Niente successe, comunque. E così, dopo la terza tazza di caffè, pagai il conto al grosso proprietario baffuto, e me ne andai.

Fuori, la temperatura sembrava essere scesa di parecchi gradi. Le strade erano deserte, e completamente scure. Svoltai nell’aereopago di Leoforos Dionysios e continuai a procedere, finché raggiunsi la cancellata che percorre il lato più a sud dell’Acropoli.

Sentii un passo dietro di me, piuttosto lontano, dietro l’angolo. Mi fermai per un mezzo minuto, ma c’era solo silenzio e una notte molto scura. Scrollando le spalle, oltrepassai il cancello e arrivai al santuario di Dionisio Eleuterio. Del tempio vero e proprio non resta più nulla, tranne le fondamenta. Proseguii in direzione del Teatro.

Phil, poi, aveva detto che la storia si muove secondo grandi cicli, come grosse lancette d’un orologio che continuano a passare sugli stessi numeri giorno dopo giorno.

— La biologia storica prova che hai torto — aveva ribattuto George.

— Non volevo essere preso alla lettera - aveva replicato Phil.

— Allora mettiamoci d’accordo sull’uso che facciamo dei termini, prima di continuare a parlare.

Myshtigo aveva riso.

Ellen aveva toccato il braccio di Dos Santos e gli aveva chiesto dei poveri cavalli dei picadores. Lui aveva scosso le spalle, le aveva versato dell’altro Kokkinelli e aveva bevuto il suo.

— Fa parte delle regole del gioco — aveva detto.

E niente messaggio, niente messaggio…

Continuai a camminare tra le rovine che il tempo aveva ricavato da tanta grandezza. Un uccello spaventato s’alzò in volo sulla mia destra, lanciò un grido di paura, e sparì. Camminai ancora, vagabondai infine nell’antico Teatro, ne scesi le gradinate…

Diane non era parsa tanto divertita quanto credevo dalle stupide placche che decoravano il mio appartamento.

— Ma questo è il loro posto. Naturalmente. È proprio il loro posto.

— Ah!

— Una volta ci avrebbero attaccato la testa degli animali uccisi. O gli scudi dei nemici vinti in guerra. Adesso ci siamo civilizzati. Tutto merito del progresso.

— Ah! — Cambiai argomento. — Niente di nuovo sul vegano?

— No.

— Tu vuoi la sua testa.

— Non mi sono civilizzata. Dimmi, Phil è sempre stato così matto, anche ai vecchi tempi?

— No, per niente. Ma non lo è nemmeno adesso. La sua è stata la parabola d’un mezzo talento. Ormai lo consideriamo l’ultimo dei poeti romantici, e s’è sciupato. Adesso incanala il suo misticismo in idee insensate perché, come Wordsworth, la sua vena si è consumata. Non fa altro che vivere in distorsioni del suo grande passato. Una volta, come Byron, attraversava a nuoto l’Ellesponto; ma adesso s’è ridotto al rango di Yeats, e l’unica cosa che gli piace davvero è la compagnia di giovani signore che possa annoiare con la sua filosofia, o deliziare a volte con un ricordo ben raccontato. È vecchio. Ogni tanto ha qualche sprazzo letterario, ma il suo stile non era solo in quello che scriveva.

— Cioè?

— Be’, mi ricordo un giorno nuvoloso in cui se ne stava nel Teatro di Dionisio a leggere un inno a Pan che aveva scritto. C’era un pubblico di due o trecento persone, e solo gli dèi sanno perché fossero venuti, ma lui cominciò a leggere. Il suo greco non era ancora molto sicuro, ma la voce era decisamente notevole, e le sue maniere piuttosto carismatiche. Dopo un po’ cominciò a piovere un po’, ma nessuno se ne andò. Verso la fine scoppiò un tuono che sembrava una gigantesca risata, e tutta la folla fu percorsa da un brivido. Non ti sto dicendo che fosse come ai tempi di Tespi, ma parecchia di quella gente continuò a guardarsi attorno, quando se ne andò. Anch’io rimasi molto impressionato. Poi, diversi giorni dopo, lessi il poema: e non era nulla. Era pedestre, banale. L’unica cosa importante era il suo modo di leggerlo. Con la vecchiaia ha perso tutte queste sue capacità; e l’arte, per così dire, che gli è restata non è sufficiente a renderlo grande, a tener in vita la sua leggenda. Lui se ne dispiace, e si consola con filosofie oscure. Ma per rispondere alla tua domanda: no, non era così matto.

— Forse anche una parte della sua filosofia è esatta.

— Cosa vuoi dire?

— I Grandi Cicli. L’era delle strane bestie è realmente tornata su noi. E anche l’era degli eroi, dei semidèi.

— Io ho incontrato solo le bestie strane.

— «Karaghiosis ha dormito in questo letto», dice la placca. Sembra comodo.

— Lo è. Vedi?

— Sì. Posso tenermi la placca?

— Se vuoi…

Arrivai al proscenio. Mi stava davanti la scultura in rilievo che rappresenta episodi della vita di Dionisio. Secondo un regolamento che io stesso ho promulgato, nessun cicerone e nessun partecipante ad un giro turistico può «… portare meno di tre torce al magnesio sulla propria persona, durante il viaggio». Ne accesi una e la sistemai per terra. La luce non era visibile dal disotto, a causa dell’angolatura delle colline e dell’ampiezza del monumento.

Non fissai la fiamma violenta, ma sopra, le figure dai contorni argentati. C’era Ermes, che presentava il dio bambino a Zeus, mentre i Coribanti danzavano su entrambi i lati del trono. Poi c’era Icaro, a cui Dionisio aveva insegnato a coltivare la vite: si preparava a sacrificare una capra, mentre sua figlia offriva focacce al dio (che stava in disparte, discutendo di lei con un satiro); e c’era Sileno ubriaco che tentava come Atlante di reggere il cielo, solo che non ci riusciva tanto bene; e c’erano tutti gli altri dèi del paese, che rendevano omaggio a questo Teatro; e distinsi Estia, Teseo, ed Eirene con un corno pieno di…

— Bruci un’offerta agli dèi — disse una voce vicino a me.

Non mi girai. Le parole erano giunte dalla mia sinistra, ma non mi girai perché conoscevo la voce.

— Forse — replicai.

— È passato lungo tempo da che tu hai calcato questa terra, questa Grecia.

— È vero.

— È perché non è mai esistita una Penelope immortale, paziente come le montagne, fiduciosa nel ritorno del suo Kallikanzaros, tessitrice, paziente come le colline?

— Sei diventato il cantastorie del villaggio, ultimamente?

Ridacchiò.

— Accudisco le pecore dalle molte gambe nei luoghi alti, dove le dita di Aurora giungono per prime a tingere di rosa il cielo.

— Sì, sei il cantastorie. Perché non te ne stai nei luoghi alti, a corrompere i giovani col tuo canto?

— Perché sogno.

— Già.

Mi girai a fissare quel viso antico: le sue rughe, alla luce della lampada morente, erano nere come reti da pescatore perse sul fondo dell’oceano; la barba bianca come la neve che scende precipitando dalle montagne; gli occhi del blu della fascia che gli cingeva le tempie. E s’appoggiava al bastone con la stessa forza d’un guerriero che s’appoggia alla lancia. Sapevo che aveva più di cento anni, e che non s’era mai sottoposto al trattamento S-S.

— Poco tempo fa ho sognato che stavo nel centro d’un nero tempio — mi raccontò, — e arrivò il Signore dell’Ade e mi si mise a fianco, e m’afferrò la spalla e mi comandò d’andare con lui. Ma io dissi «No» e mi svegliai. Questo mi preoccupa.

— Cos’avevi mangiato quella sera? Bacche del Posto Caldo?

— Non irridermi, ti prego. Poi, in una notte dipoi, ho sognato che mi trovavo in una terra di sabbia e oscurità. La forza degli antichi campioni era sopra di me, ed io combattei con Anteo, figlio della Terra, e lo distrussi. Poi di nuovo giunse da me il Signore dell’Ade, e presomi per il braccio disse «Vieni con me, adesso». Ma di nuovo non gli obbedii e mi svegliai. La Terra stava tremando.

— È tutto?

— No. Ancor più recentemente, e non di notte, ma mentre sedevo sotto un albero ad osservare il mio gregge, feci un sogno mentr’ero sveglio. Come Febo combattei col mostro Pitone, e quasi ne fui distrutto. Questa volta il Signore dell’Ade non venne, ma allorché mi guardai attorno Ermes, il suo staffiere, era lì e sorrideva e puntava i caducei come fucili nella mia direzione. Scossi la testa, ed egli li abbassò. Poi di nuovo li alzò in un gesto, ed io guardai dove m’aveva indicato.

«E lì davanti ai miei occhi si stendeva Atene, questo posto, questo Teatro, tu, e qui sedevano le antiche donne. Colei che misura il filo della vita era imbronciata, poiché aveva disteso il tuo all’orizzonte e gli occhi non ne scorgevano la fine. Ma colei che tesse lo aveva diviso in due fili assai sottili. L’uno si stendeva attraverso il mare e svaniva ancora alla mia vista. L’altro portava alle colline. Sulla prima collina stava l’Uomo Morto, che stringeva il tuo filo nelle sue bianche, bianche mani. Dietro di lui, sulla collina seguente, una roccia ardente bruciava il filo. E sulla collina dietro la roccia stava la Bestia Nera, e scuoteva e mordeva il tuo filo coi denti. E lungo tutto lo svolgersi del trefolo s’ergeva un grande guerriero straniero, e gialli erano i suoi occhi e nuda la lama nelle sue mani, ed egli levò più d’una volta la lama in gesto di minaccia.

«Così sono disceso ad Atene per incontrarti, qui, in questo luogo, per dirti di riattraversare i mari, per avvisarti di non salire la collina dove t’attende la morte. Perché seppi, quando Ermes sollevò i caducei, che i sogni non erano i miei, ma a te s’indirizzavano, o padre mio, e che dovevo trovarti qui e metterti in guardia. Vattene via adesso, mentre ancora lo puoi. Torna indietro. Ti prego».

Gli afferrai la spalla.

— Giasone, figlio mio, io non torno indietro. Mi assumo la piena responsabilità delle mie azioni, giuste o sbagliate che siano, e anche della mia morte, se così dev’essere. Ma questa volta debbo andare sulle colline, vicino al Posto Caldo. Grazie per il tuo avvertimento. La nostra famiglia ha sempre avuto qualcosa di particolare per i sogni, ma a volte ci ingannano. Anch’io ho sogni, sogni in cui vedo attraverso gli occhi di altre persone, talora chiaramente, talora no. Grazie per il tuo avvertimento. Mi spiace di non poterlo ascoltare.

— Allora tornerò al mio gregge.

— Torna con me al mio appartamento. Domani ti faremo volare sino a Lamia.

— No. Non dormo nei grandi edifici, e non volo.

— Allora è probabilmente tempo che tu riparta, ma voglio assecondarti. Possiamo accamparci qui per stanotte. Sono Commissario di questo monumento.

— Avevo sentito dire che hai un posto d’importanza nel Governo. Ci saranno altri delitti?

— Spero di no.

Trovammo un punto comodo e ci sdraiammo sul suo mantello.

— Come interpreti i sogni? — gli chiesi.

— I tuoi doni ci giungono con ogni nuova stagione, ma quand’è stata l’ultima volta che ci hai fatto visita?

— Circa diciannove anni fa — dissi.

— Allora non sai dell’Uomo Morto?

— No.

— È più grande di molti uomini, più alto e grosso, con la pelle del colore del ventre dei pesci, e denti come quelli d’un animale. Sono quindici anni da che hanno preso a parlarne. Esce solo la notte. Beve sangue. Ride d’un riso infantile, e percorre il paese cercando sangue: di gente o d’animali, per lui è lo stesso. Sorride attraverso le finestre delle camere da letto, quando la notte è fonda. Brucia le chiese. Fa cagliare il latte. Causa orribili smarrimenti col suo aspetto. Di giorno si dice che dorma in una bara, custodita dalla tribù dei Kourete.

— Sembra terribile come un kallikanzaros.

— Esiste realmente, padre. Qualche tempo fa, qualcosa uccise le mie pecore. Qualunque cosa fosse aveva mangiato parte della loro carne, e bevuto molto del loro sangue. Così mi scavai un nascondiglio e lo ricopersi di frasche. Quella notte restai a vegliare. Dopo molte ore giunse, ed ero troppo spaventato per scagliare una pietra con la fionda; poiché è come lo hanno descritto: grande, anche più grande di te, e gonfio, e del colore d’un corpo appena interrato. Spezzò il collo della pecora con le mani, e bevve il sangue dalla sua gola. Fremetti a quella vista, ma tremavo all’idea di fare qualcosa. Il giorno seguente spostai il gregge, e non ebbi altre preoccupazioni. Ora uso questa storia per spaventare i miei pro-pronipoti, i tuoi pro-pro-pronipoti, quando si comportano male… E lui è là che aspetta, sulle colline.

— Mm, sì… Se dici d’averlo visto, dev’essere vero. E strane cose nascono dai Posti Caldi. Noi lo sappiamo.

— …Dove Prometeo versò troppo fuoco della creazione.

— No, dove qualche bastardo sganciò una bomba al cobalto e ragazzi e ragazze urlarono al fallout. E la Bestia Nera?

— Anch’essa è reale, ne sono certo. Non l’ho mai vista, comunque. Grande come un elefante, e molto veloce; mangiatrice di carne, dicono. Infesta le pianure. Forse un giorno s’incontrerà con l’Uomo Morto, e i mostri si distruggeranno l’un l’altro.

— Di solito non va a questo modo, ma è una bella idea. E non ne sai nient’altro?

— No. Nessuno le ha gettato più d’un’occhiata.

— Be’, cercherò di evitare anche di darle un’occhiata.

— … E poi devo dirti di Bortan.

— Bortan? Il nome mi è familiare.

— Il tuo cane. Ero solito correre seduto sulla sua schiena quand’ero un bimbo, e battere con le gambe sui suoi grandi fianchi corazzati. Allora egli si scrollava e mi mordeva il piede, ma gentilmente.

Il mio Bortan è morto da tanto tempo che non riuscirebbe nemmeno a masticare le proprie ossa, se gli capitasse di scavarle dal suolo in un’altra incarnazione.

— Anch’io pensavo così. Ma due giorni dopo che tu ripartisti dalla tua ultima visita, si precipitò nella mia baracca. Era come se avesse seguito le tue tracce per metà della Grecia.

— Sei sicuro che fosse Bortan?

— C’è mai stato un altro cane con le dimensioni d’un piccolo cavallo, squame poderose su entrambi i fianchi, e mascelle come una trappola per orsi?

— No, non credo. Probabilmente è per questo che la razza è scomparsa. I cani avevano bisogno di corazze dure per continuare a vivere con la gente, e non le hanno sviluppate abbastanza in fretta. Se è ancora vivo, è probabilmente l’ultimo cane della Terra. Lui ed io siamo stati cuccioli assieme, lo sai, tanto tempo fa che è doloroso il solo pensarci. Quel giorno che scomparve mentre stavamo cacciando pensai che gli fosse successo qualcosa. Lo cercai, poi decisi che era morto. Era già incredibilmente vecchio, a quell’epoca.

— Forse è rimasto ferito, e ha continuato a vagare, per anni. Ma era sempre lui e ha ritrovato le tue tracce, quell’ultima volta. Quando vide che te n’eri andato latrò, e se ne andò di nuovo a cercarti. Da allora non lo abbiamo più visto. Talvolta, però, a tarda notte, odo il suo grido sulle colline…

— Quel pazzo d’un bastardo dovrebbe sapere che non bisogna preoccuparsi troppo di niente.

— I cani erano strani.

— Già, erano strani.

E poi il vento della notte, freddo per essere passato tra le arcate del tempo, giocò ad inseguirmi. Mi toccò gli occhi.

Che, stanchi, si chiusero.


La Grecia trabocca di leggende, è piena di pericoli. Diverse zone del continente nei pressi dei Posti Caldi sono storicamente pericolose. Questo succede perché l’Ufficio si occupa in teoria di tutta la Terra, ma in pratica cura solo le isole. Gli impiegati dell’Ufficio sul continente assomigliano molto alle guardie di finanza che nel ventesimo secolo controllavano certe zone di collina: è gente che merita tutte le critiche che vengono loro rivolte. Le isole hanno subito meno danni del resto del mondo durante i Tre Giorni; di conseguenza, quando i Talenti decisero che ci potevamo permettere uno straccio d’amministrazione, furono scelte come base per ospitare le sedi dei distaccamenti dell’Ufficio. Storicamente, gli abitanti del continente si sono sempre opposti a questo stato di cose. Nelle regioni attorno ai Posti Caldi, però, i nativi non sono sempre del tutto umani. Il che mescola l’antagonismo storico con modi anormali di comportamento. Per questo la Grecia è piena. Avremmo potuto circumnavigare la costa fino a Volos. Avremmo potuto volare a Volos, o da qualsiasi altra parte, per questo. Myshtigo invece volle fare una passeggiata da Lamia in avanti, fare una passeggiata e godersi il piacere della leggenda e dello scenario inusitato. Per questo lasciammo le Lance a Lamia. Per questo arrivammo a piedi a Volos.

Per questo incontrammo la leggenda.

Ad Atene dissi arrivederci a Giasone. Lui intendeva circumnavigare la costa. Saggio.

Phil aveva insistito per prendere parte alla passeggiata, invece di volare avanti e incontrarci lungo il percorso. Anche questo fu un bene, forse, a modo suo, quasi…

La strada per Volos incontra una vegetazione talora fittissima, talora rada. Oltrepassa enormi macigni, qualche pascolo stentato, agglomerati di capanne, campi di papaveri; attraversa piccoli corsi d’acqua, s’attorciglia sulle colline, talora le attraversa, s’allarga e si restringe senza cause apparenti.

Era ancora mattino presto. Il cielo era uno specchio azzurro, perché la luce del sole sembrava venire da tutt’intorno. Nei punti in ombra c’era ancora un po’ di rugiada sull’erba e sulle foglie più basse degli alberi.

Fu in un’interessante radura lungo la strada per Volos che incontrai un mio vecchio amico.

Quel posto era un santuario di qualche specie, nei Veri Tempi Antichi. Ci venivo molto spesso in gioventù, perché mi piaceva una cosa che lì si trova in abbondanza: immagino che voi la chiamereste «pace». A volte ci avevo incontrato i mezzi-uomini o i non-uomini, o avevo sognato dei bei sogni, o avevo trovato vecchie reliquie o teste di statue, o cose del genere, che potevo vendere a Lamia o Atene.

Non c’è un sentiero che ci arrivi. Dovete sapere dove si trova. Non li avrei portati lì se Phil non fosse stato con noi, e sapevo che a lui piace tutto quello che sa di mistero, di significati reconditi, di sguardi inusitati sull’oscuro passato, eccetera.

Circa un miglio fuori dalla strada, attraversata una piccola foresta contenta del suo gran disordine di verde e d’ombra e delle pietre sparse a caso, prendete d’improvviso a scendere, vi trovate la strada bloccata da un fitto boschetto, lo superate, poi scoprite una parete rocciosa liscia. Se vi accucciate, vi tenete vicini alla parete, e svoltate sulla destra, sbucate in una radura dove è sempre meglio fermarsi prima di proseguire.

C’è una discesa breve e ripida, e sul fondo una spianata a forma d’uovo, lunga una cinquantina di metri, larga venti, che termina infilandosi in un’apertura nella roccia; all’estremità si trova una caverna poco profonda, di solito vuota. Alcune pietre sprofondate nel terreno, di forma quasi quadrata, sono disseminate attorno in maniera apparentemente casuale. Viti selvagge crescono lì attorno, e nel centro si trova un albero enorme ed antico, le cui fronde fanno da ombrello a quasi tutto il posto, tenendolo fresco e buio ventiquattr’ore su ventiquattro. L’albero rende difficile sbirciare, anche se ci si trova nella radura.

Ma potevamo vedere, nel centro, un satiro che si puliva il naso.

Vidi la mano di George posarsi sul calcio della pistola. Lo presi per la spalla, lo guardai, scossi la testa. Lui scrollò le spalle, annuì, e lasciò ricadere la mano.

Estrassi dalla cintura il flauto da pastore che mi ero fatto dare da Giasone. Accennai agli altri d’accucciarsi e restare dove si trovavano. Feci qualche passo in avanti e mi portai la siringa alle labbra.

Le prime note furono semplici tentativi. Era passato troppo tempo da che avevo suonato il flauto.

Gli orecchi del satiro si tesero, e lui si guardò attorno. Fece rapidi movimenti in tre diverse direzioni; come uno scoiattolo disturbato, incerto su quale albero salire.

