6

Per un attimo, solo all’inizio, quando si trovava seduta nella sua cabina sulla Wotan ancora nell’orbita di parcheggio intorno alla terra, anche Noelle aveva pensato a quelle cose. Fu un momento in cui si ritrovò molto vicina a perdere la testa. All’improvviso, le parve inconcepibile che il contatto potesse essere mantenuto attraverso le distese immense dello spazio interstellare, e non riusciva a concepire la sua vita senza Yvonne. Era come una spada che calava all’improvviso, tagliando di netto il legame che le aveva unite fin dal momento della loro nascita, e anche prima. In tal caso sarebbe calato il silenzio, l’aborrito, temuto isolamento: con repentino stupore si chiese come avesse potuto accettare di esporsi a un pericolo tanto grande.

“Cosa sto facendo qui? Dove sono? Esci di qui, Noelle! Torna a casa, a casa da Yvonne.”

Una paura selvaggia la scosse come un incendio in una foresta inaridita. Tremava, e quel tremore si trasformò presto in un’angosciosa serie di convulsioni a cui cercò di reagire stringendosi le spalle con le braccia e lasciandosi cadere sul letto, nauseata, terrorizzata, ansante per il panico. E fu allora che, in qualche modo, tornò una certa calma. Chiuse gli occhi, una cosa che l’aiutava sempre, respirò profondamente, si obbligò a rilasciare le braccia e a tornare seduta, e cercò in tutti i modi di rilassare i muscoli del collo e della schiena. Tutto sarebbe andato a meraviglia, continuava a ripetersi, nulla e nessuno poteva dividerla da Yvonne. Il loro contatto sarebbe continuato esattamente come prima del lancio.

Era tempo di tornare nella sala comune. Il comandante intendeva tenere un discorso all’equipaggio al completo prima di partire. Con molta calma, Noelle avanzò lungo i corridoi dell’astronave, sfiorando con le dita ora questa, ora quella parete, inalando quella strana, sterile aria con grandi respiri, per familiarizzarsi con quella che sarebbe diventata la sua casa, cercando di localizzare le varie porte, gli odori e le irradiazioni di calore e di freddo che venivano dalle prese d’aria poco più in alto del pavimento. Era già stata a bordo due volte durante il corso d’istruzione, e quindi cominciava ad avere un’idea della disposizione interna dei locali. L’astronave era stata assemblata interamente nello spazio, poiché era quanto di meno aerodinamico si potesse immaginare, e perché assoggettarla alla potente spinta necessaria per abbandonare il pozzo gravitazionale terrestre poteva mettere a repentaglio la sua integrità. Per mesi, anni, orde di cargo di tutti i tipi avevano fatto la spola tra quel punto e le basi sulla Luna, portando con loro tonnellate di pezzi prefabbricati via via che la struttura originaria cresceva in dimensioni e complessità. Poi era arrivato il momento di scegliere i membri dell’equipaggio, riunirli, portarli lì e insegnare loro ogni segreto della strana nave spaziale in cui dovevano vivere un buona parte della loro vita, forse anni, forse sino alla fine dei loro giorni.

Yvonne sarebbe stata ancora lì, una volta partiti, si ripeteva Noelle. Perché quella volta non doveva succedere?

Non c’era alcun motivo di pensare che il legame telepatico potesse spezzarsi nello spazio. Tuttavia era vero anche l’opposto. Lei e Yvonne rappresentavano un fenomeno decisamente raro, e nessuno aveva mai potuto studiare l’effetto delle distanze cosmiche su due gemelle unite da un fortissimo ponte telepatico. E quindi nulla, se non la fede, poteva supportare l’ipotesi che il contatto tra loro due non risentisse affatto della distanza; ma la fede l’aveva sostenuta solo fino al momento in cui si era fatta prendere dal panico. Lei e Yvonne non si erano parlate spesso da un capo all’altro del pianeta senza la minima difficoltà?

Già. Ma questo valeva anche se a dividerle non era un pianeta, ma una galassia?

Le ultime ore prima della partenza volarono via. L’astronave era piena di gente, la maggior parte estranea all’equipaggio. Noelle ne avvertiva la presenza tutt’intorno a lei: uomini, molti uomini. Sentiva le loro voci profonde e il loro odore penetrante. C’erano anche delle donne, come rivelava il frusciare di diversi tipi di indumenti, vesti sottili, bluse increspate e il tintinnio dei gioielli. Tutti sembravano particolarmente tesi: lo avvertiva dall’odore, dalla particolare atmosfera che si respirava, dall’esitazione quasi impercettibile con cui parlavano.

Be’, perché non essere tesi? Ancora poco e i motori si sarebbero accesi, facendo entrare in gioco forze ancora ignote in grado di far praticamente sparire nel nulla l’astronave.

