Che vengano tempeste, grandi onde, terremoti, fulmini tali da abbattere gli dei e fuoco di drago, Faerûn sopravviverà. E noi piccole creature presenti su di esso? Non ne sono così sicuro.
Il personaggio di Nars il Cieco
nella Scena Seconda della commedia Quattro Spade Insanguinate
di Corsour Hamadder di Waterdeep
rappresentata per la prima volta nell’Anno delle Fanciulle della Notte
Le torce stavano cominciando a spegnersi, una dopo l’altra, immergendo in una crescente oscurità il grande salone di Haelithorntowers. Due figure vestite di cuoio, da tempo immobili, si mossero di colpo all’unisono, entrambe per ritrarsi con cautela dalla ringhiera della balconata per poi sollevare la testa e fissarsi a vicenda.
Narnra Shalace non rivolse al suo inseguitore l’ormai abituale occhiata rovente, perché come Rhauligan, anche lei sapeva riconoscere il tradimento e il disastro incombente insiti in quanto avevano sentito. Quello era il genere di discorsi velati di minacce che lei era certa si tenessero di continuo all’interno delle abitazioni dei ricchi e dei nobili di Waterdeep… anche se non era mai stata tanto stolta da tentare di entrare in posti del genere, dotati di allarmi magici, di sigilli protettivi e di guardie zelanti.
Non c’era da meravigliarsi che quei nobili non volessero permettere a nessuno di avvicinarsi abbastanza da sentire quello che dicevano. L’usuraio Caethur avrebbe dovuto faticare per anni per arrivare a tramare complotti così ambiziosi.
Con espressione quasi pensosa, Narnra guardò ancora verso Rhauligan attraverso lo spazio che li separava, consapevole di aver appena accumulato un altro motivo per evitare l’Arpista senza essere vista da nessun abitante di quella casa. Un motivo estremamente valido.
Mantenersi in vita almeno per qualche altra notte.
Era una mattina luminosa, a Candlekeep, con una brezza che soffiava dal mare, così tesa che avrebbe potuto essere benissimo definita un forte vento. Esso faceva agitare e sbattere con violenza gli stendardi di un nobile di rango minore di Tethyr, che con la sua scorta precedeva Lady Nouméa Cardellith lungo l’ultimo tratto della Via del Leone. I membri della retroguardia di quel personaggio… sei cavalieri in armatura lucente che cavalcavano stringendo nelle mani guantate di ferro lunghe asce complete anche di picca… stavano adocchiando con sospetto Nouméa, e almeno due di essi facevano costantemente in modo di trovarsi sui lati opposti del nobile che stavano scortando, in modo da non perderla mai di vista.
E non c’era da meravigliarsi di quelle precauzioni, perché anche se grazie alla magia adesso Nouméa aveva l’aspetto di un occhialuto mercante di Lantan, solo, appiedato e munito soltanto di uno zaino di cuoio appeso a una spalla, d’altro canto lei era apparsa dal nulla, in maniera improvvisa, materializzandosi nell’atto di camminare. Pur supponendo che non avessero mai visto utilizzare nella pratica un incantesimo di teletrasporto, le guardie del nobile ne avevano di certo sentito parlare, e ne sapevano abbastanza da adottare le dovute cautele in presenza di quello che doveva essere un potente mago.
O qualcosa di peggio.
Di conseguenza, quando infine il gruppo raggiunse la struttura vera e propria di Candlekeep, e si fermò per parlare con i monaci che ne custodivano le porte, i cavalieri si girarono per spianare davanti a Nouméa una fila di picche scintillanti.
Arrestandosi, Nouméa rivolse loro un cortese cenno del capo e si dispose ad attendere con calma. Quando giunse il suo turno di avvicinarsi alle alte porte… sbarre verticali rinforzate da incantesimi e spesse quanto il suo braccio, contrassegnate con lo stemma del castello e delle fiamme proprio di Candlekeep e custodite da cinque preti dalle vesti purpuree… lei consegnò all’inespressivo monaco che le si era avvicinato un libro prelevato dallo zaino, e attese mentre lui apriva con cautela la carta che lo avvolgeva.