Poi rimase lì a fremere mentre io accennavo un vecchio motivo e ne riempivo l’aria.

Continuai a suonare, ricordando, ricordando i flauti, le musiche, i toni aspri e i toni dolci, e le cose pazzesche che ho sempre conosciuto. Mi ritornò tutto dentro mentre stavo lì a suonare per quella piccola creatura dai gambali di pelo ispido: i movimenti delle dita e il controllo del fiato, i piccoli crescendo, il dolore della musica, le cose che solo un flauto può veramente dire. Nella città non potevo suonare, ma d’improvviso fui di nuovo me stesso, e vidi facce tra le foglie e sentii il rumore di zoccoli.

Mi mossi in avanti.

Come in un sogno, mi accorsi d’essermi appoggiato con la schiena all’albero, e loro m’erano tutti intorno. S’appoggiavano su uno zoccolo e sull’altro, non stavano mai quieti, e io suonavo per loro come avevo già fatto tante volte, anni addietro, senza sapere se fossero le stesse creature che m’avevano udito allora; senza nemmeno che me ne preoccupassi. Saltellavano attorno a me. Ridevano con denti bianchissimi, e i loro occhi danzavano, e facevano girotondo, forando l’aria coi loro corni, sollevando le loro zampe da capri dal suolo, sporgendosi in avanti, saltando in aria, pestando la terra.

Mi fermai, e abbassai il flauto.

Non era un’intelligenza umana quella che mi spiava attraverso quegli occhi selvatici e neri, mentre loro si trasformavano in statue, lì immobili a fissarmi.

Sollevai di nuovo il flauto, lentamente. Questa volta suonai l’ultima canzone che avevo composta. La ricordavo così bene! Era una specie di canto funebre che avevo intonato la notte in cui avevo deciso che Karaghiosis doveva morire.

Avevo visto l’inutilità del Ritorno. Non sarebbero tornati, non sarebbero mai tornati. La Terra sarebbe morta. Ero entrato nel Parco e avevo suonato quest’ultima canzone che avevo imparato dal vento, e forse anche dalle stelle. Il giorno seguente, la grande imbarcazione di Karaghiosis aveva avuto un incidente nella baia del Pireo.

Si sedettero sull’erba. Di tanto in tanto uno di loro si toccava gli occhi con un gesto elaborato. Mi erano tutti attorno, e ascoltavano.

Non so per quanto tempo suonai. Quando ebbi finito, abbassai il flauto e rimasi seduto. Dopo un po’, uno di loro si sporse in avanti e toccò il flauto e ritirò velocemente la mano. Mi guardò.

— Andate — dissi, ma sembrarono non capire.

Così levai la siringa e suonai di nuovo le ultime note.

La Terra sta morendo, morendo. Presto sarà morta… Tornate a casa, la festa è finita. È tardi, è tardi, così tardi…

Il più grande di loro scosse il capo.

Andatevene, andatevene, andatevene ora. Apprezzate il silenzio. Dopo il più ridicolo gambitto della vita, apprezzate il silenzio.

Cosa speravano di ottenere gli dèi? Nulla. Era soltanto un gioco. Andatevene, andatevene, andatevene ora. È tardi, è tardi, così tardi…

Erano ancora seduti; allora mi rizzai in piedi e battei le mani e urlai: — Andate! — e m’allontanai in fretta.

Radunai i miei compagni e tornammo sulla strada.


Da Lamia a Volos corrono circa sessantacinque chilometri, compresa la deviazione per evitare il Posto Caldo. Il primo giorno percorremmo circa un quinto della distanza totale. Quella notte ci accampammo in una radura a fianco della strada, e Diane mi venne vicino e mi disse: — Allora?

— «Allora» cosa?

— Ho appena chiamato Atene. Nulla. La Radpol tace. Voglio la tua decisione adesso.

— Sei spaventosamente decisa. Perché non possiamo aspettare ancora un po’?

— Abbiamo già aspettato troppo. Se decidesse di terminare il viaggio prima del previsto? Questo posto è perfetto. È talmente facile che accada qualche incidente… Sai quello che la Radpol dirà: le stesse cose che ha già detto, e significheranno la medesima cosa: Uccidete!

— Anche la mia risposta è la stessa di prima: No.

Sbatté rapidamente le palpebre e abbassò la testa.

— Per favore ripensaci.

— No.

— Allora fai almeno questo: dimenticati di tutta la faccenda. Lavatene le mani. Accetta l’offerta di Lorel e procuraci un’altra guida. Puoi far tutto e andartene via in mattinata.

— No.

— Allora vuoi proteggere Myshtigo sul serio?

— Sì.

— Non voglio vederti ferito, o peggio.

— Nemmeno io godo troppo all’idea. Puoi risparmiare un mucchio di guai a tutti e due annullando l’ordine.

— Non posso farlo.

— Dos Santos fa quello che gli dici.

— Non è un problema d’ordine amministrativo! Maledizione! Vorrei non averti mai incontrato!

— Mi spiace.

— È in gioco la Terra, e tu stai dalla parte sbagliata.

— Io credo che ci stia tu.

— Cosa intendi fare?

— Non posso convincerti, dunque non mi resta altro che fermarti.

— Non puoi far sparire il Segretario della Radpol e sua moglie senza far nascere un incidente. Siamo figure politiche troppo note.

— Questo lo so.

— Sicché non puoi fare niente a Don, e non credo che faresti qualcosa a me.

— Hai ragione.

— Resta Hasan.

— Hai ancora ragione.

— E Hasan è… Hasan. Cosa farai?

— Perché non gli dai il foglio di congedo e mi risparmi un mucchio di guai?

— Non lo farò.

— Non che lo credessi.

Tornò a guardarmi. I suoi occhi erano umidi, ma il viso e la voce non erano cambiati.

— Se ci accorgessimo che tu avevi ragione e noi torto — disse, — mi spiacerebbe.

— Anche a me — dissi. — Molto, molto.


Quella notte m’appostai ad un tiro di coltello da Myshtigo, ma non accadde nulla. Il mattino seguente fu privo d’eventi, come quasi tutto il pomeriggio.

— Myshtigo — dissi, quando ci fermammo per fotografare una collina — perché non se ne torna a casa? Perché non torna a Taler? Perché non torna da qualsiasi parte? Perché non se ne va? Perché non scrive qualche altro libro? Più ci allontaniamo dalla civiltà, più debole diventa il mio potere di protezione.

— Mi ha dato un’automatica, si ricorda? — replicò.

Finse di schiacciare un grilletto con la destra.

— D’accordo. Pensavo solo di dover fare un ultimo tentativo.

— È una capra quella che se ne sta sul ramo più basso di quell’albero, non è vero?

— Già. Sono matte per quei piccoli frutti verdi che pendono dai rami.

— Voglio una foto anche di quello. È un olivo, no?

— Sì.

— Bene. Volevo sapere come intitolare la fotografia. «Capra che mangia frutti verdi su un olivo» — dettò. — Questa sarà la didascalia.

— Perfetto. Faccia la foto intanto che può.

Se soltanto non fosse stato così privo di comunicativa, così estraneo, così incurante del proprio benessere! Lo odiavo. Non riuscivo a capirlo. Non parlava, a meno che si trattasse di chiedere informazioni o di rispondere a una domanda. E quando rispondeva a una domanda, era compito, elusivo, beffardo, o tutte e tre le cose assieme. Era presuntuoso, affettato, blu, e insopportabile. Mi faceva pensare a tutta quanta la gens degli Shtigo, con la loro filosofia, filantropia, e abilità giornalistica Non mi piaceva, semplicemente.

Ma parlai con Hasan quella sera, dopo avergli tenuto addosso un occhio (quello blu) per tutto il giorno.

Stava seduto accanto al fuoco, e sembrava una figura di Delacroix. Ellen e Dos Santos erano seduti lì vicino, a bere caffè. Rispolverai il mio arabo e m’avvicinai.

— Salve.

— Salve.

— Oggi non hai tentato d’ucciderlo.

— No.

— Domani, forse?

Scrollò le spalle.

— Hasan. Guardami.

Mi guardò.

— T’hanno pagato per uccidere l’amico blu.

Scrollò di nuovo le spalle.

— Non c’è bisogno che tu neghi, o ammetta. Lo so già. Non posso permetterti di farlo. Rendi a Dos Santos il denaro che hai ricevuto, e riprendi la tua strada. Posso procurarti una Lancia per domattina. Ti porterà in qualunque posto tu voglia andare.

— Ma io sono felice qui, Karagee.

— Smetterai subito di essere felice se succede qualcosa al blu.

— Io sono una guardia del corpo, Karagee.

— No, Hasan. Tu sei figlio d’un cammello dispeptico.

— Cos’è un «dispeptico», Karagee?

— Non conosco la parola araba, e tu non capiresti quella greca. Aspetta, troverò un altro insulto. Sei un codardo e un mangiacarogne e un imboscato, perché sei mezzo sciacallo e mezzo scimmia.

— Potrebbe essere vero, Karagee, perché mio padre m’ha detto che sono nato per essere scorticato vivo e fatto a pezzi.

— Perché mai?

— Perché ho mancato di rispetto al Demonio.

— Oh?

— Sì. Erano demoni quelli per cui hai suonato ieri? Avevano le corna, gli zoccoli…

— No, non erano demoni. Erano i figli nati-Caldi di genitori sfortunati che li hanno lasciati a morire nella natura selvaggia. Ma sono sopravvissuti, perché la natura è la loro vera casa.

— Ah! E io avevo sperato che fossero demoni. Ma penso ancora che lo fossero, perché uno di loro m’ha guardato mentre li pregavo per ottenere il perdono.

— Il perdono? Di cosa?

Uno sguardo distante nacque nei suoi occhi.

— Mio padre era un uomo molto buono e gentile e religioso — disse. — Adorava Malak Tawus, che gli ottusi Sciti chiamano Iblis, o Shaitan, o Satana, ed era sempre devoto ad Hallâj e agli altri dèi Sandjaq. Era molto conosciuto per la sua devozione, per la sua grande bontà.

«Io lo amavo, ma da bambino avevo dentro un diavolo. Ero ateo. Non credevo nel Demonio. Ed ero un bambino malvagio, perché mi procurai un pulcino morto e lo infilzai su un bastone e lo chiamai l’Angelo della Vanità, e lo colpii con pietre e gli strappai le piume. Uno degli altri ragazzi si spaventò e lo raccontò a mio padre. Allora mio padre mi scudisciò per le strade, e mi disse che ero nato per essere scorticato vivo e fatto a pezzi a causa della mia irreligiosità. Mi fece salire sul Monte Sindjar a pregare per ottenere il perdono, e io andai; ma il diavolo era ancora dentro di me, nonostante le scudisciate, e non credevo alle preghiere che recitavo.

«Adesso che sono più vecchio il diavolo è sparito, ma anche mio padre se n’è andato molti anni fa, e non posso dirgli: mi spiace d’aver deriso l’Angelo della Vanità. Invecchiando sento il bisogno della religione. Spero che il Diavolo, nella sua grande saggezza e misericordia, mi capisca e mi perdoni».

— Hasan, è difficile insultarti per bene — dissi. — Ma ti avviso: il blu non deve essere toccato.

— Sono solo un’umile guardia del corpo.

— Ah! Tu sei strisciante e velenoso come un serpente. Sei falso e traditore. E anche maligno.

— No, Karagee. Grazie, ma non è vero. Mi faccio un punto d’orgoglio di eseguire gli incarichi che mi sono affidati. Questo è tutto. Questa è la legge per cui vivo. E poi è inutile che tu cerchi d’insultarmi perché ti sfidi a duello, lasciando a te la scelta delle armi: mani nude o pugnali o sciabole. No. Non mi sento offeso.

— Allora attento — l’avvisai. — La tua prima mossa contro il vegano sarà anche l’ultima.

— Se così sta scritto, Karagee…

— E chiamami Conrad!

Mi allontanai, pensando pensieri cattivi.


Il giorno dopo, visto che eravamo ancora tutti vivi, levammo il campo e ci muovemmo, macinando circa otto chilometri prima dell’interruzione seguente.

— Sembra il pianto d’un bambino — disse Phil.

— Hai ragione.

— Da dove viene?

— Dalla sinistra, laggiù.

Attraversammo alcuni cespugli, giungemmo ad un corso d’acqua in secca, lo seguimmo attorno a una svolta.

Il bambino giaceva tra le rocce, mezzo avvolto in una coperta lurida. Il viso e le mani erano già bruciati dal sole, e dunque doveva trovarsi lì almeno dal giorno prima. Sul piccolo volto bagnato aveva i segni delle punture di diversi insetti.

M’inginocchiai, sistemando la coperta in modo che lo coprisse meglio.

Ellen gettò un piccolo urlo quando la coperta si aprì sul davanti e lasciò vedere il petto del bambino: c’era una fistola, e qualcosa si muoveva nel suo interno.

Parrucca Rossa gridò, si girò, e cominciò a piangere.

— Che cos’è? — chiese Myshtigo.

— Uno degli abbandonati — dissi. — Uno dei marchiati.

— È spaventoso! — esclamò Parrucca Rossa.

— Il suo aspetto? O il fatto che l’abbiano abbandonato? — chiesi.

— Tutte e due le cose!

— Datelo a me — disse Ellen.

— Non toccatelo — avvertì George, chinandosi. — Chiamate una Lancia — ordinò. — Dobbiamo portarlo subito in un ospedale. Qui non ho gli strumenti per operare. Ellen, aiutami.

Lei gli andò a fianco, e si dettero da fare entrambi con la cassetta del pronto soccorso.

— Scrivi quello che faccio e attacca il foglio su una coperta pulita. Così i medici d’Atene saranno subito informati.

Dos Santos stava già telefonando a Lamia, per far arrivare una delle nostre Lance.

E poi Ellen preparava iniezioni per George e disinfettava le ferite e spalmava pomate sulle bruciature e scriveva tutto. Riempirono il bambino di vitamine, antibiotici, reattivi generici, e un’altra mezza dozzina di cose. Dopo un po’ persi il conto. Gli fasciarono il petto con della garza, lo spruzzarono di qualcosa, lo avvolsero in una coperta pulita, e ci attaccarono il foglio con le annotazioni.

— Che cosa spaventosa! — disse Dos Santos. — Abbandonare un figlio deforme, lasciarlo morire in quel modo!

— Qui lo fanno piuttosto spesso — gli spiegai, — specialmente attorno ai Posti Caldi. In Grecia è sempre esistita una certa tendenza all’infanticidio. Io stesso sono rimasto esposto sulla cima d’una collina il giorno che nacqui. E ci ho passato anche la notte.

Stava accendendosi una sigaretta, ma si fermò a fissarmi.

— Tu? Perché?

Risi, e lanciai un’occhiata ai miei piedi.

— È una storia complicata. Porto uno stivale speciale perché questa gamba è più corta dell’altra. E inoltre, mi dicono che come infante fossi piuttosto peloso; e poi ho gli occhi scompagnati. Immagino che avrei anche potuto farcela se questo fosse stato tutto, ma sono nato il giorno di Natale, e ciò confermava un po’ tutti gli altri fattori.

— Cosa c’è che non va a nascere di Natale?

— Gli dèi, secondo le credenze locali, lo ritengono un gesto un tantino presuntuoso. Per queste ragioni i bambini che nascono a Natale non sono di sangue umano. Sono della razza dei distruttori, dei provocatori di disgrazie, terrorizzano gli uomini. Li chiamano Kallikanzaroi. Teoricamente, dovrebbero avere lo stesso aspetto di quei tipi con corna e zoccoli, ma non è necessario. Possono anche avere il mio aspetto, decisero i miei genitori, ammesso che lo fossero. E così m’hanno piantato sulla cima d’una collina, per essere rispedito indietro.

— E poi cos’è successo?

— C’era un vecchio prete ortodosso nel villaggio. Gli giunse notizia della cosa, e andò a parlare con loro. Gli disse che era un peccato mortale compiere un’azione de! genere, e che avrebbero fatto meglio a riprendersi il bambino, in fretta, e portarlo a battezzare il giorno dopo.

— Ah! E così sei stato salvato e battezzato?

— Be’, più o meno. — Presi una delle sue sigarette. — Tornarono indietro con me, d’accordo, ma insistettero a dire che non ero lo stesso bambino che avevano abbandonato. Avevano lasciato giù un ambiguo mutante e si ritrovarono un sostituto ancor più ambiguo, dissero. Il primo era anche più brutto, affermavano: era un satiro. S’immaginarono che qualche creatura Calda avesse avuto un figlio semi-umano e l’avesse abbandonato come loro, facendo un cambio, per così dire. Nessun altro m’aveva visto prima, sicché non fu possibile controllare la loro storia. Comunque il prete non volle nemmeno sentirne parlare, e disse loro che dovevano tenermi. D’altronde si dimostrarono molto gentili, una volta accettata la situazione. Più crescevo e più diventavo grosso, ed ero molto forte per la mia età. Questo a loro faceva piacere.

— E sei stato battezzato…

— Be’, ho avuto un mezzo battesimo.

— Mezzo battesimo?

— Al prete venne un colpo mentre mi bagnava. Morì poco dopo. Era l’unico disponibile nei dintorni, così non so se la cerimonia fu eseguita alla perfezione.

— Una sola goccia dovrebbe essere sufficiente.

— Immagino di sì. Ma non so che cosa accadde con esattezza.

— Forse sarebbe meglio che tu lo rifacessi. Tanto per essere sicuro.

— No. Se il cielo non mi ha voluto allora, non ho intenzione di presentare un’altra domanda.

Approntammo un segnale luminoso nella radura vicina, e aspettammo la Lancia.


Facemmo un’altra dozzina circa di chilometri quel giorno: una bella andatura, considerata la sosta. Il bambino era stato raccolto e portato direttamente ad Atene. Quando la Lancia era atterrata, avevo chiesto a voce alta se qualcun altro desiderava un biglietto di ritorno. Non c’erano stati acquirenti, comunque.

E fu quella sera che successe.

Ci coricammo attorno a un fuoco. Oh, era un fuoco straordinario, che sbatteva le sue ali splendenti contro la notte, ci riscaldava, sapeva di legna, faceva salire nell’aria una traccia di fumo… Delizioso.

Hasan stava ripulendo il suo fucile da caccia col tamburo d’alluminio. Aveva il calcio di plastica, ed era davvero leggero e maneggevole.

Mentre lui ci lavorava attorno, quello si spinse in avanti, si mosse in circolo, e si puntò diritto contro Myshtigo.

L’aveva fatto con molta abilità, devo ammetterlo. Ci impiegò più di mezz’ora, e fece avanzare la canna con movimenti praticamente impercettibili.

Ringhiai quando la sua posizione si registrò nel mio cervello, e con tre passi gli fui a fianco.

Colpii la canna, strappandoglielo di mano.

Andò a finire contro una piccola roccia distante qualche metro.

La mano mi bruciava per la botta.

Hasan era in piedi, coi denti che andavano avanti e indietro sotto la barba, strusciandosi come pietre focaie. Potevo quasi vedere le scintille.

— E dillo! — urlai. — Avanti, dì qualcosa! Qualsiasi cosa! Sai maledettamente bene cosa stavi per fare!

Le sue mani si tesero.

— Avanti! — dissi. — Colpiscimi! Toccami! Poi tutto quello che farò sarà un’auto-difesa, un attacco provocato. Nemmeno George sarà capace di rimetterti assieme.

— Stavo solo pulendo il mio fucile. Me l’hai rovinato.

— Tu non punti le armi per caso. Stavi per uccidere Myshtigo.

— Ti sbagli.

— Colpiscimi. O sei un codardo?

— Non ho rancori con te.

— Allora sei un codardo.

— No, non lo sono.

Dopo qualche secondo sorrise.

— Hai paura di sfidarmi? — chiese.

E così eccoci arrivati. Era l’unico modo.

La mossa doveva essere mia. Avevo sperato che non dovesse andare così. Avevo sperato di poterlo spaventare o insultare o spingerlo a provocarmi o sfidarmi.

Ma ormai sapevo di non potere.

Ed era male, molto male.

Ero sicuro di poterlo fregare, se la scelta fosse toccata a me. Ma se toccava a lui, le cose erano diverse. Tutti sanno che certe persone hanno un’inclinazione particolare per la musica. Possono sentire una sola volta un pezzo e suonarlo immediatamente dopo al piano o all’arpa. Possono trovarsi di fronte ad un nuovo strumento, ed entro poche ore lo suonano come se non avessero fatto altro per anni. Sono abili, molto abili, in cose del genere, perché hanno talento: la capacità di coordinare un’abilità innata con una serie di nuove azioni.

Per Hasan era lo stesso con le armi. Forse anche altra gente può riuscirci, ma non va in giro a farlo; non per decenni e decenni, comunque, con gingilli che vanno dal boomerang ad ogni tipo di pistola. Il codice di duello avrebbe lasciato ad Hasan la scelta degli strumenti e lui era il killer più maledettamente abile che avessi mai conosciuto.