Qualche prova era già stata compiuta, naturalmente. Il progetto aveva circa un secolo. Si cominciò con sonde automatizzate destinate a viaggi brevi in quella dimensione sconosciuta. Dopo qualche anno, cioè dopo l’intervallo imposto dalle radiotrasmissioni, si ricevettero i loro segnali radio, a conferma del successo di quelle missioni. Una volta constatata la possibilità di viaggiare nel non-spazio, toccò alle prime navette con equipaggio umano, la Columbia e la Ultima Thule, nomi antichi destinati a nuova gloria. La Columbia coprì in pochi giorni una distanza pari a undici mesi-luce, la Ultima Thule pari a quattordici. Entrambe tornarono sulla Terra senza alcun problema. Il viaggio dell’Ultima Thule risaliva a sette anni prima, e i lunghi colloqui con il suo equipaggio fecero parte integrante dell’addestramento dell’equipaggio della Wotan, che doveva necessariamente sapere cosa si provasse a viaggiare nel non-spazio. Difficilmente però si poteva esprimere a parole un insieme di sensazioni tanto complesse, e così i colloqui non servirono praticamente a nulla, soprattutto per Noelle.

E poi la Wotan, un altro nome antico, un dio villoso, indomito e impulsivo delle foreste nordiche, fu pronta a partire. “E tu, Noelle?” si chiese. “Sei pronta a partire?”

Discorsi finali. Un sacco di fanfara. Trombe e tamburi accompagnarono alla porta politici e scienziati convenuti per vederli partire. Il comandante, eletto il giorno prima per un anno, uno scandinavo taciturno con una voce meravigliosamente musicale, disse loro di prepararsi alla partenza. Forse con quello intendeva invitarli a recitare tutte le preghiere che conoscevano, o comunque a fare ciò che più credevano opportuno per placare le loro menti in attesa di compiere l’irrevocabile balzo che li avrebbe portati da una vita a un’altra.

“Yvonne? Mi senti?”

“Ma certo.”

“Stiamo per partire.”

“Lo so. Lo so.”

Non vi fu alcuna sensazione di accelerazione. Perché avrebbe dovuto esservi? Non si trovava su una delle navette che collegavano la Terra alla Luna o a qualche colonia spaziale. Non c’erano forti propulsori a bordo, solo una coppia di motori convenzionali relativamente modesti, da usare per le esplorazioni planetarie. Nessuna spinta veniva applicata, nessuno dei tradizionali schemi di accelerazione. Tuttavia, qualche sorta di motore stava per attivarsi nelle viscere dell’astronave, un motore in grado di generare delle forze in gran parte ancora ignote. L’astronave si muoveva, certo, ma non in senso newtoniano e comunque non in senso einsteniano. Perché si trattava di un movimento dallo spazio al non-spazio, dove non si poteva applicare la relatività. Massa, inerzia, accelerazione, velocità rappresentavano dei concetti irrilevanti in quella nuova dimensione. Prima si trovavano nello spazio convenzionale a qualche migliaio di chilometri dalla superficie della Terra, e un attimo dopo fluttuavano, silenziosi come comete, attraverso un tunnel che si apriva in un universo pieghettato e chiuso su se stesso. Era un universo alternativo ma adiacente e parallelo all’universo empirico delle stelle e dei pianeti, della massa e dell’energia, della gravità e dell’inerzia, dei fotoni, degli elettroni, dei neutrini e dei quark, della terra, fuoco, aria e acqua. Presi in una sorta di inconcepibile flusso, proiettati a velocità impossibile attraverso un grigiore totalmente vuoto, un’oscurità mille volte più nera delle tenebre in cui Noelle aveva passato la sua vita.

Era avvenuto, sì. Noelle non aveva dubbi al riguardo. Per un attimo le era sembrato di trovarsi sul ciglio di un abisso infinito. E poi si rese conto di trovarsi nel non-spazio. Qualcosa era avvenuto; qualcosa era cambiato, qualcosa di impossibile da definire e da quantificare. Forze al di là della sua comprensione, alimentate da misteriose energie che spaziavano nell’universo da parte a parte, erano entrate improvvisamente in gioco, proiettando senza la minima vibrazione la Wotan dall’universo concreto ed empirico, l’universo dello spazio, del tempo e della materia, in questo altro spazio. Sapeva che era accaduto, ma non aveva idea di come facesse a saperlo.

“Yvonne, mi senti? Yvonne?”

La risposta arrivò all’istante con assoluta chiarezza. Non riuscì neppure a provare paura. La voce di Yvonne risuonò nella sua mente, calda e confortevole.

