Libro Secondo.

L’esercito di Fistandantilus.

Mentre la banda d’uomini agli ordini di Caramon viaggiava verso sud, verso il grande regno dei nani di Thorbardin, la loro fama crebbe e così il loro numero. La favoleggiata «ricchezza sotto le montagne» era da molto tempo divenuta leggenda fra le genti sventurate e semiaffamate di Solamnia. Quell’estate avevano visto appassire e morire la maggior parte delle messi nei campi.

Micidiali malattie infestavano il paese, più temute e mortifere perfino delle selvagge bande di goblin e di orchi che erano stati cacciati dalle loro antiche terre dalla fame.

Nonostante fosse ancora autunno, il gelo dell’imminente inverno gravava nell’aria della notte.

Davanti alla desolata prospettiva di vedere i loro bambini perire a causa delle carestie o del freddo o delle malattie che i chierici di questi nuovi dei non potevano guarire, gli uomini e le donne di Solamnia ritenevano di non aver nient’altro da perdere. Abbandonavano le loro case dopo aver infagottato i propri scarsi averi, e insieme alle loro famiglie si univano all’esercito in marcia verso sud.

Dopo essersi dovuto preoccupare di nutrire una trentina di uomini, Caramon si trovò all’improvviso responsabile di parecchie centinaia d’individui, oltre alle donne e ai bambini. E ogni giorno altri affluivano al campo. Alcuni erano cavalieri, addestrati all’uso della spada e della lancia; la nobiltà traspariva perfino attraverso i loro stracci. Altri erano contadini che impugnavano le spade, messe loro in mano da Caramon, come avrebbero potuto fare con le loro zappe. Ma anch’essi avevano una sorta di severa nobiltà. Dopo aver affrontato per anni la Carestia e l’Indigenza, prepararsi ad affrontare un nemico che poteva essere ucciso o conquistato era un pensiero stimolante.

Senza rendersi conto di come fosse accaduto, Caramon si ritrovò generale di quello che adesso veniva chiamato «l’Esercito di Fistandantilus».

All’inizio ebbe tutto quello che gli serviva per procurarsi il cibo sufficiente al grande numero di uomini e delle loro famiglie. Ma i ricordi dei giorni magri della sua vita di mercenario gli ritornarono alla memoria. Dopo aver scoperto quali fra i suoi uomini erano esperti cacciatori, li mandò subito in giro a cercare selvaggina. Le donne affumicavano la carne o la essiccavano, in modo che quella che non veniva consumata subito potesse essere immagazzinata.

Molti degli uomini che si erano uniti a lui avevano portato con sé il grano e la frutta che erano riusciti a raccogliere. Caramon fece mettere insieme tutte queste provviste, ordinando che il grano venisse trasformato in farina, per poi cuocerlo e farne delle gallette, dure come la roccia ma nutrienti, che permettevano ad un esercito in marcia di sopravvivere per mesi. Perfino i bambini avevano i loro compiti, mandati a intrappolare o a cacciare con l’arco la piccola selvaggina, a pescare, ad attingere l’acqua, a tagliare la legna.

Poi Caramon dovette intraprendere l’addestramento delle reclute, insegnando loro l’uso della lancia, della spada e dello scudo... E alla fine dovette anche trovare le lance, le spade e gli scudi.

E a mano a mano che l’esercito si spostava verso sud, la voce della loro venuta si andava diffondendo.

Capitolo primo

Pax Tharkas, un monumento alla pace. Adesso era diventata un simbolo di guerra. La storia della grande fortezza di pietra di Pax Tharkas ha le sue radici in un’improbabile leggenda, la storia di una razza perduta di nani chiamata kal-thax.

Così come gli umani prediligono l’acciaio, la forgiatura di armi scintillanti, il luccichio delle monete sfavillanti; così come gli elfi prediligono i loro boschi, far sbocciare e dare alimento alla vita; così i nani prediligono la pietra, la modellatura delle ossa del mondo.

Prima dell’Era dei Sogni c’era stata l’Era del Crepuscolo quando la storia del mondo era avvolta nelle nebbie della sua alba. A quel tempo dimorava nelle grandi sale di Thorbardin una razza di nani la cui abilità nel lavorare la pietra era così perfetta e così straordinaria che il dio Reorx, Forgiatore del Mondo, la contemplò e se ne meravigliò. Sapendo nella sua saggezza che una volta raggiunta dai mortali una simile perfezione, non ci sarebbe stato null’altro nella vita per cui lottare, Reorx prese l’intera razza dei kal-thax e la portò a vivere con sé vicino alla forgia del cielo.

Rimangono pochi esempi dell’antica maestria dei kal-thax. Questi sono conservati all’interno del regno dei nani di Thorbardin, e sono stimati al di sopra di qualsiasi altra cosa. Passata l’epoca dei kal-thax, ogni nano aveva sempre coltivato per tutta la vita l’ambizione di raggiungere una simile perfezione nel lavorare la pietra, così da venir anche lui assunto in cielo e vivere accanto a Reorx.

Però, a mano a mano che il tempo passava, questo degno scopo finì per essere pervertito e contorto fino a diventare un’ossessione. Pensando e sognando soltanto la pietra, le vite dei nani erano diventate inflessibili e immutabili come la stessa materia prima della loro arte. Si rintanarono nelle profondità delle antiche gallerie sotto le montagne, evitando il mondo esterno. E il mondo esterno evitò loro.

Il tempo passò, e portò la tragica guerra fra gli elfi e gli uomini. Questa terminò con la firma del Papiro di Swordsheath e con l’esilio volontario di Kith-Kanan e dei suoi seguaci dall’antica terra natia degli elfi di Silvanesti. Secondo i termini del Papiro, agli elfi di Qualinesti (che significava «nazione libera») vennero assegnate le terre a ovest di Thorbardin perché vi fondassero la loro nuova patria.

Ciò andava bene sia agli umani che agli elfi. Sfortunatamente, per queste decisioni nessuno si era preoccupato di consultare i nani. Vedendo in quell’afflusso di elfi una minaccia al loro modo di vita sotto la montagna, i nani attaccarono. Kith-Kanan scoprì, con rincrescimento, di aver lasciato una guerra per trovarsi inguaiato subito dopo in un’altra.

Dopo molti, lunghi anni, il saggio re degli elfi riuscì a convincere gli ostinati nani che gli elfi non avevano nessun interesse per le loro pietre. Bramavano soltanto la bellezza vivente della loro selva.

Malgrado questo amore per qualcosa di mutevole e selvaggio fosse del tutto incomprensibile per i nani, alla fine essi giunsero ad accettare l’idea. Gli elfi non furono più considerati una minaccia. Le due razze, finalmente, poterono diventare amiche.

Per onorare questo accordo venne costruita Pax Tharkas. Posta a sorveglianza del passo montano fra Qualinesti e Thorbardin, la fortezza era stata eretta come un monumento alle diversità: un simbolo dell’unità e della differenza.

Nell’epoca precedente al Cataclisma, gli elfi e i nani avevano difeso insieme gli spalti di quella poderosa fortezza. Ma adesso soltanto i nani erano di sentinella sulle due alte torri, poiché quell’epoca malvagia aveva causato nuovamente una divisione fra le due razze.

Ritiratisi nelle loro terre di Qualinesti coperte di foreste, curando le ferite che li avevano spinti a cercare la solitudine, gli elfi avevano lasciato Pax Tharkas. Al sicuro dentro le loro selve, avevano chiuso i confini a tutti. Gli intrusi, che fossero umani o goblin, nani od orchi, venivano uccisi all’istante e senza domande. Duncan, re di Thorbardin, rifletteva su tutto questo mentre osservava il sole tramontare dietro le montagne, cadendo dal cielo dentro a Qualinesti. Ebbe un’improvvisa, grottesca visione degli elfi che attaccavano lo stesso sole perché aveva osato penetrare nella loro terra, e se ne uscì in una sbuffata di scherno. Be’, hanno buone ragioni per essere paranoici, si disse.

Hanno buone ragioni per tenere fuori della porta il mondo. Cos’ha fatto il mondo per loro? È entrato nelle loro terre, ha violentato le loro donne, ha assassinato i loro bambini, ha bruciato le loro case e li ha depredati delle loro provviste. E sono stati forse i goblin o gli orchi la stirpe del male? No! Duncan ringhiò selvaggiamente in mezzo alla sua barba. Erano stati quelli di cui si erano fidati, quelli che avevano accolto come amici: gli umani.

E adesso è il nostro turno, pensò Duncan, prendendo a camminare su e giù per lo spalto, con un occhio al sole al tramonto che aveva inondato il cielo di sangue. Tocca a noi adesso sbarrare le nostre porte e dire al mondo: che liberazione! Andate nell’Abisso a modo vostro, che noi ci andremo a modo nostro!

Smarrito nei suoi pensieri, divenne solo gradualmente consapevole che un’altra persona si era avvicinata e stava camminando su e giù insieme a lui; dei passi ferrati tenevano il tempo con i suoi.

Il nuovo nano era di una testa e di una spalla più alto di Duncan e, con le sue lunghe gambe, avrebbe potuto far un solo passo, invece dei due del suo re. Ma aveva, per rispetto, scorciato i suoi passi per uguagliare quelli del suo sovrano.

Duncan corrugò la fronte, sentendosi a disagio. In qualunque altro momento avrebbe accolto con gioia la compagnia di quella persona. Adesso, gli si manifestava invece come un cattivo presagio.

Proiettava un’ombra sui suoi pensieri, così come il sole calante faceva allungare le gelide ombre delle vette montagnose a stendere le loro dita verso Pax Tharkas.

«Proteggeranno bene la nostra frontiera occidentale,» disse Duncan, aprendo la conversazione, con lo sguardo alla frontiera con Qualinesti.

«Già, thane,» rispose l’altro nano, e Duncan gli lanciò un’occhiata tagliente da sotto le folte sopracciglia grigie. Malgrado il nano più alto avesse pronunciato quelle parole mostrandosi in accordo con il suo re, c’era stata una riservatezza e una freddezza, nella sua voce, che indicava la sua disapprovazione.

Sbuffando per l’irritazione, Duncan si girò di scatto interrompendo il suo andirivieni, e puntando nell’opposta direzione ebbe la divertita soddisfazione di cogliere di sorpresa il nano che l’affiancava.

Ma il nano più alto, invece d’inciampare o di voltarsi e raggiungere il suo re, si limitò semplicemente a fermarsi e rimase là a guardare con tristezza da sopra gli spalti di Pax Tharkas le oltrestanti terre degli elfi adesso in ombra.

Irritato, Duncan prima prese in considerazione la possibilità, semplicemente, di proseguire senza il suo compagno, poi si fermò per concedere al nano più alto la possibilità di raggiungerlo. Ma il nano più alto non fece nessun movimento, quindi, alla fine, con un’espressione esasperata, Duncan si girò e tornò indietro pestando i piedi.

«Per la barba di Reorx, Kharas,» sbuffò rumorosamente, «cosa c’è?»

«Credo che dovresti incontrare Fireforge,» replicò Kharas, misurando le parole, gli occhi rivolti al cielo che adesso stava diventando d’un cupo purpureo. Molto in alto, una stella solitaria sfavillava nel buio.

«Non ho niente da dirgli,» dichiarò Duncan, secco.

«Il thane è saggio.» Kharas pronunciò le parole rituali con un inchino, ma l’accompagnò con un profondo sospiro, stringendo le mani dietro la schiena.

Duncan esplose. «Quello che vuoi dire è “Il thane è un somaro”!» Il re diede una gomitata nel braccio a Kharas. «Non è più vicino al segno?»

Kharas girò la testa, sorridendo, accarezzandosi le seriche trecce della lunga barba riccioluta che luccicava al bagliore delle torce appese alle pareti. Fece per rispondere, ma l’aria si riempì all’improvviso di rumori: tonfi di stivali, sbattere di piedi, un richiamo di voci, lo sferragliare delle asce contro l’acciaio. Il cambio della guardia. Capitani che urlavano ordini, uomini che lasciavano le loro posizioni, altri che prendevano il loro posto. Kharas, osservando tutto questo in silenzio, lo usò come un fondale significativo per la sua dichiarazione, quando alla fine parlò.

«Credo che dovresti ascoltare quello che deve dirti, thane Duncan,» disse Kharas in tutta semplicità.

«Corre voce che tu stia incitando i tuoi cugini alla guerra.»

«Io!» ruggì Duncan infuriato. «Io, incitarli alla guerra! Sono loro ad essersi messi in marcia: stanno sciamando fuori dalle loro colline come sorci! Sono stati loro a lasciare la montagna. Noi non gli abbiamo mai chiesto di lasciare la loro casa ancestrale! Ma no, nel loro orgoglio testardo...»

Continuò a bofonchiare, elencando una lunga storia di torti, sia veri sia immaginati. Kharas lo lasciò parlare, aspettando con pazienza fino a quando Duncan non ebbe sfogato la maggior parte della sua rabbia.

Poi il nano più alto disse con pazienza: «Non ti costerà niente ascoltare, thane, e col tempo potrebbe esserci di grande vantaggio. Altri occhi, diversi da quelli dei nostri cugini, ci stanno osservando, di questo puoi esser certo.»

Duncan ringhiò, ma rimase silenzioso, riflettendo. Contrariamente a ciò che aveva accusato Kharas di pensare, re Duncan non era un nano stupido. Né Kharas in verità lo giudicava tale. Al contrario.

Duncan era uno dei sette thane che regnavano sui sette clan del regno dei nani, ed era riuscito a far alleare gli altri thanati sotto la sua guida, dando ai nani di Thorbardin un re, per la prima volta dopo secoli. Perfino i Dewar avevano riconosciuto in Duncan il loro capo, seppure con riluttanza.

I Dewar, i cosiddetti «nani scuri», abitavano molto in profondità nel sottosuolo, in caverne fiocamente illuminate e fetide, nelle quali perfino i nani della montagna di Thorbardin, che passavano la maggior parte della loro vita sottoterra, esitavano ad entrare. Molto tempo addietro una traccia di follia si era manifestata in quel particolare clan, inducendo gli altri a tenersi lontani da loro. Adesso, dopo secoli di unioni fra consanguinei imposte loro dall’isolamento, la follia era più accentuata, e quei pochi giudicati sani costituivano un gruppo cupo e amareggiato.

Ma servivano anche loro. Facili alla rabbia, feroci uccisori che godevano nell’uccidere. Formavano una porzione preziosa dell’esercito del thane. Duncan li trattava bene proprio per questo motivo, e anche perché, in fondo, era un nano gentile e giusto. Ma era abbastanza intelligente da non voltar mai loro le spalle.

Allo stesso modo Duncan era abbastanza intelligente da saper apprezzare la saggezza delle parole di Kharas. «Altri occhi ci stanno osservando.» Questo era vero. Lanciò un’occhiata verso occidente.

Questa volta era un’occhiata piena di circospezione. Gli elfi non volevano nessun guaio, di questo si sentiva sicuro. Nondimeno, se gli elfi avessero pensato che i nani avevano in mente di provocare una guerra, avrebbero agito molto in fretta per proteggere la loro terra. Voltandosi, guardò verso nord. Correva voce che gli uomini delle pianure di Abanasinia stessero prendendo in considerazione un’alleanza con i nani delle colline, ai quali avevano permesso di accamparsi sulle loro terre. In effetti, per quello che Duncan ne sapeva, quell’alleanza poteva già essere stata conclusa. Se avesse parlato a questo nano delle colline, Fireforge, avrebbe quanto meno potuto scoprirlo.

E, per di più, c’erano voci ancora più tenebrose... voci di un esercito in marcia dalle terre devastate di Solamnia, un esercito condotto da un potente stregone vestito di nero...

«Molto bene!» Re Duncan ringhiò con malagrazia. «Hai vinto un’altra volta, Kharas. Di’ al nano delle colline che lo incontrerò nella Sala dei thane al prossimo turno di guardia. Vedi se riesci a pescare qualche rappresentante degli altri thane. Giocheremo a carte scoperte, come tu raccomandi di fare.»

Kharas s’inchinò sorridendo, la lunga barba quasi spazzò la punta dei suoi stivali. Duncan si girò con un cenno imbronciato del capo e scese di sotto con passo pesante, i tonfi dei suoi stivali sottolineavano la misura della sua scontentezza. Gli altri nani di sentinella lungo gli spalti s’inchinarono al passaggio del loro re ma tornarono quasi subito ai loro posti. I nani sono gente indipendente, fedeli per prima cosa al loro clan e poi a chiunque altro. Malgrado tutti rispettassero Duncan, non lo riverivano, e lui lo sapeva. Mantenere la sua posizione era una lotta quotidiana.

Le conversazioni, brevemente interrotte al passaggio del re, ripresero quasi subito. Quei nani sapevano che la guerra era imminente e in realtà erano impazienti di combatterla. Sentendo le loro voci profonde, ascoltando i loro discorsi di battaglie e di combattimenti, Kharas dette in un altro sospiro.

Voltandosi nella direzione opposta, si mosse per andare a cercare le delegazioni dei nani delle colline, con il cuore pesante quasi quanto l’enorme martello da guerra che portava con sé, un martello che pochissimi altri nani potevano anche soltanto sollevare. Anche Kharas sentiva che la guerra era imminente. Provava quello che aveva provato un tempo quando, da bambino, aveva viaggiato fino alla città di Tharsis e si era fermato sulla spiaggia a osservare con stupore le onde che si abbattevano sulla sponda. Che la guerra fosse imminente pareva inevitabile e inarrestabile come le onde medesime. Ma era deciso a fare quello che poteva per cercare d’impedirlo.

Kharas non faceva alcun segreto del suo odio per la guerra e sosteneva sempre con forza le ragioni della pace. Molti fra i nani trovavano la cosa molto strana, poiché Kharas era l’eroe riconosciuto della sua razza. Quand’era ancora un giovane nano, all’epoca che aveva preceduto il Cataclisma, era stato fra quelli che avevano combattuto le legioni dei goblin e degli orchi durante le Grandi Guerre dei Goblin fomentate dal Gran Sacerdote di Istar.

A quei tempi regnava ancora la fiducia reciproca fra le razze. I nani, alleati dei Cavalieri, erano andati in loro soccorso quando i goblin avevano invaso Solamnia. I nani e i Cavalieri avevano combattuto fianco a fianco, e il giovane Kharas era rimasto profondamente colpito dal Codice e dalla Misura cavallereschi. E i Cavalieri, a loro volta, erano rimasti colpiti dall’abilità di combattente del giovane nano.

Più alto e più forte di chiunque altro della sua razza, Kharas brandiva un enorme martello che si era fatto da sé (con l’aiuto del dio Reorx, diceva la leggenda) e innumerevoli volte aveva difeso da solo il campo di battaglia fino a quando i suoi non avevano potuto giungere in soccorso per cacciare gli invasori.

Per il suo valore i Cavalieri l’avevano premiato con il nome di «Kharas», che significava «cavaliere» nella loro lingua. Non c’era onore più grande che potessero conferire a un estraneo.

Quando Kharas era tornato a casa aveva scoperto che la sua fama si era diffusa. Avrebbe potuto diventare il capo militare dei nani; anzi, avrebbe potuto diventare anche il loro re, ma non aveva nessuna ambizione del genere. Era stato uno dei più energici sostenitori di Duncan, e molti infatti erano convinti che Duncan dovesse a Kharas la sua ascesa al potere nel suo clan. Ma, se era così, questo fatto non aveva avvelenato il loro rapporto. Il nano più anziano e l’eroe più giovane erano diventati amici intimi: il senso pratico di Duncan, duro come la pietra, aveva tenuto saldamente ancorato a terra l’idealismo di Kharas.

E poi c’era stato il Cataclisma. In quei primi, terribili anni che avevano seguito la frantumazione del paese, il coraggio di Kharas aveva brillato come esempio per il suo popolo sventurato. Era stato suo il discorso che aveva indotto i thane ad unirsi e ad eleggere re Duncan. I Dewar si fidavano di Kharas pur non fidandosi di nessun altro. Grazie a quell’unificazione, i nani erano sopravvissuti ed erano perfino riusciti a prosperare.

Adesso Kharas era nel fiore della vita. Era stato sposato una volta, ma la sua amata moglie era perita durante il Cataclisma, e i nani, quando si sposavano, lo facevano una volta per tutta la vita.

Non ci sarebbero stati figli che avrebbero portato il suo nome, per la qual cosa Kharas, contemplando il cupo futuro che prevedeva per il mondo, provava quasi gratitudine.

«Reghar Fireforge, dei nani delle colline, e il suo seguito.»

L’araldo pronunciò il nome picchiando l’estremità della sua lancia da cerimonia sul duro pavimento di granito. I nani delle colline entrarono avanzando con passo orgoglioso fino al trono su cui sedeva Duncan, in quella che adesso veniva chiamata la Sala dei thane nella fortezza di Pax Tharkas.

Dietro di lui, su scranni più bassi, che erano stati trascinati là dentro in fretta e furia per la circostanza, sedevano i sei rappresentanti degli altri clan in funzione di testimoni per i loro thane.