Ma dovevo fermarlo, e ormai capivo che quella era l’unica via che mi restava, a parte un assassinio bell’e buono. Dovevo scendere sul suo terreno.

— Amen — dissi, — ti sfido a duello.

Il suo sorriso rimase, crebbe.

— Accetto, davanti a questi testimoni. Chiama il tuo secondo.

— Phil Graver. Chiama il tuo.

— Mister Dos Santos.

— Molto bene. Si dà il caso che io abbia un permesso di duello in borsa, e ho già pagato la tassa sulla morte per una persona. Così non saranno necessari troppi ritardi. Quando, dove, e come?

— Abbiamo oltrepassato una buona radura circa un chilometro fa, ai margini della strada.

— Sì. La ricordo.

— C’incontreremo lì, domani all’alba.

— D’accordo — dissi. — E per le armi…?

Raccolse la sua borsa e l’apri. L’interno risplendeva d’interessanti aggeggi appuntiti, scintillava di bombe incendiarie ovoidali, traboccava di strumenti ricurvi in metallo e cuoio.

Lui tirò fuori due armi e richiuse il tutto.

Il cuore mi sprofondò.

— La fionda di Davide — annunciò.

Le osservai.

— A che distanza?

— Cinquanta metri.

— Hai fatto una buona scelta — gli confidai, visto che non ne usavo una da un secolo. — Mi piacerebbe prenderne una per stanotte, per allenarmi. Se non vuoi darmi le tue, posso procurarmela da me.

— Prendi pure quella che vuoi, e tienila tutta la notte.

— Grazie. — Ne scelsi una e me l’appesi alla cintura. Poi raccolsi una delle nostre tre lanterne elettriche. — Se qualcuno ha bisogno di me, mi trova nella radura — dissi. — Non dimenticate di mettere le guardie. Questa è una zona pericolosa.

— Vuoi che venga con te? — chiese Phil.

— No. Comunque grazie. Andrò da solo. Arrivederci.

— Allora buonanotte.


Trotterellai indietro lungo la strada, giungendo infine alla radura. Deposi la lanterna in un angolo, in modo che riflettesse la luce su un gruppo d’alberelli, e mi portai sul lato opposto.

Raccolsi qualche pietra e ne tirai una ad un albero. Lo sbagliai. Nei tirai un’altra dozzina, facendo quattro centri. Continuai a provare. Dopo un’ora facevo centro con maggiore regolarità. Ma probabilmente non ero ancora in grado di battere Hasan a cinquanta metri di distanza.

La notte proseguiva il suo cammino, e io lanciavo pietre. Dopo un po’ raggiunsi quello che sembrava essere il mio massimo grado di precisione. Su undici colpi, circa sei raggiungevano il bersaglio. Ma c’era un punto a mio favore, capii, mentre ruotavo la fionda e mandavo un’altra pietra a frantumarsi contro un albero. I miei colpi erano pieni di forza. Ogni volta che colpivo il bersaglio, lasciavo il segno. Avevo già rovinato parecchi alberelli, ed ero sicuro che Hasan non sarebbe riuscito a fare altrettanto nemmeno con un numero doppio di tiri. Se riuscivo a colpirlo, tutto bene; ma la più grande forza di questo mondo non mi sarebbe servita a nulla se non lo prendevo.

Ed ero sicuro che lui sarebbe riuscito a colpirmi. Mi chiedevo quanti colpi potevo assorbire senza dover smettere. Tutto dipendeva da dove mi colpiva.

Lasciai cadere la fionda ed estrassi l’automatica dalla cintura quando sentii un ramo spezzarsi, sulla mia destra. Hasan apparve nella radura.

— Che cosa vuoi? — gli chiesi.

— Sono venuto a vedere come va l’allenamento — disse, osservando gli alberelli spezzati.

Scrollai le spalle, rimisi a posto l’automatica e raccolsi la fionda.

— Aspetta l’alba e lo saprai.

Attraversammo la radura, e raccolsi la lanterna. Hasan studiò un alberello ridotto in pezzi piccoli quasi come stuzzicadenti. Non disse nulla.

Ritornammo al campo. Tutti s’erano ritirati, tranne Dos Santos. Don era di guardia. Fucile automatico alla mano, faceva la ronda attorno al perimetro di sicurezza. Lo salutammo ed entrammo nell’accampamento.

Hasan piantava sempre una Gauzy: una tenda a strati uni-molecolari, opaca, colore del cuoio, e molto robusta. Però non ci dormiva mai dentro. La usava per tenere al sicuro la sua roba.

Mi sedetti su un tronco dinanzi al fuoco, e Hasan s’infilò nella Gauzy. Ne riemerse un minuto dopo con la pipa e un blocchetto di roba dura dall’aspetto resinoso, che procedette a spezzare e ridurre in polvere. La mischiò con un pizzico di tabacco, e poi ne riempi la pipa. Dopo averla accesa con un tizzone raccolto dal fuoco, si sedette a fumare al mio fianco.

— Non voglio ucciderti, Karagee — disse.

— Condivido questo sentimento. Non voglio essere ucciso.

— Ma domani dovremo combattere.

— Sì.

— Potresti ritirare la sfida.

— Potresti andartene in Lancia.

— Non lo farò.

— E io non ritirerò la sfida.

— È brutto — disse, dopo un po’. — Brutto che due come noi debbano combattere per il blu. Non vale la tua vita, e nemmeno la mia.

— Vero — assentii, — ma la cosa non riguarda solo la sua vita. Il futuro della Terra è in qualche modo legato a quello che lui sta facendo.

— Non so nulla di cose del genere, Karagee. Io combatto per denaro. Non ho altri motivi.

— Sì, lo so.

Il fuoco s’era abbassato. Misi altra legna.

— Ti ricordi quella volta che abbiamo bombardato la Costa d’Oro, in Francia? — chiese.

— Ricordo.

— Oltre ai blu, abbiamo ucciso anche molta gente.

— Sì.

— E il futuro del pianeta non ne è stato cambiato, Karagee. Perché adesso siamo qui, a tanti anni di distanza da quel tempo, e nulla è diverso.

— Lo so.

— E ti ricordi quel giorno che ci siamo infilati in un buco sul fianco d’una collina che dominava dall’alto la baia del Pireo? A volte tu mi reggevi il caricatore e io sparavo sulle navi, e quando mi stancavo manovravi tu la mitragliatrice. Avevamo molte munizioni. Quel giorno la Guardia dell’Ufficio non atterrò, e nemmeno il giorno dopo. Non occuparono Atene, e non distrassero la Radpol. E intanto parlammo, quei due giorni e quella notte, mentre aspettavamo la sfera di fuoco, e tu mi dicesti della Forza nel Cielo.

— Ho dimenticato…

— Io no. Mi dicesti che ci sono uomini come noi che vivono in cielo, tra le stelle. E ci sono anche i blu. Alcuni uomini, dicesti, cercano i favori dei blu, e sarebbero disposti a vendergli la Terra per vederla trasformata in un museo. Altri, dicesti, non vogliono, e desiderano che la Terra rimanga com’è adesso: di loro proprietà, sotto la direzione dell’Ufficio. I blu si trovavano divisi su questa faccenda, perché non erano sicuri se fosse legale ed etico fare una cosa del genere. Ci fu un compromesso, e i blu ottennero certe aree vuote su cui costruirono le loro proprietà, ed ebbero il permesso di visitare il resto della Terra. Ma tu volevi che la Terra appartenesse solo alla gente. Dicevi che se davamo qualcosa ai blu, poi avrebbero voluto tutto. Volevi che gli uomini delle stelle tornassero indietro a ricostruire le città, seppellire i Posti Caldi, uccidere le bestie che assaltano gli uomini.

«Mentre stavamo lì ad aspettare la sfera di fuoco, dicesti che eravamo in guerra, non a causa di qualcosa che potessimo vedere o sentire o provare o fiutare, ma per colpa della Forza nel Cielo, che non ci aveva mai visti, e che noi non avremmo mai vista. Era stata la Forza nel Cielo a fare tutto, e per questo gli uomini sulla Terra dovevano morire. Dicesti che con la morte dei blu e della gente la Forza sarebbe tornata sulla Terra. Ma non c’è mai stato un ritorno. C’è stata solo morte.

«E fu la Forza nel Cielo che alla fine ci salvò, perché dovettero consultarla prima di lanciare la sfera di fuoco sopra Atene. Ed essa ricordò loro una vecchia legge, fatta dopo i Tre Giorni, che diceva che la sfera di fuoco non doveva bruciare mai più nei cieli della Terra. Tu pensavi che l’avrebbero lanciata ugualmente, ma non lo fecero. Fu per questo che li fermammo al Pireo. Io ho bruciato il Madagascar per te, Karagee, ma la Forza non è mai tornata sulla Terra. E quando la gente ha abbastanza soldi se ne va di qui, e non torna mai indietro. Nulla di quello che abbiamo fatto in quei giorni ha provocato un cambiamento».

— Ma proprio per quello che abbiamo fatto le cose sono rimaste com’erano, invece di peggiorare — gli feci notare.

— Cosa accadrà se questo blu muore?

— Non lo so. Le cose potrebbero peggiorare. Certo se lui sta osservando i luoghi che visitiamo solo con l’idea di trasformarli in tanti possedimenti per i vegani, allora siamo di nuovo da capo.

— E la Radpol combatterà di nuovo, li bombarderà?

— Penso di sì.

— Allora uccidiamolo adesso, prima che proceda, che veda di più.

— Forse non è così semplice; e poi dovrebbero solo mandarne un altro. Ci sarebbero delle ripercussioni: forse arresti in massa tra i membri della Radpol. La Radpol non è più sul chi vive come ai vecchi giorni. La gente non è pronta. Ha bisogno di tempo per prepararsi. Questo blu, per lo meno, lo tengo in mano. Posso osservarlo, scoprire i suoi piani. Se diventasse necessario, posso ucciderlo io stesso.

Hasan succhiava sempre la sua pipa. Annusai. Sentii un profumo come di legno di sandalo.

— Cosa stai fumando?

— Viene dalle mie parti. Ci ho fatto un salto recentemente. È una delle nuove piante che prima non crescevano. Provala.

Aspirai diverse boccate nei polmoni. Dapprima non successe nulla. Continuai a tirare, e dopo un minuto una progressiva sensazione di calma e tranquillità cominciò a penetrare nelle mie membra. Aveva un sapore amaro, ma rilassava. Gli restituii la pipa. La sensazione rimase, divenne più forte. Era molto piacevole. Non mi sentivo tanto calmo, tanto rilassato da diverse settimane. Il fuoco, le ombre, e il terreno attorno a noi divennero d’improvviso più reali, e l’aria della notte e la luna distante e il rumore dei passi di Dos Santos mi giungevano più chiaramente della vita stessa. Sul serio. La nostra battaglia sembrava così ridicola! Alla fine avremmo perso. Stava scritto che l’umanità fosse destinata a fare da cane e gatto e scimpanzé ammaestrati per l’unica vera razza, i vegani; e da un certo punto di vista non era poi un’idea tanto cattiva. Forse avevamo bisogno di qualcuno più saggio che ci sorvegliasse, che dirigesse le nostre vite. Avevamo fatto strage del nostro pianeta durante i Tre Giorni, e i vegani non avevano mai avuto una guerra atomica. Reggevano un governo interstellare perfettamente efficiente, controllando dozzine di pianeti. Tutto quello che facevano era esteticamente piacevole. Le loro stesse vite erano meccanismi ben regolati, allegri. Perché non lasciargli la Terra? Probabilmente se ne sarebbero serviti meglio di quanto avessimo fatto noi. E perché non essere i loro cuccioletti, anche? Non sarebbe stata una brutta vita. Dargli questa vecchia palla di fango, piena di piaghe radioattive e popolata da esseri menomati e deformi.

Perché no?

Accettai di nuovo la pipa e inalai altra pace. Era così piacevole non pensare per niente a cose del genere, comunque! Non pensare a nulla per cui non si potesse fare niente. Era abbastanza stare lì seduto e respirare l’aria notturna ed essere tutt’uno col fuoco e col vento. L’universo stava cantando il suo inno di cosmica unione. Perché aprire il vaso del caos proprio nella cattedrale?

Ma io avevo perso la mia Cassandra, la mia nera strega di Kos, per colpa delle forze insensate che governano la Terra e le acque. Nulla poteva uccidere il senso di perdita che provavo. Sembrava nascosto in fondo, isolato dietro pareti di vetro, ma era ancora dentro di me. Nessuna pipa orientale avrebbe potuto placarlo. Non volevo conoscere la pace. Volevo l’odio. Volevo strappare tutte le maschere dell’universo: la terra, l’acqua, il cielo, Taler, il Governo Terrestre, e l’Ufficio, per trovare dietro una di esse la forza che me l’aveva rubata, e combattere anche quella, provare un vero dolore. Non volevo conoscere la pace. Non volevo essere tutt’uno con le cose che avevano fatto del male a lei, che era mia per sangue e per amore. Per cinque minuti buoni desiderai essere nuovamente Karaghiosis, e osservare tutto quello da dietro il mirino d’un fucile.

Oh, Zeus, tu che reggi l’universo, pregai, concedimi di abbattere la Forza nel Cielo!

Tornai nuovamente alla pipa.

— Grazie, Hasan, ma non sono ancora pronto per il mondo dei sogni.

Mi rialzai e mi diressi verso la mia tenda.

— Mi spiace di doverti uccidere domattina — mi gridò dietro lui.


Sorseggiando birra in un rifugio di montagna sul pianeta Divbah, in compagnia d’un informatore vegano di nome Krim (che adesso è morto), avevo guardato attraverso una grande finestra la più alta montagna dell’universo conosciuto. Si chiama Kasla, e non è mai stata scalata. Ne parlo perché la mattina del duello provai l’improvviso rimorso di non aver mai tentato di violarla. È una di quelle cose pazzesche a cui ogni tanto pensate e vi promettete che un giorno o l’altro ci proverete, e poi una mattina vi svegliate e capite che probabilmente è troppo tardi: non lo farete mai.

Quella mattina tutti i visi erano privi d’espressione.

Il mondo attorno a noi era radioso e chiaro e pulito e pieno del canto degli uccelli.

Avevo proibito l’uso della radio per tutta la durata del duello, e Phil si portava nella tasca della giacca qualche filo e qualche valvola che aveva asportato dall’apparecchio, tanto per sicurezza.

Lorel non l’avrebbe saputo. La Radpol non l’avrebbe saputo. Nessuno l’avrebbe saputo, fino a dopo.

Completati i preliminari, misurammo la distanza.

Ci sistemammo ai capi opposti della radura. Io avevo il sole nascente sulla sinistra.

— Siete pronti, gentiluomini? — gridò Dos Santos.

— Sì — e — Sono pronto — furono le risposte.

— Faccio un ultimo tentativo per dissuadervi da questa decisione. Nessuno dei due vuole ripensarci?

— No — e — No.

— Avete entrambi dieci pietre simili in massa e peso. Il primo colpo, naturalmente, spetta allo sfidato: Hasan.

Annuimmo entrambi.

— Allora procediamo.

Don si tirò indietro, e a separarci rimasero solo cinquanta metri d’aria. Eravamo entrambi girati di profilo, per presentare all’avversario la minima superficie. Hasan posò la prima pietra sulla fionda.

Lo osservai farla ruotare rapidamente nell’aria, e d’improvviso il suo braccio si tese in avanti.

Sentii un rumore violento dietro di me.

Non accadde nient’altro.

Aveva sbagliato.

Allora infilai una pietra nella mia fionda e presi a farla ruotare in cerchio. L’aria fischiava mentre la tagliavo. Poi scagliai in avanti il proiettile con tutta la forza del mio braccio destro. Gli sfiorò la spalla sinistra, toccandolo appena. Gli portò via solo un po’ di vestito. La pietra rimbalzò d’albero in albero dietro di lui, prima di sparire definitivamente.

Adesso tutto era tranquillo. Gli uccelli avevano terminato il loro concerto mattutino.

— Gentiluomini — gridò Dos Santos, — avete avuto una possibilità a testa per sistemare le vostre divergenze. Possiamo dire che vi siete affrontati con onore, avete dato sfogo alla vostra ira, e ora vi ritenete soddisfatti. Volete interrompere il duello?

— No — risposi.

Hasan si massaggiò la spalla e scosse la testa.

Infilò la seconda pietra nella fionda, le impresse una rapida rotazione, e me la scagliò contro.

Mi colpì dritto nel fianco, tra la cassa toracica e l’anca. Caddi a terra e tutto diventò scuro.

Un secondo dopo le luci tornarono ad accendersi, ma io ero piegato in due e qualcosa come un migliaio di denti mi mordeva la carne e non mi mollava.

Stavano correndo verso di me, tutti quanti, ma Phil fece loro cenno di tornare indietro.

Hasan era fermo al suo posto.

Dos Santos s’avvicinò.

— È passata? — chiese Phil dolcemente. — Ce la fai a metterti in piedi?

— Sì. Ho bisogno di un minuto per respirare e gettare fuori il fuoco, ma mi tiro su.

— Com’è la situazione? — chiese Dos Santos.

Phil l’informò.

Mi portai le mani al fianco e mi rizzai, lentamente.

Un centimetro più in su o più in giù e m’avrebbe rotto qualche osso. Così, faceva solo un male infernale.

Mi massaggiai, e mossi il braccio destro per vedere come funzionavano i muscoli della zona colpita. Tutto okay.

Poi raccolsi la fionda e infilai una pietra.

Questa volta avrei fatto centro. Lo sentivo.

Girò e girò nell’aria e si lanciò veloce in avanti.

Hasan crollò, afferrandosi la coscia sinistra.

Dos Santos lo raggiunse. Si parlarono.

Il mantello di Hasan aveva smorzato il colpo e lo aveva in parte deviato. La gamba non era spezzata. Avrebbe continuato, non appena fosse stato in grado di reggersi nuovamente in piedi.

Per cinque minuti si massaggiò la coscia, poi si rialzò. Intanto il dolore che sentivo s’era trasformato in una pulsazione sorda.

Hasan scelse la sua terza pietra.

L’infilò lentamente; con cura…

Prese la mira. Poi perforò l’aria con la fionda…

E intanto avevo la netta sensazione, che continuava a crescermi in mente, di dovermi chinare un pochino di più a destra. Così mi spostai.

Hasan fece fare l’ultimo giro e scagliò il proiettile.

Mi graffiò sul fungo e mi lacerò l’orecchio sinistro.

D’improvviso mi trovai con la guancia bagnata.

Ellen gridò, brevemente.

Un pochino più a sinistra, comunque, e non sarei stato lì a sentirla.

Toccava di nuovo a me.

Dura, grigia, la pietra sapeva di morte…

Sarò io, sembrava dire.

Era una di quelle sensazioni premonitorie per cui io ho il massimo rispetto.

Mi detersi il sangue dalla guancia. Infilai la pietra.

Sul mio braccio destro, mentre lo alzavo, cavalcava la morte. Anche Hasan lo sentiva, perché sobbalzò. Potevo accorgermene nonostante la distanza che ci separava.

— Rimanete esattamente dove vi trovate, e abbassate le armi — disse la voce.

Lo disse in greco, sicché solo Phil e Hasan ed io capimmo, di certo. Forse anche Dos Santos e Parrucca Rossa. Non ne sono ancora sicuro.

Ma tutti noi capimmo il fucile automatico che l’uomo reggeva, e le spade e clave e coltelli delle tre dozzine circa di uomini e semi-uomini che gli stavano dietro.

Erano Kouretes.

I Kouretes sono una brutta faccenda.

Riescono sempre ad avere la loro razione di carne.

Arrostita, di solito.

Ma anche fritta, ogni tanto.

O bollita, o cruda…

L’unica arma da fuoco sembrava in possesso del tipo che aveva parlato. E io avevo una manciata di morte che mi ruotava velocemente sopra le spalle. Decisi di fargli un regalino.

La sua testa esplose quando scagliai la pietra.

— Uccideteli! — gridai, e cominciammo a darci da fare.

George e Diane furono i primi ad aprire il fuoco. Poi Phil trovò una pistola. Dos Santos corse verso il suo zaino. Anche Ellen arrivò lì di corsa.

Hasan non aveva aspettato il mio ordine per cominciare ad uccidere. Le uniche armi che lui ed io avevamo erano le fionde. Ma i Kouretes erano più vicini di cinquanta metri, e inoltre erano una formazione massiccia. Riuscì a farne cadere due con un paio di colpi ben piazzati, prima che ci volassero addosso. E anch’io ne beccai un altro.

Poi furono a metà della radura, calpestando i corpi di quelli che erano morti o caduti, urlando mentre ci arrivavano sopra.

