Poiché era una dei pochissimi che riuscivano a decifrare il suo linguaggio da laringectomizzato, alla segretaria venne chiesto di spingere la sedia a rotelle dell’uomo lungo gli antichi viali ombrosi del college. Ma davanti alla scalinata della terrazza dovette fermarsi. — Cercherò qualcuno che mi aiuti — disse, e si chinò per ascoltare il sussurro di lui. — Oh, no — lo rassicurò. — Non è un disturbo, Dr. Hawking! — E non mentiva. Anche nell’afa di quell’Agosto inglese (c’erano più di 35 gradi!) scortare uno scienziato di fama mondiale nei bei viali di Cambridge non era una seccatura. Era un onore, e una responsabilità. Ma quando la donna fece ritorno con un robusto impiegato e un ansioso professore del King’s College, le sfuggì un grido di sconforto. — Ma non può essersi alzato da solo! — gemette. Tuttavia davanti a loro c’era la sedia a rotelle, con le cinghie di sicurezza ancora allacciate, il poggiapiedi fissato in alto per tenere ferme le sue gambe invalide… ma Stephen Hawking non era più lì.


Data: 11-110 111-111, mo 1-000, da 11-101
Ore: 1-010, mn 11-110 — Senatore Dominic DeSota

Non riuscireste mai ad abituarvi a saltare da un tempo parallelo a un altro, neppure se sapeste che è quanto vi sta accadendo.

Io non lo sapevo.

Tutto ciò che seppi fu che un momento prima stavo affrettandomi giù per le scale che scendevano dall’appartamento della Presidentessa, con gli occhi fissi sulla donna che amavo. E un momento dopo, senza alcun percepibile intervallo di tempo (avrebbero potuto essere ore, e avrebbero potuto essere giorni) giacevo disteso sulla schiena mentre una voce mi sussurrava dolcemente all’orecchio che non avevo nulla di cui preoccuparmi. Quello era proprio il genere di cose che riuscivano a preoccuparmi. Sapevo riconoscere una bugia quand’era abbastanza grossa, e un nodo d’angoscia mi strinse alla gola.

Questo era ciò che provavo a livello mentale. Ma il mio corpo non sembrava far parte di quel tormento, di quell’angoscia. Giaceva immobile e perfettamente rilassato. Non avevo mai provato una tale rilassatezza fisica fin’allora, salvo forse ogni tanto dopo un amplesso davvero prolungato con Nyla quando ambedue ci abbandonavamo piacevolmente sfiniti. Non voglio dire che le mie condizioni avessero qualcosa di sensuale, solo che ero in uno stato di pieno e completo riposo muscolare.

Non c’era motivo che giustificasse questo. C’erano mille motivi per cui avrei dovuto essere teso e allarmato, e avrei dovuto sentirmeli come un groviglio doloroso nei muscoli e nei nervi. Inoltre nulla di quel che potevo vedere o sentire sembrava fatto per rassicurarmi. Ero disteso su un giaciglio duro in un locale simile a una stanza mortuaria delle più macabre. C’era un’altra dozzina di giacigli oltre al mio, ciascuno con un corpo umano su di esso. L’acre odore di medicinali e sostanze chimiche mi convinse che doveva trattarsi appunto di una «morgue».

Neanche la persona che mi stava sussurrando all’orecchio era rassicurante. Non aveva faccia. Uomo o donna che fosse, ciò che riuscivo a vedere era un velo color carne che celava tutto dai capelli al mento. Oscillava appena, mentre la voce parlava, ma sotto di esso non s’indovinavano forme o lineamenti d’alcun genere. Lei (o lui) stava dicendo: — Sarà trattato bene, uh, senatore, uh, DeSota, e godrà della più completa libertà personale. — E mi poteva vedere, benché non gli/le scorgessi gli occhi, perché le sue mani mi stavano toccando, e dove lui/lei mi toccava avvertivo un formicolio o una fitta di dolore.

Mi stava facendo qualcosa. Potevo solo lasciare che lo facesse.

E c’era un’altra cosa che dovetti lasciar succedere. Non voglio dire che non fossi scosso, o preoccupato… diavolo, ero terrorizzato! Ma qualunque cosa la mia mente provasse a dire al mio corpo esso non ubbidiva: faceva ciò che gli diceva di fare qualcun altro. Non c’era bisogno che gli fosse detto in parole; tocchi e gesti bastavano, e all’istante il mio corpo si muoveva, si girava, o presentava al richiedente la parte da lui desiderata.

D’un tratto ricordai che avevo già visto qualcosa di simile, dopo che Nyla Senzapollici e il suo gorilla erano stati recuperati insieme a noi dalla stanza del motel nel New Mexico. Ma loro erano addormentati. Questo era molto, molto peggio. E in quell’occasione io ero stato solo uno spettatore. Non avevo mai immaginato di poter subire un trattamento così indegno, col mio corpo che si girava da una parte e dall’altra, da solo, offrendosi poi a una specie di sculacciata finale.

Fu a quel punto che mi accorsi d’essere nudo. E avrei anche potuto non arrivare a quella constatazione se la voce non avesse detto: — Può anche alzarsi e vestirsi, adesso, e poi passare nell’hover.


Il mio corpo ubbidiente indossò un paio di short, scarpe da tennis e una specie di maglietta di rete. Il tutto mi aderiva spiacevolmente, non tanto perché fosse della mia misura quanto perché a quel materiale sembrava non importare quali fossero le misure di chi lo indossava. Poi il mio corpo ubbidiente si mise in marcia dietro la donna (o uomo) per uscire da quel locale privo di porte. No, non c’erano porte. E neppure ne apparve magicamente una all’ultimo momento. Ciò che accadde fu che lui/lei s’incamminò verso il muro e continuò a camminare, e così feci io… insieme ad altri sette od otto corpi altrettanto compiacenti i quali appartenevano a persone vestite con un completino da spiaggia color nocciola identico al mio.

E in quanto a questo, eravamo davvero su una spiaggia. O non molto distanti. Il luogo era una sorta di aeroporto, una curiosa mistura di edifici decrepiti e strutture nuove di zecca, e quella era una calda giornata estiva, con la brezza marina che portava con sé un forte odore di alghe e di salmastro, e la risacca che frusciava sulla massicciata d’una strada piuttosto malridotta. Oltre il moncone di un palo da bandiera c’era un muro di cemento, sulla cui superficie erano state inserite conchiglie a formare una larga scritta:


— FLOYD BENNET FIELD —

Oltre il tetto del basso e squadrato edificio bianco da cui eravamo emersi (non c’erano porte neppure a guardarlo dall’esterno) un grande aereo dalle ali a delta si stava abbassando con un acuto sibilo di jet. Rallentò con rapidità incredibile, mise fuori i flaps, poi fece ruotare i motori e atterrò verticalmente, toccando la pista pochi metri più in là dell’edificio. Non accadde altro, salvo che subito dopo fu l’edificio a muoversi: ebbe una vibrazione, si sollevò su invisibili ruote e scivolò avanti fin sotto il capace ventre del velivolo. A qualche centinaio di metri di distanza un aereo dello stesso genere stava calando a contatto del suolo un altro piccolo edificio bianco. Mi volsi al più vicino del nostro gruppetto di zombie e parafrasando la canzone lo apostrofai: — Dorothy, credo proprio che questo non sia l’Arkansas.

Lui mi fissò irritato. Poi il suo sguardo cambiò. — Non ci siamo già conosciuti?

Lo fissai con più attenzione. — Il Dr. Gribbin? Ci siamo visti a Sandia, mi pare.

— Satanasso dannato! — annuì. — E lei è il congressista yankee. Che accidenti sta succedendo qui, lo sa?

Io non sapevo neanche se valeva la pena di tentare di rispondere a quella domanda. Ma mentre cercavo di metter l’una dietro l’altra due parole che avessero senso, una voce alle mie spalle mi salvò: — È un tempo parallelo — disse zelante Nicky DeSota. — Conosce un po’ la meccanica dei quanta? Bene. Sembra che Erwing Schroedinger, o forse qualcuno che giocava in squadra con lui, abbia detto che una reazione nucleare, la quale può andare in un modo o nell’altro, va in tutti e due i modi. Ad esempio, prendiamo una scatola e mettiamoci dentro un gatto…

Dovetti passarmi una mano sulla bocca per non scoppiare a ridere. Ecco come un sensale d’ipoteche riusciva a spiegare l’indovinello di Schroedinger a uno dei più esperti fisici moderni. Ma Nicky aveva un vantaggio su Gribbin: lo aveva visto accadere. Un altro uomo, anch’egli in maglietta e shorts, si stava avvicinando ad ascoltare il discorso di Nicky. Ma la mia attenzione era altrove. Stavo esaminando il mondo sconosciuto che mi circondava e mi chiedevo perché ero lì, e se sarei mai tornato alla mia vita e al lavoro normale del Senato… be’, non che adorassi i corridoi del Senato, ma almeno lì vigeva un tipo di anormalità a cui m’ero abituato. E soprattutto mi domandavo dove fosse in quel momento la donna che amavo. Nel nostro gruppetto c’erano alcune donne, a me del tutto sconosciute. La persona senza faccia (una tuta candida completa di guanti e stivaloni bianchi celava il resto del suo corpo) ci stava intanto facendo incamminare verso uno strano veicolo. Sopra il predellino una donna, con l’identico abbigliamento ma la faccia scoperta, era intenta a parlare col conduttore; quando ci vide avvicinare balzò giù e scappò come fossimo appestati.