Sarebbero stati soltanto testimoni incaricati di riferire ai loro thane quello che era stato detto o fatto.

Dal momento che era tempo di guerra, tutta l’autorità era affidata a Duncan. (Per lo meno, quel tanto che poteva rivendicare.)

In realtà, i testimoni non erano nulla di più che capitani delle loro rispettive divisioni. Anche se avrebbe dovuto essere una singola unità costituita collettivamente da tutti i nani di ogni singolo clan, l’esercito era, nondimeno, un coacervo dei vari clan: ogni clan forniva le proprie unità con i propri capi; il contingente di ogni clan viveva separato e in disparte dagli altri. I combattimenti fra i clan non erano insoliti, c’erano faide che duravano ormai da parecchie generazioni. Duncan aveva fatto del suo meglio per tener tappati i coperchi di quei calderoni in ebollizione ma, di tanto in tanto, la pressione aumentava troppo e qualche coperchio saltava via.

Però adesso, dovendo affrontare un nemico comune, i clan erano uniti. Perfino il rappresentante dei Dewar, un capitano dalla faccia sporca e i vestiti stracciati chiamato Argat che portava la barba intrecciata e annodata alla maniera dei barbari, e che durante tutta la procedura si divertì a lanciare abilmente in aria il pugnale e ad agguantarlo quando cadeva giù, ascoltò quanto venne detto con qualcosa di meno della solita aria di beffardo disprezzo.

Inoltre c’era il capitano di uno squadrone di nani dei fossi. Conosciuto col nome di Grangug, era là soltanto per la cortesia di Duncan. Il termine «gug» significava «privato» nella lingua dei nani dei fossi, e quel nano perciò non era altro che un «gran privato», un rango considerato risibile nel resto dell’esercito. Ma fra i nani dei fossi era considerato un grande onore, e il Grangug era assai riverito dalla maggior parte delle sue truppe. Duncan, nella sua sagacia, era sempre stato immancabilmente cortese nei confronti del Grangug e si era perciò conquistato la sua eterna fedeltà. Anche se c’erano molti che lo consideravano più un ostacolo che un aiuto, Duncan rispondeva che non si poteva mai sapere quando elementi del genere potevano diventare utili.

E così anche il Grangug si trovava in quel consesso, pur se era visibile a pochi. Gli era stata assegnata una sedia in un angolo buio e gli era stato detto di starsene seduto immobile senza parlare, istruzioni che aveva seguito alla lettera. Infatti, due giorni dopo, quando qualcuno si ricordò di lui e venne a toglierlo da lì, era ancora seduto su quella sedia.

«I nani sono nani» era un detto diffuso tra il popolino dell’intero Krynn, quando qualcuno tentava di far differenza tra i nani delle colline e quelli delle montagne.

Ma c’erano differenze, enormi differenze secondo la mentalità dei nani, anche se queste potevano non risaltare all’occhio d’un osservatore esterno. Cosa strana, ma né gli elfi né i nani lo avrebbero mai ammesso, i nani delle colline avevano lasciato l’antico regno di Thorbardin per molte delle stesse ragioni che avevano indotto gli elfi di Qualinesti a lasciare la loro tradizionale terra di Silvanesti. I nani di Thorbardin conducevano una vita rigida, altamente organizzata. Tutti, sia maschi che femmine, conoscevano il proprio posto nell’ambito del proprio clan. Il matrimonio fra membri di clan diversi era qualcosa d’inaudito; la fedeltà al clan era la forza che legava la vita di ogni nano. I contatti con il mondo esterno venivano evitati: la peggiore punizione che si poteva infliggere a un nano era l’esilio; perfino la condanna a morte veniva giudicata più misericordiosa. Il concetto di vita idilliaca per un nano consisteva nel nascere, crescere e morire senza mai ficcare una volta il proprio naso fuori dalle porte di Thorbardin.

Sfortunatamente questo era, o lo era stato in passato, soltanto un sogno. Chiamati in continuazione alle guerre per difendere i loro averi, i nani erano stati costretti a mescolarsi con il mondo esterno.

E, se non c’erano guerre, c’era sempre chi richiedeva l’abilità dei nani nelle opere di costruzione ed era disposto a pagare enormi somme pur di ottenerla. La bellissima città di Palanthas era stata costruita con grande amore da un vero e proprio esercito di nani, come lo erano state molte altre città di Krynn. Così era venuta a crearsi una razza di nani liberi, indipendenti e cosmopoliti. Questi parlavano di matrimoni misti fra i clan, parlavano con disinvoltura di rapporti commerciali con gli umani e con gli elfi. Ed esprimevano addirittura il desiderio di vivere all’aria aperta. E, cosa più orrenda di tutte, esprimevano la convinzione che altre cose nella vita potevano avere più importanza della lavorazione della pietra.

Ciò, naturalmente, era visto dai nani più rigorosi come una diretta minaccia alla società stessa dei nani, così, inevitabilmente, c’era stata una scissione. I nani indipendenti avevano lasciato le loro case sotto la montagna di Thorbardin. Il commiato non era avvenuto pacificamente. C’erano state parole dure da entrambe le parti. Allora erano cominciate faide che sarebbero durate centinaia d’anni. Quelli che se n’erano andati si erano rifugiati fra le colline dove, anche se la vita non era tutto quello che avevano sperato, per lo meno era libera: potevano sposare chi volevano, andare e venire come volevano, guadagnare i propri soldi. I nani rimasti a Thorbardin si limitarono semplicemente a serrare i ranghi e a diventare ancora più rigorosi, sempre che fosse possibile.

Adesso, mentre si valutavano a vicenda, i due nani che si fronteggiavano stavano pensando proprio a questo. E inoltre, forse pensavano che quello era un momento storico, la prima volta dopo secoli che le due parti s’incontravano.

Reghar Fireforge era il più vecchio dei due, uno dei membri al vertice del più forte clan dei nani delle colline. Malgrado fosse prossimo al suo Duecentesimo Anno del Dono della Vita, il vecchio nano era ancora robusto e vigoroso. Proveniva da un clan di antichissima data. Ma lo stesso non si poteva dire dei suoi figli. La loro madre era morta a causa di un cuore debole e la stessa malattia pareva perseguitare la famiglia. Reghar si era trovato a dover seppellire il proprio figlio più anziano e già poteva vedere i sintomi di una morte prematura in un altro suo figlio, adesso il maggiore, un giovane di settantacinque anni, sposatosi da poco.

Vestito di pellicce e di altre pelli di animale, con lo stesso aspetto barbaro (anche se più pulito) del Dewar, Reghar si teneva eretto con i piedi ampiamente discosti e teneva fissi su Duncan i suoi occhi duri come la roccia che luccicavano da sotto un paio di sopracciglia così folte che erano in molti a chiedersi come il vecchio nano riuscisse ancora a vedere. I suoi capelli erano grigi come il ferro, e così la barba che portava intrecciata, pettinata e rimboccata dentro la cintura alla maniera dei nani delle colline. Fiancheggiato da una scorta dei nani delle colline, tutti vestiti pressoché alla stessa maniera, il vecchio nano faceva un notevole effetto.

Re Duncan replicò allo sguardo di Reghar senza titubare: quel duello di sguardi era un’antica pratica dei nani e, se i contendenti erano particolarmente cocciuti, poteva perfino accadere che entrambi i nani finissero per crollare a terra esausti a meno che un terzo partito neutrale non intervenisse a farli smettere.

Duncan, mentre fissava Reghar con espressione cupa, cominciò ad accarezzarsi la serica barba riccioluta che gli scorreva libera sull’ampio stomaco. Era un segno di disprezzo, e Reghar, accorgendosene senza ammettere di essersene accorto, s’imporporò per la collera.

I sei membri dei clan sedevano stoicamente sui loro scranni, pronti a una lunga seduta. Quelli della scorta di Reghar allargarono le gambe e appuntarono gli sguardi sul nulla. Il Dewar continuò a lanciare in aria il suo coltello, con fastidio di tutti. Il Grangug sedeva nel suo angolo, del tutto dimenticato se non per il suo fetore di nano dei fossi che pervadeva il gelo della stanza. Pareva probabile, a giudicare dalla situazione, che Pax Tharkas si sarebbe sbriciolata per l’età intorno a loro prima che qualcuno dicesse anche una sola parola. Alla fine, con un sospiro, Kharas venne avanti fermandosi fra Reghar e Duncan. Adesso che la loro linea visuale era stata interrotta, ognuno dei due contendenti poteva abbassare lo sguardo senza perdere la propria dignità.

Dopo aver rivolto un inchino al proprio re, Kharas si voltò e, con profondo rispetto, fece altrettanto con Reghar. Poi si ritirò. Adesso entrambe le parti erano libere di parlare da eguali, anche se ciascuna parte aveva, in privato, la propria idea su quella che era l’uguaglianza.

«Ti ho concesso udienza,» dichiarò Duncan, dando inizio al colloquio con quella formale cortesia che, fra i nani, non durava mai a lungo, «Reghar Fireforge, per ascoltare cosa abbia indotto i nostri affini a intraprendere un viaggio fino a un regno che hanno scelto di abbandonare tanto tempo fa.»

«Ed è stato un bel giorno quello in cui ci siamo tolti dai piedi la polvere di questa antica tomba ammuffita,» ringhiò Reghar, «per vivere all’aperto come persone oneste, invece di stare nascosti sotto la roccia come le lucertole.»

Reghar si accarezzò la barba intrecciata, Duncan fece altrettanto con la propria. Entrambi si fissarono incolleriti. Quelli della scorta di Reghar mossero la testa, pensando che il loro capo se l’era cavata meglio in quel primo scontro verbale.

«Allora perché mai degli uomini onesti sono tornati all’antica tomba ammuffita, se non per venirvi come ladri di tombe?» chiese Duncan in tono secco, lasciandosi andare contro lo schienale con aria compiaciuta.

Un mormorio di approvazione si levò dai sei nani delle montagne. Era chiaro che pensavano che il loro thane avesse segnato un punto a suo favore.

Reghar arrossì. «L’uomo che si riprende ciò che prima gli è stato rubato è forse un ladro?» volle sapere.

«Non riesco a capire il motivo della tua domanda,» replicò Duncan con calma, «dal momento che non avete nulla di prezioso che qualcuno possa volervi rubare. Corre voce che perfino i kender evitino la vostra terra.»

Una risata di apprezzamento si levò dai nani della montagna, mentre quelli delle colline fremettero letteralmente di rabbia poiché quello era stato un insulto mortale. Kharas sospirò.

«Ti dirò io cosa vuol dire rubare!» ringhiò Reghar, con la barba che gli tremava per il furore. «I contratti, ecco cosa avete rubato! Facendo prezzi inferiori ai nostri, lavorando in perdita per toglierci il pane di bocca! E ci sono state incursioni nelle nostre terre, per rubarci il grano e il bestiame! Abbiamo sentito le storie sulle ricchezze che avete ammassato e siamo venuti a rivendicare ciò che ci appartiene di diritto! Niente di più, niente di meno!»

«Menzogne!» gridò Duncan, balzando in piedi in preda al furore. «Tutte menzogne! Qualunque ricchezza si trovi sotto la montagna, abbiamo lavorato col nostro onesto sudore per guadagnarcela! E voi tornate qui come ragazzini spendaccioni, piagnucolando, dicendo che avete la pancia vuota dopo aver sprecato le vostre giornate a divertirvi quando avreste dovuto lavorare!» Fece un gesto insultante. «Avete perfino l’aspetto dei mendicanti!»

«Mendicanti, vero?» ruggì Reghar a sua volta, la sua faccia era diventata d’un purpureo ancora più scuro. «No, per la barba di Reorx! Se stessi morendo di fame e tu mi offrissi una crosta di pane, ti sputerei sulle scarpe! Prova a negare che state fortificando questo posto, praticamente sui nostri confini! Prova a negare che avete aizzato gli elfi contro di noi, inducendoli a interrompere i loro commerci! Mendicanti? No! Per la barba di Reorx, la sua forgia e il suo maglio, torneremo, ma quando lo faremo sarà da conquistatori! Avremo ciò che ci appartiene di diritto e vi daremo una bella lezione, per giunta!»

«Verrete, da quei codardi e frignoni che siete,» rispose Duncan, sarcastico, «nascondendovi dietro le sottane di uno stregone dalle Vesti Nere e agli scudi sfolgoranti dei guerrieri umani bramosi di bottino! Vi pugnaleranno alla schiena e poi spoglieranno i vostri cadaveri!»

«Dovresti intendertene più di chiunque altro, quando si tratta di spogliare i cadaveri!» urlò Reghar.

«Avete spogliato i nostri per anni!»

I sei membri dei clan balzarono fuori dalle loro sedie, e la scorta di Reghar scattò in avanti. La risata acuta del Dewar si levò al di sopra di quel tuonare di urla e di minacce. Il Grangug era rannicchiato nel suo angolo con la bocca spalancata.

La guerra avrebbe potuto cominciare in quello stesso istante se Kharas non si fosse precipitato fra le due parti, con la sua alta figura che torreggiava su tutti. A gomitate e a spintoni costrinse le due parti ad arretrare. Però, anche dopo che i due gruppi furono separati, continuarono a levarsi grida di derisione e qualche occasionale insulto. Ma, ad una severa occhiata di Kharas, questi cessarono e ben presto tutti piombarono in un silenzio scontroso e imbronciato.

Kharas parlò. La sua voce profonda suonò burbera e colma di tristezza. «Molto tempo addietro, ho pregato gli dei di concedermi la forza di combattere l’ingiustizia e il male che infestano il mondo. Reorx rispose alle mie preghiere concedendomi il permesso di usare la sua forgia e là, sulla forgia del dio medesimo, feci questo martello. Da allora, il mio martello ha sfolgorato in battaglia lottando contro le creature malvagie di questo mondo e proteggendo la mia patria, la patria della mia gente. Adesso, tu, mio re, mi chiedi di scendere in guerra contro i miei consanguinei? E voi, miei consanguinei, minaccereste di portare la guerra nella nostra terra? E a questo che vi stanno conducendo le vostre parole... che io debba usare questo martello contro il mio stesso sangue?»

Nessuna delle due parti parlò. I componenti di entrambe si guardarono con ferocia da sotto le sopracciglia cespugliose, e tutte e due le parti parvero vergognarsi un po’. Il sincero discorso di Kharas aveva toccato il cuore di molti. Soltanto due l’avevano ascoltato impassibili. Entrambi erano vecchi, entrambi avevano perduto da molto tempo ogni illusione, entrambi sapevano che quella spaccatura era diventata troppo ampia per venir colmata dalle parole. Ma il gesto era stato fatto.

«Ecco la mia offerta, Duncan, re di Thorbardin,» disse Reghar, respirando affannosamente. «Ritira i tuoi uomini da questa fortezza. Consegna a noi e ai nostri alleati umani Pax Tharkas e le terre che la circondano. Dà a noi metà del tesoro sotto la montagna, la metà che ci appartiene di diritto, e permetti a quelli di noi che dovessero scegliere di farlo di tornare alla sicurezza della montagna, se il male dovesse diffondersi in queste terre. Persuadi gli elfi a togliere le loro barriere commerciali, e dividi con noi al cinquanta per cento tutti i contratti per i lavori di costruzione.

«In cambio noi coltiveremo le terre intorno a Thorbardin e vi venderemo i nostri raccolti a una somma inferiore a quella che costa a voi coltivarli nel sottosuolo. Vi aiuteremo a proteggere i vostri confini e la montagna stessa se ce ne dovesse esser bisogno.»

Kharas rivolse al suo signore un’occhiata implorante, pregandolo di valutare la proposta, o per lo meno di negoziarla. Ma Duncan, lo mostrò subito, non era disposto ad ascoltar ragione.

«Fuori di qui!» ringhiò. «Tornatevene dal vostro stregone dalle vesti nere! Tornatevene dai vostri amici umani! Vediamo se il vostro stregone sarà abbastanza potente da abbattere le mura di questa fortezza, oppure da sradicare le pietre della nostra montagna. Vediamo per quanto tempo i vostri amici umani rimarranno amici quando i venti dell’inverno turbineranno intorno ai fuochi dei campi e il loro sangue gocciolerà nella neve!»

Reghar rivolse a Duncan un’ultima occhiata, colma di un’avversione e di un odio così intensi che avrebbe potuto esser benissimo un pugno. Poi, girando sui tacchi, fece segno ai suoi di seguirlo.

Uscirono a grandi passi dalla Sala dei thane e da Pax Tharkas.

La notizia si diffuse fulmineamente. Quando i nani delle colline furono pronti a partire, gli spalti si erano riempiti di nani della montagna che urlavano e fischiavano, beffeggiandoli. Reghar e il suo seguito si allontanarono in groppa ai loro destrieri, con i volti severi e truci, senza voltarsi una sola volta per guardare alle loro spalle.

Nel frattempo Kharas era rimasto nella Sala dei thane, solo con il suo re (e il dimenticato Grangug).

Tutti e sei i testimoni avevano fatto ritorno ai loro clan, per informarli. Quella notte vennero spillati barili di birra nonché della potente bevanda conosciuta come «spirito dei nani», per festeggiare. Già si potevano udire i canti e le rauche risate echeggiare attraverso tutto quel grande monumento di pietra eretto alla pace.

«Cosa ci sarebbe costato negoziare, thane?» chiese Kharas, con voce colma di dolore.

Duncan fissò il nano più alto di lui e scosse la testa. D’un tratto la sua rabbia improvvisa pareva essersi dileguata. La sua barba ingrigita gli sfregò le vesti da cerimonia. Rientrava nei suoi diritti rifiutarsi di rispondere a una domanda così impertinente. In verità nessuno, eccettuato Kharas, avrebbe avuto il coraggio di mettere anche soltanto in discussione la decisione di Duncan.

«Kharas,» rispose Duncan, appoggiando con affetto la mano sul braccio del suo amico, «dimmi, c’è un tesoro sotto la montagna? Abbiamo derubato i nostri consanguinei? Deprediamo le loro terre, o le terre degli umani, se è per questo? Le loro accuse sono giuste?»

«No!» esclamò Kharas, incontrando con fermezza lo sguardo del suo sovrano.

Duncan sospirò. «Hai visto i raccolti. Sai che quei pochi soldi che rimangono nel tesoro verranno spesi per fare tutte le provviste possibili per quest’inverno.»

«Dillo a loro!» esclamò Kharas con foga. «Di’ loro la verità, Non sono dei mostri. Sono nostri consanguinei. Capiranno...»

Duncan dette in un sorriso triste e stanco. «No, non sono dei mostri. Ma, quel che è peggio, è che sono diventati come tanti bambini.» Scrollò le spalle. «Oh, potremmo dirgli la verità, perfino fargliela vedere. Ma non crederebbero ai loro occhi. Perché? Perché vogliono credere altrimenti!»

Kharas si accigliò, ma Duncan continuò pazientemente: «Vogliono crederlo, amico mio. Anzi, di più, devono credere. È la loro sola speranza di sopravvivenza. Non hanno niente... niente, salvo quella sola speranza. E così sono disposti a combattere pur di difenderla. Li capisco.» Gli occhi del vecchio re si offuscarono per un momento, ma poi Kharas, fissandolo con stupore, si rese conto che la sua collera era stata tutta una finta, tutta una messinscena.

«Adesso possono tornare dalle loro mogli, dai loro figli affamati, e dire: “Combatteremo contro gli usurpatori! Quando vinceremo, avrete di nuovo la pancia piena.” E questo li aiuterà a dimenticare la loro fame, per un po’.»

La faccia di Kharas si contorse per l’angoscia. «Ma perché arrivare fino a tanto? Potremmo certamente dividere quel poco che...»

«Amico mio,» replicò Duncan con voce sommessa, «per il martello di Reorx, sono pronto a giurare una cosa... se accettassi i loro termini, periremmo tutti. La nostra razza cesserebbe di esistere.»

Kharas lo fissò. «Fino a questo punto?» chiese.

Duncan annuì. «Sì, fino a questo punto. Pochi lo sanno, i capi dei clan, e adesso tu. E mi devi giurare di mantenere il segreto. Il raccolto è stato disastroso. I nostri forzieri sono quasi vuoti, e adesso dobbiamo ammassare tutto quello che possiamo per pagare questa guerra. Quest’inverno saremo costretti a razionare il cibo perfino per la nostra gente. Abbiamo calcolato che, con quello che abbiamo, ce la faremo... ma a stento. Aggiungi centinaia di bocche in più...» Scosse la testa.

Kharas rifletté, poi si drizzò. I suoi occhi scuri lampeggiavano. «Se questo è vero, allora sia!» disse in tono severo. «Meglio che moriamo tutti di fame, piuttosto che morire combattendo fra noi!»

«Nobili parole, amico mio,» rispose Duncan. Il rullare dei tamburi fece vibrare la stanza e voci profonde si levarono in esaltanti canti guerreschi, più antichi delle pietre di Pax Tharkas, più antichi, forse, delle stesse ossa del mondo. «Però le nobili parole non sono commestibili, Kharas. Non le puoi bere, o avvolgere intorno ai tuoi piedi, o bruciare nel tuo focolare, o darle ai bambini che strillano perché hanno fame.»

