davanti al fuoco, c’erano due di loro: uno alto con la barba, l’altro tozzo e pesante e calvo, fatto d’una miscela di stucco e terra.

— Il mio amico dice che ti farà a pezzi, greco! — gridò quello alto, facendo qualcosa alla schiena dell’altro.

Mi mossi verso di loro e l’uomo di stucco e fango mi saltò addosso.

Mi colse di sorpresa, ma mi ripresi in fretta e lo colpii sotto le ascelle e lo feci volare da parte. Ma anche lui si rimise in piedi velocemente come me, e ritornò all’attacco e mi diede un colpo dietro il collo con la mano. Gli restituii la pariglia, afferrandogli poi il gomito. Restammo a lottare abbracciati, e accidenti se era forte.

Poiché era forte, cominciai a cambiare tattica, per misurare la sua resistenza. Era anche veloce: rispondeva ad ogni mia mossa quasi nello stesso momento in cui la pensavo.

Spinsi di colpo in alto le braccia tra le sue con tutta la forza che avevo, e indietreggiai appoggiandomi sulla gamba rinforzata. Divisi e liberi per un momento, orbitammo l’uno attorno all’altro, cercando entrambi l’apertura nella difesa del nemico.

Tenevo basse le braccia, ed ero tutto piegato in avanti a causa della sua statura ridotta. Per un momento le mie braccia si trovarono troppo vicine ai fianchi, e lui mi venne contro con una velocità che non avevo visto in nessun altro, mai, e mi chiuse il corpo in una morsa che mi fece uscire l’anima dai pori e mi causò un dolore tremendo ai fianchi.

Le sue braccia continuavano a stringermi, e sapevo che in poco tempo mi avrebbe spezzato la schiena se non fossi riuscito a liberarmi. Strinsi le mani a pugno e gliele ficcai contro il ventre e spinsi. La sua stretta divenne più dura. Feci un passo indietro e sollevai in avanti entrambe le braccia. Le mie mani si levarono più alte tra i nostri due corpi e appoggiai il pugno destro contro il palmo della mano sinistra e li strinsi assieme e tirai in alto le braccia. La testa prese a girarmi mentre le braccia si sollevavano, e mi sentii le reni in fiamme. Poi tesi tutti i muscoli della schiena e delle spalle e sentii la forza scendermi giù per le braccia fino alle mani, e le scaraventai su verso il cielo: il suo mento si trovava sulla loro traiettoria, ma non le fermò.

Le braccia mi volarono sopra la testa e lui cadde all’indietro. La forza di quell’enorme colpo che gli era arrivato sul mento avrebbe dovuto spezzare il mento di qualsiasi uomo, e in effetti anche lui era caduto per terra.

Ma immediatamente si rimise in piedi, e seppi allora che non era un mortale, ma una di quelle creature non nate da donna: invece, ora lo sapevo, era stato generato come Anteo dal ventre della Terra stessa.

Mi scagliai con le mani sulle sue spalle, e lui cadde in ginocchio. Poi lo colpii sulla gola e mi portai alla sua destra e col ginocchio sinistro cercai di spezzargli la schiena. Mi tesi in avanti, appoggiandomi sulle sue cosce e spalle, tentando di finirlo.

Ma non potevo. Continuò a piegarsi sinché la testa gli toccò il suolo, e io non potei schiacciarlo più oltre.

Non è possibile che la schiena di qualcuno si pieghi a quel modo senza spezzarsi, ma la sua lo fece.

Poi ritirai il ginocchio e lo lasciai andare, e lui mi fu di nuovo addosso. Immediatamente.

Così tentai di strangolarlo. Le mie braccia erano molto più lunghe delle sue. Lo afferrai per la gola con entrambe le mani, mentre i pollici gli premevano contro quella che doveva essere la trachea. Ma lui riuscì ugualmente a far scivolare le sue braccia tra le mie, fino al gomito e più in dentro, e cominciò a spingere in avanti. Io continuai a stringere, aspettando che la faccia gli diventasse nera e gli occhi gli schizzassero dalle orbite. I miei gomiti cominciarono a cedere sotto la sua inarrestabile pressione.

Poi le sue braccia ebbero partita vinta, e lui mi afferrò per la gola.

E restammo lì a soffocarci l’un l’altro. Solo che era impossibile strangolare lui.

I suoi pollici erano come dei chiodi che mi penetrassero nei muscoli della gola. Sentii che il viso s’infiammava. Le tempie cominciarono a rombarmi.

Molto in distanza udii un grido:

— Fermalo, Hasan! Non dovrebbe fare così!

Sembrava la voce di Parrucca Rossa. Comunque, quello è il nome che mi venne in testa: Parrucca Rossa. Il che significava che Dos Santos era da qualche parte nelle vicinanze. E lei aveva detto: «Hasan», un nome scolpito in un’altra immagine che divenne improvvisamente chiara.

Tutto ciò significava che io ero Conrad e mi trovavo in Egitto, e la faccia priva d’espressione che mi ballonzolava davanti era quella del lottatore-robot. Rolem, una creatura che poteva essere programmata sul quintuplo della forza umana e probabilmente lo era. Una creatura che poteva avere i riflessi d’un gatto pieno d’adrenalina, e senza dubbio li stava usando a dovere.

Solo che un golem non avrebbe dovuto uccidere, incidenti a parte, e Rolem stava tentando d’uccidermi.

Il che significava che il suo regolatore interno non funzionava.

Abbandonai la presa, visto che non serviva, e piazzai il palmo della mano sinistra sotto il suo gomito destro. Poi raggiunsi l’estremità delle sue braccia e gli afferrai il polso destro con l’altra mano, e mi abbassai più che potevo e diedi uno strattone in su spingendolo per il gomito e tirandolo per il polso.

Quello perse l’equilibrio e precipitò verso destra, mollando la presa sulla mia gola. Sempre tenendolo per il polso, gli feci girare il braccio in modo che il gomito si trovasse rivolto in alto. Poi con la mano, dopo aver chiamato a raccolta tutte le mie forze, cercai di spezzargli il braccio, portandogli il polso ad angolo retto col gomito.

Niente. Non ci fu alcun rumore di frattura interna. Il suo braccio cedette semplicemente e assunse un’angolatura innaturale.

Gli lasciai il polso e lui cadde in ginocchio. Poi si rialzò in piedi, velocissimo, e il braccio gli si raddrizzò e tornò in posizione normale.

Se capivo davvero qualcosa di Hasan, Rolem era stato regolato sul massimo di tempo: due ore. Un periodo piuttosto lungo, tutto considerato.

Ma questa volta sapevo chi ero e cosa stavo facendo. E sapevo in che modo erano strutturati i golem. Questo qui era un robot lottatore. Di conseguenza non poteva boxare.

Gettai una veloce occhiata alle mie spalle, nel posto dove mi trovavo quando tutta la faccenda era cominciata: la tenda della radio era distante una quindicina di metri.

In quel momento ci mancò poco che mi finisse. Durante quello schifoso secondo in cui avevo rivolto altrove la mia attenzione, quello era balzato avanti e mi aveva afferrato dietro il collo con una mano e sotto il mento con l’altra.

Sarebbe anche riuscito a spezzarmi il collo se avesse potuto finire, ma proprio in quel momento arrivò un altro scossone del terreno (piuttosto duro, che ci fece finire tutti e due a terra), e mi liberai anche di quella stretta.

Qualche secondo dopo balzai in piedi, mentre la terra continuava a tremare. Anche Rolem era di nuovo in piedi, e mi stava di fronte.

Eravamo come due marinai ubriachi che combattevano su una nave scossa dalla tempesta…

Mi balzò incontro e io lo aspettai.

Lo colpii con un pugno di sinistro, e mentre lui s’attaccava al mio braccio gliene tirai un altro nello stomaco. Poi indietreggiai.

Tornò all’attacco, e io continuai a mollargli pugni. Per lui la boxe era come la quarta dimensione per me: non poteva vederla. Continuò ad avanzare, assorbendo i miei pugni, e io continuai a ritirarmi in direzione della tenda della radio, e il terreno seguitò a sussultare e da qualche parte una donna stava gridando, e sentii urlare un «Olé!» quando gli tirai un destro sotto la cintura, nella speranza di danneggiargli un po’ il cervello. Poi ci arrivammo, e vidi quello che volevo: il grande sasso che prima intendevo scaraventare sulla radio. Feci una finta di sinistro, poi afferrai Rolem tenendolo ben stretto, e lo sollevai in alto sopra la mia testa.

Mi sporsi in avanti, tesi i muscoli, e lo scagliai sul sasso. Lo prese nello stomaco.

Cominciò di nuovo a rialzarsi, ma più lentamente di prima, e allora lo colpii nello stomaco, tre volte, col mio stivale destro rinforzato, e lo vidi ricadere all’indietro.

Uno strano ronzio cominciò a provenire dalla parte centrale del suo corpo.