Ancora non sapevo quanto fosse azzeccato quel paragone.

Nicky e Gribbin stavano sempre chiacchierando. — Faremmo meglio a salire su quell’affare — li incitai.

Gli occhi di Gribbin mi fissarono, perplessi, ma quando li spostò da Nicky a me gli si sbarrarono. — Voialtri due siete uguali! — ansimò.

Nicky sorrise. — Questo fa parte della faccenda — annuì. — E l’ha notato? Anche voi due siete uguali — annunciò, indicando un uomo che s’era voltato e ci fissava a bocca aperta. Lui si toccò la faccia come se temesse che gliel’avessero rubata.

— Satanasso dannato! — disse il secondo John Gribbin. Il che riassumeva perfettamente la situazione.


Quali che fossero i tranquillanti di cui ci avevano imbottito, sembrava ora che il loro effetto cominciasse a scemare. I miei compagni di gregge avevano preso a rivolgersi al nostro pastore, e non tutti in tono educato. Più diminuiva la percentuale di droga che avevo nel sangue più sentivo aumentare la sicurezza e l’autocontrollo. Come Nicky, avevo già avuto un’esperienza simile. Il saperlo non la rendeva più gradevole: cambiare linea temporale era una cosa che logorava i nervi.

Da quanto avrei potuto dire, Nicky e io eravamo i soli così fortunati del gruppo. Lì non c’era nessuno di quelli coi quali eravamo andati a Washington. L’assenza degli altri due Dom non mi avrebbe certo rovinato la vita, per non parlare dei due Larry Douglas e del russo. Ma quella di Nyla era molto più dura da mandar giù. Fremevo dal desiderio di chiedere a qualcuno se l’avrei rivista ancora, tutti però avevano un sacco di domande loro da fare, e sembravano assai più preoccupati e angosciati di me. — Che state combinando qui? — sbottò uno dei Gribbin. E la persona senza faccia disse:

— Sarete informati a bordo delFhover. Per favore salite, adesso: sta aspettando voi. — E si volse. Ma uno di noi lo/la afferrò per una manica, col cipiglio di chi intende: Non so che intenzioni abbia, ma appena lo scoprirò qualcuno la pagherà cara.

— Ai laboratori c’è bisogno di me! — protestò. — Abbiamo una riunione ad alto livello proprio adesso, e se non sono presente questo ci costerà metà dei fondi per il prossimo anno fiscale… — Tacque, indignato nell’udire la risata della persona senza faccia.

— Le cose di cui voi gente vi preoccupate! — esclamò lui/lei con indulgenza. — Tutti sull’hover. Presto, per favore.

Decisi che non c’era migliore alternativa che fare quanto ci veniva chiesto, e salii a bordo del veicolo. Scelsi uno dei sedili davanti, giusto alle spalle del cubicolo di vetro in cui stava il conducente, e Nicky si gettò a sedere accanto a me.

Quello che la persona senza faccia aveva chiamato un hover io l’avrei definito un «veicolo a effetto-suolo», ciò che era. Non avevo mai visto un hovercraft, ma quando sentii il rombo delle eliche sotto di noi e ci sollevammo per scivolare sul terreno impervio verso la strada seppi di che si trattava.

Uso la parola «strada» come eufemismo. Questo è ciò che era stata. Da molto, molto tempo era priva di manutenzione. Si stendeva larga e vuota davanti a noi verso il lontano profilo di una città. Non ci voleva molto a capire l’uso dell’hovercraft: niente che andasse su ruote avrebbe potuto cavarsela con le deformazioni e le spaccature di quell’asfalto. Le buche più grosse erano state riempite alla meglio, e le cunette maggiori spianate da un bulldozer, e qualcuno aveva spinto fuori strada occasionali ammassi di lamiere rugginose che una volta erano state automobili. C’erano lunghi tratti in cui le marcite avevano invaso così a fondo il percorso che dell’asfalto non restava più traccia: solo fanghiglia e cespugli da cui il nostro motore faceva schizzar via piccoli volatili. I miei occhi correvano al remoto profilo della città ogni volta che l’hover si girava da quella parte. C’era qualcosa che mi sembrava familiare…

Agitandosi eccitato nel sedile al mio fianco Nicky DeSota ansimò: — È New York! Diavolo, non ero mai stato in questa zona di New York! — Mi diede di gomito con un sogghigno. — L’hai notato? Questo affare ha l’aria condizionata!

— Già, piacevole — annuii, perché quel che diceva era vero e interessante, ma la mia attenzione s’era spostata sul cubicolo di vetro davanti a noi. Dalla nostra parte c’era uno sportello trasparente, chiuso, e disponeva di un ingresso suo. Il lui/lei che ci aveva condotti a bordo era nel sedile accanto a quello del conducente, e ciò che osservavo era quel che stava facendo. Si stava rivelando per una lei: si passò le mani sulla faccia e il velo color carne venne via, scoprendo un volto in tutto normale. E inoltre molto grazioso. Scivolò poi fuori dalla sua tuta bianca, esibendo ulteriori prove della sua femminilità, e si volse verso di noi. Nella cabina passeggeri eravamo poco meno di una ventina.

— Buongiorno — ci salutò attraverso un intercom.

Accanto a me Nicky esclamò vivacemente: — Buongiorno! — E così un paio d’altri, come quindicenni sull’autobus della scuola… all’incirca come mi sentivo anch’io in quel momento.

— Già adesso — disse, — l’effetto dei vostri tranquillanti dovrebbe essere finito, così lasciate che vi spieghi cosa vi sta accadendo. Ci sono notizie buone e notizie meno buone. Quella buona è che nei prossimi ooty-poot giorni potrete muovervi liberamente e ovunque nel mondo in cui vi trovate, ed è un mondo abbastanza piacevole. Quella meno buona è che non potrete lasciarlo mai più. — Sorrise dolcemente. Ci furono alcuni istanti di silenzio, poi la cabina si riempì di domande. Il suo sorriso non s’incrinò di un millimetro. — Non ho acceso l’interfono dalla vostra parte — disse, — così non posso sentire quello che dite. Prendetevi qualche minuto per parlare fra voi. Poi vi riassumerò brevemente quel che è successo, e perché, e ciò che vi attende. Infine avrete il modo di fare le vostre domande. Per arrivare all’albergo dove alloggerete ci vorranno ancora totter-tot minuti.

Ci dedicò un ultimo sorriso e tornò a volgersi al conduttore.

È arduo dare un resoconto ordinato e coerente di quello che fu il resto del viaggio… ci sarebbe troppo da dire. Probabilmente, se potessi ricordare i momenti della mia nascita, troverei altrettanto difficile descriverli, perché il caos di sensazioni in cui ero piombato mi sopraffaceva. E nel caos c’eravamo tutti… tutti salvo Nicky, direi, e invidiai la calma con cui prendeva quelle novità non meno dell’eccitazione con cui trovava aspetti positivi nell’intera strana faccenda.

Non potevo condividere i suoi sentimenti. Più di tutto e soprattutto continuavo a chiedermi se avrei mai rivisto Nyla…

Ogni Nyla.


Quando la donna cominciò il suo discorsetto di riorientamento ci eravamo già lasciati il mare alle spalle. Stavamo procedendo fra cumuli di macerie erbose e resti di case mezzo bruciate. Un paio di volte dovemmo farci da parte per lasciar passare hovercraft che viaggiavano in senso opposto, e i conducenti si salutarono l’un l’altro. Quelli che si dirigevano fuori città erano tutti vuoti. Nei dintorni non si vedeva un’anima viva. Scorsi tartarughe grosse come piatti da cucina che prendevano il sole sui marciapiedi, e anche un serpente arrotolato che mi parve un crotalo. Non si mosse neppure, seguendoci pigramente coi suoi freddi occhi vitrei. Vidi una volpe inseguire un coniglio in una piazza ingombra di sassi, finché lo strepito del veicolo non li mise in fuga entrambi.

E intanto ascoltavo.

La prima parte di quel che ci disse fu una sentenza d’esilio:

— L’uso incontrollato del portale conduce al caos fra i paratempi — disse severamente. — Perciò vi abbiamo messo fine. Abbiamo trasportato su questo pianeta tutti i principali responsabili della sperimentazione, e così anche tutte le persone che si trovavano in un paratempo non loro. Nello stesso tempo abbiamo reso infrequentabili i centri di ricerche in ogni paratempo, permeandoli di radioattività. Non avevamo altra scelta. L’alternativa sarebbe stata la distruzione per tutti.

