PARTE SECONDA

16

Brawne Lamia dormì a tratti poco prima dell'alba e i suoi sogni furono pieni d'immagini e di rumori provenienti da altri luoghi: conversazioni con Meina Gladstone udite a malapena e capite ben poco, una sala che pareva galleggiare nello spazio, un movimento di uomini e di donne lungo corridoi dove le pareti bisbigliavano come un ricevitore astrotel mal sintonizzato; in sottofondo ai sogni febbricitanti e alle immagini casuali c'era la fastidiosa impressione che Johnny — il suo Johnny — fosse vicino, vicinissimo. Lamia gemette nel sonno, ma il gemito andò perso negli echi delle pietre della Sfinge che si raffreddavano e della sabbia che si muoveva.

Lamia si svegliò di colpo, pienamente consapevole, con la stessa sicurezza di uno strumento a stato solido che s'accendesse. Sol Weintraub, in teoria di guardia, dormiva accanto alla bassa porta della stanza dove il gruppo si era rifugiato. La piccina di qualche giorno, Rachel, dormiva fra due coperte, per terra accanto al padre: teneva il sederino in alto, la guancia contro la coperta, e aveva sulle labbra una bollicina di saliva.

Lamia si guardò intorno. Nella fioca luce di un fotoglobo a basso wattaggio e del giorno che si rifletteva debolmente lungo quattro metri di corridoio, solo uno degli altri pellegrini era visibile, fagotto scuro sul pavimento di pietra. Martin Sileno era lì disteso e russava. Lamia provò un impeto di paura, come se durante il sonno l'avessero abbandonata. Sileno, Sol, la piccina… solo il Console mancava. Il logorio aveva intaccato il gruppo di pellegrini, sette adulti e una neonata: Het Masteen, scomparso nel carro a vela durante la traversata del mare d'Erba; Lenar Hoyt, ucciso la notte precedente; Kassad, scomparso più tardi, quella stessa notte… il Console… dov'era, il Console?

Dopo un'altra occhiata, Brawne Lamia si persuase che la stanza buia ospitava solo zaini, mucchi di coperte, il poeta addormentato, lo studioso e la figlia; allora si alzò, trovò nel mucchio di coperte la rivoltella automatica paterna, prese a tentoni dallo zaino lo storditore neurale e imboccò il corridoio passando accanto a Weintraub e alla piccina.

Fuori era mattino, così luminoso che Lamia fu costretta a schermarsi gli occhi, mentre scendeva i gradini di pietra della Sfinge e poi risaliva il sentiero di terra battuta che immetteva nella valle. La tempesta era cessata. Il cielo di Hyperion era di un profondo, cristallino color lapislazzuli screziato di verde; il sole di Hyperion era una fonte di luce bianca e vivida appena sorta sopra la scoscesa parete orientale. Le ombre delle rocce si fondevano con i contorni proiettati dalle Tombe del Tempo sul fondo della valle. La Tomba di Giada scintillava. Si vedevano i mucchi di sabbia e le dune depositati dalla tempesta, sabbie bianche e vermiglie fuse in curve sinuose e striature intorno alla pietra. Non c'era traccia dell'accampamento della notte precedente. Il Console era seduto sopra una pietra, dieci metri più in basso. Fissava la valle e fumava la pipa, da cui si levava a spirale un filo di fumo. Lamia mise in tasca rivoltella e storditore e scese l'altura per raggiungerlo.

— Nessun segno del colonnello Kassad — disse il Console, mentre lei si avvicinava. Non si girò nemmeno.

Lamia guardò giù nella valle il Monolito di Cristallo: la sua superficie, un tempo scintillante, era pustolosa e butterata; la parte superiore, per una trentina di metri, pareva scomparsa e alla base i detriti fumavano ancora. Il mezzo chilometro di terreno fra la Sfinge e il Monolito era bruciato e pieno di crateri. — Pare che non se ne sia andato senza combattere — disse Lamia.

Il Console borbottò qualcosa. Il fumo della pipa fece venire fame a Lamia. — Ho fatto ricerche fino al Palazzo dello Shrike, due chilometri più avanti — disse poi il Console. — Pare che la zona dello scontro a fuoco sia stata il Monolito. Anche ora nell'edificio non c'è traccia di aperture a livello del suolo, ma dagli squarci più in alto si scorge la struttura ad alveare rivelata dal radar di profondità.

— E nessun segno di Kassad?

— Nessuno.

— Sangue? Ossa calcinate? Un biglietto in cui dica che tornerà dopo aver consegnato in lavanderia la roba sporca?

— Niente.

Con un sospiro Brawne Lamia si sedette sopra un masso, accanto al Console. Il sole era caldo, sulla pelle. Lei socchiuse gli occhi e fissò l'imboccatura della valle. — Be', al diavolo — disse. — Cosa facciamo, ora?

Il Console si tolse di bocca la pipa, la fissò, accigliato, scosse la testa. — Stamattina ho provato di nuovo il relè comlog, ma la nave è sempre bloccata. — Scosse la cenere. — Ho provato anche le bande d'emergenza, ma è chiaro che non possiamo metterci in contatto. O la nave non trasmette, o qualcuno ha ordine di non rispondere.

— Te ne saresti andato davvero?

Il Console si strinse nelle spalle. Si era tolto l'alta uniforme da diplomatico del giorno prima e indossava un pullover di lana grezza, calzoni di saia grigia, stivali alti. — Avere qui la nave ci darebbe… ti darebbe… la possibilità di andare via. E vorrei che gli altri la prendessero in considerazione. In fin dei conti, Masteen è scomparso, Hoyt e Kassad sono morti… non so cosa fare.

— Colazione, per esempio — disse una voce profonda.

Lamia si girò: Sol scendeva il sentiero e teneva appeso al petto il porta-neonati con dentro Rachel. La luce del sole scintillava sul cranio calvo dell'anziano studioso. — Non è una brutta idea — disse Lamia. — Ci rimangono provviste sufficienti?

— Sufficienti per la prima colazione — disse Weintraub. — Poi abbiamo ancora qualche razione per pasti freddi, nella sacca di scorta del colonnello. Dopo, mangeremo pirillipedi e alla fine ci sbraneremo l'un l'altro.

Il Console tentò un sorriso, rimise la pipa nel taschino della camicia. — Suggerisco di tornare a Castel Crono, prima d'arrivare a questo. Abbiamo consumato il contenuto del freezer della Benares, ma nel castello c'erano dispense.

— Mi piacerebbe… — cominciò Lamia, ma fu interrotta da un grido proveniente dall'interno della Sfinge.

Fu la prima a raggiungere la tomba e aveva in pugno l'automatica ancora prima di varcare l'ingresso. Il corridoio era buio, la stanza dove avevano dormito era ancora più buia; a Brawne occorse un secondo per capire che lì non c'era nessuno. Si acquattò e tenne sotto tiro la curva del corridoio, anche quando Sileno, da un punto fuori vista, gridò di nuovo: — Ehi! Venite qui!

Da sopra la spalla Brawne guardò il Console varcare l'ingresso.

— Aspetta qui! — gli ordinò. Percorse senza far rumore il corridoio, tenendosi contro la parete, rivoltella tesa, colpo in canna, senza la sicura. Si soffermò accanto al vano aperto dello stanzino dove giaceva il corpo di Hoyt, si acquattò, entrò con una mezza giravolta, tenendo sempre l'arma puntata.

Martin Sileno, seduto sui talloni accanto al cadavere, alzò gli occhi. Aveva accartocciato e tolto via il foglio di fibroplastica usato per coprire il corpo del prete. Guardò Lamia, diede un'occhiata priva d'interesse alla rivoltella, tornò a fissare il corpo. — Non è incredibile? — disse piano.

Lamia abbassò la rivoltella e si accostò. Dietro di loro, il Console scrutò nello stanzino. Sol Weintraub era nel corridoio: la piccina piangeva.

— Dio mio! — disse Brawne Lamia. Si piegò accanto al corpo di padre Lenar Hoyt. I lineamenti sconvolti dalla sofferenza del giovane prete erano stati scolpiti a nuovo nel viso di un uomo sulla settantina: fronte alta, naso aristocratico, labbra sottili piacevolmente sollevate agli angoli, zigomi sporgenti, orecchie appuntite sotto una frangia di capelli grigi, occhi grandi sotto palpebre pallide e sottili come pergamena.

Il Console si accoccolò accanto a loro. — Ho visto le olografie. Questo è padre Paul Duré.

— Guardate — disse Martin Sileno. Scostò ancora il telo, esitò, poi girò sul fianco il cadavere. Sul petto dell'uomo pulsavano, rosei, due piccoli crucìmorfi simili a quello di Hoyt, ma la schiena ne era priva.

Sol, in piedi accanto allo stipite, cercava di calmare Rachel cullandola dolcemente e mormorandole parole dolci. Quando la piccina si zittì, Sol disse: — Credevo che ai Bikura occorressero tre giorni per… per rigenerarsi.

Martin Sileno sospirò. — I Bikura sono stati risuscitati dai parassiti crucimorfi per più di due secoli standard. Forse la prima volta è più facile.

— È… — cominciò Lamia.

— Vivo? — Sileno le prese la mano. — Senti qui.

Per quanto lievemente, il petto dell'uomo s'alzava e s'abbassava. La pelle era tiepida al tocco. Il calore dei crucimorfi sotto la pelle era palpabile. Brawne Lamia ritrasse di scatto la mano.

La cosa che sei ore prima era stata il cadavere di padre Lenar Hoyt aprì gli occhi.

— Padre Duré? — disse Sol, facendosi avanti.

L'uomo girò la testa. Batté le palpebre come se la luce, per quanto fioca, gli facesse male agli occhi ed emise un suono incomprensibile.

— Acqua — disse il Console; tolse di tasca la piccola borraccia di plastica. Martin Sileno resse la testa all'uomo, mentre il Console gli dava da bere.

Sol si accostò e si chinò a toccare l'avambraccio dell'uomo. Perfino gli occhietti neri di Rachel parvero curiosi. Sol disse: — Se non può parlare, batta due volte le palpebre per dire "sì" e una volta per dire "no". Lei è Duré?

L'uomo girò la testa verso lo studioso. — Sì — disse piano, con voce profonda, colta. — Sono padre Paul Duré.


La colazione consisteva dell'ultimo caffè, pezzetti di carne fritti sopra l'unità di riscalamento portatile, una manciata di fiocchi di granturco mescolati a latte reidratato e l'ultima pagnotta tagliata in cinque parti. A Lamia parve deliziosa.

Seduti nella striscia d'ombra sotto l'ala protesa della Sfinge, usarono come tavolino una pietra bassa e piatta. Il sole saliva verso metà mattino e il cielo era sereno. Si udivano solo l'occasionale acciottolio di un cucchiaio o di una forchetta e lo scambio di frasi in tono sommesso.

— Si ricorda… di prima? — domandò Sol. Il prete indossava un abito di bordo del Console, una tuta grigia con il simbolo dell'Egemonia a sinistra sul petto. L'uniforme era un briciolo troppo stretta.

Duré tenne fra le mani la tazza di caffè come se si preparasse a sollevarla per la consacrazione. Alzò lo sguardo: gli occhi indicavano in uguale misura profonda intelligenza e intensa tristezza. — Prima che morissi? — disse. Tese in un sorriso le labbra aristocratiche. — Sì, ricordo. L'esilio, i Bikura… — Abbassò lo sguardo. — Anche l'albero tesla.

— Hoyt ci ha parlato dell'albero — disse Brawne Lamia. Nella foresta di fuoco, padre Duré si era inchiodato a un albero tesla attivo e aveva patito anni di sofferenza, di morte, di risurrezione, ancora di morte, pur di non cedere alla facile vita in simbiosi col crucimorfo.

Duré scosse la testa. — Credevo… in quegli ultimi istanti… di averlo sconfitto.

— E l'aveva sconfitto — disse il Console. — Padre Hoyt e gli altri la trovarono. Lei era riuscito a scacciare da sé il parassita. Ma i Bikura trapiantarono su Lenar Hoyt anche il suo crucimorfo.

Duré annuì. — E non c'è traccia del giovane Hoyt?

Martin Sileno indicò il petto dell'uomo. — Sembra chiaro che quella cosa di merda non può sfidare la legge della conservazione di massa. La sofferenza di Hoyt è stata enorme e interminabile… non voleva tornare dove il parassita voleva spingerlo… tanto da essere troppo magro per… come diavolo possiamo chiamarla? duplice risurrezione?

— Non importa — disse Duré. Sorrise tristemente. — Il parassita DNA nel crucimorfo ha pazienza infinita. Riforma l'ospite per generazioni, se occorre. Presto o tardi, tutt'e due i crucimorfi avranno una casa.

— Ricorda qualcosa, dopo l'albero tesla? — domandò Sol a bassa voce.

Duré sorseggiò le ultime gocce di caffè. — Della morte? Del paradiso o dell'inferno? — Il sorriso era genuino. — No, signori e signora. Mi piacerebbe poter dire che ricordo. Ma ricordo solo sofferenza… una eternità di sofferenza… e poi la liberazione. E poi le tenebre. E poi il risveglio qui. Quanti anni sono trascorsi?

— Circa dodici — rispose il Console. — Ma solo la metà, per padre Hoyt: lui ha trascorso in crio-fuga parte del tempo.

Padre Duré si alzò, si stiracchiò, andò avanti e indietro. Era alto, magro, ma con un'aria di forza; Brawne Lamia fu impressionata dalla sua presenza, dal quel bizzarro, inspiegabile carisma di personalità che da epoche immemorabili è stato maledizione e fonte di potere per un limitato numero di persone. Ma si disse che, primo, lui era sacerdote di una religione che esigeva il celibato e, secondo, che solo un'ora prima era un cadavere. Guardò l'anziano prete andare avanti e indietro, con movimenti eleganti e rilassati da gatto, e capì che tutt'e due le osservazioni erano vere, ma nessuna delle due poteva controbattere il magnetismo personale che il prete emanava. Si domandò se anche gli uomini lo percepivano.

Duré si sedette su di un sasso, allungò davanti a sé le gambe, si massaggiò le cosce come per scacciare un crampo. — Mi avete detto qualcosa su di voi… sul perché vi trovate qui — disse. — Potete aggiungere altri particolari?

I quattro pellegrini si scambiarono un'occhiata.

Duré annuì. — Credete che sia un mostro? Un agente dello Shrike? Non vi biasimerei, in questo caso.

— Non lo pensiamo — disse Brawne Lamia. — Lo Shrike non ha bisogno di agenti per realizzare il proprio volere. E poi, la conosciamo dal racconto di padre Hoyt e dai suoi diari. — Lanciò agli altri un'occhiata. — Ma ci riesce… difficile… raccontare la nostra storia e i motivi che ci hanno portati su Hyperion. Ci è quasi impossibile ripetere il racconto.

— Ho preso appunti sul comlog — disse il Console. — Sono molto condensati, ma dovrebbero farle capire la storia di ciascuno di noi… e dell'ultimo decennio dell'Egemonia. Il motivo per cui la Rete è in guerra con gli Ouster. Questo genere di cose. Può approfittarne, se vuole. Non perderà più di un'ora.

— Gliene sono grato — disse padre Duré. Seguì il Console dentro la Sfinge.

Brawne Lamia, Sol e Sileno andarono all'imboccatura della valle. Dalla sella fra le basse pareti, le dune e le terre desertiche si estendevano verso le montagne della Briglia, meno di dieci chilometri a sudovest. Le cupole infrante, le morbide guglie, le balconate in rovina della Città dei Poeti ormai morta erano visibili a non più di tre chilometri sulla destra, lungo un ampio crinale che ormai il deserto invadeva silenziosamente.

— Torno al Castello a fare provviste — disse Lamia.

— Non mi piace dividere il gruppo — obiettò Sol. — Ci torneremo tutti insieme.

Martin Sileno incrociò le braccia. — Qualcuno dovrebbe restare qui, nel caso che il colonnello torni.

— Prima di andarcene — disse Sol — dovremmo frugare tutta la valle. Stamane il Console non si è spinto molto al di là del Monolito.

— Sono d'accordo — disse Lamia. — Frughiamo la valle, prima che si faccia tardi. Voglio rifornirmi al Castello e tornare prima di notte.

Erano scesi alla Sfinge, quando Duré e il Console ne uscirono. Il prete reggeva il comlog di scorta del Console. Lamia illustrò il piano di ricerca e i due acconsentirono a partecipare.

Ancora una volta esplorarono i corridoi della Sfinge, con il raggio delle torce a mano e delle matite laser che illuminavano pietra trasudante e angoli inconsueti. Poi uscirono di nuovo nella luce di mezzogiorno e percorsero i trecento metri fino alla Tomba di Giada. Lamia rabbrividì, quando entrarono nella stanza dove la notte prima lo Shrike era comparso. Il sangue di Hoyt aveva lasciato sul pavimento di ceramica verde una macchia color ruggine. Non c'era segno dell'apertura trasparente che portava nel labirinto sotterraneo. Non c'era segno dello Shrike.

L'Obelisco non aveva stanze, solo un pozzo centrale dove una rampa a chiocciola, troppo ripida per risultare agevole agli esseri umani, s'innalzava fra pareti color ebano. Lì anche i bisbigli echeggiavano e il gruppetto ridusse al minimo la conversazione. Non c'erano finestre, né panorama, in cima alla rampa, cinquanta metri al di sopra del pavimento di pietra: il raggio delle torce illuminava solo tenebre nel soffitto alto e curvo. Funi fisse e catene rimaste dopo due secoli di turismo consentirono la discesa senza eccessiva paura di scivoloni e di cadute che avrebbero significato morte certa. Quando si soffermarono all'ingresso, ancora una volta Martin Sileno chiamò a gran voce Kassad e gli echi li seguirono nella luce del sole.

Impiegarono mezz'ora o forse più a ispezionare i danni nelle vicinanze del Monolito di Cristallo. Pozze di sabbia mutata in vetro, larghe da cinque a dieci metri, scomponevano la luce e riflettevano loro in viso il calore. La superficie del Monolito, ora butterata di fori e di filamenti di cristallo fuso ancora penzolanti, sembrava il bersaglio di un atto di folle vandalismo, ma ciascuno sapeva che Kassad aveva certamente lottato per la propria vita. Non c'era porta né ingresso all'alveare labirinto. Gli strumenti rivelarono che l'interno era vuoto e privo di collegamenti, com'era sempre stato. Lasciarono con riluttanza il Monolito e percorsero le ripide piste fino alla base della parete nord dove, a meno di cento metri l'una dall'altra, c'erano le Grotte.

— I primi archeologi ritennero che queste fossero le Tombe più antiche, a causa della struttura grossolana — disse Sol, mentre entravano nella prima grotta e mandavano raggi di luce a giocare sulla pietra scolpita in migliaia di disegni indecifrabili. Nessuna grotta era profonda più di una quarantina di metri. Ciascuna terminava in un muro di pietra di cui né sonde né olocamere radar erano mai riuscite a scoprire l'estensione.

Esplorata la terza Grotta, il gruppetto si sedette nel poco d'ombra che riuscì a trovare e si divise acqua e gallette proteiche prese dalla scorta di razioni da campo di Kassad. Il vento si era levato e ora sospirava e bisbigliava tra le rocce scanalate, più in alto.

— Non lo troveremo — disse Martin Sileno. — Lo Shrike di merda l'ha preso.

Sol allattava la piccina, con una delle ultime confezioni nutripac. La sommità della testolina era arrossata dal sole, nonostante gli sforzi di Sol per ripararla quand'erano all'aperto. — Potrebbe trovarsi in una delle Tombe già esaminate, se ci sono sezioni fuori fase temporale rispetto a noi — disse Sol. — È una teoria di Arundez. Per lui le Tombe sono edifici tetradimensionali pieni di complesse pieghe nello spaziotempo.

— Magnifico! — sbottò Lamia. — Quindi, anche se Fedmahn Kassad fosse qui, non lo vedremmo.

— Bene — disse il Console, alzandosi con un sospiro di stanchezza. — Almeno concludiamo l'opera. Rimane ancora una Tomba.

Il Palazzo dello Shrike si trovava un chilometro più avanti nella valle, su un livello inferiore rispetto alle altre Tombe, nascosto da una curva della parete rocciosa. L'edificio era meno esteso della Tomba di Giada, ma l'intricata architettura — flange, guglie, contrafforti, colonne di sostegno che formavano archi su archi in un caos controllato — lo facevano sembrare più vasto.

L'interno del Palazzo dello Shrike consisteva di una singola stanza piena di echi, con il pavimento irregolare formato da migliaia di elementi ricurvi e snodati che ricordarono a Lamia costole e vertebre di una creatura fossile. Quindici metri più in alto, la cupola era intersecata da decine di "lame" di cromo che s'intrecciavano nelle pareti per emergere infine sopra l'edificio, come spine dalla punta d'acciaio. Il materiale della cupola stessa, leggermente opaco, conferiva allo spazio racchiuso una sfumatura densa, lattea.

Lamia, Sileno, il Console, Weintraub e Duré si misero a chiamare a gran voce Kassad: le voci echeggiarono e risonarono senza risultato.

— Nessun segno di Kassad, né di Het Masteen — disse il Console, mentre uscivano. — Forse lo schema sarà proprio questo… ciascuno di noi scomparirà, finché non resterà uno solo.

— E l'ultimo vedrà esaudito il proprio desiderio, come predicono le leggende del Culto Shrike? — domandò Brawne Lamia. Si sedette sul bordo roccioso del letto di fusione davanti al Palazzo dello Shrike e lasciò penzolare nel vuoto le gambe.

Paul Duré alzò il viso al cielo.

— Non posso credere che il desiderio di padre Hoyt fosse morire in modo che io potessi vivere di nuovo.

Martin Sileno lo guardò a occhi socchiusi.

— E quale sarebbe, padre, il suo desiderio?

Duré non ebbe esitazioni.

— Vorrei… pregherei Iddio… che alla razza umana, una volta per tutte, fosse tolto il flagello di queste duplici oscenità, la guerra e lo Shrike.

Seguì un momento di silenzio, in cui il vento del primo pomeriggio inserì gemiti e sospiri.

— Nel frattempo — disse Brawne Lamia — dobbiamo procurarci del cibo o imparare a vivere d'aria.

Duré annuì.

— Come mai avete portato con voi provviste così scarse?

Martin Sileno si mise a ridere e declamò a voce alta:

Non si curò del vino, né della mistura di birre

non si curò del pesce, della carne, dell'uccellagione,

e gli intingoli valutò meno che pula;

sdegnò i porcari al boccale di baldoria,

né sedette spalla a spalla con gentaglia licenziosa,

né di scaltre amanti sul seggio dello scorno,

ma ruscelli d'acqua quest'anima di Pellegrino

anelò e tutto il suo cibo fu aria di bosco

pur se spesso s'appagò di rare violaciocche.

Duré sorrise, chiaramente perplesso.

— Ci aspettavamo di trionfare o di morire la prima notte — spiegò il Console. — Non avevamo previsto una lunga permanenza.

Brawne Lamia si alzò e si spazzolò i calzoni. — Vado — disse. — Dovrei farcela a portare cibo per quattro o cinque giorni, se trovo razioni da campo o le provviste ammassate alla rinfusa che abbiamo visto.

— Vado anch'io — disse Martin Sileno.

Ci fu silenzio. Durante la settimana di pellegrinaggio, in una decina di occasioni il poeta e Lamia erano quasi venuti alle mani. Una volta lei aveva minacciato di ucciderlo. Brawne Lamia lo fissò per un lungo momento. — Va bene — disse infine. — Fermiamoci alla Sfinge a prendere gli zaini e le bottiglie per l'acqua.

Il gruppetto risalì la valle, mentre le pareti rocciose occidentali proiettavano ombre sempre più lunghe.

17

Dodici ore prima, il colonnello Fedmahn Kassad era passato dalla scala a chiocciola al piano più alto ancora intatto del Monolito di Cristallo. Le fiamme si alzavano da ogni lato. Dagli squarci provocati nella facciata di cristallo dell'edificio, Kassad vedeva il buio. La tempesta soffiava nelle aperture sabbia vermiglia, fino a riempire l'aria come sangue in polvere. Kassad si mise il casco.

Dieci passi più avanti, Moneta aspettava.

Era nuda, sotto la dermotuta a energia: l'effetto era quello dell'argento vivo versato direttamente sulla carne. Kassad vedeva le fiamme riflesse sulla curva del seno e del fianco, la piega di luce nel cavo della gola e dell'ombelico. Il lungo collo e il viso erano scolpiti nel cromo, perfettamente levigati. Gli occhi mostravano la duplice immagine riflessa dell'alta ombra che era Fedmahn Kassad.

Il colonnello alzò il fucile d'assalto e spostò il selettore manuale su fuoco a pieno spettro. Dentro la tuta blindata, si tese anticipando l'attacco.

Moneta mosse la mano: dalla sommità della testa alla base del collo la dermotuta svanì. Adesso lei era vulnerabile. Kassad provò l'impressione di conoscere ogni sfaccettatura di quel viso, ogni poro, ogni follicolo. I corti capelli castani della donna ricadevano mollemente a sinistra. Gli occhi erano sempre gli stessi, verdi, grandi, curiosi, sorprendenti per la profondità. Le labbra piene esitavano ancora sull'orlo di un sorriso. Kassad notò l'arco lievemente inquisitivo del sopracciglio, le piccole orecchie che aveva baciato e in cui aveva bisbigliato tante volte, la morbida gola cui aveva accostato la guancia per sentire le pulsazioni.

Alzò il fucile e lo puntò contro Moneta.

— Chi sei? — domandò la donna. La voce era morbida e sensuale, come Kassad la ricordava, con la lieve cadenza altrettanto elusiva.

Dito sul grilletto, Kassad esitò. Avevano fatto l'amore decine di volte, si erano conosciuti per anni interi, nei suoi sogni e nel loro panorama amoroso delle simulazioni militari. Ma se lei si muoveva davvero all'indietro nel tempo…

— Lo so — continuò la donna, con voce calma, chiaramente inconsapevole della pressione che Kassad aveva iniziato a esercitare sul grilletto. — Sei colui che il Signore della Sofferenza ha promesso.

Kassad si sentiva mancare l'aria. Parlò con voce rauca, tesissima. — Non ti ricordi di me?

— No. — Lei piegò di lato la testa, lo guardò con aria perplessa. — Ma il Signore della Sofferenza ha promesso un guerriero. Eravamo destinati a incontrarci.

— Ci siamo incontrati molto tempo fa — riuscì a dire Kassad. Il fucile avrebbe automaticamente mirato al viso, cambiando a ogni microsecondo lunghezze d'onda e frequenze, fino a sopraffare le difese della dermotuta. Subito dopo i raggi laser, avrebbe sparato fléchettes e pulsodardi.

— Non lo ricordo — disse lei. — Ci muoviamo in direzioni opposte lungo il flusso generale del tempo. Con quale nome mi conosci, nel mio futuro, nel tuo passato?

— Moneta — ansimò Kassad, ordinando alla mano e al dito di aprire il fuoco.

Lei sorrise, annuì. — Moneta. La figlia di Mnemosine. C'è un'ironia crudele, nel nome.

Kassad ricordò il tradimento della donna, il modo come si era mutata l'ultima volta, mentre facevano l'amore nelle sabbie sopra la morta Città dei Poeti. O era diventata lo Shrike, o aveva permesso allo Shrike di prendere il suo posto. E così un atto d'amore era diventato un'oscenità.

Il colonnello Kassad premette il grilletto.

Moneta batté le palpebre. — Qui non funziona. Non dentro il Monolito di Cristallo. Perché vuoi uccidermi?

Kassad emise un ringhio, gettò sulla rampa l'arma inutile, diede energia ai guanti e si lanciò alla carica.

Moneta non si mosse per sfuggirgli. Lo guardò venire alla carica a testa bassa, con la tuta blindata che gemeva cambiando l'allineamento cristallino del polimero: Kassad urlava. Lei abbassò le braccia per affrontare la carica.

La velocità e la massa di Kassad travolsero Moneta e mandarono tutt'e due a rotolare per terra: Kassad cercava di stringere le mani guantate intorno alla gola della donna, Moneta gli stringeva i polsi come in una morsa, mentre rotolavano per la rampa fino all'orlo della piattaforma. Kassad rotolò sopra di lei, cercò di sfruttare la gravità per dare forza al proprio attacco, a braccia tese, guanti rigidi, dita curvate in una cuspide assassina. La gamba sinistra penzolò nell'abisso di sessanta metri sopra il pavimento buio.

— Perché vuoi uccidermi? — mormorò Moneta e lo spinse di fianco; rotolarono insieme giù dalla piattaforma.

Kassad urlò, con uno scatto della testa abbassò il visore. Caddero nel vuoto, con le gambe intrecciate in una feroce stretta a forbice, le mani di Kassad tenute a bada dalla presa micidiale di lei sui polsi. Il tempo parve decelerare: caddero con movimento lento e l'aria si muoveva intorno a Kassad come una coperta lentamente tirata sul viso. Poi il tempo accelerò, divenne normale; caddero per gli ultimi dieci metri. Kassad gridò e visualizzò il simbolo adatto perché la tuta blindata diventasse rigida. Seguì uno schianto terribile.

Da una distanza rosso sangue Fedmahn Kassad lottò per riemergere alla consapevolezza: sapeva che solo uno, due secondi erano trascorsi dal momento in cui avevano colpito terra. Si alzò barcollando. Anche Moneta si rialzava lentamente: piegata sul ginocchio, fissava il punto dove il pavimento di ceramica era andato in frantumi per la loro caduta.

Kassad diede energia ai servomeccanismi nella gamba della tuta e con tutta la forza vibrò un calcio contro la testa della donna.

Moneta schivò il colpo, gli afferrò la gamba, la torse, mandò Kassad a sbattere contro il riquadro di cristallo di tre metri, che si schiantò facendolo rotolare fuori nella sabbia e nella notte. Moneta si toccò il collo: il viso rifluì d'argento vivo. La donna uscì dietro di lui.

Kassad alzò il visore fracassato, si tolse il casco. Il vento gli arruffò i capelli neri e corti e la sabbia gli grattò le guance. Kassad si mise sulle ginocchia, poi in piedi. Spie luminose, nel display al collo della tuta, pulsavano di luce rossa annunciando l'esaurimento dell'ultima riserva d'energia. Kassad non badò ai segnali d'allarme; l'energia sarebbe bastata per i prossimi secondi, nient'altro contava.

— Qualsiasi cosa sia accaduta nel mio futuro… nel tuo passato — disse Moneta — non fui io, a cambiare. Non sono il Signore della Sofferenza. Lui…

Con un balzo Kassad superò i tre metri che lo separavano da Moneta, atterrò dietro di lei e vibrò il micidiale guanto della destra in un arco che infranse la barriera del suono, con il taglio della mano rigido e affilato quanto potevano renderlo i filamenti piezoelettrici carbonio-carbonio.

Moneta non schivò il colpo, non tentò di bloccare l'attacco. Il guanto di Kassad la colse alla base del collo, con forza tale da tagliare di netto un albero, da spaccare in due mezzo metro di roccia. Su Bressia, in combattimento corpo a corpo nella capitale Buckminster, Kassad aveva ucciso un colonnello Ouster, con tanta rapidità — il guanto aveva attraversato senza il minimo sforzo tuta blindata, casco, campo di forza personale, carne e ossa — che per venti secondi la testa dell'uomo aveva battuto le palpebre guardando il proprio corpo, prima che la morte lo reclamasse.

Il colpo di Kassad andò a segno, ma si bloccò contro la superficie della dermotuta argento vivo. Moneta non barcollò, non reagì. Kassad sentì venire meno l'energia della tuta; nello stesso istante il braccio s'intorpidì, i muscoli della spalla si torsero di dolore. Kassad barcollò all'indietro, col braccio destro penzoloni lungo il fianco, mentre l'energia della tuta fluiva via come sangue da una ferita.

— Tu non mi ascolti — disse Moneta. Venne avanti, lo afferrò per la tuta e lo scagliò venti metri più in là, verso la Tomba di Giada.

Kassad atterrò duramente; la tuta blindata s'irrigidì, ma assorbì solo in parte la violenza dell'urto, a causa dell'esaurimento delle riserve d'energia. Il braccio sinistro protesse faccia e collo, ma poi la tuta si bloccò e il braccio si piegò, inutile, sotto il corpo.

Moneta superò con un balzo i venti metri, si acquattò accanto a lui, con una mano lo sollevò in aria, con l'altra gli afferrò la tuta blindata e la strappò sul davanti, lacerando duecento strati di microfilamenti e di polimeri di stoffa omega. Lo schiaffeggiò gentilmente, quasi svogliatamente. La testa di Kassad sbatté da una parte all'altra e lui quasi perdette conoscenza. Vento e sabbia colpirono la carne nuda del petto e del ventre.

Moneta strappò i resti della tuta, staccò bio-sensori e impianti di feedback. Sollevò per gli avambracci Kassad, nudo, e lo scosse. Il colonnello sentì il sapore del sangue; puntini rossi gli turbinarono nel campo visivo.

— Non dobbiamo essere nemici — disse lei, piano.

— Mi… hai… sparato.

— Per mettere alla prova le tue reazioni, non per ucciderti. — La bocca si muoveva normalmente, sotto l'amnio d'argento vivo. Moneta gli diede un altro schiaffo: Kassad volò due metri in aria, atterrò sopra una duna, rotolò lungo il pendio nella sabbia fredda. L'aria era piena di milioni di puntini luminosi… sabbia, neve, girandole di colori. Kassad rotolò su se stesso, si mise faticosamente in ginocchio, afferrò la mobile duna sabbiosa, con dita mutate in artigli inerti.

— Kassad — bisbigliò Moneta.

Lui rotolò sulla schiena, in attesa.

Moneta aveva disattivato la dermotuta. La sua carne pareva calda e vulnerabile, la pelle era così pallida da sembrare quasi trasparente. Delicate vene azzurrine le segnavano l'apice dei seni perfetti. Le gambe sembravano forti, scolpite con cura, le cosce leggermente dischiuse nel punto dove si congiungevano al corpo. Gli occhi erano verde scuro.

— Tu ami la guerra, Kassad — mormorò Moneta, calandosi su di lui.

Kassad lottò, cercò di scostarsi, alzò le braccia per colpirla. Con una mano Moneta gliele imprigionò sopra la testa. Irradiava calore da tutto il corpo, quando con i seni gli si strofinò sul petto e si calò fra le gambe dischiuse. Il ventre lievemente curvo premette contro l'addome di lui.

Kassad capì allora che quello era uno stupro e poteva combatterlo col semplice sistema di non reagire, di rifiutarla. Non funzionò. L'aria pareva liquida intorno a loro; la tempesta di vento, una cosa lontanissima. La sabbia rimaneva sospesa a mezz'aria come una cortina di merletto tenuta alta da brezze costanti.