«“La vita del verme del legno sembiano”», lesse questi ad alta voce, in tono privo di inflessioni, poi aprì il volume con dita gentili, ne esaminò alcune pagine, si soffermò a scrutare quelli che erano inconfondibili simboli magici… piccole protezioni efficaci anche contro i vermi della carta, come lui notò con un percepibile sospiro eccitato… poi sollevò lo sguardo e aggiunse: «Un dono notevole e prezioso. Sei il benvenuto fra le nostre mura, ricercatore di saggezza. Come ti chiami, da quale terra provieni e cosa cerchi qui?».
«Sono Roblar di Lantan, commercio su e giù per la Costa delle Spade e di recente sono stato in Sembia per esaminare alcuni testi. Ciò che più mi interessa sono l’opera di Thelgul, I metalli vivono?, e quella di Bracetar, Annotazioni su come conservare cibi e unguenti».
Il monaco sorrise per la prima volta, cosa che parve trasformare il suo volto e diede a Nouméa l’impressione che quella non fosse un’espressione che lui assumeva spesso.
«Sii il benvenuto qui, Roblar, a patto che tratti i libri con la reverenza che meritano, evitando di danneggiarli con fuoco, umidità o pagine strappate, sottraendo così il sapere agli occhi di altri. Attraversa il cortile che vedi davanti a te, fino a quella porta verde, e fornisci il tuo nome al Custode della Porta di Smeraldo. Ti verranno dati cibo, un bagno e un alloggio dove dormire, oltre a un appuntamento con il monaco che ti accompagnerà nella tua prima visita alle sale dove sono tenuti i volumi.»
«Ti ringrazio, signore», replicò Roblar, accennando un inchino e rivolgendo a tutti i monaci un sorriso raggiante.
Essi lo invitarono con un cenno a oltrepassare le porte socchiuse, e lui si avviò attraverso il cortile assestandosi lo zaino sulla spalla, come sono soliti fare tutti i viandanti.
«Allora, Amanther?», domandò il monaco che aveva trattato con il mercante, lanciando un’occhiata ai prossimi supplici… un nutrito gruppo di cavalieri che si trovava ancora piuttosto indietro lungo la Via del Leone.
«Una maga… una femmina umana, giovane… avvolta in un eccellente incantesimo di camuffamento», replicò il monaco più alto e anziano dei cinque, con un accenno di sorriso. «Oserei dire che ha già familiarità con i libri che ha menzionato, tanto da indurmi a dubitare che abbia bisogno di consultarli ancora. Ovviamente, l’intento di quanti entrano qui sotto mentite spoglie è quello di apprendere di nascosto degli incantesimi, ma in qualche modo quella donna mi trasmette una sensazione diversa, e sarà il caso di sorvegliarla.»
Gli altri monaci annuirono.
«Thaerabho ha già risposto al tuo segnale», osservò poi uno di essi, indicando un monaco che stava attraversando con indifferenza il cortile, seguendo senza parere Roblar di Lantan verso la Porta di Smeraldo.
«Bene», sorrise un altro, sfregandosi le mani. «Un nuovo mistero da esaminare a tavola, questa notte. Scavare e spiare sono cose che non bastano mai, e servono a mantenere l’anima giovane.»
«Una lingua più accurata, Larth, direbbe invece che indagare su tutte le cose conserva la mente lucida», lo ammonì Amanther.
«Anche questo», convenne Larth, con una risatina a cui fecero eco anche gli altri monaci.
«Benissimo, allora, astuto indagatore», ribatté Amanther, indicando la nuvola di polvere in avvicinamento, punteggiata dai bagliori delle armature. «Occupati tu di questi nuovi postulanti.»
«Con molto piacere e con altrettanta umiltà», replicò allegramente Larth. «Scommetto che ci offriranno una storia di famiglia, o magari un testo genealogico o araldico della loro regione di provenienza.»
«No», obiettò un altro monaco, scrutando gli stendardi. «Io mi aspetto un’altra copia della Storia del Parsnip di Navril, insieme a un’ignota collezione locale di commedie o di massime di menestrelli, da usare come dono d’ingresso dopo che avremo rifiutato per l’ennesima” volta l’opera di Navril.»
Il coro di risate che accolse quel commento fu sentito ma fugace, perché non era conveniente che i monaci di Candlekeep avessero un atteggiamento che non fosse di grave cortesia nell’accogliere i supplici al loro arrivo.