“Ti sento perfettamente.”

Il contatto era puro e cristallino, chiaro come sempre. E così rimase giorno dopo giorno.

Durante le prime, strane ore di viaggio, Noelle e Yvonne interruppero raramente il contatto, ma sebbene l’astronave continuasse ad allontanarsi la trasmissione non diede alcun percettibile segno di degrado. Pareva loro di trovarsi in stanze adiacenti. Oltre la distanza orbitale della Luna, oltre il milionesimo chilometro, oltre la distanza orbitale di Marte; il contatto restò nitido e forte. Le due gemelle avevano superato una sorta di prova scientifica: la chiarezza del contatto non era una funzione quantitativa della distanza, almeno fino ad allora.

A quel punto, venne loro spiegato che l’astronave stava ancora viaggiando a velocità inferiore a quella della luce. Ci voleva tempo anche nel non-spazio per raggiungere la piena velocità. Il processo di accelerazione nel non-spazio, quantitativamente e concettualmente diverso da ciò che tutti concepivano come accelerazione nello spazio normale, era pur sempre un processo graduale. Ci sarebbero voluti diversi giorni per raggiungere la velocità della luce.

La velocità della luce! Magica barriera! Noelle ne aveva sentito parlare così spesso: la velocità limite, il confine tra il noto e l’ignoto. Cosa sarebbe accaduto al ponte telepatico una volta raggiunto e superato quel limite? Nessuno ne aveva idea. Noelle sapeva solo che, nonostante l’enorme distanza e la velocità a cui procedevano, Yvonne era sempre lì con lei, e questo la rassicurava profondamente. Tuttavia non poteva fare a meno di domandarsi che cosa sarebbe successo una volta che fossero penetrati nel reame in cui persino i fotoni non potevano entrare. Cosa poteva succedere? Come avrebbe fatto senza Yvonne? Nessuno aveva discusso queste cose con lei. E lei ne sapeva così poco! Aveva sempre sentito che viaggiare a velocità superiore a quella della luce comportava paradossi, mistero, bizzarria. C’era qualcosa di proibito in quel passo. “Era contro la Legge.”

Quella terribile tensione riprese a farsi sentire. La grande prova, quella che sperava essere l’ultima, si avvicinava. Non aveva mai avuto tanta paura. Superare la barriera della velocità della luce poteva rendere impossibile alla sua mente l’aggancio con l’universo normale, e quindi il contatto con Yvonne. Chi poteva dirlo? Non aveva mai viaggiato a simili velocità prima di allora. Ancora una volta si ritrovò a riflettere sulla possibilità di un’esistenza senza Yvonne. Mai, in vita sua, si era sentita tanto sola. Ma adesso… adesso…

E di nuovo le sue paure si rivelarono insensate. A un certo punto di quel giorno, raggiunsero la sinistra barriera, superandola senza neppure un annuncio formale. Dopotutto, si trovavano fuori dallo spazio einsteniano fin dal primo momento di quel viaggio: perché, dunque, dare importanza al superamento di una barriera significativa solo per l’universo normale quando ne erano già fuori, tranquillamente in viaggio nel non-spazio?

Quel giorno qualcuno le raccontò che stavano già muovendosi più veloci della luce. La sensazione che le dava la costante presenza di Yvonne non si era attenuata neppure per un attimo.

“È accaduto” riferì a sua sorella. “Eccoci qui, ovunque sia” aggiunse, e repentina come sempre arrivò la risposta di Yvonne. Un caldo, ridente saluto dal vecchio continuum. Il segnale rimase nitido e forte, nitido e forte, fino all’arrivo del primo disturbo.


Hesper sapeva di trovarsi nel suo elemento. Il comandante aveva convocato tutto l’equipaggio in riunione, e lui avrebbe illustrato a tutti le sue ultime scoperte e le sue conclusioni. Dopo molte esitazioni, il comandante si era finalmente deciso a compiere quel passo, dichiarare che Hesper aveva trovato tracce di un pianeta, in effetti di diversi pianeti, che sembravano offrire le condizioni per stabilire una colonia. Si imponeva quindi di far rotta su quello più promettente con l’intenzione di effettuare uno sbarco.

Per quanto grande fosse la Wotan, più grande di qualunque altra nave spaziale, non aveva uno spazio sufficientemente grande per una riunione di cinquanta persone. L’equipaggio dovette stiparsi nel corridoio centrale del ponte superiore, invadendo anche parte della sala comune. La gente si alzava in punta di piedi, si sporgeva dalle porte, si arrampicava sulle paratie del corridoio.