Moneta si strusciò contro di lui. Kassad sentì il lento rimescolio dell'eccitazione. Lo combatté, combatté contro di lei, si dimenò e scalciò e lottò per liberarsi le mani. Moneta era troppo forte. Usò il ginocchio destro per dischiudergli le gambe. I capezzoli strusciarono sul petto di lui, simili a ciottoli caldi; il calore del ventre e dell'inguine spinse la carne di Kassad a reagire come un fiore che si giri verso la luce.

— No! — urlò Fedmahn Kassad, ma fu zittito dalla bocca di Moneta sulla sua. Con la sinistra lei continuò a tenergli imprigionate le braccia, con la destra si mosse fra i corpi a contatto, lo trovò, lo guidò.

Kassad le morsicò le labbra, mentre il calore lo avviluppava. I tentativi di ribellarsi lo portarono più vicino, lo spinsero più profondamente dentro di lei. Cercò di rilassarsi e Moneta si abbassò su di lui fino a premergli la schiena sulla sabbia. Kassad ricordò le altre volte in cui avevano fatto l'amore, trovando serenità ciascuno nel calore dell'altro, mentre la guerra infuriava al di là del cerchio della loro passione.

Chiuse gli occhi, inarcò il collo per posporre la sofferenza del piacere che si avvicinava come un'ondata. Sentì sulle labbra sapore di sangue… se il proprio o quello di lei, non sapeva.

Un minuto più tardi, mentre ancora si muovevano insieme, Kassad si accorse di avere le braccia libere. Senza esitare, le circondò la schiena con le dita tese, la spinse rudemente contro di sé, fece scivolare in alto la mano a coppa per premerle gentilmente la nuca.

Il vento riprese a soffiare, il suono tornò, la sabbia mandò dalla cresta della duna minuscoli turbini. Kassad e Moneta scivolarono più in basso lungo il lieve pendio di sabbia, rotolarono insieme nell'onda calda fino al punto dove si sarebbe infranta, dimentichi della notte, della tempesta, della lotta, di ogni cosa, tranne l'istante e la reciproca presenza.


Più tardi, camminando insieme fra le macerie del Monolito di Cristallo, lei lo toccò una volta, con una ferula d'oro, una seconda, con un toroide azzurro. Kassad vide nella scheggia di un pannello di cristallo la propria immagine diventare l'abbozzo argento vivo di un uomo, perfetto fino ai particolari del sesso e le linee dove le costole segnavano il torace magro.

"E ora?" domandò Kassad, usando un mezzo che non era né telepatia né suono.

"Il Signore della Sofferenza aspetta."

"Sei la sua ancella?"

"Mai. Sono la sua consorte e la sua nemesi. La sua custode."

"Sei giunta con lui dal futuro?"

"No. Fui tolta dal mio tempo per viaggiare con lui indietro nel tempo."

"Allora chi eri, prima di…"

La domanda fu interrotta dall'improvvisa apparizione… "No" pensò Kassad "l'improvvisa presenza, non apparizione"… dello Shrike.

La creatura era come la ricordava dal loro primo incontro, anni addietro. Kassad notò la lucidità d'argento vivo su cromo dello Shrike, tanto simile alla loro dermotuta, ma capì istintivamente che sotto il carapace non c'erano semplice carne e semplici ossa. Lo Shrike era alto almeno tre metri, le quattro braccia parevano normali nel tronco elegante, il corpo era una massa scolpita di spine, di punte, di giunti e di strati di filo spinato tagliente come rasoio. Gli occhi dalle mille sfaccettature ardevano di una luce che poteva essere quella di un laser a rubino. La mascella allungata e le file di denti erano da incubo.

Kassad si tenne pronto. Se la dermotuta gli avesse dato la stessa forza e la stessa mobilità di cui si era giovata Moneta, almeno sarebbe morto combattendo.

Non ci fu tempo, per combattere. Un istante il Signore della Sofferenza era a cinque metri di distanza, sul pavimento a piastrelle nere; l'istante successivo fu accanto a Kassad, afferrò l'avambraccio del colonnello in una morsa di lame d'acciaio che penetrarono nel campo della tuta e trassero sangue dal bicipite.

Kassad si tese, aspettò il colpo, deciso a renderlo anche se significava impalarsi da solo su lame e spine.

Lo Shrike alzò la destra: si materializzò un portale da campo, un rettangolo di quattro metri. Era simile a un teleporter, a parte il bagliore violetto che riempì di luce intensa l'interno del Monolito.

Moneta rivolse un cenno a Kassad e varcò il portale. Lo Shrike avanzò di un passo, con le dita simili a rasoi che incidevano solo superficialmente l'avambraccio.

Kassad pensò di ritrarsi, capì che in lui la curiosità era più forte dell'impulso a morire, e varcò il portale insieme con lo Shrike.

18

Il Primo Funzionario Esecutivo Meina Gladstone non riusciva a dormire. Si alzò, si vestì rapidamente nel buio delle stanze poste nel cuore della Casa del Governo e, come spesso faceva quando il sonno si rifiutava di venire, andò in giro per i mondi.

Materializzò il teleporter privato, lasciò nell'anticamera le guardie del corpo e prese con sé solo una microguardia telecomandata. Non avrebbe preso neppure quella, se le leggi dell'Egemonia e la regola del TecnoNucleo l'avessero consentito.

Su TC2 la mezzanotte era passata da un pezzo, ma su molti mondi sarebbe stato pieno giorno: Gladstone indossò un lungo mantello con visore polarizzato del tipo in uso su Vettore Rinascimento. Calzoni e stivali non rivelavano né genere né classe sociale, anche se in alcuni luoghi la qualità stessa del mantello avrebbe dato nell'occhio.

Gladstone varcò il portale monouso, intuendo, più che vedere e udire, la microguardia ronzare alle sue spalle e salire per mantenersi invisibile, mentre lei usciva in piazza S. Pietro, a Nuovo Vaticano, su Pacem. Per un secondo non seppe perché avesse scelto quella destinazione — forse la presenza dell'antiquato monsignore alla cena su Bosco Divino — ma poi capì: distesa sul letto senza chiudere occhio, aveva pensato ai pellegrini, ai sette che tre anni prima erano andati incontro al proprio destino su Hyperion. Pacem era la patria di padre Lenar Hoyt… e dell'altro prete, Duré.

Gladstone scrollò le spalle e attraversò la piazza. Visitare il mondo natale dei pellegrini era una passeggiata buona quanto un'altra; molte notti insonni l'avevano vista vagabondare su decine di mondi e tornare poco prima dell'alba, ai primi appuntamenti su Tau Ceti Centro. Almeno, in questo caso erano solo sette mondi.

Su Pacem il mattino era appena iniziato. Il cielo era giallo e screziato di nuvole verdastre; l'aria era permeata da un odore di ammoniaca che le assalì le mucose nasali e le fece lacrimare gli occhi. Pacem aveva quel lieve lezzo chimico di un mondo non del tutto terraformato né totalmente nemico all'uomo. Gladstone si soffermò a guardarsi intorno.

S. Pietro si trovava sopra un colle; la piazza era racchiusa da un semicerchio di colonne con una grande basilica a un vertice. A destra, dove il colonnato si apriva su una scalinata che scendeva per più di un chilometro verso sud, si vedeva una piccola città di edifici bassi e rozzi ammassati fra alberi bianco osso che parevano scheletri di creature stentate da tempo scomparse.

Solo poche persone erano in vista: attraversavano in fretta la piazza o salivano la scala, come se fossero in ritardo alle funzioni. Dalla grande cupola della cattedrale provenne il suono di campane, ma l'aria rarefatta toglieva ai rintocchi ogni parvenza di autorità.

Gladstone percorse il colonnato, a testa bassa, senza badare alle occhiate di curiosità dei religiosi e della squadra di spazzini a cavallo di animali simili a porcospini da mezza tonnellata. C'erano decine di mondi di periferia come Pacem, nella Rete, un numero maggiore nel Protettorato e nella vicina Periferia: troppo poveri per risultare interessanti a una popolazione infinitamente mobile, troppo simili alla Terra per essere ignorati durante gli anni bui dell'Egira. Pacem era andato bene a un piccolo gruppo come i cattolici, giunti lì a cercare la rinascita della fede. A quel tempo i cattolici si contavano a milioni, ma ora arrivavano a poche decine di migliaia. Gladstone chiuse gli occhi e richiamò ologrammi del dossier di padre Paul Duré.

Gladstone amava la Rete. Amava gli esseri umani che vi vivevano; con tutta la loro superficialità, l'egoismo, l'incapacità di cambiare, erano la sostanza della razza umana. Gladstone amava la Rete. L'amava abbastanza da sapere di dover collaborare alla sua distruzione.

Ritornò al piccolo terminex a tre portali, con un semplice comando prioritario alla sfera dati materializzò il proprio nesso teleporter e passò nella luce del sole e nel profumo del mare.

Patto-Maui. Gladstone seppe esattamente dove si trovava. Era ferma sulla collina prospiciente Primosito, dove la tomba di Siri segnava ancora il punto in cui quasi un secolo prima era iniziata la rivolta di breve durata. A quel tempo, Primosito era un villaggio di qualche migliaio di anime e a ogni Settimana di Festa i flautisti davano il benvenuto alle isole mobili spinte a nord verso i pascoli dell'Arcipelago Equatoriale. Ora Primosito si estendeva intorno all'isola fino a scomparire alla vista: arcocittà e alveari residenziali si alzavano per mezzo chilometro in ogni direzione, torreggiavano sopra la collina che un tempo godeva del più bel panorama del mondo marino di Patto-Maui.

Ma la tomba era rimasta. Il corpo della nonna del Console non era più lì (in realtà, non c'era mai stato) ma, come tante altre cose simboliche di quel mondo, la cripta vuota meritava rispetto, quasi stupore reverenziale.

Gladstone guardò fra le torri, al di là del vecchio frangiflutti dove le lagune azzurre erano diventate marrone, al di là delle piattaforme petrolifere e delle chiatte turistiche, nel punto in cui il mare iniziava. Ora le isole mobili non si muovevano più in grandi mandrie sull'oceano, con gli alberi-vela gonfi alle brezze meridionali, con i delfini pastori a tagliare l'acqua in bianche V di spuma.

Ora le isole erano addomesticate e popolate da cittadini della Rete. I delfini erano morti… alcuni uccisi nelle grandi battaglie con la FORCE, altri, la parte maggiore, vittime dell'inesplicabile Suicidio Collettivo del Mar Meridionale, l'ultimo mistero di una razza avvolta nei misteri.

Gladstone si sedette sopra una bassa panca vicino all'orlo della scogliera e trovò uno stelo d'erba da pelare e masticare. Che cosa accadeva, a un mondo, quando da casa di centomila esseri umani in delicato equilibrio con un'ecologia delicata diventava terreno di gioco per più di quattrocento milioni di cittadini dell'Egemonia, nel solo primo decennio?

Risposta: il mondo moriva. O moriva la sua anima, mentre l'ecosfera continuava bene o male a funzionare. Ecologi planetari e specialisti di terraforming mantenevano in vita il guscio, impedivano che i mari fossero soffocati del tutto dall'inevitabile spazzatura, rifiuti organici e fuoruscite di petrolio, lavoravano per ridurre al minimo o per camuffare l'inquinamento sonico e un migliaio di altre cose che il progresso aveva portato con sé. Ma il Patto-Maui che il Console aveva conosciuto da bambino, meno di un secolo prima, quando aveva risalito quella stessa collina per il funerale della nonna, era scomparso per sempre.

In alto passò una formazione di tappeti Hawking, con i turisti che ridevano e gridavano. A quota maggiore, un massiccio VEM da escursione nascose per un attimo il sole. Nell'ombra improvvisa, Gladstone buttò via lo stelo d'erba e appoggiò le braccia sulle ginocchia. Pensò al tradimento del Console. Aveva contato sul tradimento del Console, aveva puntato tutto sul fatto che quell'uomo cresciuto su Patto-Maui, discendente di Siri, si unisse agli Ouster nell'inevitabile conflitto per Hyperion. Non era stato un piano soltanto suo: Leigh Hunt aveva avuto una parte importante nei decenni di piani, nella delicata strategia per mettere in contatto con gli Ouster l'individuo esatto, in una posizione che gli consentisse di tradire le due parti attivando il congegno per annullare le maree del tempo su Hyperion.

E il Console aveva tradito. Lui, che al servizio dell'Egemonia aveva sacrificato quarant'anni di vita, più la moglie e il figlio, alla fine era esploso di furia vendicatrice, come una bomba rimasta in letargo per mezzo secolo.

Gladstone non ne aveva tratto alcun piacere. Il Console aveva venduto l'anima e avrebbe pagato un prezzo terribile, in termini storici e mentali, ma il suo tradimento era poca cosa al confronto di ciò che lei stessa era pronta a sopportare. Come PFE dell'Egemonia, era il capo simbolico di centocinquanta miliardi di anime umane. Ed era pronta a tradirle, per salvare l'umanità.

Si alzò, sentendo nelle ossa l'età e i reumatismi, e andò lentamente fino al terminex. Si soffermò un attimo accanto al portale che mandava un ronzio sommesso e volse la testa per dare un'ultima occhiata a Patto-Maui. La brezza soffiava dal mare, ma portava il puzzo di perdite di petrolio e di gas di raffineria: Gladstone girò il viso.

La forza di gravità di Lusus le ricadde sulle spalle come pastoie di ferro. Nel Concourse era l'ora di punta e migliaia di pendolari, di clienti e di turisti affollavano ogni livello pedonale, riempivano di variopinta umanità gli ascensori lunghi un chilometro, davano all'aria una pesantezza che si mescolava all'odore di petrolio e di ozono di un sistema chiuso. Gladstone ignorò i livelli per acquisti costosi e percorse in monodiscovia i dieci chilometri che la separavano dal Tempio Shrike principale.

Alla base dell'ampia scalinata c'erano blocchi di polizia e campi di contenimento che brillavano di viola e di verde. Il tempio stesso era sbarrato e buio; gran parte delle finestre alte e istoriate che davano sul Concourse aveva i vetri infranti. Gladstone ricordò i rapporti riguardanti le sommosse del mese precedente e la fuga del Vescovo e dei suoi accoliti.

Si avvicinò al campo d'interdizione e guardò al di là della mobile nebbiolina violacea la scalinata dove Brawne Lamia aveva portato di peso ai sacerdoti dello Shrike il cliente e amante moribondo, il cìbrido Keats originale. Gladstone aveva conosciuto molto bene il padre di Brawne: avevano trascorso insieme i primi anni al Senato. Il senatore Byron Lamia era stato un uomo brillante… a un certo punto, molto prima che dal mondo provinciale di Freeholm la madre di Brawne comparisse sulla scena sociale, Gladstone aveva preso in considerazione l'idea di sposarlo; alla sua morte, una parte della giovinezza di Gladstone era stata seppellita con lui. Byron Lamia era ossessionato dal TecnoNucleo, consumato dalla missione di rimuovere l'umanità dallo stato di servitù imposto dalle IA per più di cinque secoli e per un migliaio di anni-luce. Proprio il padre di Brawne aveva fatto capire a Gladstone il pericolo e l'aveva guidata all'impegno che si sarebbe risolto nel tradimento più terribile della storia dell'uomo.

E proprio il "suicidio" del senatore Byron Lamia l'aveva abituata a decenni di prudenza. Gladstone non sapeva se a orchestrare la morte del senatore erano stati agenti del Nucleo o elementi delle forze politiche dell'Egemonia impegnati a proteggere gli interessi acquisiti, ma sapeva che Byron Lamia non si sarebbe mai tolto la vita, non avrebbe mai abbandonato in quel modo moglie e figlia. L'ultimo atto ufficiale del senatore era stato quello di proporre, con una collega, la concessione a Hyperion della qualifica di Protettorato, mossa che avrebbe portato con venti anni standard di anticipo il pianeta a fare parte della Rete. Dopo la morte di Byron Lamia, la collega — Meina Gladstone, da poco diventata influente in Senato — aveva lasciato perdere la proposta.

Gladstone trovò un pozzo di discesa e si lasciò alle spalle i livelli commerciali e residenziali, di produzione e di servizio, di scarico rifiuti e degli impianti reattori. Il comlog e l'altoparlante dell'ascensore segnalarono che entrava in zone vietate e poco sicure, molto al di sotto dell'Alveare. Il programma del veicolo tentò di bloccarla. Gladstone annullò il comando e i segnali di avvertimento. Continuò a scendere, al di là di livelli ora privi di pannello e di spie luminose, attraverso intrichi di filiformi cavi a fibra ottica, condotti di riscaldamento e di raffreddamento, nuda roccia. Alla fine, si fermò.

Sbucò in un corridoio illuminato solo da fotoglobi lontani e untuosa vernice lucciola. L'acqua gocciolava da migliaia di fessure del soffitto e delle pareti e si accumulava in pozze tossiche. Il vapore sgorgava da aperture che forse erano altri corridoi o nidi personali o semplici buchi. Da un punto lontano proveniva l'urlo ultrasonico del metallo che taglia metallo; da più vicino, lo stridio elettronico di musica nichilista. Un uomo urlò e una donna rise, con voce stridula che echeggiò nei pozzi e nei condotti. Si udì il rumore simile a un colpo di tosse di un fucile a fléchettes.

Alveare Sedimento. Gladstone giunse a un'intersezione di corridoi. La microguardia adesso le girava intorno con l'insistenza di un insetto infuriato. Chiamava rinforzi di sicurezza. Solo il continuo comando di annullamento di Gladstone impediva che il richiamo fosse udito.

Alveare Sedimento. Il posto dove Brawne Lamia e il suo amante cìbrido si erano nascosti, nelle ultime ore prima del tentativo di raggiungere il Tempio Shrike. Era una delle numerosissime zone vulnerabili della Rete, dove il mercato nero forniva qualsiasi cosa, dal Flashback alle armi della FORCE, dagli androidi illegali ai trattamenti Poulsen di contrabbando che potevano dare tanto la morte quanto altri vent'anni di giovinezza. Gladstone svoltò a destra, nel corridoio più buio.

Una creatura imprecisata, grossa come un ratto ma con molte zampe, corse a rifugiarsi in un condotto di ventilazione guasto. Gladstone sentì puzza di liquami, di sudore, dell'ozono di ponti piano dati sovraccarichi, l'odore dolciastro di propellente per pistole, di vomito, il lezzo di ferormoni di bassa lega mutati in tossine. Percorse i corridoi, pensando alle settimane e ai mesi a venire, al terribile prezzo che i mondi avrebbero pagato per le sue decisioni, per le sue ossessioni.

Cinque giovani, modificati da ARNisti illegali al punto di essere più animaleschi che umani, le vennero incontro. Gladstone esitò.

La microguardia si lasciò cadere davanti a lei e neutralizzò i polimeri mimetici. I cinque scoppiarono a ridere, vedendo solo una macchina non più grande di una vespa saettare a mezz'aria. Forse erano andati troppo avanti nell'adattamento RNA, al punto da non riconoscere più il marchingegno. Due aprirono di scatto le vibrolame. Uno protese artigli d'acciaio lunghi dieci centimetri. Uno estrasse una pistola a fléchettes a canne rotanti.

Gladstone non voleva uno scontro. Anche se quegli scemi di Alveare Sedimento lo ignoravano, la microguardia poteva difenderla da loro e da cento altri. Ma lei non voleva che qualcuno restasse ucciso solo perché aveva scelto Sedimento come luogo per una passeggiata.

— Andatevene — disse.

I giovani la fissarono, con occhi gialli, con occhi neri sporgenti, con feritoie velate, con fasce ventrali fotoricettive. All'unisono si disposero a semicerchio e avanzarono di due passi.

Meina Gladstone drizzò le spalle, si strinse nel mantello e abbassò il visore polarizzato quanto bastava perché le vedessero gli occhi. — Andatevene — ripeté.

I giovani esitarono. Penne e scaglie si mossero sotto correnti d'aria impercettibili. In due di loro vibrarono antenne e tremolarono migliaia di minuscoli peli sensori.

Andarono via. La partenza fu silenziosa e rapida come l'arrivo. Nel giro di un secondo, gli unici rumori furono lo sgocciolio d'acqua e risate lontane.

Gladstone scosse la testa, materializzò il teleporter privato e lo varcò.


Sol Weintraub e sua figlia provenivano dal Mondo di Barnard. Gladstone si teleportò in un terminex secondario di Crawford, la loro città natale. Era sera. Case bianche e basse, in fondo a prati ben curati, riflettevano il gusto del Revival della Repubblica Canadese e la praticità degli agricoltori. Gli alberi, alti e fronzuti, rispecchiavano il retaggio della Vecchia Terra. Gladstone si tolse dal flusso di pedoni che si affrettavano a rincasare dopo una giornata di lavoro in altri punti della Rete e si trovò a camminare lungo marciapiedi di mattoni davanti a edifici di mattoni disposti intorno a un ovale erboso. A sinistra, dietro una fila di case, c'erano campi coltivati. Le piante alte e verdi, forse granturco, sospiravano lievemente e si estendevano fino al lontano orizzonte dove scompariva l'ultima falce di un enorme sole rosso.

Gladstone attraversò il campus universitario e si domandò se era quello il college in cui Sol aveva insegnato, ma non ebbe voglia di interrogare la sfera dati. Lampade a gas si accendevano automaticamente sotto il baldacchino di foglie e le prime stelle comparivano negli squarci dove il cielo passava dall'azzurro all'ambra all'ebano.

Gladstone aveva letto il libro di Weintraub, Il dilemma di Abramo, nel quale lo studioso analizzava la relazione fra un Dio che esigeva il sacrificio di un figlio e la razza umana disponibile a farlo. Weintraub sosteneva che il Jehovah del Vecchio Testamento non si era limitato a mettere alla prova Abramo, ma aveva comunicato nell'unico linguaggio che l'umanità poteva comprendere a quel punto della relazione: fedeltà, ubbidienza, sacrificio e ordine. Secondo Weintraub, il messaggio del Nuovo Testamento era il presagio di un nuovo stadio di questa relazione, uno stadio in cui la razza umana non avrebbe più sacrificato i propri figli ad alcun dio, per nessun motivo, ma in cui i genitori — intere stirpi di genitori — avrebbero offerto se stessi al posto dei figli. Da qui derivavano gli Olocausti del XX secolo, il Breve Scambio, le guerre tripartitiche, i secoli avventati e forse perfino il Grande Errore del '38.

Infine, Weintraub aveva preso in esame il rifiuto di ogni sacrificio, di ogni relazione con Dio tranne quella di reciproco rispetto e l'onesto tentativo di reciproca comprensione. Aveva scritto delle morti multiple di Dio e del bisogno di una sua risurrezione, ora che la razza umana aveva costruito i propri dèi e li aveva liberati nell'universo.

Gladstone attraversò un grazioso ponte di pietra sopra un ruscello perso nell'ombra e rivelato solo dal mormorio nel buio. Una morbida luce giallastra cadeva sulle ringhiere di pietra lavorata a mano. Da qualche parte, fuori del campus, un cane abbaiò e fu zittito. Le luci erano accese al secondo piano di un antico edificio dal tetto a due spioventi coperti di rozze scandole che certo risaliva a prima dell'Egira.

Gladstone pensò a Sol Weintraub e a sua moglie Sarai e alla loro bella figlia di ventisei anni, di ritorno da un anno di ricerche archeologiche su Hyperion, dove aveva trovato soltanto la maledizione dello Shrike, il morbo di Merlino. Pensò a Sol e Sarai che guardavano la figlia ringiovanire da donna a bambina, da bambina a neonata; e poi Sol che guardava da solo, dopo che Sarai era morta in uno stupido incidente di VEM, durante una visita alla sorella.

Rachel Weintraub, il cui primo e ultimo giorno sarebbe giunto fra meno di settantadue ore standard.

Gladstone batté il pugno sulla ringhiera di pietra e materializzò il teleporter privato.


Su Marte era mezzogiorno. I bassifondi di Tharsis erano quartieri poveri e squallidi da sei secoli e passa. Il cielo era rosa, l'aria era troppo rarefatta e troppo fredda per Gladstone, seppure avvolta nel mantello, e la polvere soffiava dappertutto. La donna camminò per gli stretti vicoli e per le passerelle rupestri di Relocation City, senza trovare un punto abbastanza aperto da vedere qualcosa che non fosse il successivo raggruppamento di catapecchie o le gocciolanti torri filtro.

Lì c'erano poche piante: le grandi foreste di Greening erano state abbattute per fare legna da ardere o erano morte ed erano state coperte da dune rossicce. Solo alcuni cactus utilizzati dai distillatori clandestini e gruppi zampettanti di ragno-licheni parassiti erano visibili fra sentieri di terra battuta, resa dura come pietra da venti generazioni di piedi scalzi.

Gladstone si sedette a riposare sopra una pietra bassa, chinò la testa, si massaggiò le ginocchia. Gruppi di bambini nudi, a parte qualche straccio e spinotti di shunt penzolanti, la circondarono per chiedere l'elemosina, e si allontanarono ridendo scioccamente, quando lei non rispose.

Il sole era alto. Mons Olympus e la severa bellezza dell'accademia della FORCE di Fedmahn Kassad non erano visibili. Gladstone si guardò intorno. Da lì proveniva quell'uomo orgoglioso. Lì si era unito a bande giovanili, prima di essere condannato all'ordine, all'equilibrio mentale e all'onore della vita militare.

Gladstone trovò un luogo riparato e si teleportò altrove.


Bosco Divino era sempre lo stesso… ricco del profumo di milioni di milioni di alberi, silenzioso, a parte il lieve stormire delle foglie e il sospiro del vento, colorato di mezzi toni e di tinte pastello: un mondo dove il tramonto incendiava quello che era alla lettera il tetto del mondo, mentre un oceano di cime d'albero rifletteva la luce e ogni foglia tremolava alla brezza e brillava della rugiada e degli acquazzoni del mattino. Refoli di vento portarono il profumo della pioggia e della vegetazione bagnata fino alla piattaforma di Gladstone, mezzo chilometro sopra il mondo ancora sprofondato nel sonno e nel buio.

Un Templare si avvicinò, vide lo scintillio del bracciale d'accesso di Gladstone, quando lei mosse la mano, e si ritrasse: una figura alta, con una lunga veste, che si confuse di nuovo nel labirinto di verzura e di rampicanti.

I Templari costituivano una delle variabili più infide, nel gioco di Gladstone. Il sacrificio della loro nave-albero Yggdrasill era stato un atto unico, senza precedenti, inesplicabile e preoccupante. Di tutti i potenziali alleati di Gladstone nella guerra a venire, nessuno era più necessario e imperscrutabile dei Templari. Dedicata alla vita e devota al Muir, la Confraternita dell'Albero era una forza piccola ma potente, nella Rete: un simbolo di coscienza ecologica, in una società dedicata all'autodistruzione e allo spreco, ma incapace di ammetterlo.

"Dov'era, Het Masteen?" si domandò Gladstone. "Perché aveva lasciato agli altri pellegrini il cubo di Moebius?"

Guardò sorgere il sole. Il cielo si riempì di montgolfier salvati dal massacro su Whirl, dal corpo di svariate tonalità, che si librarono nel cielo come un banco di fisalie. Ragnatelidi luminosi spalancarono le ali solari, sottili come membrane, per catturare la luce del sole. Uno stormo di corvi uscì all'aperto e si alzò a spirale, con un gracchiare che faceva da stridulo contrappunto al mormorio della brezza e al sibilo della pioggia che giungeva da ovest. L'insistente picchiettio di gocce sulle foglie ricordò a Gladstone la casa nei delta di Patawpha e il Monsone di Cento Giorni che mandava nelle paludi lei e i fratelli, a caccia di rospi aviatori, di bendit e di serpi del muschio nero da portare a scuola in un barattolo di vetro.

Per la milionesima volta Gladstone si rese conto che c'era il tempo per fermare tutto. A quel punto la guerra totale non era inevitabile. Gli Ouster non avevano ancora contrattaccato in un modo che l'Egemonia non avrebbe potuto ignorare. Lo Shrike non era libero. Non ancora.

Per salvare cento miliardi di vite le bastava tornare al Senato, rivelare tre decenni d'inganno e di doppiezza, rivelare le proprie paure e incertezze…

"No. Tutto sarebbe andato secondo i piani… fin dove arrivavano i piani, e oltre. L'imprevisto. Le acque violente del caos, dove perfino i previsori del TecnoNucleo, coloro che tutto vedevano, sarebbero stati ciechi."

Gladstone percorse le piattaforme, le torri, le rampe, i ponti dondolanti della città albero dei Templari. Arboricoli provenienti da decine di mondi e scimpanzé ARNizzati la rimbrottarono e fuggirono dondolando graziosamente appesi a fragili liane trecento metri sopra il tappeto della foresta. Da zone chiuse ai turisti e ai visitatori privilegiati provennero l'aroma d'incenso e le salmodie simili a canti gregoriani delle funzioni mattutine. In basso, i livelli inferiori si riempivano di luce e di movimento. Il breve acquazzone era passato. Gladstone tornò ai livelli superiori, rallegrandosi del panorama, e attraversò il ponte sospeso di sessanta metri, in legno, che univa il suo albero a un altro anche più grande, al quale erano legati cinque o sei grossi palloni ad aria calda, unico mezzo di trasporto permesso dai Templari su Bosco Divino; i palloni, con le navicelle passeggeri che dondolavano come pesanti uova marrone, parevano impazienti di volare; il loro involucro era piacevolmente dipinto a disegni di creature dell'aria: montgolfier, farfalle imperatrici, tommifalchi, ragnatelidi radianti, gli ormai estinti zeplen, seppie celesti, falene lunari, aquile — così leggendarie da non essere mai state ricuperate e ARNizzate — e altre ancora.

"Tutto questo potrebbe essere distrutto, se procedo. Anzi, sarà certamente distrutto!"

Gladstone si soffermò sul bordo di una piattaforma circolare e strinse la ringhiera, con tanta forza che sulle mani le macchie dell'età risaltarono contro la pelle a un tratto sbiancata. Pensò ai libri antichi, pre-Egira, pre-volo spaziale, che aveva letto: gente di nazioni embrioniche del continente europeo aveva portato gente più scura, africani, lontano dalla propria casa, a una vita di schiavitù nell'Occidente coloniale. Avrebbero, questi schiavi incatenati e ammanettati, nudi e rannicchiati nel ventre puzzolente di una nave schiavista… avrebbero esitato a ribellarsi, ad abbattere chi li aveva catturati, se l'azione significava distruggere la bellezza della nave schiavista… dell'Europa stessa?

"Ma avevano l'Africa, in cui tornare."

Meina Gladstone emise un suono in parte gemito, in parte singhiozzo. Girò di scatto le spalle alla splendida aurora, alle salmodie che salutavano il nuovo giorno, all'ascesa delle mongolfiere viventi e artificiali, guardò il giorno appena sorto e scese nella relativa oscurità per chiamare il teleporter.


Non poté andare nel mondo di provenienza dell'ultimo pellegrino, Martin Sileno. Il poeta aveva solo centocinquanta anni, era mezzo azzurro a causa dei trattamenti Poulsen, le sue cellule ricordavano il gelo di decine di lunghi periodi di crio-fuga e di animazione sospesa ancora più gelida, ma il suo arco di vita comprendeva più di quattro secoli. Era nato sulla Vecchia Terra, durante gli ultimi giorni del pianeta; la madre proveniva da una delle famiglie più nobili; la sua giovinezza era stata un pastiche di decadenza e di eleganza, di bellezza e del dolce profumo della rovina. Mentre la madre restava sulla Terra morente, lui era stato inviato nello spazio in modo che qualcuno saldasse i debiti di famiglia, anche se questo significava, come significò, anni di servizio in veste di manovale in uno dei più infernali mondi periferici della Rete.

Gladstone non poté andare su Vecchia Terra, così andò su Porta del Paradiso.

Piana Fangosa era la capitale: Gladstone ne percorse le strade acciottolate, ammirò le case vecchie e spaziose sporgenti sugli stretti canali scavati nella pietra che s'intersecavano fino alla montagna artificiale, con un effetto simile a una stampa di Escher. Alberi maestosi e felci ancora più grandi incoronavano le alture, fiancheggiavano i viali ampi e bianchi, si estendevano fuori vista attorno all'elegante curva di candide spiagge. La pigra marea portava onde violacee che si scomponevano in decine di colori prima di morire sulla sabbia perfetta.

Gladstone si soffermò in un parco prospiciente la Passeggiata, dove decine di coppiette e di turisti ben vestiti prendevano l'aria della sera, sotto le lampade a gas e l'ombra delle foglie, e immaginò quel che Porta del Paradiso era stato più di tre secoli prima, quando era un rozzo mondo del Protettorato, non ancora del tutto terraformato, e il giovane Martin Sileno, ancora sofferente di dislocazione culturale, della perdita dei propri beni e dei danni cerebrali dovuti allo Choc da Animazione Sospesa del lungo viaggio interstellare, vi lavorava come schiavo.

La Stazione Generatrice d'Atmosfera a quel tempo aveva fornito alcune centinaia di chilometri cubici d'aria respirabile e di terra su cui era appena possibile vivere. Gli tsunami portavano via, con identica indifferenza, intere città, progetti di trasformazione territoriale e lavoratori. Operai sotto contratto, come Sileno, scavavano i canali di acido, grattavano batteri per riciclo-respirazione dal labirinto di polmotubature sotto il fango e dragavano scorie e cadaveri dai depositi fangosi lasciati dalle inondazioni.

"Abbiamo fatto progressi" pensò Gladstone "nonostante l'inerzia imposta dal Nucleo. Nonostante che la scienza sia quasi morta. Nonostante la nostra fatale dipendenza dai giocattoli concessici dalle nostre stesse creazioni."

Era insoddisfatta. Prima di terminare la passeggiata per i mondi, aveva voluto visitare la patria di ciascun pellegrino su Hyperion, per quanto convinta della futilità del gesto. Porta del Paradiso era il mondo dove Sileno aveva imparato a scrivere vera poesia, seppure con la mente temporaneamente danneggiata, ma non era la sua patria.

Gladstone lasciò perdere la musica piacevole che giungeva dal concerto sulla Passeggiata, lasciò perdere i voli di VEM pendolari che passavano in alto come uccelli migratori, lasciò perdere la gradevole aria e la morbida luce: materializzò il portale e ordinò che la teleportasse sulla luna della Terra. La luna per antonomasia.

Invece di attivare la traslazione, il comlog l'ammonì dei pericoli di recarsi laggiù. Gladstone annullò l'avvertimento.

Con un ronzio la microguardia si materializzò e la voce sottile nell'impianto suggerì che non era una buona idea che il Primo Funzionario Esecutivo andasse in un luogo così instabile. Gladstone zittì la microguardia.