Come ho detto, non erano tutti umani: ce n’era uno alto e magro con un paio d’ali da un metro coperte di piaghe, e c’erano due microcefali con tanti capelli da sembrare senza testa, e c’era un tipo che probabilmente era una coppia di gemelli siamesi, e c’erano parecchi steatopigi, e tre mostruosi bruti giganteschi che continuavano ad avanzare nonostante le pallottole che gli si erano infilate nel petto e nell’addome; uno dei tre aveva mani che dovevano essere lunghe una cinquantina di centimetri e larghe una trentina, e un altro sembrava afflitto da qualcosa di simile all’elefantiasi. Per il resto, alcuni erano ragionevolmente umani in quanto a forma, ma parevano tutti feroci e rabbiosi, e indossavano degli stracci oppure erano nudi del tutto e non erano rasati, e per di più puzzavano.

Scagliai un’altra pietra e non ebbi nemmeno la possibilità di vedere dov’era finita, perché ormai m’erano addosso.

Cominciai a sferrare calci, a darmi da fare con piedi, dita, gomiti; non mi comportai troppo da gentiluomo. Il fuoco delle armi rallentò, s’interruppe. Ogni tanto bisognava fermarsi per ricaricare, e a volte si bloccavano anche. Il dolore al fianco era insopportabile. Eppure riuscii ancora a farne volar giù tre, prima che qualcosa di grosso e pesante mi colpisse in testa. Caddi a terra come solo un morto può cadere.


Trovarsi in un posto tanto caldo da soffocare…

Trovarsi in un posto tanto caldo da soffocare, che puzza come una stalla…

Trovarsi in un posto scuro e tanto caldo da soffocare, che puzza come una stalla…

… Non è proprio l’ideale per raggiungere la pace dello spirito, o rimettersi a posto lo stomaco, o riprendere le attività sensorie in modo decente ed accettabile.

C’era una puzza e un caldo bestiale, e io non avevo troppa voglia d’osservare da vicino il pavimento lurido; è solo che mi trovavo in una posizione maledettamente buona per farlo.

Grugnii, feci un censimento delle mie ossa, e mi misi a sedere. Il soffitto era basso, e s’abbassava ancora di più prima d’arrivare al punto d’incontro col muro posteriore. L’unica finestra che dava sull’esterno era piccola e sbarrata.

Ci trovavamo nel retro d’una baracca di legno. C’era un’altra finestra sbarrata sul muro opposto. Ma non guardava fuori; guardava dentro. Aldilà d’essa si trovava una stanza più grande, e George e Dos Santos erano lì a parlare attraverso la finestra con qualcun altro che si trovava dall’altra parte. Hasan giaceva svenuto o morto a qualche metro da me; aveva un po’ di sangue secco sulla testa. Phil e Myshtigo e le ragazze parlavano piano, nell’angolo opposto a dove mi trovavo io.

Mi massaggiai le tempie, mentre la scena mi s’imprimeva nel cervello. Il fianco sinistro mi faceva un male terribile, e diverse altre parti del mio corpo avevano deciso d’unirsi al gioco.

— S’è svegliato — disse improvvisamente Myshtigo.

— Salute a tutti. Eccomi qua — feci.

Mi vennero vicini, e io assunsi la posizione eretta. Era una spacconata bell’e buona, ma ci riuscii.

— Siamo prigionieri — asserì Myshtigo.

— Oh, ma guarda! Davvero? Non l’avrei mai immaginato.

— Cose del genere non accadono su Taler — osservò, — e su nessun altro dei mondi dell’Impero vegano.

— Peccato che lei non ci sia rimasto — dissi. — Non dimentichi quante volte le ho chiesto di tornare indietro.

— Non sarebbe successo se non fosse stato per il suo duello.

Allora gli diedi uno schiaffo. Non mi fu possibile farlo a pezzi: era troppo patetico. Lo colpii col dorso della mano e lo mandai a sbattere contro il muro.

— Sta cercando di dirmi che non sa perché stamattina ho fatto da bersaglio vivente?

— Perché ha litigato con la mia guardia del corpo — dichiarò, massaggiandosi la guancia.

— Per stabilire se l’avrebbe uccisa o no.

— Me? Uccidermi…?

— Se lo dimentichi — dissi. — Ormai non ha nessuna importanza. Non adesso. Faccia finta di essere ancora su Taler, e ci resti per tutte queste sue ultime ore. Sarebbe stato bello se lei avesse potuto venire sulla Terra a fare un giro turistico assieme a noi. Ma non è andata così.

— Moriremo qui, non è vero? — chiese.

— Questione di tradizioni locali.

Mi girai a studiare l’uomo che mi stava osservando dall’altra parte delle sbarre. Hasan stava appoggiato contro il muro, e si massaggiava la testa. Non m’ero accorto che si fosse tirato su.

— Buon pomeriggio — disse l’uomo dietro le sbarre, e lo disse in inglese.

— È pomeriggio? — chiesi.

— Certamente — replicò.

— Perché non siamo morti? — gli domandai.

— Perché vi volevo vivi — spiegò. — Oh, non lei personalmente, Conrad Nomikos, Commissario delle Arti, Monumenti e Archivi, e nemmeno i suoi celebri amici, compreso il poeta laureato. Volevo solo che mi portassero indietro vivo qualunque prigioniero avessero fatto. Le vostre identità sono, se così vogliamo dire, un condimento.

— A chi ho il piacere di parlare? — chiesi.

— È il Dottor Moreby — disse George.

— È il loro stregone — intervenne Dos Santos.

— Preferisco «Sciamano» o «Gran Dottore» — corresse Moreby, sorridendo.

Mi avvicinai maggiormente alle sbarre e vidi che era piuttosto magro, ben abbronzato, rasato, e tutti i suoi capelli erano pettinati in una enorme treccia nera attorcigliata come un cobra intorno alla testa. Aveva occhi neri profondamente incassati, una fronte alta, e una mascella che scendeva fin oltre il suo pomo d’Adamo. Indossava sandali intrecciati, un sari verde pulitissimo, e una collana di dita umane rinsecchite. Dagli orecchi gli pendevano grandi orecchini d’argento a forma di serpente.

— Il suo inglese è piuttosto corretto — dissi, — e Moreby non è un nome greco.

— Oh, mio dio! — Gesticolò con grazia, in segno di ironica sorpresa. — Non sono un indigeno! Come ha potuto confondermi con un indigeno?

— Spiacente — dissi; — adesso vedo che lei è troppo ben vestito.

Ridacchiò.

— Oh, questo vecchio straccio… Me lo sono solo buttato addosso. No, vengo da Taler. Lessi certi interessanti libri sul Ritornismo, e decisi di tornare per dare una mano alla ricostruzione della Terra.

— Oh? E poi cos’è successo?

— In quel periodo l’Ufficio non assumeva nessuno, ed ebbi una certa difficoltà a trovare un impiego da queste parti. Così decisi di buttarmi in un lavoro di ricerca. Questi posti offrono infinite possibilità.

— Che specie di ricerche?

— Ho preso due lauree in antropologia culturale, a Nuova Harvard. Decisi di studiare a fondo una tribù Calda, e dopo un po’ di cerimonie riuscii a farmi accettare da questa. Cominciai anche ad educarli. Ben presto presero tutti a mostrarmi una estrema deferenza: una cosa eccitante per il mio ego. Dopo un po’ i miei studi, il mio lavoro sociale, persero sempre più importanza. Be’, immagino che lei abbia letto Il Cuore dell’Oscurità; sa cosa voglio dire. Le pratiche locali sono talmente… basilari. Trovai che era molto più stimolante parteciparvi anziché osservarle. Mi assunsi il compito di rimodellare le loro pratiche grossolane secondo criteri estetici più accettabili. Sicché li ho educati veramente, dopo tutto. Fanno le cose con molto più stile da che io sono arrivato qui.

Cose? Per esempio?

— Be’, tanto per dirne una, prima erano dei semplici cannibali. Per dirne un’altra, non erano per niente sofisticati nell’uso che facevano dei prigionieri prima di mangiarseli. Cose del genere sono parecchio importanti. Se fatte a dovere conferiscono una certa classe, se capisce cosa voglio dire. Mi trovavo qui con una massa di costumi, superstizioni, tabù, provenienti da varie culture e da secoli di stratificazione; proprio qui, sulla punta delle dita. — Gesticolò di nuovo. — L’uomo (anche il semi-uomo, l’uomo Caldo) è una creatura amante del rituale, e io conoscevo un mucchio di rituali e cose del genere. Così ho fatto buon uso di tutto questo, e attualmente occupo una posizione di grande onore e d’estrema stima.

— E per quello che riguarda noi? Cosa sta cercando di dirci? — chiesi.

— Le cose diventavano piuttosto monotone — disse, — e gli indigeni continuavano ad ingrassare. Così decisi che era tempo di creare un altro cerimoniale. Parlai con Procuste, il Capo Guerriero, e gli suggerii di trovarci un po’ di prigionieri. Credo sia a pagina 577 dell’edizione abbreviata del Ramo d’Oro che si dice: «I Tolalaki, noti cacciatori di teste di Celebes, bevono il sangue e mangiano il cervello delle loro vittime per diventare coraggiosi. Gli Italones delle Isole Filippine bevono il sangue dei nemici trucidati, e mangiano parte delle loro teste e dei loro intestini crudi per acquistare il loro coraggio». Be’, abbiamo la lingua d’un poeta, il sangue di due formidabili guerrieri, il cervello d’un illustre scienziato, il fegato bilioso d’un fiero politico, e l’interessante pelle colorata d’un vegano; tutto qui, in questa stanza. Una bella raccolta, oserei dire.

— Lei è d’una chiarezza straordinaria — osservai. — E le donne?

— Oh, per loro organizzeremo un lungo rito della fertilità, culminante in un lungo sacrificio.

— Vedo.

— … A meno che non vi permettiamo di continuare la vostra strada, senza subire la minima molestia.

— Oh?

— Sì. A Procuste piace dare alla gente una possibilità di misurarsi in una prova standard, per saggiare la propria forza, ed eventualmente essere redenti. Da questo punto di vista è decisamente cristiano.

— E tiene fede al suo nome, immagino?

Hasan mi venne a fianco, e fissò Moreby attraverso le sbarre.

— Oh, divertente, divertente — disse Moreby. — Davvero, mi piacerebbe tenerla qui un po’, lo sa? Lei ha sense of humor. I Kouretes, per quanto siano personalità indubbiamente esemplari, ne sono proprio sprovvisti. Potrei anche imparare ad apprezzarla…

— Non si preoccupi. Mi parli di questa possibilità di redenzione, piuttosto.

— Sì. Noi siamo i custodi dell’Uomo Morto. È la mia creazione più interessante. Sono sicuro che uno di voi due se ne accorgerà, durante il breve incontro con lui. Gettò un’occhiata da me a Hasan, da Hasan a me.

— Lo conosco — gli dissi. — Cosa dobbiamo fare?

— Dovete presentare un campione per combattere con lui, stanotte, quando s’alzerà di nuovo dal regno dei morti.

— Che cos’è?

— Un vampiro.

— Sciocchezze. Che cos’è, scherzi a parte?

— È un vampiro genuino. Vedrete.

— Okay, come preferisce. È un vampiro, e uno di noi lo combatterà. Come?

— Qualsiasi tipo di presa, a mani nude; e non è molto difficile prenderlo. Se ne sta lì fermo ad aspettare. Sarà molto assetato e affamato, povero ragazzo.

— E se viene sconfitto, i prigionieri saranno liberi?

— Queste sono le regole, come ho sottolineato all’incirca sedici o diciassette anni fa. Naturalmente, questa circostanza non s’è mai verificata…

— Vedo. Sta cercando di dirmi che è un osso duro.

— Oh, è imbattibile. È questo il punto più divertente. Non sarebbe un bel cerimoniale, se potesse terminare in qualsiasi altro modo. Io racconto alla mia gente l’intera storia del combattimento prima che esso abbia luogo, e poi la mia gente osserva lo svolgimento e verifica la veridicità delle mie parole. Il che riafferma la loro fede nel destino, e la mia stretta vicinanza con le alte sfere.

Hasan mi sbirciò.

— Cosa vuole dire, Karagee?

— È un combattimento truccato — gli spiegai.

— Al contrario — ribatté Moreby, — tutt’altro. Non ce n’è bisogno. C’era un vecchio proverbio su questo pianeta, in relazione ad un antico sport: non scommettete mai contro i maledetti Yankees, o perderete i vostri soldi. L’Uomo Morto è imbattibile perché è nato con una considerevole dote di forza naturale, che io ho abilmente elaborato. S’è mangiato parecchi campioni, sicché la sua forza è uguale a quella di tutti loro. Chiunque abbia letto Frazer lo sa.

Sbadigliò, coprendosi la bocca con un bastone ornato di piume.

— Adesso devo andare a supervisionare i preparativi per il barbecue. I miei ragazzi stanno ornando tutto con l’agrifoglio. Decidete nel pomeriggio per il campione. Ci rivedremo in serata. Buongiorno.

— Inciampi e si spezzi l’osso del collo.

Sorrise e se ne andò.


Convocai un concilio.

— Okay — esordii. — Questi qui hanno una creatura Calda, l’Uomo Morto, che pare proprio forte. Stanotte lotterò con lui. Se riesco a batterlo in teoria dovremmo essere liberi, ma non mi fido per niente di Moreby. Per cui dobbiamo organizzare un piano di fuga, se no ci troveremo imbanditi e serviti su un bel vassoio rustico. Phil, ti ricordi la strada per Volos? — chiesi.

— Credo di sì. È passato tanto tempo… Ma adesso dove ci troviamo, esattamente?

— Se può essere di qualche aiuto — rispose Myshtigo, a fianco della finestra, — vedo un bagliore. È di un colore per il quale non esiste nome nella vostra lingua, ma viene da quella parte. — Indicò col dito. — È un colore che di solito vedo nelle vicinanze di materiale radioattivo, se l’atmosfera è abbastanza densa. Si estende sopra un’area piuttosto ampia.

Mi portai alla finestra e fissai nella direzione indicata.

— Allora potrebbe essere il Posto Caldo — dissi. — Se le cose stanno così, ci hanno portati verso la costa, ed è una bella fortuna. Nessuno di voi era sveglio e cosciente mentre ci trasportavano qui?

Nessuno rispose.

— D’accordo. Allora prenderemo per buona l’ipotesi che quello sia il Posto Caldo, e che noi ci siamo molto vicini. La strada per Volos dovrebbe essere da quella parte, allora. — Indicai la direzione opposta. — Dato che è pomeriggio e il sole si trova su questo lato della baracca, dirigetevi dall’altra parte quando raggiungete la strada, verso oriente. Non dovrebbero essere più di venticinque chilometri.

— Ci raggiungeranno — replicò Dos Santos.

— Ci sono dei cavalli — disse Hasan.

— Cosa?

— Lungo la strada, in un recinto. Prima ne ho visti tre vicino all’inferriata. Adesso si trovano dall’altra parte della baracca. Potrebbero essercene degli altri. Non sembravano cavalli molto robusti, comunque.

— Sapete cavalcare tutti? — chiesi.

— Non ho mai cavalcato un cavallo — rispose Myshtigo, — ma il thrid gli è abbastanza simile. E il thrid l’ho cavalcato.

Tutti gli altri sapevano andare a cavallo.

— Allora stanotte — dissi. — Se è necessario salite in due su un cavallo. Se ce ne sono in soprannumero, liberate gli altri, fateli correre via. Mentre quelli mi guarderanno combattere con l’Uomo Morto, voi mettetevi a correre all’improvviso verso il recinto. Afferrate più armi che potete e apritevi la strada fino ai cavalli. Phil, portali a Makrynitsa e fai il nome di Korones. Vi ospiteranno e vi daranno protezione.

— Sono spiacente — disse Dos Santos, — ma il tuo piano non è molto buono.

— Se ne hai uno migliore, sentiamolo — gli risposi.

— Prima di tutto — disse, — non possiamo contare su Mister Graber. Quando tu eri ancora svenuto lui stava parecchio male. Era molto debole. George crede che abbia avuto un attacco di cuore durante o subito dopo lo scontro coi Kouretes. Se gli succede qualcosa, siamo spacciati. Avremo bisogno di te per uscire di qui, ammesso che riusciamo a scappare. Non possiamo fidarci di Mister Graber.

«Secondo — continuò, — tu non sei l’unico capace di combattere una minaccia esotica. Hasan raccoglierà la sfida dell’Uomo Morto».

— Non posso chiedergli di farlo — dissi. — Anche se vince, si troverà con ogni probabilità diviso da noi, ed è fuori dubbio che lo prenderanno in fretta. Il che sarebbe fatale alla sua vita, temo. Lo avete assunto per uccidere, non per morire.

— Lo combatterò, Karagee — disse Hasan.

— Non hai nessun obbligo.

— Ma io lo voglio.

— Come ti senti adesso, Phil? — chiesi.

— Meglio, molto meglio. Penso che fosse solo mal di stomaco. Non preoccupatevi.

— Te la senti di correre fino a Markrynitsa, sulla groppa d’un cavallo?

— Non c’è problema. Sarà più facile d’una passeggiata. Praticamente sono nato sulla schiena d’un cavallo. Ti ricordi, no?

— «Ti ricordi»? — chiese Dos Santos. — Cosa vuol dire, Mister Graber? Come potrebbe Conrad ri…

— … Ricordare la sua famosa Ballata a Cavallo — intervenne Parrucca Rossa. — Allora, Conrad, cosa decidi?

— Il capo sono io, grazie — dissi. — Dò io gli ordini, e ho deciso che combatterò io col vampiro.

— In una situazione del genere penso che dovremmo essere un po’ più democratici in decisioni come queste, visto che si parla di vita o di morte — replicò lei. — Tu sei nato in questa regione. Per quanto buona sia la memoria di Phil, tu te la caverai sempre meglio nel farci fuggire di qui in fretta. Non è che tu ordini ad Hasan di morire, o che lo abbandoni. Si offre volontario.

— Ucciderò l’Uomo Morto — disse Hasan, — e vi seguirò. So come nascondermi dagli uomini. Seguirò le vostre tracce.

— È compito mio — gli feci notare.

— Allora, visto che non riusciamo a metterci d’accordo, lasciamo al fato la decisione — disse Hasan. — Gettiamo una moneta.

— Molto bene. Ci hanno tolto anche i soldi, oltre alle armi?

— Ho qualche spicciolo — disse Ellen.

— Getta una moneta per aria.

La gettò.

— Testa — dissi, mentre ricadeva sul pavimento.

— Croce — replicò lei.

— Non toccarla.

Era croce, perbacco. E dall’altra parte c’era una testa.

— Okay, Hasan, razza d’un fortunello — dissi. — Hai appena vinto un… completo da eroe, con tanto di mostro. Buona fortuna.

Lui scrollò le spalle.

— Era scritto.

Poi si sedette con la schiena contro il muro, estrasse un coltellino dalla suola del sandalo sinistro e cominciò a limarsi le unghie. Era sempre stato un assassino lindo e ordinato. Immagino che la pulizia sia stretta parente della diavoleria.

Mentre il sole scivolava pigramente verso occidente, Moreby tornò da noi, portandosi dietro un contingente di spadaccini Kouretes.

— Il tempo è giunto — annunciò. — Avete deciso per il campione?

— Hasan combatterà — dissi.

— Eccellente. Allora seguitemi. Non fate follie, per favore. Mi rivolterebbe lo stomaco presentare cibi deteriorati ad un festino.

Camminando tra un cerchio di lame, lasciammo la baracca e ci muovemmo lungo la strada del villaggio, oltrepassando il recinto. Otto cavalli si muovevano all’interno, a testa bassa. Anche nella fioca luce del tramonto potevo vedere che non erano bestie molto robuste. Avevano i fianchi coperti di piaghe, ed erano piuttosto magrolini. Tutti gettarono loro un’occhiata nel passare.

Il villaggio consisteva di circa trenta baracche, sul tipo di quella che ci aveva ospitati. Era una strada lurida quella che percorrevamo, piena d’immondizie e rifiuti. Il posto puzzava di sudore e orina e frutti marci e fumo.

Dopo un’ottantina di metri girammo a sinistra. Era la fine della strada e, attraverso un sentiero in discesa, raggiungemmo un grande campo. Una donna grassa e calva, coi seni enormi e la faccia che sembrava un sentiero scavato dalla lava pieno di escrescenze maligne, stava attizzando un fuoco basso e mortalmente suggestivo sul fondo d’una gigantesca fossa per barbecue. Ci sorrise mentre l’oltrepassavamo, e si leccò le labbra.