In piedi davanti a loro con le braccia vanitosamente conserte, Hesper esibì il più largo dei sorrisi, una cosa di prima grandezza, e disse: — La galassia è piena di pianeti. Questo non rappresenta certo un segreto. In ogni caso, noi abbiamo determinati limiti fisici che ci obbligano a cercare un pianeta con la massa appropriata, una distanza dal suo sole adatta alla vita, una composizione atmosferica a noi compatibile, e…

— Cerchiamo di arrivare al punto — lo interruppe Sieglinde, una donna muscolosa dai modi bruschi, con grandi seni e capelli color miele riuniti in una lunga treccia. Era famosa per la sua impazienza. — Questa roba la conosciamo tutti.

Il brillante sorriso di Hesper svanì all’istante. Il piccolo uomo la fulminò con lo sguardo.

— Sieglinde, forse per lei ho trovato il pianeta giusto: è simile a Giove ma molto più grosso e ha una temperatura media superficiale di seimila gradi Kelvin, sotto una cappa di gas corrosivi spessa cinquantamila chilometri. Io credo che ci si troverà bene. Per quanto riguarda noi…

Sieglinde continuò a borbottare, ma Hesper non si scostò di una virgola dal discorso che aveva in mente. Senza sosta, ricordò a tutti che il pianeta che cercavano doveva appartenere alla rara categoria di pianeti su cui l’uomo poteva vivere. Questa cosmica banalità venne esposta in termini di temperatura, attrazione gravitazionale, composizione atmosferica, costante solare e tutto il resto; dopodiché Hesper chiese se qualcuno aveva qualche domanda da fare.

Sieglinde borbottò qualcosa di poco rispettoso in tedesco; Zena le diede una leggera gomitata dicendole di tacere, mentre tutti gli altri attesero in silenzio.

— Bene — riprese Hesper. — Adesso vi spiegherò cosa ho trovato.

Un leggero tocco su uno degli interruttori e le luci del corridoio si abbassarono, mentre un’immagine tridimensionale comparve dietro Hesper, proprio all’altezza di un nodo d’intersezione tra due linee di comunicazione.

Era l’immagine di una stella e del suo sistema solare, si affrettò a spiegare Hesper. Per il momento la stella non aveva un nome, ma solo una sigla di catalogazione di otto caratteri. Pertanto, non era mai stata scoperta dagli antichi astronomi arabi che, mille o duemila anni prima, avevano dato a Rigel, Mizar, Aldebaran e altre stelle i loro poetici nomi. Solo una sigla per quella stella, dunque; tuttavia aveva diversi pianeti: sei, per la precisione.

— Questo è il pianeta A — annunciò. Gli stipati viaggiatori contemplavano intanto un grosso punto luminoso con sei altri puntini in orbita attorno. Hesper spiegò che quella non era una vera e propria immagine telescopica, ma solo una decodificazione analogica della realtà. Una simulazione assolutamente realistica, si affrettò a rassicurare. Gli strumenti grazie a cui riusciva ad alzare il velo del non-spazio erano accurati quanto un telescopio. — Quella che vedete è una stella della sequenza principale di tipo G2. Le stelle di tipo G e forse quelle di tipo K sono le sole stelle che possono risultare accettabili per noi. È un sole giallo arancio, molto simile quindi al sole della Terra. Il pianeta per noi interessante è il quarto pianeta.

Un altro vago movimento del dito indice, e uno dei sei piccoli puntini prese a espandersi occupando interamente l’immagine: un globo verde dalle accese tinte blu, rosse e marrone con grossi cumuli bianchi sparsi qua e là. Tutto sommato l’aspetto era familiare. — Eccolo qua. Vi ricordo ancora una volta che non è un’immagine telescopica, ma una sofisticata elaborazione dei dati in nostro possesso. Ha un diametro molto vicino a quello della Terra. La distanza dal suo sole è tale che ai poli devono esservi delle moderate calotte di ghiaccio. L’esame spettrografico indica un forte calo della luminosità a 0,76 micron, cioè la lunghezza d’onda a cui le molecole di ossigeno assorbono le irradiazioni. Anche l’azoto è presente, più che sulla Terra, ma comunque entro i nostri livelli di tollerabilità. Ho anche indicazione della presenza di acqua e, visto che la distanza di questo pianeta dalla sua stella è tale da consentire all’acqua di esistere in superficie, è logico supporre che vi siano mari, laghi e fiumi. Ora, notate anche la brusca banda di assorbimento all’estremità più lontana dello spettro visibile: 0,7 micron circa. La luce verde viene riflessa, la rossa e la blu assorbite. Questa è una caratteristica della clorofilla.

— Insomma, a che ora atterriamo? — disse Paco.