«E i bambini che piangeranno perché i loro padri se ne andranno per non tornare mai più?» chiese Kharas, con durezza.

Duncan sollevò un sopracciglio. «Piangeranno per un mese,» disse semplicemente «poi mangeranno la sua porzione di cibo. E non era questo che lui avrebbe voluto?»

Dette queste parole, si voltò e lasciò la Sala dei thane per salire ancora una volta sugli spalti.

Mentre Duncan informava Kharas nella Sala dei thane, Reghar Fireforge e il suo gruppo stavano conducendo i loro pelosi pony delle colline, destrieri di bassa statura, fuori dalla fortezza di Pax Tharkas. Le risate e le grida di scherno dei loro consanguinei risuonavano ancora nelle loro orecchie.

Reghar non disse una sola parola per molte ore, fino a quando non furono ben lontani dalla vista delle colossali doppie torri della fortezza. Poi, quando raggiunsero un incrocio, il vecchio nano tirò le redini e fece fermare la sua cavalcatura.

Rivolgendosi al più giovane membro del gruppo, disse con voce risoluta, priva di emozioni:

«Prosegui verso nord, Darren Ironfist.» Il vecchio nano tirò fuori una logora borsa di cuoio. Vi affondò dentro la mano e tirò fuori il suo ultimo pezzo d’oro. Rimase lì a fissarlo per un lungo istante, poi lo schiacciò nelle mani dell’altro nano. «Ecco, pagati il passaggio attraverso il Mare Nuovo. Trova questo Fistandantilus e digli... e digli...»

Reghar fece una pausa, rendendosi conto dell’enormità della sua azione. Ma non aveva altra scelta.

Era già stato deciso prima della sua partenza. Accigliandosi, ringhiò: «Digli che, quando arriverà qui, troverà ad aspettarlo un esercito pronto a combattere per lui!»

Capitolo secondo.

La notte era fredda e scura sopra le terre di Solamnia. Le stelle scintillavano, in alto, in un bagliore di luci ammiccanti. Le costellazioni del Drago di Platino, Paladine e Takhisis, Regina delle Tenebre, ruotavano l’una intorno all’altra, interminabilmente, e intorno ai Piatti della Bilancia di Gilean. Ci sarebbero voluti duecento anni, o anche più, prima che queste stesse costellazioni sparissero dal cielo mentre gli dei e gli uomini guerreggiavano per Krynn.

Per ora, ognuna si accontentava di sorvegliare l’altra.

Se l’una o l’altra divinità avesse casualmente abbassato lo sguardo, lui o lei si sarebbero forse divertiti nel vedere quelli che sembravano i flebili tentativi dell’umanità di imitare la loro gloria celeste. Sulle pianure di Solamnia, fuori della città-fortezza montana di Garnet, i fuochi dei bivacchi punteggiavano la piatta prateria, rischiarando la notte sottostante, allo stesso modo in cui le stelle illuminavano quella sovrastante.

L’esercito di Fistandantilus.

Le fiamme dei bivacchi si riflettevano sugli scudi e sui pettorali, danzavano sulle lame delle spade e lampeggiavano sulle punte delle lance. Le fiamme traevano luccichii dai volti fulgidi di speranza e di ritrovato orgoglio, ardevano negli occhi scuri della gente al seguito e guizzavano alte illuminando i giochi giulivi dei bambini.

Intorno ai bivacchi c’erano gruppi di uomini in piedi o seduti, che parlavano e ridevano, mangiavano e bevevano, lustrando e controllando le proprie attrezzature. L’aria della notte era piena di battute e imprecazioni e storie stravaganti. Qua e là gli uomini si sfregavano spalle e braccia doloranti a causa degli inusitati allenamenti, dando in gemiti di dolore. Mani callose per aver maneggiato zappe e vanghe per una vita intera erano adesso coperte di vesciche dopo aver impugnato lance. Ma queste vesciche venivano accettate con una benevola scrollata di spalle.

Questi uomini potevano vedere i loro bambini giocare intorno ai fuochi dei bivacchi, sapendo che quella sera avevano mangiato, se non bene, per lo meno in quantità adeguata. Potevano guardare in faccia la propria moglie con orgoglio. Per la prima volta dopo molti anni, quegli uomini avevano una meta, uno scopo, nella loro vita.

Alcuni sapevano che quella meta avrebbe potuto benissimo essere la morte, ma quelli che lo sapevano, accettavano questo fatto e lo capivano, e decidevano comunque di continuare in quell’impresa.

«Dopotutto,» si disse Garic, quando il suo sostituto venne a dargli il cambio al posto di guardia, «la morte arriva per tutti. È meglio che un uomo la incontri alla sfolgorante luce del sole, con in pugno la spada balenante, piuttosto che lasciarsi sorprendere da essa durante la notte, oppure soffocare sotto la stretta delle sue mani immonde e malefiche.»

Il giovane - adesso era fuori servizio - tornò al suo bivacco e recuperò un folto mantello dal suo sacco a pelo. Dopo aver mandato giù in fretta e furia una scodella di stufato di coniglio s’incamminò in mezzo ai fuochi dei bivacchi.

Diretto alla periferia del campo, camminava con passo deciso, ignorando numerosi inviti ad unirsi agli amici intorno ai falò. Rifiutò con cortesia e proseguì per la sua strada.

Pochi ci fecero caso. Molti, infatti, evitavano i falò durante la notte. Le ombre erano riscaldate dai sospiri sommessi, dai mormorii e dalle dolci risate.

Garic aveva un appuntamento in mezzo alle ombre, ma non con un’amante, anche se parecchie giovani donne al campo sarebbero state più che felici di condividere la notte con quel giovane e aitante nobiluomo. Arrivato a un grosso macigno, lontano dal campo e da altre compagnie, Garic si avvolse nel mantello, si sedette e aspettò.

Non aspettò a lungo.

«Garic?» chiese una voce esitante.

«Michael!» gridò Garic, con calore, balzando in piedi. I due uomini si strinsero la mano e poi, sopraffatti dall’emozione, si abbracciarono con trasporto.

«Cugino, quest’oggi, quando ti ho visto entrare nell’accampamento in sella al tuo destriero, non riuscivo a credere ai miei occhi!» continuò Garic, stringendo energicamente la mano dell’altro giovane, timoroso che potesse svanire nel buio.

«Né io ai miei,» dichiarò Michael, senza liberarsi dalla stretta del consanguineo, e cercando di sgombrare la sua gola da un’improvvisa nota rauca. Tossendo, si sedette sul macigno e Garic fece altrettanto. Entrambi rimasero in silenzio per qualche istante, mentre si schiarivano la gola e si sforzavano di essere duri e militareschi.

«Ho quasi creduto che tu fossi un fantasma,» disse Michael, facendo un vano tentativo di ridere.

«Ci avevano detto che eri morto...» La sua voce si spense e tossì di nuovo. «Questo maledetto clima umido,» borbottò. «Ti entra in gola...»

«Sono riuscito a fuggire,» disse Garic con voce sommessa. «Ma mio padre, mia madre e mia sorella non hanno avuto altrettanta fortuna.»

«Anne?» mormorò Michael con voce addolorata.

«È morta in fretta,» spiegò Garic, quasi sussurrando, «come mia madre. Ci ha pensato mio padre, prima che la folla lo massacrasse. La cosa li ha fatti inferocire. Hanno mutilato il suo corpo...»

La voce di Garic soffocò. Michael gli strinse il braccio, partecipando al dolore del cugino. «Era un uomo di nobili sentimenti, tuo padre. E morto come un vero cavaliere, difendendo la sua casa. Una morte migliore di quella che altri dovranno affrontare,» aggiunse, cupo, inducendo Garic a scoccargli un’occhiata penetrante. «Ma qual è la tua storia? Come hai fatto a sfuggire alla plebaglia? Dove sei stato durante quest’ultimo anno?»

«Non sono fuggito,» dichiarò Garic con amarezza. «Sono arrivato quando ormai era tutto finito. Dove mi trovassi non ha importanza.» Il giovane arrossì. «Ma avrei dovuto essere con loro, per morire con loro!»

«No, tuo padre non l’avrebbe voluto.» Michael scosse la testa. «Tu sei vivo. Porterai avanti il nome.»

Garic corrugò la fronte. I suoi occhi scintillarono tenebrosi. «Forse. Anche se da allora non ho più giaciuto con nessuna donna...» Scosse la testa. «In questo caso ho potuto fare per loro soltanto quello che ho potuto. Ho incendiato il castello...»

Il respiro di Michael si fece rapido, ma Garic continuò, come se non l’avesse notato:

«In modo che la marmaglia non potesse occuparlo. Le ceneri della mia famiglia rimangono là fra le pietre annerite del maniero edificato dal mio trisavolo. Poi per un po’ ho vagato senza una meta, senza che nulla m’importasse di quello che poteva capitarmi. Alla fine ho incontrato un gruppo di uomini, molti come me, cacciati dalle loro case per varie ragioni.

«Non mi fecero nessuna domanda. Non gl’importava nulla di me, salvo il fatto che sapevo maneggiare una spada con destrezza. Mi unii a loro. E siamo vissuti di espedienti.»

«Banditi?» chiese Michael, cercando di celare una nota di sorpresa nella voce, ma a quanto pare senza riuscirci, poiché Garic gli lanciò un’occhiata tenebrosa.

«Sì, banditi,» replicò il giovane con freddezza. «La cosa ti sconvolge? Che un Cavaliere di Solamnia debba talmente dimenticarsi del Codice e della Misura al punto di unirsi a dei banditi? Ti chiedo una cosa, Michael: dov’erano il Codice e la Misura quando hanno assassinato mio padre, tuo zio? Dove sono mai, in questo disgraziato paese?»

«In nessun luogo, forse,» rispose Michael, con voce ferma, «salvo che nei nostri cuori.»

Garic rimase silenzioso. Poi cominciò a piangere, aspri singhiozzi che gli squassavano il corpo. Suo cugino lo prese tra le braccia, tenendolo stretto a sé. Garic dette in un sospiro tremante e si asciugò gli occhi col dorso della mano.

«Non ho pianto una sola volta da quando li ho incontrati,» disse con voce soffocata. «E hai ragione, cugino. Vivendo con dei furfanti, ero affondato in un baratro dal quale forse non sarei mai riuscito a fuggire, se non fosse stato per il generale...»

«Questo Caramon?»

Garic annuì. «Una notte abbiamo teso un’imboscata a lui e ai suoi. E questo mi ha aperto gli occhi.

Prima avevo sempre derubato la gente senza pensarci troppo e, talvolta, ne avevo addirittura tratto piacere. Mi dicevo che erano dei cani come quelli che avevano assassinato mio padre. Ma in quel gruppo c’erano una donna e un fruitore di magia. Lo stregone era malato. L’ho colpito e al mio tocco si è accasciato come una bambola spezzata. E la donna, sapevo cosa le avrebbero fatto e il pensiero mi disgustava. Ma avevo paura del capo, Piedacciaio lo chiamavano. Era una bestia! Un mezz’orco.

«Ma il generale lo ha sfidato. Quella notte ho visto la vera nobiltà: un uomo disposto a dare la sua vita per proteggere quella dei più deboli di lui. E ha vinto.» Garic divenne più calmo. Mentre parlava, i suoi occhi scintillavano per l’ammirazione. «Allora ho visto quello che la mia vita era diventata. Quando Caramon ci ha chiesto se volevamo seguirlo, io ho acconsentito, come ha fatto la maggior parte degli altri. Ma quello che avrebbero fatto loro non avrebbe avuto nessuna importanza, sarei andato con lui dovunque.»

«E adesso fai parte della sua guardia personale?» chiese Michael, sorridendo.

Garic annuì, arrossendo per il compiacimento. «Gli... gli ho detto che non ero meglio degli altri... che ero un bandito, un ladro. Ma lui si è limitato a guardarmi, come se potesse vedere dentro la mia anima, e ha sorriso... e ha detto che ogni uomo avrebbe dovuto attraversare una notte tenebrosa e senza stelle, in modo che quando fosse sorto il mattino, si sarebbe sentito colmo di sollievo.»

«Strano,» commentò Michael. «Chissà cos’ha voluto dire.»

«Credo di aver capito,» replicò Garic. Il suo sguardo andò al lato più lontano del campo, là dove si ergeva l’enorme tenda di Caramon; il fumo dei fuochi si arricciava intorno alla svolazzante bandiera di seta che era una striscia nera sullo sfondo delle stelle. «Talvolta mi chiedo se anche lui non stia attraversando la sua “notte tenebrosa”. Qualche volta ho visto un’espressione sulla sua faccia...»

Garic scosse la testa. «Sai,» disse all’improvviso, «che lui e lo stregone sono fratelli gemelli?»

Michael spalancò gli occhi. Garic glielo confermò con un cenno del capo. «È uno strano rapporto. Non c’è amore fra loro.»

«Una Veste Nera?» chiese Michael, sbuffando. «Immagino proprio di no! Già mi meraviglia che il mago viaggi con noi. Da quello che ho sentito dire, questi stregoni possono cavalcare i venti della notte ed evocare forze dalle tombe perché combattano per loro.»

«Questo, lui potrebbe farlo, non ne dubito,» rispose Garic, lanciando un’occhiata cupa a una tenda più piccola accanto a quella del generale. «Anche se l’ho visto praticare la sua magia soltanto una volta, quand’eravamo nell’accampamento dei banditi, so che è potente. Una sola sua occhiata, e mi sento raggrinzire lo stomaco, qui dentro, e il sangue mi diventa acqua. Ma, come ho detto, non stava bene quando li abbiamo incontrati la prima volta. Notte dopo notte, quando ancora dormiva nella tenda di suo fratello, l’ho sentito tossire al punto che pensavo che non sarebbe più riuscito a respirare. Più di una volta mi sono chiesto come sia possibile che un uomo possa vivere con un simile dolore.»

«Ma oggi, quando l’ho visto, pareva che stesse bene.»

«La sua salute è enormemente migliorata. Però non fa nulla per metterla a repentaglio. Rimane tutto il giorno nella sua tenda a studiare i libri degli incantesimi che porta con sé in quelle enormi casse. Ma anche lui sta attraversando la sua “notte tenebrosa”,» continuò Garic, «un’ombra grava su di lui, e più ci spostiamo a sud, più aumenta. È ossessionato da sogni terribili. L’ho sentito gridare nel sonno. Grida orrende, che sveglierebbero i morti.»

Michael rabbrividì, poi, sospirando, aguzzò lo sguardo in direzione della tenda di Caramon. «Avevo delle grandi perplessità a unirmi ad un esercito guidato, dicevano, da una Veste Nera. E fra tutti gli stregoni vissuti finora, si dice che questo Fistandantilus sia il più potente. Quest’oggi, quando sono arrivato, non mi ero ancora completamente impegnato ad arruolarmi. Volevo rifletterci su quanto bastava per controllare se era vero che andavano a sud ad aiutare il popolo oppresso di Abanasinia nella sua lotta contro i nani delle montagne.»

Sospirando di nuovo fece un gesto come per accarezzarsi un paio di lunghi baffi, ma la sua mano si fermò a mezz’aria. Era rasato, avendo rimosso quel secolare simbolo dei Cavalieri: un simbolo che, oggi, conduceva alla morte.

«Anche se mio padre vive ancora, Garic,» proseguì Michael «credo che sarebbe più che disposto a morire per ridare la vita a tuo padre. Il signore di Vingaard Keep ci diede una scelta: potevamo rimanere in città e morire, oppure andarcene e vivere. Mio padre avrebbe scelto di morire. E anch’io, se avessimo avuto soltanto noi stessi a cui pensare. Ma non potevamo permetterci il lusso dell’onore. Fu un giorno amaro quello in cui imballammo tutto quello che potevamo su un misero carretto, e lasciammo il maniero. Ho visto i miei congiunti sistemarsi in un orribile casolare a Throtyl. Saranno a posto, almeno per l’inverno. Mia madre è forte e fa il lavoro di un uomo. I miei fratelli più giovani sono buoni cacciatori...»

«E tuo padre?» chiese Garic con delicatezza, quando Michael smise di parlare.

«Quel giorno il suo cuore si è spezzato,» si limitò a dire Michael. «Se ne sta lì seduto con lo sguardo fisso fuori dalla finestra, con la spada sulle ginocchia. Non ha detto una parola a nessuno dal giorno che abbiamo abbandonato il maniero.»

D’un tratto Michael strinse i pugni. «Perché ti sto mentendo, Garic? Non m’importa un accidente della gente oppressa di Abanasinia! Sono venuto per cercare il tesoro... il tesoro sotto la montagna! E la gloria. La gloria per riportare la luce nei suoi occhi! Se vinceremo, i Cavalieri potranno risollevare la testa!»

Anche lui fissò la piccola tenda accanto a quella più grande, la piccola tenda che portava appeso il segno indicante la residenza di uno stregone, la piccola tenda che tutti, nel campo, evitavano se era possibile. «Ma cercare questa gloria guidati dall’uomo chiamato l’Oscuro... I Cavalieri di un tempo non avrebbero mai fatto una cosa del genere. Paladine...»

«Paladine si è dimenticato di noi,» dichiarò Garic, in tono amaro. «Siamo rimasti soli. Io non so niente di stregoni vestiti di nero, m’importa poco di quello. Rimango qui per un uomo soltanto, che sono pronto a seguire in capo al mondo: il generale. Se mi condurrà alla fortuna, tanto meglio. In caso contrario...» Garic emise un profondo sospiro. «Comunque, quell’uomo mi ha permesso di ritrovare la pace con me stesso. Potrei desiderare lo stesso per lui,» aggiunse sottovoce. Poi, alzandosi in piedi, si scrollò di dosso i tetri pensieri.

Anche Michael si alzò.

«Ora devo tornare al campo e dormire un po’. Domattina dovrò alzarmi presto,» disse Garic.

«Riprenderemo la nostra marcia entro la settimana, così ho sentito dire in giro. Bene, cugino, e tu? Rimarrai?»

Michael guardò Garic. Fissò per lunghi istanti la tenda di Caramon, la bandiera dai vivaci colori con la stella a nove punte che sbatteva nell’aria gelida. Fissò anche la piccola tenda dello stregone. Poi annuì. Garic lo gratificò di un ampio sorriso. I due si strinsero la mano con forza e fecero ritorno ai fuochi dei bivacchi, con le braccia dell’uno strette intorno a quelle dell’altro.

«Dimmi questo, però,» chiese Michael a Garic con voce sommessa mentre camminavano, «è vero che questo Caramon ha con sé una strega?»

Capitolo terzo.

«Dove stai andando?» chiese Caramon, con asprezza. Appena entrato nella sua tenda stava sbattendo le palpebre cercando di abituarsi alla penombra dopo il gelido bagliore del sole d’autunno.

«Sto andando via,» rispose Crysania, ripiegando con cura le sue bianche vesti chiericali e riponendole nella cassa che era stata sistemata sotto la sua branda. Adesso la cassa si trovava, aperta, sul pavimento accanto a lei.

«Ne avevamo già discusso,» ringhiò Caramon a bassa voce. Lanciando un’occhiata dietro di sé, verso le guardie appena fuori dell’ingresso, abbassò con cura la falda della tenda.

Per Caramon, quella tenda era motivo di orgoglio e di gioia. In origine era appartenuta ad un ricco Cavaliere di Solamnia, ed era stata portata in dono a Caramon da due giovani dal volto severo i quali, malgrado sostenessero di averla «trovata», avevano mostrato di trattarla con tanta amorevolezza e abilità che era ovvio che l’avevano trovata allo stesso modo in cui avevano «trovato» le loro braccia e le loro gambe.

Fatta di un tessuto che nessuno, più, riusciva oggi a identificare, era tessuta con tale perizia da bloccare l’ingresso del più sottile alito di vento, anche attraverso le giunture. La pioggia scorreva via senza bagnarla: Raistlin aveva affermato che era stata trattata con un olio speciale. Era grande abbastanza da contenere la branda di Caramon, parecchie grandi casse che contenevano le mappe, il denaro e i gioielli che avevano portato con sé dalla Torre della Grande Stregoneria, indumenti e armature; oltre a una branda per Crysania e una cassa per i suoi indumenti. Ma anche così, la tenda non sembrava colma, neppure quando Caramon riceveva i visitatori.

Raistlin dormiva e studiava in una tenda più piccola, di uguale modello e fatta dello stesso tessuto, piantata accanto a quella del fratello. Malgrado Caramon gli avesse offerto di condividere la tenda più grande, il mago aveva insistito per avere un ambiente tutto suo. Sapendo quanto il suo gemello avesse bisogno di solitudine e tranquillità, e non provando comunque nessun particolare piacere a trovarsi gomito a gomito con suo fratello, Caramon non aveva insistito.

Crysania, però, si era apertamente ribellata quando le era stato detto che doveva rimanere nella tenda di Caramon.