Sul terreno giacevano grandi spiedi affilati…

Più in alto rispetto a noi si stendeva una zona di terreno brullo e livellato. Su un lato del campo s’ergeva un enorme albero di tipo tropicale infestato da rampicanti, che s’era adattato al nostro clima; e tutt’intorno al perimetro del campo c’erano file di torce alte un due metri e mezzo, che gettavano già grandi fasci di luce, come bandiere luminose. Sull’altro lato stava la baracca più elaborata di tutte. Era alta circa cinque metri, e larga dieci. Era dipinta di rosso e coperta di simboli magici. Tutta la parte centrale della facciata era occupata da una gigantesca porta mobile. Due Kouretes armati le facevano la guardia.

Il sole era una piccola scorza d’arancia, ad occidente. Moreby ci fece attraversare tutto il campo, fino all’albero. Da ottanta a cento spettatori sedevano per terra a fianco delle torce, tutt’attorno al campo.

Moreby gesticolò, indicando la baracca rossa.

— Che vi sembra della mia casa? — chiese.

— Deliziosa — dissi.

— Ho un compagno di stanza, ma di giorno dorme. Comunque state per incontrarlo.

Giungemmo ai piedi del grande albero. Moreby ci abbandonò lì, circondati dalle sue guardie. Si portò nel centro del campo e cominciò a parlare in greco ai Kouretes.

Avevamo deciso d’aspettare fin verso la fine del combattimento, comunque stesse andando, per il nostro tentativo di fuga: i cannibali sarebbero stati eccitati, e tutti concentrati sul finale della lotta. Avevamo messo le donne nel centro del gruppo, ed io riuscii a portarmi sulla sinistra d’uno spadaccino Kourete, che intendevo uccidere in fretta (lui impugnava la lama nella destra). Peccato che fossimo al limite estremo del campo. Per arrivare ai cavalli avremmo dovuto riattraversare tutta la zona del barbecue.

— … e poi, quella notte — stava dicendo Moreby, — ecco che l’Uomo Morto s’alzò, e sconfisse questo grande guerriero, Hasan, e spezzò le sue ossa e disseminò il suo corpo su questo terreno di festa. E infine, uccise questo grande nemico e bevve il sangue della sua gola e mangiò il suo fegato, crudo e ancora fumante nell’aria della notte. Queste cose egli fece quella notte. Grande è il suo potere.

— Grande, oh, grande! — urlò la folla, e qualcuno cominciò a battere su un tamburo.

— Ora lo chiameremo di nuovo in vita…

La folla applaudì.

— Di nuovo in vita!

— Di nuovo in vita!

— Di nuovo in vita!

— Evviva!

— Evviva!

— Aguzzi denti bianchi…

— Aguzzi denti bianchi!

— Pelle bianca, bianca…

— Pelle bianca, bianca!

— Mani che spezzano…

— Mani che spezzano!

— Bocca che beve…

— Bocca che beve!

— Il sangue della vita!

— Il sangue della vita!

— Grande è la nostra tribù!

— Grande è la nostra tribù!

— Grande è l’Uomo Morto!

— Grande è l’Uomo Morto!

— GRANDE È L’UOMO MORTO!

Alla fine stavano urlando. Gole umane, semi-umane e disumane emettevano nel campo quella breve litania, come una marea inarrestabile. Anche le nostre guardie stavano gridando. Myshtigo s’era tappato gli orecchi sensibili, e aveva un’espressione d’agonia dipinta sul viso. Anche a me rimbombava la testa. Dos Santos si fece il segno della croce, e una delle guardie scosse il capo e alzò la spada in maniera molto significativa. Don scrollò le spalle e girò la testa verso il campo.

Moreby si portò alla baracca rossa e picchiò tre volte sulla porta con la sua bacchetta.

Una delle guardie gliel’aprí.

All’interno si trovava un enorme catafalco nero, circondato da crani di bestie e d’uomini. Sopra c’era appoggiata una gigantesca bara di legno nero, decorata con lucenti linee zigzaganti. Ad un ordine di Moreby, le guardie sollevarono il coperchio. Per i venti minuti successivi fece iniezioni ipodermiche a qualcosa che stava nella bara. Si muoveva con lentezza ritualistica. Una delle guardie mise da parte la spada e gli fece da assistente. I tamburi mandavano un suono continuo e basso. La folla era molto silenziosa, molto tranquilla.

Poi Moreby si girò.

— Ora l’Uomo Morto si leverà — annunciò.

— Si leverà — risposero gli spettatori.

— Ora egli verrà ad accettare il sacrificio.

— Ora egli verrà…

— Vieni, Uomo Morto — ordinò Moreby, girandosi nuovamente verso il catafalco.

E lui venne.

Con molta lentezza.

Perché era grosso.

Grasso, obeso.

Era grande sul serio, l’Uomo Morto.

Qualcosa come 150 chili.

Si rizzò nella sua bara e si guardò attorno. Si fregò il petto, le ascelle, il collo, l’inguine. Saltò fuori da quell’enorme scatola e si fermò a fianco del catafalco, facendo sembrare Moreby un nano.

Indossava solo un perizoma, e grandi sandali di pelle di capra. La sua pelle era bianca, bianca come la morte, bianca come un ventre di pesce, bianca come la luna… bianca come la morte.

— Un albino — disse George, e la sua voce si ripercosse nel campo perché era l’unico suono nella notte.

Moreby guardò nella nostra direzione e sorrise. Prese per mano l’Uomo Morto e lo condusse fuori dalla baracca, nel campo. L’Uomo Morto si ritraeva dalla luce delle torce. Mentre avanzava, studiai l’espressione del suo viso.

— Quella faccia è priva d’intelligenza — disse Parrucca Rossa.

— Riesci a vedergli gli occhi? — chiese George, stringendo le palpebre. Gli occhiali gli si erano rotti nella zuffa.

— Sì. Sono rosati.

— Ha dei ripiegamenti epicantiali?

— Mm… Sì.

— Uh-huh. È un mongoloide, un idiota. È per questo che Moreby può manovrarlo con tanta facilità. E guardate i denti! Sembrano limati.

Li guardai. Quello stava sorridendo, perché aveva visto i capelli colorati di Parrucca Rossa. Due file di magnifici denti affilati facevano bella mostra di sé.

— Il suo albinismo è il motivo delle abitudini notturne che Moreby gli ha imposto. Guardate! Gli danno fastidio persino le torce! È ultrasensibile a tutti gli attinici.

— E le sue abitudini alimentari?

— Acquisite, dietro imposizione. Diversi popoli primitivi bevono il sangue delle loro bestie. I Kazaks l’hanno fatto fino al ventesimo secolo, e anche i Todas. Avete visto le ferite su quei cavalli che stanno al recinto. Il sangue è davvero nutriente, se s’impara a mandarlo giù; e sono sicuro che Moreby ha manipolato la dieta di quell’idiota sin dall’infanzia. È naturale che sia un vampiro: l’hanno educato così.

— L’Uomo Morto s’è levato — disse Moreby.

— L’Uomo Morto s’è levato — fece coro la folla.

— Grande è l’Uomo Morto!

— Grande è l’Uomo Morto!

Allora egli abbandonò quella mano bianca come la morte e s’avvicinò a noi, lasciando l’unico vero vampiro di nostra conoscenza a sorridere nel centro del campo.

— Grande è l’Uomo Morto — disse, anche lui sorridendo, mentre ci raggiungeva. — Magnifico, non è vero?

— Cosa ha fatto a quella povera creatura? — chiese Parrucca Rossa.

— Molto poco — replicò Moreby, — è nato piuttosto ben equipaggiato.

— Cos’erano quelle iniezioni che gli ha fatto? — l’interrogò George.

— Oh, prima di incontri del genere gli imbottisco i centri cerebrali del dolore di Novocaina. La sua mancanza di reazioni al dolore ingrandisce il mito dell’invincibilità. E gli ho stimolato qualche ormone. Negli ultimi tempi è cresciuto di peso, e s’è fatto un po’ grassoccio. Devo rimediare in qualche modo.

— Lei ne parla e lo tratta come se fosse un giocattolo meccanico — disse Diane.

— E lo è. Un giocattolo invincibile. E di valore inestimabile, per di più. Hasan, è pronto? — chiese poi.

— Sì — rispose Hasan, togliendosi il mantello col cappuccio e tendendolo ad Ellen.

I grandi muscoli delle sue spalle si tesero, le dita si piegarono agilmente, ed egli si mosse in avanti, uscendo dal cerchio di spade. Sulla sua spalla destra e sulla schiena c’erano diversi lividi e segni. La luce delle torce filtrò nella sua barba e la tinse di sangue, e io non potei fare a meno di ricordare quella notte all’hounfor quando lui aveva strangolato un fantasma e Mamma Julie aveva detto: — Il tuo amico è posseduto da Angelsou — e: — Angelsou è un dio della morte, e fa visita solo ai suoi simili.

— Grande è il guerriero, Hasan — annunciò Moreby, girandosi dall’altra parte.

— Grande è il guerriero, Hasan — replicò la folla.

— La sua forza è quella di molti uomini.

— La sua forza è quella di molti uomini — risposero i Kouretes.

— Ancora più grande è l’Uomo Morto.

— Ancora più grande è l’Uomo Morto.

— Spezza le sue ossa e dissemina il suo corpo su questo terreno di festa.

— Spezza le sue ossa…

— Mangia il suo fegato.

— Mangia il suo fegato.

— Beve il sangue della sua gola.

— Beve il sangue della sua gola.

— Grande è il suo potere.

— Grande è il suo potere.

— Grande è l’Uomo Morto!

— Grande è l’Uomo Morto!

— Stanotte — disse quietamente Hasan, — diventerà l’Uomo Morto sul serio.

— Uomo Morto! — gridò Moreby, mentre Hasan si spostava e gli si portava di fronte. — Ti dò quest’uomo, Hasan, in sacrificio!

Poi Moreby si tolse di mezzo e fece segno alle guardie di spingerci più in là.

L’idiota fece un sorriso anche più ampio del precedente, e si mosse lentamente verso Hasan.

— Bismallah — disse Hasan, facendo come per ritirarsi e piegandosi in basso e di fianco. Poi, di colpo, si rizzò da terra e scagliò in alto il braccio, colpendo con il dorso della mano la mascella sinistra dell’Uomo Morto. Fu un colpo violentissimo e rapido come una frustata.

La faccia bianca come la morte si spostò di circa dieci centimetri. E continuò a sorridere…

Poi entrambe le sue braccia corte e tozze si tesero in avanti e afferrarono Hasan sotto le ascelle. Hasan lo agguantò per le spalle, lasciandogli nette tracce rosse ovunque passassero le sue unghie, e facendo fuoriuscire delle gocce rosse dove le sue dita arrivavano ad affondarsi nei muscoli nivei del mostro.

La folla urlò alla vista del sangue dell’Uomo Morto. Forse fu proprio l’odore del sangue ad eccitare l’idiota. Quello, oppure le urla.

Perché sollevò Hasan a mezzo metro dal suolo e corse in avanti con lui.

Il grande albero era sul suo cammino, e la testa di Hasan si piegò per il colpo.

Poi l’Uomo Morto gli si precipitò addosso, si tirò indietro lentamente, si scosse, e cominciò a colpirlo.

Era una suonata bell’e buona. Le sue braccia brevi, tozze, quasi grottesche, si abbattevano impietosamente su Hasan.

Hasan si portò le mani sul viso, e riuscì a proteggersi lo stomaco coi gomiti.

Ma l’Uomo Morto continuò a colpirlo sui fianchi e sulla testa. Le sue mani non facevano altro che alzarsi e abbassarsi.

E non la smetteva mai di ghignare.

Alla fine le mani di Hasan ricaddero a penzolare davanti al suo stomaco.

… E dagli angoli della bocca gli usciva sangue.

Il giocattolo invincibile continuò a divertirsi.

E poi da lontano, molto lontano dall’altra parte della notte, così lontano che solo io potevo sentirla, venne una voce che conoscevo.

Era il grande grido di caccia del mio mastino, Bortan.

In qualche modo aveva scoperto le mie tracce, e adesso stava arrivando, correndo nella notte, saltando come una capra, avanzando rapido come un cavallo o un fiume, tutto pezzato; i suoi occhi erano carboni accesi e i suoi denti erano lame d’acciaio.

Non si stancava mai di correre, il mio Bortan.

Creature come lui non conoscono la paura; sono dedite alla caccia e portatrici di morte.

Il mio mastino stava arrivando, e nulla poteva fermare la sua corsa.

Ma era distante, così distante, dall’altra parte della notte…

La folla stava gridando. Hasan non poteva farcela ancora per molto. Nessuno avrebbe potuto.

Con la coda dell’occhio (quello castano) notai un piccolo gesto di Ellen.

Era come se avesse gettato qualcosa con la destra…

Due secondi più tardi, successe…

Distolsi immediatamente lo sguardo dall’oggetto brillante e sfrigolante che era comparso dietro l’idiota.

L’Uomo Morto mugolò e lasciò la presa.

Buon vecchio regolamento n. 237, paragrafo uno (promulgato da me): «Nessun cicerone e nessun partecipante ad un giro turistico può portare meno di tre torce al magnesio sulla propria persona, durante il viaggio».

Il che significava che a Ellen ne restavano solo due. Santa donna.

L’idiota aveva smesso di maciullare Hasan.

Cercò di togliersi di torno la torcia. Gridò. Cercò di togliersi di torno la torcia. Si coprì gli occhi. Rotolò sul suolo.

Hasan lo osservava, sanguinando, respirando pesantemente…

La torcia bruciava, l’Uomo Morto gridava…

Infine Hasan si mosse.

Si rialzò ed afferrò una delle grosse viti che pendevano dall’albero.

Tirò. Gli resistette. Tirò più forte.

La vite cedette.

I suoi movimenti si fecero più sicuri, mentre s’attorcigliava i capi del rampicante alle mani.

La torcia crepitò: si affievolì, poi tornò luminosa…

Hasan s’inginocchiò a fianco dell’Uomo Morto, e con un gesto rapido gli tese la vite attorno alla gola.

La torcia crepitò di nuovo.

Hasan strinse forte.

L’Uomo Morto s’alzò per combattere.

Hasan strinse di più la vite.

L’idiota l’afferrò per la vita.

I grandi muscoli dell’Assassino si gonfiarono a dismisura. Sul suo viso il sudore si mischiava al sangue.

L’Uomo Morto sollevò Hasan.

Lui strinse più forte.

L’idiota, col viso ormai non più bianco ma cianotico, e le vene sporgenti come cordoni sulla fronte e sul collo, sollevò Hasan dal suolo.

Come io avevo levato in alto il golem così l’Uomo Morto sollevò Hasan, mentre la vite s’affondava ancora di più nel suo collo e lui chiamava a raccolta tutte le sue forze inumane.

La folla piagnucolava e cantava in maniera incoerente. Il rullo dei tamburi, che aveva raggiunto un ritmo frenetico, continuò senza soste. E poi sentii di nuovo l’ululato del mio cane, ancora molto distante.

La torcia cominciò a spegnersi.

L’Uomo Morto oscillò.

… Poi, in un grande spasimo, scagliò Hasan lontano da sé.

La vite si staccò dalla sua gola, quando si liberò della presa di Hasan.

Hasan fece una capriola e atterrò in ginocchio. Restò in quella posizione.

L’Uomo Morto si mosse verso di lui.

Poi il suo passo vacillò.

Cominciò a scuotersi tutto. Emise un gorgoglio, e si toccò la gola. Il suo viso si fece più scuro. Arrivò ondeggiando all’albero e tese una mano in avanti. Restò lì appoggiato, ansimante. Poi sembrò soffocare. La mano gli scivolò lungo il tronco, e lui cadde per terra. Riuscì a tirarsi su di nuovo, accovacciandosi sui talloni.

Hasan si tirò in piedi e recuperò la vite nel punto dove era caduta.

Avanzò contro l’idiota.

Questa volta la sua stretta fu insostenibile.

L’Uomo Morto cadde, e non si alzò più.


Fu come aver spento una radio che suonava a tutto volume: Click…

E poi un grande silenzio. Era successo tutto troppo in fretta. E tenera era la notte, davvero, mentre io mi tendevo in avanti e spezzavo il collo dello spadaccino al mio fianco e gli rubavo l’arma. Mi girai quindi sulla sinistra, e tagliai la testa dell’altra guardia più vicina.

Poi fu come se avessero di nuovo girato l’interruttore, e mi ritrovassi ancora con la radio a tutto volume; ma c’erano solo scariche stavolta. La bellezza della notte era stata straziata, distrutta.

Myshtigo abbatté il suo uomo con un pugno violento, e ne colpì un altro negli stinchi. George piazzò un calcio veloce nell’inguine del tipo che gli stava vicino.

Dos Santos, non abbastanza veloce, o forse solo sfortunato, si prese due brutte ferite, sul collo e sulla spalla.

La folla s’alzò in piedi d’un colpo, come i fiori di certi film accelerati che si vedono sbocciare improvvisamente sul terreno.

E avanzò contro di noi.

Ellen gettò il mantello di Hasan sulla testa dello spadaccino che intendeva sventrare suo marito. Poi il maggior poeta della Terra piazzò un pietrone sul cappuccio del mantello, rovinando indubbiamente la sua dose di karma, ma senza preoccuparsene troppo.

Ormai Hasan aveva raggiunto il nostro gruppetto, usando la mano per parare la discesa d’una lama, colpendola sul lato con una mossa di karaté che credevo persa per sempre a questo mondo. Poi anche Hasan ebbe una spada, dopo un altro rapido movimento, e si dette da fare con la sua consueta abilità.

Uccidemmo o mettemmo fuori uso tutte le nostre guardie prima che la folla fosse a metà strada da noi, e Diane, prendendo esempio da Ellen, scagliò le sue tre torce al magnesio contro quella massa di cannibali.

Poi ci mettemmo a correre. Ellen e Parrucca Rossa sorreggevano Dos Santos, che barcollava un po’.

Ma i Kouretes ci avevano chiuso la strada e stavamo correndo verso nord, in una direzione tangente rispetto alla nostra meta.

— Non possiamo farcela, Karagee — gridò Hasan.

— Lo so.

— … A meno che tu e io non li teniamo impegnati mentre gli altri vanno avanti.

— D’accordo. Dove?

— Alla fossa del barbecue, dove gli alberi s’infoltiscono attorno al sentiero. C’è una strettoia. Non riusciranno a colpirci tutti assieme.

— Bene! — Mi girai verso gli altri. — Ci avete sentiti? Correte ai cavalli! Phil vi guiderà! Hasan e io li terremo fermi finché potremo!

Parrucca Rossa girò la testa e cominciò a dire qualcosa.

— Non metterti a discutere! Andate! Volete crepare o salvarvi?

Volevano salvarsi. Scapparono.

Hasan ed io ci girammo, vicini ormai alla fossa del barbecue, ed attendemmo. Gli altri continuarono la fuga, sparendo nel bosco, dirigendosi verso il villaggio e il recinto dei cavalli. La folla continuò ad avanzare, diritta su Hasan e me.

La prima ondata ci raggiunse, e cominciammo ad uccidere. Ci trovavamo in un punto a forma di V, dove il sentiero sbucava dal bosco nella pianura. Sulla sinistra avevamo la fossa del barbecue; sulla destra un fitto gruppo d’alberi. Ne avevamo uccisi tre, e diversi altri stavano sanguinando, quando si ritirarono, si fermarono, poi presero ad aggirarci.

Allora ci mettemmo schiena contro schiena e continuammo a farli fuori non appena si avvicinavano.

— Se uno di loro ha una pistola siamo morti, Karagee.

— Lo so.

Un altro semi-uomo cadde sotto la mia spada. Hasan ne lanciò uno, urlante, nella fossa.

Poi ci furono addosso. Una lama entrò nella mia guardia e mi colpì sulla spalla. Un’altra mi carezzò la coscia.

— Tornate indietro, pazzi! Ho detto di ritirarvi, mostri!

Al che obbedirono, allontanandosi aldilà della portata delle nostre spade.

L’uomo che aveva parlato era alto un metro e sessantacinque. La sua mascella si muoveva come quella d’una marionetta, quasi avesse un paio di cardini, e i suoi denti si aprivano e si chiudevano con uno schiocco, e sembravano tanti pezzi del gioco del domino: neri, con qualche puntino bianco qua e là.

— Sì, Procuste — sentii dire ad uno.

— Prendete le reti! Catturateli vivi! Non avvicinatevi! Ci sono già costati troppo!

Moreby era al suo fianco, e piagnucolava.

— … Non sapevo, mio signore!

— Zitto, stregone dei miei stivali! Ci sei già costato un dio e molti uomini!

— Dobbiamo scappare? — chiese Hasan.

— No, ma tieniti pronto a tagliare le reti.

— Non è bene che ci vogliano vivi — decise.