Ma nulla ormai poteva interrompere Hesper. — Tuttavia dobbiamo anche notare la minuta presenza di metano, uno virgola cinque parti per milione. Non è molto, in effetti, ma da dove viene questo metano? Il metano si ossida rapidamente in acqua e anidride carbonica. Se l’atmosfera di questo pianeta fosse equilibrata, il metano non sarebbe più presente già da tempo. Pertanto dev’esservi qualche fonte di squilibrio: capite ciò che intendo? Qualcosa genera continuamente nuovo metano, sostituendo il metano ossidato. Ora, di cosa può trattarsi? Di processi metabolici in corso? Di batteri o altri organismi? Vita, in ogni caso, di un tipo o di un altro. Ogni indicazione raccolta finora indica quindi un certo grado di abitabilità.

— E se il pianeta fosse già abitato? — chiese Heinz. — Che facciamo se non vogliono intrusi tra i piedi?

— Be’, certamente non abbiamo alcuna intenzione di atterrare su un pianeta già abitato da forme di vita intelligente. Questo però può essere facilmente determinato mentre siamo ancora a una certa distanza: l’emissione di onde radio modulate, per esempio, oppure determinati segni di sfruttamento del territorio…

— Quanto dista questo pianeta dalla nostra posizione attuale? — domandò Sylvia.

Hesper parve a disagio. Aprì le dita delle mani piccole e curate e guardò silenziosamente il comandante.

— Non è facile rispondere a questa domanda — spiegò il comandante. — Fino a quando viaggeremo nel non-spazio non avremo coordinate su cui basarci tranne quelle della Terra.

— Rispetto alle coordinate della Terra, allora — insistette Sylvia.

— Circa novantadue anni-luce — disse Hesper a quel punto.

Un generale mormorio attraversò il corridoio. Novantadue anni-luce era una definizione che portava il peso di un’enorme distanza.

— Dovremmo riuscire a raggiungerlo — riprese il comandante facendo una stima rapida quanto approssimativa — in meno di sette mesi.

Cessato il mormorio, Hesper riprese a parlare: — L’altro prospetto per noi interessante, che chiameremo pianeta B, dista ottantasei anni-luce dalla Terra e possiede caratteristiche molto simili al pianeta A, anche se presenta maggiori indicazioni sulla presenza di molecole organiche — spiegò, mentre un nuovo schema virtuale comparve a mezz’aria a poca distanza dal primo, undici puntini di luce ammassati attorno alla loro piccola, luminosa stella. Di nuovo, Hesper cominciò a parlare di spettri, costanti solari, gradienti di temperatura, dimensioni probabili, attrazione gravitazionale, emissioni elettromagnetiche e tutti gli altri fattori che andavano considerati.

Qualcuno dei più cauti chiese se avevano abbastanza informazioni da pensare a un atterraggio.

Il comandante rispose affermativamente. Quanto sapevano bastava per consigliare almeno una missione esplorativa. Ciò che non sapevano lo avrebbero appreso inviando delle sonde automatizzate sui pianeti prescelti, per poi decidere se intraprendere o meno un’esplorazione su vasta scala. Ma, per prima cosa, dovevano decidere se abbandonare il corridoio di non-spazio e avvicinarsi ai pianeti designati. Questo comportava alcuni rischi, ma non potevano evitarlo. I rischi si sarebbero presentati ogniqualvolta uscivano dal non-spazio o vi rientravano nuovamente: ecco perché la decisione andava valutata attentamente.

A quel punto, il comandante decise di sottoporre la questione al voto dell’equipaggio: la sua proposta era di esplorare dapprima il pianeta A; se questi si fosse rivelato inadatto, potevano esplorare il pianeta B.

Nessuno si oppose: dopotutto erano lì per cercare un nuovo mondo su cui vivere.


Giocare a Go sembrava allentare la tensione di Noelle. Ormai giocava ogni giorno da settimane, venendo presto presa dal gioco come gli altri. E, per dirla chiaramente, la sua abilità era semplicemente impressionante.

Il comandante fu il suo primo avversario. Visto che non giocava da anni, inizialmente si rivelò molto arruginito. Ma, in pochi minuti, i vecchi schemi ritornarono alla mente e si ritrovò a disporre muraglie di pedine con abilità. Nonostante si aspettasse di vedere Noelle perdere miseramente, incapace di ricordare la disposizione sulla scacchiera dopo le prime poche mosse, lei si rilevò in grado di tenere tutto a mente senza la minima difficoltà. Solo in una cosa Noelle aveva sopravvalutato le proprie capacità: nonostante tutta la coordinazione e l’impegno che ci metteva, non riusciva a sistemare le pedine senza spostare!e pedine già sulla scacchiera. Le proteste del comandante la spinsero ad ammettere a se stessa questa sua difficoltà, e da lì in poi si accontentò di indicare la mossa ad alta voce, M17, Q6, P6, R4, C11, e lui sistemava le pedine per Noelle. Inizialmente, il comandante giocò senza aggredirla, dando per scontato che una novellina tosse debole e disordinata, ma presto la scoprì capace di difendere con le unghie e con i denti il suo territorio, portando al contempo feroci attacchi all’avversario. Allora decise di sviluppare strategie più offensive. La prima partita durò due ore, e lui vinse con sedici pedine di vantaggio: un buon margine, ma nulla di cui potersi vantare, considerando che il comandante giocava ormai da anni e che lei era alla sua prima partita.