Caramon aveva ragionato invano che là dentro sarebbe stata più al sicuro. Le storie della sua «stregoneria», lo strano medaglione di un dio disprezzato che portava al collo, e il fatto stesso di aver guarito il grosso guerriero, erano tutte notizie che si erano ben presto diffuse in tutto l’accampamento, e venivano bisbigliate con foga ad ogni nuovo venuto. Tutte le volte che il chierico lasciava la sua tenda, la sua persona diventava il bersaglio di cupe occhiate. Le donne stringevano al seno i figlioletti quando Crysania si avvicinava. I bambini fuggivano alla sua vista in preda a una paura che era per metà vera e per metà derisione.

«Sono ben consapevole delle tue argomentazioni,» osservò Crysania, continuando a piegare i propri indumenti e a metterli nella cassa senza sollevare lo sguardo sull’omone. «E non li ammetto. Oh,» si affrettò a fermarlo quando lui tirò un respiro per parlare, «ho sentito le tue storie sulle streghe mandate al rogo. E più di una volta! Non dubito della loro validità, ma sono cose accadute in un’epoca e in un tempo molto lontani da questo.»

«In che tenda andrai?» chiese Caramon, arrossendo. «In quella di mio fratello?»

Crysania smise di ripiegare gli indumenti, tenendoli per lunghi istanti sul braccio e fissando l’aria davanti a sé. Il suo volto non cambiò colore. Impallidì, se era possibile, di un’altra sfumatura.

Strinse con forza le labbra. Quando rispose, la sua voce era fredda e calma come una giornata d’inverno.

«C’è un’altra piccola tenda simile alla sua. Andrò a vivere in quella. Puoi mettere una sentinella, se lo giudichi necessario.» «Crysania, mi dispiace,» disse Caramon, andando verso di lei. Crysania continuò a non guardarlo. Protendendo le mani, le afferrò delicatamente le braccia e la fece girare, costringendola a guardarlo in viso. «Non... non intendevo dire questo. Per favore, perdonami. E, sì, penso sia necessario mettere qualcuno di sentinella! Ma non c’è nessuno di cui io mi fidi, Crysania, se non di me stesso. Ma anche in questo caso...» Il suo respiro divenne più rapido, le mani sulle sue braccia si strinsero quasi impercettibilmente. «Ti amo, Crysania,» disse con voce sommessa. «Non sei come nessuna delle altre donne che ho conosciuto! Non intendevo... Non so come sia successo. Non... non mi piacevi neppure tanto, la prima volta che ti ho incontrato. Pensavo che tu fossi fredda e indifferente, tutta imbottita di quella tua religione. Ma quando ti ho visto negli artigli di quel mezz’orco, e ho conosciuto il tuo coraggio, e quando ho pensato a quello... a quello che avrebbe potuto farti...»

La sentì fremere involontariamente; quella notte le causava ancora degli incubi. Crysania cercò di replicare, ma Caramon approfittò della sua reazione per affrettarsi a proseguire:

«Ti ho visto con mio fratello. Mi ricorda com’ero ai vecchi tempi,» la sua voce divenne nostalgica,

«tu ti curi di lui con tanta tenerezza, con tanta pazienza...»

Crysania non si liberò dalla sua stretta. Rimase là, sollevando su di lui i limpidi occhi grigi, tenendo la veste bianca ripiegata stretta al petto. «Anche questa è una ragione, Caramon,» replicò con tristezza. «Ho sentito il tuo crescente affetto per me...» adesso arrossì lievemente, «... e, pur conoscendoti troppo bene per credere che tu voglia impormi delle attenzioni che io considererei sgradite, non mi sento a mio agio a dover dormire nella stessa tenda insieme a te.»

«Crysania!» cominciò a dire Caramon, il volto angosciato, le mani che gli tremavano mentre la stringeva.

«Quello che provi per me non è amore, Caramon,» replicò Crysania con voce sommessa. «Sei solo, senti la mancanza di tua moglie. E lei che ami. Lo so, ho visto la tenerezza nei tuoi occhi quando parli di Tika.»

Il volto di Caramon si rabbuiò al suono del nome di Tika.

«Cosa ne sai tu dell’amore?» le chiese d’un tratto, mollando la stretta e guardando altrove. «Amo Tika, certo. Ho amato molte donne. Anche Tika ha amato la sua parte di uomini, scommetto.» Tirò un respiro rabbioso. Non era vero, e lo sapeva. Ma alleviava il suo senso di colpa, un senso di colpa con cui aveva lottato per mesi. «Tika è umana!» proseguì imbronciato. «È carne e sangue, non un pilastro di ghiaccio!»

«Cosa io so dell’amore?» ripetè Crysania, la calma le venne meno, i suoi occhi grigi s’incupirono di collera. «Ti dirò cosa so dell’amore. Io...»

«Non dirlo!» gridò Caramon, rauco, perdendo completamente il controllo di sé e stringendola fra le braccia. «Non dire che ami Raistlin! Lui non merita il tuo amore! Ti usa proprio come ha usato me! E ti butterà via quando avrà finito!»

«Lasciami andare!» gli intimò Crysania, le guance imporporate, gli occhi d’un grigio cupo.

«Non riesci a capire?» gridò ancora Caramon, quasi scuotendola, tanta era la sua frustrazione. «Sei cieca?»

«Scusatemi se v’interrompo,» disse una voce sommessa, «ma ci sono notizie urgenti.»

Al suono di quella voce, il volto di Crysania si sbiancò, poi divenne scarlatto. Anche Caramon dette in un sobbalzo a quel suono e le sue mani lasciarono la presa. Crysania si ritrasse da lui e nella fretta inciampò sulla cassa, cadendo sui ginocchi. Il volto ben nascosto dai lunghi e morbidi capelli neri, rimase genuflessa accanto alla cassa, fingendo di mettere ordine fra le sue cose con le mani che le tremavano.

Accigliato, il volto ugualmente tinto d’un rosso acceso, Caramon si voltò per fronteggiare suo fratello.

Raistlin squadrò freddamente Caramon con gli occhi simili a specchi. Il suo volto era privo d’espressione, come non c’era stata nessuna espressione nella sua voce quando aveva parlato, nel momento in cui era entrato. Ma Caramon aveva visto, per una frazione di secondo, i suoi occhi che si crepavano. La gelosia tenebrosa e ardente che aveva visto dentro di essi lo sgomentò, colpendolo quasi come un pugno che gli fosse stato sferrato fisicamente. Ma quell’espressione era scomparsa nel medesimo istante, facendo dubitare a Caramon di averla vista veramente. Soltanto la sensazione di soffocamento e la contorsione alla bocca dello stomaco e un improvviso sapore amaro in bocca lo convinsero che c’era stata.

«Quali notizie?» ringhiò, schiarendosi la gola.

«Sono arrivati dei messaggeri dal sud,» annunciò Raistlin.

«Sì?» lo sollecitò Caramon, quando suo fratello fece una pausa.

Raistlin si fece avanti, buttando indietro il cappuccio, il suo sguardo rimase fisso su quello di suo fratello, vincolandolo a sé, rendendo più stretta la somiglianza fra loro. Per un istante la maschera del mago svanì.

«I nani di Thorbardin si stanno preparando alla guerra!» sibilò Raistlin, serrando a pugno la mano sottile. Aveva parlato con tanta, intensa passione che Caramon ammiccò più volte per lo stupore e Crysania sollevò la testa, fissandolo preoccupata.

Confuso e a disagio, Caramon si svincolò dallo sguardo febbrile di suo fratello e si voltò, fingendo di sfogliare alcune mappe sul tavolo. Infine scrollò le spalle. «Non so che altro ti aspettavi,» dichiarò con freddezza. «Dopotutto l’idea è stata tua. Parlare di una ricchezza nascosta. Non abbiamo certo tenuto segreto che è là che stiamo andando. In effetti, è diventato il nostro motto ufficiale per reclutare gente! “Unitevi a Fistandantilus e razziate la montagna!”»

Caramon l’aveva buttata là senza pensarci, ma il suo effetto fu sorprendente. Raistlin divenne livido.

Parve che stesse cercando di parlare, ma nessun suono comprensibile gli uscì dalle labbra, soltanto una schiuma chiazzata di sangue. I suoi occhi infossati balenarono come una luna su un lago ghiacciato. Sempre serrando il pugno, fece un passo verso suo fratello.

Crysania balzò in piedi. Caramon, in preda a un vivo allarme, fece un passo indietro chiudendo la mano sopra l’elsa della spada. Ma lentamente, e con visibile sforzo, Raistlin recuperò il controllo di sé. Con un ringhio feroce, si girò e uscì dalla tenda... ma la sua intensa rabbia era ancora così evidente che le sentinelle rabbrividirono quando passò accanto a loro.

Caramon rimase immobile, smarrito nella confusione e nella paura, incapace di comprendere perché suo fratello avesse reagito a quel modo. Anche Crysania seguì l’uscita di Raistlin con sguardo perplesso, fino a quando le grida fuori della tenda li ridestarono entrambi dai loro pensieri.

Scuotendo la testa, Caramon si avvicinò all’ingresso. Una volta là, fece un mezzo giro su se stesso, ma non guardò Crysania mentre parlava.

«Se ci stiamo davvero preparando alla guerra,» disse con freddezza, «non posso impegnare il mio tempo a preoccuparmi di te. Come ho già detto prima, non sarai sicura, tutta sola in una tenda. Perciò, continuerai a dormire qui. Non t’importunerò in alcun modo, puoi essere sicura. Hai la mia parola d’onore.»

Detto questo, uscì dalla tenda e cominciò a conferire con le sentinelle.

Arrossendo dalla vergogna, ma arrabbiata al punto da non riuscire a parlare, Crysania rimase per qualche istante là nella tenda, per recuperare la propria compostezza. Poi anche lei uscì. Un’occhiata ai volti delle sentinelle le fu sufficiente per rendersi conto che, malgrado lei e Caramon avessero tenuto bassa la voce, parte della loro conversazione era stata udita.

Ignorando le loro occhiate curiose e divertite, si guardò rapidamente intorno e vide uno sventolio di vesti nere scomparire nella foresta. Tornata dentro la tenda, raccolse il suo mantello, e buttandoselo rapidamente sulle spalle uscì e puntò nella stessa direzione.

Caramon vide Crysania entrare nel bosco nel punto in cui era più vicino al campo. Non aveva visto Raistlin, ma ebbe ugualmente un’idea abbastanza precisa del perché Crysania andasse in quella direzione. Fece per chiamarla. Malgrado non gli risultasse che qualche vero pericolo si annidasse nella folta foresta di pini che si stendeva alla base dei monti Garnet, visti i tempi incerti era meglio non correre rischi.

Ma, proprio mentre stava per aprire la bocca e chiamarla, vide due dei suoi uomini scambiarsi occhiate d’intesa. Caramon ebbe un’improvvisa, vivida immagine di se stesso che chiamava il chierico come un ragazzino innamorato, e strinse di colpo le mascelle. Inoltre, vide che Garic stava arrivando, seguito da un nano dall’aria affaticata e da un giovane alto dalla pelle scura, abbigliato con le pellicce e le piume di un barbaro.

Caramon capì che erano i messaggeri. Avrebbe dovuto incontrarli. Ma il suo sguardo andò ancora una volta alla foresta. Crysania era scomparsa. Caramon fu colto da una premonizione di pericolo.

Era così intensa che fu quasi sul punto di lanciarsi senza esitare al suo inseguimento attraverso gli alberi. Ogni suo istinto di guerriero gli diceva di farlo. Non poteva dare un nome alla sua paura, ma questa era là, ed era reale.

Eppure, non poteva correr via, abbandonare quegli emissari per precipitarsi all’inseguimento di una ragazza. I suoi uomini non l’avrebbero mai più rispettato. Avrebbe potuto mandare uno dei suoi uomini armati, ma ciò lo avrebbe fatto apparire altrettanto sciocco. Non c’era niente che potesse fare. Che Paladine si occupasse di lei, se era questo che lei voleva. Serrando i denti, Caramon si girò per accogliere i messaggeri e condurli nella sua tenda.

Una volta là, una volta che li avesse fatti accomodare e avesse scambiato con loro cortesie formali e senza senso, una volta che il cibo fosse stato portato e le bevande versate, si sarebbe scusato e sarebbe sgusciato via da dietro...

Orme di passi sulla sabbia che mi guidano...

Sollevando lo sguardo vedo il patibolo, la figura incappucciata con la testa sul ceppo, la figura incappucciata del boia, la lama affilata dell’ascia che luccica al sole ardente.

L’ascia cade, la testa recisa della vittima rotola sulla piattaforma di legno, il cappuccio vola via...

«La mia testa!» bisbigliò Raistlin con voce febbricitante, torcendosi le mani sottili in preda all’angoscia.

Il boia, ridendo, si toglie il cappuccio, rivelando...

«La mia faccia!» mormorò Raistlin mentre la paura gli si diffondeva per tutto il corpo come un tumore maligno, facendolo sudare e rabbrividire alternativamente. Stringendosi la testa, cercò di bandire le visioni maligne che infestavano continuamente i suoi sogni, notte dopo notte, e si attardavano turbando anche le sue ore di veglia, trasformando in cenere nella sua bocca tutto ciò che mangiava o beveva.

Ma non volevano andarsene. «Maestro del Passato e del Presente!» Raistlin scoppiò in una vuota risata: una risata amara, beffarda. «Non sono maestro di nulla! Tutta questa potenza, e sono in trappola. In trappola! Condannato a seguire le sue orme, sapendo che ogni istante che passa è già passato prima! Vedo gente che non ho mai visto, eppure la conosco! Sento l’eco delle mie parole prima ancora di pronunciarle! Questa faccia!» Si premette le guance con le mani. «Questa faccia! La sua faccia! Non la mia! Non la mia! Chi sono io? Sono il mio stesso boia!»

La sua voce divenne un lungo urlo stridulo. Colto dal parossismo, senza rendersi conto di ciò che stava facendo, Raistlin cominciò ad artigliarsi la pelle con le unghie come se la sua faccia fosse una maschera, e gli fosse possibile strapparsela dalle ossa.

«Smettila, Raistlin! Cosa stai facendo? Smettila, per favore!»

Riusciva appena a sentire la voce. Mani gentili ma ferme gli afferrarono i polsi, ma lui le respinse lottando. E, poi, la follia cessò. Le acque buie e spaventose nelle quali stava affogando retrocessero, lasciandolo calmo e prosciugato. Ancora una volta poteva vedere, sentire e ascoltare. Il volto gli bruciava. Abbassando lo sguardo, vide sangue sulle proprie unghie.

«Raistlin!» Era la voce di Crysania. Sollevò lo sguardo e la vide dritta davanti a lui che gli teneva le mani scostate dal viso. Lo fissava con occhi sgranati, pieni di preoccupazione.

«Sto bene,» disse Raistlin, in tono gelido. «Lasciami solo!» Ma, proprio mentre parlava, sospirò e tornò ad abbassare la testa, rabbrividendo quando l’orrore del sogno lo investì. Tirò fuori un fazzoletto pulito dalla tasca e cominciò a detergersi le ferite sul viso.

«No, non è vero,» mormorò Crysania, togliendogli il fazzoletto dalla mano tremante e toccandogli con delicatezza quei tagli sanguinanti. «Per favore, lasciamelo fare,» disse, mentre Raistlin ringhiava qualcosa d’inintelligibile. «So che non mi permetterai di guarirti, ma qui vicino c’è un limpido ruscello. Vieni, e bevi un po’ d’acqua, riposati e lascia che ti lavi io le ferite.»

Parole amare e taglienti erano sulle labbra di Raistlin. Sollevò una mano per respingerla. Ma poi si rese conto di non volere che lei se ne andasse. Quando Crysania era con lui, la tenebra del sogno si allontanava. Il tocco della calda pelle umana era confortante dopo le dita gelide della morte.

E così annuì con uno stanco sospiro.

Pallida in volto per l’angoscia e la preoccupazione, Crysania gli mise un braccio intorno alla vita per sostenere i suoi passi esitanti, e Raistlin si lasciò condurre attraverso la foresta, acutamente conscio del calore e del movimento del suo corpo.

Raggiunta la sponda del ruscello, l’arcimago si sedette su una grande roccia piatta, riscaldata dal sole d’autunno. Crysania intinse il fazzoletto nell’acqua e, inginocchiatasi accanto a lui, gli pulì le ferite sul viso. Le foglie morenti cadevano tutt’intorno a loro, ovattando i suoni; quelle che cadevano nel ruscello venivano trascinate via dall’acqua.

Raistlin non parlò. Il suo sguardo seguiva il percorso delle foglie, notando come ciascuna di esse, in alto, si tenesse aggrappata al ramo con le sue ultime, deboli forze, finché il vento spietato non le strappava dal loro appiglio, facendole poi turbinare nell’aria, e quindi nell’acqua: le seguiva mentre venivano portate via nell’oblio dal torrente che scorreva veloce. Guardando nell’acqua, tra le foglie vide ondeggiare il riflesso del suo viso. Vide due lunghi segni sanguinanti che gli scendevano lungo ogni guancia, vide i suoi occhi, non più simili a specchi, ma scuri e ossessionati. Vide la paura, e si osservò, beffardo, ridendo di se stesso.

«Dimmi,» disse Crysania, con voce esitante, cessando per un momento le sue cure e appoggiandogli una mano sulle sue, «dimmi cosa c’è che non va. Non riesco a capire. Sei imbronciato da quando abbiamo lasciato la Torre. Ha qualcosa a che fare con la sparizione del Portale? Con quello che Astinus ti ha detto a Palanthas?»

Raistlin non rispose. Neppure la guardò. Il sole era caldo sulle sue vesti nere, il tocco di lei era più caldo del sole. Ma, da qualche parte, una porzione della sua mente valutava, calcolava con freddezza: dirglielo? Cosa posso guadagnarci? Più che se rimarrò zitto?

Sì... attirala più vicino, avvolgila, avvinghiala, abituala alla tenebra...

«So,» disse alla fine, dando l’impressione di parlare con riluttanza, eppure, per qualche ragione, continuando a non guardarla mentre parlava, ma fissando l’acqua, «che il Portale si trova in un luogo vicino a Thorbardin, nella fortezza chiamata Zhaman. Questo ho scoperto tramite Astinus.

«La leggenda ci dice che Fistandantilus intraprese quelle che qualcuno chiama le Guerre della Porta del Nano, così da poter rivendicare come proprio il regno della montagna di Thorbardin. Astinus riferisce praticamente la stessa cosa nelle sue Cronache,» la voce di Raistlin suonò amareggiata,

«praticamente la stessa cosa! Ma leggi fra le righe, leggi con attenzione, come io avrei dovuto leggere ma, nella mia leggerezza, non ho fatto, e leggerai la verità.»

Strinse i pugni. Crysania sedeva davanti a lui, ascoltando incantata, dimentica del panno umido, chiazzato di sangue, che stringeva ancora in mano con forza.

«Fistandantilus è venuto qui per fare la stessa medesima cosa che sono venuto a fare io!» Le parole di Raistlin sibilarono con una strana, sinistra passione. «Non gl’importava niente di Thorbardin! Era tutto un imbroglio, un espediente! Voleva soltanto una cosa: raggiungere il Portale! I nani glielo impedirono, così come lo impediscono a me. Allora controllavano la fortezza, controllavano il paese per molte miglia intorno ad essa. Il solo modo che lui aveva per raggiungerlo era quello d’iniziare una guerra così da arrivare abbastanza vicino ad esso da riuscire ad accedervi! E così la storia si ripete.

«Poiché io devo fare quello che ha fatto lui... lo sto facendo!»

Con espressione amareggiata fissò in silenzio l’acqua.

«Da quello che ho letto nelle Cronache di Astinus,» cominciò Crysania, parlando con esitazione, «la guerra ci sarebbe stata lo stesso. Da molto tempo c’era cattivo sangue fra i nani delle colline e i loro cugini. Non puoi biasimarti...»

Raistlin sbottò con impazienza. «Non m’importa niente dei nani! Possono sprofondare nel Sirrion, per quello che me ne importa!» Adesso la fissò con freddezza, l’occhio fermo. «Hai detto di aver letto quella parte dell’opera di Astinus che riguarda questo periodo. Se è così, pensaci! Cos’è che ha causato la fine delle Guerre dei Nani?»

Gli occhi di Crysania divennero sfocati mentre esplorava i recessi della propria mente, cercando di ricordare. Poi il suo volto impallidì. «L’esplosione, disse con voce sommessa. L’esplosione che distrusse le Pianure di Dergoth. Morirono a migliaia, e anche...»

«Anche Fistandantilus!» esclamò Raistlin, con cupa enfasi.

Per lunghi momenti Crysania riuscì solamente a fissarlo, in silenzio. Poi si rese conto di ciò che aveva voluto dire. «Oh, ma sicuramente non può essere!» gridò, lasciando cadere il fazzoletto chiazzato di sangue e stringendo le mani di Raistlin fra le sue. «Tu non sei la stessa persona! Le circostanze sono diverse... devono esserlo! Hai commesso un errore!»