Il terreno si mosse di nuovo. Rolem si ripiegò su se stesso, poi si distese, e gli unici segni di movimento erano nelle dita della sua mano sinistra. Continuavano ad aprirsi e chiudersi, ricordandomi, stranamente, le mani di Hasan quella notte all’hounfor.

Allora mi voltai lentamente, ed erano tutti lì: Myshtigo ed Ellen, e Dos Santos con una guancia gonfia, Parrucca Rossa, George, Rameses e Hasan, e i tre egiziani tutti incerottati. Feci un passo verso di loro e cominciarono di nuovo a ritirarsi, i visi pieni di paura. Ma io scossi la testa.

— No, adesso sono a posto — dissi, — ma lasciatemi solo. Vado al fiume a fare un bagno. — Mossi diversi passi, e poi qualcuno deve aver levato il tappo, perché gorgogliai, tutto prese a vorticare, e il mondo fu risucchiato nel tubo di scarico.


I giorni che seguirono furono cenere, e le notti furono ferro. Lo spirito che m’avevano strappato dall’anima era sepolto più in fondo di qualsiasi mummia che giacesse sotto quella sabbia. Si dice che i morti dimentichino i vivi nella casa dell’Ade, Cassandra, ma io speravo che non fosse così. Avevo ancora il compito di guidare la spedizione e continuai ad occuparmene. Lorel suggerì che trovassi qualcuno per portarla a termine e mi prendessi una vacanza. Non potevo.

Cosa avrei fatto? Dovevo restarmene a rimuginare in qualche Vecchio Posto, vivendo sulle spalle degli incauti viaggiatori? No. In circostanze del genere è sempre essenziale avere qualcosa da fare; qualcosa che abbia una forma, e abbia la possibilità di sviluppare col tempo anche un contenuto. Così continuai con la spedizione, rivolgendo la mia attenzione ai piccoli misteri che aveva generato.

Mi portai via Rolem e studiai il suo regolatore interno. Era stato rotto, naturalmente; il che significava che l’avevo fatto io nelle prime fasi del nostro combattimento, oppure l’aveva fatto Hasan con l’intento di ridurmi a pezzettini. Se era stato Hasan, allora non voleva vedermi solo sconfitto, ma morto. Se le cose stavano così, la domanda era: perché? Mi chiesi se il suo mandante sapeva che un tempo io ero stato Karaghiosis. Ma se lo sapeva, perché avrebbe dovuto voler uccidere il fondatore e primo Segretario del suo Partito? L’uomo che aveva giurato che non si sarebbe lasciato portar via la Terra sotto gli occhi per vederla ridotta ad un campo sportivo da un branco di alieni blu, non senza combattere, per lo meno; l’uomo che aveva organizzato un sistema terroristico che riduceva automaticamente a zero il valore di qualsiasi proprietà vegana sulla Terra, ed era giunto al punto di bombardare gli opulenti uffici dell’Immobiliare Talenta nel Madagascar; l’uomo di cui aveva sposato apertamente gli ideali, anche se ormai erano incanalati in una forma più pacifica e legale di difesa della proprietà; perché doveva voler morto quell’uomo?

Di conseguenza, o aveva tradito il Partito, o non sapeva chi io fossi e aveva in mente qualche altro scopo quando aveva ordinato ad Hasan d’uccidermi.

Oppure Hasan agiva agli ordini di qualcun altro. Ma chi altro poteva esserci? E di nuovo, perché?

Non avevo risposta. Decisi che ne volevo una.


Le prime condoglianze erano state quelle di George.

— Mi spiace, Conrad — aveva detto, guardando oltre le mie spalle, e poi giù verso la sabbia, e volgendo poi rapidamente gli occhi sul mio viso.

Dire qualcosa d’umano lo sconvolge, e gli fa venire voglia di andarsene. Me ne accorgevo benissimo. È dubbio che la coppia formata da Ellen e me durante l’estate precedente avesse occupato troppo la sua attenzione. Le sue passioni morivano aldilà della porta del laboratorio. Mi ricordo ancora quando ha dissezionato l’ultimo cane rimasto sulla Terra. Dopo quattro anni di grattatine d’orecchio e uccisioni di pulci sulla coda, un giorno George aveva chiamato Rolf. Rolf era entrato trotterellando, portandosi in bocca il vecchio strofinaccio con cui erano soliti giocare al tiro alla fune, e George se lo era tirato vicino sul serio e gli aveva fatto un’iniezione e poi lo aveva aperto. Voleva studiarlo mentre era ancora giovane. Si tiene ancora lo scheletro montato nel laboratorio. Avrebbe voluto anche infilare i suoi bambini (Mark e Dorothy e Jim) nell’incubatrice, ma ogni volta Ellen aveva battuto i piedi sul pavimento (più o meno: bang! bang! bang!), presa da attacchi di atteggiamento materno da dopo-parto che erano sempre durati almeno un mese: un periodo sufficiente per rendere impossibili gli esperimenti sul controllo degli stimoli che George intendeva svolgere sui bambini. Sicché non riuscivo davvero ad immaginare che avesse troppo desiderio di prendermi le misure per infilarmi in una cassa di legno, del tipo «riposa-in-pace». Se mi avesse voluto morto, sarebbe probabilmente stata una cosa sottile, veloce, ed esotica; qualcosa come il veleno per conigli. Ma poi no, non gliene importava tanto. Ne ero sicuro.

Ellen stessa, per quanto capace d’intensi sentimenti, è il tipo di bambola che si rompe facilmente. C’è sempre qualcosa dentro di lei che fa sprong prima che possa agire sulla base dei suoi sentimenti, e nei giorni successivi rivolge altrove l’intensità delle sue emozioni. Mi aveva dichiarato morto giù al Porto, e per quel che la riguardava quell’affare era definitivamente chiuso. Le sue condoglianze furono qualcosa del genere:

— Conrad, non sai quanto mi dispiace! Davvero. Anche se non l’ho mai incontrata, so come devi sentirti — e la sua voce saliva e scendeva la scala delle tonalità, e io sapevo che credeva in quel che diceva, e ringraziai anche lei.

Persino Hasan mi venne vicino mentre me ne stavo immobile a fissare un Nilo improvvisamente gonfio e limaccioso. Restammo lì per un po’ e poi disse: — La tua donna se n’è andata e il tuo cuore è pesante. Le parole non alleggeriranno il peso, e quello che è scritto è scritto. Ma lasciami ugualmente dire che mi dolgo con te. — Restammo là ancora un certo tempo; poi se ne andò.

Su di lui non mi posi interrogativi. Era l’unica persona che poteva essere scartata, anche se le sue mani avevano messo in moto la macchina. Lui non aveva mai rancori; non uccideva mai spontaneamente. Non aveva alcun motivo personale per uccidermi. Ero assolutamente certo che le sue condoglianze fossero sincere. Uccidermi non aveva niente a che fare con la genuinità dei suoi sentimenti in una situazione come quella. Un vero professionista deve tenere certe distanze tra se stesso e il lavoro.

Myshtigo non ebbe alcuna parola di simpatia. Sarebbe stata una cosa estranea alla sua natura. Tra i vegani, la morte è tempo di gioia. A livello spirituale significa sagl, compimento; la frammentazione della psiche in piccole particelle sensibili al piacere, distribuite un po’ dappertutto per partecipare al grande orgasmo cosmico; e sul piano materiale è rappresentata dall’ansakundabad’t: la commemorazione cerimoniale delle proprietà personali del deceduto, la lettura delle sue ultime volontà e la divisione delle sue ricchezze, accompagnata da grandi feste, cantate, e bevute.

Dos Santos mi disse: — È una cosa molto triste quella che ti è successa, amico mio. Perdere la propria donna è perdere il sangue delle proprie vene. La tua desolazione è grande, e non puoi essere consolato. È come un fuoco agonizzante che non morirà mai, ed è una cosa triste e terribile.

— La morte è nera e crudele — concluse, e i suoi occhi erano bagnati. Perché sia zingaro, ebreo, moro, o qualunque altra cosa, per uno spagnolo una vittima è sempre una vittima, qualcosa da apprezzare su uno di quei loro oscuri livelli mistici che io non possiedo.

Poi Parrucca Rossa mi arrivò a fianco e disse: — Spaventoso… Mi spiace. Nient’altro da dire, da fare, ma mi spiace.

Annuii.

— Grazie.

— E c’è qualcosa che devo chiederti. Non adesso, comunque. Più tardi.

— Certo — dissi, e ritornai ad osservare il fiume dopo che se ne furono andati, e pensai a questi ultimi due. Erano sembrati spiacenti come tutti gli altri, ma pareva che in qualche modo fossero immischiati nell’affare del golem. Ero sicuro, comunque, che era stata Diane a gridare mentre Rolem mi soffocava, a gridare ad Hasan di fermarlo. Restava Don, e ormai ero giunto a dubitare fortemente che facesse mai qualcosa senza prima consultare lei.

Col che non restava più nessuno.

E apparentemente non esisteva un vero motivo…

E poteva essere stato solo un incidente…

Ma…

Ma avevo la sensazione che qualcuno volesse uccidermi. Sapevo che Hasan non era il tipo da prendere due lavori per volta, e con differenti mandanti, a meno che non esistesse un conflitto d’interessi.