Il portale stesso iniziò a discutere la scelta, finché Gladstone non usò la carta universale per programmarlo manualmente.

Finalmente comparve il vano nebuloso del teleporter e Gladstone lo varcò.


Sulla luna della Vecchia Terra l'unico posto ancora abitabile era il tratto di montagna e di mare riservato alla cerimonia Masada della FORCE: e Gladstone sbucò lì. Tribune e piazza d'armi erano deserte. Campi di contenimento classe-10 offuscavano le stelle e le lontane pareti del bordo, ma Gladstone vedeva dove il calore interno delle terribili maree gravitazionali aveva fuso le montagne e le aveva fatte scorrere in un nuovo mare di roccia.

Attraversò una piana di sabbia grigia, sentendo la ridotta gravità come un invito a volare. Immaginò di essere un pallone dei Templari, legato ma ansioso di prendere il volo. Resistette all'impulso di saltare, di procedere a balzi smisurati, ma tenne un passo leggero e la polvere volò in improbabili disegni alle sue spalle.

L'aria era rarefatta, sotto la cupola del campo di contenimento: Gladstone rabbrividì, nonostante le cellule termiche del mantello. Per un istante rimase al centro della piana amorfa e cercò di immaginare semplicemente la luna, il primo passo della razza umana nella lunga strada dalla culla. Ma le tribune della FORCE e le tettoie delle attrezzature la distrassero, resero futile una simile fantasia, e alla fine lei alzò la testa e guardò lo spettacolo per cui in realtà era venuta.

Le Vecchia Terra pendeva contro il nero del cielo. Non la Vecchia Terra, naturalmente, ma solo il pulsante disco d'accrescimento e la nube globulare di detriti che un tempo erano stati la Vecchia Terra. Erano molto luminosi, più luminosi di qualsiasi stella vista da Patawpha anche nelle rarissime notti serene, ma la luminosità era bizzarramente sinistra e inondava di luce malaticcia il campo di fango grigio.

Gladstone rimase a guardare. Non era mai stata lì, si era costretta a non andarci, ma adesso voleva disperatamente sentire qualcosa, udire qualcosa, come se dovesse giungerle una voce di ammonimento, o d'ispirazione, o forse di semplice commiserazione.

Non udì niente.

Rimase ancora qualche minuto, senza pensare a niente; solo quando cominciò a sentire freddo alle orecchie e al naso, decise di andarsene. Su TC2 sarebbe stata quasi l'alba.

Attivò il portale e diede un'ultima occhiata intorno; in quel momento, a una decina di metri da lei, si materializzò il vano di un altro teleporter. Gladstone esitò. Meno di cinque persone in tutta la Rete avevano accesso personale alla luna della Terra.

La microguardia ronzò e si pose tra lei e la figura che emergeva dal portale.

Leigh Hunt uscì, si guardò intorno, rabbrividì di freddo e avanzò rapidamente verso Gladstone. Nell'aria rarefatta aveva una voce acuta, quasi fanciullesca.

— Signora, deve tornare immediatamente. Gli Ouster sono riusciti a fare breccia, con un contrattacco a sorpresa.

Gladstone sospirò. Sapeva che sarebbe stato questo, il passo successivo. — Va bene — disse. — Hyperion è caduto? Possiamo evacuare le nostre forze?

Hunt scosse la testa. Aveva labbra quasi blu per il freddo. — Non mi sono spiegato — disse con voce soffocata. — Non si tratta solo di Hyperion. Gli Ouster attaccano in decine di punti diversi. Invadono la Rete stessa!

Meina Gladstone, a un tratto intontita e gelata fin nell'intimo, più per lo choc che per il freddo, si strinse nel mantello e varcò il portale per rientrare in un mondo che non sarebbe stato più lo stesso.

19

Si raccolsero all'imboccatura della Valle delle Tombe, Brawne Lamia e Martin Sileno carichi di zaini e di sacche, Sol Weintraub, il Console e padre Duré fermi e muti come un tribunale di patriarchi. Le prime ombre del pomeriggio si allungavano verso est nella valle e si protendevano come dita di tenebra verso le Tombe rilucenti.

— Non sono ancora convinto che sia una buona idea, dividerci a questo modo — disse il Console, strofinandosi il mento. Faceva molto caldo. Il sudore gli si raccoglieva sulle guance irsute e gli colava lungo il collo.

Lamia alzò le spalle. — Sapevamo che ciascuno di noi si sarebbe confrontato da solo con lo Shrike. Che importa se per qualche ora restiamo separati? Venite anche voi tre, se volete.

Il Console e Sol lanciarono un'occhiata a padre Duré. Il prete era chiaramente esausto. La ricerca di Kassad l'aveva prosciugato delle scarse energie rimastegli dopo la prova tremenda.

— Qualcuno dovrebbe aspettare qui, nel caso che il colonnello tornasse — disse Sol. Fra le sue braccia, la bimba pareva piccolissima.

Lamia si aggiustò a tracolla le cinghie degli zaini. — D'accordo. Impiegheremo un paio d'ore per arrivare al Castello, un po' di più per tornare e almeno un'ora per raccogliere provviste. Saremo di nuovo qui prima del buio. Più o meno all'ora di cena.

Il Console e Duré scambiarono con Sileno una stretta di mano. Sol circondò col braccio le spalle di Brawne. — Tornate tutti interi — mormorò.

La donna toccò la guancia ispida del vecchio, per un istante posò la mano sulla testa della piccina, si girò e si avviò a passo rapido su per la valle.

— Ehi, merda, aspetta che ti raggiungo! — le gridò dietro Martin Sileno, mettendosi a correre, con rumore di borracce e bottiglie.

Insieme raggiunsero e superarono la sella fra le pareti scoscese. Sileno si lanciò alle spalle un'occhiata, vide gli altri già rimpiccioliti dalla distanza, bastoncini di colore fra i massi e le dune nei pressi della Sfinge. — Non va affatto secondo i piani, eh? — disse.

— Non so — rispose Lamia. Si era messa in calzoncini corti e i muscoli delle gambe tozze e robuste luccicavano sotto un velo di sudore. — Quali erano, i piani?

— Il mio, terminare il massimo poema dell'universo e poi tornare a casa — disse Sileno. Bevve un sorso dall'ultima bottiglia contenente acqua. — Maledizione, almeno avessimo portato vino sufficiente a durare più di noi!

— Non avevo alcun piano — disse Lamia, quasi tra sé. I corti ricci, umidi di sudore, erano incollati alla nuca massiccia.

Martin Sileno sbuffò, ridendo. — Non saresti qui, se non fosse stato per quel tuo amante cyborg…

— Cliente — lo corresse lei, brusca.

— Come vuoi. Era lui, la personalità ricuperata di John Keats, a ritenere importante la venuta su Hyperion. Così ora l'hai portato fin qui… hai ancora l'iterazione Schrön, vero?

Con aria assente Lamia si toccò il minuscolo shunt neurale dietro l'orecchio sinistro. Una sottile membrana di polimero osmotico proteggeva da sabbia e polvere le prese di collegamento piccole come follicoli. — Sì.

Sileno rise di nuovo. — A che cazzo ti serve, bambina, se non esiste una sfera dati con cui interagire? Tanto valeva lasciare la personalità di Keats su Lusus o in qualsiasi altro posto. — S'interruppe un attimo per aggiustarsi cinghie e zaini. — Di' un po', puoi accedere per conto tuo alla personalità?

Lamia ripensò ai sogni della notte precedente. In essi c'era stata una presenza che pareva Johnny… ma le immagini erano della Rete. Si trattava forse di ricordi? — No — rispose. — Da sola non ho accesso all'iterazione Schrön. Contiene più dati di quanti non possa trattarne un centinaio di impianti semplici. E ora perché non chiudi il becco e cammini? — Allungò il passo e piantò il poeta lì dov'era.

Il cielo sereno, verdeggiante, suggeriva l'intensità del blu lapislazzuli. Più avanti la distesa di massi si estendeva a sudovest verso le lande sterili e queste si arrendevano alle dune. Per mezz'ora i due camminarono in silenzio, separati da cinque metri e dai propri pensieri. Il sole di Hyperion era sospeso, piccolo e brillante, alla loro destra.

— Le dune diventano più ripide — disse Lamia, mentre superavano a fatica un'altra cresta e scivolavano lungo il pendio opposto. La sabbia calda già le riempiva le scarpe.

Sileno si fermò e col fazzoletto di seta si asciugò il viso. Il berretto floscio, viola, gli pendeva basso sulla fronte e sull'orecchio sinistro, ma non lo riparava. — Sarebbe più facile seguire il terreno duro, a nord di qui. Vicino alla città morta.

Lamia si schermò gli occhi e guardò in quella direzione. — Perderemo almeno mezz'ora, facendo il giro.

— Perderemo più di mezz'ora, tirando dritto. — Si sedette sulla duna e bevve un sorso d'acqua. Si tolse il mantello, lo piegò e lo infilò nello zaino più grosso.

— Cos'hai lì dentro? — domandò Lamia. — Lo zaino sembra pieno.

— Non sono cazzi che ti riguardino, donna.

Lamia scosse la testa; si strofinò le guance e sentì il bruciore delle scottature. Non era abituata a stare a lungo al sole e per giunta l'atmosfera di Hyperion filtrava poco gli ultravioletti. Si frugò in tasca, trovò un tubetto di crema solare e se ne spalmò un poco sulla pelle. — Va bene, facciamo il giro — disse. — Seguiamo il crinale finché non avremo superato le dune peggiori, poi tagliamo in linea retta verso il Castello. — Le montagne si stagliavano all'orizzonte, sembravano non avvicinarsi mai. Le vette innevate erano un tormento, con la promessa di brezze fresche e di acqua fredda. La Valle delle Tombe non era più invisibile, nascosta dalle dune e dalle pietraie.

Lamia spostò il peso degli zaini, girò a destra e, metà scivolando, metà camminando, scese la duna sabbiosa.


Quando sbucarono dalle dune fra le basse ginestre spinose e l'erba aghiforme della cresta, Martin Sileno non riuscì a staccare gli occhi dalle rovine della Città dei Poeti. Lamia aveva tagliato a sinistra, girando intorno alle rovine ed evitandole tutte, a parte le pietre delle autostrade semisepolte che circondavano la città e altre strade che s'inoltravano nelle lande sterili fino a scomparire sotto le dune.

Sileno rimase sempre più indietro; alla fine si fermò e si sedette su di una colonna caduta che un tempo sorreggeva la porta dalla quale gli operai androidi passavano ogni sera al termine del lavoro nei campi. Ora i campi non esistevano più. Gli acquedotti, i canali e le strade erano solo accennati da pietre cadute, depressioni della sabbia o ceppi levigati di alberi che un tempo costeggiavano un corso d'acqua o davano ombra a una stradicciola.

Martin Sileno usò il berretto per asciugarsi il viso, mentre fissava le rovine. La città era ancora bianca… bianca come ossa lasciate scoperte dalla sabbia mutevole, bianca come denti di un teschio color terra. Da dove sedeva, Sileno vide che parecchi edifici erano come li ricordava dall'ultima volta, più di un secolo e mezzo prima. L'Anfiteatro dei Poeti, mai terminato, era regale anche in rovina, un bianco Colosseo di un altro mondo, invaso di rampicanti del deserto e di edera sgargiante. Il grande atrio era aperto al cielo, le gallerie erano ridotte in macerie… non a opera del tempo, ma a causa delle sonde e delle lance termiche e delle cariche esplosive usate dalle inutili guardie di sicurezza di re Billy il Triste nei decenni seguiti all'evacuazione della città. Volevano uccidere lo Shrike. Volevano usare l'elettronica e i rabbiosi raggi di luce coerente per uccidere Grendel dopo la devastazione del salone dell'idromele.

Martin Sileno ridacchiò e si sporse, stordito a un tratto dal caldo e dalla stanchezza.

Vedeva la grande cupola della Sala Comune, dove aveva consumato i pasti, prima con l'allegra brigata di centinaia di artisti, poi appartato, nel silenzio, con pochi altri rimasti per ragioni imperscrutabili e non registrate, quando Billy si era già trasferito a Keats, e infine da solo. Proprio da solo. Una volta aveva lasciato cadere una coppa e l'eco era risuonata per mezzo minuto sotto la cupola segnata dai rampicanti come da graffiti.

"Da solo con i Morlock" pensò Sileno. "Ma neppure in compagnia dei Morlock, alla fine. Soltanto della mia musa."

Con un frastuono improvviso, una ventina di colombe bianche scaturì da una nicchia nel cumulo di torri in rovina che era stato il palazzo di re Billy il Triste. Sileno le guardò volare in cerchio nel cielo surriscaldato e si meravigliò che fossero sopravvissute nei secoli, lì al limitare del nulla.

"Se posso farlo io, perché non loro?"

C'erano ombre, nella città, chiazze di dolce penombra. Sileno si domandò se i pozzi fossero ancora buoni, se i grandi bacini sotterranei formatisi prima dell'arrivo delle navi coloniali umane fossero ancora colmi d'acqua dolce. Si domandò se il tavolino da lavoro in legno, un pezzo antico proveniente dalla Vecchia Terra, si trovasse ancora nella stanzetta dove aveva scritto gran parte dei Canti.

— Cosa c'è? — Brawne Lamia era ferma accanto a lui.

— Niente. — Sileno socchiuse gli occhi e la fissò. La donna sembrava un albero tozzo, una massa di radici scure e robuste, di corteccia bruciata dal sole, di energia impietrita. Cercò di immaginarla sfinita… il tentativo stancò lui. - Ho riflettuto — disse. — Perdiamo il tempo, a fare tutta la strada fino al Castello. Nella città ci sono dei pozzi. E probabilmente anche scorte di viveri.

— Ah-ha — disse Lamia. — Il Console e io l'avevamo pensato e ne abbiamo discusso. Da generazioni la città morta ha subito saccheggi. Di sicuro i pellegrini allo Shrike hanno ripulito i magazzini, un mucchio di anni fa. Non possiamo fare conto sui pozzi… la falda acquifera si è spostata, i serbatoi idrici sono inquinati. Andiamo al Castello.

Sileno sentì crescere la rabbia, per l'insopportabile arroganza della donna, per la convinzione di poter assumere il comando in qualsiasi circostanza. — Vado a fare un sopralluogo — disse. — Forse risparmieremo ore di cammino.

Lamia si mosse fra lui e il sole. I riccioli neri splendettero della corona di una eclissi. — No. Se sprechiamo tempo qui, non riusciremo a tornare prima di buio.

— Vai avanti, allora — sbottò il poeta, sorprendendosi delle proprie parole. — Sono stanco. Controllerò il magazzino dietro la Sala Comune. Forse ricorderò la posizione di depositi che i pellegrini non hanno mai scoperto.

Vide la tensione del corpo, quando la donna prese in esame l'idea di trascinarlo in piedi e spingerlo di nuovo fra le dune. Avevano percorso poco più di un terzo della strada per le alture dove iniziava la lunga salita fino al Castello. I muscoli di Lamia si rilassarono. — Martin — disse la donna — gli altri dipendono da noi. Per favore, non piantare casino.

Sileno rise e si appoggiò alla colonna caduta. — Vaffanculo — replicò. — Sono stanco morto. Tanto, toccherà a te portare quasi tutto il peso, e lo sai. Sono vecchio, donna. Più vecchio di quanto tu non creda. Lasciami riposare un poco. Forse troverò del cibo. Forse scriverò qualcosa.

Lamia si sedette sui talloni accanto a lui e toccò lo zaino del poeta. — Ecco cosa ti porti dietro. Le pagine del tuo poema. I Canti.

— Naturale.

— E pensi ancora che la vicinanza dello Shrike ti permetterà di terminarli?

Sileno scrollò le spalle, con la sensazione che il caldo e lo stordimento gli turbinassero intorno. — Quell'affare è un fottuto assassino, un Grendel di lamiera forgiato all'inferno — disse. — Ma è la mia musa.

Lamia sospirò, guardò a occhi socchiusi il sole che cominciava a calare verso le montagne, poi la valle da cui erano giunti. — Torna laggiù — disse piano. — Nella valle. — Esitò un attimo. — Ti accompagno e poi vado al Castello.

Sileno sorrise, con labbra screpolate. — Perché tornare? Per fare una partita a carte con altri tre vecchi, finché la bestia non viene a sfamarsi? No, grazie, preferisco stare qui e lavorare un poco. Vai avanti, donna. Puoi portare più roba di tre poeti. — Si tolse di spalla zaini vuoti e bottiglie, le porse il tutto.

Lamia resse l'intrico di cinghie nel pugno tozzo e duro come la testa di un martello d'acciaio. — Sei sicuro? Possiamo camminare lentamente.

Sileno si alzò a fatica, alimentato per un momento dalla pura rabbia per il tono di compatimento e di condiscendenza. — Vaffanculo tu e il cavallo su cui corri, lusiana. Se l'hai dimenticato, lo scopo del pellegrinaggio era di venire qui a dire «Salve!» allo Shrike. Il tuo amico Hoyt non l'ha scordato. Kassad ha capito il gioco. Forse in questo momento lo Shrike di merda rosicchia quelle stupide ossa di militare. Non sarei sorpreso se a questo punto anche gli altri tre non avessero più bisogno di acqua e cibo. Vai avanti. Smamma. Sono stufo di vederti.

Brawne Lamia rimase acquattata per un momento, guardandolo dal basso, mentre il poeta ondeggiava davanti a lei. Poi si alzò, gli toccò il braccio in un rapido saluto, si mise in spalla zaini e bottiglie, si allontanò con un passo più rapido di quanto lui avrebbe potuto tenere anche da giovane. — Ripasserò da qui fra qualche ora — gridò, senza girarsi a guardarlo. — Fatti trovare in questa zona. Torneremo insieme alle Tombe.

Martin Sileno rimase zitto e la guardò rimpicciolire e poi sparire nel terreno accidentato di sudest. Le montagne tremolavano nell'aria calda. Sileno abbassò gli occhi e vide che lei gli aveva lasciato la bottiglia dell'acqua. Sputò, aggiunse al carico la bottiglia e si avviò verso l'ombra della città morta.

20

Duré quasi crollò, mentre pranzavano con le ultime due razioni da campo; Sol e il Console lo portarono all'ombra, sull'ampia scalinata della Sfinge. Il viso del prete era bianco come i suoi capelli.

Duré tentò di sorridere, mentre Sol gli accostava alle labbra una bottiglia d'acqua. — Tutti voi accettate con grande facilità la mia risurrezione — disse, asciugandosi la bocca.

Il Console si appoggiò alla Sfinge. — Ho visto il crucimorfo di Hoyt. Lo stesso che lei porta ora.

— E io ho creduto alla storia di Hoyt… che è poi la sua — disse Sol. Passò l'acqua al Console.

Duré si toccò la fronte. — Ho ascoltato i dischetti del comlog. Le storie, compresa la mia, sono… incredibili.

— Dubita che siano vere? — domandò il Console.

— No. La sfida è scoprire quale senso hanno. Trovare l'elemento comune… il legame.

Sol si strinse al petto Rachel, la cullò piano, reggendole la testa. — Dev'esserci per forza un legame? Diverso dallo Shrike?

— Oh, sì — rispose Duré. Sulle guance gli era tornato un po' di colore. — Il pellegrinaggio non è stato accidentale. E neppure la scelta di voi sette.

— Elementi diversi hanno contribuito alla scelta dei partecipanti al pellegrinaggio — disse il Console. — La Commissione di Consulenza delle IA, il Senato dell'Egemonia, perfino la Chiesa Shrike.

Duré scosse la testa. — Sì, ma dietro questa scelta c'era una sola intelligenza guida, amici miei.

Sol si sporse. — Dio?

— Può darsi — rispose Duré, sorridendo. — Ma pensavo al Nucleo… le intelligenze artificiali che si sono comportate così misteriosamente per tutta la sequenza degli eventi.

La piccina si mise a piagnucolare piano. Sol le trovò un calmante e sintonizzò sulle pulsazioni cardiache il comlog che portava al polso. La piccina strinse i pugni una volta e si rilassò contro la spalla del padre. — Il racconto di Brawne fa pensare che elementi del Nucleo cerchino di destabilizzare lo status quo… che concedano alla razza umana una possibilità di sopravvivenza pur continuando l'impegno per realizzare l'Intelligenza Finale.

Il Console indicò il cielo sereno. — Tutto ciò che è avvenuto… il nostro pellegrinaggio, perfino la guerra… si deve alla politica interna del Nucleo.

— E cosa sappiamo, del Nucleo? — domandò a bassa voce Duré.

— Niente — rispose il Console. Tirò un ciottolo contro le sculture alla sinistra della scalinata della Sfinge. — Stringi stringi, non ne sappiamo niente.

Ora Duré si era alzato a sedere e con uno straccio inumidito si massaggiava il viso. — Eppure il loro scopo è simile al nostro.

— Ossia? — domandò Sol, continuando a cullare la piccina.

— Conoscere Dio — disse il prete. — O, se non ci si riesce, crearLo. — Socchiuse gli occhi e guardò la valle. Dalle pareti di sudovest le ombre avanzavano, cominciavano a sfiorare e ad avviluppare le Tombe. — Ho collaborato a promuovere un simile concetto, all'interno della Chiesa…

— Ho letto i suoi saggi su San Teilhard — disse Sol. — Ha fatto un lavoro brillante, nel difendere la necessità di evoluzione verso il Punto Omega… la Divinità… senza inciampare nell'eresia sociniana.

— La cosa? — domandò il Console.

Duré sorrise lievemente. — Socino era un eretico italiano del Diciassettesimo secolo dopo Cristo. Era convinto… e per questo fu scomunicato… che Dio sia un essere limitato, capace di imparare e di crescere mentre il mondo, l'universo, diventa più complesso. E io inciampai davvero nell'eresia sociniana, Sol. Fu il primo dei miei peccati.

Lo sguardo di Sol rimase fermo. — E l'ultimo?

— Oltre l'orgoglio? Il mio peccato più grande fu di falsificare i dati ricavati da sette anni di scavi su Armaghast. Cercare di fornire un legame fra gli scomparsi Arcicostruttori di quel pianeta e una forma di protocristianesimo. Non esisteva. Ho falsificato i dati. Ed ecco l'ironia: il mio massimo peccato, almeno agli occhi della Chiesa, è stato la violazione del metodo scientifico. Nei suoi ultimi giorni, la Chiesa può anche accettare l'eresia teologica, ma non tollera la manomissione del protocollo della scienza.

— Armaghast era così? — domandò Sol, con un gesto del braccio che comprendeva la valle, le Tombe e il deserto invadente.

Duré si guardò intorno, con un lampo negli occhi. — La polvere e la pietra e il senso di morte, sì. Ma questo posto è infinitamente più minaccioso. Qui qualcosa non ha ancora ceduto alla morte, mentre avrebbe dovuto.

Il Console rise. — Auguriamoci di rientrare in questa categoria. Ora porto il comlog su quella sella e provo ancora a mettermi in contatto con la nave.

— Vengo anch'io — disse Sol.

— E anch'io — disse padre Duré, alzandosi; barcollò solo un momento e rifiutò l'aiuto di Weintraub.


La nave non rispose alle chiamate. Senza la nave, non poteva esserci collegamento astrotel con gli Ouster, con la Rete o con qualsiasi posto oltre Hyperion. Le normali bande di trasmissione non funzionavano.

— E se la nave fosse stata distrutta? — domandò Sol al Console.

— No. C'è la ricezione del messaggio, manca solo la risposta. Gladstone tiene ancora in quarantena la nave.

Sol guardò le lande deserte e le montagne che tremolavano nella foschia generata dal calore. A qualche chilometro, le rovine frastagliate della Città dei Poeti si alzavano contro il cielo. — Fa lo stesso — disse. — In pratica abbiamo un deus ex machina di troppo.

Allora Paul Duré si mise a ridere, una risata profonda, sincera; si fermò solo quando cominciò a tossire e fu costretto a bere un sorso d'acqua.

— Cosa c'è? — disse il Console.

— Il deus ex machina. Quello di cui parlavamo poco fa. Sospetto che sia proprio questa, la ragione per cui ciascuno di noi si trova qui. Il povero Lenar con il suo deus nella machina del crucimorfo. Brawne, con il suo poeta risuscitato, prigioniero di una interazione Schrön, che cerca la machina per liberare il suo deus personale. Lei, Sol, in attesa che il deus tenebroso risolva il terribile problema di sua figlia. Il Nucleo, generato dalla machina, che cerca di costruirsi il proprio deus.

Il Console si aggiustò gli occhiali da sole. — E lei, padre?

Duré scosse la testa. — Aspetto che la machina più grande di tutte produca il proprio deus… l'universo. Quanta parte della mia esaltazione di San Teilhard è sgorgata dal semplice fatto che nel mondo d'oggi non ho trovato segno di un Creatore vivente? Come le intelligenze del TecnoNucleo, cerco anch'io di fabbricare quel che non trovo da altre parti.

Sol guardò il cielo. — E quale deus cercano gli Ouster?

— La loro ossessione nei confronti di Hyperion è reale — rispose il Console. — Sono convinti che questo sarà il luogo di nascita di una nuova speranza per la razza umana.

— Faremo meglio a ridiscendere — disse Sol, riparando dal sole Rachel. — Brawne e Martin saranno di ritorno prima di cena.

Ma non tornarono prima di cena. E neppure al tramonto. Ogni ora, il Console andava all'imboccatura della valle, saliva sopra un masso e scrutava le dune e le pietraie, cercando una traccia di movimento. Non ne vide. E rimpianse che Kassad non avesse lasciato il binocolo a energia.

Ancora prima che il cielo si scurisse nel crepuscolo, le esplosioni di luce allo zenit annunciarono che nello spazio la battaglia continuava. I tre si sedettero sul gradino più alto della Sfinge e guardarono lo spettacolo: lente eplosioni di luce bianchissima, fiori di rosso opaco, striature improvvise di verde e d'arancione che lasciavano echi retinici.

— Chi pensi che stia vincendo? — disse Sol.

Il Console non alzò gli occhi. — Non ha importanza. Stanotte sarà meglio dormire in un posto diverso? Aspettare in un'altra Tomba?

— Non posso lasciare la Sfinge — disse Sol. — Se volete, andate pure.

Duré toccò la guancia della piccina. Rachel poppava il tranquillante e la guancia si mosse sotto il dito del prete. — Quanti giorni ha, adesso? — domandò Duré.

— Due. Quasi esatti. In questa latitudine sarebbe nata circa quindici minuti dopo il tramonto. Tempo di Hyperion.

— Vado su a guardare un'ultima volta — disse il Console. — Poi faremo una sorta di falò per aiutarli a trovare la strada nel buio.

Il Console era a metà scalinata, quando Sol si alzò e puntò il dito. Non verso l'imboccatura della valle che brillava nel sole basso, ma dalla parte opposta, verso le ombre della valle stessa.

Il Console si fermò e gli altri due lo raggiunsero. Il Console prese di tasca il piccolo storditore neurale avuto da Kassad parecchi giorni prima. Vista l'assenza di Lamia e del colonnello, era l'unica arma in loro possesso.

— La vedi? — bisbigliò Sol.

La figura si muoveva nel buio al di là del debole bagliore della Tomba di Giada. Non sembrava abbastanza grande, né rapida di movimenti, da essere lo Shrike; avanzava in maniera bizzarra… lentamente, a volte arrestandosi per mezzo secondo, ondeggiando.

Padre Duré lanciò un'occhiata all'imboccatura della valle. — È possibile che Martin Sileno sia entrato da quella parte?

— No, a meno che non sia saltato giù dalla parete di roccia — rispose il Console in un bisbiglio. — O che abbia fatto un giro di otto chilometri verso nordest. E poi, è troppo alto per essere Sileno.

La figura si soffermò di nuovo, ondeggiò, cadde. Vista da più di cento metri, pareva un altro dei sassi sparsi nella valle.

— Andiamo — disse il Console.

Non si misero a correre. Il Console li precedette in fondo alla scalinata, storditore pronto e regolato su venti metri, pur sapendo che a quella distanza l'effetto neurale sarebbe stato minimo. Padre Duré venne subito dopo, reggendo la piccina, mentre Sol cercava una pietra.

— Davide e Golia? — domandò Duré, quando Sol raccolse un sasso e lo mise nella fionda che si era fabbricato quel pomeriggio usando un rivestimento in fibrolastica.

Sopra la barba, il viso abbronzato di Sol diventò ancora più scuro. — Più o meno — rispose l'anziano studioso. — Ecco fatto, mi riprendo Rachel.

— Mi piace, portarla. E se ci sarà uno scontro, è meglio che voi due abbiate le mani libere.

Sol annuì e si pose a fianco del Console; a qualche passo, seguiva il prete con in braccio la piccina.

A quindici metri fu chiaro che la figura per terra era un uomo, un uomo molto alto che indossava un rozzo abito talare, disteso bocconi sulla sabbia.

— Restate qui — disse il Console e si mise a correre. Gli altri due lo guardarono rigirare l'uomo, mettersi in tasca lo storditore e sganciare dalla cintura la borraccia.

Sol avanzò al piccolo trotto, sentendo la stanchezza sotto forma di un piacevole senso di vertigine. Duré lo seguì più lentamente.

Quando il prete giunse nel cono di luce emesso dalla torcia del Console, vide che il cappuccio, tirato indietro, rivelava un viso allungato, dai tratti vagamente asiatici, distorto in maniera bizzarra e illuminato anche dal bagliore della Tomba di Giada.

— Un Templare — esclamò, sorpreso di trovare lì un seguace del Muir.

— La Vera Voce dell'Albero — disse il Console. — Il primo dei pellegrini dispersi… Het Masteen.

21

Per tutto il pomeriggio Martin Sileno aveva lavorato al poema epico; solo la scomparsa della luce lo indusse a interrompere il lavoro.

Aveva scoperto che il suo vecchio studio era stato saccheggiato e che il tavolino antico era scomparso. Il palazzo di re Billy il Triste aveva subito la parte peggiore delle ingiurie del tempo: tutte le finestre in frantumi, dune in miniatura sui tappeti scoloriti che un tempo valevano fortune, topi e piccole anguille delle rocce annidati fra le pietre cadute. Le torri di residenza erano la casa delle colombe e dei falchi da caccia inselvatichiti. Alla fine il poeta era tornato alla Sala Comune; sotto la grande cupola geodesica della sala da pranzo si era seduto a un tavolino e si era messo a scrivere.

Polvere e detriti coprivano il pavimento di ceramica; in alto, i rampicanti del deserto, con le loro sfumature scarlatte quasi oscuravano i vetri infranti; ma Sileno non badò a quei particolari privi d'importanza e lavorò per ultimare i Canti.

Il poema parlava della morte e della destituzione dei Titani a opera della loro prole, gli dèi ellenici. Parlava della lotta olimpica che seguì il rifiuto dei Titani di farsi destituire… il ribollire di mari smisurati, mentre Oceano lottava contro l'usurpatore Nettuno; l'estinzione di soli, mentre Iperone lottava contro Apollo, per il dominio sulla luce; il tremito dell'universo stesso, mente Saturno lottava contro Giove, per il possesso del trono degli dèi. C'era in palio non il semplice passaggio da una serie di dèi all'altra, ma la fine di un'età dell'oro e l'inizio di tempi oscuri che avrebbero segnato il destino di tutte le cose mortali.

I Canti di Hyperion non facevano segreto delle molteplici identità di questi dèi: i Titani erano facilmente riconoscibili come gli eroi della breve storia della razza umana nella galassia, gli usurpatori dell'Olimpo erano le IA del TecnoNucleo, il campo di battaglia si estendeva per i continenti, gli oceani, le rotte aeree dei mondi della Rete. Fra tutto questo, il mostro Dite, figlio di Saturno ma ansioso di ereditarne con Giove il regno, dava la caccia alla preda, mietendo dèi e mortali.

I Canti riguardavano anche la relazione fra creature e creatore, l'amore tra genitore e figli, fra artisti e la propria arte, tutti creatori e creazioni. Il poema celebrava l'amore e la fedeltà, ma pencolava sull'orlo del nichilismo, suggerendo la costante minaccia di corruzione per amore del potere, dell'ambizione umana e dell'hubris intellettuale.

Per più di due secoli standard Martin Sileno aveva lavorato ai Canti. Aveva scritto le parti migliori proprio in quell'ambiente: la città abbandonata, i venti del deserto che gemevano come sinistri cori greci sullo sfondo, la minaccia sempre presente di un'improvvisa interruzione da parte dello Shrike. Salvandosi la vita, andandosene, Sileno aveva abbandonato la propria musa e condannato al silenzio la propria penna. Iniziando a lavorare di nuovo, seguendo quel sentiero sicuro, quel circuito perfetto che solo uno scrittore ricco d'esperienza aveva provato, Martin Sileno si sentì tornare alla vita… vene che si dilatavano, polmoni che si riempivano più a fondo e assaporavano l'intensa luce e l'aria pura senza accorgersi della loro presenza, godendosi ciascun graffio dell'antica penna sulla pergamena, la montagna di pagine già scritte ammucchiate dappertutto sul tavolo circolare, con pezzi di mattone a fungere da fermacarte, mentre la storia fluiva di nuovo liberamente, l'immortalità chiamava a ogni strofa, a ogni verso.

Sileno era giunto alla parte più difficile e più entusiasmante del poema, la scena dove i conflitti infuriavano tra mille paesaggi, intere civiltà erano state distrutte e rappresentanti dei Titani avevano chiesto tregua per incontrarsi e negoziare con i gravi eroi olimpici. In quest'ampio panorama avanzavano Saturno, Iperone, Cotto, Giapeto, Oceano, Briareo, Mimo, Porfirione, Encelado, Reto e altri… le loro ugualmente titaniche sorelle Teti, Febe, Teia e Climene… e dall'altra parte i tratti dolenti di Giove, di Apollo e della loro genia.

Sileno non conosceva la conclusione di questo poema fra i più epici. Ora continuava a vivere solo per terminare il racconto… aveva fatto così per decenni. I sogni giovanili di fama e di ricchezza erano spariti lavorando come apprendista del Verbo (aveva guadagnato fama e ricchezza oltre misura, e questo aveva rischiato di ucciderlo, aveva ucciso davvero la sua arte) e per quanto sapesse che i Canti erano l'opera letteraria più bella della sua epoca voleva solo terminarli, per conoscere egli stesso la conclusione e per mettere ogni strofa, ogni verso, ogni parola nella forma più elegante, più chiara, più bella possibile.