— Ne abbiamo spediti parecchi all’inferno, per spianarci la strada — ribattei, — e siamo ancora qui a stringere le nostre spade. Cosa vuoi di più?

— Se corriamo via potremo prendercene altri due, forse quattro. Se aspettiamo, c’intrappoleranno e moriremo senza averli uccisi.

— E cosa te ne importa, una volta che sei morto? Aspettiamo. Finché restiamo vivi ci sono sempre delle possibilità. C’è sempre la speranza che succeda qualcosa di inaspettato a nostro favore.

— Come vuoi.

E quelli trovarono le reti e le gettarono. Ne facemmo a pezzi tre, prima che la quarta ci fregasse. La strinsero per bene e s’avvicinarono.

La spada mi venne strappata dal pugno, e qualcuno mi tirò un calcio. Era Moreby.

— Adesso morirete come solo pochissimi muoiono — disse.

— Gli altri sono fuggiti?

— Per il momento — rispose. — Li inseguiremo, li prenderemo, e li porteremo indietro.

Risi.

— Hai perso — dissi. — Ce la faranno.

Mi diede un altro calcio.

— È così che funzionano i tuoi regolamenti? — chiesi. — Hasan ha vinto l’Uomo Morto.

— Ha barato. La donna ha tirato una torcia.

Procuste gli giunse a fianco, mentre gli altri continuavano ad impacchettarci nella rete.

— Portiamoli alla Valle del Sonno — disse Moreby, — e operiamo su di loro i nostri incantesimi e teniamoli in serbo per futuri riti.

— Ciò è bene — assentì Procuste. — Sì, sarà fatto.

Nel frattempo Hasan doveva aver fatto scivolare il braccio sinistro attraverso la rete, perché lo tese improvvisamente in avanti e graffiò da vicino con le unghie la gamba di Procuste.

Procuste gli diede diversi calci, e uno anche a me per buona misura. Poi si grattò i graffi sul polpaccio.

— Perché l’hai fatto, Hasan? — chiesi, dopo che Procuste s’era allontanato ad ordinare che ci legassero agli spiedi del barbecue per portarci via.

— Dovrebbe esserci ancora un po’ di meta-cianuro sulle mie unghie — spiegò.

— E come c’è finito?

— Viene dalle pallottole che tenevo nella cintura, Karagee, e che loro non m’hanno tolto. Oggi mi sono spalmato le unghie, dopo essermele limate.

— Ah! Hai graffiato l’Uomo Morto all’inizio del combattimento…

— Sì, Karagee. Poi dovevo solo cercare di non crepare finché lui fosse caduto.

— Sei un assassino esemplare, Hasan.

— Grazie, Karagee.

Ci attaccarono agli spiedi, ancora avvolti nella rete. Quattro uomini, al comando di Procuste, ci sollevarono.

Con Moreby e Procuste che facevano strada, ci portarono via nella notte.


Mentre ci muovevamo lungo un sentiero tortuoso, il mondo cambiava attorno a noi. È sempre così quando ci si avvicina a un Posto Caldo. È come percorrere all’indietro tutte le ere geologiche.

Gli alberi lungo la strada cominciarono a cambiare d’aspetto, sempre di più. Alla fine il sentiero diventò il pavimento dell’umida navata d’una cattedrale, e tutt’attorno nere torri con foglie come felci; e cose ci spiavano tra gli alberi, con occhi gialli, stretti come fessure. Alta sulle nostre teste, la notte era una tenda nera, punteggiata di pallide stelle, adorna d’un frastagliato crescente di luna gialla. Dalla grande foresta venivano richiami come d’uccelli, che finivano con strani sbuffi. Davanti a noi una forma nera attraversò il sentiero.

Mentre avanzavamo gli alberi diventavano più piccoli, e più grandi gli spazi vuoti tra l’uno e l’altro. Ma non erano come gli alberi che avevamo visto al villaggio. Erano forme contorte che si muovevano, coi rami simili ad alghe vorticanti, i tronchi nodosi e radici di superficie che strisciavano lentamente sul suolo. Si udiva lo sgradevole trepestio di piccole cose invisibili che sfuggivano la luce della lanterna elettrica di Moreby.

Girando la testa potevo scorgere un debole globo luminoso, che pulsava ai limiti dello spettro visibile. Era sopra di me, in alto.

Una profusione di rampicanti neri copriva il terreno. Si contorcevano non appena uno dei nostri portatori ci posava sopra il piede.

Gli alberi divennero semplici felci. Poi anche queste scomparvero. Le rimpiazzarono enormi quantità di licheni vellutati, colore del sangue, che crescevano sulle rocce. Erano debolmente luminosi.

Non c’erano più rumori d’animali. Non c’era più nessun rumore, salvo lo sbuffare dei nostri quattro portatori, la cadenza dei piedi, e il click soffocato che produceva a tratti il fucile automatico di Procuste urtando contro una roccia.

I nostri portatori avevano spade nelle cinture. Moreby ne aveva parecchie, oltre a una piccola pistola.

Il sentiero saliva rapidamente. Uno dei nostri portatori bestemmiò. Lì la tenda della notte era piegata agli angoli verso il basso; s’incontrava con l’orizzonte, ed era piena d’una foschia color porpora, trasparente come fumo di sigaretta. Lenta, molto alta, schiaffeggiando l’aria come una razza sul pelo del mare, la forma d’un pipiragno si stagliò contro la faccia della luna.

Procuste cadde.

Moreby lo aiutò a tirarsi in piedi, ma Procuste vacillò e dovette appoggiarsi a lui.

— Cosa ti succede, mio signore?

— Un’improvvisa stanchezza, un intorpidimento delle membra… Prendi tu il fucile. S’è fatto pesante.

Hasan ridacchiò.

Procuste si girò verso Hasan, con la sua mascella da marionetta spalancata.

Poi cadde di nuovo.

Moreby aveva appena preso il fucile, e si trovava con le mani occupate. Le guardie ci deposero a terra con una certa urgenza, e si precipitarono a fianco di Procuste.

— Avete un po’ d’acqua? — chiese, e chiuse gli occhi.

Non li riaprì mai più.

Moreby gli auscultò il cuore; poi si portò alle narici la parte coperta di piume del suo bastone di comando.

— È morto — annunciò alla fine.

— Morto?

Il portatore che era coperto di squame cominciò a singhiozzare.

— Era buono — sospirò. — Era un grande capo guerriero. Cosa faremo adesso?

— È morto — ripeté Moreby, — e io sono il vostro capo finché non sarà eletto un nuovo capo guerriero. Avvolgetelo nei vostri mantelli. Lasciatelo su quella roccia piatta. Nessun animale si spinge fin qui, così non verrà molestato. Lo riprenderemo sulla via del ritorno. Adesso, però, dobbiamo avere la nostra vendetta su questi due. — Gesticolò con la mano. — La Valle del Sonno è qui vicino. Avete preso le pillole che vi ho detto?

— Sì.

— Sì.

— Sì.

— Sììì.

— Molto bene. Adesso prendete i vostri mantelli e avvolgetelo.

Quelli obbedirono, e presto fummo risollevati e portati sulla cima d’un’altura da cui partiva un sentiero che finiva in un pozzo fluorescente, irregolare. Le grandi rocce lì intorno sembravano quasi in fiamme.

— Mio figlio — dissi ad Hasan — mi ha descritto questo posto, e mi ha detto che il filo della mia vita passa su una roccia che brucia. Mi ha visto minacciato dall’Uomo Morto, ma evidentemente il fato ci ha ripensato e ha fatto un regalino a te. Quand’ero solo un sogno nella mente della morte, questo posto fu scelto come uno di quelli dove avrei potuto morire.

— Cadere in disgrazia del diavolo significa arrostire — commentò Hasan.

Ci portarono giù nella fessura e ci appoggiarono alle rocce.

Moreby tolse la sicura al fucile e fece un passo indietro.

— Liberate il greco e legatelo a quella colonna. — Gesticolò con l’arma.

Obbedirono, legandomi per bene mani e piedi. La roccia era liscia, umida, fatale senza parerlo.

Poi fecero lo stesso con Hasan, sistemandolo a qualche metro sulla mia sinistra.

Moreby aveva poggiato la lanterna per terra, e quella gettava un semicerchio giallo intorno a noi. I quattro Kouretes al suo fianco erano statue di demoni.

Sorrise. Appoggiò il fucile sulla parete di roccia che gli stava alle spalle.

— Questa è la Valle del Sonno — c’informò. — Quelli che dormono qui non si svegliano più. Ma la carne resta ben conservata, in vista delle annate magre. Prima che vi abbandoniamo, però… — I suoi occhi si girarono su di me. — Vedi dove ho messo il fucile?

Non gli risposi.

— Credo che le tue budella possano arrivare fin lì, Commissario. Ad ogni buon conto, ho l’intenzione di sincerarmi. — Estrasse un pugnale dalla cintura e avanzò verso di me. I quattro semi-uomini si mossero con lui. — Chi credi che abbia più fegato? — chiese. — Tu o l’arabo?

Nessuno dei due rispose.

— Lo vedrete da soli — disse, a denti stretti. — Prima tu!

Mi tirò fuori la camicia e la lacerò sul davanti.

Fece ruotare la lama in lenti cerchi molto significativi ad un paio di centimetri dal mio stomaco, continuando nel frattempo a studiarmi il viso.

— Hai paura — disse. — Non ti si legge ancora in faccia, ma non ci vorrà molto.

Poi: — Guardami! La lama entrerà con lentezza enorme. E uno di questi giorni cenerò col tuo corpo. Cosa ne pensi?

Risi. D’improvviso, valeva la pena di riderci sopra. La sua faccia sembrò stravolta, poi si piegò ad una momentanea espressione di stupore.

— La paura ti ha fatto impazzire, Commissario?

— Piume o piombo? — gli chiesi.

Sapeva cosa significava. Fece per dire qualcosa, e poi sentì un sasso rotolare a qualche metro di distanza. Girò la testa da quella parte.

Passò gli ultimi secondi della sua vita a gridare, prima che la forza del balzo di Bortan lo schiacciasse contro il suolo, e la testa gli fosse strappata dalle spalle.

Il mio cagnone era arrivato.


I Kouretes gridarono, perché i suoi occhi sono carboni accesi e i suoi denti sono lame d’acciaio. La sua testa è alta dal suolo quanto quella d’un uomo. E per quanto loro afferrassero le spade e lo colpissero forte, i suoi fianchi sono quelli d’un armadillo. Un bel pezzo di cane, il mio Bortan… Non proprio come quelli di cui scriveva Albert Payson Terhune.

Lavorò per un minuto buono, e quando ebbe finito erano tutti a pezzettini, e nessuno vivo.

— Che cos’è? — chiese Hasan.

— Un cucciolo che ho trovato in un sacco, abbandonato sulla spiaggia, troppo resistente per affogare. Il mio cane, Bortan.

C’era una piccola ferita nella parte più tenera della sua spalla. E non se l’era fatta adesso.

— Prima ci ha cercati nel villaggio — dissi, — e hanno tentato di fermarlo. Parecchi Kouretes ci hanno rimesso la pelle.

Trotterellò avanti e mi leccò il viso. Scodinzolò, uggiolò come un cucciolo felice, e corse in piccoli cerchi. Mi saltò addosso e mi leccò di nuovo il viso. Poi tornò a correre, facendo schizzare attorno pezzi di Kouretes.

— È bello per un uomo avere un cane — disse Hasan. — Io sono sempre stato innamorato dei cani.

Bortan lo stava fiutando, mentre parlava.

— E così sei tornato, vecchio bastardo — gli dissi. — Non lo sai che i cani sono estinti?

Scosse la coda, mi tornò vicino e mi leccò la mano.

— Mi spiace di non poterti grattare gli orecchi. Ma lo sai che mi piacerebbe, no?

Agitò la coda.

Aprii e chiusi la mano destra, ancora legata. Girai la testa da quella parte, per indicargli la mano. Bortan mi osservava, le narici umide e frementi.

— Mani, Bortan. Ho bisogno di mani che mi liberino. Mani che taglino questi lacci. Devi trovarle, Bortan, e portarle qui.

Raccolse un braccio che giaceva sul suolo e me lo depose ai piedi. Poi guardò in su e scosse la coda.

— No, Bortan. Mani vive. Mani amiche. Mani che mi liberino. Mi capisci, non è vero?

Mi leccò la mano.

— Va a cercare le mani. Ancora attaccate al corpo, e vive. Mani di amici. Adesso, veloce! Vai!

Girò su se stesso e s’allontanò, si fermò, guardò indietro una volta, poi risalì il sentiero.

— Ti capisce? — chiese Hasan.

— Penso di sì — gli risposi. — Non ha il cervello d’un cane qualsiasi, e ormai sono passati più anni della vita d’un uomo da quando è nato, perciò ha avuto tutto il tempo per imparare a capire.

— Allora speriamo che trovi qualcuno in fretta, prima che ci addormentiamo.

— Sì.


Restammo lì legati, e la notte era fredda.

Aspettammo molto a lungo. Poi perdemmo la nozione del tempo.

I muscoli erano tutti un crampo doloroso. Eravamo coperti del sangue secco d’innumerevoli ferite. Eravamo tutti ammaccati. Eravamo sfiniti per la fatica e per la mancanza di sonno.

Restammo lì legati alle rocce, con le corde che affondavano nella nostra pelle.

— Credi che ce la faranno ad arrivare al tuo villaggio?

— Abbiamo dato loro una buona partenza. Penso che abbiano decenti possibilità.

— È sempre difficile lavorare con te, Karagee.

— Lo so. Anch’io me ne sono accorto.

— … Come l’estate che siamo rimasti a marcire nelle galere della Corsica.

— Già.

— … O la marcia sulla stazione di Chicago, dopo che avevamo perso tutto l’equipaggiamento in Ohio.

— Sì. Quello fu un anno disgraziato.

— Ma tu sei sempre nei guai, Karagee. Dalle mie parti c’è un proverbio per i tipi come te: «Nato per annodare la coda della tigre». È difficile starti assieme. Io, per me, amo la quiete e l’ombra, un libro di poesie, la mia pipa…

— Zitto! Sento qualcosa!

C’era rumore di zoccoli.

Un satiro apparve nel cerchio di luce sbilenco proiettato dalla lanterna caduta. Si muoveva nervosamente, e i suoi occhi andavano da me a Hasan a me, e su, giù, intorno, e oltre noi.

— Aiutaci, piccola creatura cornuta — dissi, in greco.

Avanzò con cautela. Vide il sangue, i Kouretes smembrati.

Si girò come per fuggire.

— Torna indietro! Ho bisogno di te! Sono io, il suonatore di flauto.

Si fermò e si voltò di nuovo. Le sue narici s’alzavano e s’abbassavano, fremevano. Gli orecchi puntuti erano tesi.

Tornò indietro, e un’espressione di dolore quasi umano si dipinse sul suo viso quando scavalcò i corpi macellati.

— La spada. Ai miei piedi — dissi, puntando gli occhi in basso. — Raccoglila.

Non sembrava che gli piacesse molto l’idea di toccare una cosa fatta dagli uomini, specialmente una spada.

Allora canticchiai le ultime strofe della mia canzone.

È tardi, è tardi, così tardi…

Gli occhi gli si inumidirono. Se li asciugò col dorso dei suoi polsi pelosi.

— Raccogli la spada e taglia i nodi. Raccoglila. No, non così, ti taglierai. Dall’altra parte. Sì.

La raccolse a dovere e mi guardò. Mossi la mano destra.

— I nodi. Tagliali.

Ce la fece. Gli ci vollero quindici minuti, e m’adornò il polso d’un braccialetto di sangue. Dovetti continuare a muovere la mano per impedirgli di tagliarmi un’arteria. Ma mi liberò, e poi mi fissò ansiosamente.

— Adesso dammi la spada e penso io al resto.

Depose la spada sulla mia mano tesa in avanti.

La presi. Qualche secondo dopo ero libero. Poi liberai Hasan. Quando mi girai nuovamente il satiro era scomparso. Udivo in distanza il suono d’un frenetico correre di zoccoli.

— Il Demonio mi ha perdonato — disse Hasan.


Ci allontanammo dal Posto Caldo il più velocemente possibile, evitando il villaggio dei Kouretes e dirigendoci a nord, finché raggiungemmo un sentiero in cui riconobbi la strada per Volos.

Se fosse stato Bortan a trovare il satiro e costringerlo in qualche modo a soccorrerci, o se invece la creatura ci aveva spiati e m’aveva riconosciuto, era una cosa di cui non potevo essere sicuro. Comunque Bortan non era tornato, sicché era più probabile la seconda ipotesi.

La città amica più vicina era Volos: un venticinque chilometri di strada, verso est. Se Bortan era arrivato lì, dove parecchi parenti l’avrebbero riconosciuto, ci sarebbe voluto ancora un bel po’ prima che tornasse. Mandarlo a cercare aiuto era stata un’azione decisamente disperata. Se s’era diretto da qualsiasi altra parte, non avevo idea di quanto ci potesse impiegare. Ma sapevo che avrebbe ritrovato le mie tracce, e le avrebbe seguite. Continuammo a procedere, ponendo il maggior spazio possibile dietro di noi.

Dopo una decina di chilometri eravamo spossati. Sapevamo di non poter resistere ancora molto senza un po’ di riposo, così tenemmo gli occhi ben aperti per vedere di scovare un posto sicuro dove dormire.

Alla fine riconobbi un’erta collina rocciosa dove avevo portato le pecore, da ragazzo. La piccola grotta da pecoraio, a tre quarti circa di strada sulla salita, era asciutta e vuota. La porta in legno che la chiudeva era ormai marcita, ma funzionava ancora. Prendemmo un po’ d’erba pulita per farci da letto, ci assicurammo che la porta fosse ben chiusa e ci coricammo. Dopo un momento, Hasan stava già russando. La mia mente vagabondò per un secondo prima di partire, e in quel secondo seppi che di tutti i maggiori piaceri (un bicchiere d’acqua fresca quando siete assetati, un po’ di liquore quando non lo siete, il sesso, una sigaretta dopo molti giorni d’astinenza, nessuno è paragonabile al sonno.

Il sonno li batte tutti…


Potrei dire che se il nostro gruppo avesse preso la strada più lunga da Lamia a Volos, quella che corre lungo la costa, tutta quanta la faccenda non sarebbe mai successa, e oggi Phil sarebbe ancora vivo. Ma non posso proprio giudicare quello che accadde in quei giorni; anche adesso, guardando indietro, non capisco come ridisporrei gli eventi se dovessi rifare tutto da capo. Le forze della distruzione finale avanzavano col passo dell’oca tra le rovine, le braccia alzate…

Nel pomeriggio seguente arrivammo a Volos, e poi sul Monte Pelion fino a Portaria. Dall’altra parte d’un burrone stava Makrynitsa.

Lo attraversammo e trovammo gli altri.

Phil li aveva guidati a Makrynitsa, aveva chiesto una bottiglia di vino e la sua copia del Prometeo Liberato, ed era andato a letto verso le due, a notte fonda.

La mattina Diane l’aveva trovato, sorridente e freddo.

Gli costruii una pira tra i cedri, vicino alle rovine del Vescovado, perché non voleva essere sepolto. La cosparsi d’incenso, d’erbe aromatiche, ed era alta il doppio d’un uomo. Quella notte sarebbe bruciata, e io avrei detto addio ad un altro amico. Sembra, guardando indietro, che la mia vita sia stata tutta una serie d’arrivi e partenze. Dico: «Ciao». Dico: «Addio». Solo la Terra resiste… All’inferno.

Così, nel pomeriggio, feci una passeggiata col gruppo fino a Pegase, il porto dell’antica Iolkos, situato sul promontorio opposto a Volos. Ci fermammo all’ombra degli alberi di mandorlo, sulla collina che s’affaccia sul mare e offre anche la vista delle montagne intorno.

— È da qui che sono partiti gli Argonauti in cerca del Vello d’Oro — dissi a nessuno in particolare.

— Chi erano? — chiese Ellen. — Ho letto la storia quando andavo a scuola, ma l’ho dimenticata.

— C’erano Eracle e Teseo e Orfeo il cantore, e Asclepio, e i figli del Vento del Nord, e Giasone, il capitano, che era un pupillo del centauro Chirone, la cui grotta, incidentalmente, si trova qui vicino, sulla cima del monte Pelion.

— Davvero?

— Te la mostrerò, una volta o l’altra.

— D’accordo.

— Da queste parti hanno combattuto anche gli dèi e i Titani — disse Diane, giungendomi a fianco. — Non è vero che i Titani hanno sradicato il Monte Pelion e l’hanno infilato sopra Ossa, per scalare l’Olimpo?

— Così dice la leggenda. Ma gli dèi erano buoni, e hanno rimesso a posto il paesaggio dopo la terribile battaglia.