Mi stiracchiai e sbadigliai. Stavamo percorrendo una lieve discesa, fra alberi fronzuti che crescevano alti su entrambi i lati. Davanti a noi c’era una piazza con alcuni edifici di una ventina di piani ancora intatti, il più grosso dei quali mi era ben noto. Avevano le finestre sfondate, e lungo i muri si arrampicava l’edera. — Fino a due anni fa — stava dicendo la donna, — questo pianeta era privo di vita umana. C’era stata una lunga guerra, che essi chiamavano la Guerra Mondiale, e qualcuno cominciò a usare armi batteriologiche. Finì con lo sterminio più completo. Tutti i primati, oltre all’uomo, morirono di quei virus, ma quasi ogni altro essere vivente sopravvisse. — Gettò uno sguardo al suo polso sinistro come se stesse consultando delle note. — Oh… non dovete preoccuparvi del contagio; il vaccino è una delle cose che vi sono state inoculate all’Accettazione. Siete stati anche ripuliti di tutti i microrganismi di cui eravate veicolo… strane pulci vi portavate addosso, voi gente! — Ci regalò un sorriso. Forse continuavamo a portarci addosso anche un po’ dei suoi tranquillanti, perché le sorridemmo di rimando. — Comunque, alcuni paratempi hanno cominciato a usare il pianeta per colonizzarlo… con gente che per una ragione o un’altra non era più ben accetta a casa sua, agitatori, scontenti e persone del genere. E naturalmente c’è un certo numero d’individui a cui piace la vita del pioniere. Ma questo verrà a vostro vantaggio, poiché c’è una struttura sociale in cui potrete inserirvi. Non sarete costretti a cercare radici o a correre dietro ai gatti per mangiare. Questa è una delle poche città che abbiamo rimesso in funzione… be’, più o meno in funzione, così la maggior parte di voi potrà coltivarsi una fattoria. Dopotutto il cibo è la cosa più importante.

Stavolta nessuno rispose al suo sorriso. Qualunque cosa fossimo stati a casa nostra, non eravamo contadini.

Cominciai a chiedermi quali capacità socialmente utili avrebbe potuto offrire a un mondo vergine un ex senatore degli Stati Uniti, con una laurea in legge e un principio d’artrite.

Sscendemmo giù lungo il pendio d’un colle verso uno degli edifici più alti rimasti in piedi, un grattacielo con un orologio alla sommità. (Uno dei quadranti mi disse che erano le tre, e un altro, senza la lancetta dei minuti, diceva che eravamo fra le dieci e le undici.) Sotto di noi c’erano dei binari arrugginiti, e poco più avanti si levava un ponte ferroviario, altrettanto arruginito. L’idea di passare sotto quelle travature vacillanti non mi sorrideva. Ma il conducente sapeva quel che stava facendo. Rallentammo per aggirare alcuni pilastri di granito, poi riprendemmo velocità mentre i binari sparivano via in un’ampia curva.

— Ci sono delle domande? — chiese vivacemente la donna.

Nicky fu il primo ad alzare la mano. — Che cos’è un totter-tot?

Lei sbatté le palpebre stupita. — Che cosa?

— Avete detto che ci avremmo messo totter-tot minuti. Almeno, così mi è parso.

Il suo volto grazioso si schiarì. — Oh, lo stavo dimenticando. Voi usate i numeri decimali, non è vero? Vediamo, questo sarebbe… mmh! — Guardò ancora il polso sinistro. — L’intera durata del viaggio è di circa quarantacinque minuti. Dunque, mh, ancora venti minuti. Altre domande?

Uno dei Dr. Gribbin alzò la mano. — Una grossa, miss. Io mi occupo della dinamica dei quanta. E questo vuol dire che non so un accidente di niente sulla dinamica delle zolle.

— Naturalmente — disse la donna con simpatia. — Questo è problema effettivo, qui. Ciò di cui abbiamo davvero bisogno sono contadini, muratori e meccanici. Tuttavia ci sarà un programma di riaddestramento. — E rivolse un luminoso sorriso alle quindici persone il cui sorriso s’era improvvisamente congelato.

Nella cabina passeggeri ci furono commenti e borbottii, ma non ne emerse alcuna domanda vera e propria. Probabilmente nessuno di noi ci teneva ancora a conoscere le risposte alle domande che avrebbe potuto fare. In quanto a me, stavo allungando il collo per guardare avanti poiché avevo visto quello che sembrava un ponte. E non mi piaceva affatto. Se fosse dipeso da me non avrei mai attraversato l’East River su un ponte che non aveva ricevuto una mano di pittura da mezzo secolo.

La donna aveva un’intera riserva di sorrisi dolci. — Se qualcuno di voi vuol darsi da fare fin da ora, il vostro albergo ha bisogno di personale: cuochi, lavapiatti, addetti alle camere e alla lavanderia, e così via. Dovrete essere autosufficienti per cose del genere, vedete, durante il periodo di quarantena. Ovviamente sarete pagati.

Io non la ascoltavo. Mi stavo aggrappando alla poltroncina e fissavo il ponte che si avvicinava sempre più. Poi svoltammo a destra e mi rilassai con un sospiro. Poi tornai ad aggrapparmi al sedile mentre sterzavamo rallentando giù lungo la riva del fiume. Avremmo trasbordato su un ferry-boat? Attraversato a nuoto? O ci avrebbero mollato li, con la terra promessa in vista oltre le acque, grattacieli sventrati e tutto?

Nulla di quanto sopra: non ci fermammo. Scivolammo avanti sulla piatta fanghiglia e quindi sulla superfice dell’acqua, con la stessa facilità, velocità e sicurezza con cui avevamo percorso le strade piene di buche della città. Dall’altra parte c’era quel che restava di un molo. Dei bagnanti nudi erano seduti lì con le gambe penzoloni, e non parve che il nostro arrivo li incuriosisse molto. Erano assai più interessati a uno dei loro, che era appena riemerso a una dozzina di metri dal molo e annaspava nell’acqua, agitando fieramente una fiocina su cui era conficcato un pesce lungo un buon metro e venti.

Se non altro adesso ci trovavamo in una zona di New York che avevo conosciuto bene. Riconobbi Canal Street, anche se i cartelli stradali erano caduti come frutti marci. Non ricordavo però i nomi delle traverse che oltrepassammo — orizzontarmi a Manhattan mi era sempre rimasto difficile — ma riconobbi, o riconobbi quasi, la Quinta Avenue quando fummo lì. Era stupefacente che non ci fosse proprio nessun Empire State Building su quella che senza alcun dubbio dovevo identificare come la Trentaquattresima Strada, e curioso che all’incrocio successivo si levassero le strutture a ragnatela di una tettoia di vetro, senza più i vetri, che un tempo aveva coperto tutta la strada.

Ci fermammo lì per un minuto, intanto che il conducente e la guida si rimettevano sulla faccia le loro maschere color carne. — Siamo quasi arrivati — annunciò gaiamente la donna. — Il posto si chiama Hotel Plaza. Un po’ malridotto e ammuffito, forse, ma… oh, che bella vista potrete godere della foresta del Central Park!


Dopo che ciascuno di noi ebbe una camera del vecchio albergo, e fummo condotti a pranzo, ci vennero date molte spiegazioni. Ci fu data anche una nuova identità. Adesso eravamo «Paratemporally Displaced Persons» o per brevità Peety-Deepies. Ci aspettava una quarantena di sette giorni, tanto occorreva perché i microbi rimasti nel nostro sangue crepassero di fame, se pure qualcuno era sopravvissuto alle iniezioni e agli spray con cui li avevano bombardati mentre dormivamo. Comunque, se andarcene da quell’albergo era questione di giorni, da quel paratempo non ce ne saremmo andati mai.

Eravamo lì per restarci.

Non si stava affatto male al Plaza Hotel. La donna non ci aveva raccontato balle. Era un posto simpatico, in fondo. Ed era stato un posto simpatico, lo ricordavo, anche nel mio Anno Domini 1983. Una specie di maestosa vecchia vedova con alcuni matrimoni storici alle spalle: Zelda e Scott Fitzgerald avevano vissuto lì, e a mezzanotte scendevano a fare il bagno nella fontana esterna.