Raistlin scosse la testa sorridendo cinicamente. Liberando con delicatezza le sue mani da quelle di lei, tese un braccio e le sfiorò il mento, sollevandole la testa in modo che lei lo guardasse direttamente negli occhi. «No, le circostanze non sono diverse. Non ho commesso nessun errore. Sono rimasto invischiato nel tempo, e sto precipitando verso la mia fine.»

«Come lo sai? Come puoi esserne certo?»

«Lo so perché... un altro è perito con Fistandantilus, quel giorno.»

«Chi?» chiese Crysania, ma ancora prima che lui glielo dicesse, sentì un tenebroso manto di paura posarsi sulle sue spalle, ricadendole intorno con un sussurro sommesso come di foglie morenti.

«Un tuo vecchio amico.» Il sorriso di Raistlin si contorse. «Denubis!»

«Denubis!» ripetè lei, senza emettere un suono.

«Sì,» rispose Raistlin, lasciando che le sue dita seguissero inconsciamente il profilo della mascella di lei e prendendole il mento nella coppa della mano. «Questo l’ho appreso da Astinus. Se ricorderai, il tuo amico chierico era già stato attirato da Fistandantilus, anche se rifiutava di ammetterlo a se stesso. Nutriva dubbi sulla chiesa, proprio come te. Posso soltanto supporre che durante quegli ultimi orrendi giorni a Istar, Fistandantilus l’abbia convinto a venire...»

«Non hai convinto me,» lo interruppe Crysania con fermezza. «Ho scelto io di venire! La decisione è stata mia.»

«Naturalmente,» annuì Raistlin con voce suadente, scostando le mani da lei. Non si era reso conto che le stava accarezzando la morbida pelle. Adesso, senza che lui lo volesse, sentì il proprio sangue che si agitava. Sentì che il suo sguardo andava alle sue labbra ricurve, al suo bianco collo. Ebbe un’improvvisa, vivida immagine di lei fra le braccia di suo fratello. Ricordò l’impetuoso impulso di gelosia che aveva provato.

«Questo non deve accadere!» si rimproverò. «Interferirà con i miei piani...» Fece per alzarsi, ma Crysania gli afferrò una mano con entrambe le sue e appoggiò la guancia sul suo palmo.

«No,» disse Crysania con voce sommessa, levando su di lui gli occhi grigi, risplendenti alla vivida luce del sole che filtrava attraverso le foglie, trattenendolo con il suo sguardo fermo. «Altereremo il tempo, tu ed io! Tu sei più potente di Fistandantilus. Nella mia fede io sono più forte di Denubis! Ho sentito ciò che il Gran Sacerdote esigeva dagli dei. Conosco il suo errore! Paladine risponderà alle mie preghiere come ha fatto in passato. Insieme, cambieremo il finale... tu ed io...»

Infervorati dalla passione delle sue stesse parole, gli occhi di Crysania s’incupirono diventando azzurri, la sua pelle, fresca sulla mano di Raistlin, s’imporporò diventando di un rosa delicato. Sotto le sue dita, Raistlin poteva sentire il sangue di Crysania pulsarle nel collo. Sentì la sua tenerezza, la sua dolcezza... e d’un tratto si ritrovò in ginocchio accanto a lei. Lei era fra le sue braccia. La bocca di Raistlin cercò le sue labbra, le sfiorò gli occhi, il collo. Le sue dita s’intrecciarono con i lunghi capelli scuri. La sua fragranza gli riempì le narici, e il soave aroma del desiderio gli riempì il corpo.

Crysania cedette al suo fuoco, come aveva ceduto alla sua magia, baciandolo con foga. Raistlin affondò nel cedevole tappeto di foglie morenti. Stendendosi, attirò Crysania su di sé, stringendola ancora più forte. La vivida luce del sole, nell’azzurro cielo autunnale, lo accecò. Il sole stesso picchiava sulle sue vesti nere con un calore insopportabile, quasi altrettanto insopportabile del dolore dentro il suo corpo.

La pelle di Crysania era fresca al suo tocco febbricitante, le sue labbra come acqua vivicatrice per un uomo che stesse morendo di sete. Si arrese alla luce, chiudendo gli occhi per proteggersi. E poi, l’ombra d’una faccia comparve nella sua mente, una dea: con i capelli scuri, gli occhi scuri, esultante, vittoriosa, che rideva...

***

«No!» gridò Raistlin. «No!» urlò con voce semistrozzata mentre scostava da sé Crysania con violenza. Tremante e stordito, si alzò in piedi barcollando. Alla luce del sole gli occhi gli bruciavano. Il calore sulle sue vesti era soffocante, e si sentì rantolare nel tentativo di respirare.

Riabbassandosi il cappuccio nero sulla testa, rimase là in piedi, tremante, cercando di recuperare la sua compostezza, il suo controllo.

«Raistlin!» gridò Crysania, aggrappandosi alla sua mano. La sua voce era calda di passione. Il nuovo contatto con lei peggiorò il dolore, proprio mentre prometteva di alleviarlo. La sua risolutezza cominciò a frantumarsi, il dolore lo lacerava...

Furioso, Raistlin liberò la mano con uno scatto. Poi, il volto cupo, allungò il braccio e afferrò il fragile tessuto bianco delle sue vesti. Con uno strattone glielo lacerò, strappandolo via dalle spalle, mentre con l’altra mano spingeva giù il suo corpo seminudo tra le foglie.

«È questo che vuoi?» chiese, con voce tesa per la rabbia. «Se è così, rimani qui ad aspettare mio fratello. Dovrebbe arrivare presto!»

S’interruppe, lottando per respirare.

Giacendo sulle foglie, vedendo la sua nudità riflessa in quegli occhi simili a specchi, Crysania si strinse al petto il tessuto strappato e lo fissò muta.

«È per ottenere questo che siamo venuti?» continuò Raistlin, spietato. «Pensavo che il tuo scopo fosse più elevato, Reverenda Figlia! Ti vanti di Paladine, ti vanti dei tuoi poteri. Pensavi che potesse essere questa la risposta alle tue preghiere? Che io sarei caduto vittima del tuo fascino?»

Quella frecciata colpì il segno. La vide sussultare, vide il suo sguardo esitare. Crysania chiuse gli occhi, e si gettò dall’altra parte, singhiozzando per l’angoscia, stringendo la veste stracciata al proprio corpo. I capelli neri le ricaddero sulle spalle nude, la pelle della sua schiena era bianca, morbida e liscia...

Raistlin si voltò di scatto e si allontanò. Camminò con passo veloce, e mentre camminava sentì tornargli la calma. Il dolore della passione si attenuò, consentendogli ancora una volta di pensare con chiarezza.

I suoi occhi intravidero un movimento, il lampeggiare di un’armatura. Il suo sorriso si contorse in una risata beffarda. Come aveva previsto, Caramon stava arrivando, lanciato alla ricerca di Crysania. Be’, erano ambedue i benvenuti a questo loro incontro. A lui, cosa importava?

Raggiunta la tenda, Raistlin entrò nei suoi bui, tenebrosi confini. La risata beffarda gli arricciava ancora le labbra ma, ricordando la sua debolezza, ricordando come avesse sfiorato il fallimento, ricordando - contro la sua volontà - le labbra calde e morbide di lei, si dissolse.

Tremando crollò su una sedia e affondò la testa tra le mani.

Ma il sorriso gli tornò mezz’ora più tardi, quando Caramon irruppe nella sua tenda. Il volto dell’omone era imporporato, gli occhi dilatati, la mano sull’elsa della spada.

«Dovrei ammazzarti, dannato bastardo!» ringhiò, con voce soffocata.

«E per cosa mai, questa volta, fratello mio?» chiese Raistlin con voce irritata, continuando a leggere il libro degli incantesimi che stava studiando. «Ho assassinato un altro dei tuoi beneamati kender?»

«Tu sai maledettamente bene per che cosa,» ruggì Caramon, con un’imprecazione. Avanzò a passi barcollanti, afferrò il libro degli incantesimi e lo chiuse con un tonfo. Le dita gli bruciarono quando toccò la sua rilegatura color azzurro notte, ma non sentì neppure il dolore. «Ho trovato Dama Crysania nel bosco, con la veste stracciata, che piangeva in modo straziante. Quei segni sul suo viso...»

«Sono stati fatti dalle mie mani. Non ti ha detto cos’è successo?» lo interruppe Raistlin.

«Sì, ma...»

«Non ti ha detto che si è offerta a me?»

«Non credo...»

«E che io l’ho respinta?» continuò Raistlin, gelido, incontrando lo sguardo di suo fratello senza batter ciglio.

«Arrogante figlio di una...»

«E adesso, è probabile che sieda piangente nella sua tenda, ringraziando gli dei perché l’amano tanto da apprezzare la sua virtù.» Raistlin se ne uscì in una risata amara e beffarda che trafisse Caramon come un pugnale avvelenato.

«Non ti credo,» replicò Caramon con voce sommessa. Ghermì suo fratello per le vesti, e lo strappò dalla sedia. «E neppure credo a lei! Direbbe qualsiasi cosa pur di proteggere il tuo miserabile...»

«Toglimi le mani di dosso, fratello!» disse Raistlin con un sussurro sommesso e deciso.

«Ti rivedrò nell’Abisso!»

«Ti ho detto, toglimi le mani di dosso!» Vi fu un lampo di luce azzurra, un crepitio ed uno sfrigolio, e Caramon urlò per il dolore, lasciando la presa quando una scossa traumatizzante si diffuse impetuosa in tutto il suo corpo.

«Ti avevo avvertito.» Raistlin si ravviò le vesti e riprese il suo posto.

«Per gli dei, questa volta ti ucciderò!» esclamò Caramon a denti stretti, sfoderando la spada con mano tremante.

«Allora fallo,» gli intimò Raistlin, alzando lo sguardo dal libro degli incantesimi che aveva riaperto.

«E che sia finita una volta per tutte. Questa costante minaccia comincia ad annoiarmi!»

C’era uno strano luccichio negli occhi del mago, quasi un desiderio, o addirittura un invito...

«Provaci!» bisbigliò, fissando suo fratello. «Prova ad ammazzarmi! Non tornerai mai più a casa...»

«Questo non ha importanza!» Smarrito nella sua sete di sangue, sopraffatto dalla gelosia e dall’odio, Caramon fece un passo verso suo fratello che sedeva, aspettando, con quella strana espressione bramosa sul volto sottile.

«Provaci!» gli ordinò di nuovo Raistlin. Caramon alzò la spada.

«Generale Caramon!» All’esterno echeggiarono voci allarmate, si udì un rumore di passi in corsa.

Con una imprecazione, Caramon frenò il suo fendente ed esitò, semiaccecato da lacrime di rabbia, fissando trucemente suo fratello.

«Generale... dove sei?» Le voci risuonarono più vicine, e c’erano altre voci in risposta dalle sue sentinelle, che indirizzavano alla tenda di Raistlin.

«Qui!» urlò Raistlin, alla fine. Voltando le spalle a suo fratello, Caramon rinfoderò la spada e aprì la falda della tenda. «Cosa c’è?»

«La strega, signore. Se n’è andata!»

«Andata?» ripetè Caramon, allarmato. Lanciando a suo fratello un’occhiata cattiva, l’omone si precipitò di corsa fuori della tenda. Raistlin sentì la sua voce tonante che chiedeva spiegazioni e gli uomini che gliele davano.

Raistlin non ascoltò. Chiuse gli occhi con un sospiro: a Caramon non era stato permesso di ucciderlo.

Davanti a lui, stendendosi lungo una linea dritta e sottile, le orme proseguivano inesorabili.

Capitolo quarto.

Una volta, Caramon le aveva fatto i complimenti per la sua abilità di cavallerizza. Prima di lasciare Palanthas insieme a Tanis Mezzelfo per cavalcare verso sud alla ricerca della magica Foresta di Wayreth, Crysania non si era mai avvicinata ad un cavallo se non seduta all’interno di una delle eleganti carrozze di suo padre. Le donne di Palanthas non cavalcavano, neppure per diletto, come invece facevano le altre donne solamniche.

Ma tutto questo accadeva nell’altra sua vita. Crysania sorrise cupamente fra sé mentre si piegava sul collo del suo destriero e piantava i talloni nei suoi fianchi, incitandolo a procedere al trotto. Quanto le pareva remota, di tanto tempo fa, e lontana.

Frenò un sospiro e abbassò la testa per evitare alcuni rami bassi. Non guardò dietro di sé. Sperava che l’inseguimento non sarebbe stato così rapido. C’erano i messaggeri, per prima cosa Caramon avrebbe dovuto trattare con loro, e non avrebbe osato mandar fuori nessuna delle sue guardie senza di lui. Non all’inseguimento della strega!

D’un tratto Crysania scoppiò a ridere. Se qualcuno è mai assomigliato a una strega, quella sono io!

Non si era preoccupata di cambiare le sue vesti lacerate. Quando Caramon l’aveva trovata nel bosco, le aveva in qualche modo rassettate con dei fermagli del suo mantello. Già da molto tempo le sue vesti avevano cessato di avere il candore della neve; a forza di viaggiare, di lavarle nei torrenti, e per il naturale logorio, erano diventate d’un opaco grigio-piccione. Adesso, strappate e schizzate di fango, svolazzavano intorno a lei come tante piume inzaccherate.

Il mantello le sbatteva intorno alle spalle mentre cavalcava. I suoi capelli neri erano una massa aggrovigliata. Riusciva a veder qualcosa a stento, attraverso quel groviglio.

Cavalcò fuori dal bosco. Davanti a lei si stendeva la prateria, e per un momento Crysania tirò le redini per fermare il cavallo e studiare il territorio che si apriva davanti a lei. L’animale, abituato al passo pesante dei ranghi di un esercito che avanzava lentamente e con metodo, era eccitato da quell’insolito esercizio. Scosse la testa e si mise a caracollare di lato per qualche passo, fissando con desiderio quella liscia distesa erbosa, implorando una corsa. Crysania gli accarezzò il collo.

«Su, ragazzo,» lo incitò, lanciandolo a briglia sciolta.

Dilatando le narici, il cavallo drizzò all’indietro le orecchie e balzò in avanti, galoppando attraverso l’aperta prateria, elettrizzato da quella ritrovata libertà. Aggrappandosi al collo del destriero, Crysania si abbandonò al piacere della sua ritrovata libertà. Il caldo sole del pomeriggio faceva da gradevole contrasto con il vento pungente e tagliente che le investiva il viso. Il ritmo del galoppo dell’animale, l’eccitazione della cavalcata, e la debole punta di paura che provava sempre quand’era in sella le intorpidirono la mente, alleviando il dolore che aveva nel cuore.

Mentre cavalcava, i suoi piani le si cristallizzarono nella mente, diventando più limpidi e più nitidi.

Davanti a lei, il paesaggio si oscurò a causa delle ombre d’una foresta di pini; sopra di lei, alla sua destra, i picchi innevati dei monti Garnet risplendevano alla smagliante luce del sole. Dando alle redini un brusco strattone per ricordare all’animale che era lei al comando, Crysania fece rallentare il folle galoppo del cavallo, e lo guidò verso il lontano bosco.

Crysania aveva lasciato il campo da quasi un’ora, prima che Caramon riuscisse a organizzare le cose a sufficienza per lanciarsi all’inseguimento. Come Crysania aveva previsto, era stato costretto a spiegare l’emergenza ai messaggeri, assicurandosi che non si sentissero offesi, prima di partire.

Ciò richiese un po’ di tempo, poiché gli uomini delle pianure parlavano assai poco il comune, e niente del tutto il nanesco e, anche se il nano parlava molto bene il comune (e proprio per questo era stato scelto come messaggero), non riusciva a capire lo strano accento di Caramon, costringendo continuamente l’omone a ripetere le sue parole.

Caramon aveva cominciato cercando di spiegare chi fosse Crysania e in quale rapporto si trovasse con lui, ma questo era risultato impossibile da capire sia per il nano che per l’uomo delle pianure.

Alla fine Caramon aveva rinunciato e aveva detto loro, esplicitamente, quello che comunque avrebbero sentito dire nell’accampamento: che era la sua donna, ed era scappata.

L’uomo delle pianure aveva annuito, mostrando di aver capito. Le donne della sua tribù, notoriamente selvagge, si mettevano occasionalmente in testa di fare la stessa cosa. Suggerì che, quando Caramon l’avesse presa, le facesse tagliare tutti i capelli, il segno d’una moglie disobbediente. Il nano era un po’ stupito. Il suo stupore derivava dal fatto che, per una nana, scappare di casa o dal marito sarebbe equivalso a tagliarsi i ciuffi di pelo che aveva sul mento. Ma ricordò, imbronciato, che si trovava fra gli umani, per cui, che altro poteva aspettarsi?

Entrambi augurarono a Caramon un inseguimento rapido e coronato da successo, e si prepararono a trarre il massimo godimento dalle riserve di birra del campo. Tirando un sospiro di sollievo, Caramon si affrettò a lasciare la sua tenda per scoprire che Garic aveva sellato il cavallo e lo teneva pronto per lui.

«Abbiamo trovato la sua pista, generale,» lo informò il giovane, indicandogliela. «È andata a nord seguendo uno stretto sentiero tracciato dagli animali in mezzo ai boschi. È in sella a un cavallo veloce...» Garic scosse brevemente la testa per l’ammirazione. «Ha rubato uno dei migliori, posso dir questo a suo favore, signore. Ma non credo che arriverà molto lontana.»

Caramon montò in sella. «Grazie, Garic,» cominciò, poi s’interruppe quando vide un altro cavallo che veniva condotto fuori. «E quello cos’è?» ringhiò. «Ho detto che sarei andato da solo...»

«Vengo anch’io, fratello mio,» disse una voce dalle ombre.

Caramon si guardò intorno. L’arcimago uscì dalla sua tenda, abbigliato con il mantello da viaggio e gli stivali neri. Caramon si accigliò, ma Garic stava già rispettosamente aiutando Raistlin a salire in sella al magro e nervoso cavallo nero che l’arcimago preferiva. Caramon non osò replicare nulla davanti agli uomini, e suo fratello mostrò d’averlo capito con un luccichio divertito negli occhi, quando alzò la testa e la luce del sole si riflesse sulla loro superficie a specchio.

«Partiamo, allora,» borbottò Caramon, cercando di nascondere la sua rabbia. «Garic, prenderai tu il comando mentre sarò via. Non mi aspetto che la mia assenza duri a lungo. Assicurati che i nostri ospiti siano rifocillati e fai tornare quel mucchio di contadini là fuori sul campo. Voglio vederli, al mio ritorno, capaci d’infilare quei manichini di paglia, e non che s’infilzino ancora fra loro!»

«Sissignore,» rispose Garic con voce grave, rivolgendo a Caramon il saluto del cavaliere. Un vivido ricordo di Sturm Brightblade riaffiorò nella mente di Caramon, e con esso i giorni della sua giovinezza, i giorni quando lui e suo fratello avevano viaggiato insieme ai loro amici: Tanis, il nano Flint, il fabbro, Sturm... Scuotendo la testa, cercò di bandire i ricordi mentre guidava il suo cavallo fuori dal campo.

Ma questi gli tornarono con impeto ancora maggiore quando raggiunse il sentiero che s’inoltrava nel bosco e intravide suo fratello che cavalcava al suo fianco. Come al solito, il mago teneva il cavallo un po’ indietro rispetto al suo. Anche se cavalcare non gli piaceva particolarmente, Raistlin cavalcava bene, così come faceva bene qualunque cosa in cui s’impegnasse. Non parlava né guardava suo fratello, teneva il cappuccio abbassato sulla testa, smarrito nei propri pensieri. Questo non era insolito, talvolta i gemelli avevano viaggiato per giorni e giorni praticamente in un ininterrotto silenzio.

Ma, nonostante questo, c’era un legame fra loro, un legame di sangue, d’ossa e d’anima. Caramon si sentì scivolare nel vecchio, ben più facile anche se raro, rapporto cameratesco. La sua rabbia cominciò a sciogliersi, comunque era stata rivolta in parte contro se stesso. Si girò a metà e parlò sopra la propria spalla:

«Mi... mi spiace per... per quello che è successo là, Raist,» disse burbero mentre s’inoltravano sempre più nella foresta, seguendo la chiara pista lasciata da Crysania. «Quello che hai detto era vero, lei mi ha detto che... che lei...» Caramon cominciò a balbettare, arrossendo. Si girò del tutto sulla sella. «... che lei... Dannazione, Raist! Perché sei stato così brusco con lei?»

Raistlin sollevò la testa incappucciata e adesso Caramon potè vedere la sua faccia. «Dovevo esser brusco,» replicò, con voce sommessa. «Dovevo farle vedere il baratro che si apriva ai suoi piedi, un baratro che, se vi fossimo precipitati dentro, ci avrebbe distrutti tutti!»

Caramon fissò meravigliato suo fratello gemello. «Non sei umano!»