— Un’imbarcazione — disse Hasan, indicandola con un’arancia mezza sbucciata che stringeva in mano.

Scrutai le acque, e vidi un puntino muoversi contro l’orizzonte.

— Sì. Usano ancora questo posto come porto.

— Forse è una nave d’eroi — disse Ellen, — che torna con dell’altro vello. Ma cosa se ne faranno, poi, di tanto vello?

— Non è il vello che è importante — ribatté Parrucca Rossa — ma il modo di procurarselo. Qualsiasi cantastorie lo sa. Le donne possono sempre ricavare dei maglioni dal vello avanzato. Ormai sono abituate a darsi da fare con gli scarti.

— Non s’intonerebbe ai tuoi capelli, cara.

— Nemmeno ai tuoi, figliola.

— Potrei tingerli. Non tanto facilmente come i tuoi, ovviamente…

— Lungo la strada — dissi, ad alta voce, — ci sono le rovine d’una chiesa bizantina, il Vescovado, che ho programmato di far restaurare entro due anni. La tradizione dice che lì si sono celebrate le nozze tra Peleo, un altro degli Argonauti, e la ninfa marina Teti. Forse conoscete la storia di quella cerimonia? Furono invitati tutti tranne la dea della discordia, ma lei intervenì ugualmente, lasciando come ricordo una mela d’oro con la scritta «Per la Più Bella». Paride ritenne di doverla assegnare ad Afrodite, e il destino di Troia fu segnato. L’ultima volta che Paride fu visto in giro, non era per niente allegro. Ah, che decisione! Come ho spesso detto, questa terra è piena di miti.

— Quanto tempo ci fermeremo qui? — chiese Ellen.

— Mi piacerebbe passare un altro paio di giorni a Makrynitsa — risposi, — poi ci dirigeremo a nord. Diciamo ancora una settimana in Grecia, e poi saremo a Roma.

— No — disse Myshtigo, che era rimasto seduto su una roccia a parlare nel suo registratore e fissare il mare. — No, il viaggio è finito. Questa è l’ultima sosta.

— Perché mai?

— Sono soddisfatto e voglio tornare a casa.

— E il suo libro?

— Ho la storia che volevo.

— Che specie di storia?

— Le manderò una copia autografata, appena l’avrò finito. Il mio tempo è prezioso, e adesso ho tutto il materiale che voglio. Tutto quello che mi sarà necessario, comunque. Stamattina ho chiamato il Porto, e stanotte mi manderanno una Lancia. Voialtri andate pure avanti e fate quello che volete, ma io ho finito.

— C’è qualcosa che non va?

— No, va tutto bene, ma è tempo che io parta. Ho molto da fare.

Si alzò in piedi e si stirò.

— Devo preparare i bagagli, per cui tornerò indietro subito. Comunque il suo paese è molto bello, Conrad. Ci vediamo a cena.

S’allontanò e prese a discendere la collina.

Feci qualche passo nella sua direzione, osservandolo sparire.

— Mi chiedo cosa lo abbia spinto a prendere questa decisione — pensai ad alta voce.

Si udì un rumore di passi che s’avvicinavano.

— Sta morendo — disse George, dolcemente.


Mio figlio Giasone, che ci aveva preceduti di parecchi giorni, se n’era andato. I vicini avevano preso a parlare della sua partenza per l’Ade avvenuta la sera prima. Il patriarca era sparito sulla schiena d’un cagnaccio dagli occhi di brace, che aveva abbattuto la porta della sua abitazione ed era scomparso con lui nella notte. I miei parenti volevano tutti che mi fermassi a mangiare. Dos Santos continuava a riposare: George gli aveva curato le ferite, e non aveva ritenuto necessario ricoverarlo all’ospedale di Atene.

È sempre piacevole tornare a casa.

Scesi giù nella Piazza e passai il pomeriggio a parlare coi miei discendenti. Avevo voglia di raccontar loro di Taler, di Haiti, di Atene? Sì, avevo voglia, e lo feci. Avevano voglia di raccontarmi i fatti successi a Makrynitsa durante la mia assenza? E anche loro mi accontentarono.

Poi portai qualche fiore al cimitero, mi fermai un poco, e andai a casa di Giasone e gli riparai la porta con certi attrezzi che trovai nel ripostiglio. M’imbattei in una bottiglia del suo vino e lo bevvi tutto. E fumai un sigaro. Mi feci anche un bricco di caffè, e lo scolai tutto.

Ma mi sentivo ancora depresso.

Non sapevo cosa stava succedendo.

George conosceva il suo mestiere, comunque, e aveva detto che il vegano mostrava i sintomi inconfondibili d’una malattia nervosa extraterrestre. Incurabile. Immancabilmente fatale.

E nemmeno Hasan poteva essere ritenuto responsabile del fatto.

«Eziologia sconosciuta» fu la diagnosi di George.

Così tutto era di nuovo in discussione.

George sapeva di Myshtigo sin dalla prima volta che l’aveva incontrato. Che cosa l’aveva messo sull’avviso? Phil gli aveva chiesto di osservare se il vegano presentasse i sintomi d’una malattia fatale.

Perché?

Diavolo, non l’aveva detto, e ormai non potevo più andarglielo a chiedere.

Avevo un problema.

O Myshtigo aveva finito il suo lavoro, oppure non gli restava abbastanza tempo per finirlo. Aveva detto d’averlo finito. Ma se non era vero, allora io avevo protetto per tutto quel tempo un uomo morto, senza scopo alcuno. Se l’aveva finito sul serio, dovevo conoscere i risultati, per decidere al più presto circa quel che rimaneva della sua vita.

La cena non fu d’alcun aiuto. Myshtigo aveva detto tutto quello che intendeva dire, e ignorò o evitò le nostre domande. Così, subito dopo il caffè, Parrucca Rossa ed io uscimmo a fumarci una sigaretta.

— Cos’è successo? — mi chiese.

— Non lo so. Credevo lo sapessi tu.

— No. E adesso?

— Dimmi tu.

— Lo uccidiamo?

— Forse sì. Ma prima, perché?

— Ha finito.

— Cosa? Cosa diavolo ha finito?

— E come faccio a saperlo?

— Maledizione! Devo saperlo! Devo sapere perché uccido qualcuno. Sono fatto così.

— Così, eh? Bene. Dopo tutto è ovvio, no? I vegani vogliono comprare di nuovo sulla Terra. Tornerà a fare un rapporto sui posti che gli interessano.

— E allora perché non li ha visitati tutti? Perché taglia corto dopo l’Egitto e la Grecia? Sabbia, rocce, giungle, e mostri assortiti: non ha visto altro. Roba poco incoraggiante per un acquisto.

— È spaventato, ecco perché, è contento d’essere ancora vivo. Poteva essere divorato da un boadrillo, o da un Kourete. Sta scappando.

— Bene. Allora lasciamolo scappare. Lasciamogli fare un rapporto negativo.

— Ma non può. Se vogliono comperare, non si fideranno d’un resoconto tanto incompleto. Manderanno qualcun altro, più resistente, per finirlo. Se uccidiamo Myshtigo sapranno che esistiamo ancora sul serio, che continuiamo a protestare, che siamo ancora noi.

— … E non teme per la propria vita — notai.

— No? E per cosa, allora?

— Non lo so. Ma devo scoprirlo.

— Come?

— Penso che glielo chiederò.

— Tu sei pazzo! — Lei si girò.

— A modo mio, o non se ne fa nulla — replicai.

— In qualsiasi modo, allora. Non importa. Abbiamo già perso.

La presi per le spalle e le baciai il collo. — Non ancora. Vedrai.

Lei rimase rigida.

— Torna a casa — disse; — è tardi. È troppo tardi.

Le obbedii. Tornai nel vecchio, caro edificio di Iakov Korones che ospitava sia Myshtigo che me, e dove s’era fermato anche Phil.

Mi fermai nella stanza funebre, nel posto dove Phil aveva dormito per l’ultima volta. Il suo Prometeo Liberato si trovava ancora sul tavolino, accanto ad una bottiglia vuota. Quando mi aveva chiamato in Egitto si sentiva già la fine addosso, e poi aveva avuto un attacco di cuore, e aveva passato un mucchio d’altri guai. Mi sembrava che dovesse aver lasciato un messaggio per un vecchio amico, su una faccenda del genere.

Così aprii l’inconsistente poema di Percy B. Shelley e lo sfogliai.

Stava scritto sulle pagine bianche alla fine del libro, in greco. Ma non greco moderno. Classico.

Suonava più o meno così:


Caro amico,

per quanto io aborra scrivere cose che non potrò rivedere, capisco che è meglio non fare tanto il prezioso con un messaggio. Non sto bene. George vuole che voli ad Atene. E domattina ci volerò. Ma prima, per quanto concerne la faccenda che hai tra le mani… Fa’ ripartire vivo il vegano dalla Terra, ad ogni costo. È importante.

È la cosa più importante di questo mondo. Avevo paura di parlartene prima, perché pensavo che Myshtigo fosse un telepate. È per questo che non vi ho seguiti durante tutto il viaggio, anche se mi sarebbe piaciuto moltissimo. È per questo che ho finto di odiarlo, per potergli stare lontano tutto il tempo che volevo. Ho deciso di raggiungervi solo dopo essere riuscito ad appurare che non è un telepate.

Sospettavo, data la presenza di Dos Santos, Diane e Hasan, che la Radpol volesse il suo sangue. Se era telepatico, ho immaginato che se ne sarebbe accorto in fretta e avrebbe pensato da solo a mettersi al sicuro. E se non lo era, avevo sempre molta fede nella tua abilità di difenderlo da qualsiasi cosa. Hasan compreso. Ma non volevo che lui sapesse che ero al corrente di tutto. Comunque ho cercato effettivamente di avvisarti, se ti ricordi.

Tatram Yshtigo, suo nonno, è una delle creature viventi più nobili e sensibili. È un filosofo, un grande scrittore, un amministratore altruistico di pubblici servizi. Lo conobbi durante la mia visita a Taler, qualcosa come trent’anni fa, e più tardi diventammo amici intimi. Da allora siamo sempre rimasti in contatto; e già da tempo m’aveva avvisato dei piani dell’Impero Vegano per quel che concerne la Terra. Ma mi ha anche costretto al segreto. Nemmeno Cort può sapere che io ne sono al corrente. Suo nonno perderebbe completamente la faccia, se la cosa saltasse fuori prima del tempo. I vegani si trovano in una posizione molto imbarazzante. I nostri emigrati si sono bellamente appoggiati, dal punto di vista economico e culturale, alla loro civiltà. D’altronde i vegani hanno capito (e con quale immediatezza!) durante i giorni della Ribellione Ritornista che esiste una popolazione indigena con una propria organizzazione, desiderosa di prendere nuovamente possesso del pianeta e di riportarlo al passato splendore. Anche ai vegani piacerebbe che questo accadesse. Non vogliono la Terra. E cosa se ne farebbero? Se volessero sfruttare la nostra gente, ce n’è di più su Taler che qui; e comunque non lo stanno facendo, almeno non su grande scala o per cattiveria. I nostri emigrati hanno preferito fermarsi sui loro pianeti a svolgere qualsiasi lavoro, piuttosto che tornare qui.

E questo cosa indica? Che il Ritornismo è un vicolo cieco. Nessuno ha intenzione di ritornare. È per questo che ho lasciato il partito. Immagino che anche tu lo abbia fatto per lo stesso motivo. Ai vegani piacerebbe molto lavarsi le mani del problema rappresentato dal nostro pianeta. Certo, vogliono visitarlo. Per loro è istruttivo, esemplare, e anche terribilmente spaventoso venire qui a vedere come si può ridurre un mondo! Ma era loro necessario trovare un modo per circuire il nostro governo di Taler. I Talenti non erano propriamente ansiosi di rinunciare all’unica cosa che giustifica la loro esistenza, e le tasse che ci impongono: l’Ufficio. Comunque, dopo parecchi negoziati e parecchi accomodamenti economici, compresa l’offerta della piena cittadinanza vegana ai nostri emigrati, sembrò che si fosse raggiunto un accordo. Il compimento del piano fu affidato alla gens degli Shtigo, in particolare a Tatram. E alla fine lui trovò il modo di restituire alla Terra una posizione autonoma, senza danneggiare la sua integrità culturale. È per questo che ha mandato suo nipote, Cort, a fare l’«ispezione».

Cort è una strana creatura: il suo vero talento è quello di recitare (tutti gli Shtigo ne sono piuttosto dotati), e gli piace posare. Sono sicuro che volesse recitare con molta cattiveria la parte dell’extraterrestre, ed è fuor di dubbio che l’ha fatto con tutta l’abilità necessaria. (Tatram mi avvisò anche che sarebbe stata l’ultima parte di Cort. Sta morendo di drinfan, che è incurabile; e credo proprio che questa sia la ragione per cui è stato scelto). Credimi, Konstantin Karaghiosis Korones Nomikos (e tutti gli altri nomi che non conosco), Conrad, quando ti dico che non sta ispezionando terreni da acquistare. Ma permettimi un ultimo gesto alla Byron. Prendi per buona la mia parola che lui debba vivere, e concedimi di mantenere la promessa e il segreto. Non te ne pentirai: quando saprai tutto.

Mi spiace di non essere mai riuscito a finire la tua elegia, e maledizione a te per esserti tenuto la mia Lara, quella volta a Kerch!

PHIL


Molto bene, dunque, decisi: vita, non morte, per il vegano. Phil aveva parlato, e io non mettevo in dubbio la sua parola.

Tornai al tavolo dell’albergo di Mikar Korones e restai con Myshtigo finché non fu pronto a partire. Lo riaccompagnai in camera e lo osservai sistemare le ultime cose. Durante tutto questo tempo scambiammo sì e no sei parole.

Trasportammo i suoi bagagli nel posto dove sarebbe atterrata la Lancia, di fronte all’edificio. Prima che gli altri (Hasan compreso) arrivassero a dirgli arrivederci, si girò verso di me e disse: — Mi dica, Conrad, perché sta buttando giù la piramide?

— Per fare un dispetto a Vega — risposi. — Per farvi sapere che se volete questo posto e riuscite a strapparcelo, lo troverete anche peggio di quanto non fosse dopo i Tre Giorni. Non ci sarà più nulla da guardare. Bruceremo quello che resta della nostra storia. Nemmeno un bel rottame, per voialtri.

Dai suoi polmoni uscì un robusto soffio d’aria, una specie di mugolio sibilante: l’equivalente vegano d’un sospiro.

— Lodevole, suppongo — disse, — ma non voglio vederlo. Pensa di poterla mai rimettere assieme? Presto, magari?

— Lei cosa pensa?

— Ho notato che i suoi uomini segnavano parecchi pezzi.

Scrollai le spalle.

— Allora mi resta una sola domanda seria, a proposito del suo amore per la distruzione… — fece.

— E cioè?

— È davvero arte?

— Vada all’inferno.

Poi arrivarono gli altri. Scossi lentamente la testa verso Diane e strinsi il polso di Hasan abbastanza a lungo per levargli un piccolo ago che s’era appiccicato al palmo della mano. Poi permisi anche a lui di stringere le mani al vegano.

La Lancia scese ronzando dal cielo che si andava oscurando e vidi Myshtigo salire a bordo, gli porsi personalmente il bagaglio, e gli chiusi la porta.

La Lancia si alzò senza incidenti e sparì in pochi secondi.

Fine d’una scampagnata inutile.

Tornai dentro a cambiarmi gli abiti.

Era tempo di bruciare un amico.


Eretta alta nella notte, la mia catasta di legno sorreggeva quello che restava del poeta mio amico. Accesi una torcia e spensi la lanterna elettrica. Hasan era al mio fianco. Aveva dato una mano a trasportare il corpo sul carro funebre, e aveva guidato i cavalli. Avevo costruito la pira sulla collina coperta di cipressi che domina Volos, presso le rovine di quella chiesa che ho menzionato prima. Le acque della baia erano calme. Il cielo era chiaro, e le stelle splendenti.

Dos Santos, che non approvava la cremazione, aveva deciso di non partecipare alla cerimonia, dicendo che le ferite gli dolevano.

Diane aveva scelto di restare con lui a Makrynitsa. Non mi aveva più parlato, dopo la nostra ultima conversazione.

Ellen e George stavano seduti sulla sponda del carro, sistemato dietro un grosso cipresso, e si tenevano per mano. Erano le uniche altre persone presenti. A Phil non avrebbe fatto piacere che i miei parenti gli intonassero un salmo funebre. Aveva detto una volta che voleva qualcosa di grande, luminoso, veloce, e senza musica.

Avvicinai la torcia ad un lato della pira. La fiamma attecchì lentamente, e prese a divorare il legno. Hasan accese un’altra torcia, l’infilzò nel suolo, si tirò indietro, e rimase ad osservare.

Mentre le fiamme s’aprivano la strada verso il cielo pronunciai le antiche preghiere e versai del vino sul terreno, gettai erbe aromatiche nel fuoco. Poi anch’io mi tirai indietro.

— «… Chiunque tu fossi, la morte ha preso anche te» — gli dissi.

— «Sei andato a vedere gli umidi fiori che si aprono lungo l’Acheronte, tra le ombre dell’Ade che s’addensano scure». Se tu fossi morto giovane, la tua scomparsa avrebbe significato la fine d’un grande talento prima del pieno rigoglio. Ma sei vissuto, e questo non si può più dire. Alcuni scelgono una vita breve ed eroica davanti alle mura della loro Troia, altri una vita più lunga e meno tribolata. E chi può dire quale sia migliore? Gli dèi mantennero la promessa fatta ad Achille d’una fama immortale, ispirando il poeta a cantare un poema immortale. Ma forse che lui è per questo più felice, adesso che è morto come te? Io di certo non posso giudicare, amico mio. Da quel povero bardo che sono, ricorderò alcuni dei versi che anche tu hai scritto sul più grande degli Argivi, e sul tempo delle grandi morti gloriose: «Pallide delusioni infuriano su questo luogo estremo: minacce di sospiri nel pericolo del tempo… Ma le ceneri mai si tramutano in nuove carni. L’invisibile musica della fiamma disegna l’aria di calore, ma il giorno non è più qui». Addio a te, Philip Graber. Che Febo e Dionisio, che amano ed uccidono i poeti, ti raccomandino al loro nero fratello Ade. E che la sua Persefone, Regina della Notte, guardi a te con favore e ti garantisca un degno posto nei Campi Elisi. Addio.

Le fiamme avevano quasi raggiunto la cima della pira.

Allora vidi Giasone, fermo dietro il carro, con Bortan seduto a fianco. Mi tirai ancora più indietro. Bortan mi venne vicino e s’accucciò alla mia destra. Mi leccò una mano, una volta.

— Grande cacciatore, ne abbiamo perso un altro — gli dissi.

Lui annuì con la sua grande testa.

Le fiamme raggiunsero la cima della pira e cominciarono a mordere la notte. L’aria era piena di dolci aromi e del rumore del fuoco.

Giasone s’avvicinò.

— Padre — disse, — mi ha condotto al posto della roccia infiammata, ma tu eri già fuggito.

Annuii.

— Una creatura non umana amica ci ha liberati. E prima, quest’uomo, Hasan, ha distrutto l’Uomo Morto. Sicché i tuoi sogni si sono provati sinora esatti ed errati al contempo.

— È lui il guerriero con gli occhi gialli della mia visione — ribatté.

— Lo so, ma anche questa è passata.

— E la Bestia Nera?

— Non s’è fatta viva.

— Bene.

Restammo a guardare per molto, molto tempo, mentre la notte si ritirava su se stessa. Diverse volte gli orecchi di Bortan si tesero in avanti, e le sue narici si dilatarono. George ed Ellen non s’erano mossi. Hasan era uno strano osservatore: i suoi occhi sembravano non avere espressione.

— E adesso cosa farai, Hasan? — gli chiesi.

— Tornerò al Monte Sindjar — disse, — per un po’.

— E poi?

Scrollò le spalle. — Quello che sta scritto — replicò.

E allora ci giunse un suono pauroso, come il mugugnare d’un gigante idiota, accompagnato dal rumore di alberi divelti.

Bortan si rizzò sulle zampe e mugolò. Gli asini che avevano tirato il carro si agitarono, a disagio. Uno di loro lanciò un raglio breve e penetrante.

Giasone strinse il bastone appuntito che aveva raccolto dal mucchio di legna, e s’irrigidì.

E poi ci comparve davanti, lì nello spiazzo. Grande, e spaventosa, e terribile come dicevano.

La Mangiatrice d’Uomini…

Il Terrore della Terra…

L’Enorme Creatura Maligna…

La Bestia Nera della Tessaglia.

Finalmente qualcuno era in grado di dire cosa fosse. Ammesso che non ci lasciasse la pelle, ovviamente.