Dall’altra parte della Corte dell’Aria, il monaco Thaerabho lanciò un’occhiata alla schiena del Lantaniano intento a parlare con il custode e si costrinse a reprimere l’impulso di fermarsi, incrociare le braccia e massaggiarsi il mento in un atteggiamento di avida anticipazione.
Quello sarebbe stato uno degli ingannatori più interessanti, poteva percepirlo.
In piedi, sorseggiando del vino, Lady Joysil Ambrur osservò i suoi servitori uscire con riluttanza. Prima di convocarli, la nobildonna aveva svuotato un’intera bottiglia di potente liquore senza effetti apparenti, e aveva poi proceduto a svuotarne una seconda in maniera più compita, riempiendo a più riprese il proprio calice. Anche se Lady Ambrur era ancora ferma vicino alla sedia ad alto schienale, dietro il tavolo, adesso un nuovo pezzo di mobilio aveva fatto la sua apparizione nella sala in base ai suoi ordini: un ampio, semplice letto dotato di morbide lenzuola, accoglienti coperte e soffici cuscini. Pur mancando di un’alta testata intagliata con il suo stemma, quello era un letto degno di lei.
Il silenzio che regnava ad Haelithorntowers si fece più profondo intorno a Lady Joysil mentre lei continuava a sorseggiare il vino, intenta a contemplare i rubini posati sul tavolo… che giacevano indisturbati nel loro piccolo ovale di polvere, sulla sola parte del tavolo che (di nuovo per suo ordine) non era stata sgombrata e spolverata.
La Signora di Haelithorntowers, che sfoggiava un lieve sorriso, aveva anche ordinato ai servi di prendersi quel giorno di libertà dai loro doveri, come pure tutta la notte successiva, trasferendosi nei lussuosi appartamenti per gli ospiti della torre più lontana della sua dimora, la Torre del Drago di Fuoco. I suoi ordini prevedevano che essi non avrebbero dovuto disturbarla o far ritorno prima dell’alba, per nessun motivo.
Dal momento che essi si erano congedati da lei con dubbiosa riluttanza, non appena erano usciti, Lady Ambrur aveva prelevato uno scettro dalla gamba cava di un particolare mobile e se ne era servita per sigillare con la magia l’unico passaggio che collegava la Torre del Drago di Fuoco con la Torre Grande.
La sala in cui lei si trovava era posta nel centro della Torre Grande, e si stava facendo sempre più buia a mano a mano che le torce si spegnevano, sebbene all’esterno la luce del giorno si stesse invece intensificando, il che la rendeva il luogo più adatto dove una stanca nobildonna potesse andare a letto da sola… cosa che Lady Ambrur procedette a fare.
Portando con sé bottiglia e bicchiere, e continuando a non manifestare il minimo segno di ebbrezza, si sedette sul bordo del letto in silenzio, con assoluta calma, conservando indosso tutto il suo vestiario, dalle babbucce adorne di gemme alla tiara scintillante e alle file di pendenti degli orecchini. Lo sguardo fisso sul tavolo, si dispose ad attendere.
Ben presto, e in maniera improvvisa, una fiammata color rubino si levò dalle gemme… e quattro uomini vestiti di nero si materializzarono sul tavolo al di sopra delle pietre, curvi in avanti e con le armi in pugno, mentre esso gemeva sotto il loro peso.
Con mosse eleganti, Joysil si mise in piedi nel centro del letto senza versare una sola goccia di vino… e contemporaneamente un soffuso chiarore fra il verde e il bianco comparve nell’aria intorno a lei, illuminando il letto, il tavolo, e quanto si trovava fra di essi.
«Salve, ignoti ospiti», salutò con fare pacato la nobildonna. «Non pensavo che il vostro padrone avrebbe atteso fino a notte. I Maghi Rossi sono così impazienti.»
I quattro uomini incappucciati e in tenuta da battaglia s’irrigidirono di fronte a quell’atteggiamento di assoluta calma, contemplando l’imperturbata nobildonna.