Ora scriveva febbrilmente, quasi folle di desiderio di terminare il lavoro che per lungo tempo aveva ritenuto interminabile. Le parole e le frasi scorrevano dall'antiquata penna all'antiquata carta; le strofe balzavano alla vita senza sforzo, i canti trovavano la propria voce e si terminavano da soli senza bisogno di revisione, di pausa per l'ispirazione. Il poema si dispiegava con velocità sconvolgente, con rivelazioni sorprendenti, con bellezza da mozzare il fiato, sia nelle parole sia nelle immagini.

Sotto la bandiera di tregua, Saturno e l'usurpatore, Giove, si confrontarono al tavolo delle trattative, una lastra di marmo tagliato a spigolo vivo. Il dialogo fu epico e semplice insieme; le giustificazioni per l'esistenza e le spiegazioni per la guerra crearono il dibattito più bello dai tempi del Dialogo meliano di Tucidide. All'improvviso qualcosa di nuovo, di assolutamente non programmato da Martin Sileno in tutte le lunghe ore di riflessione senza ispirazione, entrò nel poema. Tutti e due i re degli dèi espressero paura per un terzo usurpatore, una terribile forza esterna che minacciava la stabilità del regno dell'uno e dell'altro. Sileno guardò, completamente stupefatto, i personaggi creati in mille e mille ore di sforzi sfidare la sua stessa volontà, stringersi la mano e stabilire un'alleanza contro…

Contro che cosa?

Il poeta esitò, bloccò la penna, si rese conto di vedere a stento la pagina. Da un po' di tempo scriveva nella penombra e ora il buio era sceso del tutto.

Sileno tornò in sé permettendo al mondo di precipitarsi di nuovo intorno a lui, un processo simile al ritorno ai sensi dopo un orgasmo. Ma la discesa dello scrittore al mondo era più dolorosa, al momento del ritorno, fra una scia di nubi di gloria che si dissipavano rapidamente nel flusso mondano di banalità sensoriali.

Sileno si guardò intorno. La vasta sala da pranzo era buia, a parte il bagliore capriccioso delle stelle e di remote esplosioni che penetrava dai vetri e fra l'edera in alto. I tavoli erano semplici ombre; le pareti, distanti trenta metri in ogni direzione, erano ombre più scure merlettate dalle tenebre varicose delle liane del deserto. All'esterno della sala da pranzo, il vento della sera si era alzato, vociava ora più forte, a solo di contralto e di soprano cantati dalle travi spaccate e dagli squarci nella cupola in alto.

Il poeta sospirò. Nello zaino non aveva torce a mano. Aveva portato solo acqua e i Canti. Sentì lo stomaco brontolare per la fame. "Dov'è, quella maledetta di Brawne Lamia?" Ma appena lo pensò, capì d'essere lieto che la donna non fosse tornata a prenderlo. Lui aveva bisogno di restare in solitudine per terminare il poema… a quel ritmo, gli sarebbe bastato un giorno, forse solo quella notte. Qualche ora, e avrebbe terminato il lavoro della vita, pronto a riposare un poco e a godere delle piccole cose di ogni giorno, le banalità della vita che per decenni ormai erano state solo un'interruzione del lavoro che non avrebbe potuto completare.

Martin Sileno sospirò di nuovo e cominciò a sistemare nello zaino pagine manoscritte. Da qualche parte avrebbe trovato luce… avrebbe acceso un fuoco, a costo di usare come combustibile gli antichi arazzi di re Billy il Triste. Avrebbe scritto all'aperto, alla luce della battaglia spaziale, se necessario.

Strinse in mano le ultime pagine e la penna; si girò a cercare l'uscita.

Qualcuno era fermo con lui nel buio della sala.

"Lamia" pensò Sileno, mentre sollievo e delusione facevano a pugni tra loro.

Ma non era Brawne Lamia. Sileno notò la distorsione, la massa superiore e le gambe troppo lunghe, il gioco della luce delle stelle su carapace e spine, l'ombra di braccia sotto le braccia e soprattutto il bagliore color rubino di cristallo acceso dall'inferno, nel punto dove dovevano esserci gli occhi.

Sileno emise un gemito e tornò a sedersi. — Non adesso! — gridò. — Sparisci, maledizione ai tuoi occhi!

L'alta ombra si avvicinò senza rumore di passi sulla fredda ceramica. Il cielo s'increspò di energia rosso sangue e ora il poeta vide le spine e le lame e le spire affilate.

— No! — gridò Martin Sileno. — Mi rifiuto. Lasciami stare.

Lo Shrike venne più vicino. La mano di Sileno si mosse, alzò di nuovo la penna e scrisse, sul margine inferiore dell'ultima pagina: È ORA, MARTIN.

Il poeta fissò le parole appena scritte, soffocò l'impulso a sogghignare come un demente. Per quanto ne sapeva, lo Shrike non aveva mai parlato… non aveva mai comunicato con nessuno. Se non tramite i mezzi appaiati del dolore e della morte. — No! — gridò di nuovo. — Ho del lavoro da fare. Prendi un altro, maledizione a te!

Lo Shrike avanzò ancora di un passo. Il cielo pulsò di silenziose esplosioni al plasma; riflessi gialli e rossi, simili a rivoli di vernice, corsero lungo il petto e le braccia argento vivo della creatura. La mano di Martin Sileno si contorse, scrisse di traverso sul messaggio precedente: È ORA, MARTIN, ADESSO.

Sileno strìnse al petto il manoscritto, tolse dal tavolo l'ultima pagina per non scrivere più niente. Mostrò i denti, in un rictus orribile, e quasi sibilò contro l'apparizione.

ERI PRONTO A CAMBIARE POSTO CON IL TUO MECENATE, scrisse la sua mano sul tavolo stesso.

— Non ora! — gridò il poeta. — Billy è morto! Lasciami terminare. Per favore! — Nella sua lunga, lunga vita Martin Sileno non aveva mai implorato. Ora implorò. — Ti prego, ti prego! Lasciami solo terminare!

Lo Shrike avanzò di un passo. Era così vicino che la parte superiore del corpo deforme bloccò la luce delle stelle e mise in ombra il poeta.

NO, scrisse la mano di Martin Sileno; e poi la penna cadde, mentre lo Shrike protendeva braccia infinitamente lunghe, mentre dita infinitamente acuminate penetravano fino al midollo nelle braccia del poeta.

Martin Sileno urlò, quando fu trascinato fuori della sala da pranzo. Urlò, quando vide sotto i piedi le dune, quando udì lo scorrere della sabbia mossa dalle sue stesse grida, quando vide l'albero che s'alzava dalla vallata.

L'albero era più largo della valle, più alto delle montagne che i pellegrini avevano superato; i rami superiori parevano arrivare allo spazio. L'albero era acciaio e cromo, i rami erano spine e ortiche. Esseri umani lottavano e si contorcevano su quelle spine… migliaia e decine di migliaia. Nella luce rossa del cielo morente, Sileno si concentrò al di là della propria sofferenza e riconobbe alcune figure. Erano corpi, non anime o altre astrazioni, e chiaramente pativano le sofferenze di un'esistenza distrutta dal dolore.

È NECESSARIO, scrisse la mano del poeta sul materiale gelido e rigido del petto dello Shrike. Sangue colò su argento vivo e sabbia.

— No! — urlò Sileno. Batté i pugni contro lame di bisturi e spire affilate. Tirò, si dimenò, si contorse, mentre la creatura lo stringeva a sé, lo tirava contro le proprie lame come se il poeta fosse una farfalla preparata per la conservazione, un esemplare infilzato. Non fu l'inimmaginabile sofferenza a spingere Martin Sileno alla follia: fu la sensazione di perdita irrecuperabile. L'aveva quasi terminato. L'aveva quasi terminato!

— No! — gridò Martin Sileno, dibattendosi con maggiore violenza finché l'aria non fu piena di una nebbiolina di sangue e di urla oscene. Lo Shrike lo portò verso l'albero in attesa.

Nella città morta, le urla echeggiarono ancora per un minuto, divennero sempre più deboli, più remote. Poi scese il silenzio, rotto solo dalle colombe che tornavano al nido, che scendevano con un debole fruscio d'ali nelle cupole e nelle torri in rovina.

Venne il vento e sbatacchiò pannelli di perspex schiodati e pezzi di mattone, spostò foglie secche in fontane asciutte, trovò varchi nei vetri rotti della cupola, sollevò pagine manoscritte in un lieve mulinello dal quale sfuggirono alcuni fogli che volarono nelle corti silenziose e nei passaggi deserti e negli acquedotti crollati.

Dopo un poco, il vento morì; e allora niente si mosse, nella Città dei Poeti.

22

Brawne Lamia scoprì che la camminata di quattro ore si era trasformata in un incubo di dieci ore. Prima c'era stata la deviazione verso la città morta e la difficile decisione di abbandonare lì Sileno. Brawne non voleva che il poeta restasse da solo; ma non voleva forzarlo a proseguire e neppure perdere tempo per tornare alle Tombe. In pratica, la deviazione lungo la cresta le era costata un'ora di cammino.

La traversata delle ultime dune e delle lande rocciose fu estenuante e noiosa. Quando Brawne giunse alle alture ai piedi delle montagne, ormai era pomeriggio inoltrato e il Castello era in ombra.

Quaranta ore prima era stato facile scendere i 661 gradini di pietra dal Castello. La salita fu una dura prova anche per muscoli cresciuti su Lusus. A mano a mano l'aria divenne più fredda e il panorama più spettacolare; quattrocento metri al di sopra delle colline pedemontane, Brawne non sudava più e riusciva di nuovo a scorgere la Valle delle Tombe. Da quell'angolatura vedeva solo la punta del Monolito di Cristallo, e anche quella come un irregolare scintillio e un lampo di luce. Si fermò una volta per assicurarsi che non fosse in realtà un messaggio luminoso, ma i bagliori erano casuali, semplici vetri che penzolavano dal Monolito in rovina e riflettevano la luce.

Prima di salire gli ultimi cento scalini, Lamia provò ancora il comlog. I canali di comunicazione erano pieni dei soliti rumori privi di significato, presumibilmente distorti dalle maree del tempo che disturbavano tutte le trasmissioni tranne quelle a brevissimo raggio. Un laser trasmettitore avrebbe funzionato, a giudicare dall'antiquato comlog del Console, ma loro non avevano altre apparecchiature laser, dopo la scomparsa di Kassad. Lamia scrollò le spalle e salì gli ultimi gradini.

Castel Crono era stato costruito dagli androidi di re Billy il Triste: non era un vero e proprio castello ma, nelle intenzioni, uno stabilimento, albergo turistico e rifugio estivo per gli artisti. Dopo l'evacuazione della Città dei Poeti, era rimasto abbandonato per più d'un secolo, visitato solo dagli avventurieri più spericolati.

Con il graduale declino della minaccia dello Shrike, turisti e pellegrini avevano ripreso a usare il Castello e alla fine la Chiesa dello Shrike l'aveva riaperto come fermata indispensabile nell'annuale Pellegrinaggio. Correva voce che alcune stanze, scavate nel cuore della montagna o poste in cima alle torrette meno accessibili, fossero la sede di rituali misteriosi e di elaborati sacrifici alla creatura che il fedeli dello Shrike chiamavano l'Avatar.

Con l'imminente apertura delle Tombe, la capricciosa irregolarità delle maree del tempo e l'evacuazione dei territori settentrionali, Castel Crono era tornato silenzioso. E così era, quando Brawne Lamia vi tornò.

Il deserto e la città morta erano ancora illuminati dal sole, ma il Castello era immerso nel crepuscolo, quando infine Lamia raggiunse la terrazza inferiore; si riposò un momento, prese dallo zaino più piccolo la torcia ed entrò nel labirinto. I corridoi erano bui. Durante la loro permanenza, due giorni prima, Kassad aveva fatto ricerche e aveva annunciato che tutte le fonti di energia erano morte per sempre: convertitori solari in frantumi, celle a fusione schiacciate e perfino le batterie di riserva rotte e disseminate per le cantine. Lamia vi aveva pensato decine di volte, mentre saliva i 661 gradini e lanciava occhiatacce alle navette dell'ascensore bloccate nelle guide verticali arrugginite.

Le sale più vaste, progettate per pranzi e per riunioni, erano come le avevano lasciate… disseminate di resti secchi di banchetti abbandonati e di segni di panico. Non c'erano cadaveri, ma striature marrone sulle pareti di pietra e sugli arazzi suggerivano un'orgia di violenza che risaliva a non molte settimane.

Lamia non badò al caos, non badò agli araldi — grandi uccelli neri con faccia oscenamente umana — che si alzarono in volo nella sala da pranzo centrale, non badò alla stanchezza e salì i numerosi piani fino al magazzino dove si erano accampati. Le scale divennero inspiegabilmente più strette e la livida luce che penetrava dai vetri colorati proiettò ombre malaticce. Dove i vetri erano rotti o mancavano del tutto, doccioni scrutavano all'interno, come impietriti nell'atto di entrare. Un vento freddo soffiava dalle vette innevate della Briglia e faceva rabbrividire Lamia, sotto le scottature solari.

Gli zaini e i bagagli extra erano ancora nel piccolo magazzino posto molto in alto sopra il salone centrale. Lamia si assicurò che le casse ammucchiate nella stanza contenessero provviste non deperibili e uscì sul piccolo balcone dove Lenar Hoyt aveva suonato la balalaica, solo alcune ore, un'eternità, prima.

L'ombra degli alti picchi s'allungava per chilometri sulla sabbia, quasi fino alla città morta. La Valle delle Tombe e le pietraie languivano ancora nella luce della sera, massi e basse formazioni rocciose lanciavano una confusione d'ombre. Da quel balconcino Lamia non scorgeva le Tombe, ma solo, di tanto in tanto, uno scintillio riflesso dal Monolito. Provò di nuovo il comlog, lo maledisse quando ottenne solo statiche e confusi rumori di fondo, tornò dentro per scegliere le provviste e caricarle.

Prese quattro confezioni base, avvolte in flussoschiuma e in fibroplastica prestampata. Nel Castello l'acqua non mancava (i canali per raccogliere la neve disciolta, molto in alto, erano una tecnologia impossibile da distruggere) perciò Brawne riempì tutte le bottiglie che aveva portato con sé e ne cercò altre. L'acqua era la prima necessità. Brawne maledisse Sileno perché non l'aveva accompagnata: il vecchio avrebbe potuto portare cinque o sei bottiglie piene.

Era pronta a partire, quando udì il rumore. C'era qualcosa, nella Grande Sala, fra lei e la scalinata. Lamia si mise in spalla l'ultimo zaino, estrasse dalla cintura la rivoltella paterna e scese lentamente i gradini.

La Sala era deserta; gli araldi non erano tornati. Pesanti arazzi, mossi dal vento, sventolavano come bandiere marce sopra la confusione di cibi e di posate. Contro la parete più lontana, una statua gigantesca librata a mezz'aria, tutta cromo e acciaio, raffigurante la faccia dello Shrike, ruotava sotto la brezza.

Lamia percorse lo spazio aperto, girandosi di scatto quasi ogni secondo, in modo da non dare mai a lungo la schiena a un angolo buio. All'improvviso un grido la immobilizzò.

Non era un grido umano. L'ululato passò negli ultrasuoni e oltre: Lamia rabbrividì e strinse con dita livide l'automatica. Di colpo il grido s'interruppe, come se avessero sollevato dal disco il braccio con la puntina.

Lamia vide da dove era giunto il suono. Al di là del tavolo per i banchetti, al di là della scultura, sotto le sei grandi vetrate dipinte, dove la luce morente faceva gocciolare colori soffusi, c'era una porticina. La voce era giunta da lì, come sfuggita da una prigione sotterranea o da una cantina.

Brawne Lamia era curiosa. Tutta la sua vita era stata un conflitto con una curiosità superiore alla norma, culminato nella scelta della professione, obsoleta e talvolta divertente, di investigatrice privata. Più di una volta la curiosità l'aveva messa in situazioni imbarazzanti o nei guai. E più di una volta l'aveva ripagata con conoscenze che pochi possedevano.

Non quella volta.

Lamia era venuta a cercare cibo e acqua indispensabili. Non era possibile che uno degli altri fosse venuto fin lì… i tre più anziani non l'avrebbero preceduta neppure considerando la deviazione fino alla città morta… e tutto il resto non la riguardava.

"Kassad?" si domandò, ma represse il pensiero: quel grido non proveniva dalla gola del colonnello.

Si allontanò dalla porticina, tenendo pronta l'automatica; trovò gli scalini che portavano ai piani principali e scese con prudenza; attraversò con la massima furtività ogni stanza, anche se portava settanta chili di provviste e una quindicina di bottiglie d'acqua. Colse di sfuggita la propria immagine in un vetro sbiadito del piano inferiore… corpo tozzo pronto all'azione, rivoltella spianata e ondeggiante qua e là, un grande fardello di zaini in equilibrio instabile sulla schiena e appesi alle cinghie, bottiglie e borracce che sbattevano l'una contro l'altra.

Lamia non la trovò divertente. Trasse un sospiro di sollievo, quando uscì nella terrazza inferiore, all'aria fredda e rarefatta, pronta alla lunga discesa. Per il momento poteva fare a meno della torcia: il cielo della sera, all'improvviso pieno di nuvole sempre più basse, spargeva sul mondo una luce rosa e ambra, illuminava di un vivido riflesso perfino il Castello e le alture pedemontane.

Lamia scese la ripida scalinata due gradini per volta, tanto che i forti muscoli delle gambe cominciarono a dolerle prima di arrivare a metà. Non ripose l'automatica, ma la tenne pronta, casomai qualcosa scendesse dietro di lei o comparisse in qualche apertura della parete di roccia. Raggiunto il fondo, si allontanò dalla scalinata e guardò le torri e le balconate, mezzo chilometro più in alto.

Rocce cadevano verso di lei. Non solo rocce: doccioni, scalzati dagli antichi sostegni, rotolavano insieme con le pietre, facce demoniache illuminate dal riflesso del crepuscolo. Lamia si mise a correre, fra un ondeggiare di zaini e di bottiglie; capì di non avere il tempo di mettersi al sicuro prima che la frana la raggiungesse, allora si lanciò fra due bassi macigni appoggiati l'uno all'altro.

Gli zaini le impedirono di infilarsi tutta nell'apertura e Lamia si dimenò per allentare le cinghie; udì un frastuono terribile, quando le prime pietre colpirono terra alle sue spalle e rimbalzarono passandole sopra. Lamia spinse e tirò, con uno sforzo che strappò il cuoio, spezzò la fibroplastica; alla fine fu al riparo fra i due massi e tirò dentro zaini e bottiglie, decisa a non tornare più al Castello.

Pietre grosse come meloni grandinarono tutt'intorno. La testa fracassata di un orco di pietra rimbalzò più avanti e schiantò un piccolo masso a meno di tre metri. Per un momento l'aria fu piena di missili, e pietre più grandi si fracassarono contro il riparo; poi la valanga passò e rimase solo il picchiettio di pietre più piccole della frana secondaria.

Lamia si sporse per mettere meglio al sicuro gli zaini; una pietra grossa quanto il suo comlog colpì la parete rocciosa, schizzò quasi in orizzontale verso il riparo, rimbalzò due volte nella piccola grotta formata dai due massi e colpì Brawne alla tempia.


Lamia si svegliò con un gemito da vecchia. La testa le doleva. Fuori era notte fonda e, dalle fessure in alto, lampi di lontane scaramucce illuminavano l'interno del riparo. Lamia si toccò la tempia e sentì una crosta di sangue coagulato sulla guancia e sul collo.

Si tirò fuori dal crepaccio, lottò per superare la confusione di pietre cadute da poco, si sedette un momento, a testa bassa, resistendo all'impulso di vomitare.

Gli zaini erano intatti e solo una bottiglia d'acqua si era rotta. Lamia trovò l'automatica dove l'aveva lasciata cadere, nel piccolo spazio aperto non ingombro di rocce in frantumi. L'affioramento roccioso portava i segni e le cicatrici della breve e violenta valanga.

Lamia consultò il comlog. Era trascorsa meno di un'ora. Nessuno era sceso per portarla via o tagliarle la gola mentre giaceva svenuta. Lamia scrutò per un'ultima volta i bastioni e le balconate, ormai invisibili, riprese il carico e s'incamminò per il sentiero traditore, a velocità doppia.


Martin Sileno non era al limitare della città morta, quando Brawne Lamia deviò da quella parte. A dire il vero, Brawne non era stata molto convinta di trovarlo lì, ma si augurava che il poeta si fosse semplicemente stancato di aspettarla e avesse fatto da solo i pochi chilometri fino alla valle.

La tentazione di posare il carico, di lasciar cadere le bottiglie e di riposarsi un po' fu forte. Lamia vi resistette. Impugnò la piccola automatica e percorse le vie della città morta. Le esplosioni luminose bastavano a guidarla.

Il poeta non rispose ai richiami che echeggiarono fra le rovine, ma centinaia di piccoli uccelli che Lamia non riconobbe si levarono in volo, con un frullio d'ali bianche nel buio. Lamia percorse i piani inferiori dell'antico palazzo reale, lanciò richiami su per le scalinate, una volta sparò perfino un colpo, ma non vide traccia di Sileno. Attraversò cortili sotto pareti pesantemente coperte di liane rampicanti, gridò il nome del poeta, cercò segni che ne indicassero il passaggio. Una fontana le ricordò il racconto di Sileno… la notte in cui re Billy il Triste era stato portato via dallo Shrike; ma c'erano altre fontane e Brawne non fu sicura che fosse proprio quella.

Attraversò la sala da pranzo centrale, sotto la cupola in rovina, ma trovò solo buio e ombre. Udì un rumore. Si girò di scatto, automatica pronta; ma era solo il fruscio di una foglia o di un antico pezzo di carta sul pavimento di ceramica.

Lamia emise un sospiro e lasciò la città, camminando con disinvoltura nonostante la fatica e i giorni senza dormire. Non ottenne risposta alle chiamate per comlog, ma sentì la tensione di déjà vu delle maree del tempo e non ne fu sorpresa. Il vento della sera aveva cancellato qualsiasi traccia avesse lasciato Martin Sileno tornando alla valle.

Le Tombe splendevano di nuovo, notò Lamia, ancora prima di arrivare all'ampia sella all'imboccatura della valle. Non era uno splendore vivido — niente di paragonabile alla muta orgia di luce nel cielo — ma ogni Tomba di superficie sembrava spargere una luce livida, come se rilasciasse energia immagazzinata durante il giorno.

Lamia si fermò all'imboccatura della valle e gridò per avvertire Sol e gli altri che era tornata. Non avrebbe rifiutato un'offerta di aiuto anche solo per gli ultimi cento metri. Aveva la schiena scorticata e la camicia zuppa di sangue, dove le cinghie avevano tagliato la pelle.

Non ci fu risposta alle grida.

Lamia sentì lo sfinimento, mentre saliva i gradini che portavano alla Sfinge, lasciava cadere il carico nell'ampia veranda di pietra e cercava la torcia. L'interno era buio. Sacchi a pelo e zaini erano sparpagliati nella stanza dove avevano dormito. Lamia gridò un richiamo, attese che l'eco svanisse, mosse di nuovo per la stanza il raggio luminoso. Ogni cosa era come prima. No, un momento, c'era una differenza! Lamia chiuse gli occhi e ricordò com'era stata la stanza, al mattino.

Mancava il cubo di Moebius. L'insolita scatola sigillata a energia abbandonata da Het Masteen sul carro a vela non era più al posto di prima, nell'angolo. Lamia scrollò le spalle e uscì.

Lo Shrike aspettava. Proprio appena al di là della porta. Era più alto di quanto Lamia avesse immaginato, torreggiava su di lei.

Lamia varcò la soglia e arretrò subito, soffocando l'impulso a gridare contro la creatura. L'automatica stretta in pugno le parve piccola e inutile. Lasciò cadere la torcia e nemmeno se ne accorse.

La creatura piegò di lato la testa e guardò Lamia. Negli occhi dalle molteplici sfaccettature pulsò una luce rossa. Gli angoli del corpo e delle lame catturarono i riflessi provenienti dall'alto.

— Figlio di puttana — disse Lamia, con voce calma. — Dove sono gli altri? Cosa ne hai fatto di Sol e della piccina? E degli altri?

La creatura piegò dall'altra parte la testa. La faccia era abbastanza aliena perché Lamia non vi scorgesse espressione. Il linguaggio del corpo comunicava solo minaccia. Dita d'acciaio si aprirono con uno schiocco, come bisturi retraibili.

Lamia gli sparò quattro volte al viso: i pesanti proiettili da 16 mm colpirono il bersaglio e sibilarono via nella notte.

— Non sono venuta qui a morire, bastardo di metallo — disse Lamia. Prese la mira e sparò un'altra decina di volte; ogni proiettile andò a segno.

Volarono scintille. Lo Shrike drizzò di scatto la testa, come se tendesse l'orecchio a un rumore lontano.

Sparì.

Lamia ansimò, si acquattò, si girò di scatto. Niente. Il fondo della valle brillò alla luce delle stelle, mentre il cielo si quietava. Le ombre erano nere come l'inchiostro, ma remote. Anche il vento era scomparso.

Brawne Lamia barcollò fino agli zaini e si sedette sul più grosso, cercando di riportare a frequenza normale il battito del cuore. Scoprì con interesse di non avere avuto paura… non realmente… ma non poteva impedire che l'adrenalina le scorresse nelle vene.

Aveva ancora la pistola, cinque o sei colpi nel caricatore e una buona riserva di propellente; prese una bottiglia e bevve un lungo sorso d'acqua.

Lo Shrike le comparve a fianco. L'arrivo era stato istantaneo e silenzioso.

Lamia lasciò cadere la bottiglia, cercò di puntare la pistola e di spostarsi di lato nello stesso tempo.

Fu come se si muovesse al rallentatore. Lo Shrike tese la destra: le dita a lama, lunghe come aghi da rammendo, colsero la luce; una punta scivolò dietro l'orecchio di Brawne, trovò il cranio, penetrò nella testa, senza il minimo attrito, senza il minimo dolore, a parte un senso di gelo.

23

Nel varcare la porta il colonnello Fedmahn Kassad si era aspettato scene straordinarie; invece si ritrovò nella folle coreografia della guerra. Moneta l'aveva preceduto. Lo Shrike l'aveva scortato, le dita a lama conficcate nell'avambraccio. Quando Kassad portò a termine il passo attraverso la cortina d'energia, Moneta lo aspettava e lo Shrike era scomparso.

Kassad capì subito dove si trovavano. Il panorama era quello visibile dalla cima della bassa montagna dove quasi due secoli prima re Billy il Triste aveva fatto scolpire la propria effigie. L'area piatta della vetta era deserta, a parte i resti ancora fumanti di una batteria per la difesa anti-missili. Dalla vetrificazione del granito e dal metallo fuso che ancora ribolliva, Kassad calcolò che la batteria era stata colpita da armi orbitali.

Moneta si portò sull'orlo del dirupo, cinquanta metri sopra l'ampia fronte di re Billy il Triste; Kassad la raggiunse. La vista della vallata del fiume, della città e delle torri dello spazioporto, dieci chilometri a ovest, raccontava la storia.

La capitale di Hyperion bruciava. La parte vecchia della città, Jacktown, era una tempesta di fuoco in miniatura e centinaia di incendi minori punteggiavano i sobborghi e fiancheggiavano l'autostrada per l'aeroporto, simili a fuochi segnaletici ben curati. Perfino il fiume Hoolie bruciava e un fuoco oleoso si diffondeva sotto le antiquate banchine e nei magazzini. La guglia di una chiesa antica emergeva dal mare di fiamme. Kassad cercò Cicero, ma il bar era nascosto dal fumo e dagli incendi a monte del fiume.

Le colline e la valle erano un brulichio di movimento, come un formicaio preso a calci da uno stivale gigantesco. Le autostrade, intasate da un fiume di umanità, si muovevano più lentamente del fiume vero, mentre decine di migliaia di persone fuggivano il combattimento. I lampi dell'artiglieria solida e delle armi a energia arrivavano all'orizzonte e illuminavano le nuvole basse. Ogni pochi minuti, un mezzo aereo, skimmer militare o navetta, si alzava dal fumo intorno allo spazioporto o dalle colline boscose a nord e a sud; subito l'aria si riempiva di lame di luce coerente, dal basso e dall'alto, e il velivolo cadeva lasciando una scia di fumo nero e di fiamme arancione.

Hovercraft svolazzavano da una riva all'altra del fiume, come pulci d'acqua, schivando i relitti in fiamme di barche, di chiatte e di altri hovercraft. L'unico ponte dell'autostrada era crollato e perfino le spallette di cemento e di pietra bruciavano. Laser da combattimento e raggi di frustalaser squarciavano il fumo; missili antiuomo, visibili come puntini bianchi a velocità maggiore di quella che l'occhio poteva seguire, lasciavano scie d'aria increspata e surriscaldata. Sotto lo sguardo di Kassad e di Moneta, un'esplosione sollevò un fungo di fiamma nei pressi dello spazioporto.

"Non nucleare" pensò Kassad.

"No."

La dermotuta che gli copriva gli occhi agiva come un visore della FORCE molto migliorato e Kassad usò lo zoom per esaminare una collina a cinque chilometri a nordovest oltre il fiume. Molti marines della FORCE si muovevano a grandi falcate verso la cima, alcuni si lasciavano cadere e usavano cariche sagomate per scavarsi trincee. Le tute erano attivate, i polimeri mimetici erano perfetti, le tracce termiche erano minime, ma Kassad non aveva difficoltà a scorgerli. Avrebbe distinto la faccia di ognuno, se avesse voluto.

Canali di comando tattici e a raggio compatto gli mormorarono all'orecchio. Kassad riconobbe il vocio eccitato e le imprecazioni che da troppe generazioni erano il marchio del combattimento. Migliaia di soldati si erano dispersi dallo spazioporto e dalle zone d'attestamento e scavavano trincee lungo un cerchio la cui circonferenza era a venti chilometri dalla città e i cui raggi erano ben programmati campi di fuoco e di vettori per distruzione totale.

"Si aspettano un'invasione" trasmise Kassad, sentendo le parole come qualcosa di più della subvocalizzazione e qualcosa di meno della telepatia.

Moneta sollevò il braccio argento vivo e indicò il cielo.

La coltre di nubi era alta, almeno duemila metri: a sorpresa, fu attraversata prima da un velivolo tozzo, poi da altre decine e, nel giro di qualche secondo, da centinaia di oggetti in discesa. La maggior parte era nascosta da polimeri mimetici e da campi di contenimento codicizzati per fare da sfondo, ma di nuovo Kassad non ebbe difficoltà a distinguerli. Sotto i polimeri, i rivestimenti grigio bronzo avevano deboli marchi nella grafia sottile degli Ouster. Alcuni velivoli più grandi erano chiaramente navette, con code azzurre di plasma ben visibili; ma il resto scendeva lentamente sotto l'increspatura di campi di sospensione e Kassad notò la sagoma ondulata dei bidoni d'invasione Ouster: alcuni senza dubbio trasportavano scorte e munizioni; altri, sicuramente vuoti, erano bersagli civetta per le difese a terra.

Un istante dopo, il soffitto di nuvole fu rotto di nuovo da parecchie centinaia di puntini in caduta libera che precipitavano come grandine: la fanteria Ouster oltrepassava velocemente bidoni e navette, aspettando fino all'ultimo secondo per azionare i campi di sospensione usandoli come paracadute con superficie portante.

Il comandante della FORCE, chiunque fosse, conosceva la disciplina, sia nei propri riguardi, sia verso i subalterni. Le batterie di terra e le migliaia di marines disposti intorno alla città ignorarono i facili bersagli delle navette e attesero che i congegni dei reparti di paracadutisti entrassero in funzione… alcuni a poca distanza dalla cima degli alberi. A quel punto l'aria si riempì di migliaia di bagliori e di scie di fumo, mentre i laser guizzavano e i missili esplodevano.

A una prima occhiata, il danno provocato era devastante, più che sufficiente a scoraggiare ogni attacco, ma un rapido esame disse a Kassad che almeno il 40 per cento degli Ouster era atterrato… numero adeguato alla prima ondata, in qualsiasi attacco planetario.

Un grappolo di cinque paracadutisti ondeggiò verso la montagna dove si trovavano Kassad e Moneta. Raggi scaturiti dalla base del monte incendiarono due Ouster; uno, preso dal panico, scese a vite per evitare di essere colpito; gli ultimi due presero una corrente d'aria che soffiava da est e scesero a spirale nella foresta.

Ora tutti i sensi di Kassad erano impegnati; sentiva il puzzo d'aria ionizzata, di cordite, di propellente solido; dilatava le narici per il fumo e per l'acido degli esplosivi al plasma; in qualche punto della città le sirene gemevano, mentre sulla brezza leggera giungeva lo scoppiettio delle armi portatili e degli alberi incendiati; i canali radio e a raggio compatto, intercettati, erano una babele; fiamme illuminavano la vallata e lame di laser giocavano fra le nuvole come proiettori. Mezzo chilometro più in basso, dove la foresta si mutava nell'erba delle colline pedemontane, squadre di marines dell'Egemonia impegnavano in scontri corpo a corpo i paracadutisti Ouster. Si udivano le grida.

Fedmahn Kassad rimase a guardare: era affascinato come la volta che aveva assistito mediante stim-sim a una carica della cavalleria francese ad Agincourt.

"Non è simulazione?"

"No" rispose Moneta.

"Accade in questo stesso momento, proprio ora?"

Al suo fianco, l'apparizione argentea piegò di lato la testa. "Quando, ora?"

"Tempo contiguo al nostro… incontro… nella Valle delle Tombe."

"No."

"Futuro, allora?"

"Sì."

"Ma futuro prossimo?"

"Sì. Cinque giorni da quando sei arrivato nella valle con i tuoi amici."

Kassad scosse la testa, stupefatto. Se doveva credere a Moneta, aveva viaggiato nel tempo, nel futuro.

Il viso della donna si girò verso di lui e rifletté fiamme e bagliori colorati. "Vuoi partecipare al combattimento?"

"Contro gli Ouster?" Kassad incrociò le braccia e guardò con intensità nuova. Aveva avuto un'anteprima delle capacità combattive di quella bizzarra dermotuta. Probabilmente da solo sarebbe riuscito a cambiare le sorti della battaglia… a distruggere le poche migliaia di Ouster già a terra. "No" trasmise "non adesso. Non in questo momento."

"Il Signore della Sofferenza ti crede un guerriero."

Kassad si girò a guardarla, moderatamente incuriosito da quel titolo così risonante usato per indicare lo Shrike. "Il Signore della Sofferenza può andare a farsi fottere" replicò. "A meno che non voglia combattere contro di me!"

Moneta rimase immobile per un intero minuto, statua di argento vivo sopra un picco battuto dal vento.

"Davvero lo affronteresti?" disse infine.

"Sono venuto su Hyperion per ucciderlo. E per uccidere te. Combatterò, appena uno dei due, o tutt'e due, sarete disposti."