Naturalmente da sessant’anni nessuno spazzava via le ragnatele. In quel mondo erano stati i ragni ad averla vinta sugli esseri umani. Questo si sentiva. Nel ristorante al piano terra stagnava uno strano e sgradevole odore, come se torme di animali fossero venuti a cena di quando in quando. (Lo avevano fatto.) Un quarto delle finestre erano state portate via dal vento, benché quasi tutte fossero state sostituite con pellicole di una specie di plastica allorché s’era deciso di riadattare il posto per noi. L’acqua che sgorgava dalle tubature era sempre un po’ rugginosa, e c’erano piani in cui non arrivava per niente. Tutto il mobilio stava andando a pezzi, specialmente i letti. Le stoffe s’erano trasformate in poltiglia, la poltiglia era diventata polvere, e l’imbottitura dei materassi poteva essere spezzata ma non piegata. Quella notte, per poterci coricare, Nicky ed io dovemmo sudare per rinforzare i letti con assi staccate dal retro di vecchi mobili, segate alla meglio. Aprimmo un paio di materassi per dare aria alla lana, e dopo che ci fummo rotti la schiena per cardarla a mano, e a calci, li riempimmo di nuovo. Non dovemmo preoccuparci delle coperte, ovviamente. Non in una notte d’Agosto a New York, in un albergo che non aveva mai saputo cosa fosse l’aria condizionata. Non tutto in quella stanza era marcio e antiquato. Un oggetto era decisamente nuovo. Dapprima lo scambiai per un televisore, benché fosse complicato dalla presenza di una tastiera. Quando Nicky in via sperimentale premette il pulsante «on» lo schermo s’illuminò, e su uno sfondo rosato apparve una nitida scritta nera. Diceva:


SALVE.
QUALE IL TUO C.I.P.?

Dal momento che nessuno di noi due sapeva cosa fosse un C.I.P. non potemmo soddisfare la sua curiosità, e lo schermo rifiutò testardamente di soddisfare la nostra. Per quanti interruttori e pulsanti usassimo null’altro vi apparve. L’unico che ottenne un risultato fu infine il pulsante con scritto «off».

Quel giorno era trascorso in fretta. Prima del tramonto avevamo reso la nostra camera abitabile… be’, più o meno. Ci eravamo forniti di asciugamani, cuscini, altri vestiti, sapone e tutti i vari oggettini necessari ad assicurarci la sopravvivenza. Avevamo scoperto come aprire la plastica trasparente della finestra per lasciar entrare un po’ d’aria… e ci eravamo affrettati a richiuderla, perché con l’aria erano arrivati nugoli di zanzare dal groviglio di vegetazione che un tempo era stato il Central Park. Poi la riaprimmo, ma tenendo le luci spente perché gli insetti non ne fossero attirati.

Ero sfinito. Mi lavai la faccia e i denti, e mentre Nicky prendeva il mio posto al lavello indugiai a guardare il parco, una vista interessante, come aveva promesso la nostra guida, per quanto un po’ aliena. Giusto sotto di noi nella strada c’era vita, case abitate, veicoli e gente che andavano in giro; ma a trecento metri da lì iniziava una zona fatta di tenebra. Il cielo era stracolmo di stelle nitidissime, uno spettacolo di cui si era perduto il ricordo nella New York della mia linea temporale.

Abitavamo un città morta. Soltanto la piccola zona circostante l’albergo era il focolaio dell’infezione da cui il germe della vita si preparava a invadere di nuovo quelle terre.

E se la città era vuota, per me lo era mille volte di più, perché Nyla Bowquist non era lì.

Provavo una sorta di triste meraviglia al pensiero che Nyla aveva soggiornato in quell’albergo, forse in quella stessa stanza, in un tempo parallelo, il nostro. Sapevo che prendeva alloggio al Plaza quando suonava alla Carnegie Hall, distante pochi isolati. Forse s’era affacciata anche lei a quella finestra. E ciò che aveva visto erano stati prati ben curati, le giostre, il laghetto, le bancarelle allineate all’ingresso del parco, e un milione di macchine, taxi e autobus che rombavano nelle strade lungo quel perimetro. Ciò che vedevo io erano i profili degli edifici in rovina, e le luci di un velivolo che si abbassava verticalmente verso qualche spazio libero…

D’un tratto mi accorsi che accanto a me c’era Nicky, ancora bagnato dopo essersi lavato, che si passava un pettine fra i capelli. — Non è meraviglioso, Dom? — disse.

Lo guardai con un certo risentimento… risentimento ingiustificato, perché non era colpa sua se lui non era Nyla. — Di cosa parli, Nicky? Questo è il nostro esilio. Siamo inchiodati qui per sempre.

Lui annuì con simpatia. — So che è cosi per te, Dom, perché avevi molto da perdere. Io, forse, molto poco. Ma non è soltanto un esilio. È un intero nuovo mondo. Ci hanno cacciati dal Giardino dell’Eden, ma davanti a noi c’è una nuova vita che comincia.

— Io non voglio cominciare nessuna nuova vita — dissi. — E comunque, loro non l’hanno fatto per il nostro bene.

— Questo è certo, Dom — disse. Si scostò con pudore per indossare i pantaloni del pigiama. — Ma devi ammettere che qui hanno profuso molti sforzi. Soltanto riattrezzare questa zona della città per noi… hai un’idea del lavoro che significa? Far circolare l’acqua potabile quando le tubature sono fuori uso? Mettere in funzione una centrale elettrica? Ripulire via le macerie… e non parlo solo della stoffa marcia. Dev’esserci stata molta gente qui quando tutti sono morti. Cadaveri. Scheletri, almeno, e qualcuno li ha portati via prima che venissimo qui.

— Probabilmente tutto questo sarebbe rientrato comunque nei loro programmi — obiettai.

— Ma a goderne i benefici siamo noi — puntualizzò lui.

— Intanto ci hanno esiliati qui, però. E questo per il loro interesse. Sono loro a preoccuparsi di cosa gli accadrebbe se le barriere del paratempo collassassero, non noi.

Si sedette sul letto e mi guardò pensosamente. — Avrebbero potuto fare a meno di prendersi questo disturbo — mormorò. — Voglio dire trasferirci qui, provvederci di cibo, alloggio, vestiti…

— L’hanno fatto, certo. Altrimenti come avrebbero potuto bloccare le ricerche e gli esperimenti?

— Be’ — disse, tirandosi addosso il lenzuolo, — posso immaginare come certa altra gente avrebbe risolto il problema. Si sarebbero limitati a eliminarci, lo sai. Buonanotte, Dom.

Dopo la guerra franco-indocinese alcune popolazioni s’erano rifiutate di vivere sotto il nuovo governo. Molti di costoro erano venuti in America. Una tribù di montanari s’era trasferita nel mio stesso stato: ottocento emigranti che non avevano mai visto un treno, un televisore, una cucina a gas o un aspirapolvere. E si parla di shock culturale! Ma a metterli in difficoltà non erano state cose come guidare un’auto o spingere una falciatrice. Erano state le cosette che noi davamo per scontate. Come aprire una lattina di birra. Come usare una carta di credito. Perché la luce rossa significa «stop» e quella verde significa «vai». Perché uno deve orinare soltanto nel ricettacolo approvato, anche se pensava di potersi pudicamente appartare dietro un albero. Quando avevo condotto una delegazione di consiglieri comunali a dare il benvenuto ufficiale a questi Meos, alla periferia di Carbondale, certe loro cose mi avevano molto divertito, altre mi avevano impietosito.

Se uno di loro fosse stato lì con me al Plaza, forse sarebbe riuscito a cavarsela meglio. Mi sentivo confuso e sperduto allo stesso modo, e stavolta era difficile vedere il lato divertente della situazione.

Nicky e io occupammo l’intero primo giorno a impratichirci dei più elementari sistemi di sopravvivenza nel nuovo mondo. E alla sera una cosa l’avevo imparata: era più dura di quel che sembrava. Un grosso aiuto lo avemmo dalla consolle in camera nostra, che era un insieme di televisore, telefono, computer e sveglia. Quando ci fu detto che C.P.I. significava «Codice Personale d’Identità», e che ciascuno poteva scegliere il suo a patto che non superasse le undici lettere, io feci registrare Nyla amore mio. Potemmo così usarlo a accedere alla memoria, e pazientemente l’apparecchio ci insegnò molto di quel che avevamo bisogno di sapere. Dalle liste d’informazioni che ci offriva potemmo avere le risposte a elenchi di domande, fra cui varie che non avevamo ancora pensato di porre. Ci disse, ad esempio, che l’alloggio e i pasti non erano precisamente gratuiti. Ogni servizio ci veniva messo in conto, e un bel momento avremmo dovuto pagare o ci avrebbero cacciati in strada. Come volevano essere pagati? Be’, nell’albergo non mancava il lavoro per chi avesse due mani volonterose: fabbricare letti, riattrezzare le camere sui piani in cui nessuno aveva ancora messo piede, cucinare, lavare, occuparsi dei mobili vecchi. Quando poi la quarantena fosse finita ci sarebbero state le migliaia di progetti a cui servivano lavoratori, un po’ in tutto il continente, perfino nel resto del pianeta: dalla produzione ai servizi sociali le infrastrutture dovevano essere complete. I coloni volontari da cui eravamo stati preceduti avevano fatto molto, ma costoro erano semplicemente troppo pochi per potersi occupare di tutto.

E non riuscivo ancora a vedere dove avrei potuto essere di qualche utilità. Ciò di cui avevano bisogno erano idraulici, muratori, meccanici, elettricisti, gente con esperienza pratica nei lavori di base. Non c’erano richieste d’assunzione per senatori degli Stati Uniti. E non ce n’erano neppure per studiosi della fisica dei quanta, ovvero per una notevole percentuale di noi Peety-Deepies. Quelli che sarebbero meglio riusciti a rendersi utili, supposi, sarebbero stati i Gatti — le persone balzate fuori dal loro paratempo — per lo più ventiduenni dell’esercito invasore, dei quali un centinaio abitanti lì all’albergo e varie migliaia scaglionati provvisoriamente in altri quartieri della città.