E questo mi rendeva felice.

Mi dava uno scopo, qualcosa da fare.

Non c’è niente come sapere che qualcuno ti vuole morto per metterti addosso la voglia di continuare a vivere. L’avrei scovato, avrei scoperto il perché, e l’avrei fermato.


La seconda mossa della morte fu veloce, e per quanto rientrasse nei miei desideri attribuirla ad un agente umano, mi fu impossibile. Fu uno di quegli sporchi tiri del destino che a volte arrivano come ospiti non invitati a pranzo. Il finale della cosa, comunque, mi lasciò piuttosto perplesso, e mi fornì l’occasione per nuove, confuse meditazioni.

Andò a questo modo…

Giù sulla riva del fiume, di quel grande portatore di fertilità, di quello sradicatore di confini e padre della geometria piana, sedeva il vegano, tracciando schizzi della riva opposta. Immagino che se si fosse trovato su quella riva avrebbe fatto schizzi del punto in cui stava seduto, ma questa è una congettura cinica. Quello che mi preoccupava era il fatto che era venuto da solo in quel posto caldo e paludoso, senza dire a nessuno dove andava, e non s’era portato dietro nulla di più letale di una matita n. 2.

Poi accadde.

Un vecchio tronco pieno di chiazze che galleggiava in prossimità della riva smise d’improvviso d’essere un vecchio tronco pieno di chiazze. Una lunga coda serpentina s’innalzò verso il cielo, una bocca piena di denti apparve dall’altra parte, e un mucchio di piccole zampe s’appoggiarono al terreno e presero a muoversi come ruote.

Gridai e portai le mani alla cintura.

Mysthigo s’alzò di scatto lasciando cadere la matita e se la diede a gambe.

Ma la cosa gli fu subito addosso, e io non potei più sparare. Così feci un bel balzo, ma quando gli arrivai vicino quell’accidente l’aveva già avvolto in due spire e lui era blu circa il doppio del normale, e quei denti gli si stavano chiudendo sopra.

Be’, esiste un modo per far abbandonare la presa a qualsiasi tipo di constrictor, almeno per un momento. Gli acchiappai la testa, che s’era abbassata appena d’un’idea a contemplare la futura colazione, e riuscii a infilare le dita oltre le creste scagliose che si trovavano sui lati della testa.

Gli ficcai i pollici negli occhi con tutta la forza possibile. Poi un gigante spastico mi colpì con una frusta grigioverde. Mi rimisi in piedi, e mi ritrovai ad un tre metri di distanza dal punto dov’ero prima. Myshtigo era stato scagliato più in là sulla riva. Si stava giusto raddrizzando quando la cosa tornò all’attacco.

Solo che attaccava me, non lui.

Ergendosi in tutta la sua altezza a più di due metri dal suolo, si scagliò vacillando contro di me. Rotolai di fianco e quella testa grande e piatta mi mancò di pochi centimetri, e l’impatto del colpo mi ricoprì di polvere e sassi.

Rotolai ancora un po’ e feci per rialzarmi, ma arrivò la coda a sbattermi giù di nuovo. Cercai di tirarmi indietro, ma era troppo tardi per sfuggire alla stretta di quelle spire. Mi si arrotolò attorno ai fianchi, e ricaddi indietro.

Poi un paio di braccia blu s’avvinghiarono attorno alla cosa che mi stringeva il corpo, ma riuscirono a fare presa solo per pochi secondi. Poi ci trovammo tutti e due uniti da nodi insolubili.

Cercai di muovermi, ma come si fa a liberarsi da un enorme cavo corazzato rivestito d’una sostanza viscida, con un’infinità di piccole zampe che ti strappano la carne? Ormai il mio braccio destro era incollato al fianco, e non potevo muovere la mano sinistra tanto da consentirmi qualche presa valida. Le spire si chiusero più strettamente. La testa si mosse verso di me, e allora mirai al corpo della bestia. Lo percossi e lo artigliai, e riuscii finalmente a liberare il braccio destro, perdendo un po’ di pelle nella manovra.

Tesi verso l’alto la mano destra, mentre la testa scendeva. Incontrai la mascella inferiore, l’afferrai, la tenni ferma in quella posizione, impedendo alla testa d’avanzare ulteriormente. La morsa delle spire si chiuse attorno alla mia vita, più potente ancora della stretta del golem. Poi la bestia spostò la testa di lato, lontano dalla mia mano, e la fece di nuovo scendere a mascelle spalancate.

I colpi di Myshtigo dovevano averlo irritato e reso un po’ più lento, fornendomi l’occasione per un’ultima difesa.

Gli ficcai le mani in bocca, impedendogli di chiudere le mascelle.

L’interno della bocca era viscido e il mio palmo cominciò a scivolarvi, lentamente. Feci pressione verso il basso sulla mascella inferiore, con tutta la forza possibile. La bocca s’apri d’un altro paio di centimetri, e sembrò essere giunta al massimo delle sue possibilità.

Allora la cosa cercò di tirarsi indietro, per farmi mollare la presa, ma le spire con cui mi avvolgeva erano troppo strette per darle spazio sufficiente.

Così si srotolò un poco, allentando lievemente la presa, e tirando indietro la testa. Riuscii a mettermi in ginocchio. Myshtigo era accovacciato su se stesso ad un paio di metri da me.

La mia destra scivolò ancora un po’, e ormai stavo per perdere del tutto l’equilibrio.

Poi sentii un grande urlo.

Il brivido nella bestia arrivò quasi simultaneamente. Mi liberai le braccia, sentendo che per un secondo la stretta della cosa era diminuita. Ci fu uno spaventoso richiudersi di denti, e un ultimo tentativo di soffocarmi. Mi tirai indietro appena in tempo.

Poi mi ritrovai libero, e riuscii a districarmi. La levigata lancia di legno che s’era piantata nel boadrillo gli stava togliendo la vita, e i suoi movimenti divennero improvvisamente spasmodici, non più aggressivi.

Fui sbattuto a terra due volte dal suo agitarsi, ma ce la feci a liberare Myshtigo, e ci allontanammo d’una quindicina di metri a guardarlo morire. Ci volle un bel po’ di tempo.

Hasan stava fermo, il viso privo d’espressione. L’assagai con cui s’era allenato tanto a lungo aveva fatto il suo lavoro. Quando più tardi George dissezionò la bestia scoprimmo che la lancia si era piantata a pochi centimetri dal cuore, spezzando la grande arteria. Se volete saperlo, aveva due dozzine di zampe, distribuite equamente sui due fianchi, come era logico aspettarsi.

Dos Santos stava a fianco di Hasan e Diane stava a fianco di Dos Santos. C’erano anche tutti gli altri.

— Bella mira — dissi. — Colpo eccellente. Grazie.

— Non è niente — replicò Hasan.


Non è niente, aveva detto. Niente, solo un colpo mortale alla mia idea che Hasan avesse manomesso il golem. Se aveva tentato di uccidermi allora, perché mai avrebbe dovuto salvarmi dal boadrillo?

A meno che quello che mi aveva raccontato al Porto fosse la verità sputata: che era stato assunto per proteggere il vegano. Se quello era il suo compito principale, e uccidermi solo un lavoro secondario, allora aveva dovuto salvare anche me solo per salvare la vita del vegano.

Ma allora…

Oh, all’inferno. Basta.

Scagliai una pietra il più lontano possibile, e un’altra. Le Lance sarebbero arrivate al nostro accampamento il giorno dopo e ci saremmo messi in volo per Atene, fermandoci solo a Nuova Cairo per depositare Rameses e gli altri tre. Ero contento di lasciare l’Egitto, con tutta la sua muffa e la sua sabbia e le sue divinità morte e semi-animalesche. Ero già nauseato di quel posto.

Poi arrivò una chiamata di Phil dal Porto, e Rameses mi condusse nella tenda radio.

— Sì? — dissi, alla radio.

— Conrad, sono Phil. Ho appena finito di scrivere la sua elegia, e mi piacerebbe leggertela. Anche se non l’ho mai incontrata ne ho sentito parlare da te e ho visto la sua fotografia, così penso d’aver fatto un lavoro abbastanza buono…

— Per piacere, Phil. In questo momento non me ne importa niente del potere consolatorio della poesia. Qualche altra volta, magari…

— Non è una di quelle elegie da completare all’ultimo momento. So che a te non piacciono, e in un certo senso non ti do torto.

La mia mano giocherellò col comando per interrompere la trasmissione, si fermò, e afferrò invece una delle sigarette di Rameses.

— Avanti, leggi. Ascolto.