"Credi ancora che ti sia nemica?"

Kassad ricordò com'era stato assalito alle Tombe, capì adesso che si era trattato non tanto di uno stupro quanto dell'esaudimento del suo stesso desiderio subvocalizzato di fare l'amore ancora una volta con quella donna improbabile. "Non so chi sei."

"All'inizio ero una vittima, come tantissimi altri" disse Moneta, riportando lo sguardo sulla vallata. "Poi, nel nostro lontano futuro, vidi perché il Signore della Sofferenza era stato forgiato… perché era stato necessario forgiarlo… e allora divenni sua compagna e custode."

"Custode?"

"Sorvegliai le maree del tempo, eseguii le riparazioni dei macchinari, badai che il Signore della Sofferenza non si svegliasse prima del dovuto."

"Quindi puoi controllarlo?" A quel pensiero, le pulsazioni di Kassad accelerarono.

"No."

"Allora chi o che cosa può controllarlo?"

"Solo chi lo sconfigge in uno scontro corpo a corpo."

"Chi l'ha sconfitto?"

"Nessuno. Nel tuo futuro e nel tuo passato."

"Quanti hanno fatto il tentativo?"

"Milioni."

"E sono morti tutti?"

"Morti, o peggio."

Kassad inspirò a fondo. "Sai se mi sarà permesso di combatterlo?"

"Ti sarà permesso."

Kassad lasciò uscire il fiato. Nessuno aveva sconfitto lo Shrike. Il proprio futuro era il passato di Moneta… lei era vissuta lì… lei aveva visto il terribile albero di spine proprio come lui, vi aveva scorto visi noti, così come lui aveva visto, anni prima di incontrarlo, Martin Sileno, impalato, lottare per liberarsi. Kassad girò la schiena al combattimento nella vallata. "Ora possiamo andare da lui? Lo sfido a uno scontro a corpo a corpo."

Moneta lo fissò negli occhi, in silenzio. Kassad scorse i propri lineamenti d'argento vivo riflessi nei suoi. Senza rispondere, Moneta si girò, toccò l'aria e materializzò il portale.

Kassad lo varcò per primo.

24

Gladstone si teleportò direttamente alla Casa del Governo ed emerse nel Centro Comando Tattico, con Leigh Hunt e altri cinque o sei aiutanti al seguito. La stanza era affollata; Morpurgo, Singh, Van Zeidt e un'altra decina rappresentavano i militari ma, notò Gladstone, il giovane eroe navale, il capitano Lee, era assente; partecipava anche gran parte dei ministri di gabinetto, compresi Alan Imoto della Difesa, Garion Persov delle Pubbliche Relazioni e Barbre Dan-Gyddis dell'Economia; gli ultimi senatori arrivavano insieme a Gladstone e alcuni avevano l'aria di chi si è appena svegliato… la "curva di potere" del tavolo ovale comprendeva Kolchev di Lusus, Richeau di Vettore Rinascimento, Roanquist di Nordholm, Kakinuma di Fuji, Sabenstorafem di Sol Draconis Septem e Peters di Deneb Drei; il Presidente pro tempore Denzel-Hiat-Amin aveva un'aria imbronciata e la testa calva rifletteva la luce dei faretti posti sul soffitto; la sua giovane controparte, lo Speaker della Totalità Gibbons, appollaiato sull'orlo della poltroncina, mani sulle ginocchia, pareva uno studio d'energia appena contenuta. La proiezione del consulente Albedo sedeva proprio di fronte alla poltrona vuota di Gladstone. Tutti si alzarono, quando il Primo Funzionario Esecutivo percorse lo spazio fra i sedili; con un gesto, Gladstone li invitò ad accomodarsi.

— Spiegazioni — disse.

Il generale Morpurgo si alzò, rivolse un cenno a un subordinato: le luci si attenuarono e si iorniò la nebbiolina degli ologrammi.

— Lasciamo perdere i sussidi visivi! — sbottò Meina Gladstone. — Parlate.

Gli ologrammi svanirono e le luci tornarono a splendere. Morpurgo aveva l'aria intontita, lo sguardo un po' vacuo. Guardò l'indicatore luminoso che stringeva in pugno, si accigliò, lo mise in tasca. — Signora, senatori, ministri, Presidente e Speaker, onorevoli… — cominciò. Si schiarì la voce. — Gli Ouster hanno portato a termine un devastante attacco di sorpresa. I loro Sciami d'assalto si avvicinano a una decina di mondi della Rete.

Il brusio della sala soffocò le parole del generale. — Mondi della Rete! — esclamarono varie voci. Ci furono grida di politici, di ministri, di funzionari dell'esecutivo.

— Silenzio — ordinò Gladstone. Tutti tacquero. — Generale — proseguì il PFE — ci aveva assicurato che ogni forza ostile era a un minimo di cinque anni-luce dalla Rete. Come e perché la situazione è cambiata?

Il generale incrociò lo sguardo con il PFE. — Signora, per quanto ne sappiamo, tutte le scie di motore Hawking erano falsi bersagli. Gli Sciami hanno spento i motori decenni fa e hanno proseguito verso gli obiettivi a velocità sub-luce…

Un vociare eccitato lo zittì.

— Prosegua, generale — disse Gladstone, e i mormoni tacquero di nuovo.

— A velocità sub-luce… una parte degli Sciami ha certo viaggiato a questo modo per cinquanta anni standard o anche più… non c'era modo di scoprirne la presenza. Semplicemente, non è stata colpa di…

— Quali mondi sono in pericolo, generale? — domandò Gladstone. La voce era molto bassa, molto calma.

Morpurgo lanciò un'occhiata all'aria vuota, come se vi cercasse i sussidi visivi; riportò lo sguardo al tavolo. Strinse i pugni. — Al momento, il nostro servizio informazioni, basandosi su avvistamenti di motori a fusione seguiti dal passaggio a motori Hawking all'atto della scoperta, indica che la prima ondata toccherà Porta del Paradiso, Bosco Divino, Mare Infinitum, Asquith, Ixion, Tsingtao-Hsishuang Panna, Acteon, il Mondo di Barnard e Tempe, in un periodo compreso fra quindici e settantadue ore.

Stavolta non fu possibile zittire il frastuono. Gladstone lasciò che grida ed esclamazioni continuassero per alcuni minuti prima di alzare la mano e riportare sotto controllo l'assemblea.

Il senatore Kolchev era in piedi. — Come diavolo è potuto accadere, generale? Le sue assicurazioni erano assolute!

Morpurgo gli tenne testa. Non c'era rabbia di rimando, nel suo tono. — Sì, senatore, e anche basate su dati inesatti. Ci siamo sbagliati. Le nostre previsioni erano errate. Il PFE avrà le mie dimissioni entro un'ora… e gli altri capi congiunti mi imiteranno.

— Al diavolo le dimissioni! — gridò Kolchev. — Prima che sia finita potremmo penzolare tutti da un pilastro di teleporter. La domanda è: che diavolo fate, per impedire l'invasione?

— Gabriel — disse piano Gladstone — siediti, per favore. Era la mia prossima domanda. Generale? Ammiraglio? Immagino che abbiate già emanato ordini per la difesa di questi mondi.

L'ammiraglio Singh si alzò e prese posto accanto a Morpurgo. — Signora, abbiamo fatto il possibile. Purtroppo, di tutti i mondi minacciati dalla prima ondata, solo Asquith ha in loco un contingente della FORCE. Gli altri possono essere raggiunti dalla flotta… nessuno manca di attrezzature farcaster… ma la flotta non può suddividersi in questo modo per proteggerli tutti. E, sfortunatamente… — Singh esitò un attimo, poi alzò la voce per superare il tumulto. — Sfortunatamente, l'intervento della riserva strategica per rinforzare la campagna di Hyperion è già iniziato. Circa il 60 per cento delle duecento unità della flotta impiegate in questo intervento si sono teleportate nel sistema di Hyperion oppure in aree di attestamento lontane dalle precedenti posizioni difensive alla periferia della Rete.

Meina Gladstone si lisciò la guancia. Si accorse di indossare ancora il mantello, anche se il visore polarizzato era spento; sganciò il fermaglio e lasciò cadere il mantello sulla spalliera della poltrona. — In altre parole, ammiraglio, questi mondi sono indifesi e non c'è modo di richiamare le nostre forze e farle tornare in tempo. Esatto?

Singh si mise sull'attenti, rigido come un uomo di fronte al plotone d'esecuzione. — Esatto, signora.

— Cosa possiamo fare? — domandò lei, al di sopra del tumulto rinnovato.

Morpurgo avanzò di un passo. — Al momento usiamo la matrice del teleporter civile per trasferire sui mondi minacciati il maggior numero possibile di fanti della FORCE:terra e di marines, oltre ad artiglieria leggera e difese aria-spazio.

Il ministro della Difesa Imoto si schiarì la voce. — Ma non farà una gran differenza, senza flotta di difesa.

Gladstone lanciò un'occhiata a Morpurgo.

— È vero — disse il generale. — Nel caso più favorevole, le nostre forze svolgeranno un'azione di retroguardia, mentre si tenterà l'evacuazione…

La senatrice Richeau era in piedi. — Si tenterà l'evacuazione! Generale, ieri ci ha detto che l'evacuazione di due o tre milioni di civili da Hyperion era inattuabile. E ora ci dice che possiamo evacuare con successo… — s'interruppe per consultare l'impianto comlog — sette miliardi di persone, prima dell'arrivo degli Ouster?

— No — disse Morpurgo. — Possiamo sacrificare soldati per salvare un certo numero di… di ufficiali scelti, Prime Famiglie, leader della comunità e dell'industria necessari al prosieguo dello sforzo bellico.

— Generale — disse Gladstone — ieri questo gruppo ha autorizzato il trasferimento immediato di truppe della FORCE alla flotta di rinforzo in traslazione su Hyperion. Il fatto comporta difficoltà per il nuovo spiegamento di forze richiesto?

Il generale Van Zeidt dei marines si alzò. — Sì, signora. Truppe sono state teleportate sui mezzi di trasporto in attesa, nel giro di un'ora dalla decisione presa da questa assemblea. Quasi due terzi dei centomila effettivi previsti sono giunti nel sistema di Hyperion alle… — diede un'occhiata all'antiquato cronometro — alle 05,30 standard. Circa venti minuti fa. Occorreranno almeno da otto a quindici ore perché i trasporti truppe tornino nella zona di attestamento del sistema di Hyperion per rientrare nella Rete.

— E quanti effettivi della FORCE sono disponibili in tutta la Rete? — domandò Gladstone. Con la nocca dell'indice si toccò il labbro inferiore.

Morpurgo inspirò a fondo. — Circa trentamila, signora.

Il senatore Kolchev diede una manata sul tavolo. — Quindi abbiamo spogliato la Rete non solo delle navi da guerra, ma anche della maggior parte dell'esercito.

Non era una domanda. Morpurgo non rispose.

La senatrice Feldstein, del Mondo di Barnard, si alzò. — Signora, bisogna avvertire il mio mondo… tutti i mondi menzionati. Se non è pronta a fare un annuncio immediato, dovrò farlo io.

Gladstone annuì. — Darò annuncio dell'invasione al termine della riunione, Dorothy. Faciliteremo il contatto con gli elettori, tramite tutti i media.

— Al diavolo i media — disse la senatrice, bassa e scura di capelli. — Mi teleporterò a casa, appena finito. Devo condividere la sorte del Mondo di Barnard, quale che sia. Signori e signore, dovremmo penzolare tutti da una corda, se la notizia è vera. — Feldstein si sedette, fra mormoni e bisbigli.

Lo Speaker Gibbons si alzò e attese che tornasse il silenzio. Parlò con voce tesa come fil di ferro. — Generale, ha fatto riferimento a una prima ondata: si tratta di prudente gergo militare, oppure ha informazioni riguardanti ondate successive? In questo caso, quali altri mondi della Rete e del Protettorato sarebbero coinvolti?

Morpurgo strinse e aprì i pugni. Diede un'altra occhiata all'aria vuota, si rivolse verso Gladstone. — Signora, posso usare un grafico solo?

Gladstone annuì.

L'olografia era la stessa che i militari avevano adoperato durante la conferenza informativa a Olympus: l'Egemonia, in oro; le stelle del Protettorato, in verde; i vettori degli Sciami Ouster, linee rosse con coda azzurro cangiante; spiegamento della flotta dell'Egemonia, arancione. Fu subito evidente che i vettori rossi avevano deviato di molto dalle traiettorie precedenti ed erano penetrati nello spazio dell'Egemonia, come lance dalla punta insanguinata. Ora le faville arancione erano fortemente concentrate nel sistema di Hyperion, mentre altre seguivano rotte teleporter, come perle di collana.

Alcuni senatori con esperienza militare ansimarono, nel vedere il grafico.

— A quanto pare — disse Morpurgo con voce ancora debole — i dodici Sciami a noi noti sono tutti impegnati nell'invasione della Rete. Diversi si sono suddivisi in gruppi d'attacco multiplo. La seconda ondata, prevista per arrivare a bersaglio in un periodo compreso fra cento e duecentocinquanta ore dopo la prima, è indicata dai vettori qui riprodotti.

Nella sala non si udì alcun rumore. Gladstone si domandò se anche gli altri, come lei, trattenessero il fiato.

— I bersagli della seconda ondata d'assalto comprendono: Hebron, cento ore a partire da adesso; Vettore Rinascimento, 110 ore; Rinascimento Minore, 112 ore; Nordholm, 127 ore; Patto-Maui, 130 ore; Thalia, 143 ore; Deneb Drei e Vier, 150 ore; Sol Draconis Septem, 169 ore; Freeholm, 170 ore; Nuova Terra, 193 ore; Fuji, 204 ore; Nuova Mecca, 205 ore; Pacem, Armaghast e Svoboda, 221 ore; Lusus, 230 ore; e Tau Ceti Centro, 250 ore.

L'ologramma svanì. Il silenzio perdurò. Il generale Morpurgo riprese: — Presumiamo che gli Sciami della prima ondata abbiano obiettivi secondari, dopo l'invasione iniziale; ma i tempi di transito con motori Hawking comporteranno debiti temporali standard, compresi fra nove settimane e tre anni. — Arretrò di un passo e assunse la posizione di riposo.

— Cristo santo — mormorò qualcuno, alcuni sedili dietro Gladstone.

Il PFE si strofinò il labbro inferiore. Per salvare la razza umana da quella che considerava un'eternità di schiavitù — o, peggio, dall'estinzione — si era preparata a spalancare al lupo la porta di casa, mentre gran parte della famiglia si nascondeva al piano superiore, al sicuro dietro usci sbarrati. Solo, giunto il giorno, i lupi entravano da ogni porta e da ogni finestra. Gladstone quasi sorrise alla giustizia della situazione, alla propria finale follia nel pensare di poter liberare dalla gabbia il caos e poi dominarlo.

— Primo — disse — non ci saranno dimissioni né autocritiche, finché non le autorizzerò io. È molto probabile che questo governo cada… che membri di questo gabinetto, me compresa, finiscano sul serio a penzolare da una corda. Tuttavia, al momento siamo sempre il governo dell'Egemonia e dobbiamo comportarci di conseguenza.

"Secondo, fra un'ora incontrerò questa assemblea e i rappresentanti di altri comitati senatoriali, allo scopo di concertare il discorso che terrò alla Rete alle 08,00 standard. Nel corso dell'incontro ogni suggerimento sarà ben accetto.

"Terzo, in base a quanto sopra, do l'ordine e l'autorizzazione alle autorità della FORCE qui riunite e in tutti i territori dell'Egemonia di fare tutto ciò che è in loro potere per proteggere la popolazione e i beni della Rete e del Protettorato, utilizzando qualsiasi mezzo straordinario ritengano indispensabile. Generale, ammiraglio, voglio che entro dieci ore i soldati siano ritrasferiti ai mondi minacciati della Rete. Non m'importa come, ma l'ordine dev'essere eseguito.

"Quarto, dopo il discorso convocherò una sessione plenaria del Senato e della Totalità. Dichiarerò allora che esiste lo stato di guerra fra l'Egemonia Umana e le nazioni Ouster. Gabriel, Dorothy, Tom, Eiko… tutti voi… sarete molto impegnati, nelle prossime ore. Preparate pure il discorso per i vostri mondi natali, ma partecipate alla votazione. Voglio il sostegno unanime del Senato. Speaker Gibbons, posso solo chiederle aiuto nel guidare il dibattito della Totalità. È indispensabile, entro le 12,00 di oggi, avere un voto della Totalità riunita. Non possono esserci sorprese.

"Quinto, evacueremo i cittadini dei mondi minacciati dalla prima ondata. — Gladstone sollevò la mano e soffocò obiezioni e spiegazioni degli esperti. — Evacueremo tutti coloro che potremo evacuare nel tempo a disposizione. I ministri Persov, Imoto, Dan-Gyddis e Crunnens del Ministero Transiti Rete formeranno e dirigeranno il Comitato di Coordinamento per l'Evacuazione; oggi alle 13,00 mi consegneranno un rapporto particolareggiato e la scaletta dei tempi. La FORCE e l'Ufficio per la Sicurezza dirigeranno il controllo della popolazione e la sorveglianza agli accessi teleporter.

"Infine, desidero parlare al consulente Albedo, al senatore Kolchcv e allo Speaker Gibbons nel mio ufficio privato fra tre minuti. Ci sono domande?"

Facce stupefatte le restituirono lo sguardo.

Gladstone si alzò. — Buona fortuna — disse. — Lavorate rapidamente. Non fate nulla per diffondere inutile panico. E Dio salvi l'Egemonia. — Si girò e lasciò la sala.


Gladstone si accomodò alla scrivania. Kolchev, Gibbons e Albedo si sedettero di fronte a lei. L'urgenza nell'aria, percepita dall'attività che s'intuiva dietro le porte, fu resa più fastidiosa dal lungo ritardo di Gladstone prima di prendere la parola. La donna non distolse mai lo sguardo dal consulente Albedo. — Lei — disse infine — ci ha traditi.

Il lieve sorriso educato della proiezione non vacillò. — Non è affatto vero, signora.

— Allora ha un minuto per spiegare perché il TecnoNucleo, e in particolare la Commissione di Consulenza delle IA, non ha previsto questa invasione.

— Per spiegarlo, signora, basta una sola parola — disse Albedo. — Hyperion.

— Hyperion una merda! — gridò Gladstone, battendo una manata sul piano dell'antica scrivania, in uno scoppio di rabbia del tutto insolito. — Sono stufa e nauseata di sentire parlare di variabili non scomponibili in fattori e di Hyperion come profetico buco nero. O il Nucleo può aiutarci a capire le probabilità, oppure da cinque secoli continua a mentirci. Quale delle due?

— La Commissione ha previsto la guerra, signora — disse l'immagine dai capelli grigi. — Le nostre consulenze confidenziali, a lei e al gruppo da informare, spiegavano quanto sarebbero stati incerti gli eventi, dall'istante del coinvolgimento di Hyperion.

— Stronzate — intervenne, brusco, Kolchev. — Le vostre previsioni in teoria sono infallibili, almeno riguardo la tendenza generale. Eppure l'attacco è stato progettato da decenni. Forse da secoli.

Albedo si strinse nelle spalle. — Sì, senatore. Ma è possibile che solo la determinazione del governo a iniziare una guerra nel sistema di Hyperion abbia spinto gli Ouster a procedere col piano. Noi abbiamo sconsigliato qualsiasi azione riguardante Hyperion.

Lo Speaker Gibbons si sporse. — Ci avete dato i nomi degli individui necessari per il cosiddetto Pellegrinaggio allo Shrike.

Albedo non scrollò di nuovo le spalle; era rilassato, fiducioso.

— Avete chiesto una rosa di nomi di individui della Rete le cui richieste allo Shrike avrebbero cambiato il risultato della guerra da noi prevista.

Gladstone unì le punte delle dita e si picchiettò sul mento. — E avete già determinato come queste richieste cambierebbero i risultati della guerra… di questa guerra?

— No — rispose Albedo.

— Consulente — disse Meina Gladstone — sappia che da questo momento, a seconda degli eventi dei prossimi giorni, il governo dell'Egemonia dell'Uomo considera la possibilità di dichiarare l'esistenza dello stato di guerra fra noi e l'entità conosciuta come TecnoNucleo. In veste di ambasciatore de facto di questa entità, lei è incaricato di comunicare la decisione.

Albedo sorrise. Allargò le mani. — Signora, lo choc di questa terribile notizia l'ha certo spinta a creare una ben misera battuta. Dichiarare guerra al Nucleo sarebbe come… come se un pesce dichiarasse guerra all'acqua, come se un guidatore aggredisse il proprio VEM a causa di preoccupanti notizie relative a un incidente avvenuto altrove.

Gladstone rimase seria. — Mio nonno, su Patawpha — disse lentamente, accentuando la cadenza tipica di quel pianeta — cacciò sei proiettili di fucile a impulso nel VEM di famiglia, quando un mattino la maledetta macchina si rifiutò di partire. Può andare, consulente.

Albedo batté le palpebre e svanì di colpo. L'improvvisa partenza era una deliberata infrazione del protocollo (di solito la proiezione lasciava la stanza, o aspettava che gli altri uscissero, prima di svanire) oppure un segno che l'intelligenza di controllo nel Nucleo era rimasta sconvolta dallo scambio di battute.

Gladstone rivolse un cenno a Kolchev e a Gibbons. — Non vi trattengo oltre, signori. Ma mi aspetto sostegno totale, quando la dichiarazione di guerra sarà messa ai voti, fra cinque ore.

— L'avrà — rispose Gibbons. I due uscirono.

Da porte e pannelli nascosti entrarono segretari a mitragliare domande e a consultare comlog per avere istruzioni. Gladstone alzò il dito. — Dov'è Severn? — domandò. Vedendo gli sguardi vacui, aggiunse: — Il poeta… cioè, l'artista. Il pittore che mi fa il ritratto.

Parecchi segretari si scambiarono occhiate, come se il PFE desse i numeri.

— Dorme ancora — rispose Leigh Hunt. — Ha preso dei sonniferi e nessuno ha pensato di svegliarlo per la riunione.

— Lo voglio qui entro venti minuti. Aggiornatelo. Dov'è il capitano Lee?

Niki Cardon, la giovane incaricata dei collegamenti con i militari, rispose: — Ieri notte Lee è stato trasferito al pattugliamento periferico, da Morpurgo e dal caposettore della FORCE:mare. Salterà da un mondo oceanico all'altro, per vent'anni del nostro tempo. Al momento si è teleportato al FORCE:ComCenMar, su Bressia, in attesa di passaggio extraplanetario.

— Riportatelo qui. Voglio che sia promosso ammiraglio di divisione o come diavolo si dice, e assegnato a me personalmente, non alla Casa del Governo né all'Esecutivo. Sarà il commesso viaggiatore nucleare, se occorre.

Per un istante fissò la parete spoglia. Pensò ai pianeti dove aveva passeggiato quella notte: il Mondo di Barnard, luce di lampioni fra le foglie, antichi edifici di college in mattoni; Bosco Divino, montgolfier impastoiati e zeplen in volo libero a salutare l'alba; Porta del Paradiso, la Passeggiata… Tutti bersagli della prima ondata. Scosse la testa. — Leigh, voglio che entro quarantacinque minuti lei, Tarra e Brindenath mi prepariate la bozza di tutt'e due i discorsi… quello generale e la dichiarazione di guerra. Brevi. Inequivocabili. Controlli i file alle voci Churchill e Strudensky. Realistici ma spavaldi, ottimistici ma temperati da truce determinazione. Niki, mi serve il monitoraggio in tempo reale di ogni mossa effettuata dai capi congiunti. Voglio un display personale della mappa comando… trasmesso tramite il mio impianto. Riservato solo al PFE. Barbre, lei sarà la mia estensione di diplomazia con altri mezzi, verso il Senato. Convochi qui i senatori, chieda la restituzione di debiti politici, tiri la fila, ricatti, blandisca, ma faccia capire a tutti che sarà meno pericoloso andare a combattere gli Ouster che ostacolarmi nelle prossime tre o quattro votazioni. Domande?

Attese tre secondi, poi batté le mani. — Bene. Muoviamoci, gente!

Nel breve intervallo prima della nuova ondata di senatori, ministri e segretari, Gladstone girò la poltroncina verso la parete nuda, alzò il dito verso il soffitto e agitò la mano.

Tornò a girarsi un attimo prima che entrasse il nuovo gruppo di VIP.

25

Sol, il Console, padre Duré e Het Masteen, ancora svenuto, si trovavano nella prima delle Tombe dette Grotte, quando udirono gli spari. Il Console uscì da solo, con prudenza, sondando la tempesta delle maree del tempo che li aveva spinti più all'interno nella valle.

— Tutto a posto — gridò. Il bagliore livido della lanterna di Sol illuminò l'ingresso della grotta, tre facce pallide e il mucchio di vesti che era il Templare. — Le maree sono diminuite — gridò ancora il Console.

Sol si alzò. Sotto il suo, il viso della figlia era un pallido ovale. — Sei sicuro che gli spari provenissero dalla pistola di Brawne?

Il Console indicò l'oscurità esterna. — Era l'unica ad avere una sparapiombo. Vado a controllare.

— Aspetta — disse Sol. — Vengo con te.

Padre Duré rimase inginocchiato accanto a Het Masteen. — Andate pure. Resto io, con lui.

— Uno di noi due tornerà a dare un'occhiata entro cinque minuti — disse il Console.

La valle brillava della luce livida delle Tombe del Tempo. Il vento ruggiva da sud, ma la corrente d'aria quella notte era più alta, sopra le pareti di roccia, e non disturbava le dune del fondovalle. Sol seguì il Console, che percorse con cautela l'impervio sentiero e girò verso l'imboccatura della valle. Lievi strattoni di déjà vu ricordarono a Sol la violenza delle maree del tempo di un'ora prima, ma ormai anche i residui della bizzarra tempesta erano quasi svaniti.

Quando il sentiero si allargò, Sol e il Console oltrepassarono insieme il campo di battaglia riarso intorno al Monolito di Cristallo, il cui bagliore latteo era riflesso dalle innumerevoli schegge sparse sul fondo dell'arroyo; poi superarono la leggera salita al di là della Tomba di Giada con la sua fosforescenza verde chiaro, girarono di nuovo e seguirono le rampe poco accentuate che portavano alla Sfinge.

— Dio mio — mormorò Sol. Si lanciò avanti, cercando di non scuotere la piccina addormentata nel porta-neonati. Si inginocchiò accanto alla sagoma scura sul gradino più alto.

— Brawne? — domandò il Console, fermandosi due passi più indietro e ansimando per prendere fiato dopo l'improvvisa corsa in salita.

— Sì. — Sol iniziò a sollevarle la testa, ma ritrasse subito la mano, quando toccò qualcosa di viscido e freddo che trasudava dal cranio.

— Morta?

Sol strinse al petto la figlia e toccò la gola di Brawne, cercando le pulsazioni. — No — disse, con un profondo sospiro. — È viva… ma è svenuta. Dammi la torcia.

Passò il raggio luminoso sopra la ligura scomposta di Brawne Lamia e seguì il cordone argenteo ("tentacolo" era un termine migliore, vista la consistenza carnosa che faceva pensare a un'origine organica) che dalla presa di shunt neurale nel cranio correva lungo l'ampio scalino della Sfinge fin dentro l'ingresso spalancato. La Sfinge era la Tomba più luminosa, ma il vano era molto buio.

Il Console si avvicinò. — Cos'è? — Allungò la mano per toccare il cordone argenteo e, come Sol, la ritrasse di scatto. — Oddio, è caldo.

— Sembra vivo — convenne Sol. Aveva massaggiato le mani di Brawne e ora le schiaffeggiò leggermente le guance nel tentativo di farla rinvenire. La donna non si mosse. Sol si girò e seguì con il raggio luminoso il cordone serpeggiante nel corridoio d'ingresso, fin dove era visibile. — Non credo che Brawne si sia collegata volontariamente a questa roba.

— Lo Shrike — disse il Console. Si sporse più vicino per attivare la lettura dei dati biologici nel comlog al polso di Brawne. — Tutto normale, Sol, a parte le onde cerebrali.

— Cosa dicono?

— Dicono che è morta. Cerebralmente morta, almeno. Nessuna funzione di livello superiore.

Sol sospirò, si dondolò sui talloni. — Dobbiamo vedere dove porta il cordone.

— Non possiamo limitarci a staccarlo dalla presa di shunt?

— Guarda. — Sol illuminò la parte posteriore della testa di Brawne e scostò un ciuffo di ricci scuri. Lo shunt neurale, normalmente un disco di plastocarne largo alcuni millimetri con una presa di dieci micron, sembrava fuso: la carne sporgeva in un livido rossastro e si univa ai microcollegamenti del cavo metallico.

— Occorrerebbe un intervento chirurgico, per rimuoverlo — mormorò il Console. Toccò il rigonfiamento di carne. Brawne non si mosse. Il Console ricuperò la torcia e si alzò. — Resta con lei. Seguo il cavo all'interno.

— Usa i canali di comunicazione — disse Sol, pur sapendo quanto si erano dimostrati inutili, durante il flusso e il riflusso delle maree del tempo.

Il Console annuì e avanzò rapidamente, prima che la paura lo facesse esitare.

Il cavo di cromo serpeggiava lungo il corridoio principale, girava e scompariva al di là della stanza dove i pellegrini avevano dormito la notte precedente. Il Console lanciò un'occhiata dentro la stanza e illuminò per un attimo le coperte e gli zaini abbandonati nella fretta.

Seguì il cavo lungo la curva del corridoio; attraverso la porta centrale dove il passaggio si divideva in tre corridoi più stretti; su per una rampa e di nuovo giù per lo stretto passaggio che i primi esploratori avevano chiamato "strada di re Tut"; poi giù per una rampa; lungo un basso tunnel dove fu costretto a strisciare, posando con attenzione mani e ginocchia per non toccare il tentacolo metallico caldo come carne; su per un piano inclinato così ripido da costringerlo ad arrampicarsi come in un camino; lungo un corridoio più ampio di cui non ricordava l'esistenza, dove le pietre si inclinavano verso il soffitto e lasciavano cadere goccioline di condensa; e poi per una ripida discesa, rallentando solo a costo di lembi della pelle delle mani e delle ginocchia; strisciando infine per un tratto più lungo di quanto non sembrasse larga la Sfinge. Perdette del tutto il senso dell'orientamento e si affidò al cavo per trovare la strada al ritorno.

— Sol — chiamò infine, senza credere nemmeno per un istante che il trasmettitore avrebbe funzionato, tra la roccia e le maree del tempo.

— Eccomi — rispose l'anziano studioso, nel più fievole dei bisbigli.

— Sono andato molto avanti — mormorò nel comlog il Console. — In fondo a un corridoio che non ricordo di avere mai visto. Mi sembra di essere a grande profondità.

— Hai scoperto dove termina il cavo?

— Sì — rispose piano il Console. Si sedette e con il fazzoletto si asciugò il viso sudato.

— Un nesso? — domandò Sol, riferendosi agli innumerevoli nodi terminali dove i cittadini della Rete potevano collegarsi alla sfera dati.

— No. Sembra che quest'affare scorra dritto nella pietra del pavimento. Anche il corridoio termina qui. Ho provato a rimuovere il cavo, ma la giunzione è simile al punto dove lo shunt neurale è saldato al cranio. Sembra parte della roccia e basta.

— Vieni fuori — disse Sol, fra il gracidio della statica. — Proveremo a tagliarlo.

Nel tunnel umido e buio, per la prima volta nella sua vita, il Console si sentì sopraffatto dalla claustrofobia. Trovò difficile respirare. Era sicuro di avere alle spalle qualcosa che gli toglieva l'aria e bloccava l'unica via di ritirata. Udiva quasi il battito del proprio cuore, nello stretto passaggio di pietra dove si poteva solo procedere strisciando.

Respirò lentamente, si asciugò di nuovo il viso, respinse il panico. — Potrebbe uccidere Brawne — disse, fra una lenta boccata d'aria e l'altra.

Nesuna risposta. Il Console chiamò di nuovo, ma qualcosa aveva reciso il tenue legame comlog.

— Esco — annunciò nello strumento muto e si girò, facendo correre il raggio luminoso lungo il basso tunnel. Il cavo/tentacolo si era mosso, o si trattava di un semplice gioco di luce?

Il Console iniziò a strisciare rifacendo il percorso dell'andata.


Avevano trovato Het Masteen al tramonto, qualche minuto prima che la tempesta temporale si scatenasse. Il Templare barcollava, quando il Console, Sol e Duré l'avevano visto; ed era caduto privo di sensi, prima che lo raggiungessero.

— Portiamolo nella Sfinge — disse Sol.

In quel momento, come se il sole al tramonto avesse progettato la coreografia, le maree del tempo fluirono su di loro come un'ondata di nausea e di déjà vu. I tre caddero sulle ginocchia. Rachel si svegliò e si mise a piangere col vigore di una creatura appena nata e atterrita.

— All'imbocco della valle — ansimò il Console, tenendo in spalla Het Masteen. — Dobbiamo… uscire… dalla valle.

I tre si mossero verso l'imboccatura della valle e oltrepassarono la prima tomba, la Sfinge, ma le maree del tempo peggiorarono, soffiarono contro di loro come un orribile vento di vertigine. Dopo trenta metri, non riuscirono più a procedere. Caddero sulle mani e sulle ginocchia, Het Masteen rotolò sul sentiero di terra battuta. Rachel aveva smesso di piangere e si agitò a disagio.

— Indietro — ansimò Paul Duré. — Giù nella valle. Era… meglio… di sotto.

Ripercorsero la strada già fatta, barcollarono lungo il sentiero come tre ubriachi, portando ciascuno un carico troppo prezioso per lasciarlo cadere. Si riposarono un momento sotto la Sfinge, con la schiena contro un masso, mentre il tessuto stesso dello spazio e del tempo sembrava mutare e deformarsi intorno a loro. Era come se il mondo fosse stato una bandiera che qualcuno avesse srotolato con un gesto rabbioso. La realtà parve gonfiarsi e ripiegarsi, poi tuffarsi lontano e rifluire su se stessa come un'onda. Il Console lasciò il Templare disteso contro il masso e cadde ginocchioni, ansimò, artigliò in preda al panico il terreno.

— Il cubo di Moebius — disse il Templare, agitandosi, sempre a occhi chiusi. — Dobbiamo prendere il cubo di Moebius.

— Maledizione — riuscì a dire il Console. Scosse con rudezza Het Masteen. — A cosa ci serve? Masteen, a cosa ci serve? — La testa del Templare ciondolò, inerte. L'uomo era svenuto di nuovo.

— Lo prendo io — disse Duré. Il prete parve vecchissimo e malato, con il viso e le labbra livide.