Alta e larga di ossatura, Lady Ambrur aveva una splendida figura ben sottolineata dall’elegante abito che indossava, e una massa spettacolare di capelli color miele leggermente ondulati le ricadeva lungo la schiena, fin sotto la vita, tingendosi verso le punte di una più cupa tonalità ramata. Gli occhi che stavano esaminando con tutta tranquillità i visitatori erano grigi come l’acciaio, appena segnati dagli anni intorno agli angoli, e lei teneva in una mano un alto calice e nell’altra una bacchetta che si era materializzata dal nulla.
Con un ringhio silenzioso, i quattro le scagliarono contro le daghe che avevano in pugno, e nel vorticare attraverso l’aria l’acciaio di quelle lame emise una serie di bagliori purpurei che rivelavano con chiarezza agli occhi di un osservatore esperto il fatto che fossero avvelenate.
La distanza non era molta, e il bersaglio non pareva intenzionato a fare il minimo movimento, ma i coltelli vorticanti svanirono quando arrivarono a una spanna di distanza da Lady Ambrur.
Un secondo più tardi, due degli uomini vestiti di nero grugnirono, sussultarono e si accasciarono in avanti, cadendo dal tavolo e fracassando una sedia sotto il loro peso nell’atterrare al suolo, dove giacquero immobili, le loro stesse daghe conficcate nella schiena. Un altro coltello passò sibilando accanto all’orecchio dell’uomo che lo aveva scagliato e tornò a dirigersi verso la nobildonna… soltanto per svanire come la volta precedente, afferrato dal loop di teletrasporto creato da Joysil, e per riapparire alle spalle del suo proprietario, nel proseguire il proprio volo con crescente lentezza.
Nessuno seguì il suo tragitto successivo, perché gli ultimi due sicari balzarono in avanti e giù dal tavolo, lanciandosi all’attacco. La sola reazione di Lady Ambrur fu quella di bere un altro sorso di vino.
Nel venire avanti, uno dei suoi assalitori estrasse lame dai punti più assortiti del proprio abbigliamento e le scagliò in una vera e propria tempesta d’acciaio, ma le daghe fendettero soltanto l’aria, cadendo rumorosamente al suolo al di là del letto, perché d’un tratto Lady Joysil non era più su di esso.
La dama riapparve accanto al tavolo, il bicchiere ancora accostato alle labbra, e attivò con freddezza la propria bacchetta magica, il cui raggio argenteo si trasformò in un’esplosione carminia nel disintegrare la testa e il cervello del sicario che non aveva ancora fatto ricorso al proprio arsenale.
Decapitato e barcollante, il cadavere privo di testa oscillò in avanti e si afflosciò sul pavimento. L’assassino superstite si girò di scatto con un ringhio… e balzò da un lato quando la bacchetta entrò ancora in funzione, rotolando lontano senza riportare danni.
Rapido e agile, scattò quindi all’attacco zigzagando di qua e di là, in modo da evitare le scariche della bacchetta, mentre correva in avanti per arrivare a portata della nobildonna…
Che svanì ancora una volta. L’assassino incappucciato non s’immobilizzò e continuò invece a correre e a schivare mentre si guardava intorno per cercarla, cosa che lo salvò dalla successiva scarica della bacchetta, che fece a pezzi un grosso vaso contenente una pianta di lingua di drago, nel momento in cui lui vi passava accanto.
La bacchetta colpì ancora, deviando con una pioggia di scintille una daga che lui aveva lanciato, ma Tasmurand l’Assassino fu pronto a scagliarne subito una seconda con una mossa rapida eseguita con tutte le sue forze.
E fu ricompensato da una scarica di scintille argentee, poi Lady Ambrur gli rivolse un cenno di approvazione e un sorriso nel lasciar cadere la bacchetta rovinata. Subito dopo abbozzò un saluto con il calice quasi vuoto… e svanì di nuovo nel nulla.
L’istante successivo riapparve su un pianerottolo dell’elegante scalone che saliva verso l’alto da un punto accanto alla tavola alta, da dove collegava la vasta sala al piano terra con una balconata che circondava l’intera camera, più in alto rispetto a dove si trovava il sicario.
«Vogliamo danzare?» chiese la dama, in tono altezzoso, dando in tutto e per tutto l’impressione di essere il cacciatore e non la preda.
Con un ringhio, Tasmurand si lanciò verso i gradini, seguendo un percorso zigzagante nell’eventualità che lei avesse tirato fuori un’altra bacchetta e riversato la sua magia sulla scala.