Gli altri si dimostrarono scettici sull’abilità di Noelle. — Logico che giochi bene — borbottò Paco. — Tutti sanno che può leggere la mente, e quindi vede la scacchiera attraverso gli occhi dell’avversario e sa in anticipo quale sarà la sua mossa.

— Insomma, basta con questa leggenda. La sola mente che può leggere è quella di sua sorella — scattò il comandante.

— Come fa a saperlo con certezza? Forse non dice la verità.

Il comandante s’incupì. — Giocateci voi, allora, poi vedrete se legge la mente o se è semplicemente molto abile!

Con una torva occhiata, Paco concordò. Quella sera sfidò Noelle e più tardi tornò dal comandante con aria quasi dispiaciuta. — Gioca molto bene, accidenti. Mi ha quasi battuto, e lo ha fatto onestamente.

Il comandante giocò una seconda partita con Noelle. Lei sedette tutto il tempo senza muoversi, occhi chiusi, labbra tese, indicando le sue mosse con voce bassa e monotona come un robot. In effetti, in quel momento ricordò al comandante qualche sorta di dispositivo intelligente concepito apposta per il gioco. Raramente pensava più di qualche secondo alle proprie mosse, e non compì mai alcun errore tanto palese da dover ritrattare. La sua capacità di sviluppare degli schemi di gioco era cresciuta con incredibile rapidità, in quei pochi giorni: dopo poco meno di mezz’ora, il comandante si ritrovò quasi escluso dal centro della scacchiera e dovette dar fondo a tutta la sua perizia per vincere di stretta misura. Dopodiché Noelle perse ancora una volta con Paco e poi con Heinz, mostrando però dei progressi tecnici incredibili, e finalmente, dopo soli quattro giorni dalla sua prima partita, sconfisse Chang, un giocatore rispettato. Da quel momento in poi divenne invincibile. Giocava due o tre partite al giorno, e trionfò su Leon, Elliot, il comandante e Sylvia. Go era diventato qualcosa di speciale per lei, qualcosa che andava ben oltre il semplice gioco concepito per mettere alla prova la propria agilità mentale. Concentrava le sue energie a tal punto su quella scacchiera che giocare equivaleva quasi a una disciplina religiosa, una sorta di meditazione. Il sesto giorno sconfisse Roy, il campione in carica, con tanta facilità da lasciare tutti di sasso. Roy non parlò d’altro per tutta la sera. Il giorno dopo chiese la rivincita e venne nuovamente sconfitto.

Da allora non smise mai di giocare. Sedeva, avvolta da una luminosa sfera di “Noellità”, come una sorta di creatura ultraterrena che per strani e misteriosi scopi aveva deciso di cercare la pace in quel piccolo universo composto di pedine bianche e nere.


“Finalmente è deciso: compiremo la nostra prima visita planetaria. La prima di chissà quante. Quando, mi chiedo, potremo finalmente fermarci nella nostra nuova casa? Non potrebbe darsi che questo primo tentativo ci porti a scoprire un pianeta praticamente abitabile, ma con qualche serio inconveniente che causerà lunghe, spossanti discussioni sull’opportunità o meno di restare? Nessuno di noi desidera stabilirsi su un pianeta non completamente adatto, naturalmente, ma qual è la definizione di pianeta adatto? Un pianeta che sia uguale alla Terra al novantanove virgola settantasette per cento? Cieli azzurri, nuvole soffici, foreste verdi, gravità perfetta, clima piacevole, frutti maturi e commestibili sugli alberi, animali facilmente addomesticabili e utili per costruire la civiltà che verrà… trovare un posto come questo è quasi impossibile. Se restiamo idealmente attaccati all’immagine della Terra, percorreremo in lungo e in largo la galassia per i prossimi cinquantamila anni.