Il Console annuì, si mise in spalla Het Masteen, aiutò Sol a rialzarsi, barcollò giù nella valle; le correnti di risucchio dei campi anti-entropici si indebolirono, mentre loro si allontanavano dalla Sfinge.

Padre Duré aveva risalito il sentiero e la lunga scalinata; barcollò fino all'ingresso della Sfinge, aggrappandosi alle pietre scabre come un marinaio si afferrerebbe alla gomena lanciatagli nel mare infuriato. La Sfinge parve traballare sopra di lui, prima s'inclinò di trenta gradi da una parte, poi di cinquanta dall'altra. Duré capì che era solo la violenza delle maree del tempo a distorcergli i sensi, ma questo bastò a farlo cadere in ginocchio e vomitare sulla pietra.

Le maree s'interruppero un momento, come una risacca violenta che recedesse tra un'ondata e l'altra; Duré si ritrovò in piedi, si pulì la bocca con il dorso della mano ed entrò incespicando nella tomba buia.

Non aveva portato una torcia; trovò a tentoni la strada, atterrito dalla duplice fantasticheria di toccare nel buio qualcosa di viscido e freddo o di incappare nella stanza dov'era rinato e di trovarvi il proprio cadavere in via di decomposizione. Duré urlò, ma il grido si perse nel ruggito da tornado delle proprie pulsazioni, mentre le maree del tempo tornavano in forze.

La camera dove avevano dormito era buia, di quel terribile buio che significa totale assenza di luce, ma gli occhi di Duré si adattarono e il prete capì che il cubo di Moebius stesso riluceva debolmente, fra un palpitare di spie luminose.

Attraversò inciampando la stanza ingombra, afferrò il cubo e con un improvviso flusso di adrenalina riuscì a sollevarlo. Le note del Console avevano parlato di quel misterioso bagaglio di Masteen durante il pellegrinaggio e del fatto che si credeva contenesse un erg, una delle creature aliene composte di campi di forza e usate per fornire energia alle navi-albero dei Templari. Duré non aveva la minima idea del perché l'erg fosse importante in quella situazione, ma afferrò la scatola e la strinse al petto, mentre ripercorreva faticosamente il corridoio, usciva, scendeva i gradini, s'inoltrava nel cuore della valle.

— Da questa parte! — chiamò il Console, dalla prima Grotta alla base della parete rocciosa. — Qui va meglio.

Duré risalì barcollando il sentiero, quasi lasciò cadere il cubo, per la confusione e per l'improvviso sfinimento. Il Console lo aiutò negli ultimi trenta metri.

Dentro la tomba andava meglio. Duré sentiva il flusso e riflusso delle maree del tempo appena al di là dell'ingresso, ma in fondo, dove la fredda luce dei fotoglobi rivelava complicate sculture, la situazione era quasi normale. Il prete si lasciò cadere accanto a Sol Weintraub e posò il cubo di Moebius accanto alla figura silenziosa di Het Masteen, che guardava con occhi fissi.

— Si è svegliato, mentre lei si avvicinava — mormorò Sol. Gli occhi della piccina erano spalancati e scurissimi, nella debole luce.

Il Console si lasciò cadere accanto al Templare. — A cosa ci serve, il cubo? Masteen, a cosa ci serve?

Lo sguardo di Het Masteen non vacillò; il Templare non batté ciglio. — Nostro alleato — bisbigliò. — Unico alleato contro il Signore della Sofferenza. — Le parole erano sottolineate dalla particolare cadenza del mondo dei Templari.

— In che modo è nostro alleato? — domandò Sol; con tutt'e due le mani afferrò il Templare per la veste. — Come lo usiamo? Quando?

Lo sguardo del Templare fissava qualcosa d'infinitamente remoto. — Abbiamo fatto a gara per avere l'onore — mormorò, con voce rauca. — La Vera Voce della Sequoia Sempervirens fu il primo a mettersi in contatto con il cìbrido Keats… ma io ebbi l'onore della luce del Muir. Fu la Yggdrasill, la mia Yggdrasill, a essere offerta in espiazione dei nostri peccati contro il Muir. — Chiuse gli occhi. Il lieve sorriso parve fuori luogo, sul suo viso severo.

Il Console guardò Duré e Sol. — Sembra più terminologia del Culto Shrike che il dogma dei Templari.

— Forse è l'uno e l'altro — mormorò Duré. — Sono esistite coalizioni assai bizzarre, nella storia della teologia.

Sol posò la mano sulla fronte del Templare. Scottava di febbre. Sol frugò nell'unico medipac alla ricerca di derma analgesico o di un antistaminico. Ne trovò uno, ma esitò. — Non so se i Templari rientrano nelle norme mediche standard — disse. — Non vorrei che un'allergia lo uccidesse.

Il Console prese l'antistaminico e lo applicò al fragile avambraccio del Templare. — Rientrano nella norma — disse. Si chinò più vicino. — Masteen, cos'è accaduto sul carro a vela?

Il Templare aprì gli occhi ma non li mise a fuoco. — Carro a vela?

— Non capisco — mormorò padre Duré.

Sol lo prese da parte. — Masteen non ha raccontato la sua storia, durante il pellegrinaggio — bisbigliò. — Scomparve la prima notte sul carro a vela. Lasciò solo sangue, sangue in abbondanza, e i bagagli e il cubo di Moebius. Ma niente Masteen.

— Cos'è accaduto sul carro a vela? — bisbigliò ancora il Console. Scosse leggermente il Templare per destarne l'attenzione. — Rifletta, Vera Voce dell'Albero Het Masteen!

Il viso dell'uomo cambiò, gli occhi si misero a fuoco, i tratti vagamente asiatici ripresero la solita espressione severa. — Ho liberato dalla prigione l'elementale…

— L'erg — bisbigliò Sol al prete confuso.

— … e l'ho legato con la disciplina mentale imparata nei Rami Superiori. Ma allora, senza preavviso, il Signore della Sofferenza scese su di noi.

— Lo Shrike — bisbigliò Sol, più a se stesso che al prete.

— Era suo, tutto quel sangue? — domandò il Console.

— Sangue? — Masteen si calò sugli occhi il cappuccio, per nascondere la propria confusione. — No, non era mio. Il Signore della Sofferenza stringeva un… un officiante. L'uomo lottava. Tentava di sfuggire alle spine dell'espiazione…

— E l'erg? — insistette il Console. — L'elementale. Cosa si aspettava che facesse, per lei? Che lo proteggesse dallo Shrike?

Il Templare si accigliò e si portò alla fronte la mano tremante. — Non… non era pronto. Io non ero pronto. L'ho rimesso nella prigione. Il Signore della Sofferenza mi toccò la spalla. Fui… compiaciuto… che la mia espiazione avvenisse a un'ora di distanza dal sacrificio della mia nave-albero.

Sol si sporse verso Duré. — La nave-albero Yggdrasill fu distrutta in orbita, quella stessa sera — mormorò.

Het Masteen chiuse gli occhi. — Stanco — mormorò, con voce sempre più fievole.

Il Console lo scosse di nuovo. — Com'è arrivato fin qui? Masteen, com'è giunto qui dal mare d'Erba?

— Mi sono svegliato fra le Tombe — mormorò il Templare, senza aprire gli occhi. — Risvegliato fra le Tombe. Stanco. Devo dormire.

— Lo lasci riposare — disse padre Duré.

Il Console annuì e distese per terra il Templare, perché dormisse.

— Niente ha senso — mormorò Sol. I tre uomini e la piccina rimasero seduti nella fioca luce e sentirono le maree del tempo fluire e ritrarsi, all'esterno.

— Perdiamo un pellegrino, ne troviamo un altro — borbottò il Console. — Come se fosse in atto un gioco bizzarro.

Un'ora dopo, udirono gli spari echeggiare nella valle.


Sol e il Console si accovacciarono accanto alla figura silenziosa di Brawne Lamia.

— Ci servirebbe un laser, per tagliare questa roba — disse Sol. — Sparito Kassad, sparite anche le nostre armi.

Il Console toccò il polso della donna. — Tagliare il cavo rischia di ucciderla.

— Secondo il biomonitor, è già morta.

Il Console scosse la testa. — No. C'è in ballo qualche altra cosa. Forse quel cavo è collegato al cìbrido Keats che Brawne porta in sé. Forse alla fine ci restituirà Brawne.

Sol si portò alla spalla la figlia di tre giorni e guardò la valle che brillava debolmente. — Che gabbia di matti. Niente va come pensavamo. Se solo la tua maledetta nave fosse qui, avrebbe utensili adatti, nel caso fossimo costretti a liberare Brawne da questa… da questa roba. E lei e Masteen avrebbero una possibilità di sopravvivere, nel reparto chirurgia.

Il Console rimase in ginocchio, guardando il vuoto. Dopo un momento disse: — Aspetta qui con lei, per favore. — Si alzò e scomparve nelle fauci tenebrose dell'ingresso della Sfinge. Cinque minuti dopo era di ritorno, reggendo la grossa sacca da viaggio. Tolse dal fondo un tappeto arrotolato e lo stese sul gradino di pietra.

Era un tappeto antico, lungo meno di due metri e largo poco più di uno. La stoffa intessuta in modo complesso si era sbiadita nel corso dei secoli, ma i fili di volo in monofilamento brillavano ancora come oro, nella luce fioca. Minuscoli cavi andavano dal tappeto a una singola cellula d'energia che il Console staccò.

— Buon Dio — mormorò Sol. Ricordò la tragica storia d'amore fra Siri, nonna del Console, e il marinaio dell'Egemonia Merin Aspic. Era la scintilla che aveva fatto scaturire la rivolta contro l'Egemonia e che aveva tuffato Patto-Maui in svariati anni di guerra. Merin Aspic era volato a Primosito sul tappeto Hawking di un amico.

Il Console annuì. — Apparteneva a Mike Osho, l'amico di nonno Merin. Siri lo lasciò nella propria tomba, perché Merin lo trovasse. Lui lo diede a me, quand'ero bambino… poco prima della battaglia dell'Arcipelago, dove morirono lui stesso e il sogno di libertà.

Sol passò la mano sul manufatto antico di secoli. — È un peccato che qui non funzioni.

Il Console alzò gli occhi. — Perché non dovrebbe?

— Il campo magnetico di Hyperion è inferiore al livello critico per i veicoli elettromagnetici — disse Sol. — Per questo ci sono dirigibili e skimmer, anziché VEM, e la Benares non era più una chiatta a levitazione. — Gli parve sciocco, spiegare queste cose a chi per undici anni locali era stato console dell'Egemonia su Hyperion. — O mi sbaglio?

Il Console sorrise. — Hai ragione, qui i VEM standard non sono affidabili. Il rapporto massa/peso sollevato è troppo alto. Ma il tappeto Hawking ha una massa quasi irrilevante. L'ho provato, quando stavo nella capitale. Non è un viaggio comodo… ma dovrebbe funzionare, con una sola persona a bordo.

Sol lanciò un'occhiata alla valle, al di là delle sagome luminose della Tomba di Giada, dell'Obelisco e del Monolito di Cristallo, al punto dove le ombre della parete rocciosa nascondevano l'ingresso alle Grotte. Si domandò se padre Duré e Het Masteen erano ancora da soli… ancora vivi. — Pensi di andare a cercare aiuto?

— Uno di noi andrà a cercare aiuto. Riporterà la nave. O almeno la libererà e la rimanderà senza equipaggio. Possiamo tirare a sorte per vedere a chi tocca.

Stavolta fu Sol, a sorridere. — Grazie, amico mio. Duré non è in condizioni di viaggiare e comunque non conosce la strada. Io… — Sol alzò Rachel, finché la parte superiore della testa non gli toccò la guancia. — Il viaggio potrebbe durare giorni. Io… noi… non li abbiamo. Se per lei si può fare qualcosa, dobbiamo stare qui e correre il rischio. Devi andare tu.

Il Console sospirò, ma non si mise a discutere.

— E poi — continuò Sol — la nave è tua. Se qualcuno può liberarla dal blocco di Gladstone, quello sei tu. E conosci bene il governatore generale.

Il Console guardò a ovest. — Chissà se Theo è ancora al potere.

— Andiamo a informare del nostro piano padre Duré — disse Sol. — E poi, ho lasciato nella grotta i nutripac: Rachel ha fame.

Il Console arrotolò il tappeto, lo ripose nella sacca; guardò Brawne Lamia e il cavo osceno che serpeggiava nel buio. — Non le accadrà niente?

— Dirò a Paul di venire qui con una coperta e di stare con lei, mentre tu e io accompagneremo l'altro nostro invalido. Parti stanotte o aspetti l'alba?

Il Console si lisciò stancamente la guancia. — Non mi piace l'idea di superare di notte le montagne, ma non abbiamo tempo da perdere. Partirò appena avrò radunato alcune cose.

Sol annuì e guardò verso l'imboccatura della valle. — Mi piacerebbe che Brawne potesse dirci dov'è finito Sileno.

— Lo cercherò, quando sarò in volo — disse il Console. Lanciò un'occhiata alle stelle. — Calcolo da trentasei a quaranta ore di volo per arrivare a Keats. Più qualche ora per sbloccare la nave. Dovrei tornare entro due giorni standard.

Sol annuì e cullò la piccina che si era messa a piangere. La sua aria stanca ma affabile non nascose il dubbio. Sol posò la mano sulla spalla del Console. — È giusto fare il tentativo, amico mio. Vieni, andiamo a parlare a padre Duré, vediamo se l'altro nostro compagno di viaggio è sveglio e consumiamo insieme un pasto. A quanto pare, Brawne aveva portato provviste sufficienti per permetterci un ultimo banchetto.

26

Da bambina, quando il padre senatore si era trasferito, sia pure per breve tempo, da Lusus al meraviglioso e boscoso complesso residenziale amministrativo di Tau Ceti Centro, Brawne Lamia aveva visto l'antico bi-di film a cartoni animati Peter Pan di Walt Disney. Dopo, aveva letto il libro e ne era rimasta catturata.

Per mesi, la bambina di cinque anni standard aveva aspettato ogni notte che Peter Pan arrivasse a portarla via. Aveva lasciato biglietti che indicavano la via della sua stanza da letto, sotto l'abbaino rivestito d'assicelle. Era uscita di casa, mentre i genitori dormivano, e si era distesa sulla morbida erba dei prati del Parco dei Cervi, a guardare il cielo notturno grigio latte di TC2 e a sognare il ragazzo dell'Isola che non c'è che presto sarebbe venuto a portarla via, volando verso la seconda stella a destra, sempre dritto fino al mattino. Lei sarebbe stata la sua compagna, la madre dei bimbi smarriti, la nemesi del malvagio Capitan Uncino e, soprattutto, la nuova Wendy di Peter Pan… la nuova amica bambina del bambino che non sarebbe mai cresciuto.

E ora, vent'anni dopo, Peter era finalmente venuto a lei.


Lamia non aveva sentito dolore, solo l'improvviso, gelido impulso di dislocazione, quando l'artiglio d'acciaio dello Shrike era penetrato nello shunt neurale che lei aveva dietro l'orecchio. Poi si era trovata a volare lontano.

Già una volta si era mossa nel piano dati e nella sfera dati. Solo alcune settimane prima, tempo personale, aveva viaggiato nella matrice TecnoNucleo insieme con il suo cyberpuke preferito, lo sciocco BB Surbringer, per aiutare Johnny a riprendersi la personalità che gli era stata rubata. Erano penetrati nella periferia e avevano ricuperato il cìbrido, ma avevano fatto scattare un allarme e BB era morto. Lamia non voleva entrare di nuovo nella sfera dati.

Ma adesso era lì.

L'esperienza era completamente diversa da quelle avute con i cavi di comlog o con i nodi. Era simile a uno stim-sim totale… come trovarsi in un olodramma a colori e suono stereo… come essere proprio lì!

Finalmente Peter era venuto a portarla via.

Lamia si alzò sopra la curvatura del limbo planetario di Hyperion, vide i canali rudimentali di flusso dati microonda e gli anelli di comunicazione a raggio compatto che passavano per un'embrionale sfera dati. Non si soffermò a collegarsi, perché seguiva verso il cielo un cordone ombelicale arancione, diretta ai viali e alle strade reali del piano dati.

Lo spazio di Hyperion era stato invaso dalla FORCE e dallo Sciame Ouster, e tutt'e due avevano portato con sé le intricate pieghe e ingraticciature della sfera dati. Con occhi nuovi, Lamia vedeva le migliaia di livelli del flusso dati della FORCE, un verde e turbolento oceano di informazione screziato delle vene rosse dei canali di sicurezza e delle roteanti sfere viola con i neri fagi battistrada che erano le IA della FORCE. Questo pseudopodo della megasfera dati della Rete scorreva nello spazio normale attraverso neri imbuti di teleporter di bordo, lungo fronti d'onda in espansione di increspature sovrapposte e istantanee che Lamia riconobbe come raffiche continue di una ventina di trasmettitori astrotel.

Esitò, a un tratto insicura di dove andare, di quale viale prendere. Come se durante il volo l'incertezza avesse messo a repentaglio la magia, minacciando di farla ricadere al suolo, decine di chilometri più in basso.

Poi Peter la prese per mano e la tenne a galla.

"Johnny!"

"Ciao, Brawne."

L'immagine corporea di Brawne prese vita di scatto nello stesso istante in cui lei vide e sentì quella di lui. Era Johnny come l'aveva visto l'ultima volta… cliente e amante… Johnny con gli zigomi alti, occhi castani, naso compatto, mascella solida. I riccioli castani gli ricadevano ancora sul colletto e il viso era sempre uno studio di energia determinata. Il sorriso le dava ancora quel senso di calore che pareva fonderla dall'interno.

Johnny! Allora si strinse a lui e sentì la stretta, sentì sulla schiena le mani forti, mentre galleggiavano in alto su ogni cosa, sentì il seno appiattirsi contro il petto di lui, mentre le restituiva l'abbraccio con forza sorprendente per quel fisico minuto. Si baciarono e non c'era modo di negare che il bacio fosse reale!

Lamia si librò a distanza di un braccio, le mani sulle spalle di lui. I due volti erano illuminati dal bagliore verde e viola dell'oceano della grande sfera dati che li sovrastava.

"È reale?" Nella domanda udì la propria voce e la propria inflessione, pur sapendo di averla solo pensata.

"Sì. Reale come può esserlo qualsiasi parte della matrice piano dati. Siamo sull'orlo della megasfera, nello spazio di Hyperion." La sua voce aveva ancora quell'inflessione elusiva che lei trovava tanto seducente e irritante.

"Cos'è accaduto?" Con le parole, gli trasmise immagini della comparsa dello Shrike, dell'improvvisa e orribile invasione del dito fatto a lama.

"Sì" trasmise Johnny, stringendola più forte. "Qualcuno mi ha liberato dall'iterazione Schrön e ci ha collegati direttamente alla sfera dati."

"Sono morta, Johnny?"

Johnny Keats le sorrise. La scosse leggermente, la baciò con gentilezza, ruotò in modo che tutt'e due vedessero lo spettacolo, in alto e in basso. "No, Brawne, non sei morta, ma forse sei agganciata a una sorta di bizzarro supporto vitale, mentre il tuo analogo del piano dati vaga qui con me."

"E tu sei morto?"

Johnny le sorrise di nuovo. "Non più, anche se la vita in una iterazione Schrön non è lo schianto che si potrebbe credere. Sembra di sognare i sogni di un altro."

"Ti ho sognato."

Johnny annuì. "Non credo di essere stato io. Ho sognato gli stessi sogni… conversazioni con Meina Gladstone, fuggevoli occhiate sulle riunioni di consiglio del governo dell'Egemonia…"

"Sì!"

Johnny le strinse la mano. "Sospetto che abbiano attivato un altro cìbrido Keats. E, chissà come, siamo riusciti a stabilire il contatto con lui, attraverso gli anni-luce."

"Un altro cìbrido? Possibile? Hai distrutto lo stampo del Nucleo, hai liberato la personalità…."

Il suo amante si strinse nelle spalle. Indossava una camicia dalle maniche a sbuffo e un panciotto di seta secondo uno stile che lei non aveva mai visto. Il flusso di dati, lungo i viali sopra di loro, dipingeva tutte due con impulsi di luce al neon. "Sospettavo che ci sarebbe stato un numero maggiore di copie e che BB e io non le avremmo trovate tutte, con una penetrazione così epidermica della periferia del Nucleo. Non importa, Brawne. Se esiste un'altra copia, non è me e non credo che ci sarà nemica. Andiamo, esploriamo."

Lamia rimase indietro un secondo, mentre lui la tirava verso l'alto. "Esploriamo cosa?"

"Abbiamo l'opportunità di scoprire cosa c'è in ballo, Brawne. L'occasione di andare a fondo di un mucchio di misteri."

Brawne udì nella propria voce/pensiero una timidezza tutt'altro che tipica. "Non sono sicura di volerlo fare, Johnny."

Lui si girò a guardarla. "Dov'è finita, l'investigatrice che conoscevo? Cos'è accaduto, alla donna che non sopportava i misteri?"

"Quella donna ha avuto momenti brutti, Johnny. Ho saputo guardarmi indietro e ho capito che la decisione di fare l'investigatrice era, in massima parte, una reazione al suicidio di mio padre. Cerco ancora di scoprire i particolari della sua morte. E intanto un mucchio di persone ha sofferto, nella vita reale. Tu compreso, amore mio."

"E hai risolto il mistero?"

"Mistero?"

"La morte di tuo padre."

Lamia si accigliò. "Non so. Non credo."

Johnny indicò la liquida massa della sfera dati che fluiva e rifluiva sopra di loro. "Lassù un mucchio di risposte ci aspetta, Brawne. Se abbiamo il coraggio di andarle a cercare."

Lei gli prese di nuovo la mano. "Lassù potremmo morire."

"Sì."

Lamia esitò, guardò in basso, verso Hyperion: il mondo era una curva tenebrosa con sacche isolate di flussodati che brillavano come fuochi di bivacco nella notte. Sopra di loro, il grande oceano ribolliva e pulsava di luce e di rumore di flussodati… e Brawne capì che quella era solo una minima estensione della megasfera. Capì… sentì… che i loro analoghi di piano dati, dopo la rinascita, potevano andare in posti che nessun cowboy cyberpuke aveva mai sognato.

Con Johnny a guidarla, Brawne seppe che la megasfera e il TecnoNucleo erano penetrabili in profondità che nessun essere umano aveva mai sondato. Ed era atterrita.

Ma, finalmente, era con Peter Pan. E l'Isola che non c'è la chiamava.

"Va bene, Johnny. Cosa aspettiamo?"

Si librarono insieme verso la megasfera.

27

Il colonnello Fedmahn Kassad seguì Moneta attraverso il portale e si trovò in una vasta pianura lunare dove un terrificante albero di spine si alzava per cinque chilometri nel cielo rosso sangue. Figure umane si contorcevano sui numerosi rami e sulle spine: le più vicine erano chiaramente umane e sofferenti, quelle più lontane erano rimpicciolite dalla distanza fino a sembrare grappoli lividi.

Kassad batté le palpebre e trasse un respiro profondo, sotto la superficie della dermotuta argento vivo. Si guardò intorno, al di là della sagoma silenziosa di Moneta, strappando lo sguardo dall'albero osceno.

Quella che aveva ritenuto una pianura lunare era la superficie di Hyperion all'imboccatura della Valle delle Tombe, ma di un Hyperion assai cambiato. Le dune erano impietrite e stravolte come se fossero state bombardate e vetrificate; i massi e le pareti rocciose erano rifluiti e si erano congelati come ghiacciai di pietra livida. Non c'era atmosfera… il cielo nero aveva l'impietosa chiarezza di una qualsiasi luna priva d'aria. Il sole non era quello di Hyperion; la luce non apparteneva all'esperienza umana. Kassad guardò in alto e i visori della dermotuta si polarizzarono per filtrare le orribili energie che riempivano il cielo di bande color rosso sangue e di fiori di vivida luce bianca.

In basso, la valle pareva vibrare come per impercettibili scosse di terremoto. Le Tombe del Tempo splendevano della propria energia interna, pulsazioni di luce fredda proiettate per molti metri sul fondo della valle, da ogni ingresso, portale, apertura. Le Tombe parevano nuove, lucide, scintillanti.

Kassad capì che solo la dermotuta gli consentiva di respirare e lo salvava dal freddo lunare che aveva preso il posto del caldo del deserto. Si girò a guardare Moneta, tentò di formulare una domanda intelligente, alzò di nuovo lo sguardo su quell'albero impossibile.

L'albero di spine pareva fatto dell'acciaio, del cromo e della cartilagine dello Shrike stesso: chiaramente artificiale eppure orribilmente organico. Il tronco era largo due o trecento metri alla base, i rami inferiori erano quasi altrettanto grossi, ma i rami più piccoli e le spine diventavano subito sottili come stiletti e tendevano al cielo il proprio carico di frutti.

Era impossibile che esseri umani così impalati vivessero a lungo; doppiamente impossibile che sopravvivessero nel vuoto assoluto di quel luogo al di fuori del tempo e dello spazio. Però sopravvivevano e soffrivano. Kassad li guardò contorcersi. Erano tutti vivi. E tutti soffrivano.

Kassad percepì la sofferenza come un suono al di là dell'udito, un'enorme e incessante sirena antinebbia di dolore, come se migliaia di dita non addestrate pestassero migliaia di tasti per suonare un massiccio organo a canne di dolore. Il dolore era così palpabile che Kassad frugò il cielo ardente, come se l'albero fosse una pira o un enorme faro con le onde del dolore chiaramente visibili.

C'erano solo la cruda notte e la quiete lunare.

Kassad aumentò l'ingrandimento delle lenti e guardò di ramo in ramo, di spina in spina. Le persone che vi si contorcevano erano di tutt'e due i sessi e di ogni età. Portavano una varietà di abiti a brandelli e di cosmetici sbavati che spaziavano per molti decenni, se non per secoli. Kassad non aveva mai visto gran parte degli stili e ritenne di osservare vittime provenienti dal futuro. C'erano migliaia, decine di migliaia di vittime. Tutte vive. Tutte sofferenti.

Kassad si fermò, mise a fuoco un ramo a quattrocento metri dalla base, sopra un grappolo di spine e di corpi molto staccato dal tronco, e una singola spina lunga tre metri sulla quale si gonfiava un mantello viola ben noto. La figura si dimenò, si contorse, si girò verso Fedmahn Kassad.

Sotto gli occhi del colonnello c'era il corpo infilzato di Martin Sileno.

Kassad imprecò e strinse i pugni, con tanta forza da sentire male alle nocche. Cercò intorno a sé le armi, ingrandì la visione per fissare il Monolito di Cristallo. Laggiù non c'era niente.

Il colonnello Kassad scosse la testa, capì che la tuta era un'arma migliore di quelle che aveva portato su Hyperion; si mise a camminare verso l'albero. Non sapeva come l'avrebbe scalato, ma avrebbe trovato il modo. Non sapeva come avrebbe portato giù vivo Sileno — lui e tutte le vittime — ma l'avrebbe fatto o sarebbe morto nel tentativo.

Percorse dieci passi e si fermò sulla cresta di una duna impietrita. Lo Shrike era fra lui e l'albero.

Sotto il campo di forza color cromo della dermotuta, Kassad capì di essersi messo a ridere ferocemente. Quella era l'occasione attesa da moltissimi anni. Quella era la guerra degna cui aveva dato in pegno vita e onore vent'anni prima, nella cerimonia Masada della FORCE. Una lotta per proteggere gli innocenti. Kassad sogghignò, appiattì la costa della mano destra fino a renderla una lama argentea, avanzò di un passo.

"Kassad!"

Al richiamo di Moneta, Kassad guardò indietro. La luce ruscellò sulla superficie argento vivo del corpo nudo della donna, mentre Moneta indicava la valle.

Un secondo Shrike emergeva dalla tomba detta Sfinge. Più giù lungo la valle, uno Shrike uscì dalla Tomba di Giada. Luci crude mandarono lampi dalle punte e dalle lame, mentre un altro emergeva dall'Obelisco, a mezzo chilometro di distanza.

Kassad li ignorò tutti; si girò verso l'albero e il suo difensore.

Cento Shrike stavano fra Kassad e l'albero. Il colonnello batté le palpebre e altri cento comparvero alla sua sinistra; si guardò alle spalle e una legione di Shrike impassibili come statue era ferma sulle fredde dune e sui massi fusi del deserto.

Kassad si batté una manata sulla coscia. "Maledizione."

Moneta gli si accostò fino a toccargli il braccio. Le dermotute si fusero e Kassad sentì contro il braccio il calore della carne di lei. Con la coscia Moneta gli sfiorava la coscia.

"Ti amo, Kassad."

Lui guardò il viso dalle linee perfette, ignorò la confusione di riflessi e di colori che lo illuminava, cercò di ricordare la prima volta che l'aveva incontrata, nella foresta presso Agincourt. Ricordò i sorprendenti occhi verdi, i corti capelli castani. La pienezza delle labbra e come sapevano di lacrime, quando senza volerlo le aveva morsicate. Alzò la mano e le toccò la guancia, sentì il tepore della pelle sotto la tuta. "Se mi ami" le trasmise "rimani qui".

Poi il colonnello Fedmahn Kassad si girò e mandò un grido che solo lui poteva udire nel silenzio lunare… un grido che era in parte un urlo di ribellione dal lontano passato umano, in parte l'evviva degli allievi della FORCE al momento della promozione, in parte il grido di un karateka, in parte una pura e semplice sfida. Attraversò di corsa le dune, diretto all'albero di spine e allo Shrike proprio di fronte.

Adesso c'erano migliaia di Shrike sulle alture e nella valle. Artigli si aprirono di scatto all'unisono; la luce brillò su migliaia di lame taglienti come bisturi e di spine acuminate.

Kassad non badò agli altri e corse verso quello che gli sembrava il primo Shrike. Sopra la creatura, forme umane si contorsero nella solitudine della propria sofferenza.

Lo Shrike spalancò le braccia come per accoglierlo. Lame ricurve, nei polsi e nelle giunture e nel petto, parvero fuoruscire da foderi nascosti.

Kassad mandò un grido e superò gli ultimi metri.

28

— Non dovrei andare — disse il Console.

Con l'aiuto di Sol aveva trasportato Het Masteen, ancora privo di sensi, dalla Grotta alla Sfinge, dove padre Duré teneva d'occhio Brawne Lamia. Era quasi mezzanotte e la valle brillava della luce riflessa delle Tombe. Le ali della Sfinge tagliavano archi dal pezzo di cielo visibile sopra le pareti rocciose. Brawne giaceva immobile, l'osceno cavo serpeggiava nel buio della tomba.

Sol toccò la spalla del Console. — Ne abbiamo discusso. Dovresti andare.

Il Console scosse la testa e accarezzò pigramente l'antico tappeto Hawking. — Potrebbe portare due persone. Tu e Duré potreste raggiungere il punto dove è ormeggiata la Benares.

Sol resse delicatamente nella mano a coppa la testolina di Rachel e continuò a cullare piano la figlia. — Rachel ha due giorni. E poi, questo è il nostro posto.

Negli occhi del Console si leggeva la sofferenza. — Sarebbe il mio! — disse. — Lo Shrike…

Duré si sporse. La luminescenza della tomba gli dipinse l'ampia fronte e gli zigomi alti. — Figliolo, se resta qui non ha altro motivo che il suicidio. Se tenta di riportare la nave per la signora Lamia e per il Templare, aiuterà gli altri.

Il Console si strofinò la guancia. Era stanchissimo. — C'è posto anche per lei, padre, sul tappeto.

Duré sorrise. — Quafe che sia il mio destino, sento che lo incontrerò qui. Aspetterò che lei torni.

Di nuovo il Console scosse la testa, ma andò a sedersi a gambe incrociate sopra il tappeto e tirò verso di sé la pesante sacca da viaggio. Contò le razioni e le bottiglie d'acqua che Sol gli aveva preparato. — Sono troppe. A voi ne servono di più.

Duré ridacchiò. — Abbiamo cibo e acqua sufficienti per quattro giorni, grazie alla signora Lamia. Dopo, se dovremo digiunare… per me non sarà la prima volta.

— E se tornano Sileno e Kassad?

— Divideranno la nostra acqua — disse Sol. — Faremo un altro viaggio al Castello per rifornirci, se gli altri tornano.

Il Console sospirò. — E va bene. — Toccò gli appropriati disegni della trama di volo: il tappeto si irrigidì in tutti i suoi due metri e si alzò di dieci centimetri. Non si notò alcun tremolio dovuto all'incerto campo magnetico, se pure c'era.

— Avrai bisogno di ossigeno, per superare le montagne — disse Sol.

Il Console mostrò la maschera a osmosi contenuta nella sacca.

Sol gli tese l'automatica di Brawne Lamia.

— Non posso…

— Non ci servirà, contro lo Shrike — ribatté Sol. — Ma potrebbe essere la carta vincente per arrivare a Keats.

Il Console annuì e mise l'arma nella sacca. Strinse la mano al prete, poi all'anziano studioso. Le minuscole dita di Rachel gli sfiorarono il braccio.

— Buona fortuna — disse Duré. — Dio l'assista.

Il Console toccò i disegni di volo e il tappeto Hawking si sollevò di cinque metri, dondolò leggermente, scivolò in avanti e in alto, come se corresse su rotaie invisibili.

Il Console virò a destra verso l'imboccatura della valle, passò a dieci metri di quota sopra le dune, poi deviò a sinistra verso le lande desolate. Solo una volta guardò indietro. Le quattro figure sul gradino più alto della Sfinge, due uomini in piedi e due sagome distese per terra, gli parvero piccole davvero. Il Console non riuscì a distinguere la piccina fra le braccia di Sol.


Secondo gli accordi, il Console indirizzò a ovest il tappeto Hawking, per passare sopra la Città dei Poeti, con la speranza di trovare Martin Sileno. L'intuito gli diceva che forse l'irascibile poeta aveva fatto una deviazione da quella parte. Il cielo era relativamente sgombro dai bagliori della battaglia e il Console scrutò ombre non rotte dalla luce delle stelle, mentre volava a venti metri dalle guglie e dalle cupole in rovina della città. Non c'era segno del poeta. Se Brawne e Sileno erano passati da quella parte, perfino le impronte sulla sabbia erano state cancellate dal vento notturno che ora faceva svolazzare i radi capelli del Console e le sue vesti.

A quell'altezza faceva freddo. Il Console sentiva le vibrazioni del tappeto Hawking che trovava la strada lungo le incerte linee di forza. Considerando l'insidioso campo magnetico di Hyperion e l'età dei fili di volo EM, c'era davvero il rischio che il tappeto precipitasse molto prima di arrivare a Keats.