Una delle cose che il terminale nella nostra camera poté fare per noi, quando avemmo imparato come chiedere, fu di localizzare le altre «Paratemporally Displaced Persons». L’elenco era in ordine alfabetico, tuttavia, e non spiegava molto: c’erano, ad esempio, diciannove Stephen Hawking, per non parlare dei nove Dominic DeSota (fortunatamente solo quattro di noi erano ancora in città. Gli altri avevano completato la quarantena, erano stati assegnati a qualche lavoro e se n’erano andati altrove). E c’era anche una serie di liste in cui eravamo elencati in base alla linea temporale di provenienza. Circa sessanta erano le persone del mio stesso paratempo…

Ma nessuna di loro era Nyla Christophe Bowquist.


Il terzo giorno, quando scendemmo per il nostro esame del sangue mattutino, notai che Nicky era nervoso. La situazione giustificava una certa ansia, a dire il vero, perché per noi era molto importante essere sani. In quanto a questo sembravamo sani. Ciascuno era arrivato dal suo paratempo portandosi dietro batteri, virus e spore di ogni genere, ma i nostri padroni di casa non gradivano le malattie. La tubercolosi, il cancro, il vaiolo e il comune raffreddore non esistevano più nel loro mondo, e neppure l’influenza, le malattie veneree e perfino la carie dentale. Non intendevano vedersele ripiombare addosso. Le iniezioni che ci avevano fatto quando eravamo addormentati avevano appunto questo scopo, e ne controllavano i risultati prelevandoci una goccia di sangue due volte al giorno. Quel che contava, per noi, era che il sangue pulito significava maggiori privilegi. Se quel giorno fossimo risultati negativi avremmo potuto lasciare il lavoro pesante sulla mobilia per la più raffinata occupazione di servire in tavola. E inoltre alla sera ci sarebbe stato concesso di uscire in strada! Almeno fino all’altezza degli altri alberghi, per cercare qualche vecchio amico della nostra linea temporale, o addirittura al di là della strada, nel parco, per respirare la stessa aria dei nativi che ci passeggiavano.

Tuttavia questo non poteva bastare a rendere qualcuno particolarmente ansioso. Dopo che avemmo dato la nostra goccia di sangue mattutina gli chiesi cosa lo preoccupava. — Il futuro, Dom — brontolò, contrariato. — Il mio futuro. Vorrei farne qualcosa di buono, visto che qui sto ripartendo da zero, solo che… solo che sembra non ci sia molto bisogno di sensali d’ipoteche in questo Eden.

— O di senatori — dissi. Ma non mi stava ascoltando.

— Ci sarà del lavoro di banca, suppongo — disse, precedendomi fra le cataste di mobili ammassati nel Giardino delle Palme. — Non ho visto niente del genere nella lista, ma a rigor di logica… solo che questa loro dannata aritmetica mi farebbe impazzire. — Se la stava cavando meglio di me in quella faccenda; i numeri binari mi angosciavano al punto che non avevo neppure cominciato a cimentarmi con loro, anche perché il nostro computer era così gentile da tradurli in numeri decimali per gli ignoranti.

Le mie parole dovettero però riuscire a penetrare, lentamente, nel nebuloso groviglio delle sue preoccupazioni, perché sbatté le palpebre e disse: — Oh, sì. Anche tu. Be’, non saprei, Dom. Cosa facevi prima di essere eletto senatore?

Risi. — Ero un avvocato.

— Ah! — annuì, comprensivo. — D’altronde non devono averne molti da queste parti, no? — Si volse a salutare con un cenno il nostro sovrintendente, che ci aveva raggiunti. — Prima le brutte notizie, Chuck — disse. — Cos’hai di nuovo da sbatterci sulle spalle questa mattina?

— Molto — rispose Chuck, conciso. Era un negro, e indossava ancora l’uniforme coi gradi di sottotenente, disinfettata. Aveva avuto il comando di un carro armato durante l’invasione, dunque era stato mio nemico, anche se questo sembrava non aver più alcuna importanza. L’unica differenza fra noi era che l’avevano portato lì ventiquattr’ore prima, cosicché lui era sovrintendente e noi uomini di fatica. — Ci sono settantacinque nuovi figli di mamma in arrivo oggi pomeriggio, perciò il nono piano dev’essere ripulito. Datevi da fare, voi due.


Già allora non mi sorprendeva più il fatto che a darci ordini fosse un Peety-Deepy come noi. Non vedevamo quasi nessun altro. Perfino la donna che ci prelevava il sangue dai polpastrelli era un Gatto… be’, ovviamente tutti quanti eravamo Gatti, visto che quel pianeta era stato deserto fino a cinque anni prima. Ma c’erano Gatti e Gatti, e i coloni originari stavano alla larga dagli alberghi in quarantena. Ogni tanto ne vedevamo entrare uno, con tanto di tuta protettiva e maschera facciale, venuto a ritirare i campioni di sangue o a portare istruzioni. Non si trattenevano mai molto.

Così quel che sapevo dei primi coloni era poco, e per lo più attinto dallo schermo del computer. L’insediamento originale non era stato opera di un solo paratempo. A metterlo in piedi era stato un miscuglio d’individui venuti da diciotto o venti mondi. La principale differenza fra loro e noi stava nel fatto che già da venticinque anni avevano appreso della reciproca esistenza, cominciando a scambiarsi informazioni.

Non erano state tutte rose e fiori per loro. Avevano passato diversi brutti quarti d’ora coi «rimbalzi balistici» prima di trovare il modo di minimizzarne l’effetto, più che altro limitandosi a stabilire canali di telecomunicazioni. I loro portali erano tenuti accuratamente sotto controllo, e quello che usavano per colonizzare il pianeta deserto era sottoposto a rigide misure cautelative.

Ma che vantaggi ne avevano avuto! Disponevano di venti mondi, non di uno, al lavoro per risolvere i problemi del paratempo. E avevano un numero venti volte superiore di ricercatori. Inoltre avevano sviluppato un sofisticato apparato per spiare in tutti i mondi che volevano.

Ciò che possedevano, in breve, era un’organizzazione di ricerca e sviluppo che procedeva a una velocità cento volte superiore alla nostra. Avevano risucchiato conoscenza da innumerevoli paratempi diversi: tecnologia dei computer da uno, ricerche spaziali da un altro, la fusione nucleare da un terzo, e poi ingegneria genetica, chimica, scoperte mediche… e chi più ne ha più ne metta. Avevano tutto questo.

E a me e a Nicky non mancò il tempo di riflettere sull’argomento mentre sudavamo al nono piano, perché Nicky quel giorno era silenzioso. Sembrava arrovellarsi nelle sue preoccupazioni personali, quali che fossero. Fu soltanto quando rovesciammo l’ultimo cassetto pieno di abiti marci e cianfrusaglie nell’ultima semidisintegrata valigia e portammo il tutto all’unico ascensore funzionante, che parve venirne fuori. Come nulla fosse osservò: — Non è poi tanto malvagio, qui. Eh, Dom?

— Questo non possiamo ancora dirlo — replicai, dirigendomi alle scale per scendere in sala da pranzo.

Lui mi affiancò, scuotendo il capo. — Per noi è dura, dato che non abbiamo avuto possibilità di scelta. Ma i primi coloni sono venuti qui spontaneamente, e credo che abbiano avuto l’idea giusta. Un intero pianeta vergine, Dom! Santo cielo, è un pensiero eccitante. Voglio dire, non abbiamo neppure bisogno di esplorarlo, o nient’altro… sappiamo già dove si trova tutto quanto.

Su un pianerottolo mi volsi a guardarlo. — Lo sappiamo in che senso?

— È sempre il nostro stesso pianeta, capisci? Tutte le sue risorse sono state cartografate. Se voialtri avevate giacimenti petroliferi in Alaska, o se gli inglesi del mio mondo li avevano trovati in Arabia… sono ancora lì, in questo mondo! Risorse pronte per noi. E laghi puliti, fiumi d’acqua limpida, foreste mai abbattute, aria pura… via, Dom, non è eccitante per te?

— M’interessa di più scoprire cos’avremo per pranzo — borbottai.

— Ah, Dom! Non puoi dire sul serio.

— Quello che voglio dire — spiegai, paziente, — è che non mi va di star troppo a lambiccarmi sul futuro, Nicky. Non mi piace l’idea di essere intrappolato qui per sempre. Vorrei poter tornare a casa mia.

Apparve pensoso ma non fece commenti. E nessuno di noi disse altro, perché avevamo altri otto piani di scale da scendere. Solo quando fummo al pianterreno e ci mettemmo in fila fuori dal ristorante si guardò attorno e mi sussurrò: — Dom? Hai mai sentito qualcuno affermare che non abbiamo nessuna effettiva possibilità di tornare a casa?