Con suo stupore ancora maggiore, Raistlin dette in un sospiro. Gli occhi aspri e luccicanti del mago si ammorbidirono per un attimo. «Sono più umano di quanto tu possa immaginare, fratello mio,» rispose con un tono nostalgico che andò direttamente al cuore di Caramon.

«Allora amala, uomo!» esclamò Caramon, rallentando per portarsi al fianco di suo fratello.

«Dimentica queste sciocchezze su baratri, voragini o qualunque altra cosa! Tu potrai anche essere un mago potente e lei potrà anche essere un santo chierico, ma, sotto quelle vesti, sei allo stesso tempo carne e sangue! Prendila fra le braccia e... e...»

Caramon si era talmente lasciato prendere dalla foga che frenò il suo cavallo, fermandosi nel mezzo del sentiero, il volto illuminato dalla passione e dall’entusiasmo. Anche Raistlin bloccò il suo cavallo. Sporgendosi in avanti, appoggiò una mano sul braccio del fratello, le sue dita ardenti vi lasciarono il segno. La sua espressione era dura, i suoi occhi ancora corruschi e gelidi come il ghiaccio.

«Ascoltami, Caramon, e cerca di capire,» disse Raistlin, con un tono di voce talmente privo d’espressione che fece rabbrividire il suo gemello, «Io sono incapace di amare. Non te ne sei ancora reso conto? Oh, sì, hai ragione... sotto queste vesti sono carne e sangue, più che ascetismo e pietà. Come qualunque altro uomo sono capace di voluttà. Sì, tutto quello che è... voluttà.»

Scrollò le spalle. «Per me avrebbe poca importanza se vi cedessi, forse m’indebolirebbe temporaneamente, niente di più. Certamente non influenzerebbe la mia magia. Ma...» il suo sguardo trapassò Caramon come una scheggia di ghiaccio, «... distruggerebbe Crysania quando dovesse scoprirlo. E lo scoprirebbe!»

«Brutto bastardo dal cuore di tenebra!» disse Caramon a denti stretti.

Raistlin sollevò un sopracciglio. «Lo sono davvero?» chiese semplicemente. «Se lo fossi, non mi prenderei il mio piacere quando l’avessi trovato? A differenza di altri, sono capace di capire e controllare me stesso.»

Caramon sbatté le palpebre. Spronando il cavallo, riprese ad avanzare lungo il sentiero, smarrito nella confusione. In qualche modo suo fratello era riuscito, ancora una volta, a rovesciare le cose.

D’un tratto lui, Caramon, si sentiva consumato dalla colpa, preda d’istinti animaleschi, e non era abbastanza uomo da riuscire a controllarli, mentre suo fratello, ammettendo d’essere incapace di amare, appariva nobile e pronto a sacrificarsi. Caramon scosse la testa.

I due seguirono la pista di Crysania addentrandosi sempre più in profondità nel bosco. Era un tragitto facile, Crysania aveva seguito la pista senza mai deviare, senza mai preoccuparsi, neppure una volta, di coprire le proprie tracce.

«Donne!» bofonchiò Caramon dopo un po’. «Se aveva intenzione di tenere il broncio, perché non l’ha fatto nella maniera più semplice, camminando? Perché doveva mettersi in sella a un maledetto cavallo e inoltrarsi tanto in profondità nel territorio?»

«Tu non la capisci, fratello mio,» disse Raistlin, con lo sguardo sulla pista. «Non è questa la sua intenzione. Questa sua cavalcata ha uno scopo, credimi.»

«Bah!» sbuffò Caramon. «Questo, da parte dell’esperto delle donne! Io sono stato sposato, e lo so! E scappata via perché si è offesa, sapendo che l’avremmo inseguita. La troveremo da qualche parte lungo questo sentiero, con tutta probabilità col cavallo azzoppato. Avrà freddo, e ci squadrerà altezzosa. Noi ci scuseremo e... e lasceremo che abbia la sua maledetta tenda personale, se proprio la vuole! E... guarda là! Cosa ti dicevo?» Fece fermare il cavallo e indicò la prateria. «Ecco una pista che potrebbe seguire anche un nano dei fossi, e cieco per giunta! Su, andiamo.»

Raistlin non rispose, ma c’era un’espressione pensierosa sul suo volto sottile, mentre galoppava dietro a suo fratello. I due seguirono la pista di Crysania attraverso la prateria. Trovarono il punto in cui era nuovamente entrata nel bosco, giunsero a un ruscello e l’attraversarono. Ma là, sulla sponda, Caramon fece fermare il suo cavallo.

«Cosa dia...» Guardò a destra e a sinistra, facendo girare in cerchio il suo animale. Raistlin si fermò, sospirando, e si appoggiò al pomo della sella.

«Te l’avevo detto,» dichiarò, severo. «Ha uno scopo. È intelligente, fratello mio. Tanto intelligente da conoscere la tua mente e come funziona... quando funziona.»

Caramon lanciò un’occhiata furiosa al fratello, ma non disse niente.

La pista di Crysania era scomparsa.

Come Raistlin aveva detto, Crysania aveva uno scopo. Era scaltra e intelligente, aveva intuito ciò che Caramon avrebbe pensato, e l’aveva fuorviato di proposito. Malgrado non fosse certamente esperta di cose dei boschi, da molti mesi ormai era insieme a chi lo era. Spesso sola (pochi rivolgevano parola alla «strega») e spesso lasciata a se stessa anche da Caramon, il quale aveva problemi relativi al suo comando da risolvere, e da Raistlin che era immerso nei suoi studi, Crysania aveva avuto ben poco da fare se non cavalcare da sola, ascoltare le storie raccontate da quelli che la circondavano, e imparare da loro.

Così le era stato semplice ripercorrere la propria pista, conducendo il cavallo lungo il centro del ruscello senza lasciare tracce che fosse possibile identificare. Arrivata a un punto roccioso della sponda, dove, ancora una volta, il suo cavallo non avrebbe lasciato nessuna traccia, era uscita dal ruscello. Entrata nel bosco, aveva evitato il sentiero principale, cercando invece una delle molte piste più piccole lasciate dagli animali diretti al ruscello. Una volta là, aveva coperto le proprie tracce meglio che poteva. Malgrado l’avesse fatto in modo rozzo e maldestro, era sicura che Caramon non le avrebbe attribuito neppure la capacità di fare quel poco, perciò non aveva nessun timore che sarebbe riuscito a seguirla.

Se Crysania avesse saputo che Raistlin stava cavalcando con suo fratello, avrebbe potuto avere dei dubbi, poiché il mago pareva conoscere la sua mente meglio di quanto la conosceva lei stessa. Ma non lo sapeva, perciò aveva proseguito con passo tranquillo facendo riposare il cavallo e concedendosi un po’ di tempo per rivedere i suoi piani.

Nelle borse della sella aveva una mappa, rubata dalla tenda di Caramon. Sulla mappa era segnato un piccolo villaggio annidato fra le montagne. Era così piccolo che non aveva neppure un nome, per lo meno un nome che fosse segnato sulla mappa. Ma proprio quel villaggio era la sua destinazione.

Qui, lei aveva in mente di realizzare un duplice scopo: avrebbe alterato il tempo, e avrebbe dimostrato (a Caramon, a suo fratello, e a se stessa) di essere qualcosa di più d’un po’ di bagaglio inutile, o perfino pericoloso. Avrebbe dimostrato il proprio valore.

Là, in quel villaggio, Crysania intendeva far rivivere la venerazione per gli antichi dei.

Questa non era un’idea nuova, per lei. Era qualcosa che aveva sempre avuto intenzione di tentare, ma che non aveva mai messo in atto per una molteplicità di ragioni. La prima era che sia Caramon che Raistlin le avevano tassativamente proibito di usare qualsivoglia potere chiericale mende si trovava al campo. Entrambi temevano per la sua vita, essendo stati personalmente testimoni, quand’erano più giovani, di roghi di streghe. (Lo stesso Raistlin avrebbe finito per esserne vittima, se non fosse stato salvato da Caramon e da Sturm.)

Crysania stessa aveva abbastanza buon senso da sapere che nessuno degli uomini o delle loro famiglie che viaggiavano con l’esercito l’avrebbe ascoltata, convinti fermamente com’erano tutti che lei fosse una strega. La sua mente era stata attraversata dal pensiero che avrebbe potuto far effetto su gente che non sapeva niente di lei, raccontando loro la sua storia, trasmettendo loro il messaggio che gli dei non avevano abbandonato l’uomo, bensì era stato l’uomo ad abbandonare gli dei... poi loro l’avrebbero seguita, come avrebbero seguito Goldmoon duecento anni più tardi. Ma soltanto quand’era stata punta dalle aspre parole di Raistlin aveva trovato finalmente il coraggio di agire.

Perfino adesso, mentre conduceva il cavallo al passo attraverso la tranquilla foresta alla luce del crepuscolo, poteva ancora udire la sua voce e vedere i suoi occhi lampeggianti mentre la rampognava.

Me lo sono meritato, ammise a se stessa. Avevo abbandonato la mia fede. Stavo usando il mio «fascino» per cercare di portarlo a me, invece dei mio esempio per portare lui a Paladine.

Sospirando, si passò con aria assente le dita tra i capelli aggrovigliati. Se non fosse stato per la sua forza di volontà, sarei caduta.

La sua ammirazione, già intensa, per il giovane arcimago si accentuò ancora di più, proprio come Raistlin aveva previsto. Decise di ripristinare la fede che lui aveva in lei e di dimostrarsi, ancora una volta, degna della sua fiducia e del suo rispetto, poiché temeva... e a questo punto arrossì... che adesso Raistlin avesse un’opinione molto bassa di lei. Tornando al campo con un corpo di seguaci, di veri credenti, non soltanto intendeva dimostrare che lui si sbagliava, che il tempo poteva venir alterato introducendo dei chierici in un mondo in cui, prima, non ce n’era neppure uno, ma anche sperava di diffondere i suoi insegnamenti nello stesso esercito.

Pensando a tutto questo, formulando i suoi piani, Crysania si sentiva più in pace con se stessa, più di quanto si fosse sentita durante tutti i mesi trascorsi da quando erano giunti in quel periodo di tempo. Almeno per una volta, stava facendo qualcosa da sola. Non seguiva la scia di Raistlin, né si faceva comandare da Caramon. Il suo morale si alzò. Stando ai suoi calcoli avrebbe dovuto raggiungere il villaggio appena prima che facesse buio.

La pista che stava seguendo si era costantemente inerpicata lungo il fianco della montagna. Adesso superò un’altura e cominciò a scendere dentro una piccola valle. Crysania fece fermare il cavallo. Là, annidato in fondo alla valle, potè finalmente vedere il villaggio che era la sua destinazione.

Il villaggio aveva qualcosa di strano, ma Crysania non era ancora un viaggiatore abbastanza esperto da aver imparato a fidarsi dei propri istinti, in casi del genere. Sapendo soltanto che voleva raggiungere il villaggio prima del calar delle tenebre, e ansiosa di dar subito corso al suo piano, Crysania salì ancora una volta in sella al destriero e scese lungo il sentiero, stringendo nella mano il medaglione di Paladine che portava appeso al collo.


«Be’, cosa facciamo adesso?» chiese Caramon, in groppa al cavallo, scrutando il corso d’acqua nelle due direzioni.

«Sei tu l’esperto di donne,» lo rimbeccò Raistlin.

«D’accordo, ho commesso un errore,» borbottò Caramon. «Questo, comunque, non ci aiuta. Fra poco farà buio, e allora non ritroveremo mai la sua pista. Non ti ho sentito tirar fuori nessun suggerimento utile,» grugnì, lanciando un’occhiata funesta a suo fratello. «Non puoi fare qualche magia?»

«Avrei “fatto una magia” al tuo cervello tanto tempo fa, se avessi potuto,» sbottò Raistlin, con un moto d’irritazione. «Cosa vuoi da me, che la faccia apparire dal nulla oppure che la cerchi nella sfera di cristallo? No, non intendo sprecare le mie forze. Inoltre, non è necessario. Hai con te una mappa, oppure non sei riuscito ad essere così previdente?»

«Ho una mappa,» replicò Caramon, cupo, tirandola fuori dalla cintura e porgendola a suo fratello.

«Tanto vale che abbeveri i cavalli e li faccia riposare,» disse Raistlin, scivolando giù dalla sua cavalcatura. Anche Caramon smontò e condusse i cavalli fino al ruscello mentre Raistlin studiava la mappa.

Quando Caramon ebbe impastoiato i cavalli a un arbusto e fu tornato da suo fratello, il sole stava calando del tutto. Raistlin teneva la mappa vicinissima al naso cercando di leggere alla luce sempre più scarsa. Caramon lo sentì tossire e lo vide ingobbirsi dentro il suo mantello da viaggio.

«Non dovresti esser fuori nell’aria della notte,» osservò Caramon, burbero.

Tossendo un’altra volta, Raistlin gli scoccò un’occhiata piena di amarezza. «Starò bene.»

Scrollando le spalle, Caramon sbirciò la mappa da sopra la spalla di suo fratello. Raistlin indicò con un dito sottile un minuscolo punto a metà strada su per la montagna.

«Là,» disse.

«E perché? Perché mai dovrebbe andare in un posto fuori dal mondo come quello?» chiese Caramon perplesso, corrugando la fronte. «Non ha alcun senso.»

«Perché non hai ancora capito il suo scopo!» replicò Raistlin. Pensierosamente arrotolò la mappa, con gli occhi fissi sulla luce morente. Una linea scura comparve fra le sue sopracciglia.

«Allora?» lo sollecitò Caramon, in tono scettico. «Cos’è questo grande scopo di cui continui a parlare? Di cosa si tratta?»

«Si è esposta a un grave pericolo,» esclamò Raistlin all’improvviso, la sua voce fredda si era tinta di rabbia. Caramon lo fissò allarmato.

«Cosa? Come fai a saperlo? Vedi...»

«No, io non posso vedere, grosso idiota che non sei altro!» ringhiò Raistlin senza voltarsi, mentre s’incamminava rapidamente verso il suo cavallo. «Io penso! Io uso il cervello. Crysania sta andando in quel villaggio per rifondare l’antica religione. Va lassù per parlar loro dei vecchi dei!»

«Per l’Abisso!» imprecò Caramon, spalancando gli occhi. «Hai ragione, Raist,» aggiunse, dopo aver riflettuto un momento. «L’ho sentita dire che voleva tentare, adesso che ci penso. Ma non ho mai creduto che parlasse seriamente.»

Poi, vedendo che suo fratello slegava il cavallo e si preparava a montare in sella, lo raggiunse di corsa e appoggiò una mano sulle briglie. «Un momento, Raist! Adesso non c’è niente che possiamo fare. Dovremo aspettare fino a domani.» Indicò con un gesto le montagne. «Sai bene quanto me che non possiamo avventurarci a cavalcare lungo quegli impervi sentieri dopo il tramonto. C’è il rischio che i cavalli incespichino in una buca e si rompano una gamba. Per non parlare di ciò che vive in quei boschi abbandonati dagli dei.»

«Ho il mio bastone per fare luce,» replicò Raistlin, indicando il Bastone di Magius, al sicuro nella custodia di cuoio sul fianco della sella. Cominciò a salire in groppa al cavallo, ma un accesso di tosse lo costrinse a fermarsi, ad aggrapparsi alla sella e ad ansimare penosamente per riuscire a respirare.

Caramon aspettò fino a quando gli spasimi non si calmarono. «Ascolta, Raist,» disse in tono più pacato, «sono preoccupato per lei almeno quanto te, ma penso che la tua reazione sia eccessiva. Non è come se stesse andando a cacciarsi in una tana di goblin! Quella luce magica attirerà su di noi tutto ciò che è in agguato là fuori nella notte, come la fiamma d’una candela fa con le falene. I cavalli hanno il fiato corto. Tu sei troppo stanco per proseguire, e ancora di più per combattere, se ci trovassimo costretti a farlo. Ci accamperemo qui per la notte. Ti riposerai un po’, e domattina, quando saremo freschi e rilassati, ci rimetteremo in viaggio.»

Raistlin ristette, con le mani sulla sella, fissando suo fratello. Parve sul punto di mettersi a discutere, ma fu colto da un altro accesso di tosse. Le mani gli scivolarono lungo il corpo, e appoggiò la testa sul fianco del cavallo, come se fosse troppo esausto per muoversi.

«Hai ragione, fratello mio,» mormorò, quando infine fu in grado di parlare.

Sorpreso da quell’insolita arrendevolezza, Caramon fu quasi sul punto di andare ad aiutare il suo gemello, ma si frenò in tempo. Mostrarsi preoccupato avrebbe causato soltanto un rimprovero ancora più amaro. Comportandosi come se niente fosse, cominciò a slegare il sacco a pelo di suo fratello, continuando a chiacchierare senza badar molto a ciò che stava dicendo.

«Adesso ti stendo questo, poi riposerai. È probabile che possiamo rischiare un piccolo fuoco, così potrai scaldare quella tua pozione per alleviare la tosse. Ho qui un po’ di carne e degli ortaggi che Garic ha messo insieme per me,» Caramon continuò a parlare, senza neppure rendersi conto di quello che stava dicendo. «Preparerò uno stufato. Sarà come ai vecchi tempi.

«Per gli dei!» Tacque per qualche istante, sogghignando. «Anche se non sapevamo mai da dove sarebbe arrivato il nostro prossimo pezzo d’acciaio, mangiavamo sempre bene a quei tempi! Te ne ricordi? Avevi una certa spezia... la buttavi nella pentola, ricordi? Com’era?» Fissò l’aria scura, come se potesse scostare le nebbie del tempo dagli occhi e rivedere quei giorni lontani. «Non la ricordi? La usi anche oggi, per lanciare i tuoi incantesimi. Ma serviva anche a fare uno stufato dannatamente squisito! Il nome... era simile al nostro, majere, maggior...? Ah!» Caramon scoppiò a ridere. «Non dimenticherò mai quella volta, quando il tuo vecchio maestro ci ha sorpresi a cucinare con gli ingredienti del suo incantesimo! Ho pensato che ti avrebbe rivoltato come un guanto!»

Sospirando, Caramon si rimise al lavoro, tirando i nodi. «Sai, Raist,» riprese un attimo dopo con voce sommessa, «dopo quei giorni ho mangiato cibi meravigliosi in posti meravigliosi, palazzi, boschi degli elfi, e altri luoghi ancora. Ma niente ha mai potuto uguagliare quello stufato. Mi piacerebbe provarci di nuovo, per vedere se è come lo ricordo. Sarebbe come ai vecchi tempi...»

Vi fu un sommesso frusciare d’indumenti. Caramon si fermò, conscio che suo fratello aveva voltato la testa incappucciata e lo stava fissando intensamente. Deglutendo, Caramon tenne fìssi gli occhi sui nodi che stava cercando di slegare. Non aveva avuto l’intenzione di rendersi invulnerabile e adesso aspettò incupito il rimbrotto di Raistlin, la frecciatina sarcastica.

Vi fu un altro fruscio sommesso d’indumenti, e poi Caramon sentì qualcosa di morbido che gli veniva premuto fra le mani: una minuscola borsa.

«Maggiorana,» disse Raistlin, in un sussurro. «Il nome della spezia è maggiorana...»

Capitolo quinto.

Soltanto quando s’inoltrò fra le prime case del villaggio Crysania si rese conto che qualcosa non andava. Naturalmente, Caramon se ne sarebbe accorto non appena avesse guardato giù in direzione del villaggio dalla cima della collina. Avrebbe notato l’assenza del fumo dai comignoli. Avrebbe notato l’innaturale silenzio: niente voci di madri che chiamavano i bambini, nessun massiccio trepestio del bestiame che tornava dai campi, nessun allegro saluto scambiato fra vicini dopo una lunga giornata di lavoro. Avrebbe visto che non si levava neppure un filo di fumo dalla forgia del fabbro, e si sarebbe chiesto, inquieto, come mai la luce delle candele non rischiarasse le finestre.

Sollevando lo sguardo avrebbe visto, allarmato, un gran numero di avvoltoi, che giravano in cerchio nel cielo...

Tutto questo sarebbe stato notato da Caramon o da Tanis Mezzelfo o da Raistlin... da chiunque di loro e, se fossero stati costretti a proseguire, si sarebbero avvicinati al villaggio con la mano sull’elsa della spada o con un incantesimo difensivo sulle labbra.

Ma Crysania provò i primi barlumi d’inquietudine soltanto dopo essere entrata al piccolo galoppo nel villaggio e, guardandosi intorno, cominciò a chiedersi dove fossero tutti. Allora, divenne conscia della presenza degli avvoltoi, quando le loro grida e i richiami striduli suscitati dal suo arrivo s’insinuarono nei suoi pensieri. Lentamente, gli avvoltoi volarono via nell’oscurità che si andava addensando, oppure si appollaiarono imbronciati sugli alberi, fondendosi con le ombre sempre più fitte.