E lui lesse, e non era nemmeno un brutto lavoro. Non ne ricordo molto. Ricordo soltanto quelle parole incisive, chiare, che mi arrivavano da una distanza di mezzo globo, e io che stavo lì ad ascoltarle, ammaccato di dentro e di fuori. Descrisse le virtù della Ninfa che Poseidone aveva cercato di salvare, ma aveva perso e abbandonato a suo fratello Ade. Invocò un lutto generale tra gli elementi. E mentre lui parlava la mia mente percorse a ritroso il tempo sino a quei due mesi felici a Kos, e tutto quello che era successo dopo scomparve; ed eravamo di nuovo a bordo della Vanitie, diretti verso il nostro isolotto da picnic col suo boschetto semi-sacro, e facevamo il bagno insieme, e giacevamo insieme sotto il sole, stringendoci le mani senza dir nulla, semplicemente assaporando i raggi del sole, che come una cascata splendente e asciutta e gentile, scendevano sulle nostre anime rosa e nude, là su quella spiaggia interminabile che circondava all’infinito il nostro piccolo regno per poi tornare sempre a noi.

E lui finì e si schiarì la gola un paio di volte, e la mia isola scomparve alla vista dei miei occhi portandosi via una parte di me, perché ormai quel tempo era morto.

— Grazie, Phil — dissi. — Era molto bella.

— Sono contento che tu la trovi adatta — fece lui. Poi: — Nel pomeriggio volerò ad Atene. Mi piacerebbe unirmi a voi in questa parte del viaggio, se non hai nulla in contrario.

— Senz’altro — replicai. — Ma posso chiederti perché?

— Ho deciso che voglio vedere la Grecia ancora una volta. Dato che ci sarai anche tu, sembrerà un po’ di più come ai vecchi tempi. Mi piacerebbe dare un’ultima occhiata a qualcuno dei Vecchi Posti.

— La fai sembrare una cosa piuttosto definitiva.

— Be’… Ormai ho sfruttato completamente le risorse del trattamento S-S. Ho l’impressione di sentire le mie molle che si scaricano. Forse resisteranno ancora a un paio di cariche, e forse no. Ad ogni modo voglio rivedere la Grecia, e mi sento come se fosse la mia ultima possibilità.

— Sono sicuro che ti sbagli, comunque ci troveremo domani al Garden Altar verso le otto per cena, tutti quanti.

— Ottimo. Ti vedo lì.

— Ricevuto.

— Arrivederci, Conrad.

— Arrivederci.

Uscii a farmi un bagno e a spalmarmi un po’ di pomate, e indossai dei vestiti puliti. Sentivo ancora dolore in diversi punti, ma per lo meno adesso ero pulito. Poi andai a scovare il vegano, che aveva appena finito di fare le stesse cose, e lo fissai con lo sguardo accigliato.

— Mi corregga se ho torto — affermai decisamente, — ma una delle ragioni per cui voleva che dirigessi questo tour è che io ho un alto potenziale di sopravvivenza. È esatto?

— È esatto.

— Sinora ho fatto del mio meglio per non farlo restare semplicemente potenziale, cercando d’impiegarlo in modo attivo per garantire il benessere generale.

— Era quello che stava facendo quando ha attaccato quel mucchio di zampe con una testa sola?

Feci per afferrargli la gola; poi ci ripensai e lasciai ricadere la mano. Fui ricompensato da un lampo di paura che gli riempì gli occhi e gli torse gli angoli della bocca. Fece un passo indietro.

— Per adesso chiudo un occhio — gli confidai. — Sono qui solo per portarla dove vuole andare, e badare che lei torni con la pelle ancora attaccata al corpo. Stamattina lei mi ha causato un piccolo problema, rendendosi disponibile come colazione per un boadrillo. Per cui cerchi di ricordarsi che nessuno va all’inferno per accendersi una sigaretta. Quando vuole andare a fare due passi da solo, si assicuri almeno di trovarsi in un posto sicuro. — Il suo sguardo vacillò. Girò gli occhi da un’altra parte.

— E se non è sicuro — continuai, — si tiri dietro una scorta armata, dato che rifiuta di portare armi con sé. Questo è quanto ho da dirle. Se non vuole cooperare, me lo dica subito: posso andarmene e trovarle un’altra guida. Lorel mi ha già suggerito di farlo, ad ogni modo. E allora, cosa mi risponde? — chiesi.

— Lorel l’ha detto davvero?

— Sì.

— Quant’è straordinario… Comunque sì, certamente, terrò conto della sua richiesta. Capisco che è prudente.

— Ottimo. Ha detto che voleva visitare di nuovo la Valle delle Regine nel pomeriggio. L’accompagnerà Rameses. Io non mi sento di farlo. Ripartiamo domani mattina alle dieci. Si faccia trovare pronto.

Poi me ne andai, aspettando che dicesse qualcosa; anche una sola parola.

Non disse niente.

Con gran fortuna dei sopravvissuti e delle generazioni a venire, la Scozia non era uscita troppo malconcia dai Tre Giorni. Tirai fuori un contenitore di ghiaccio dal frigorifero e una bottiglia di soda dalla tenda della mensa. Accesi il condizionatore a fianco della mia branda, sturai una bottiglia da un litro della mia riserva privata, e passai il resto del pomeriggio a riflettere sulla futilità delle fatiche umane.


La sera tardi, dopo che la sbornia mi fu passata in maniera abbastanza accettabile ed ebbi messo qualcosa sotto i denti, mi armai e uscii a prendere un po’ d’aria fresca.

Cominciai a udire delle voci mentre m’avvicinavo al limite orientale del perimetro di sicurezza, così mi accucciai nell’oscurità, appoggiando la schiena contro una grande roccia, e cercai di origliare. Avevo riconosciuto i vibranti diminuendo della voce di Myshtigo, e volevo sentire quello che stava dicendo.

Ma non potevo.

Erano un po’ troppo distanti, e l’acustica dei deserti non è sempre la migliore di questo mondo. Stavo lì seduto tutto teso con la parte di me che era in ascolto, e successe come succede certe volte:

Ero seduto su una coperta a fianco di Ellen, e il mio braccio era attorno alle sue spalle. Il mio braccio blu…

Tutto svanì appena mi opposi all’idea d’essere un vegano, anche in una realizzazione pseudotelepatica di desiderio, e mi ritrovai di nuovo appoggiato alla mia roccia.

Ma ero solo, ed Ellen sembrava più morbida della roccia, ed ero ancora curioso.

Così mi ritrovai ancora là, ad osservare…

— … non si può vedere da qui — stavo dicendo, — ma Vega è una stella di prima grandezza, situata in quella che la tua gente chiama costellazione della Lira.

— Com’è su Taler? — chiese Ellen.

Ci fu una lunga pausa. Poi:

— Le cose più significative sono talora quelle più difficili da descrivere. A volte, però, è un problema comunicare qualcosa per cui non esiste l’elemento corrispondente nella persona con cui si parla. Taler è diverso dalla Terra. Non ci sono deserti. Tutto il pianeta è coperto dalla vegetazione. Ma… Lasciami prendere questo fiore dai tuoi capelli. Ecco. Guardalo. Cosa vedi?

— Un bel fiore bianco. È per questo che l’ho colto e me lo sono infilato nei capelli.

— Ma non è un bel fiore bianco. Non per me, ad ogni modo. I tuoi occhi percepiscono la luce che ha una lunghezza d’onda all’incirca tra le 4000 e 7200 unità angstrom. Gli occhi dei vegani vedono più a fondo nell’ultravioletto, fino alle 3000 unità. Siamo ciechi a quello che voi chiamate «rosso», ma in questo fiore «bianco» io vedo due colori per cui non esiste un nome nel vostro linguaggio. Il mio corpo è coperto da disegni che tu non puoi vedere, ma abbastanza simili a quelli degli altri appartenenti alla mia famiglia da permettere ad un qualsiasi vegano che conosca la gens degli Shtigo di indovinare la mia famiglia e la mia provincia anche al nostro primo incontro. Alcuni dei nostri dipinti sembrano piuttosto sgargianti agli occhi dei terrestri, oppure gli paiono d’un solo colore — blu, di solito — perché certe sottigliezze sono invisibili per loro. Quasi tutta la nostra musica ti sembrerebbe piena di pause di silenzio, pause che in realtà contengono una precisa melodia. Le nostre città sono proporzionate e disposte logicamente. Assorbono la luce del giorno e la mantengono di notte. Sono posti pieni di movimenti lenti e di suoni piacevoli. Per me significano un mucchio di cose, ma non so come descriverle ad un… essere umano.

— Ma la gente, la gente della Terra, voglio dire, vive sui vostri mondi…

— Ma non li vedono o li sentono o li assaporano nel nostro stesso modo. C’è un abisso che possiamo apprezzare e capire, ma ci è impossibile superarlo. È per questo che non posso dirti come è Taler. Per te sarebbe un mondo differente da quello che è per me.

— Comunque mi piacerebbe vederlo. Molto. Penso addirittura che mi piacerebbe viverci.

— Non credo che saresti felice, là.

— Perché no?