— Be’, certo — dissi, seccato. — Di cos’altro pensi che si parli qui? Una volta che ci avranno riuniti tutti quanti chiuderanno il portale. Questo è il loro scopo basilare: tagliarci fuori, in modo che nessuno possa più provocare sconquassi coi rimbalzi balistici. Dunque siamo inchiodati qui, giusto? O credi che prima o poi potremmo costruire un portale nostro?

Scosse il capo. — No, questo non accadrà. Ci terranno puntato addosso il loro apparecchio-spia in continuazione. Non ce lo permetteranno.

— Allora non parlare come uno sciocco! — sbottai. Ero stanco, depresso e nervoso.

Anche Nicky lo era. — Chi diavolo sei per darmi dello sciocco, DeSota? — replicò. — Forse sarai stato un grand’uomo a casa tua, ma qui sei soltanto un maledetto Deepy qualsiasi!

Aveva ragione, naturalmente. Ma le abitudini sono dure a morire. E fin dall’inizio avevo preso a considerare quest’altro me stesso come un sempliciotto. Se avessi analizzato con più cura i miei sentimenti verso Nicky sarebbe venuto fuori che provavo per lui una specie di sprezzante tolleranza.

Non meritava questo. In primo luogo perché non aveva nulla che si potesse disprezzare, e poi, forse, perché ciò che in lui trovavo seccante era lo specchio in cui vedevo il lato peggiore di me stesso. Il lato con cui avevo trascinato Nyla in una relazione pericolosa e spiacevole perché non avevo il coraggio di agire rettamente… il lato che teneva aperta la porta alle altre Nyla, da cui ero stato tentato. Perché stava il fatto che lui era me, i lati buoni e quelli cattivi. Con indosso i pantaloncini e la maglietta di quel nuovo Eden, sporco della mia stessa polvere, era più simile a me di quanto non lo fosse stato mai. E lo era dentro quanto fuori.

— Nicky — dissi, dopo che ci fummo seduti a un tavolo. — Scusami.

Mi regalò un sorriso. — Niente di male, Dom.

— È solo il pensiero della gente che abbiamo contro a guastarmi l’anima — mi giustificai.

— Quelli che abbiamo contro non sono certo dei superuomini, Dom — disse con fermezza. — Sono gente proprio come noi. Ne sanno di più, perché hanno raggranellato conoscenza da più parti, ma non sono più svegli. In questo mondo corre l’Agosto 1983, come nel tuo e nel mio. Loro non sono il futuro. Loro sono noi.

Ci meditai sopra. — Be’, non hai torto — concessi. — E dunque cosa intendi dire? Che tutto ciò che dobbiamo fare è di superarli, e poi fare quello che vogliamo con o senza il loro permesso?

Lui tornò serio. — Non esattamente — mormorò. Non spiegò meglio ciò che aveva voluto dire, e io non volli insistere.

Come dovevo accorgermi più tardi — molto più tardi — questo fu uno sbaglio.

Quand’ero stato eletto al Senato avevo dovuto adattarmi da un giorno all’altro a un tenore di vita completamente nuovo. Ad esso era legata una quantità di privilegi il cui uso era fin troppo facile da apprendere: il campanello senatoriale che mi faceva arrivare subito un ascensore, non importa quanta gente fosse in attesa ai piani; il diritto al sottopassaggio con cui si potevano lasciare gli uffici del Campidoglio; la postra gratuita; le attrezzature ginniche e la sauna riservate ai soli senatori. E avevo dovuto imparare anche accorgimenti meno piacevoli, come quello di non apparire mai in pubblico senza essere rasato di fresco, o quello di rispondere sempre ai saluti dei passanti perché non potevo sapere chi fosse un membro del mio collegio elettorale. Fra una cosetta e l’altra, in quelle prime due settimane a stento ricordavo d’aver avuto una vita a Chicago.

Lì era la stessa cosa… quasi. Avevo tante cosette da apprendere che mi mancava il tempo di ripensare al mondo che m’ero lasciato alle spalle. Dimenticai i progetti di legge a cui avevo lavorato. Dimenticai la guerra che infuriava allorché ero stato rapito. Dimenticai perfino Marilyn… be’, avevo già fatto una certa pratica nel dimenticare mia moglie, ormai da un pezzo.

Non dimenticai Nyla.

Più sembrava chiaro che non l’avrei rivista mai, e più ero sicuro d’aver perduto l’unica cosa che m’importava al mondo. Tutto ciò che Nicky diceva di quel mondo era vero. Non avevo difficoltà a immaginare che dopo un periodo di transizione, in quel nuovo Eden, avrei saputo costruirmi una buona vita: fare cose utili, incontrare una donna amabile, sposarla, avere figli, essere felice… ma per quanto buona, per quanto felice, essa sarebbe stata sempre una vita senza Nyla.

Quella sensazione non mi abbandonava un istante.

Il quarto giorno fummo definiti ragionevolmente puliti, il che ci portò dei privilegi. Per prima cosa Nicky ed io venimmo assegnati alla manovra delle cibarie, lasciando ad altri quella della spazzatura: un bel passo avanti. E poi ci fu permesso di uscire in strada!

Come c’era da aspettarsi non potevamo però andare dappertutto, inoltre dovemmo prendere delle misure per non contaminare l’aria pura dell’Eden coi nostri venefici sospiri di sollievo. Ci diedero tessere d’identità da appuntarsi sul petto, tute protettive e maschere a micropori. Poi Nicky se ne andò da una parte e io dall’altra.

Ciò che avevo in mente era di cercare qualche conoscente in uno degli altri alberghi. Il computer mi aveva detto che il Dom DeSota dottore in fisica abitava all’angolo opposto della piazza, in un altro degli hotel abbandonati trasformati in Case dei Gatti.

Il giorno prima aveva piovuto molto ed eravamo stati tutti quanti chiusi in casa. L’aria era secca e fresca, e gli enormi alberi che orlavano il parco frusciavano alla brezza. In strada c’era un bel po’ di gente che bighellonava oppure s’affrettava da un posto a un altro. Alcuni di loro erano senza faccia come me, quelli che non lo erano badavano a tenersi a distanza da noialtri mascherati. Non me ne importava. Il solo fatto d’essere uscito dall’albergo mi risollevava il morale. Avrei voluto che Nyla fosse con me per passeggiare mano nella mano in quei viali ameni, ma anche senza di lei mi sentivo allegro. Quando entrai nell’atrio dell’Hotel Pierre ero perciò abbastanza su di giri, e inoltre la prima faccia che vidi mi era ben nota. Sedeva dietro il vecchio banco di registrazione e stava parlando in tono irritato in un antidiluviano telefono a cornetta. — Quale sei tu? — chiesi, e scostai la maschera. Mi rivolse una smorfia.

— Sono quello che tu hai messo nei guai nel nostro tempo, idiota! — m’informò acremente. Dunque non era Lavrenti Djugashvili né lo scienziato; era il piccolo truffatore del Paratempo Tau.

— Non sono quello a cui stai pensando — dissi. — Sono il senatore. Nicky è il mio compagno di camera, al Plaza.

— Spero che ci resti a marcire — brontolo. Riappese l’auricolare all’apparecchio e scosse le spalle. — Bah… non volevo dir questo. Non ha senso continuare a rodersi l’anima, no? Ti va una tazza di caffè?

Be’, stava cercando di essere simpatico. E aveva del caffè! Dovetti dirmi che conoscere un abile lestofante presentava dei vantaggi, di quando in quando. Ci sedemmo a parlare un po’. Io gli dissi quel poco che c’era da dire su Nicky e me. Lui mi disse più di quel che avrei tenuto a sapere su di lui. La prima notte il suo compagno di camera era stato Moe: l’uomo dell’FBI! Notò la mia espressione e si strinse nelle spalle. — Come ho detto, non c’è scopo a guardarci storto, adesso. Ti pare? — Ma poi Moe aveva trovato un altro Moe… una copia identica di se stesso, e i due avevano deciso di condividere la stanza. Come se non bastasse, a loro s’era aggiunto un altro Moe ancora, e i tre stavano progettando di andarsene insieme al termine della quarantena: forse al metanodotto che stava per essere costruito dal Texas alla California meridionale, forse con una delle squadre addette ai lavori preliminari in una delle città ancora abbandonate, forse a una diga giù in Alabama, in una località che loro chiamavano Muscle Shoals. C’era molta richiesta per scimmioni disposti a fare i lavori pesanti, disse. E… lo sapevo che Nyla era lì all’albergo?

In un attimo il cuore mi balzò in gola per l’emozione. Ma naturalmente la Nyla di cui stava parlando non era la mia Nyla. Si trattava della donna dell’FBI.

Bevvi il resto del caffè senza neppure sentirne il sapore, e ascoltai il resto delle chiacchiere di Larry Douglas senza udire una parola. Ciò che saturava del tutto la mia mente era una questione morale. La Nyla che amavo era definitivamente al di fuori della mia portata.