Smontando da cavallo davanti a un edifìcio la cui insegna oscillante lo qualificava per una locanda, Crysania legò il cavallo a un palo e si avvicinò alla porta d’ingresso. Se era una locanda, era molto piccola ma ben costruita e ordinata con le tendine arricciate alle finestre e un’atmosfera di allegro benvenuto che pareva, in qualche modo, sinistra, in quell’arcano silenzio. Nessuna luce filtrava dalle finestre. L’oscurità stava inghiottendo rapidamente il villaggio. Crysania, dopo aver aperto la porta con una spinta, riuscì a malapena a vedere all’interno...

«Ehi!» chiamò, esitante. Al suono della sua voce, gli uccelli all’esterno stridettero rauchi, facendola rabbrividire. «C’è nessuno qui? Vorrei una stanza...»

Ma la sua voce si spense. Seppe senza alcun dubbio che quel posto era vuoto, deserto. Forse tutti se n’erano andati per unirsi all’esercito? Sapeva d’interi villaggi che l’avevano fatto. Ma guardandosi intorno si rese conto che in questo caso ciò non poteva esser vero. Lì non sarebbe rimasto nulla, salvo i mobili; la gente avrebbe portato con sé i propri averi.

Qui le tavole erano apparecchiate per la cena...

Facendo qualche altro passo dentro la stanza, i suoi occhi si abituarono alla penombra. Potè vedere i bicchieri ancora pieni di vino, le bottiglie aperte al centro dei tavoli. Non c’era cibo. Alcuni piatti erano stati rovesciati e giacevano rotti sul pavimento, accanto a qualche osso rosicchiato. Due cani e un gatto che si aggiravano furtivi là intorno con aria semiaffamata le dettero un’idea di cosa poteva essere successo.

Una scala saliva al secondo piano. Crysania pensò di salire, ma il coraggio le venne meno. Prima, avrebbe dato un’occhiata in giro per il villaggio. Certamente, là fuori avrebbe trovato qualcuno... qualcuno che avrebbe potuto dirle quello che stava accadendo.

Prese una lampada e l’accese servendosi della pietra focaia e dell’acciarino che aveva nello zaino, quindi uscì di nuovo in strada, dove ormai era notte fatta. Cos’era successo? Dov’erano tutti? Non sembrava che il villaggio fosse stato attaccato. Non c’erano segni di lotta, nessun mobile rotto, niente sangue, nessuna arma sparsa in giro. Niente cadaveri.

La sua inquietudine crebbe quando uscì dalla porta della locanda. Nel vederla, il suo cavallo nitrì.

Crysania represse un incontrollabile desiderio di saltargli in sella e scappare quanto più velocemente possibile. Ma l’animale era stanco, non avrebbe potuto andare oltre senza riposare.

Aveva bisogno di cibo. Pensando a questo Crysania lo slegò e lo condusse nella stalla dietro alla locanda. Era vuota. Non era insolito, al giorno d’oggi i cavalli erano un lusso. Ma era piena di paglia e c’era acqua, così, almeno, la locanda era preparata a ricevere dei viaggiatori. Infilando la sua lampada in un supporto, Crysania tolse la sella al suo animale esausto e lo strigliò. Sapeva di farlo in maniera rozza e impacciata, non avendolo mai fatto prima.

Ma il cavallo parve soddisfatto quel che bastava e, quando lei se ne andò, stava masticando rumorosamente l’avena che aveva trovato in un truogolo.

Riprendendo la lampada, Crysania tornò nelle strade vuote e deserte. Sbirciò dentro le case buie, aguzzò lo sguardo dentro le botteghe senza luce. Niente. Nessuno. Poi, continuando a camminare, udì un rumore. Per un istante il suo cuore smise di battere, la luce della lampada ondeggiò nella sua mano tremante. Si fermò, tendendo l’orecchio, dicendosi che doveva trattarsi di un uccello o di qualche altro animale.

No, eccolo di nuovo. E di nuovo. Era uno strano suono, una specie di sibilo seguito da un lieve tonfo. Poi di nuovo un sibilo, seguito da un altro tonfo. Certamente non c’era niente di sinistro o di minaccioso in quel suono. Ma Crysania continuò a restar ferma là, al centro della strada, restia a muoversi in direzione del suono per indagare.

«Che sciocchezze!» si disse con severità. Arrabbiata con se stessa, delusa dall’apparente insuccesso dei suoi piani, e decisa a scoprire ciò che stava accadendo, Crysania avanzò spavalda. Ma la sua mano, osservò innervosita, pareva protendersi di propria iniziativa, verso il medaglione del suo dio.

Il suono si fece più forte. La fila di case e di piccoli negozi terminò. Voltando un angolo, camminando con passo leggero, Crysania si rese conto d’un tratto che avrebbe dovuto spegnere la sua lampada. Ma il pensiero arrivò troppo tardi. Alla vista della luce, la figura che aveva prodotto quei suoni singolari si girò, sollevando di scatto le braccia per schermarsi gli occhi, e la fissò.

«Chi sei?» gridò l’uomo. «Cosa vuoi?» Non pareva spaventato, solo disperatamente stanco, come se la presenza di Crysania fosse un grande fardello in più. Ma, invece di rispondere, Crysania si avvicinò di più, poiché adesso aveva capito cos’era quel suono. L’uomo stava spalando. Stringeva un badile fra le mani. Non aveva nessuna lampada con sé. Era evidente che aveva lavorato così duramente da non rendersi neppure conto che era scesa la notte.

Sollevando la lampada per permettere alla luce d’illuminarli entrambi, Crysania studiò l’uomo con curiosità. Era giovane, più giovane di lei, probabilmente aveva venti o ventun anni. Era umano, con un volto serio e pallido, e indossava vesti che, salvo per qualche strano e irriconoscibile simbolo ricamato sopra, Crysania avrebbe preso per un abbigliamento chiericale. Quando si avvicinò di più, Crysania vide barcollare il giovane. Se il badile non fosse stato piantato nel terreno, sarebbe caduto. Invece, vi si appoggiò, come se fosse stato così esausto da essere ormai al di là di qualsivoglia resistenza.

Dimenticate tutte le sue paure, Crysania corse a dargli aiuto. Ma con suo vivo stupore, il giovane la fermò con un gesto della mano.

«Stai lontana!» le gridò.

«Cosa?» esclamò Crysania, stupita.

«Stai lontana!» ripetè il giovane con maggiore urgenza. Ma il badile non fu più in grado di sorreggerlo. Cadde sulle ginocchia stringendosi lo stomaco, come in preda a un intenso dolore.

«Non farò niente del genere,» dichiarò Crysania con fermezza, rendendosi conto che il giovane era malato o ferito. Correndo avanti, fece per mettergli un braccio intorno alla vita per aiutarlo a rialzarsi, quando il suo sguardo cadde su ciò che il giovane stava facendo.

Si fermò, con lo sguardo pietrificato per l’orrore.

Il giovane stava riempiendo una tomba... una tomba comune.

Guardando giù dentro l’enorme fossa, Crysania vide i corpi: uomini, donne, bambini. Non c’erano segni su di loro, nessuna traccia di sangue. Eppure erano tutti morti; si rese conto, in preda a un indicibile torpore, che si trattava dell’intero villaggio.

E poi, voltandosi, vide il volto del giovane, vide il sudore colargli da ogni poro, vide gli occhi vitrei e febbricitanti. E allora capì.

«Ho cercato di avvertirti,» disse il giovane con stanchezza, soffocando. «La febbre che brucia!»

«Vieni,» disse Crysania con voce tremante per il dolore che stava provando. Voltando con decisione la schiena all’orrendo spettacolo, mise le braccia intorno al giovane. Questi lottò debolmente.

«No! Non farlo!» l’implorò. «La prenderai anche tu! Morirai... nel giro di poche ore...»

«Sei malato. Hai bisogno di riposo,» lei replicò. Ignorando le sue proteste lo condusse via.

«Ma la tomba...» bisbigliò lui e il suo sguardo inorridito andò al cielo buio dove giravano gli avvoltoi. «Non possiamo lasciare i corpi...»

«Le loro anime sono con Paladine,» disse Crysania, respingendo la propria nausea al pensiero del macabro festino che sarebbe ben presto cominciato. Già poteva udire i loro gracidii trionfanti. «Là giacciono soltanto i loro gusci. Essi capiscono che i vivi hanno la precedenza.»

Sospirando, troppo debole per mettersi a discutere, il giovane chinò la testa e mise le braccia intorno al collo di Crysania. Lei notò che era incredibilmente magro, sentì a malapena il suo peso quando le si appoggiò addosso. Si chiese quanto tempo fosse passato da quando aveva fatto l’ultimo buon pasto.

Camminando lentamente si allontanarono dalla fossa comune. «La mia casa è laggiù,» disse il giovane, indicando con un debole gesto una piccola capanna ai margini del villaggio.

Crysania annuì. «Raccontami cos’è successo,» gli disse, per tener lontani i pensieri di lui e i propri dal battito delle ali degli uccelli alle loro spalle.

«Non c’è molto da dire,» disse il giovane, in preda ai brividi. «Colpisce fulmineamente, senza preavviso. Ieri i bambini stavano giocando nei giardini. Ieri notte stavano morendo nelle braccia delle loro madri. Le tavole erano state apparecchiate per una cena che nessuno ha potuto consumare. Stamattina, quelli ancora in grado di muoversi hanno scavato la grande fossa, la loro tomba, come ormai sapevamo tutti...» La voce gli venne meno e fu colto da uno spasimo di dolore.

«Adesso ti rimetterai,» disse Crysania. «Ti metterò a letto. Acqua fredda e sonno. Pregherò...»

«Preghiere!» Il giovane ebbe una risata amara. «Sono io il loro chierico!» Indicò con un cenno della mano la fossa alle loro spalle. «Hai visto a cosa sono servite le preghiere!»

«Zitto. Risparmia le tue forze,» gli impose Crysania quando arrivarono alla piccola casa. Dopo averlo aiutato a distendersi sul letto, chiuse la porta e, vedendo la legna pronta ad essere accesa nel caminetto, vi appiccò il fuoco con la fiamma della propria lampada. Ben presto il fuoco avvampò.

Crysania accese delle candele, poi tornò al letto del suo paziente. Gli occhi febbricitanti del giovane avevano seguito ogni sua mossa.

Tirando una sedia accanto al letto, Crysania versò dell’acqua in una scodella, vi affondò un panno, poi si sedette accanto al giovane, stendendogli il panno fresco sulla fronte bruciante.

«Anch’io sono un chierico,» gli disse, sfiorando con le dita il medaglione che aveva al collo, «e pregherò il mio dio di guarirti.»

Deposta la scodella dell’acqua su un tavolino accanto al letto, Crysania protese le braccia verso il giovane e gli appoggiò le mani sulle spalle. Poi cominciò a pregare: «Paladine...»

«Cosa?» la interruppe il giovane, stringendola con una mano calda di febbre. «Cosa stai facendo?»

«Ti guarirò,» disse Crysania, sorridendogli gentilmente, con pazienza. «Sono un chierico di Paladine.»

«Paladine!» Il giovane fece una smorfia di dolore poi, riprendendo fiato, sollevò, incredulo, lo sguardo su di lei. «Allora ho sentito bene. Come puoi essere uno dei suoi chierici? Sono scomparsi, così mi è stato detto, appena prima del Cataclisma.»

«È una lunga storia,» rispose Crysania, tirando le lenzuola sopra il corpo tremante del giovane, «che ti racconterò più tardi. Ma per ora credimi, sono davvero un chierico di questo grande Dio, e ti guarirò!»

«No!» gridò il giovane. Strinse la mano intorno a quella di Crysania con tanta forza da farle male.

«Anch’io sono un chierico degli Dei Cercatori. Ho cercato di guarire il mio popolo...» La sua voce si spezzò. «Ma... ma non c’è stato niente che potessi fare. Sono morti!» I suoi occhi si chiusero per la sofferenza. «Ho pregato! Gli dei... non mi hanno risposto.»

«Perché questi dei che hai invocato sono falsi,» dichiarò Crysania con foga, allungando una mano per lisciare i capelli intrisi di sudore del giovane. Lui aprì gli occhi e la fissò con intensità. Crysania vide che era bello, in una maniera seria, austera. Gli occhi erano azzurri, i capelli dorati.

«Acqua,» mormorò attraverso le labbra secche. Crysania lo aiutò a rizzarsi a sedere. Bevve avidamente dalla scodella, poi Crysania tornò ad adagiarlo sul letto. Sempre fissandola, lui scosse la testa, poi chiuse gli occhi stremato.

«Tu sai di Paladine e degli antichi dei?» chiese Crysania con voce sommessa.

Gli occhi del giovane si aprirono, in essi c’era un barlume di luce. «Sì,» disse in tono amaro. «So di loro. So che hanno distrutto il paese. So che ci hanno portato tempeste e pestilenze. So che ogni sorta di malvagità è stata scatenata in questa terra... E poi se ne sono andati. Nell’ora del bisogno ci hanno abbandonato!»

Adesso toccò a Crysania fissarlo. Si era aspettata dinieghi, incredulità, o perfino una totale ignoranza dell’esistenza degli dei. Questo era qualcosa che avrebbe potuto risolvere. Ma quella rabbia amara? Non era quello il confronto che era preparata ad affrontare. Aspettandosi una plebaglia superstiziosa, aveva trovato invece una fossa comune e un giovane chierico morente.

«Gli dei non ci hanno abbandonato,» ribatté, la voce le tremò per la foga. «Sono qui, e aspettano soltanto il suono d’una preghiera. È stato l’uomo a trascinarsi addosso il male che si è abbattuto su Krynn, a causa del suo orgoglio e della sua testarda ignoranza.»

La storia di Goldmoon che guariva il morente Elistan convertendolo così all’antica fede balenò vivida nella mente di Crysania, colmandola di esultanza. Avrebbe guarito quel giovane chierico, l’avrebbe convertito...

«Ti aiuterò,» disse. «Poi ci sarà tempo per parlare, e tu avrai tempo per capire.»

Inginocchiandosi ancora una volta accanto al letto, serrò nella mano il medaglione che portava al collo e ricominciò: «Paladine... »

Una mano l’afferrò bruscamente, facendole male e interrompendo la sua stretta sul medaglione.

Sorpresa, sollevò lo sguardo. Era il giovane chierico che, mezzo seduto, debole, tremante per la paura, la stava ancora fissando con uno sguardo che era intenso, ma calmo.

«No,» disse il giovane con voce ferma, «sei tu che devi capire. Non c’è bisogno che tu cerchi di convincermi. Ti credo!» Alzò lo sguardo sulle ombre sopra la sua testa con un sorriso tetro e amaro.

«Sì, Paladine è con te. Posso percepire la sua grande presenza. Forse i miei occhi si sono aperti, adesso che mi avvicino alla morte.»

«E meraviglioso!» gridò Crysania in estasi. «Posso...» «Aspetta!» Il chierico ansimò per riuscire a respirare, sempre stringendo la sua mano. «Ascolta! Poiché credo, mi rifiuto... di permettere che tu mi guarisca.»

«Cosa?» Crysania lo fissò, incapace di comprendere. Poi: «Stai male, deliri,» disse con fermezza.

«Non sai quello che stai dicendo.» «Lo so, invece,» lui rispose. «Guardami. Sono razionale? Sì?»

Crysania lo studiò, e dovette annuire.

«Sì, devi ammetterlo. Non sto... delirando. Sono perfettamente lucido, capisco quello che sto facendo.» «Allora, perché...»

«Perché,» disse lui con voce sommessa, era ovvio che ogni respiro gli costava una fitta dolorosa,

«se Paladine è qui, e io credo che ci sia, adesso, allora perché permette che accada questo? Perché ha consentito che il mio popolo morisse? Perché permette queste sofferenze? Perché mai le ha causate? Rispondimi!» La strinse con rabbia. «Rispondimi!»

Le sue stesse domande! Le domande di Raistlin! Crysania sentì la propria mente incespicare in una confusa oscurità. Come poteva rispondergli, quando lei stessa cercava tanto disperatamente quelle risposte?

Attraverso le labbra intorpidite ripetè le parole di Elistan: «Dobbiamo avere fede. Non possiamo conoscere le vie degli dei, non possiamo vedere...»

Riadagiandosi, il giovane scosse la testa, stanco, e anche Crysania tacque, sentendosi del tutto impotente davanti a una rabbia così violenta e intensa. Lo guarirò lo stesso, decise. E debole nella mente e nel corpo. Non ci si può aspettare che capisca...

Poi sospirò. No. In altre circostanze Paladine avrebbe anche potuto permetterlo. Il dio non esaudirà la mia preghiera. In preda alla disperazione Crysania lo capì. Nella sua divina saggezza accoglierà a sé il giovane e poi tutto gli diverrà chiaro.

Ma adesso non poteva essere così.

D’un tratto Crysania si rese conto, desolata, che il tempo non poteva venir alterato, per lo meno non in quel modo, non da lei.

Goldmoon avrebbe ripristinato la fede dell’uomo negli antichi dei in un’epoca in cui una rabbia terribile come quella sarebbe stata ormai estinta, quando l’uomo sarebbe stato pronto ad ascoltare e ad accettare e a credere. Non prima.

Il suo insuccesso la sopraffece. Sempre inginocchiata accanto al letto, chinò la testa fra le mani e chiese di essere perdonata per non essere stata disposta ad accettare e a credere.

Sentendo una mano che le toccava i capelli, alzò lo sguardo. Il giovane le stava rivolgendo un pallido sorriso.

«Mi spiace,» disse il giovane con gentilezza, le sue labbra inaridite dalla febbre si contrassero. «Mi spiace di averti... deluso.»

«Capisco,» replicò Crysania con calma, «e rispetterò i tuoi desideri.»

«Grazie,» lui rispose. Rimase silenzioso. Per lunghi istanti l’unico rumore udibile fu il suo respiro affannoso. Crysania fece per alzarsi, ma sentì la mano calda del giovane chiudersi sulla sua. «Fai una cosa per me,» le sussurrò.

«Qualunque cosa,» lei disse, sforzandosi di sorridere, anche se riusciva appena a vederlo attraverso le lacrime.

«Rimani con me stanotte... mentre muoio...»

Capitolo sesto.

Salgo i gradini che conducono al patibolo. La testa china. Le mani legate dietro la schiena. Lotto per liberarmi, mentre salgo i gradini, anche se so che tutto è inutile. Ho passato giorni, intere settimane, a lottare nel tentativo di liberarmi, inutilmente.

Le vesti nere mi fanno inciampare. Incespico. Qualcuno prontamente mi afferra e m’impedisce di cadere, ma nondimeno mi trascina in avanti. Ho raggiunto la cima. Il ceppo, scuro per le macchie di sangue che l’incrostano, è davanti a me. Adesso cerco freneticamente di liberarmi le mani! Se soltanto riuscissi a scioglierle! Potrei usare la mia magia! Fuggire! Fuggire!

«Non c’è scampo!» ride il mio boia, e so che sono io stesso a parlare! È la mia risata! La mia voce!

«Inginocchiati, patetico stregone! Poggia la tua testa sul cuscino freddo e insanguinato!»

No! Urlo per il terrore e la rabbia e lotto disperatamente, ma delle mani mi afferrano da dietro. Con cattiveria mi costringono a inginocchiarmi. La mia pelle si ritrae al contatto con il blocco freddo e viscido! Continuo a divincolarmi, a contorcermi e ad urlare, e loro mi costringono a piegarmi.

Un cappuccio nero mi viene calato sulla testa... ma sento il boia che si avvicina, il frusciare delle vesti nere intorno alle sue caviglie, posso sentire la lama che viene sollevata... sollevata...

«Raist! Raistlin! Svegliati!»

Gli occhi di Raistlin si aprirono. Con lo sguardo fisso sopra di sé, stordito e impazzito per il terrore, per qualche istante non ebbe nessuna idea di dove si trovava o di chi lo avesse svegliato.

«Raistlin, cosa c’è?» ripetè la voce.

Un paio di mani robuste lo stringevano saldamente, una voce familiare, fremente di preoccupazione, che cancellò l’urlio sibilante dell’ascia del boia che stava calando...

«Caramon!» gridò Raistlin, aggrappandosi a suo fratello. «Aiutami! Fermali! Non permettere che mi assassinino! Fermali! Fermali!»

«Sst, non lascerò che ti torcano un solo capello, Raist,» mormorò Caramon, tenendo stretto suo fratello, accarezzandogli i morbidi capelli castani. «Sst. Tutto è a posto. Sono qui... sono qui.»

Appoggiando la testa sul petto di Caramon, sentendo il battito lento e costante del cuore del suo gemello, Raistlin emise un lungo e tremulo sospiro. Poi chiuse gli occhi per proteggersi dall’oscurità e si mise a singhiozzare come un bambino.

«Ironico, vero?» borbottò Raistlin in tono amaro qualche tempo dopo, mentre suo fratello attizzava il fuoco e metteva a bollire una pentola di ferro piena d’acqua. «Il mago più potente che sia vissuto ridotto da un sogno a strillare come un bambino!»

«Allora sei umano,» grugnì Caramon, chinandosi sopra la pentola e osservandola da vicino con l’attenzione rapita che tutti prestano all’acqua per farla bollire più rapidamente. Scrollò le spalle.