Il Console gridò varie volte il nome di Martin Sileno, ma non ottenne risposta, a parte una fuga di colombe che avevano nidificato fra le macerie della cupola di una galleria. Scosse la testa e virò a sud, verso la Briglia.

Nonno Merin aveva raccontato al Console la storia di quel tappeto Hawking: era stato uno dei primi giocattoli del genere fabbricati da Vladimir Sholokov, studioso di lepidotteri noto in tutta la Rete e ingegnere di sistemi EM; e forse era lo stesso che l'inventore aveva regalato alla nipotina. L'amore di Sholokov per la ragazzina era divenuto leggendario, come il fatto che lei aveva disprezzato il dono del tappeto volante.

Ma altri avevano apprezzato l'idea; e i tappeti Hawking, pur illegali su mondi con un ragionevole controllo del traffico, erano abbastanza comuni sui pianeti coloniali. Quello aveva permesso a nonno Merin di incontrare nonna Siri, su Patto-Maui.

Il Console alzò lo sguardo: la catena di montagne s'avvicinava. Con dieci minuti di volo aveva coperto due ore di viaggio attraverso le lande desolate. Gli altri avevano detto al Console di non fermarsi a Castel Crono per cercare Sileno: la sorte toccata al poeta avrebbe potuto reclamare anche lui, prima che cominciasse il viaggio vero e proprio. Il Console si accontentò di librarsi appena fuori delle finestre, duecento metri sulla parete rocciosa, a distanza di un braccio dalla balconata da dove tre giorni prima avevano guardato la valle, e di chiamare a gran voce il poeta.

Solo l'eco gli rispose dal buio delle sale da pranzo e dei corridoi del Castello. Il Console si resse con forza al bordo del tappeto, sentendosi esposto e troppo vicino alle pareti verticali di roccia. Si rilassò un poco, quando si allontanò dal Castello, prese quota e risalì verso i passi delle montagne, dove la neve brillava sotto le stelle.

Seguì i cavi della funivia che scavalcavano il passo e univano un picco di novemila metri all'altro, lungo tutta la catena montuosa. A quell'altezza il freddo era intenso; il Console fu contento di aver preso il mantello termico di scorta di Kassad e vi si avvolse, badando bene a non esporre mani e guance. Il gel della maschera a osmosi si tese sul viso come un simbionte affamato che ingurgitasse quel poco d'ossigeno disponibile.

Bastava. Il Console trasse respiri lenti, profondi, mentre volava a dieci metri dai cavi incrostati di ghiaccio. Le vetture pressurizzate della funivia non erano in funzione; il senso di completa solitudine, sopra ghiacciai, picchi ripidi, valli ammantate d'ombra, era terribile. Il Console era lieto di tentare quel viaggio per nessun'altra ragione se non quella di ammirare per l'ultima volta la bellezza di Hyperion, non rovinata dalla tremenda minaccia dello Shrike né dall'invasione degli Ouster.

In funivia avevano impiegato dodici ore per valicare le montagne. Nonostante la bassa velocità del tappeto Havvking, venti chilometri all'ora, in sei ore il Console completò la traversata. L'alba lo colse ancora sopra gli alti picchi. Con un sussulto il Console si destò, si rese conto con stupore di avere sognato, mentre il tappeto correva verso un picco che si alzava per altri cinque metri sopra la linea di volo. Cinquanta metri più avanti si vedevano macigni e campi di neve. Un uccello nero con un'apertura alare di tre metri, uno di quelli che i locali chiamavano araldi, lasciò il nido fra i ghiacci e si librò nell'aria rarefatta, fissando l'intruso, con occhietti tondi e neri. Il Console deviò ripidamente verso sinistra, sentì qualcosa cedere, nel meccanismo Havvking, e cadde per trenta metri, prima che i fili di volo facessero presa e stabilizzassero il tappeto.

Con le dita sbiancate, il Console si aggrappò all'orlo. Per fortuna si era legato alla cintola la cinghia della sacca, altrimenti quella sarebbe caduta sul ghiacciaio molto più in basso.

Non c'era segno della funivia. Il Console aveva sonnecchiato quanto bastava perché il tappeto deviasse dalla rotta. Per un secondo si lasciò prendere dal panico, spostò il tappeto qua e là, cercò affannosamente una via fra i picchi che lo circondavano come zanne. Poi vide il sole del mattino indorare il pendio più avanti, le ombre balzare dai ghiacciai e dalla tundra alle sue spalle e a sinistra, e capì di essere ancora sul percorso giusto. Dietro l'ultima dorsale di alti picchi c'erano le colline pedemontane meridionali. E più avanti…

Il tappeto Hawking parve esitare quando il Console toccò i fili di volo e lo spinse più in alto, ma sorvolò con riluttanza l'ultimo picco di novemila metri e gli permise di scorgere le montagne più basse che a poco a poco scendevano a soli tremila metri sopra il livello del mare. Il Console scese con sollievo.

Ritrovò la funivia che brillava al sole otto chilometri a sud del punto dove aveva lasciato la Briglia. Le vetture pendevano silenziose intorno alla stazione terminale ovest. In basso, i radi edifici del villaggio Riposo del Pellegrino sembravano abbandonati proprio come alcuni giorni prima. Non c'era segno del carro a vela, nel posto dove l'avevano lasciato, alla bassa banchina sporgente sulle secche del mare d'Erba.

Il Console atterrò nei pressi della banchina, disattivò il tappeto, si sgranchì le gambe, con un certo dolore, prima di arrotolarlo per metterlo al sicuro; vicino al molo, in un edificio abbandonato, trovò un gabinetto. Quando ne uscì, il sole del mattino strisciava dalle alture pedemontane e cancellava le ultime ombre. Lontano, a perdita d'occhio verso sud e ovest, si estendeva il mare d'Erba, liscio come il piano di un tavolo, la cui natura era tradita da brezze occasionali che increspavano la superficie e per un attimo rivelavano gli steli rosso fulvo e oltremare, con un movimento così simile a quello delle onde che ci si aspettava di vedere creste di spuma e pesci guizzare all'aria.

Non c'erano pesci, nel mare d'Erba, ma c'erano serpenti d'erba lunghi venti metri; e se il tappeto Hawking si fosse guastato, anche dopo un atterraggio morbido il Console non sarebbe rimasto vivo a lungo.

Il Console stese il tappeto, mise dietro di sé la sacca, attivò il motore. Si tenne a venticinque metri dalla superficie, quota bassa, ma non abbastanza perché un serpente d'erba potesse scambiarlo per un bocconcino volante. Il carro a vela aveva impiegato meno di un giorno di Hyperion, per trasportare i pellegrini attraverso il mare d'Erba, ma con frequente vento da nordest che aveva comportato un po' di beccheggio. Il Console era sicuro di sorvolare in meno di quindici ore la parte più stretta del mare d'Erba. Toccò i disegni di comando e il tappeto balzò in avanti a velocità più sostenuta.

Nel giro di venti minuti le montagne rimasero indietro finché anche le alture pedemontane non si persero nella foschia della distanza. Nel giro di un'ora, i picchi cominciarono a rimpicciolirsi e la curvatura del pianeta ne nascose la base. Dopo due ore, il Console scorgeva solo i picchi più alti come un'ombra indistinta e scanalata che sporgeva dalla foschia.

Poi il mare d'Erba si estese in tutte le direzioni, sempre uguale, a parte le sinuose increspature e gli avvallamenti causati di tanto in tanto dalla brezza. Faceva molto più caldo che nell'alto pianoro a nord della Briglia. Il Console si tolse il mantello termico, poi la giacca, poi il maglione. Il sole batteva con forza sorprendente, per latitudini così alte. Il Console frugò nella sacca, trovò il cappello a tricorno, stropicciato e rovinato, che aveva portato con tanta spigliatezza solo due giorni prima, e se lo cacciò in testa per proteggersi. La fronte e la pelata erano già arrossate dal sole.

Dopo circa quattro ore, consumò il primo pasto del viaggio e mandò giù le strisce insapori di proteine delle l'azioni da campo come se fossero filet mignon. L'acqua fu la parte più deliziosa e il Console represse l'impulso di vuotare tutte le bottiglie per bere a sazietà.

Il mare d'Erba si estendeva sotto di lui, davanti, dietro. Il Console sonnecchiò, risvegliandosi bruscamente ogni volta con la sensazione di cadere e afferrandosi al bordo del tappeto. Capi che si sarebbe dovuto legare, usando l'unico pezzo di corda che aveva nella sacca, ma preferiva non atterrare… l'erba era tagliente e più alta di lui. Non aveva visto nessuna scia a V rivelatrice, ma non poteva essere sicuro che i serpenti d'erba non se ne stessero in riposo e in attesa, più sotto.

Si domandò oziosamente dove fosse finito il carro a vela. Il veicolo era completamente automatizzato e presumibilmente programmato dalla Chiesa dello Shrike, dal momento che era stata quest'ultima a favorire il pellegrinaggio. Chissà quali altri compiti aveva avuto il carro a vela. Il Console scosse la testa, sedette dritto, si pizzicò le guance. Aveva cominciato ad appisolarsi, anche mentre pensava al carro a vela. Quindici ore erano parse un periodo abbastanza breve, quando ne aveva parlato, nella Valle delle Tombe. Diede un'occhiata al comlog: erano trascorse cinque ore.

Il Console portò il tappeto a duecento metri di quota, guardò attentamente se c'erano segni di serpenti, poi scese a cinque metri e si mantenne librato sull'erba. Estrasse la corda, confezionò un cappio, si spostò sul davanti del tappeto e lo avvolse con vari giri di fune, lasciando spazio sufficiente a scivolarvi dentro, prima di stringere il nodo.

In caso di caduta, il legaccio sarebbe stato peggio che inutile; ma le strette spire di corda contro la schiena gli diedero un senso di sicurezza, quando si sporse a toccare di nuovo i fili di volo, stabilizzò il tappeto a quaranta metri di quota e si distese con la guancia contro il tessuto tiepido. La luce del sole gli filtrò tra le dita e il Console si rese conto che il braccio nudo avrebbe subito una brutta scottatura.

Era troppo stanco per mettersi a sedere e srotolarsi le maniche.

Si levò la brezza. Il Console sentì il fruscio e il brusio, in basso: l'erba si muoveva al vento oppure al passaggio di una grossa creatura.

Era troppo stanco per badarvi. Chiuse gli occhi e in meno di trenta secondi si addormentò.


Il Console sognò la propria casa, la casa vera, su Patto-Maui e il sogno fu pieno di colore: l'infinito cielo azzurro, l'ampia distesa del mar Meridionale, blu oltremare che cambiava in verde dove iniziavano le Secche Equatoriali, gli stupefacenti verdi e gialli e rossi orchidea delle isole mobili spinte a nord come greggi dai delfini… ormai estinti, dopo l'invasione dell'Egemonia durante l'infanzia del Console, ma vivi nel sogno, delfini che con grandi balzi frangevano l'acqua e facevano danzare nell'aria pura migliaia di prismi di luce.

Nel sogno, il Console era di nuovo bambino e stava sul livello più alto di un albero-casa, nella loro Isola Prima Famiglia. Nonna Siri era accanto a lui… non la regale grande dame che aveva conosciuto, ma la bella fanciulla di cui suo padre si era innamorato. Le albero-vele sbattevano al vento, mentre i delfini spingevano in precisa formazione la mandria di isole mobili attraverso i canali azzurri fra le Secche. A nord, proprio all'orizzonte, le prime isole dell'Arcipelago Equatoriale si delineavano, verdi e stabili, contro il cielo della sera.

Siri gli toccò la spalla e indicò l'ovest.

Le isole bruciavano, affondavano, con le radici di assimilazione che si torcevano in vana sofferenza. I delfini pastori erano scomparsi. Dal cielo pioveva fuoco. Il Console riconobbe lance da miliardi di volt che bruciavano l'aria e gli lasciavano nella retina post-immagini grigiazzurre. Esplosioni sottomarine illuminavano gli oceani e mandavano migliaia di pesci e di fragili creature marine a ballonzolare in superficie negli spasmi della morte.

«Perché?» chiese nonna Siri; ma la sua voce era il dolce bisbiglio di una ragazzina.

Il Console tentò di risponderle, ma non ci riuscì. Le lacrime lo accecavano. Cercò la mano della nonna ma lei non era più lì, e il senso che fosse morta, che lui non avrebbe mai potuto rimediare ai propri peccati, lo addolorò al punto da rendergli impossibile respirare. Aveva la gola chiusa dall'emozione. Poi si rese conto che era il fumo, a fargli bruciare gli occhi e a riempirgli i polmoni: l'Isola Famiglia era in fiamme.

Il bambino che era il Console barcollò nel buio azzurrastro cercando alla cieca qualcuno che lo tenesse per mano, che lo rassicurasse.

Una mano si chiuse sulla sua. Non era quella di Siri. Era una mano incredibilmente ferma, che lo stringeva. Le dita erano lame.


Il Console si svegliò ansimando.

Era buio. Aveva dormito per sette ore almeno. Lottando contro le corde, si alzò a sedere, fissò il bagliore del display del comlog.

Dodici ore. Aveva dormito dodici ore.

Ogni muscolo del corpo protestò dolorosamente, quando si sporse a guardare in basso. Il tappeto Hawking manteneva la quota costante di quaranta metri, ma il Console non aveva la minima idea di dove fosse. Sotto di lui, basse colline salivano e scendevano. Senza dubbio il tappeto ne aveva mancate alcune di un paio di metri; erba arancione e licheni nani crescevano in ciuffi soffici.

Da qualche parte, in un momento imprecisato delle ultime ore, aveva sorvolato la riva meridionale del mare d'Erba, aveva mancato il piccolo porto di Limito e i moli del fiume Hoolie dove all'andata avevano ormeggiato la chiatta a levitazione, la Benares.

Il Console non aveva bussola — le bussole erano inutili, su Hyperion — né un comlog programmato come monitor inerziale di direzione. Contava di trovare la strada per Keats seguendo l'Hoolie a sud e a ovest, ripercorrendo il cammino laborioso del pellegrinaggio su per il fiume, a parte curve e anse.

Adesso si era smarrito.

Atterrò sulla sommità di una bassa collina, mise piede con un gemito di dolore sul terreno solido e spense il tappeto. Aveva consumato per un terzo, forse più, la carica dei fili di volo. E non sapeva quanta efficienza il tappeto avesse perduto, con il passare degli anni.

Le colline sembravano il territorio accidentato a sudovest del mare d'Erba, ma il fiume non si vedeva. Il comlog gli disse che il buio era sceso solo da un paio d ore, ma il Console non vide traccia di tramonto. Il cielo coperto impediva di vedere sia la luce delle stelle, sia le eventuali esplosioni della battaglia spaziale.

— Maledizione — mormorò il Console. Fece un giro per ripristinare la circolazione del sangue, urinò giù da una breve scarpata, tornò al tappeto per bere un sorso d'acqua. "Pensa!" si disse.

Aveva fissato il tappeto in una rotta verso sudovest che avrebbe dovuto lasciare il mare d'Erba in prossimità della cittadina portuale di Limito. Se, nel sonno, aveva semplicemente sorvolato Limito e il fiume, il corso d'acqua doveva trovarsi da qualche parte verso sud, spostato a sinistra. Ma se, lasciando Riposo del Pellegrino, aveva stabilito male la rotta, anche solo di qualche grado a sinistra, allora il fiume si sarebbe trovato da qualche parte verso nordest, alla sua destra. Anche se avesse preso la direzione sbagliata, alla fine avrebbe trovato un punto di riferimento, la costa della Criniera Nord, nel caso peggiore, ma il ritardo gli sarebbe costato un giorno intero.

Il Console diede un calcio a una pietra e incrociò le braccia. L'aria era molto fresca, dopo il caldo del giorno. Un brivido gli fece capire che soffriva di scottature solari. Si toccò la pelle del cranio, imprecò e ritrasse le dita. "Da quale parte?" si domandò.

Il vento fischiò tra la bassa artemisia e i licheni spugna. Il Console si sentì molto lontano dalle Tombe del Tempo e dalla minaccia dello Shrike, ma percepì, come una pressione urgente sulle spalle, la presenza di Sol e di Duré, di Het Masteen e di Brawne Lamia, degli scomparsi Sileno e Kassad. Lui si era unito al pellegrinaggio per un atto finale di annullamento, un inutile suicidio per mettere fine al proprio dolore… dolore per la perdita perfino del ricordo della moglie e del figlio uccisi durante le macchinazioni dell'Egemonia su Bressia, dolore per la consapevolezza del proprio orribile tradimento, verso il governo che aveva servito per quasi quarant'anni, verso gli Ouster che si erano fidati di lui.

Si sedette sopra una roccia e sentì svanire l'inutile odio per se stesso, quando pensò a Sol e alla piccina che aspettavano nella Valle delle Tombe. Pensò a Brawne, quella donna coraggiosa, piena d'energia, distesa, inerme, con l'estensione simile a sanguisuga del malefico Shrike che le spuntava dal cranio.

Risalì sul tappeto, lo attivò e si alzò a ottocento metri, così vicino al soffitto di nuvole che gli sarebbe bastato allungare la mano per toccarle.

Un breve squarcio nella coltre di nubi, lontano a sinistra, mostrò un luccichio. L'Hoolie era a circa cinque chilometri, verso sud.

Il Console eseguì una brusca virata; sotto lo sforzo, il campo di contenimento cercò di premerlo contro il tappeto, ma lui si sentì più tranquillo, grazie alle funi. Dieci minuti dopo, volava sull'acqua; planò per accertarsi che il fiume fosse proprio l'ampio Hoolie e non un affluente.

Era l'Hoolie. Ragnatelidi radianti rispondevano nelle zone basse e paludose lungo le rive. Le torri alte e scanalate delle formiche architetto lanciavano sagome spettrali contro un cielo appena più scuro del terreno.

Il Console si portò a venti metri di quota, bevve un sorso d'acqua e puntò a valle, alla massima velocità.


L'alba lo trovò a valle del villaggio Bosco di Doukhobor, quasi all'altezza delle chiuse Karla, dove il Regio Canale di Trasporto tagliava a ovest verso gli insediamenti urbani settentrionali e la Criniera. Il Console sapeva che da lì la capitale distava meno di centocinquanta chilometri… ma pur sempre sette irritanti ore di volo, alla misera velocità del tappeto. In quel punto si era augurato di trovare uno skimmer militare in servizio di perlustrazione, o un dirigibile passeggeri di Bosco delle Naiadi, o addirittura una rapida lancia a energia da requisire. Ma lungo le rive dell'Hoolie non c'era segno di vita, a parte un edificio in fiamme di tanto in tanto, o lumi a burro liquefatto, dietro finestre lontane. Le stie delle mante fluviali, sopra le chiuse, erano vuote, con le ampie grate aperte alla corrente; non c'erano chiatte da trasporto, più in basso, dove il fiume era largo il doppio rispetto al tratto sopra le chiuse.

Il Console imprecò e continuò il volo.

Era un magnifico mattino: il sole illuminava le basse nuvole e metteva in risalto ogni cespuglio e ogni albero. Al Console parve che fossero passati mesi interi, da quando aveva visto vera vegetazione. Sulle scarpate lontane, alberi weir e mezzequerce si alzavano a grande altezza, mentre nella piana fluviale la vivida luce metteva in risalto i verdi germogli di milioni di baccelli periscopici delle risaie indigene. Piegrovie e felci di fuoco coprivano le rive; ogni ramo, ogni radice contorta risaltavano nella luce aspra dell'alba.

Le nuvole inghiottirono il sole. Cominciò a piovere. Il Console calzò il tricorno gualcito, si rannicchiò sotto il mantello e volò verso sud, a quota cento metri.


Il Console cercò di ricordare. Quanti giorni aveva, la piccola Rachel?

Nonostante la lunga dormita del giorno precedente, aveva la mente confusa per le tossine della stanchezza. Rachel aveva quattro giorni, quando erano giunti alla valle. Era stato… quattro giorni prima.

Il Console si lisciò la guancia, allungò la mano verso le bottiglie dell'acqua, scoprì che erano tutte vuote. Poteva scendere senza difficoltà a tuffarle nel fiume e riempirle, ma non voleva perdere tempo. Le scottature gli dolevano e lo fecero rabbrividire, quando la pioggia gli sgocciolò dal cappello.

"Sol ha detto che se torno prima di sera andrà tutto bene. Rachel è nata dopo le otto di sera, tempo di Hyperion. Se è giusto, se non ci sono errori, durerà fino alle otto di stasera." Il Console si tolse l'acqua dalle guance e dalle sopracciglia. "Occorrono ancora sette ore per arrivare a Keats. Un paio d'ore per liberare la nave. Theo mi aiuterà… ora è governatore generale. Posso convincerlo che è nell'interesse dell'Egemonia contravvenire all'ordine di Gladstone e togliere alla nave la quarantena. Se necessario, gli dirò che proprio lei mi ha ordinato di cospirare con gli Ouster per tradire la Rete.

"Diciamo dieci ore, più quindici minuti di nave. Resterebbe un'ora, prima del tramonto. Rachel avrebbe solo alcuni minuti, ma… cosa? Cosa potremmo tentare, oltre alle vasche di crio-fuga? Niente. Solo le vasche. Sono sempre state l'ultima carta di Sol, anche se i medici dicono che potrebbero risultare fatali alla piccina. E Brawne?"

Il Console era assetato. Si tolse il mantello, ma la pioggia era solo un'acquerugiola che bastava appena a inumidirgli le labbra e la lingua e gli faceva aumentare la sete. Il Console imprecò sottovoce e iniziò a scendere lentamente. Forse poteva librarsi sul fiume il tempo necessario per riempire una bottiglia.

Trenta metri sopra il fiume, il tappeto Hawking smise di volare. L'attimo prima scendeva gradualmente, dolce come una stuoia sopra unn piano di vetro poco inclinato; l'attimo dopo, precipitò a picco, fuori controllo… un tappeto di due metri e un uomo terrorizzato gettati dalla finestra di un edificio di dieci piani.

Il Console urlò e cercò di liberarsi, ma la fune e la cinghia della sacca lo ingarbugliarono nella massa sbatacchiante del tappeto Hawking: cadde col tappeto, rotolò e si dimenò per gli ultimi venti metri, andò a sbattere contro la superficie dura dell'Hoolie in attesa.

29

Sol Weintraub aveva grandi speranze, la notte in cui il Console partì. Finalmente facevano davvero qualcosa! O almeno tentavano. Sol non credeva che le vasche di crio-fuga della nave del Console sarebbero state la risposta per salvare Rachel — esperti medici di Vettore Rinascimento avevano fatto notare l'estrema pericolosità di una simile procedura — ma era contento di avere un'alternativa, una possibilità qualsiasi. E sentiva che per troppo tempo avevano accettato passivamente gli eventi, avevano aspettato i comodi dello Shrike, come criminali in attesa della ghigliottina.

L'interno della Sfinge pareva troppo infido, quella notte; Sol spostò all'esterno tutte le loro cose e le ammassò sull'ampia veranda di granito, dove con Duré cercò di sistemare comodamente Masteen e Brawne, sotto coperte e mantelli, con zaini per guanciale. I biomonitor di Brawne continuavano a segnalare la mancanza di qualsiasi attività cerebrale, mentre il corpo riposava in pace. Masteen si rigirava e si agitava, in preda alla febbre.

— Secondo lei, cos'ha, il Templare? — domandò Duré. — È ammalato?

— Forse si tratta di semplice assideramento — rispose Sol. — Dopo essere stato rapito dal carro a vela, si è ritrovato a vagare nelle lande deserte e qui nella Valle delle Tombe. Mangiava neve per dissetarsi e non aveva cibo.

Duré annuì e controllò il cerotto della FORCE applicato nella parte interna del braccio di Masteen. Le spie luminose indicavano il costante sgocciolio di soluzione per endovena. — Ma pare che ci sia dell'altro — disse il gesuita. — Una sorta di follia.

— I Templari hanno un legame quasi telepatico con la propria nave-albero. — disse Sol. — Quando la Voce dell'Albero Masteen ha assistito alla distruzione della Yggdrasill, si sarà sentito impazzire. A maggior ragione se sapeva che era necessaria.

Duré annuì e continuò ad asciugare la fronte cerea del Templare. Mezzanotte era passata e si era alzato un vento che soffiava pigre spirali di polvere vermiglia e gemeva intorno alle ali e agli spigoli della Sfinge. Le Tombe splendettero vividamente e divennero più fioche, prima una, poi un'altra, senza ordine né sequenza evidenti. Di tanto in tanto la trazione delle maree del tempo assaliva tutte due gli uomini, li faceva boccheggiare e aggrappare alla pietra, ma l'ondata di déjà vu e il senso di vertigine svanivano quasi subito. Con Brawne Lamia collegata alla Sfinge mediante il cavo saldato al cranio, non potevano andare via di lì.

A un certo punto, prima dell'alba, le nuvole si squarciarono e mostrarono il cielo: stelle l'aggruppate fittamente, di chiarezza quasi dolorosa. Per un poco gli unici segni delle due grandi flotte che guerreggiavano lassù furono le occasionali scie di fusione, sottili graffi di diamante nel vetro della notte; ma poi iniziarono di nuovo a sbocciare i fiori delle esplosioni lontane e nel giro di un'ora le Tombe furono oscurate dalla violenza delle luci in alto.

— Chi vincerà? — domandò padre Duré. I due sedevano con la schiena contro la ruvida parete di pietra della Sfinge, il viso rivolto allo spicchio di cielo fra le ali dispiegate della tomba.

Sol accarezzava la schiena di Rachel, addormentata bocconi sotto la sottile coperta. — Da quel che dicono gli altri, sembra preordinato che la Rete debba patire un'orribile guerra.

— Allora crede alle previsioni della Commissione di Consulenza delle IA?

Nel buio, Sol scrollò le spalle. — In pratica, non so niente di politica… né dell'esattezza con cui il Nucleo predice gli eventi. Sono un misero studioso di un piccolo college in un pianeta arretrato. Ma ho la sensazione che per noi ci sia in serbo qualcosa di terribile… che una mala bestia si muova verso Betlemme per nascere.

Duré sorrise. — Yeats — disse. Il sorriso svanì. — Sospetto che questo posto sia la nuova Betlemme. — Guardò in direzione delle Tombe splendenti. — Ho passato la vita a insegnare le teorie di San Teilhard, l'evoluzione verso il Punto Omega. E invece ecco cosa abbiamo. Follia umana nei cieli e un terribile anticristo in attesa di ereditare i resti.

— Crede che lo Shrike sia l'Anticristo?

Padre Duré appoggiò i gomiti sulle ginocchia e congiunse le mani. — Se non lo è, siamo tutti nei guai. — Rise amaramente. — Non molto tempo fa, sarei stato deliziato di scoprire un Anticristo: anche la semplice presenza di un potere antidivino sarebbe servita a puntellare la mia vacillante fede in qualsiasi forma di divinità.

— E ora? — domandò Sol, piano.

Duré allargò le mani. — Anch'io sono stato crocifisso.

Sol ripensò alla storia di Lenar Hoyt su Duré: l'anziano gesuita che s'inchiodava da sé a un albero tesla e sopportava anni di sofferenza e di rinascita piuttosto che arrendersi al parassita DNA, allo stesso crucimorio che in quel momento gli scavava le carni.

Duré abbassò il viso. — Non ci fu alcun benvenuto di un Padre celeste — disse a bassa voce. — Nessuna assicurazione che il dolore e il sacrificio fossero serviti a qualcosa. Solo sofferenza. Sofferenza e tenebre e di nuovo sofferenza.

Sol smise di accarezzare la schiena della piccina. — E questo le ha fatto perdere la fede?

Duré lo guardò in viso. — Al contrario, mi ha fatto sentire che la fede è sempre più essenziale. Sofferenza e tenebre sono state la nostra sorte fin dalla Caduta dell'Uomo. Ma dev'esserci una speranza di salire a un livello più alto… una speranza che la consapevolezza si evolva su un piano più benevolo del proprio contrappunto di un universo legato all'indifferenza.

Sol annuì lentamente. — Ho fatto un sogno, durante la lunga battaglia di Rachel con il morbo di Merlino… e mia moglie Sarai ha fatto lo stesso sogno: ero chiamato a sacrificare la mia unica figlia.

— Sì — disse Duré. — Ho ascoltato gli appunti del Console.

— Allora conosce già la mia risposta — disse Sol. — Primo, che non è più possibile seguire come Abramo il sentiero dell'ubbidienza, anche se esiste un Dio che la pretende. Secondo, che per troppe generazioni abbiamo offerto sacrifici a questo Dio: il pagamento in sofferenza deve terminare.

— Eppure lei è qui — disse Duré, con un gesto che comprendeva la valle, le Tombe, la notte.

— Sono qui — ammise Sol. — Ma non per strisciare nella polvere. Per scoprire quale risposta i poteri daranno alla mia decisione. — Riprese a carezzare la schiena della figlia. — Rachel ha un giorno e mezzo, diventa più giovane a ogni secondo. Se lo Shrike è l'architetto di questa crudeltà, voglio affrontarlo, anche se è davvero il suo Anticristo. Se c'è un Dio e se ha fatto una cosa simile, mostrerò lo stesso disprezzo verso di lui.

— Forse tutti abbiamo mostrato troppo disprezzo, all'atto pratico — disse pensierosamente Duré.

Sol alzò gli occhi, mentre nello spazio remoto una decina di puntini di luce vividissima si espandeva nelle increspature e nelle onde d'urto di esplosioni al plasma. — Mi piacerebbe avere la tecnologia per combattere Dio alla pari — disse in tono basso e leggero. — Prenderlo per la barba nel suo stesso covo. Ripagarlo di tutte le ingiustizie accumulate sull'umanità. Fargli passare l'arroganza, o altrimenti sbatterlo all'inferno.

Padre Duré inarcò il sopracciglio, poi abbozzò un sorriso. — So quale rabbia prova. — Toccò con gentilezza la testolina di Rachel. — Cerchiamo di dormire un poco, prima dell'alba. D'accordo?

Sol annuì, si distese accanto alla figlia e si tirò la coperta fino alla guancia. Duré mormorò qualcosa che poteva essere un buonanotte sottovoce o forse una preghiera.

Sol sfiorò la figlia, chiuse gli occhi e si addormentò.


Lo Shrike non venne, durante la notte. Né venne il mattino seguente, quando la luce del sole dipinse le pareti di roccia a sudovest e toccò la cima del Monolito di Cristallo. Sol si svegliò quando la luce del sole strisciò nella valle; Duré dormiva accanto a lui, Masteen e Brawne erano ancora privi di sensi. Rachel si agitava, inquieta. Il pianto era quello di una neonata affamata. Sol le diede una delle ultime confezioni nutripac. Durante la notte il freddo era sceso nella valle e la brina luccicava sugli scalini della Sfinge.

Rachel mangiò avidamente. Sol le fece fare il ruttino e se la portò alla spalla, cullandola teneramente.

Ancora un giorno e mezzo.

Sol era stanchissimo. Diventava vecchio, anche se dieci anni prima si era sottoposto a un trattamento Poulsen. Al tempo in cui lui e Sarai sarebbero stati normalmente liberi dai doveri paterni e materni (la loro unica figlia era all'università e partecipava a una missione di scavi archeologici nel mondi periferici), Rachel aveva contratto il morbo di Merlino e loro due avevano dovuto affrontare di nuovo i doveri del genitore. La curva di questi doveri si alzava, mentre Sol e Sarai invecchiavano… e poi Sol invecchiava da solo, dopo l'incidente… e adesso lui era molto, molto stanco. Nonostante la stanchezza, nonostante tutto, Sol notò con interesse di non rimpiangere un solo giorno di cure prestate alla figlia.

Ancora un giorno e mezzo.

Dopo un poco, padre Duré si svegliò e i due fecero colazione con i vari cibi in scatola portati da Brawne. Het Masteen non si svegliò, ma Duré gli applicò il penultimo medipac: il Templare cominciò a ricevere liquidi e prodotti nutritivi per via endovenosa.

— Non bisognerebbe applicare l'ultimo alla signora Lamia? — domandò Duré.

Sol sospirò e controllò di nuovo i monitor del comlog della donna. — Non credo, Paul. Secondo questi dati, lo zucchero nel sangue è alto… i livelli nutritivi sembrano quelli di chi ha appena consumato un pasto normale.

— Com'è possibile?

Sol scosse la testa. — Forse quella maledetta roba è una sorta di cordone ombelicale. — Indicò il cavo saldato al cranio dove fino al giorno prima c'era la presa dello shunt neurale.

— Allora, oggi cosa facciamo?

Sol scrutò il cielo che già si schiariva e diventava la volta verde e azzurra a cui si erano abituati su Hyperion. — Aspettiamo — rispose.


Het Masteen si svegliò nel calore del giorno, poco prima che il sole arrivasse allo zenit. Si drizzò a sedere e disse: — L'Albero!

Duré, che passeggiava alla base della Sfinge, risalì in fretta i gradini. Sol, che aveva disteso Rachel all'ombra accanto alla parete, prese in braccio la figlia e accorse al fianco di Masteen. Il Templare fissava qualcosa al di sopra delle pareti di roccia. Sol guardò da quella parte, ma vide solo il cielo che sbiadiva.

— L'Albero! — gridò di nuovo il Templare. Sollevò la mano irruvidita.

Duré lo tenne fermo. — Ha le allucinazioni — disse. — Crede di vedere la Yggdrasill, la sua nave-albero.

Het Masteen si dimenò per liberarsi. — No, non la Yggdrasill - ansimò, con labbra secche e screpolate. — L'Albero. L'Albero Finale. L'Albero della Sofferenza!

Allora gli altri due guardarono insieme, ma il cielo era sereno, a parte batuffoli di nuvole in arrivo da sudovest. In quel momento ci fu un rigurgito di maree del tempo e Sol e il prete chinarono la testa per l'improvvisa vertigine. Passò presto.

Het Masteen cercava di tirarsi in piedi. Continuava a fissare un punto remoto. La pelle era tanto calda da scottare le mani di Sol.

— Prenda l'ultimo medipac — disse, brusco. — Programmi ultramorfina e antistaminico. — Duré si affrettò a ubbidire.

— L'Albero della Sofferenza! — riuscì a dire Het Masteen. — Sarei stato la sua Voce! L'erg l'avrebbe mosso attraverso lo spazio e il tempo! Il Vescovo e la Voce del Grande Albero hanno scelto proprio me! Non posso deluderli. — Per un secondo si dimenò per liberarsi della stretta di Sol, poi crollò disteso sulla veranda di pietra. — Sono il Vero Prescelto — mormorò, svuotandosi di energie come un pallone si svuota d'aria. — Devo guidare l'Albero della Sofferenza nel tempo della Redenzione. — Chiuse gli occhi.