— Perché gli immigranti non-vegani restano immigranti non-vegani. Qui tu non appartieni a una casta bassa. So che non usate questo termine, ma la realtà è questa. Il personale del tuo Ufficio e le loro famiglie sono la casta più elevata del pianeta. Poi vengono le persone ricche e influenti che non appartengono all’Ufficio, e poi quelli che lavorano per i ricchi che non appartengono all’Ufficio, seguiti da tutti coloro che si procurano da vivere direttamente dalla terra; e infine, più in basso di tutti, stanno quegli infelici che abitano i Vecchi Posti. Qui tu sei sulla cima. Su Taler saresti nel fondo.

— Perché deve essere così? — chiese lei.

— Perché tu vedi un fiore bianco. — Glielo restituì.

Ci fu un lungo silenzio e una brezza fredda.

— Comunque sono felice che tu sia venuto qui — disse lei.

— È un posto interessante.

— Lieta che ti piaccia.

— Quell’uomo che si chiama Conrad è stato davvero tuo amante?

La domanda improvvisa mi fece sussultare.

— Non è affar tuo — replicò lei, — ma la risposta è sì.

— Posso capire perché — disse lui, e io mi sentii a disagio e un po’ come un voyeur, oppure (sottigliezza delle sottigliezze) come uno che guarda un voyeur che guarda.

— Perché? — domandò lei.

— Perché tu vuoi lo strano, il potente, l’esotico; perché non sei mai felice di essere dove sei, quello che sei.

— Non è vero… O forse sì. Sì, una volta anche lui mi ha detto qualcosa del genere. Magari è vero.

In quel momento mi sentii molto triste per lei. Poi, senza rendermene conto, volendo consolarla in qualche modo, mossi la mia mano ed afferrai la sua. Solo che era stata la mano di Mishtigo a muoversi, e lui non l’aveva voluto. Io l’avevo voluto.

D’improvviso fui spaventato. E lui pure. Potevo sentirlo.

Nacque in lui una gigantesca sensazione, come quando uno è ubriaco e la stanza gli gira attorno, quando si accorge di essere invaso; come se avesse incontrato un’altra presenza nella sua mente.

Volli immediatamente ritirarmi, e mi ritrovai di nuovo contro la mia roccia, ma non prima che lei avesse gettato per terra il fiore e l’avessi sentita dire: — Stringimi.

Maledizione a queste realizzazioni pseudotelepatiche di desiderio!, pensai. Qualche giorno la smetterò di credere che sono tutte balle.

Avevo visto due colori in quel fiore, colori per cui non avevo nome…

M’incamminai verso l’accampamento. Lo oltrepassai e continuai a marciare. Raggiunsi l’altro capo del perimetro di sicurezza, mi sedetti per terra e accesi una sigaretta. La notte era fredda, la notte era scura.

Due sigarette dopo udii una voce dietro di me, ma non mi girai.

— Nella Grande Casa e nella Casa del Fuoco, in quel Grande Giorno quando tutti i giorni e gli anni saranno contati, oh, lasciate che mi sia restituito il mio nome — disse.

— Buon per te — commentai, piano. — Citazione appropriata. Riconosco il Libro dei Morti quando lo sento citato a vuoto.

— Non lo stavo citando a vuoto; soltanto appropriatamente, come hai detto tu.

— Buon per te.

— In quel grande giorno quando tutti i giorni e gli anni saranno contati, se ti restituiscono il tuo nome, che nome sarà?

— Non me lo restituiranno. Ho deciso d’arrivare in ritardo. E cos’ha di tanto importante un nome, comunque?

— Dipende dal nome. Prova «Karaghiosis».

— Prova a sederti in un punto in cui ti possa vedere. Non mi piace avere gente alle spalle.

— D’accordo. Ecco fatto. E allora?

— Allora cosa?

— Allora prova «Karaghiosis».

— Perché dovrei?

— Perché significa qualcosa. Per lo meno, significava qualcosa un tempo.

— Karaghiosis era un personaggio nei vecchi giochi d’ombra greci, un po’ come Pulcinella nella commedia italiana. Era uno scemo e un buffone.

— Era greco, ed era intelligente.

— Ah! Era un mezzo codardo, e grasso.

— Era anche un mezzo eroe. Furbo. Un po’ grossolano. Con molto sense of humor. Poteva anche buttar giù una piramide. E poi era forte, quando voleva.

— Adesso dov’è?

— Mi piacerebbe saperlo.

— Perché lo chiedi a me?

— Perché è con questo nome che Hasan ti ha chiamato la notte che combattesti col golem.

— Oh… Vedo. Be’, era soltanto un epiteto, un termine generico, un sinonimo per pazzo, un soprannome; come se io ti chiamassi «Rossa». E adesso che ci penso, chissà cosa sembri a Myshtigo? I vegani sono ciechi al colore dei tuoi capelli, lo sai?

— Non me ne importa proprio niente di cosa sembro ai vegani. Mi chiedo cosa sembri tu, piuttosto. Ho sentito che i dati su di te in possesso di Myshtigo sono piuttosto abbondanti. Dicono anche che sei vecchio di parecchi secoli.

— Un’esagerazione, senza dubbio. Ma sembra che tu sappia un mucchio di cose. A che punto sono le tue informazioni su Myshtigo?

— Non troppo buono, non ancora.

— Sembra che tu lo odii più di qualunque altro. È vero?

— Sì.

— Perché?

— È un vegano.

— E allora?

— Odio i vegani, è tutto.

— No, c’è di più.

— Vero. Sei piuttosto forte, lo sai?

— Lo so.

— In effetti, sei il più forte essere umano che abbia mai visto. Forte abbastanza da spezzare il collo d’un pipiragno, poi volare giù nella baia del Pireo, tornare a nuoto a riva e fare colazione.

— Strano esempio che hai scelto.

— Non troppo, no davvero. Sei stato tu?

— Perché?

— Voglio saperlo, devo saperlo.

— Spiacente.

— Spiacente non basta. Dì ancora qualcosa.

— Ho detto tutto.

— No. Abbiamo bisogno di Karaghiosis.

— Chi ne ha bisogno?

— La Radpol. Io.

— Perché, di nuovo?

— Hasan è quasi vecchio come il Tempo. Karaghiosis è più vecchio. Hasan lo conobbe, se ne ricorda, e ti ha chiamato «Karaghiosis». Tu sei Karaghiosis, l’uccisore, il difensore della Terra; e noi abbiamo bisogno di te, adesso. Moltissimo. È giunto l’Armageddon: silenzioso, sulle ali di un libro di viaggio. Il vegano deve morire. Non esiste alternativa. Aiutaci a fermarlo.

— Cosa volete da me?

— Lascia che Hasan lo distrugga.

— No.

— Perché no? Cosa rappresenta quell’essere, per te?

— Proprio niente. In effetti mi è molto antipatico. Ma cosa rappresenta per voi?

Il nostro distruttore.

— Allora dimmi perché, e come, e forse ti darò una risposta migliore.

— Non posso.

— Perché?

— Perché non lo so.

— Allora buonanotte. È tutto.

— Aspetta! Non lo so davvero; ma l’ordine è giunto da Taler, dalla sezione locale della Radpol: deve morire. Il suo libro non è un libro, lui non è un solo essere, ma parecchi. Non so cosa questo significhi, ma in passato i nostri agenti non hanno mai mentito. Tu sei vissuto su Taler, sei vissuto su Bakab e su un’altra dozzina di mondi. Tu sei Karaghiosis, e sei stato tu stesso a creare l’organizzazione spionistica. Adesso conosci il loro messaggio e non gli presti attenzione. Ti ripeto che hanno detto che deve morire. Lui rappresenta la fine di tutto quello per cui abbiamo combattuto. Dicono che è venuto a compiere un’ispezione che deve essere impedita. Conosci il codice. Denaro contro la Terra. Ulteriori sfruttamenti vegani. Non potevano essere più specifici di così.

— Mi spiace. Mi sono impegnato a difenderlo. Dammi una ragione migliore, e forse ti darò una risposta migliore. E Hasan ha cercato di uccidermi.

— Doveva soltanto fermarti, metterti nell’impossibilità di proteggere il vegano perché noi potessimo distruggerlo.

— Non basta; non basta, no. Non ammetto nulla. Riprendi la tua strada. Dimenticherò tutto.

— No, devi aiutarci. Cos’è la vita di un vegano per Karaghiosis?

— Non permetterò la sua distruzione senza un motivo preciso e sufficiente. Sinora non mi hai mostrato nulla.

— È tutto quello che so.

— Allora buonanotte.

— No. Tu hai due profili. Dalla destra sei un semidio; dalla sinistra un demone. Uno dei due ci aiuterà, deve aiutarci. Non m’interessa se sarà il semidio o il demone.

— Non cercate di fare del male al vegano. Lo proteggeremo.

Rimanemmo seduti. Lei prese una delle mie sigarette, e fumammo.

— … Odiarti — disse dopo un po’. — Dovrebbe essere facile, ma non ci riesco.

Tacqui.

— Ti ho visto molte volte, altero nella tua Uniforme Nera, a bere rum come fosse acqua, sicuro di qualcosa di cui non parli mai, arrogante della tua forza. Ti butteresti a corpo morto a lottare contro qualunque cosa si muova, non è vero?