Lady Ambrur operò invece un incantesimo, eseguendo i gesti necessari con esagerata eleganza, come un gatto che giocasse con il topo, e riversò sul sicario una coltre di fiamma purpurea quando lui era ancora troppo lontano per poterla trapassare con un coltello.
Tasmurand emise un ruggito di paura… ma non avvertì dolore e non parve succedere nulla, tranne… tranne che la donna tornò a svanire, lasciandolo a fare irruzione su un pianerottolo vuoto. L’assassino sferzò comunque l’aria, fendendola con una rapidità derivante dall’ira.
«Sono quassù», avvertì la donna, in tono cortese, dando l’impressione di fornire indicazioni a un ospite che era anche un amico di vecchia data, e nel tornare a guardare verso l’alto. Tasmurand la vide sorridergli da sopra la ringhiera della balconata. Serrando i denti, spiccò la corsa lungo la seconda rampa di scale, perché in realtà quella era la sola cosa che poteva fare. Annaspando per l’affanno della corsa, si chiese intanto con timore cosa fosse stata quella magia purpurea e quando ne avrebbe avvertito gli effetti.
La Signora di Haelithorntowers lo osservò con calma mentre si avvicinava, rilassandosi al punto da incrociare le braccia sulla ringhiera della balconata per appoggiarsi in avanti, come una ragazza marsembana che stesse apprezzando i muscoli degli scaricatori di porto nudi fino alla cintola.
Ai suoi occhi, la magia di poco prima aveva funzionato alla perfezione, in quanto le stava indicando che il suo visitatore aveva addosso esattamente tre incantesimi: due apposti ad altrettante daghe… una alla cintura e una nello stivale destro… e il terzo dentro una fiala di metallo riposta nello stivale sinistro, quasi certamente una pozione di risanamento.
Senza fretta, Joysil Ambrur torse uno degli anelli che aveva indosso, lasciando che il suo potere ne emergesse vibrando e l’avviluppasse in uno scudo protettivo che poteva essere sentito… come un continuo e sommesso canto acuto… più che essere visto; girandosi, si sedette poi sulla ringhiera, sollevando su di essa una gamba ben modellata e appoggiandosi all’indietro sul braccio, quasi stesse cercando di allettare un corteggiatore, e gettò indietro il capo per scuotere i lunghi capelli sciolti.
Tasmurand sgranò gli occhi di fronte alla follia di quell’atteggiamento, ma non esitò né rallentò il passo. Con il respiro affannoso, arrivò in cima alle scale e spiccò la corsa lungo la balconata, sfilando le daghe dal fodero nel procedere a tutta velocità verso la sorridente dama.
Il sicario scagliò la prima lama calcolando i tempi in modo da interrompere qualsiasi incantesimo che lei stesse cercando di completare prima del suo arrivo… e vide la nobildonna gettarsi di lato senza scomporsi, lasciando che la daga le passasse accanto… e gettandosi nel vuoto!
La caduta fino al pavimento della grande sala le sarebbe stata letale, ma senza dubbio lei si sarebbe trasferita magicamente altrove prima di colpire il liscio pavimento di pietra sottostante.
Invece no! Lady Ambrur protese l’altra mano per afferrarsi al fondo della ringhiera, quasi stesse freneticamente cercando di arrestare la propria caduta, ma si servì di quell’appiglio soltanto per raddrizzarsi verticalmente nell’aria… prima di abbandonare la presa e di riprendere a cadere lentamente, fluttuando verso il basso con tanta delicatezza da non far neppure sollevare l’orlo della gonna.
Tasmurand serrò le labbra in un atteggiamento perplesso. Possibile che quella donna fosse tanto stolta da affidarsi a un incantesimo di rallentamento di caduta? Pensava forse che lui fosse già rimasto a corto di armi? E lanciò una daga mirando alla gola, in modo da essere certo di centrarla comunque in pieno alla bocca, se avesse continuato a scendere a quella velocità. La lama colpì però qualcosa d’invisibile presente nell’aria prima di raggiungere il bersaglio e rimbalzò di lato con un clangore metallico, finendo sul pavimento sottostante senza recare danno.