Stavo meditando di mettermi insieme a un’altra Nyla?

Non considerai neppure l’eventualità che all’altra Nyla, quella dura e arida poliziotta, non sarebbe mai passato per il capo di mettersi con me. Questo anzi non aveva realmente importanza. La risposta che stavo cercando era sepolta nella mia mente, non nella sua. Cos’era ciò che amavo? Era il corpo fisico di una femmina attraente al quale il mio s’era unito come per una reazione chimica? Erano il fascino e la grazia di quella donna che suonava deliziosamente il violino, e sapeva muoversi con calda femminilità nei più rarefatti ambienti sociali? Avrei amato di meno Nyla Bowquist se non fosse stata capace di mostrarmi la differenza fra Brahms e Beethoven… o se fosse stata una sconosciuta, estranea al mondo indaffarato ed eccitante di cui avevamo fatto parte? In breve, l’avrei amata lo stesso se non fosse stata ricca e famosa?

Oppure — tornando alle questioni di base, quelle che non hanno mai una risposta veramente sensata — cos’era, comunque, ciò che io chiamavo «amore»?

Quand’ero immerso in ciò che avevo nell’anima, un po’ come se mi osservassi l’ombelico, ci mettevo poco a perdere il contatto col mondo reale. Così non c’è da meravigliarsi se le chiacchiere di Larry Douglas rallentarono bruscamente e poi cessarono.

Tornai a lui. Mi stava fissando con disapprovazione. — Scusa — dissi. — Ero soprappensiero.

Sbuffò. — Cosa sei venuto a cercare qui?

— Speravo di trovare Dominic DeSota… quell’altro, lo scienziato.

— Ah, loro. Ce ne sono parecchi di loro, qui, che ammazzano il tempo discutendo dei paratempi e di tutta quella roba. C’è anche un paio di me. Potrai trovarli nel bar, probabilmente.


Fu li che andai. Le sue informazioni erano esatte. Nel bar c’erano dieci o undici persone che bevevano birra e parlavano animatamente. Due di loro erano Larry Douglas, quattro erano Stephen Hawking, ciascuno in un diverso stato di salute, due erano John Gribbin, dei quali avevo già incontrato una coppia al Floyd Bennet Field. Nessuno di loro si volse a guardarmi quando entrai: erano occupatissimi, come aveva detto il Larry all’ingresso, a confrontare le loro osservazioni.

Andai al bancone e mi servii una lattina di birra anch’io, con un orecchio alle loro chiacchiere ma di nuovo immerso nei miei problemi. Riflettere non era difficile visto che la conversazione non mi disturbava, o meglio, visto che non ne capivo una parola. — Noi siamo partiti con la fissione a oltroni — buttava lì uno di loro, e un altro lo interrompeva: — Cos’è un oltrone? — E il primo diceva qualcosa come: — Uh, è una carica, subluce mi spiego? Con una varianza di zero virgola cinque… — E un altro saltava su: — Varianza? — Dopodiché tutti cominciavano a disegnare diagrammi di reazioni subnucleari sui tovaglioli, finché uno diceva: — Ah, tu intendevi un corpo-Newmann! Giusto. E questo si scinde in un Aleph-A e in un gimmel, sicuro. — E quindi ripartivano a spiegarsi cosa fossero i gimmel. Lasciai che quei discorsi mi scivolassero dentro da un orecchio e fuori dall’altro, finché Dominic DeSota si girò a cercare la sua birra e mi vide.

— Ehi, Dom! — esclamò. — Già di ritorno? Senti un po’: Gribbin, qui, dice che loro negli acceleratori usavano piastre di vanadium, e ottenevano una brillanza quasi doppia. Tu che ne pensi?

Gli sorrisi. — Non molto — confessai. — Io sono il senatore con cui lui è tornato a casa, Dom. Ero con lui a Washington quando siamo stati prelevati.

— Oh, quello — annuì, divertito. — Be’, d’altronde io non sono quel Dom. Lui è uscito un momento a cercare sua moglie.

Sospirai. — Va bene. Digli che ero venuto a parlargli, ti spiace? — E mi volsi per uscire, invidiando la sua maledetta fortuna. Se soltanto avessero rapito anche la mia Nyla, invece dell’Agente Senzapollici, allora le cose…

Mi fermai di colpo, deglutendo un groppo di saliva.

— Ehi! — dissi. — Non avranno portato qui anche sua moglie, no? Lei non s’era mossa dalla sua linea temporale, e non stava lavorando alle ricerche sul paratempo.

— No, naturalmente no — disse l’altro Dom. Mi fissò, perplesso. — Ha fatto richiesta per essere raggiunto da lei, ecco tutto. È uscito giusto per vedere se stava arrivando.

— Richiesta… per essere raggiunto! Vuoi dire…

Sì, voleva dire proprio quel che aveva detto. I nostri rapitori non erano inumani, e il loro programma prevedeva anche questo. Erano dispostissimi a trasportare lì le nostre famiglie, a patto che le persone interessate fossero d’accordo di venire.

E io non avevo altro che da farne richiesta.

Quaranta minuti dopo ero al Biltmore Hotel, in attesa del mio turno di… l’espressione esatta, suppongo, è «fare la mia proposta». Non ero il solo. C’erano almeno cinquanta persone in fila davanti a me per lo stesso motivo. Nessuno parlava molto, certo perché ciascuno di noi stava ripassando il discorsetto che era sul punto di fare. E quando mi sentii battere su una spalla sussultai.

Ma era soltanto Nicky. — Anche tu, Dom? — disse, e sorrise. — Io ho appena finito. E adesso, se soltanto Greta dirà di sì…

D’un tratto ci trovammo al centro dell’attenzione di quelli che mi precedevano e seguivano, curiosi di sentire il resoconto di uno che aveva appena fatto la richiesta. Lo afferrai per un braccio. — Ma non ti ha risposto?

— Risposto? No! Tu non le parli mica direttamente — spiegò. — Non hanno abbastanza linee telefoniche o qualcosa del genere, credo. Quello che fai è di andare in una stanza, e loro ti riprendono come in un film… be’, non so se sia proprio un film, comunque tu puoi dire quello che hai da dire. Poi loro localizzano tua moglie, o chiunque sia, e glielo trasmettono. Come chiamavano quella roba? Olografia? Sarà una specie di immagine olografica di te, e hai tempo un minuto per parlare. Poi dipenderà da lei…

Poi tutto sarebbe dipeso da lei.

Cosa si può dire a una donna per convincerla ad abbandonare tutto un mondo che la ama, in cambio dell’avventurosa incertezza e dell’esilio? Per tutto il tempo in cui avanzai un centimetro dopo l’altro nella fila, e anche mentre fornivo all’addetto le informazioni necessarie a rintracciare Nyla Bowquist, non feci altro che escogitare ragioni. No, non ragioni. Lusinghe. Dolci promesse su ciò che sarebbe stata la nostra vita insieme… come se già sapessi tutto di essa!

E quando infine fui davanti alle lenti, con le luci dell’apparecchiatura che mi abbacinavano gli occhi, dimenticai ogni ragione, ogni lusinga, ogni promessa. E tutto ciò che riuscii a dire fu: — Nyla, mia cara. Io ti amo. Per favore, vuoi venire qui e diventare mia moglie?

Quel sabato fummo dichiarati finalmente liberi dai microbi e pronti a cominciare una nuova vita. Quel sabato la donna al banco delle informazioni dell’Hotel Biltmore era già stanca di vedersi davanti la mia faccia e quella di Nicky. C’era un numero limitatissimo di canali di comunicazione con gli altri paratempi, spiegò con pazienza, e un numero eccessivo di richieste per il loro uso. No, non sapeva se Nyla avesse già ricevuto il mio messaggio. Sì, a Nyla sarebbe stato detto tutto quel che doveva sapere su questo mondo e su come sarebbe arrivata qui. No, lei non poteva neppure immaginare quanto tempo ci sarebbe voluto. In qualche caso erano bastate meno di ventiquattr’ore, ma certa gente stava ancora aspettando la risposta dopo tre settimane…

Non volevo aspettare tre settimane. Non volevo restare solo tanto a lungo… specialmente quando nulla escludeva che alla fine delle tre settimane tutto quello che avrei avuto sarebbe stata la certezza che mi attendeva una vita di solitudine.

Nel frattempo dovevo occupare il tempo, in un modo o nell’altro. Nicky aveva lo stesso problema, tuttavia non sembrava avere anche le stesse difficoltà nel risolverlo. Quando non lavorava esplorava la città, e quando non esplorava s’incollava al terminale di computer nella nostra camera cercando d’imparare più cose che poteva. La terza volta che gli battei su una spalla per domandargli quanti ooties c’erano in un oddy-poot, disse: — Sul serio, Dom, come pensi di cavartela qui se non sai neppure tradurre i numeri?

— Mi ci confondo troppo, Nicky. Tutti quegli uno e quegli zeri!