— Non contro le formiche rosse o i calabroni.

— Hai un qualche piano generale di cui noi non sappiamo niente? Diccelo, e ti aiuteremo a realizzarlo.

— È un’idea tua che io sia Karaghiosis. Ti ho spiegato perché Hasan mi ha chiamato con quel nome. Phil conosceva Karaghiosis, e tu conosci Phil. Ti ha mai detto qualcosa del genere?

— Sai che no. È amico tuo, e non tradirebbe mai la tua fiducia.

— Oltre al nome con cui m’ha chiamato Hasan, esiste qualche altra prova della mia presunta identità?

— Non esiste alcuna descrizione registrata di Karaghiosis. Sei stato piuttosto preciso.

— Allora è tutto a posto. Vattene, e non disturbarmi più.

— No. Per favore.

— Hasan ha cercato d’uccidermi.

— Sì. Deve aver pensato che era più facile ucciderti che tenerti fuori dai piedi. Dopo tutto sa più cose di te, di quante ne sappiamo noi.

— Allora perché mi ha salvato dal boadrillo, oggi?

— Preferirei non dirtelo.

— Allora vattene.

— No, te lo dirò. L’assagai era l’unica cosa a portata di mano. Non è ancora molto abile nel maneggiarla. Non stava cercando di colpire il boadrillo.

— Oh.

— Ma non stava nemmeno mirando a te. Quella bestia s’agitava troppo. Hasan voleva uccidere il vegano, e avrebbe semplicemente detto che aveva cercato di salvarvi tutti e due con l’unica cosa a disposizione; e che era successo un terribile incidente. Sfortunatamente, il terribile incidente non è successo. Ha sbagliato il colpo.

— Perché non ha lasciato uccidere il vegano dal boadrillo?

— Perché tu avevi già messo le mani sulla bestia. Hasan temeva che tu potessi ancora salvarlo. Ha paura delle tue mani.

— Lieto di saperlo. E continuerà a provarci, anche se rifiuto di cooperare?

— Ho paura di sì.

— È una cosa molto spiacevole, mia cara, perché io non lo permetterò.

— Non lo fermerai. E noi non gli diremo di smetterla. Anche se tu sei Karaghiosis, e ferito, e la mia disperazione per te riempie l’orizzonte, Hasan non si lascerà fermare né da te né da me. Hasan è l’assassino. Non ha mai fallito.

— Nemmeno io.

— Sì che hai fallito. Proprio adesso, tradendo la Radpol e la Terra e tutto ciò che significa qualcosa.

— Resto sempre della mia opinione, donna. Riprendi la tua strada.

— Non posso.

— Perché mai?

— Se non lo sai, allora Karaghiosis è davvero il pazzo, il buffone, il personaggio d’un gioco d’ombre.

— Un uomo di nome Thomas Carlyle ha parlato una volta di eroi e di eroismo. Anche lui era pazzo. Credeva che esistessero creature del genere. L’eroismo è solo una questione di circostanze e d’opportunismo.

— A volte c’entrano anche gli ideali.

— Cos’è un ideale? Lo spettro d’uno spettro, niente di più.

— Non dirmi cose del genere, per piacere.

— Devo; sono vere.

— Menti, Karaghiosis.

— No, ma se lo faccio, è per il meglio, ragazza.

— Sono vecchia abbastanza da essere la bisnonna di chiunque tranne te, e così non chiamarmi «ragazza». Lo sai che i miei capelli sono una parrucca?

— Sì.

— Lo sai che una volta ho contratto una malattia vegana, e che è per questo che devo portare una parrucca?

— No. Mi dispiace molto. Non lo sapevo.

— Quand’ero giovane, molto tempo fa, lavoravo in un locale per vegani. Ero una ragazza di piacere. Non ho mai dimenticato l’ansimare dei loro orribili polmoni contro il mio corpo, o il tocco di quella loro pelle del colore dei cadaveri. Li odio, Karaghiosis, in un modo che solo un individuo come te può capire, uno che ha provato tutti i veri grandi odii.

— Mi spiace, Diane, mi spiace che tu senta ancora la ferita. Ma non sono pronto a muovermi. Non fatemi fretta.

— Allora sei Karaghiosis?

— Sì.

— Sono soddisfatta; almeno in parte.

— Ma il vegano vivrà.

— Vedremo.

— Sì, vedremo. Buonanotte.

— Buonanotte, Conrad.

E mi alzai, e la lasciai lì, e tornai alla mia tenda. Più tardi, di notte, venne da me. Si sollevarono i lembi della tenda e le coperte del letto, e lei fu lì. E quando avrò dimenticato tutto di lei, il rosso della sua parrucca e la piccola «v» capovolta tra gli occhi, e le sue mascelle serrate, e il suo parlare a denti stretti, e tutto il manierismo dei suoi gesti, e il suo corpo caldo come il cuore d’una stella, e il suo strano interessamento per l’uomo che ero stato una volta, ricorderò sempre questo: che venne da me quando ne avevo bisogno, che era calda, morbida, e che venne da me…


La mattina seguente, dopo colazione, ero in cerca di Myshtigo, ma fu lui a trovarmi per primo. Ero giù al fiume, e stavo parlando con gli uomini che dovevano prendere in consegna la feluca.

— Conrad — disse lui dolcemente, — posso parlarle?

Annuii e feci cenno in direzione d’una gola scavata dal fiume.

— Facciamo due passi da questa parte. Qui ho finito.

C’incamminammo.

Dopo un minuto disse: — Lei sa che sul mio mondo esistono diversi sistemi di disciplina mentale, sistemi che talora producono capacità extra-sensoriali…

— Così ho sentito raccontare — asserii.

— Diversi vegani, prima o poi, provano a sperimentarli. Alcuni hanno un’abilità naturale per queste cose; molti no. Ma quasi tutti, comunque, hanno la capacità di accorgersi quando i processi extra-sensoriali entrano in azione.

— Sì?

— Io non sono telepatico, ma so che lei possiede questa abilità perché l’ha usata con me la notte scorsa. Ho potuto sentirlo. È una dote piuttosto rara tra la sua gente, sicché non me l’ero aspettata e non avevo preso nessuna misura per prevenirla. Inoltre, lei m’ha colto nel momento più adatto. Di conseguenza la mia mente le era completamente aperta. Devo sapere quanto lei abbia appreso.

E così sembrava che ci fosse davvero un elemento extra-sensoriale connesso con le mie visioni pseudo-telepatiche. Di solito contenevano soltanto le apparenti percezioni immediate del soggetto, e la possibilità di dare un’occhiata ai pensieri e alle sensazioni connesse con le parole da lui pronunciate: ma qui di solito mi sbagliavo. La domanda di Myshtigo significava semplicemente che lui non sapeva quanto a fondo fossi andato; avevo sentito dire che certi sonda-mente professionisti vegani potevano arrivare addirittura al subconscio. Così decisi di bluffare.

— Ho dedotto che lei non sta scrivendo un semplice libro di viaggio — dissi.

Lui non ribatté.

— Sfortunatamente, non sono l’unico al corrente della cosa — continuai, — e questo la mette in una situazione abbastanza pericolosa.

— Perché? — chiese d’improvviso.

— Forse la fraintendono — azzardai.

Scosse la testa.

— Chi sono?

— Spiacente.

— Ma devo saperlo.

— Spiacente di nuovo. Se vuole andarsene, posso riportarla al Porto oggi stesso.

— No, non posso farlo. Devo continuare. Come devo comportarmi?

— Mi dica qualcosa di più, e le darò qualche suggerimento.

— No, lei sa già troppo… Allora questa deve essere la vera ragione della presenza di Dos Santos — aggiunse rapidamente. — È un moderato. L’ala attivista della Radpol deve avere saputo qualcosa della faccenda e, come dice lei, ha… frainteso. Lui sa il pericolo che corro. Forse dovrei andare da lui…

— No — dissi in fretta, — penso proprio di no. Non cambierebbe nulla. E cosa gli direbbe, comunque?

Una pausa. Poi: — Capisco cosa vuol dire. Anche a me è venuto da pensare che forse Dos Santos non è così moderato come credevo… Ma se questo è il caso…

— Già — dissi. — Vuole tornare?

— Non posso.

— Allora okay, amico blu, lei dovrà avere fiducia in me. Può cominciare col dirmi qualcosa di più su questa sua visita…

— No! Non so quanto lei sappia e quanto lei non sappia. È chiaro che sta cercando di strapparmi altre informazioni, sicché non penso che lei sappia poi molto. Quello che sto facendo è ancora di natura confidenziale.

— Sto cercando di proteggerla — replicai, — per cui voglio tutte le informazioni che posso ottenere.

— Allora protegga il mio corpo, e lasci che sia io a preoccuparmi dei miei motivi e dei miei pensieri. In futuro la mia mente le sarà chiusa. Non vale la pena che lei si dia da fare per metterla alla prova.

Gli tesi un’automatica.