Ringhiando, il sicario estrasse una delle sue daghe incantate, permeata di una magia creata con un unico scopo: infrangere protezioni, incantesimi di schermatura e altre barriere del genere. Non appena l’ebbe scagliata, ne lanciò subito un’altra con la mano sinistra, in modo che non appena l’arma incantata avesse abbattuto le difese della donna, l’altra le sarebbe affondata nel petto. Adesso era solo questione di secondi, prima che lui si ritrovasse a contemplare il cadavere di un altro nobile che si era fidato eccessivamente dei suoi costosi giocattoli.
Fino a quel momento, quella donna era stata fortunata, tutto qui. Certo, era agile, e forse riponeva un po’ troppa fiducia nei suoi piccoli trucchi, così come era possibile che avesse indosso qualche altro anello permeato di una magia di qualche tipo, Tasmurand si avviò per tornare alla scala della balconata, continuando comunque a zigzagare e ad alterare l’andatura per pura abitudine. Se fosse riuscito ad arrivare giù prima di lei, avrebbe potuto staccare uno di quegli arazzi, gettarlo sotto la donna e poi strapparglielo da sotto i piedi per farla cadere, impotente sotto il proprio attacco. A quel punto sarebbe bastato un singolo colpo di daga, se solo fosse riuscito a colpire dove voleva…
L’aria fu scossa da un tremito improvviso, un rombo crescente che lo fece barcollare mentre correva e ravvivò in un’ultima fiammata intensa il bagliore delle torce prossime a spegnersi. E in quella luce intensa quanto improvvisa, un muro di scaglie di un colore fra l’argento e l’azzurro parve librarsi davanti ai suoi occhi, allargandosi verso l’alto e verso l’esterno fino a diventare…
Tasmurand l’Assassino fissò a bocca aperta il più splendido spettacolo che avesse mai visto… e che era destinato anche a essere l’ultimo.
La grande volta del salone, sopra di lui, era occupata da un drago snello e flessuoso… sempre che si potesse definire snella una creatura grande quanto un palazzo marsembano. La maggior parte della sua mole era costituita da due vaste ali simili a quelle di un pipistrello, che si allargavano a formare una grande «V» i cui lati si ripiegavano bruscamente all’indietro per saldarsi alla coda ricurva, a cui erano attaccati in tutta la loro lunghezza. Muscoli simili a quelli di un enorme gatto si mossero sotto le iridescenti scaglie fra l’azzurro e l’argenteo quando gli artigli si allargarono nell’aria e un lungo collo si protese in avanti, poi due occhi lucenti che parevano fatti di turchesi fissarono Tasmurand l’Assassino come se fossero stati in grado di vedere al di là dei suoi indumenti di cuoio, mettendolo a nudo.
Al di sopra di quegli occhi profondi e penetranti, la testa del drago si allargava all’indietro in due grandi corni, sotto i quali si estendevano due bargigli attaccati alle guance, dai quali pendeva una sorta di ispida «barba» membranosa che vibrò allorché le grandi fauci si aprirono… emettendo una grande nube di gas lucente che investì Tasmurand con tanta violenza da sollevarlo da terra e scagliarlo contro la parete. Il sicario urlò, o almeno credette di farlo, sotto l’impatto di quel gas pungente e fluttuante, solcato da vorticanti scariche di energia, gelide e tuttavia al tempo stesso roventi, che lo trapassarono più e più volte, poi avvertì l’odore della sua stessa carne che cuoceva e si anneriva, simile a quello dell’arrosto di cinghiale; l’oscurità prese a incalzarlo, i bulbi oculari gli sfrigolavano e lui si rese conto di non poter più muovere nulla… non che gli rimanessero ancora arti da muovere, in ogni caso… mentre la vista sempre più sfocata gli mostrava le sue stesse dita annerite che si sbriciolavano.
Un torso carbonizzato precipitò dalla balconata, lasciandosi alle spalle scie di fumo, e la causa della morte di colui a cui esso era appartenuto torreggiò su quei resti.
«Riferisci agli dei», disse una grande voce sibilante, rivolta a orecchi che non erano più in grado di udire nulla, «che sei stato ucciso da Ammaratha Cyndusk, un drago stolto… ma non quanto gli umani che hanno creduto di poterlo abbattere».