“Il pianeta su cui ci stabiliremo, al contrario, presenterà molte delle caratteristiche terrestri, ma non tutte. È ovvio che abbiamo bisogno di un’atmosfera basata sull’ossigeno, una disponibilità d’acqua praticamente illimitata e un sistema biochimico compatibile con il nostro organismo. Non potremo mai stabilirci su un pianeta per noi velenoso, né su un pianeta pieno di virus letali o dotato di una gravità eccessiva: tuttavia, dobbiamo capire che, ovunque ci stabiliremo, sarà necessario effettuare dei profondi interventi sull’ambiente, sfruttando tutta la nostra tecnologia per adattare il territorio alle nostre esigenze. E, probabilmente, sarà necessario intervenire anche sul nostro patrimonio genetico: forse un giorno giungeremo al punto di discutere seriamente se i nostri figli o i nostri nipoti potranno essere considerati umani oppure no.

“L’equipaggio sarà disposto a intraprendere questa strada dopo la prima, la decima, la centesima esplorazione planetaria? Oppure voterà sempre contro, sperando di trovare qualcosa di meglio nel prossimo futuro? Siamo forse destinati a sprecare l’intera nostra vita in cerca del pianeta perfetto?

“Un comandante autocratico potrebbe obbligare l’equipaggio a fermarsi su un determinato pianeta semplicemente ordinandolo. Ma il modo in cui il comando è stato concepito qui a bordo nega la possibilità di un potere autocratico. E, in ogni caso, quando raggiungeremo il pianeta A, io non sarò più il comandante, poiché il mio anno sarà giunto al termine. Potrebbero rieleggermi, comunque, e questo mi darebbe l’opportunità di far pesare il mio parere riguardo la convenienza o meno di stabilirsi sul pianeta A o, eventualmente, sul pianeta B. Tuttavia, se voglio far parte della squadra che condurrà la prima esplorazione non posso essere rieletto. E darei qualunque cosa per far parte di quella squadra. Ma purtroppo non posso avere entrambe le cose.

“Chi sarà il mio successore? Heinz? Roy? Sieglinde? Adesso come adesso non vedo alcun candidato ideale, e questo mi mette a disagio. Tutto può succedere una volta che questa assemblea di prime donne comincia a votare: ecco perché mi sento così restio a passare a qualcun altro la responsabilità del comando.

“Un’altra cosa va considerata. Davvero possiamo uscire dal non-spazio e rientrarvi con la massima facilità? Questa, dopotutto, è un’astronave sperimentale. Non siamo completamente sicuri della sua capacità di assorbire certe sollecitazioni. Potrebbe riservarci un sacco di sorprese al momento cruciale. E poi bisogna valutare anche un aspetto matematico di cui non avevo idea. Ne parlavano Roy e Sieglinde proprio l’altro giorno. Il propulsore stellare, dicevano, obbedisce a fenomeni probabilistici ancora poco compresi… anzi, a essere sinceri, ancora del tutto inspiegati. Ogniqualvolta abbandoniamo il non-spazio o vi rientriamo esiste la possibilità che l’astronave reagisca in modo totalmente inaspettato. Può succedere che qualcosa vada storto, qualcosa che non saremo in grado di correggere, obbligandoci a fare i conti con un catastrofico guasto che potrebbe bloccarci ovunque capiti, non-spazio o spazio normale. Anzi, adesso che ci penso, potrebbe benissimo capitare che, quando cercheremo di tornare nello spazio normale, scopriremo che per qualche motivo risulterà impossibile.

“Certo che questo è proprio un bell’elenco di preoccupazioni per due misere pagine di un giornale di bordo; tuttavia mettere per iscritto le proprie preoccupazioni ha, secondo me, un buon effetto terapeutico. In realtà, io affronto questi problemi esattamente come affronto tutti i problemi della mia vita, cioè uno alla volta, nell’ordine più appropriato. Adesso, per esempio, è completamente inutile preoccuparsi di cosa faremo una volta trovato un pianeta abitabile, per il semplice motivo che il primo, il pianeta A, dista più di sei mesi da qui. Pertanto non vi è neppure bisogno di chiedersi se riusciremo a lasciare il non-spazio e se riusciremo a rientrarvi. E per quanto riguarda l’elezione del nuovo comandante, devo confidare nel buon senso e nella capacità di scelta dei miei compagni di viaggio, invece di preoccuparmi della mia presunta indispensabilità e della possibilità che mi sostituiscano con una sorta di pagliaccio.

“Ciò di cui mi devo preoccupare adesso è solo di localizzare il pianeta A con delle plausibili coordinate einsteniane, avvicinarsi quanto più possibile senza abbandonare il non-spazio e uscire da questo tunnel non relativistico a una distanza che ci consenta di raggiungere facilmente il sistema solare della nostra prima proiezione.

“In teoria, dovremmo riuscirci abbastanza facilmente. Fallire proprio su ciò che abbiamo studiato con più profitto getterebbe una pessima luce sul nostro futuro.