— Le suggerisco di portarsi dietro quest’arma per tutta la durata del viaggio. Per proteggere i suoi motivi.

— Molto bene.

La pistola svanì sotto la sua tonaca fluttuante.

Puff — puff — puff, faceva il vegano.

Maledizione-maledizione-maledizione, facevano i miei pensieri.

— Vada a prepararsi — dissi. — Partiamo tra poco.


Mentre tornavo all’accampamento, seguendo un altro percorso, presi ad analizzare i miei motivi. Un libro, da solo, non poteva mandare in pezzi la Terra, la Radpol, il Ritornismo. Non c’era riuscito nemmeno Il Richiamo della Terra di Phil. Ma quest’accidente di Myshtigo sarebbe stato qualcosa di più d’un libro. Un’ispezione? Cosa poteva essere? Una spinta in quale direzione? Non lo sapevo e dovevo saperlo. Perché Myshtigo non doveva vivere, se quella cosa ci avrebbe distrutti; ma non potevo nemmeno permettere che lo uccidessero, se la sua missione poteva essere di aiuto. Il che era possibile.

Di conseguenza bisognava aspettare finché non fossimo completamente sicuri.

Mi avevano tirato per il guinzaglio. Potevo solo obbedire alla spinta.

— Diane — dissi, mentre eravamo fermi all’ombra della sua Lancia, — mi hai detto che significo qualcosa per te, come Karaghiosis.

— Credo proprio di sì.

— Allora ascoltami. Io credo che potreste sbagliarvi per quanto riguarda il vegano. Non ne sono sicuro, ma se voi vi sbagliate sarebbe un errore enorme ucciderlo. Per questa semplice ragione non posso permetterlo. Abbandonate tutti i progetti finché non raggiungeremo Atene. Poi chiedete una chiarificazione di quel messaggio della Radpol.

Mi fissò in entrambi gli occhi, poi disse: — Va bene.

— E Hasan?

— Aspetterà.

— È lui che sceglie il momento e il posto, non è vero? Aspetta solo l’opportunità di colpire.

— Sì.

— Allora bisogna dirgli di stare calmo finché non siamo sicuri.

— Molto bene.

— Glielo dirai?

— Gli sarà detto.

— Bene.

Mi voltai, cominciai ad allontanarmi.

— E quando arriverà di nuovo il messaggio — disse lei, — se ripeterà la stessa cosa… Che faremo?

— Vedremo — replicai, senza girarmi.

La lasciai lì vicino alla sua Lancia, e ritornai alla mia. Sapevo che mi sarei trovato con più guai tra le mani, se il messaggio fosse arrivato per la seconda volta dicendo le cose che pensavo. E per questo avevo già preso la mia decisione.

Molto a sud-est da noi, certe zone del Madagascar aggredivano ancora i contatori geiger con le loro urla di dolore radioattivo: un tributo all’abilità di uno di noi. Hasan, ne ero sicuro, poteva ancora affrontare qualsiasi barriera senza strizzare quei suoi occhi gialli, essiccati dal sole, abituati alla morte…

Sarebbe stato difficile fermarlo.


Giù. Sotto di noi.

Morte, caldo, un mare striato di lava, nuove linee di spiaggia…

Fenomeni vulcanici a Chio, Samo, Icaria, Nasso…

Alicarnasso spazzata via…

La parte occidentale di Kos ancora visibile, ma cosa importava?


… Morte, caldo, un mare striato di lava.

Nuove linee di spiaggia…


Avevo fatto deviare tutto il convoglio dal percorso previsto per osservare la scena. Myshtigo prendeva note, e faceva fotografie.

Lorel aveva detto: — Vai avanti con il viaggio. I danni alle proprietà non sono stati troppo ingenti, perché il Mediterraneo era pieno di baracche e rifiuti. I danni alle persone sono stati fatali, oppure sono già sotto controllo. Per cui proseguite.

Sorvolai lentamente quel che rimaneva di Kos: l’estremità occidentale dell’isola. Era un terreno scabro, vulcanico, e adesso c’erano nuovi crateri, alcuni dei quali fumanti; e nuovi, scintillanti corsi d’acqua che si muovevano a zig-zag sulla superficie. Un tempo lì si trovava l’antica capitale di Astipalia. Tucidide dice che fu distrutta da un gigantesco terremoto. Avrebbe dovuto vedere questo. La città più a nord di Kos era stata abitata sin dal 366 a.C. Adesso era sparito tutto, tranne l’umidità e il caldo. Non c’erano sopravvissuti; e il platano di Ippocrate e la moschea della Loggia e il castello dei Cavalieri di Rodi, e le fontane, e il mio cottage, e mia moglie, tutto era stato sepolto da un’onda d’acqua o risucchiato in un gorgo marino, non lo so… Tutto aveva percorso la stessa strada del defunto Teocrito, l’uomo che tanti anni fa aveva fatto del suo meglio per rendere immortale quel posto. Tutto sparito. Via. Lontano… Tutte cose immortali per me, anche se morte. Più a est spuntavano ancora dall’acqua alcune cime dell’alta catena montuosa che interrompeva a nord la pianura costiera, prima del terremoto. C’era il grande picco di Dikaios (detto anche Cristo il Giusto), che sovrastava i villaggi posti sul fianco nord della catena montuosa. Adesso era solo un isolotto, e nessuno aveva fatto in tempo ad arrampicarsi fin sulla cima.

Deve essere stato così, tanti anni fa, quando le acque del mare vicino alla mia terra natia, circondate dalla penisola calcidica, si erano alzate a sommergere la terraferma; quando le acque del mare interno si erano aperte a forza uno sbocco attraverso la gola di Tempe, provocando uno scuotimento tale da far vacillare anche l’Olimpo; quando gli unici superstiti furono il signore e la signora Deucalione, salvati dagli dèi per creare un mito e generare qualche figlio cui raccontarlo.

— Lei viveva qui — disse Myshtigo.

Annuii.

— Ma è nato nel villaggio di Makrynitsa, nelle colline della Tessaglia?

— Sì.

— Però aveva fissato qui la sua dimora?

— Per un po’.

— «Avere una casa» è un concetto universale — disse. — Lo apprezzo.

— Grazie.

Continuai a fissare in giù, sentendomi triste, malato, pazzo; e poi più nulla.


Dopo un periodo d’assenza Atene mi torna davanti con un’improvvisa familiarità che mi rinfresca sempre, spesso mi cambia; a volte mi incita. Una volta Phil mi ha letto qualche pezzo di uno degli ultimi grandi poeti greci, George Seferis, sostenendo che si riferiva alla mia Grecia quando diceva: «… Un paese che non è più nostro, e nemmeno vostro», una chiara allusione ai vegani. Quando gli ho fatto notare che non c’erano vegani in circolazione al tempo in cui visse Seferis, Phil ha ribattuto che la poesia esiste indipendentemente dallo spazio e dal tempo, e che significa qualunque cosa significhi per il lettore. A parte che non ho mai creduto che la licenza poetica vada bene anche per viaggiare nel tempo, avevo altre ragioni per trovarmi in disaccordo con lui; per non leggere quel brano come un’affermazione particolare.

La Grecia è il nostro paese. I Goti, gli Unni, i Bulgari, i Serbi, i Franchi, i Turchi, e più recentemente i Vegani, non sono mai riusciti a strapparcela. Di gente ne ho vista morire parecchia. Atene ed io, invece, siamo cambiati insieme. Il continente greco, comunque, è il continente greco, e per me non cambia. Provatevi a portarcelo via, chiunque voi siate, e i miei guerriglieri riempiranno le colline, come le furie vendicatrici del tempo. Voi passerete, ma le colline della Grecia rimarranno, intatte, con l’odore dei femori di capra che bruciano, con quel loro miscuglio di sangue e vino, un sapore di mandorle dolci, un vento freddo di notte, e cieli azzurri e chiari come gli occhi d’un dio di giorno. Toccatele, se avete coraggio.

È per questo che mi sento rinfrescato ogni volta che torno: perché adesso che sono un uomo con molti anni dietro le spalle, provo queste stesse sensazioni per tutta la Terra. È per questo che ho combattuto, e ucciso e bombardato; per questo che ho tentato ogni trucco legale per impedire ai vegani di comperare la Terra, pezzo per pezzo, dal governo in esilio di Taler. È per questo che mi sono fatto strada, con un altro nome, nella grande macchina statale che manda avanti il pianeta ed in particolare nella sezione riguardante le Arti, i Monumenti e gli Archivi. Lì posso lottare per conservare quello che resta, in attesa degli sviluppi della situazione.

La vendetta della Radpol aveva spaventato sia i vegani che gli emigrati terrestri. Non riuscivano a capire, poverini, che i discendenti dei sopravvissuti ai Tre Giorni non avevano voglia di cedere ai vegani i loro appezzamenti costieri migliori per vederci costruire alberghi e cose del genere, e allevare i loro figli e figlie per metterli a lavorare in quei posti; e nemmeno che non si sarebbero prestati a fare da guida ai vegani nelle rovine delle loro città, indicandogli i punti di maggior interesse per il loro divertimento. Per questo l’Ufficio è soprattutto un centro di relazioni con l’estero.