Doveva essere stato l’odore della carne bruciata ad attirarla. Ed era grossa. Stesse dimensioni d’un elefante, come minimo.

Qual era la quarta fatica d’Ercole?

Il cinghiale d’Arcadia, accidenti.

D’improvviso desiderai che Ercole fosse ancora nei paraggi, per darci una mano.

Un maiale enorme… Un pecari, con zanne lunghe come il braccio d’un uomo… Piccoli occhi da porco, neri, che roteavano alla luce del fuoco, selvaggiamente…

Abbatteva gli alberi sul suo cammino.

Grugnì quando Hasan raccolse dalla pira un tizzone ardente e glielo ficcò contro il muso, tirandosi indietro subito dopo.

Fece anche uno scarto, il che mi diede il tempo d’afferrare il bastone di Giasone.

Corsi in avanti e lo centrai con quello nell’occhio sinistro. Allora fece un altro scarto, e squittí come una caldaia che perda.

… E Bortan gli era addosso, a mordergli le spalle.

Cercai di colpirlo per due volte alla gola, ma gli procurai solo ferite superficiali. La bestia si dimenò, scrollando le spalle contro le zanne del mastino, e riuscì a liberarsi di Bortan.

Hasan mi fu al fianco, con un altro tizzone in mano.

Poi ci caricò.

Ma dal fianco, dove non stavo guardando, George gli scaricò addosso una mitragliatrice. Hasan lanciò il tizzone. Bortan l’attaccò di nuovo, questa volta dal lato dov’era accecato.

… E tutto questo lo costrinse a deviare di nuovo nella sua carica, mandandolo a finire contro il carro ormai vuoto. Uccise tutti e due gli asini.

Allora gli corsi contro, ficcando il bastone sotto la sua zampa sinistra.

Il bastone si spezzò in due.

Bortan continuava a morderlo, e il suo ringhio era un rumore di tuono. Quando la Bestia riusciva a toccarlo con le zanne lui abbandonava la presa, s’allontanava un poco, e poi tornava all’attacco.

Ero sicuro che la punta d’acciaio della mia lancia affilata non si sarebbe spezzata. Ma l’avevo lasciata sulla Vanitie…

Hasan ed io lo circondammo, reggendo i rami più appuntiti e robusti che avevamo trovato. Continuammo a colpirlo, per farlo girare in cerchio. Bortan cercava d’azzannargli la gola, ma il grande muso prominente della Bestia era piegato verso il basso, e un occhio roteava e l’altro sanguinava, e le zanne s’agitavano avanti e indietro e su e giù come spade. I suoi zoccoli grossi come forme di pane scagliavano in aria zolle di terreno, mentre l’animale girava su se stesso in senso antiorario, cercando di ucciderci tutti quanti, alla luce arancione del fuoco che danzava graziosamente.

Alla fine si fermò e si girò (all’improvviso, per una bestia di quelle dimensioni), e colpì Bortan di spalle, scagliandolo a tre o quattro metri da me. Hasan lo colpi sulla schiena col suo bastone e io cercai di ficcargli il mio nell’occhio destro, ma lo mancai.

Poi il mostro si mosse contro Bortan, che si stava ancora rimettendo sulle zampe, la testa bassa, le zanne scintillanti.

Scagliai il bastone e saltai contro la Bestia mentre si lanciava sul mio cane. La fermai un attimo prima che sferrasse il colpo mortale con la testa già abbassata.

Le afferrai entrambe le zanne, e la sua testa era tanto piegata da arrivare quasi al suolo. Nulla poteva arrestare quella massa dirompente, capii, mentre facevo pressione in basso con tutta la mia forza.

Ma tentai, e forse ci riuscii anche, per un secondo…

Per lo meno, quando mi trovai scaraventato in aria con le mani ferite e sanguinanti, vidi che Bortan aveva fatto in tempo a levarsi di mezzo.

La caduta mi lasciò intontito, perché ero stato scagliato molto lontano e in alto; e udii un gigantesco grugnito da maiale impazzito. Hasan gridò e Bortan emise di nuovo il suo latrato di guerra a tutta gola.

… E il caldo lampo rosso di Zeus discese due volte dal cielo.

… E tutto fu tranquillo.


Mi rimisi lentamente in piedi.

Hasan stava a fianco della pira fiammeggiante, con un ramo infuocato in mano e in posizione di lancio.

Bortan fiutava quella massa di carne sussultante.

Cassandra stava dietro un cipresso, a fianco di uno dei due asini morti, con la schiena appoggiata al tronco dell’albero. Indossava pantaloni di pelle, una camicetta di lana azzurra, e aveva un debole sorriso sul volto, e il mio fucile per elefanti fumava ancora nella sua mano.

— Cassandra!

Lasciò ricadere il fucile, e si fece pallidissima. Ma l’avevo tra le braccia prima che l’arma toccasse il suolo.

— Più tardi ti chiederò un mucchio di cose — le dissi. — Non adesso. Niente, adesso. Sediamoci dietro questo albero e guardiamo il fuoco bruciare.

E così facemmo.


Un mese più tardi, Dos Santos fu espulso dalla Radpol. Da allora non ho più sentito nulla di lui e Diane. Voci affermano che abbiano abbandonato il Ritornismo, si siano trasferiti su Taler, e adesso vivano là. Spero che non sia vero, dopo quello che è successo negli ultimi cinque giorni. Non ho mai saputo tutta la storia di Parrucca Rossa, e immagino che non la saprò mai. Se avete fede in una persona, fede sul serio, voglio dire, e v’importa di lei, come a Diane importava di me, dovreste almeno fermarvi a vedere chi aveva ragione nella grande disputa finale, lei o voi. Diane non s’è fermata, e io mi chiedo se adesso ha dei rimorsi.

Comunque non credo proprio che la rivedrò mai più.

Subito dopo il riassestamento interno della Radpol, Hasan è tornato dal Monte Sindjar, s’è fermato qualche giorno al Porto, e poi s’è comperato una navicella e una mattina presto è partito, senza nemmeno dirci arrivederci o dare qualche indicazione sulla sua destinazione. Si presumeva che avesse trovato un nuovo impiego da qualche parte. Ma diversi giorni dopo scoppiò un uragano, e a Trinidad sentii dire che Hasan era stato sbattuto sulla costa del Brasile e aveva trovato morte per mano dei fieri guerrieri che ci vivono. Ho cercato di controllare la storia, ma non ci sono riuscito.

Comunque, due mesi più tardi, Ricardo Bonaventura, Presidente della Lega contro il Progresso, una diramazione minore della Radpol che era caduta in disgrazia ad Atene, morì d’un colpo apoplettico durante una riunione di partito. Si disse che le acciughe servite al rinfresco sapevano un po’ di veleno per conigli (una combinazione maledettamente letale, m’assicura George); e il giorno seguente il nuovo Capitano delle Guardie di Palazzo svanì misteriosamente, assieme ad una Lancia e alle minute delle ultime tre sedute segrete della LCP (per non parlare del contenuto d’una piccola cassaforte murale). L’autore del tutto pare essere un tipo molto grosso, con gli occhi gialli, e i lineamenti lievemente orientali.

Giasone accudisce ancora le sue pecore dalle molte gambe nei luoghi alti, dove le dita di Aurora giungono per prime a tingere di rosa il cielo, e senza dubbio corrompe i giovinetti col suo canto.

Ellen è di nuovo incinta, tutta delicata e con la pancia grossa, e parla soltanto con George. George vuole tentare un piccolo esperimento di chirurgia embrionale adesso, prima che sia troppo tardi, e abituare suo figlio a respirare non solo l’aria ma anche l’acqua, per via della grande frontiera vergine che sta sotto il mare, dove i suoi discendenti potranno fare da pionieri, e per di più lui sarebbe il padre d’una nuova razza e potrebbe scrivere un interessante libro sull’argomento, e cose del genere. Comunque Ellen non è che vada matta per quest’idea, e così penso che gli oceani resteranno vergini ancora per un poco.

Oh sì, ho portato George a Capistrano qualche tempo fa, a vedere il ritorno dei pipiragni. Era davvero impressionante: riempivano di nero il cielo col loro volo, facevano i nidi nelle rovine, mangiavano i maiali selvatici, sporcavano di rifiuti verdi le strade. Lorel ha ore e ore di questo spettacolo su pellicola tre-di, e le proietta ad ogni festa dell’Ufficio. È una specie di documento storico, adesso che i pipiragni sono sulla via dell’estinzione. George ha tenuto fede alla parola, e ha dato il via ad un’epidemia slishi, e quelli cadono giù come mosche. Proprio la settimana scorsa me n’è caduto uno davanti ai piedi, con un gran tonfo, mentre me ne stavo andando da Mamma Julie con una bottiglia di rum e una scatola di cioccolatini. Quando ha toccato terra era bell’e morto. Gli slishi sono molto insidiosi. Il povero pipiragno ignora quello che sta accadendo; è lì che vola tutto contento, cercando qualcosa da mangiare, e poi zip!, lo slish lo frega, e quello vola giù nel bel mezzo d’una festa o nella piscina di qualcuno.

Per il momento ho deciso di tenere in piedi l’Ufficio. Organizzerò una qualche specie di parlamento dopo aver creato un partito d’opposizione alla Radpol. Ricin, forse, o una cosa del genere: Ricostruttori Indipendenti.

Buone vecchie forze della distruzione finale… Ne avevamo proprio bisogno, qui tra le rovine.

E Cassandra (la mia principessa, il mio angelo, la mia deliziosa signora) è contenta di me anche senza il fungo. M’è scomparso dopo quella notte nella Valle del Sonno.

Sua, naturalmente, era la nave d’eroi che Hasan aveva visto quel giorno a Pegase. Niente vello, comunque: soltanto le mie armi e cose del genere. Già. Mi ha fatto molto piacere sapere che la Golden Vanitie, una carretta che mi sono costruita tutta da solo, con le mie mani, è riuscita a tener testa persino allo tsunami che s’è levato dopo quel tremendo terremoto. Quando Kos ha cominciato a tremare, Cassandra era già fuori sul mare. E poi ha diretto le vele a Volos, perché sapeva che Makrynitsa era piena zeppa di miei parenti. Oh, una preziosa combinazione, che lei avesse avuto la sensazione del pericolo imminente, e si fosse presa a bordo tutta l’artiglieria pesante. (Una preziosa combinazione, inoltre, che sapesse anche come usarla). Dovrò imparare a prendere più sul serio le sue premonizioni.

Mi sono preso una bella villa piena di pace all’estremità di Haiti, dall’altra parte del porto. Ci vogliono solo quindici minuti di Lancia per arrivare in centro, e c’è una bella spiaggia e una notevole giungla nei dintorni. Debbo tenere una certa distanza, come ad esempio tutta l’isola, tra me e il mondo civile, perché ho questo…

Be’, questo problema logistico. L’altro giorno, quando gli avvocati si sono fatti vivi, non sapevano cosa significasse il cartello ATTENTI AL CANE. Adesso lo sanno. Quello che è finito in trazione non mi farà causa per danni, e George lo rimetterà a nuovo in un batter d’occhio. Gli altri se la sono cavata meglio.

Meno male che ero nei paraggi, comunque.

E così eccomi qui, in una posizione insolita, come sempre.

Tutto quanto il pianeta Terra è stato acquistato dal governo talerita dalla famosa e ricca gens degli Shtigo. La maggioranza degli emigrati voleva la cittadinanza vegana, piuttosto che restare sotto il governo talerita e lavorare nell’Impero in condizioni d’inferiorità, registrati come alieni. La cosa era matura da parecchio tempo, sicché l’unico problema era trovare l’acquirente adatto; perché il nostro ex-governo avrebbe immediatamente perso ogni ragione d’esistenza dopo la concessione della cittadinanza vegana. Finché nell’Impero Vegano c’erano dei terrestri tutto andava bene, ma adesso sono diventati tutti vegani, e quindi non possono più votare per loro; e di certo non saremo noi a farlo.

Per cui si rendeva necessario vendere tutto il pianeta; e gli unici clienti erano la gens degli Shtigo.

Ma il vecchio saggio Tatram ha capito subito che la Terra non apparteneva agli Shtigo. Sicché il contratto d’acquisto è stato fatto a nome di suo nipote, Cort Myshtigo.

E Myshtigo ha lasciato questo testamento, o ultime volontà o come diavolo volete chiamarlo, secondo lo stile vegano…

… in cui sono menzionato io.

… Ho… Uh… Ho ereditato un pianeta.

La Terra, per essere precisi.

Be’…

Accidenti, non la voglio. Cioè, è chiaro che per il momento me la trovo sulle spalle, ma ci sarà bene una scappatoia.

È stato quell’infernale Registro Generale, e quattro altri banchi-memoria di cui s’è servito Tatram. Stava cercando un amministratore locale che rimettesse un po’ in sesto la Terra e creasse un governo permanente sul luogo, e poi rinunciasse al pianeta non appena le cose avessero cominciato a funzionare. Voleva qualcuno che fosse sulla scena da un po’ di tempo, che fosse qualificato come amministratore, e che non desiderasse tenersi tutto per sé.

Tra i diversi altri, il cervello elettronico gli sputò fuori uno dei miei nomi, poi un altro (il secondo era classificato come «forse tuttora vivente»). Allora si diedero da fare con la mia scheda personale e con i dati dell’altro me stesso, e dopo un po’ la macchina tirò fuori altri nomi, tutti miei. Poi cominciò ad annotare discrepanze e somiglianze peculiari, fece delle ipotesi, e fornì risposte sempre più curiose.

A quel punto Myshtigo decise che io dovevo essere «ispezionato».

Cort venne a scrivere un libro.

In realtà venne a vedere se ero Buono, Onesto, Nobile, Puro, Leale, Fedele, Fidato, Indipendente, Gentile, Vivace, Sicuro, e Privo d’Ambizioni Personali.

Il che significa che lui era uno stramaledetto lunatico, perché ha risposto: «Sì, è tutte queste cose».

Devo proprio averlo imbrogliato.

Comunque forse aveva ragione per la mancanza d’ambizioni personali. Io sono un pigrone della malora, e non ho proprio nessuna voglia di tirarmi addosso tutti i mal di testa che nasceranno da questa Terra tormentata.

Ad ogni modo, ho intenzione di farmi qualche concessione per quanto concerne il mio benessere personale. È molto probabile che mi prenda altri sei mesi di vacanza.

Uno degli avvocati (non quello in trazione; quello col braccio ingessato) mi ha portato una lettera del Tipo Blu. Dice, in parte:


Caro Come-Diavolo-Ti-Chiami,

è piuttosto imbarazzante cominciare una lettera a questo modo, sicché rispetterò la tua volontà e ti chiamerò Conrad.

«Conrad», ormai sei al corrente della vera natura della mia visita. Sento d’aver fatto una buona scelta nel nominarti erede della proprietà comunemente indicata col nome di Terra. Non si può mettere in dubbio l’affetto che le porti: come Karaghiosis hai incitato gli uomini a coprirsi di sangue per difenderla; stai restaurando i suoi monumenti, proteggendo i lavori di maggior pregio artistico (e nel mio testamento, voglio ricordartelo, esigo che tu rimetta assieme la Grande Piramide), e la tua ingenuità e la tua forza, sia mentale che fisica, sono singolarmente sorprendenti.

Inoltre tu sei la creatura più simile ad un immortale che abbiamo sinora trovato (darei non so cosa per sapere la tua vera età), e questo, assieme al tuo alto potenziale di sopravvivenza, fa di te l’unico candidato possibile. Se la tua mutazione dovesse mai venirti meno, c’è sempre il trattamento S-S che può aiutarti ad allungare la grande catena dei tuoi giorni. (Potevo scrivere «aiutarti a forgiare», ma non sarebbe stato cortese, visto che tu sei un perfetto forgiatore. Tutte quelle vecchie registrazioni! Hai fatto mezzo impazzire il povero Registro Generale, con le discrepanze che hai inventato. L’abbiamo programmato a non accettare più un certificato di nascita greco come prova di età!).

Affido la Terra nelle mani del Kallikanzaros. Secondo la leggenda, questo sarebbe un grave errore. Ma scommetto che tu fai finta d’essere un Kallikanzaros. Distruggi soltanto quello che intendi ricostruire. Probabilmente sei il Grande Pan, che ha solo finto di morire. Comunque stiano le cose, riceverai entro l’anno fondi sufficienti e un notevole equipaggiamento; e quintali di moduli per richiedere altro materiale alla Fondazione Shtigo. E così vai in pace e sii un uomo operoso e moltiplicati, e riprenditi in eredità la Terra. La gens terrà sempre un occhio aperto. Grida se hai bisogno d’aiuto, e l’aiuto verrà. Non ho il tempo di scriverti un libro. Spiacente. Comunque eccoti il mio autografo:

CORT MYSHTIGO

P.S.: Non so ancora se sia arte. Va all’inferno anche tu.


Ecco quanto.

Pan?

Le macchine non dicono cose del genere, no?

Spero di no, comunque…

La Terra è un pianeta selvaggio. È un posto rognoso e puzzolente. I rottami dovranno essere ripuliti, centimetro per centimetro, prima di pensare a ricostruire.

Il che significa lavoro. Un mucchio.

Il che significa che avrò bisogno di tutto l’appoggio dell’Ufficio e della Radpol, per cominciare.

Per adesso sto decidendo se lasciare in piedi i giri turistici alle rovine. Penso che li farò continuare, perché per una volta tanto avremo qualcosa di buono da far vedere. C’è sempre negli uomini una certa dose di curiosità che li spinge a fermarsi e guardare, attraverso un buco in un recinto, come procedono i lavori di costruzione d’una qualsiasi cosa.

Adesso abbiamo denaro, e il pianeta è di nuovo in nostro possesso, e questo fa una bella differenza. Forse nemmeno il Ritornismo è completamente morto. Se c’è un programma concreto per la rinascita della Terra, potremo far tornare alcuni degli emigrati, far fermare qualche turista.

Oh, se vogliono restare tutti vegani, possono benissimo farlo. Ci piacerebbe vederli qui; ma non ne abbiamo bisogno. Il tasso d’emigrazione diminuirà enormemente, credo, quando la gente saprà che può farcela anche qui; e la popolazione crescerà in proporzione più che geometrica, grazie ai periodi di fertilità prolungata prodotti dal nuovo tipo di S-S, che per ora è molto costoso. Personalmente intendo socializzare il trattamento S-S. Metterò George a capo d’un programma di Salute Pubblica; costruirò degli ospedali sul continente e offrirò a tutti l’S-S.

Ce la faremo. Sono stanco di fare la guardia a un cimitero, e non ho proprio voglia di restarmene fino a Pasqua a segare l’Albero del Mondo, anche se ho una certa propensione per i guai. Quando le campane suoneranno, voglio poter dire «Alèthòs anesté», Tutto A Posto, invece di lasciar cadere la sega e mettermi a correre (Din-don-don le campane, clacketi-clack, gli zoccoli, eccetera). Ora è il tempo di tutti i bravi Kallikanzaroi… Sapete la storia.

E così…

Cassandra ed io abbiamo questa villa sull’Isola Magica. A lei piace il posto. A me piace. Non le importa più la mia età imprecisata. Il che è bene.

Proprio stamattina presto, mentre giacevamo sulla spiaggia a vedere il sole cacciare via le stelle, le ho detto che questo lavoro mi procurerà l’ulcera, tanti mal di testa, e compagnia bella.

— No, non è vero — ha replicato lei.

— Non cercare di minimizzare il futuro — ho detto. — Non ti si addice.

— Vedrai.

— Sei troppo ottimista, Cassandra.

— No. L’altra volta ti ho detto che ti stavi cacciando nei guai, ed era vero, ma non mi hai creduto. Questa volta sento che le cose devono andare bene. È tutto.

— A parte la precisione che hai dimostrato in passato, continuo a pensare che tu sottovaluti quello che ci sta davanti.

Lei s’è alzata e ha pestato i piedi.

— Non mi credi mai!

— Certo che ti credo. Si dà solo il caso che questa volta tu sbagli, cara.

Allora lei s’è tuffata, la mia pazza sirena, nelle acque scure. Dopo un po’ è tornata.

— Okay — ha detto, sorridendo, scrollandosi una pioggia gentile dai capelli. — Certo.

L’ho afferrata per le caviglie, l’ho fatta cadere al mio fianco e ho cominciato a farle il solletico.

— Smettila!

— Ehi, ti credo, Cassandra! Sul serio! Mi senti? Oh, cosa ne dici? Ti credo davvero! Maledizione! Certo che hai ragione!

— Razza d’un bugiardo d’un Kallikanzaros… Oops!

E lei era deliziosa sulla riva del mare e così l’ho tenuta stretta tutta umida, finché il giorno non ci è nato attorno, sentendomi meravigliosamente bene.

Il che è un modo magnifico per terminare una storia.


FINE
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