“Ormai siamo in viaggio per la nostra prima, grande esplorazione. Non credo affatto che troveremo la Nuova Terra al primo tentativo. Tuttavia, chi non risica non rosica. Ed esiste sempre la possibilità, piccola, molto, molto piccola, di riuscire a trovare subito ciò che stiamo cercando. Tutt’e due i pianeti mostrano delle caratteristiche molto interessanti, per quanto possiamo dire a questa distanza con le apparecchiature a nostra disposizione. Quello che dobbiamo fare adesso è andare là e vedere di persona.”


Trasmissione del mattino. Noelle sedeva dando la schiena al comandante, e ascoltava ciò che lui le leggeva, per poi inviarlo telepaticamente attraverso un baratro che ormai misurava più di venti anni-luce. — Aspetti — disse. — Yvonne mi chiede di ripetere. Ricominciamo da “metabolico”.

Lui si fermò, tornò indietro con lo sguardo e riprese a leggere.

— L’equilibrio metabolico generale rimane buono anche se, come già riferito in precedenza, alcuni membri dell’equipaggio cominciano a mostrare delle carenze di manganese e potassio. Stiamo adottando le appropriate contromisure, ma…

Noelle lo invitò a fermarsi con un brusco cenno. Il comandante la guardò sorpreso. Lei si chinò in avanti e appoggiò la fronte sul tavolo, premendosi le mani sulle tempie.

— Ancora quelle scariche statiche — spiegò. — Oggi sono forti come non mai.

— Riesce a sentire Yvonne?

— Sì. Riesco a sentirla ma devo sforzarmi al massimo, e anche Yvonne continua a chiedermi di ripetere. — Smise di tenersi le tempie e si raddrizzò. Alzò la testa, cercando gli occhi del comandante in quel suo modo stranamente intuitivo. Il suo volto era una maschera di tensione, la sua fronte corrugata e madida di sudore. Per un attimo, il comandante provò l’istinto di abbracciarla, stringerla, consolarla, ma lei disse raucamente: — Non so cosa stia accadendo, comandante.

— Forse la distanza…

— No!

— Sono più di venti anni-luce.

— Non importa — insistette lei, stavolta un po’ più pacatamente. — Abbiamo già dimostrato che la distanza non è un fattore significativo. Se il contatto resta identico dopo un milione di chilometri, un anno-luce o dieci anni-luce, allora non dovrebbe esservi alcuna improvvisa caduta di intensità a qualunque altra distanza. Crede forse che non ci abbia pensato?

— Naturalmente ci avrà pensato, Noelle.

— Non è come due persone che si parlano e che improvvisamente non si sentono più. Il contatto era perfetto a dieci anni-luce, a quindici. Erano già distanze immense. Se riuscivamo a sentirci a quelle distanze, allora dovremmo sentirci anche adesso.

— Forse. Vede, Noelle…

— L’attenuazione di un segnale è una cosa, le interferenze sono un’altra. La curva di attenuazione è graduale. Tenga presente che io e Yvonne avevamo un accesso completo e non distorto alla mente dell’altra dal momento in cui abbiamo lasciato la Terra fino a pochi giorni fa. Adesso invece… No, comandante, non può trattarsi di attenuazione. Si tratta invece di qualche tipo di interferenza, ne sono certa, qualche fenomeno locale tipico di questa regione del non-spazio.

— Il famoso “effetto macchie solari”. Sì, lo so. In tal caso, quando usciremo dal non-spazio per puntare verso il pianeta A questo effetto dovrebe sparire.

— Speriamo — ribatté seccamente Noelle. — Adesso converrà riprendere, comandante. Yvonne sta chiedendomi che cosa succede. Riprendiamo da “manganese e potassio”.

— Va bene. Manganese e potassio. Stiamo adottando le appropriate contromisure…


Il comandante visualizzava il contatto tra le due sorelle come una freccia che attraversava sibilando l’immensa distanza tra una stella e l’altra, una scintilla che percorreva a velocità impossibile un luminoso condotto, un rivolo di pura forza che si univa a un fiume celestiale. Talvolta pensava all’unione di quelle due menti come a un raggio di pura luce, un raggio che univa l’astronave in allontanamento al suo pianeta madre. E talvolta gli capitava di sognarle entrambe, Yvonne e Noelle, Noelle e Yvonne, una di fronte all’altra nel cosmo, le mani tese e raggi di luce che uscivano dalla punta delle dita. E quel meraviglioso legame tra le due sorelle in grado di estendersi per tutta la galassia emetteva una luminosità tanto intensa da farlo agitare e gemere nel sonno, obbligandolo ad affondare la testa nel cuscino.

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