Avevamo chiesto il ritorno dei discendenti dei coloni marziani e titaniani, e il ritorno non s’era verificato. S’erano infiacchiti, succhiando come sanguisughe le risorse d’una civiltà avanzata rispetto alla nostra. Avevano perso la propria identità. Ci avevano abbandonati.

Tuttavia, erano il Governo Terrestre, de jure, legalmente eletto dalla maggioranza assente; e probabilmente anche de facto, se si fosse mai giunti ai ferri corti. Probabilmente. Speravo solo che non si dovesse giungere a quel punto.

Per oltre mezzo secolo s’era mantenuta una situazione di stallo: niente nuove costruzioni vegane, niente azioni violente della Radpol. Ma niente ritorno, nemmeno. Presto ci sarebbe stato un nuovo sviluppo. Era nell’aria, ammesso che Myshtigo fosse davvero in visita d’ispezione.

E così tornai ad Atene in una giornata squallida, sotto una pioggia fredda e continua; un’Atene sconvolta dai recenti scuotimenti della Terra, e nella mia mente c’era una domanda e ferite sul mio corpo, ma mi sentii rinfrescato. Il Museo Nazionale era ancora lì, tra Tossitsa e Vasileos Irakliou, l’Acropoli era ancora più rovinata di quanto ricordassi, e il Garden Altar (un tempo il vecchio Palazzo Reale) si trovava sempre sul lato nord-ovest del Parco Nazionale, di fronte a Piazza Syndagma. Il terremoto gli aveva dato una bella scrollata, ma era aperto lo stesso.

Entrammo, e ci facemmo registrare.

Come Commissario delle Arti, Monumenti ed Archivi, ebbi particolari attenzioni. Ottenni l’Appartamento: il Numero 19.

Non era esattamente come l’avevo lasciato io. Era ordinato e pulito.

La placchetta metallica sulla porta diceva:

Quest’appartamento è servito da quartier generale a Konstantin Karaghiosis durante la fondazione della Radpol e quasi tutta la Ribellione Ritornista.

Dentro, c’era una placca ai piedi del letto che diceva:

Konstantin Karaghiosis ha dormito in questo letto.

Ne trovai un’altra sul muro opposto della stanza d’ingresso, lunga e stretta. Diceva:

La macchia su questo muro è stata prodotta da una bottiglia di liquore, scagliata attraverso la stanza da Konstantin Karaghiosis, a celebrazione del bombardamento del Madagascar.

Credeteci, se volete.

Konstantin Karaghiosis s’è seduto su questa poltrona, insisteva un’altra.

Ormai avevo paura d’entrare nel bagno.


Quella stessa notte, più tardi, mentre percorrevo le umide strade pietrose della mia città quasi deserta, i vecchi ricordi e i pensieri correnti si mescolavano nella mia testa come due fiumi confluenti. Avevo lasciato gli altri all’albergo, e, discesa l’ampia scalinata dell’Altar, mi ero fermato a leggere un’iscrizione tratta da una delle orazioni funebri di Pericle («La Terra intera è la tomba dei grandi uomini») sul fianco del Monumento al Milite Ignoto; mi ero fermato ad osservare gli arti muscolosi di quell’antico guerriero, disteso con tutte le sue armi sul letto funebre, tutto marmo e bassorilievi, eppure ancora caldo, perché la notte diventa ad un certo punto tutt’uno con Atene; e poi avevo tirato diritto, oltrepassando Leoforos Amalias.

Era stata una cena eccellente: ouzo, giuvetsi, Kokkineli, yaourti, Metaxa, litri di caffè nero, e Phil che discuteva con George dell’evoluzione.

— Non credi che qui si stia verificando una convergenza tra vita e mito, negli ultimi giorni di vita sul pianeta?

— Cosa vuoi dire? — aveva chiesto George, finendo un piatto di narantzi e aggiustandosi gli occhiali per vedere meglio.

— Voglio dire che quando l’umanità è giunta alla luce s’è portata dietro leggende e miti e memorie di creature favolose. Adesso stiamo scendendo di nuovo nell’oscurità originaria. La Forza Vitale sta diventando debole e instabile, e c’è un ritorno a quelle forme archetipali che per tanto tempo sono esistite solo come oscure memorie di razza…

— Sciocchezze, Phil. Forza Vitale? In che secolo credi di essere? Parli come se tutte le forme di vita fossero un’unica entità senziente.

— Lo sono.

— Allora dimostramelo, per favore.

— Nel tuo museo hai gli scheletri di tre satiri, e fotografie di altri vivi. Li puoi trovare nelle colline di questo paese. Inoltre qui sono stati visti dei centauri; ed esistono fiori vampiri, e cavalli con vestigia di ali. In ogni mare si trovano serpenti di mare. I pipiragni riempiono i nostri cieli. Certe persone hanno persino giurato d’aver visto la Bestia Nera della Tessaglia, una creatura che mangia uomini, ossa, e ogni sorta di cose. Insomma, tutte le leggende si stanno dimostrando reali.

George aveva sospirato.

— Tutto quello che hai detto sinora prova soltanto che tra le infinite forme di vita possibili tutte possono realizzarsi, se esistono i necessari fattori costituzionali e un ambiente adatto. Le cose che hai menzionato, tranne i pipiragni che non sono terrestri, sono soltanto mutazioni, creature nate vicino ai vari Posti Caldi un po’ in tutto il mondo. Le colline della Tessaglia offrono le condizioni necessarie. Se in questo momento la Bestia Nera sfondasse quella porta tenendosi un satiro sulle spalle, non metterebbe in forse le mie opinioni, né proverebbe nemmeno le tue.

In quel momento avevo guardato la porta, sperando che entrasse non la Bestia Nera, ma un vecchiettino fragile e dall’aria innocua che ci passasse a fianco, inciampasse, e sparisse; oppure un cameriere che portasse a Diane un drink inatteso, con un messaggio nascosto nel tovagliolo.

Ma nessuna di queste cose era accaduta. Mentre oltrepassavo Leoforos Amalias, l’Arco d’Adriano e l’Olympieion, non sapevo ancora quale sarebbe stata la parola d’ordine. Diane aveva preso contatto con la Radpol, ma non era ancora giunta la risposta.

Tra trentasei ore saremmo volati da Atene a Lamia; e poi ci saremmo addentrati a piedi in zone coperte di strani, nuovi alberi, con foglie lunghe e pallide e venate di rosso, e viti rampicanti, e cose che crescono e s’attaccano da tutte le parti, e i germogli e le radici mobili dello strige-fleur; e poi sempre avanti, per pianure inaridite dal sole, su per tortuosi sentieri di capre, attraverso montagne aspre e alte, e giù per profondi burroni, con monasteri in rovina disseminati intorno. Era un’idea pazzesca; ma Myshtigo (sempre lui!) voleva che così fosse. Soltanto perché ero nato da quelle parti, credeva di essere al sicuro. Avevo cercato di parlargli delle belve feroci, delle tribù cannibali che vagabondavano nei dintorni. Ma lui voleva fare come Pausania, e vedere tutto a piedi. E così sia: se non lo beccava la Radpol, ci avrebbe pensato la fauna locale.

Ma, tanto per essere sicuro, mi ero recato nel più vicino Ufficio Postale Governativo e avevo ottenuto un permesso di duello, pagando la regolare tassa sulla morte. Decisi che era meglio fare ogni cosa secondo la legge, data la mia carica di Commissario e tutto il resto.

Se Hasan doveva essere ucciso, l’avrei sistemato coi crismi della legalità.

Udii il suono d’un bouzouki venire da un piccolo caffè sull’altro lato della strada. In parte perché ne avevo voglia, e in parte perché avevo la sensazione d’essere seguito, attraversai la via ed entrai nel locale. Sedetti ad un tavolino dove potevo avere le spalle al muro e gli occhi sulla porta, ordinai caffè turco, ordinai un pacchetto di sigarette, ascoltai quelle canzoni che parlavano di morte, esilio, rovina, e dell’eterna perfidia di uomini e donne.

Il posto era anche più piccolo di quanto non sembrasse dalla strada: soffitto basso, pavimento lurido, oscurità totale. La cantante era una donna tozza, che portava un vestito giallo e quintali di mascara. I bicchieri tintinnavano; nell’aria s’agitava una cortina di polvere; per terra era sparsa della segatura umida. Il mio tavolo era proprio vicino all’ingresso. Sparpagliata nel locale si trovava un’altra dozzina o giù di lì di persone: tre ragazze dagli occhi addormentati bevevano qualcosa al banco, e c’era un uomo con un fez sozzo, e un altro uomo con la testa appoggiata al braccio, che russava; quattro uomini ridevano ad un tavolo diagonalmente opposto al mio; pochi altri, solitari, bevevano caffè, ascoltavano, senza guardare nulla in particolare e aspettavano — o forse no — che accadesse qualcosa.

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