— È aritmetica binaria — mi corresse. — Uno uguale uno. Uno-zero uguale due. Uno-uno uguale tre… — e mi mostrò una colonna di di cifre:


1 — 1

10 — 2

11 — 3

100 — 4

101 — 5


— Certo, Nicky, certo — borbottai, — ma cosa fai quando passi i primi dieci o dodici numeri digitali? E come te la cavi a pronunciarli?

Lui disse, serio: — Quel che devi fare, Dom, è solo imparare i codici di pronuncia.

— E perché dovrei? No, no, lo so — lo interruppi. — Il motivo per cui dovrei imparare è che sono inchiodato qui, e quando sei a Roma devi imparare i numeri romani, no? Solo che è una cosa idiota! Può darsi che ci sia un risparmio di tempo o qualcos’altro, però dev’essergli costato milioni passare dal sistema decimale a quello binario.

Lui rise. — Ma sai quanto ci hanno guadagnato? Prova a dirlo! Hanno trasmesso tutte le loro cognizioni a una memoria elettronica. Così gli basta premere un pulsante, dovunque siano, e il computer esegue una ricerca e analisi dei dati, o ne inserisce di nuovi. Tutto all’istante. In tutto il mondo. In tutti i mondi che si sono associati, perché adoperano procedimenti standard.

Lo fissai. — Parli già come un computer — dissi. — Hai imparato un sacco di cose da quando hai lasciato la tua linea temporale.

— Non ho avuto scelta, Dom — disse. — E presto o tardi capirai che non ce l’hai neanche tu. Qua. Ti aiuto a fare il primo passo. — Batté qualcosa sulla tastiera e poi si alzò. — Comincia a imparare a contare — ordinò, e mi fece sedere al suo posto.

Fui costretto a dirmi che aveva ragione.

Cosi cercai di tornare serio. Distolsi la mente dai miei problemi personali, misi da parte anche Nyla, e cominciai a concentrarmi. Ciò che Nicky aveva richiamato sul monitor per me era un vecchio documento dal titolo Il sistema binario e le necessità umane, da cui potevo apprendere gli elementi base su come scrivere in aritmetica binaria e come pronunciarla.

La forma scritta era abbastanza semplice. Il metodo consisteva nel rappresentare i numeri con gruppi di sei cifre binarie, divise in mezzo da un trattino, 000-000. Dove occorrevano più di sei cifre si usava la virgola fra i due gruppi: 000-000,000-000. Molto laboriosamente provai a convertire l’anno corrente in numeri binari, e 1983 risultò così:


1-111,011-111

A prima vista mi parve abbastanza stupido.

Poi, continuando a leggere, venni a scoprire che ogni gruppo di sei cifre aveva una sua pronuncia, basata su una regola che li per lì trovai campata in aria e ridicola. Studiando la tabella tuttavia non risultava complicata. Bisognava pronunciare i gruppi di tre cifre ma con una leggera differenza, a seconda se erano prima o dopo il trattino centrale, questo per facilitare la comprensione:


Numero binario Pronuncia del primo gruppo Pronuncio da solo o nel secondo gruppo
000 ohly pohl
001 ooty poot
010 ahtah pahtah
011 oddy pod
100 too too
101 totter tot
110 dye dye
111 teeter tee

Così il numero «dieci», ovvero 1-010, diventava «ooty-pahtah». E «cinquanta», ovvero 110-010, diventava «dye-pahtah», cosicché quando Nicky tornò in camera fui in grado di dirgli: — Da qui a quattro mesi, per il prossimo primo dell’anno, ti augurerò un felice ooty-tee, oddy-tee.

— Ben fatto, Dom — sogghignò. — Ma l’anno che hai detto è questo. Il prossimo sarà il 1984, e perciò mi dirai «Buon ooty-tee, too-pohl».

— All’inferno se te lo dirò! — sbottai. — Credo che non riuscirò mai a imparare questa roba!

Mi mise una mano su una spalla. — Sì che la imparerai, Dom. Dopotutto, come ti ho detto, non hai altra scelta.

Non potevo occupare tutto il mio tempo a domandare di Nyla e a studiare. C’erano delle decisioni da prendere; avremmo dovuto metterci a lavorare. Inoltre non potevamo soggiornare in eterno al Plaza, poiché gli edifici adibiti alla quarantena dovevano ricevere migliaia di altri Gatti, con arrivi giornalieri. Né potevamo illuderci di continuare a lungo coi servizi di camera, perché l’albergo era un’istituzione provvisoria che lavorava in perdita. Prima di quei trasferimenti in massa nell’intero pianeta c’erano stati poco meno di cinquantamila coloni, fra volontari e coscritti. Adesso già duecentomila Gatti stavano dilapidando le risorse disponibili, e al termine degli arrivi previsti il numero sarebbe più che raddoppiato. Ciascuno avrebbe avuto bisogno di cibo, alloggio e tutti i servizi sociali del terziario, oltre alle migliaia di cosette che rendono tale la vita civile. Il cibo veniva prima di tutto. Io non sapevo nulla di giardinaggio, neppure a livello di hobby domenicale, ciò malgrado il mio primo lavoro fu all’estremità settentrionale del parco, dove molti erano già all’opera per sfoltire gli alberi, portare via il legname, riaprire i prati e sistemare i viali. Il secondo fu giù al ponte di Brooklyn, dove gli ingegneri stavano controllando i cavi e decine di persone scrostavano la ruggine e spalmavano vernice per rimettere in servizio il vecchio ponte. Il mio terzo lavoro, e poi il quarto e il quinto furono in giro per la città, a riparare condutture dell’acqua e linee elettriche, a elencare appartamenti adatti a essere abitabili per l’inverno, e al recupero di rottami buoni per essere portati in fonderia e trasformati in nuove auto, aratri, rotaie e utensili d’ogni genere in attesa che le miniere di ferro di Mesabi potessero (in qualche modo) ripartire con la produzione del minerale.

— Sarà splendido — m’incoraggiò Nicky. — Pensa, Dom, hanno bisogno di tutto, e prima o poi avranno anche bisogno di gente al governo. Tu saprai farti valere, e così anch’io. Quando Greta sarà qui… — Schioccò le dita, con un sorriso estatico. — Una casa! Una moglie! Una famiglia… una grande casa, con mezzo acro di terreno intorno e siepi belle alte, così potremo prendere il sole anche mezzi nudi se ci va…

— Scusa, ma ho un appuntamento — dissi, e me ne andai lasciandolo ai suoi sogni. Non avevo mentito, anche se l’appuntamento era con l’impiegata del Biltmore Hotel. Non ebbi bisogno di presentarmi.

— Dominic DeSota, giusto? — sospirò. — Un momento, prego. — E si girò verso il suo computer, studiando poi quel che era apparso sullo schermo. Io attesi.

E d’un tratto vidi la sua espressione farsi scura.

Potei sentirle dire le parole che aveva letto molto prima che le uscissero di bocca. — Signore, sono davvero, davvero spiacente ma purtroppo devo comunicarle che… — cominciò a dire. Alzai una mano perché mi risparmiasse il resto.

Avevo un sorriso già pronto, tenuto da parte per i momenti in cui trovarne uno vero da esibire mi sarebbe stato molto molto difficile. Quando piegai le labbra alFinsù scoprii, senza entusiasmo, che funzionava ancora. — Non sempre la pallina si ferma sul numero giusto, vero? — dissi alla ragazza. — Be’, tesoro… ha qualche impegno speciale stasera?

Il sorriso avrebbe anche potuto ingannarla, ma la voce con cui parlai la indusse a guardarmi impietosita. Era una brava ragazza. Probabilmente aveva già dovuto annunciare a centinaia di Peety-Deepies che le persone a loro care non se l’erano esattamente sentita di cominciare una nuova vita in una nuova terra. — Mi creda, molta gente ha davvero troppa paura del viaggio attraverso il paratempo — mormorò.

Il mio sorriso stava cominciando a cedere, ma lo tenni su e feci un piccolo sforzo di conversazione. — Chi non ce l’ha? — fui d’accordo, poi scossi le spalle. — Nyla non manca di coraggio, ma cose di questo genere fanno impressione a sentirsele chiedere. Non la biasimo. Se fossi stato al suo posto probabilmente avrei detto anch’io no, grazie… o almeno ci avrei pensato su molto a lungo per… — M’interruppi, perché la ragazza aveva fatto la faccia stupita.

— Come l’ha chiamata?

— Nyla. Nyla Bowquist. Qualcosa non va?

— Oh, accidenti! — esclamò, tornando a manovrare col computer. — Lei è quel Dominic DeSota. Non l’avevo identificato correttamente… stesso numero di camera, e tutto il resto, capisce? La donna che ha dato risposta negativa si chiama Greta. La sua… vediamo. — Controllò la scritta apparsa sullo schermo, toccò la tastiera per avere conferma della lettura e quando si volse il suo sorriso brillava come l’oro. — La sua richiesta era per Nyla Christophe Bowquist, e lei l’ha accettata. Si trova già al Floyd Bennet Field per la disinfestazione preliminare. Sarà qui all’albergo entro la mattinata di domani.

Загрузка...