Duré gli applicò l'ultimo medipac, si accertò che il monitor fosse predisposto per le peculiarità metaboliche e chimiche dei Templari, e mise in funzione l'adrenalina e gli analgesici. Sol si accostò a Het Masteen.

— Questa non è terminologia né teologia dei Templari — disse Duré. — È il linguaggio del Culto Shrike. — Guardò Sol negli occhi. — Così si spiega una parte del racconto di Brawne. Per chissà quale ragione, i Templari sono in combutta con la Chiesa della Redenzione Finale… il Culto Shrike.

Sol annuì, agganciò al polso di Masteen il proprio comlog e regolò il monitor.

— L'Albero della Sofferenza è di certo il leggendario albero di spine dello Shrike — borbottò Duré, con un'occhiata al punto del cielo vuoto che Masteen aveva continuato a fissare. — Ma cosa significa che lui e l'erg erano stati scelti per spingerlo attraverso lo spazio e il tempo? Avrà creduto davvero di pilotare l'albero dello Shrike come i Templari pilotano le navi-albero? Perché?

— Dovrà domandarglielo nell'altra vita — disse stancamente Sol. — È morto.

Duré controllò i monitor, aggiunse il comlog di Hoyt a quelli già collegati al Templare. Provarono a usare gli stimolanti del medipac, la rianimazione cardiopolmonare, la respirazione bocca a bocca. Le spie dei monitor non reagirono. Senza ombra di dubbio, Het Masteen, Vera Voce Templare dell'Albero e Pellegrino allo Shrike, era morto.

Aspettarono un'ora, diffidando di qualsiasi cosa, in quella perversa valle dello Shrike; ma quando i monitor segnalarono che il cadavere iniziava a decomporsi rapidamente, seppellirono Het Masteen in una fossa poco profonda, cinquanta metri più su lungo il sentiero, verso l'imboccatura della valle. Kassad aveva lasciato una pala pieghevole, etichettata come "attrezzo da trincea" nel gergo della FORCE, e loro due lavorarono a turno: uno scavava, l'altro teneva d'occhio Rachel e Brawne Lamia.

Poi rimasero in piedi, Sol con in braccio la piccina, all'ombra di un masso, mentre Duré diceva qualche parola, prima di lasciar cadere il terriccio sul sudario di fortuna ricavato da un telo di fibroplastica.

— Non conoscevo veramente il signor Masteen — disse il prete. — Non eravamo della stessa fede. Ma eravamo della stessa professione; la Voce dell'Albero Masteen passò gran parte della vita a fare ciò che riteneva opera di Dio, perseguendo la volontà di Dio negli scritti del Muir e nelle bellezze della natura. La sua era vera fede… messa alla prova dalle difficoltà, temprata dall'ubbidienza e, alla fine, consacrata dal sacrificio.

Duré s'interruppe e fissò a occhi socchiusi il cielo che si era schiarito in un bagliore di bronzo. — Ti prego, Signore, accogli il Tuo servo. Dagli il benvenuto nelle Tue braccia, come un giorno farai con noi, che Ti abbiamo cercato e abbiamo smarrito la strada. In nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, amen.

Rachel cominciò a piangere. Sol passeggiò cullandola, mentre Duré spalava terra sul fagotto di fibroplastica a forma di uomo.

Tornarono sulla veranda della Sfinge e spostarono Brawne nel poco d'ombra che restava. Non era possibile ripararla dal sole al tramonto, a meno di portarla dentro la tomba, cosa che nessuno dei due voleva fare.

— Ormai il Console sarà più che a metà strada — disse il prete, dopo avere bevuto un lungo sorso d'acqua. Aveva la fronte bruciata dal sole e velata di sudore.

— Sì — disse Sol.

— Domani a quest'ora dovrebbe essere di ritorno. Useremo cesoie a laser per liberare Brawne e la metteremo nello scomparto chirurgico della nave. Forse sarà possibile arrestare il ringiovanimento di Rachel mettendola in crio-fuga, anche contro il parere dei medici.

— Sì.

Duré abbassò la bottiglia d'acqua e guardò Sol. — Crede che accadrà così?

Sol gli restituì lo sguardo. — No — disse.


Dalle pareti di roccia di sudovest le ombre si allungarono. Il calore del giorno si rapprese in una cosa solida, poi si dissipò un poco. Da sud arrivarono delle nuvole.

Rachel dormiva nell'ombra accanto al vano della porta. Sol si accostò a Paul Duré che fissava la valle e gli posò la mano sulla spalla. — A cosa pensa, amico mio?

Duré non si girò. — Se non fossi convinto che il suicidio è davvero un peccato mortale, allora porrei termine a tutto per dare al giovane Hoyt una possibilità di vivere. — Guardò Sol e mostrò una parvenza di sorriso. — Ma è davvero suicidio, se questo parassita che ho sul petto… un tempo sul petto di Hoyt… un giorno mi trascinasse, urlante e scaldante, alla mia stessa risurrezione?

— Sarebbe un dono, per Hoyt, riportarlo allo stato precedente? — disse Sol, a voce bassa.

Per un momento Duré rimase in silenzio. Poi gli strinse il braccio. — Vado a fare due passi — disse.

— Dove? — Sol fissò a occhi socchiusi la densa caligine pomeridiana sul deserto. Anche sotto la bassa coltre di nuvole, la valle era un forno.

— Giù nella valle — rispose il prete, con un gesto vago. — Tornerò presto.

— Faccia attenzione — disse Sol. — E ricordi che il Console, se s'imbatte in uno skimmer di pattuglia lungo l'Hoolie, potrebbe tornare oggi pomeriggio.

Duré annuì, andò a prendere una bottiglia d'acqua e a fare una carezza a Rachel, poi scese la lunga scalinata della Sfinge, attento a dove metteva i piedi, come un uomo molto, molto vecchio.

Sol lo guardò allontanarsi, diventare una figura sempre più piccola, distorta dalle ondate di calore e dalla distanza. Con un sospiro tornò a sedersi accanto alla figlia.


Paul Duré cercò di tenersi all'ombra, ma anche lì il caldo opprimente pesava come un enorme giogo sulle spalle. Il prete oltrepassò la Tomba di Giada e seguì il sentiero verso le pareti nord e l'Obelisco. La sottile ombra di questa tomba disegnava una macchia scura sulla pietra rosea e sulla polvere del fondovalle. Duré proseguì in discesa, attraversò con prudenza i detriti intorno al Monolito di Cristallo e lanciò un'occhiata in alto: un vento pigro muoveva i vetri in frantumi e sibilava tra le fessure nella parte superiore della facciata della tomba. Duré vide il proprio riflesso nella parte inferiore e ricordò quando aveva udito il suono d'organo del vento della sera che s'alzava dalla Fenditura, nell'altopiano Punta d'Ala, dove aveva trovato i Bikura. Gli parve che fosse accaduto intere vite prima. Ed era vero, alla lettera!

Duré sentì i danni che la ricostruzione del crucimorfo aveva provocato alla mente e alla memoria. Dava la nausea… l'equivalente di un collasso cardiaco senza speranza di guarigione. Ragionamenti che un tempo sarebbero stati per lui gioco da ragazzi ora richiedevano estrema concentrazione oppure trascendevano semplicemente le sue capacità. Le parole gli sfuggivano. Le emozioni lo strattonavano con la stessa improvvisa violenza delle maree del tempo. Varie volte era stato costretto a lasciare gli altri pellegrini e mettersi in un canto a piangere in solitudine, per ragioni che non riusciva a capire.

Gli altri pellegrini. Ora rimanevano soltanto Sol e la piccina. Padre Duré avrebbe dato volentieri la propria vita, in cambio della loro. Era peccato, si domandò, pensare a patti con l'Anticristo?

Si era inoltrato di parecchio nella valle, quasi fino alla curva verso est, nell'ampio cul-de-sac dove il Palazzo dello Shrike gettava sulla roccia il suo labirinto d'ombre. Il sentiero deviava verso la parete di nordovest e passava davanti alle Grotte. Dalla prima usciva aria fresca e Duré fu tentato di entrare anche solo per riprendersi dal caldo, chiudere gli occhi e schiacciare un pisolino.

Continuò a camminare.

L'ingresso della seconda tomba aveva un numero maggiore di sculture barocche; a Duré ricordò l'antica basilica scoperta nella Fenditura… l'enorme croce e l'altare dove i Bikura avevano "adorato". Adoravano l'oscena immortalità del crucimorfo, non la possibilità della vera Risurrezione promessa dalla Croce. Ma qual era, la differenza? Duré scosse la testa, cercò di eliminare la nebbia e il cinismo che gli rannuvolavano ogni pensiero. Il sentiero deviò più in alto, al di là della terza Grotta, la più bassa e insignificante delle tre.

C'era una luce, dentro la terza Grotta.

Duré si fermò, trasse un respiro, lanciò un'occhiata nella valle. La Sfinge era visibilissima, quasi un chilometro più indietro, ma Duré non riuscì a distinguere Sol, nelle ombre. Per un momento si domandò se era stata proprio la terza tomba, quella in cui si erano rifugiati il giorno prima… e se uno di loro vi avesse lasciato una lanterna.

Non era stata la terza Tomba. Tranne che per cercare Kassad, nessuno era entrato lì, negli ultimi tre giorni.

Padre Duré capì che avrebbe dovuto ignorare la luce, tornare da Sol, continuare la vigilia con lui e la figlia.

"Ma lo Shrike è venuto a ciascuno degli altri, separatamente. Perché dovrei rifiutare la convocazione?"

Duré sentì l'umido sulla guancia e si rese conto di piangere in silenzio, senza accorgersene. Bruscamente, col dorso della mano, si asciugò le lacrime e rimase lì, a pugni serrati.

"L'intelligenza era la mia vanità maggiore. Ero il gesuita intellettuale, saldo nella tradizione di Teilhard e di Prassard. Anche la teologia spacciata alla Chiesa, ai seminaristi, ai pochi fedeli che ancora ascoltavano, ha accentuato la mente, quel meraviglioso Punto Omega della consapevolezza. Dio è un algoritmo intelligente.

"Be', ci sono cose al di là dell'intelligenza, Paul."

Duré entrò nella terza Grotta.


Sol si svegliò di soprassalto, convinto che qualcuno strisciasse verso di lui.

Balzò in piedi e si guardò intorno. Rachel piagnucolò, svegliandosi dal sonno nello stesso momento del padre. Brawne Lamia giaceva, immobile, dove l'avevano lasciata, con le spie mediche che brillavano sempre di luce verde, mentre il segnalatore di attività cerebrale era rosso intenso.

Sol aveva dormito almeno un'ora; le ombre erano strisciate sul fondo della valle e solo la sommità della Sfinge era ancora illuminata dal sole che filtrava tra gli squarci delle nuvole. Gli ultimi raggi entravano obliquamente dall'imboccatura della valle e illuminavano le scarpate opposte. Il vento cominciava ad alzarsi.

Ma niente si muoveva, nella valle.

Sol prese in braccio Rachel, la cullò, scese di corsa i gradini, guardò dietro la Sfinge e verso le altre Tombe.

— Paul! — Il richiamo rimbalzò contro le rocce. Il vento sollevò polvere al di là della Tomba di Giada, ma nient'altro si mosse. Sol aveva ancora l'impressione che qualcosa gli si avvicinasse di nascosto: si sentiva osservato.

Rachel strillò e si agitò, con la voce acuta di una bimba appena nata. Sol diede un'occhiata al comlog. Un'ora dopo Rachel avrebbe avuto un giorno esatto. Sol esaminò il cielo, cercandovi la nave del Console; imprecò sottovoce contro se stesso e tornò all'entrata della Sfinge per cambiare il pannolino alla piccina, controllare Brawne, prendere dallo zaino un nutripac e un mantello. La temperatura si abbassava in fretta, calato il sole.

Nella mezz'ora di crepuscolo che restava, Sol percorse velocemente la valle, gridando il nome di Duré e scrutando dentro le Tombe, senza entrare. Oltrepassò la Tomba di Giada, dove Hoyt era stato assassinato, le cui pareti già cominciavano a splendere di verde latteo. Oltrepassò lo scuro Obelisco, la cui ombra arrivava in alto nella parete di roccia di sudest. Oltrepassò il Monolito di Cristallo, la cui parte superiore rifletteva le ultime luci dei giorno e divenne opaca quando il sole calò al di là della Città dei Poeti. Nel fresco improvviso e nel silenzio della sera oltrepassò le Grotte e gridò all'ingresso di ciascuna; sul viso l'aria umida gli parve il freddo alito di una bocca spalancata.

Nessuna risposta.

Sul finire del crepuscolo, Sol oltrepassò la curva della valle che portava al guazzabuglio di lame e di bastioni del Palazzo dello Shrike, tenebroso e sinistro nel buio sempre più fitto. Si fermò all'ingresso, cercando di ricavare un senso dalle ombre color inchiostro, dalle guglie, falsi puntoni, pilastri; gridò nell'interno buio. Solo l'eco rispose. Rachel ricominciò a piangere.

Preso dai brividi, con un senso di gelo alla base della nuca, girandosi di continuo per sorprendere l'invisibile osservatore e scorgendo solo ombre sempre più fitte e le prime stelle della sera Ira gli squarci delle nuvole, Sol si affrettò a ripercorrere la valle in direzione della Sfinge, dapprima a passo veloce e poi quasi di corsa al di là della Tomba di Giada, mentre il vento della sera sibilava come un bimbo che strillasse.

— Maledizione! — ansimò Sol, quando arrivò al gradino superiore della Sfinge. Brawne Lamia era scomparsa. Non c'era segno del corpo, né del cordone ombelicale metallico.

Imprecando, reggendo forte Rachel, Sol frugò nello zaino alla ricerca della torcia elettrica.

Nel corridoio centrale, dopo dieci metri, trovò la coperta in cui aveva avvolto Brawne. A parte questo, niente. I corridoi si ramificarono e si curvarono, ora allargandosi, ora restringendosi, mentre il soffitto si abbassò al punto che Sol fu costretto a strisciare, sorreggendo col braccio destro la piccina in modo da averne la guancia contro la propria. Non gli piaceva affatto trovarsi in quella tomba. Il cuore gli batteva con tanta forza che a tratti Sol si aspettava quasi di avere un infarto.

L'ultimo corridoio si restrinse nel nulla. Dove prima il cavo metallico serpeggiava nella pietra, adesso c'era solo pietra.

Sol resse fra i denti la torcia elettrica e diede una manata alla roccia, spinse pietre grosse come case, come se dovesse aprire un passaggio segreto, portare alla luce tunnel nascosti.

Niente.

Tenne stretta Rachel e incominciò la strada del ritorno; sbagliò alcune svolte, e sentì il cuore battere all'impazzata quando credette di essersi smarrito. Poi si trovò in un corridoio che riconobbe, da lì passò nel corridoio principale, infine fu all'esterno.

Scese la scalinata e portò la piccina lontano dalla Sfinge. Si fermò all'imboccatura della valle, si sedette sopra una pietra e riprese fiato a grandi boccate. Rachel gli appoggiava ancora al collo la guancia, ma era silenziosa, non si muoveva, a parte il lieve arricciare di dita contro la barba.

Alle spalle di Sol il vento soffiava dalle lande deserte. In alto le nuvole si aprirono e poi si richiusero: nascosero le stelle, per cui l'unica luce proveniva dai riflessi malati delle Tombe del Tempo. Sol temette che il folle battito del proprio cuore spaventasse la piccina, ma Rachel continuò a starsene rannicchiata beatamente contro di lui e il tepore del corpicino era una sensazione rassicurante.

— Maledizione — mormorò Sol. Aveva provato simpatia per Brawne. Aveva provato simpatia per tutti i pellegrini. E adesso erano scomparsi. I decenni di insegnamento avevano condizionato Sol a cercare negli eventi uno schema, un granello morale nella pietra formatasi per concrezione d'esperienza; ma non c'erano schemi, negli eventi su Hyperion… solo confusione e morte.

Sol cullò la piccina e guardò le lande desolate, meditando se gli conveniva abbandonare immediatamente la valle, camminare fino alla città morta o a Castel Crono… camminare a nordovest verso il Litorale o a sudest dove la Briglia incrociava il mare. Si portò al viso la mano tremante e si strofinò la guancia; non ci sarebbe stata salvezza, nelle terre desolate. Abbandonare la valle non aveva salvato Martin Sileno. La presenza dello Shrike era stata segnalata molto a sud della Briglia, addirittura a Endymion e nelle altre città meridionali; anche se il mostro li avesse risparmiati, la fame e la sete non avrebbero avuto pietà. Sol poteva sopravvivere nutrendosi di piante, di piccoli roditori, di neve disciolta… ma la scorta di latte per Rachel era limitata, anche considerando le provviste che Brawne aveva portato dal Castello. Ma, a quel punto, la scorta di latte non importava…

"Fra meno di un giorno, sarò da solo." Sol soffocò un gemito, colpito da quel pensiero. La determinazione a salvare la figlia l'aveva spinto per venticinque anni e tre volte tanti anni-luce. La decisione di restituire a Rachel la vita e la salute era stata una forza quasi palpabile, una feroce energia condivisa con Sarai e tenuta viva nello stesso modo in cui un sacerdote protegge la sacra fiamma del tempio. No, perdio, c'era un disegno, nelle cose, un puntello morale per quella piattaforma di eventi all'apparenza accidentali; e Sol Weintraub avrebbe scommesso, su questa convinzione, la propria vita e quella della figlia.

Si alzò, percorse lentamente il sentiero fino alla Sfinge, salì la scalinata, trovò mantello termico e coperte, preparò sul gradino più alto un nido per sé e per la piccina, mentre i venti di Hyperion ululavano e le Tombe del Tempo brillavano con intensità maggiore.

Rachel giacque bocconi, la guancia contro la spalla del padre, le manine che si aprivano e si chiudevano, mentre lasciava il mondo per la terra del sonno dei bambini. Sol udì il debole respiro, mentre la piccina passava a un sonno più profondo, udì i lievi gemiti, mentre formava bollicine di saliva. Dopo un poco, anche lui allentò la stretta sul mondo e si unì a lei nel sonno.

30

Sol sognò il sogno che lo tormentava dal giorno in cui Rachel aveva contratto il morbo di Merlino. Camminava in un vasto edificio dove colonne grandi come sequoie si inalzavano nella penombra e una luce color carminio cadeva in solidi raggi da un imprecisato punto in alto. Ci fu il rumore di una gigantesca esplosione, di interi mondi in fiamme. Di fronte a lui si accesero due ovali del rosso più intenso.

Sol riconobbe il luogo. Sapeva che più avanti avrebbe trovato un altare su cui era distesa Rachel, Rachel adulta, priva di sensi. Poi sarebbe giunta la Voce, a ordinare.

Sol si fermò sulla balconata e fissò in basso la scena ben nota. Sua figlia, la donna che lui e Sarai avevano salutato alla partenza della missione di ricerca sul remoto Hyperion, giaceva nuda sopra un largo blocco di pietra. In alto fluttuavano due ovali di un rosso intensissimo, gli occhi dello Shrike. Sull'altare c'era un lungo coltello ricurvo, d'osso affilato. Allora giunse la Voce:

"Sol! Prendi tua figlia, la tua unica figlia Rachel da te amata; vai sul mondo chiamato Hyperion e offrila come olocausto, in uno dei luoghi che ti dirò."

Sol si sentì tremare le braccia, per la furia e per il dolore. Si strappò i capelli e gridò nel buio, ripetendo le parole che aveva già detto a quella voce:

"Non ci saranno più offerte, né di figli né di genitori. Non ci saranno più sacrifici. Il tempo dell'ubbidienza e della redenzione è finito. O ci aiuti da amico, oppure vattene via."

Nei sogni precedenti, seguiva il rumore del vento, un senso di solitudine, orribili passi che s'allontanavano nel buio. Ma questa volta il sogno continuò, l'altare scintillò e a un tratto fu vuoto, a parte il coltello d'osso. In alto, gli ovali rossi fluttuavano ancora, rubini di fuoco grossi come pianeti.

"Sol, ascolta" riprese la Voce, ora modulata in modo da non echeggiare dall'alto, ma che quasi gli bisbigliava all'orecchio. "Il futuro dell'umanità dipende dalla tua scelta. Non puoi offrire Rachel per amore, se non per ubbidienza?"

Sol udì nella mente la risposta nello stesso momento in cui brancolava cercando le parole. Non ci sarebbero state altre offerte. Non oggi. Né mai. L'umanità aveva patito abbastanza, per amore di dèi, per la lunga ricerca di Dio. Sol pensò ai molti secoli in cui il suo popolo, gli ebrei, avevano patteggiato con Dio, lamentandosi, litigando, denunciando l'ingiustizia delle cose, ma sempre — sempre — tornando all'ubbidienza a ogni costo. Generazioni morenti nei forni dell'odio. Future generazioni segnate dai fuochi freddi delle radiazioni e dell'odio rinnovato.

Non stavolta. Mai più.

— Rispondi di sì, papà.

Sol sobbalzò al tocco di una mano. Sua figlia, Rachel, gli era accanto, né neonata né adulta, ma la bambina di otto anni che aveva conosciuto due volte, mentre cresceva e mentre ringiovaniva per il morbo di Merlino: Rachel con i capelli castano chiaro legati sulla nuca in una semplice treccina, figuretta piccola nella tuta da gioco di denim scolorito e scarpe da ginnastica.

Sol le prese la mano, la strinse più forte che poteva ma senza farle male, sentì la stretta di risposta. Non era illusione, non era l'ultima crudeltà dello Shrike. Quella era proprio sua figlia.

— Rispondi di sì, papà.

Sol aveva risolto il dilemma di Abramo sull'ubbidienza a un Dio diventato maligno. L'ubbidienza non poteva più essere d'importanza capitale nella relazione fra l'umanità e il suo Dio. Ma se il figlio scelto come vittima sacrificale chiedeva l'ubbidienza al capriccio di quel Dio?

Sol piegò il ginocchio accanto alla figlia e aprì le braccia. — Rachel.

Rachel si strinse contro di lui, con l'energia che Sol ricordava in innumerevoli abbracci d'amore intenso. Gli mormorò all'orecchio: — Per favore, papà, dobbiamo rispondere di sì.

Sol continuò a tenerla stretta, sentendo intorno a sé le braccine e contro la guancia il tepore della sua. Pianse in silenzio, sentì l'umido sulle guance e nella barba, ma non voleva lasciare la figlia nemmeno per il secondo necessario ad asciugarsi le lacrime.

— Ti voglio bene, papà — mormorò Rachel.

Allora Sol si alzò, si passò sul viso il dorso della mano, si asciugò le lacrime; strinse con forza la sinistra di Rachel e iniziò con lei la lunga discesa verso l'altare.


Sol si svegliò con l'impressione di cadere e cercò di afferrare la piccina. Rachel gli dormiva sul petto, con i piccoli pugni chiusi, il pollice in bocca; ma quando Sol si drizzò, lei si svegliò e inarcò istintivamente la schiena, con lo strillo e la reazione del neonato sorpreso. Sol si tirò in piedi, lasciò cadere intorno a sé coperte e mantello, si strinse forte Rachel al petto.

Era giorno. Tardo mattino, sembrava. Avevano dormito, mentre la notte moriva e la luce del sole strisciava nella valle e sulle Tombe. La Sfinge se ne stava acquattata sopra di loro, simile a un animale da preda, con le zampe possenti distese ai lati della scalinata.

Rachel si mise a piangere, con il visetto congestionato per la sorpresa del risveglio, la fame, la sensazione di paura che percepiva nel padre. Sol la cullò, in piedi sotto il sole cocente. Salì sull'ultimo gradino della Sfinge, cambiò alla figlia il pannolino, scaldò uno degli ultimi nutripac e le diede il biberon finché il pianto non si mutò in poppata, poi le fece fare il ruttino e passeggiò cullandola, finché Rachel non tornò a scivolare nel sonno.

Mancavano meno di dieci ore alla "nascita". Meno di dieci ore al tramonto e agli ultimi minuti di vita di Rachel. Sol desiderò, non per la prima volta, che la Tomba del Tempo fosse un enorme edificio di cristallo simboleggiante il cosmo e la divinità che lo governava: allora l'avrebbe preso a sassate fino a non lasciare intatto nemmeno un vetro.

Provò a ricordare i particolari del sogno, ma il tepore e il senso di rassicurazione che ne aveva tratto andarono a brandelli sotto la luce cruda del sole di Hyperion. Ricordò solo la supplica che Rachel gli aveva mormorato. Al pensiero di offrire sua figlia allo Shrike, si sentì contorcere d'orrore le viscere. — Va tutto bene — bisbigliò a Rachel, mentre lei si agitava e con un sospiro tornava nell'infido riiugio del sonno. — Va tutto bene, piccolina. La nave del Console arriverà presto. Sarà qui da un momento all'altro.


La nave del Console non arrivò a mezzogiorno. La nave del Console non arrivò nel pomeriggio. Sol camminò su e giù per la valle, chiamando coloro che erano scomparsi; cantò canzoni quasi dimenticate, quando Rachel si svegliò; la cullò con ninnenanne, quanto tornò a scivolare nel sonno. La bambina era davvero piccola e leggera: sei libbre e tre once, diciannove pollici alla nascita, ricordò Sol, sorridendo alle antiquate unità di misura della sua vecchia casa, il Mondo di Barnard.

Nel tardo pomeriggio si svegliò di soprassalto dal dormiveglia all'ombra della zampa protesa della Sfinge, e si alzò con Rachel in braccio, anche lei sveglia, mentre una nave spaziale descriveva un arco nella cupola del cielo blu lapislazzuli.

— È arrivata! — gridò; e Rachel si agitò quasi in risposta.

Una scia azzurra di fiamma di fusione brillò con l'intensità tipica delle navi spaziali nell'atmosfera. Sol saltellò su e giù, pieno di sollievo per la prima volta in molti giorni. Gridò e saltò finché Rachei pianse e strillò, preoccupata. Sol si fermò, sollevò in alto la figlia, pur sapendo che lei ancora non poteva mettere a fuoco la vista ma desiderando che vedesse la bellezza della nave che scendeva, che tracciava un arco sopra la lontana catena di montagne, che cadeva verso il deserto.

— C'è riuscito! — gridò Sol. — Arriva! La nave…

Tre colpi sordi colpirono la valle quasi nello stesso istante; i primi due erano i rimbombi sonici dell'"orma" della nave spaziale che decelerava. Il terzo era il rombo della sua distruzione.

Sotto gli occhi di Sol, il puntino luminoso all'apice della lunga coda di fusione divenne all'improvviso abbagliante come il sole, si dilatò in una nube di fiamme e di gas ribollenti, precipitò in diecimila pezzi incandescenti sul deserto lontano. Sol batté le palpebre per eliminare gli echi retinici, mentre Rachel continuava a piangere.

— Dio mio — mormorò Sol. — Dio mio. — Impossibile negare che l'astronave fosse completamente distrutta. Esplosioni secondarie sconvolsero l'aria, anche da trenta chilometri di distanza, quando i rottami caddero lasciando scie di fumo e di fiamme, verso il deserto, le montagne e il mare d'Erba più in là. — Dio mio!

Sol si sedette sulla sabbia calda. Era troppo esausto per piangere, troppo svuotato per fare qualsiasi cosa se non cullare la figlia finché non si fu calmata.

Dicci minuti dopo, altre due scie di fusione bruciarono il cielo, dirette a sud dallo zenit. Una esplose, troppo lontano perché il rumore giungesse fino a Sol. L'altra cadde fuori vista dietro la parete rocciosa meridionale, al di là della Briglia.

— Forse non era il Console — mormorò Sol. — Potrebbe trattarsi dell'invasione Ouster. Forse la nave del Console verrà ancora a prenderci.

Ma la nave non arrivò, nel tardo pomeriggio. E non era ancora giunta, quando la luce del piccolo sole di Hyperion illuminò la parete di roccia, mentre le ombre si allungavano sugli scalini più alti delia Sfinge. E non venne, quando la valle fu tutta in ombra.

Rachel era nata da meno di trenta minuti. Sol controllò il pannolino, lo trovò asciutto; le diede l'ultimo nutripac. Mentre poppava, Rachel lo guardò, con i grandi occhi scuri, come se cercasse il suo viso. Sol ricordò i primi minuti in cui l'aveva tenuta in braccio, mentre Sarai riposava sotto coperte calde; anche allora gli occhi della neonata avevano bruciato i suoi con le stesse domande e con lo stesso stupore nel vedere un mondo simile.

Il vento della sera portò nuvole che si muovevano rapidamente sopra la valle. Da sudovest giunsero dei rombi, prima come tuono lontano, poi con la nauseante regolarità dell'artiglieria: quasi sicuramente esplosioni nucleari o al plasma, a cinquecento o più chilometri verso sud. Sol scrutò il cielo fra le nuvole sempre più basse e colse fuggevoli immagini di scie meteoriche infuocate: missili balistici o navette, probabilmente.

Sol non vi badò. Cantò piano a Rachel, mentre finiva di darle da mangiare. Era andato all'imboccatura della valle, ma ora tornò lentamente alla Sfinge. Le Tombe brillavano come non mai, increspate dalla cruda luce di neon eccitato da elettroni. Gli ultimi raggi del sole mutarono le nuvole in un soffitto di fiamme color pastello.

Mancavano meno di tre minuti alla celebrazione finale della nascita di Rachel. Anche se la nave del Console fosse arrivata in quel momento, Sol non avrebbe avuto il tempo di salire a bordo né di mettere in crio-sonno la piccina.

Preferiva non pensarci.

Lentamente salì la scalinata della Sfinge: Rachel aveva fatto quella stessa strada, ventisei anni prima, senza sospettare il destino che l'attendeva in quella cripta tenebrosa.

Sol si fermò in cima all'ultimo gradino e prese fiato. La luce del sole era una cosa palpabile, riempiva il cielo e accendeva le ali e la parte superiore della Sfinge. La Tomba stessa sembrava rilasciare la luce immagazzinata, come le pietre del deserto di Hebron, dove Sol aveva vagato anni prima, cercando illuminazione e trovando solo dolore. L'aria brillava di luce, il vento diventava più forte, soffiava sabbia sul fondo della valle, poi si calmava.

Sull'ultimo gradino Sol piegò il ginocchio, tolse a Rachel la coperta, lasciò la piccina con la semplice veste di cotone da neonata. Una veste fatta di fasce.

Rachel si agitò fra le sue braccia. Il viso era paonazzo e lustro, le manine erano rosse per lo sforzo di stringersi e aprirsi. Sol la ricordava proprio così, quando il medico gliel'aveva data in braccio e lui aveva fissato la figlia appena nata proprio come la fissava adesso, prima di deporla sul ventre di Sarai in modo che anche lei la vedesse.

— Ah, Dio — mormorò. Piegò anche l'altro ginocchio. Adesso era davvero inginocchiato.

L'intera valle vibrò come per il tremito di un terremoto. Sol udiva vagamente le esplosioni che continuavano lontano verso sud. Ma era più colpito dal terribile bagliore della Sfinge. L'ombra di Sol balzò cinquanta metri dietro di lui giù per la scalinata e sul fondovalle, mentre la tomba pulsava e vibrava di luce. Con la coda dell'occhio Sol vide che le altre Tombe brillavano con uguale intensità: enormi, barocchi reattori negli ultimi istanti prima della fusione.

L'ingresso della Sfinge pulsò di blu, poi di viola, poi di un bianco terrificante. Dietro la Sfinge, sulla parete dell'altopiano sopra la Valle delle Tombe, un albero impossibile brillò dal nulla, un tronco gigantesco e affilati rami d'acciaio che si alzavano fra le nuvole rilucenti e ancora più in alto. Con una rapida occhiata, Sol vide spine lunghe tre metri e gli orribili frutti che portavano; poi tornò a guardare l'ingresso della Sfinge.

Da qualche parte il vento ululò e il tuono rombò. Da qualche parte la polvere vermiglia si alzò come una cortina di sangue secco nella terribile luce delle Tombe. Da qualche parte una voce mandò un grido e un coro urlò.

Sol non vi badò. Aveva occhi solo per il visetto della figlia e, dietro di lei, per le ombre che ora riempivano l'ingresso lucente della tomba.

Lo Shrike uscì. Con i suoi tre metri di mole e di lame d'acciaio, fu costretto a chinarsi per passare sotto l'architrave. Uscì sulla terrazza della Sfinge e venne avanti, parte creatura, parte statua, camminando con l'orribile determinazione di un incubo.

Dall'alto la luce morente guizzò sul carapace della creatura, ruscellò lungo la piastra pettorale ricurva e le spine d'acciaio che ne sporgevano, tremolò sulle dita a lama e sui bisturi che spuntavano da ogni giuntura. Sol strinse al petto Rachel, fissò le fornaci rosse e sfaccettate che passavano per gli occhi dello Shrike. Il tramonto svanì nel bagliore rosso sangue del sogno ricorrente di Sol.

Lo Shrike girò leggermente la testa, ruotandola senza attrito, di novanta gradi a destra, di novanta a sinistra, come se sorvegliasse il proprio dominio.

Avanzò di tre passi, si fermò a meno di due metri da Sol. Le quattro braccia si sollevarono, snudarono le lame simili a dita.

Sol abbracciò più strettamente Rachel. La piccina aveva la pelle madida, il viso graffiato e macchiato dallo sforzo di nascere. Restava solo qualche secondo. Gli occhi si mossero separatamente, parvero mettersi a fuoco su Sol.

"Rispondi di sì, papà." Sol ricordò il sogno.

Lo Shrike abbassò la testa, finché gli occhi di rubino non fissarono altro che Sol e sua figlia. Le fauci argento vivo si socchiusero, mostrarono strati di denti d'acciaio. Quattro mani si protesero, palmo metallico in alto, e si fermarono a mezzo metro dal viso di Sol.

"Rispondi di sì, papà." Sol ricordò il sogno, ricordò l'abbraccio della figlia e capì che alla fine — quando tutto il resto è polvere — la lealtà nei confronti di chi amiamo è tutto quel che possiamo portare con noi nella fossa. La fede, la vera fede, era la fiducia in questo amore.

Sol sollevò la figlia, appena nata e in punto di morte, qualche secondo appena, che ora strillava con il primo e ultimo fiato, e la tese allo Shrike.

L'assenza di quel piccolo peso colpì Sol con un'orribile vertigine.

Lo Shrike sollevò Rachel, indietreggiò di un passo, fu avviluppato di luce.

Dietro la Sfinge, l'albero di spine smise di tremolare, entrò in fase con l'adesso, fu orribilmente a fuoco.

Sol venne avanti, implorando a braccia tese, mentre lo Shrike arretrava nella luce e svaniva. Esplosioni incresparono le nuvole e sbatterono Sol in ginocchio, con la pressione delle onde d'urto.

Dietro Sol, intorno a Sol, le Tombe del Tempo si aprivano.

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