«L’hai detto tu stesso.»

«Sì... umano!» ripetè Raistlin con ferocia, rannicchiato tutto tremante nelle sue vesti nere e nel mantello da viaggio.

A quelle parole Caramon si voltò a fissarlo, inquieto, ricordando ciò che Par-sallian e gli altri maghi gli avevano detto al conclave tenuto nella Torre della Grande Stregoneria. Tuo fratello intende sfidare gli dei! Cerca di diventare lui stesso un dio!

Ma proprio mentre Caramon stava fissando suo fratello, Raistlin accostò le ginocchia al proprio corpo, vi appoggiò sopra le mani, e stancamente adagiò la testa sopra le mani. Avvertendo una strana sensazione soffocante alla gola, ricordando vividamente la meravigliosa sensazione di calore che aveva provato quando suo fratello si era proteso verso di lui per cercare conforto, Caramon riportò la sua attenzione sull’acqua.

All’improvviso, Raistlin sollevò la testa.

«Cos’è stato?» chiese nel medesimo istante in cui Caramon, avendo udito anche lui il rumore, balzava in piedi.

«Non lo so,» rispose Caramon con voce sommessa, tendendo l’orecchio. Muovendosi con passo felpato, l’omone raggiunse con sorprendente rapidità il suo sacco a pelo, afferrò la spada e l’estrasse dal fodero.

Agendo nel medesimo istante, la mano di Raistlin si serrò sul Bastone di Magius che giaceva accanto a lui. Torcendosi come un gatto per alzarsi in piedi, spense il fuoco rovesciandovi sopra l’acqua della pentola. L’oscurità li avvolse con un lieve sibilo, mentre le braci sfrigolavano e morivano.

Dando ai loro occhi il tempo di abituarsi all’improvviso cambiamento, entrambi i fratelli rimasero immobili, concentrandosi sul loro udito.

Il ruscello accanto al quale erano accampati gorgogliava e sciabordava tra le rocce, i rami scricchiolarono e le foglie sbatterono al levarsi d’una brezza vivace che sferzava la notte autunnale.

Ma quello che avevano sentito non era né il vento tra gli alberi né il rumore dell’acqua.

«Eccolo,» disse Raistlin con un sussurro quando suo fratello si fermò accanto a lui. «Nel bosco, sull’altra parte dell’acqua.»

Era un rumore raschiante, come qualcuno che tentasse senza successo di strisciare attraverso un territorio che non gli era familiare. Durò pochi istanti ancora, poi cessò, quindi riprese. Qualcuno o qualcosa, che non conosceva il terreno e per di più aveva l’impaccio di grossi stivali.

«Goblin!» sibilò Caramon.

Stringendo la spada, lui e suo fratello si scambiarono un’occhiata. Gli anni bui di estraniamento fra loro, la gelosia, l’odio... in quell’istante tutto scomparve. Reagendo al comune pericolo, erano diventati un tutt’uno, come lo erano stati nel ventre della loro madre.

Muovendosi con cautela Caramon mise un piede nel ruscello. La luna rossa, Lunitari, mandava il suo chiarore a filtrare tra le fronde. Ma quella notte era nuova, e appariva come il lucignolo d’una candela appena spenta, irradiando pochissima luce. Temendo d’inciampare su una pietra, Caramon saggiava il fondo del ruscello ad ogni passo, prima di appoggiarvi sopra il proprio peso. Raistlin lo seguiva, stringendo in una mano il Bastone oscurato, e tenendo l’altra mano appoggiata sulla spalla di suo fratello per non perdere l’equilibrio.

Attraversarono il ruscello silenziosi più del vento che sussurrava sull’acqua e raggiunsero la sponda opposta. Udivano sempre quel rumore. Comunque, non c’era nessun dubbio che fosse prodotto da qualcosa di vivente. Perfino quando il vento cessò continuarono a udire il fruscio.

«Retroguardia... una spedizione di razziatori,» bisbigliò Caramon, girandosi a metà in modo che suo fratello potesse sentire.

Raistlin annuì. Di solito quando i goblin organizzavano una razzia, mandavano degli esploratori a sorvegliare il sentiero, quando arrivavano sui loro cavalli per depredare un villaggio. Poiché questo era un lavoro noioso e significava che i goblin prescelti non avrebbero partecipato alle uccisioni né diviso il bottino, toccava di solito a quelli di rango più infimo, i membri della spedizione meno esperti e più sacrificabili.

La mano di Raistlin si chiuse all’improvviso sul braccio di Caramon, facendolo fermare un momento.

«Crysania!» bisbigliò il mago. «Il villaggio! Dobbiamo sapere dove si trova la spedizione di razziatori!»

Caramon corrugò la fronte. «Lo prenderò vivo!» E fece il gesto di avvolgere una mano enorme intorno al collo d’un immaginario goblin.

Raistlin ebbe un truce sorriso, mostrando di aver capito. «E io lo interrogherò,» sibilò, facendo un gesto eloquente.

Insieme, i gemelli strisciarono lungo il sentiero, facendo attenzione a mantenersi nell’ombra in modo che neppure il più debole luccichio della luna si riflettesse sulle fibbie o sulla spada. Potevano ancora udire quel suono raschiante. Anche se di tanto in tanto cessava, subito ricominciava, sempre nello stesso punto. Qualunque cosa fosse, non aveva nessuna idea del loro avvicinarsi. Si mossero nella sua direzione, tenendosi sui bordi del sentiero, finché, da quanto poterono giudicare, non giunsero alla sua altezza.

Adesso, potevano valutare che il suono proveniva dall’interno del bosco, circa una ventina di piedi fuori del sentiero, sul lato opposto al loro. Lanciando una rapida occhiata all’intorno, gli occhi acuti di Raistlin individuarono una pista quasi impercettibile. Appena visibile alla pallida luce della luna e delle stelle, si ramificava dal sentiero principale... una pista tracciata dagli animali che probabilmente conduceva giù fino al ruscello. Un buon posto per degli esploratori che volessero nascondersi, dando loro accesso al sentiero principale se avessero deciso di attaccare, una facile via di fuga se gli avversari si fossero dimostrati troppo formidabili.

«Aspetta qui!» gli fece cenno Caramon.

La risposta di Raistlin fu un fruscio del suo cappuccio nero. Allungando una mano per scostare un basso ramo sporgente, Caramon entrò nella foresta, muovendosi lentamente e con passo furtivo a circa due piedi di distanza dalla pista degli animali appena accennata che s’inoltrava dentro di essa.

Raistlin si fermò accanto a un albero, le sue dita sottili affondarono in una delle sue molte tasche segrete, impastando rapidamente un pizzico di zolfo in una sferetta di guano di pipistrello. Le parole dell’incantesimo erano nella sua mente. Le ripetè fra sé. Mentre lo faceva, però, divenne acutamente conscio del rumore causato dai movimenti di suo fratello.

Malgrado Caramon si sforzasse di avanzare in silenzio, Raistlin poteva sentire lo scricchiolio dell’armatura di cuoio dell’omone, il tintinnio delle fibbie metalliche, il crepitare dei ramoscelli sotto i suoi piedi mentre si allontanava dal suo gemello in attesa. Per fortuna, la loro preda continuava a produrre così tanto rumore che con tutta probabilità il guerriero avrebbe potuto procedere sempre nell’identico modo senza essere sentito...

Un urlo terribile echeggiò nella notte, seguito da un grido di spavento e da un suono lacerante, come se cento uomini stessero avanzando attraverso la selva abbattendo tutto quello che avevano intorno.

Raistlin trasalì.

Poi una voce urlò: «Raist, aiuto, Ahiii!»

Un altro fracasso stridente, un rumore di rami spezzati, una serie di tonfi...

Raccogliendo le vesti intorno a sé, Raistlin si precipitò fuori sulla pista degli animali. Non era più il momento della segretezza, dell’occultamento. Continuava a udire le grida di suo fratello. Il suono era ovattato, ma chiaro, non soffocato come se stesse soffrendo.

Correndo attraverso il bosco, Parcimago ignorò i rami che gli schiaffeggiavano il volto e i rovi che s’impigliavano nelle sue vesti. Erompendo all’improvviso e inaspettatamente in una radura, si arrestò, rannicchiandosi accanto a un albero. Vide, davanti a sé, un movimento, una gigantesca ombra nera che pareva librarsi nell’aria, fluttuando sopra il terreno. Avvinghiato a quella creatura d’ombra, urlando e imprecando orribilmente, c’era, a giudicare dal fracasso, Caramon!

«Ast kiranann Soth-aran/Suh kal Jalaran.» Raistlin salmodiò le parole e lanciò in alto la pallina con lo zolfo, in mezzo alle fronde degli alberi. Un’esplosione istantanea di luce fra i rami venne accompagnata da uno scoppio sordo e tonante. Le cime degli alberi esplosero in fiamme illuminando la scena sottostante.

Raistlin si lanciò in avanti, con le parole di un incantesimo sulle labbra; il fuoco magico crepitava dalle punte delle sue dita.

Si fermò, fissando stupito la scena.

Davanti a lui, appeso a testa in giù per una gamba ad una corda legata al ramo di un albero, c’era Caramon. Sospeso accanto a lui, dimenandosi freneticamente per la paura delle fiamme, c’era un coniglio.

Come pietrificato, Raistlin fissò suo fratello. Urlando chiedeva aiuto e ruotava lentamente al vento mentre foglie infuocate cadevano tutt’intorno.

«Raistlin!» continuava a urlare. «Tirami... oh...»

La successiva rivoluzione permise a Caramon di vedere il suo stupefatto fratello. Arrossendo, con il sangue che gli scendeva alla testa, Caramon esibì un sorriso impacciato. «Trappola per lupi,» spiegò.

La foresta era illuminata dalla vivida luce arancione. Il fuoco si rifletteva sulla spada dell’omone, che giaceva al suolo là dove l’aveva lasciata cadere. Scintillava sull’armatura splendente di Caramon, mentre il guerriero continuava a ruotare lentamente su se stesso. Luccicava negli occhi colmi d’un folle terrore del coniglio.

Raistlin ridacchiò.

Adesso toccò a Caramon fissare con offeso stupore suo fratello. Continuando a ruotare fino a quando non se lo trovò un’altra volta di fronte, Caramon torse la testa così da poter fissare suo fratello per dritto, gli rivolse un’occhiata pietosa e implorante.

«Su, Raist! Tirami giù!»

Raistlin cominciò a ridere in silenzio, con le spalle che gli sussultavano.

«Dannazione, Raist! Non è divertente!» esplose Caramon, agitando le braccia. Naturalmente, questo gesto fece sì che il guerriero smettesse di ruotare e cominciasse a oscillare da un lato all’altro.

All’altra estremità della trappola anche il coniglio cominciò a dondolare, annaspando con le zampe in aria ancora più freneticamente. Ben presto i due si trovarono a molare in opposte direzioni, girando l’uno intorno all’altro, aggrovigliando le corde che li imprigionavano.

«Tirami giù!» ruggì Caramon. Il coniglio squittì per il terrore.

Questo era troppo. I ricordi della loro giovinezza tornarono vividi alla mente dell’arcimago, cacciando via la tenebra e l’orrore che avevano stretto la sua anima in una morsa per quelli che sembravano anni interminabili. Ancora una volta era giovane, speranzoso, pieno di sogni. Ancora una volta si trovava con suo fratello, il fratello che gli era vicino più di quanto lo fosse mai stata qualunque altra persona. Il fratello pasticcione, testone e tanto amato... Raistlin si piegò in due.

Rantolando per riuscire a respirare, il mago crollò sull’erba e rise a crepapelle con le lacrime che gli scorrevano sulle guance.

Caramon lo fissò furioso, ma quell’occhiata funesta da parte di un uomo appeso per un piede a testa in giù non fece altro che aumentare l’allegria di suo fratello. Raistlin rise fino al punto di pensare di aver danneggiato qualcosa dentro di sé. La risata gli faceva un buon effetto. Per un po’ bandì l’oscurità. Giacendo sul terreno umido della radura illuminata dalla luce degli alberi in fiamme, Raistlin rise ancora di più, sentendo l’allegria sfavillargli attraverso il corpo come il buon vino. E poi Caramon si unì a lui e il tuono della sua voce rimbombò nella foresta.

Soltanto i frammenti d’albero in fiamme che cadevano al suolo accanto a lui fecero tornare in sé Raistlin. Asciugandosi gli occhi lacrimanti, talmente indebolito dalle risate da riuscire a stento a reggersi in piedi, il mago si alzò barcollando. Con un guizzo della mano fece saltar fuori il piccolo pugnale d’argento che portava nascosto al polso.

Alzò la mano e, drizzandosi in tutta la sua statura, il mago tagliò la corda avvolta intorno alla caviglia di suo fratello. Caramon piombò al suolo con uno schianto e un’imprecazione.

Ancora ridacchiando fra sé, il mago tagliò la corda che qualche cacciatore aveva legato intorno a una delle zampe posteriori del coniglio, e prese l’animale fra le braccia. La creatura era mezza impazzita per il terrore, ma Raistlin accarezzò con delicatezza la testa del coniglio mormorando parole sommesse. A poco a poco l’animale si calmò, dando l’impressione di essere quasi in trance.

«Oh, insomma, l’abbiamo preso vivo,» commentò Raistlin, torcendo le labbra. Sollevò il coniglio.

«Però, non credo che riusciremo a ottenere molte informazioni da lui.»

Talmente rosso in faccia da dar l’impressione di essere caduto dentro una vasca di pittura, Caramon si rizzò a sedere e cominciò a sfregarsi la spalla ammaccata.

«Molto divertente,» borbottò, sollevando lo sguardo sull’animale con un sorriso vergognoso. Le fiamme fra le cime degli alberi si stavano spegnendo, anche se l’aria era piena di fumo e, qua e là, l’erba bruciava. Per fortuna era stato un autunno umido e piovoso, per cui quei fuochi si spensero in fretta.

«Bell’incantesimo,» commentò Caramon, sollevando lo sguardo verso i resti ardenti delle cime degli alberi circostanti mentre, imprecando e gemendo, si rialzava in piedi. «Mi è sempre piaciuto,» replicò Raistlin, ironico. «Me l’ha insegnato Fizban. Ti ricordi?» Sorrise, fissando gli alberi fumanti.

«Credo che quel vecchio l’avrebbe apprezzato.»

Cullando il coniglio fra le braccia, accarezzando i morbidi, serici orecchi, Raistlin uscì fuori dal bosco pieno di fumo. Il coniglio, tra le dita carezzevoli del mago e le sue parole ipnotiche, finì per chiudere gli occhi. Caramon recuperò la spada dal cespuglio in cui l’aveva lasciata cadere e lo seguì zoppicando leggermente.

«Quella dannata trappola mi ha bloccato la circolazione.» Scosse il piede cercando di far muovere il sangue.

Nuvole tempestose avevano coperto il cielo, cancellando le stelle e cancellando del tutto il debole chiarore di Lunitari. Mentre le fiamme tra gli alberi morivano, il bosco sprofondò in un’oscurità così fitta che nessuno dei due fratelli poteva più vedere il sentiero.

«Suppongo che adesso non ci sia più nessuna necessità di segretezza,» mormorò Raistlin. «Shirak.»

Il cristallo in cima al Bastone di Magius cominciò ad ardere di un vivido fulgore magico.

I gemelli fecero ritorno in silenzio al loro campo, un silenzio confortevole, cameratesco, un silenzio quale non condividevano da anni. Gli unici suoni nella notte erano l’incessante agitarsi dei loro cavalli, lo scricchiolio e il tintinnio dell’armatura di Caramon, e il sommesso frusciare dei le vesti nere del mago mentre camminava. Una volta, alle loro spalle, udirono uno schianto: la caduta di un ramo carbonizzato.

Raggiunto il campo, Caramon rimescolò mestamente i resti del loro fuoco, poi sollevò lo sguardo sul coniglio fra le braccia di Raistlin.

«Non credo che vorrai prenderlo in considerazione come prima colazione.»

«Non mangio la carne dei goblin,» rispose Raistlin con un sorriso, mettendo giù la creatura sulla pista. Nel sentire il freddo terreno sotto le sue zampe, il coniglio sussultò, i suoi occhi si spalancarono di colpo. Guardandosi intorno, dopo un istante impiegato ad orientarsi, schizzò via d’un tratto verso il riparo del bosco.

Caramon sospirò poi, ridacchiando fra sé, si sedette pesantemente al suolo accanto al suo sacco a pelo. Sfilandosi lo stivale, si sfregò la caviglia ammaccata.

«Dulac,» bisbigliò Raistlin, e il Bastone si spense. Lo appoggiò accanto al suo sacco a pelo, poi si sdraiò, tirandosi sopra le coperte.

Col ritorno della tenebra, il sogno era là, in attesa.

Kaistlin rabbrividì, d’un tratto il suo corpo cadde in preda alle convulsioni a causa dei brividi di gelo. Il sudore gli copriva la fronte. Non puleva, non osava chiudere gli occhi, Eppure, era così stanco... talmente esausto. Quante notti erano trascorse da quando aveva dormito?

«Caramon,» disse con voce sommessa.

«Sì,» rispose Caramon dal buio.

«Caramon,» ripetè Raistlin, dopo un attimo di silenzio, «ti... ti ricordi che, quand’eravamo bambini, avevo quei... quei terribili sogni?» La voce gli venne meno per un momento. Tossì.

Nessun suono arrivò dal suo gemello.

Raistlin si schiarì la gola, poi bisbigliò, «... e tu proteggevi il mio sonno, fratello mio. Li tenevi lontani...»

«Sì... ricordo,» giunse una voce rauca e smorzata.

«Caramon,» cominciò a dire Raistlin, ma non riuscì a finire. Il dolore e la stanchezza furono troppo.

L’oscurità parve rinchiudersi su di lui, il sogno strisciò fuori dal suo nascondiglio.

E poi ci fu il tintinnare di un’armatura. Una grossa ombra corpulenta comparve accanto a lui. Con uno scricchiolare di cuoio, Caramon si sedette accanto a suo fratello, appoggiando l’ampia schiena contro il tronco di un albero e la spada sguainata sulle ginocchia.

«Dormi pure, Raist,» disse Caramon, con voce gentile. Il mago sentì una mano ruvida accarezzargli goffamente la spalla. «Resterò a fare la guardia...»

Avvolgendosi nelle coperte, Raistlin chiuse gli occhi. Un sonno dolce e ristoratore s’impadronì di lui. L’ultima cosa che ricordò fu un’impressione fugace del sogno che si avvicinava, allungando le proprie mani spettrali per ghermirlo, ma il vivido riflesso della spada di Caramon lo respinse.

Capitolo Settimo.

Il cavallo s’innervosì scrollando la testa quando Caramon si sporse dalla sella spingendo lo sguardo verso il villaggio dentro alla valle. Aggrottando cupo le sopracciglia lanciò un’occhiata a suo fratello. Il volto di Raistlin era nascosto dentro il cappuccio nero. Una pioggia costante aveva cominciato a cadere allo spuntar dell’alba e adesso sgocciolava noiosa e monotona tutt’intorno a loro. Dense nubi grigie incombevano sopra le loro teste e sembravano quasi sorrette dai torreggianti alberi scuri. A parte lo stillicidio dell’acqua dalle foglie, non c’era nessun altro suono.

Raistlin scosse la testa. Poi, parlando con gentilezza al cavallo, avanzò. Caramon lo seguì, affrettandosi a raggiungerlo, e si udì il rumore dell’acciaio che scivolava fuori dal fodero.

«Non avrai bisogno della tua spada, fratello mio,» disse Raistlin, senza voltarsi.

Lo scalpitio degli zoccoli dei cavalli risuonava in mezzo al fango della strada, rimbombando nell’aria densa inzuppata di pioggia. Malgrado le parole di Raistlin, Caramon continuò a tenere la mano sull’elsa della sua spada, fino a quando non s’inoltrarono nella periferia del piccolo villaggio.

Smontando, porse le redini del cavallo a suo fratello poi, con cautela, si avvicinò alla stessa piccola locanda che Crysania aveva visto al suo arrivo.

Sbirciando dentro vide le tavole imbandite per la cena, il vasellame rotto sul pavimento. Un cane si precipitò verso di lui, speranzoso, leccandogli la mano e uggiolando. Dei gatti strisciarono via da sotto le sedie dileguandosi in mezzo alle ombre con aria colpevole e furtiva. Accarezzando il cane con aria distratta, Caramon stava per entrare quando Raistlin lo chiamò.

«Ho sentito un cavallo, laggiù.»

Con la spada sguainata Caramon girò l’angolo dell’edificio. Dopo qualche momento tornò, l’arma rinfoderata, la fronte corrugata.

«È il suo cavallo, » riferì. «Senza sella, nutrito e abbeverato.»

Annuendo con la testa incappucciata, come se si fosse aspettato quell’informazione, Raistlin si strinse ancora di più il mantello al corpo.

Caramon lanciò un’occhiata inquieta al villaggio. L’acqua gocciolava dalle grondaie, la porta della locanda girava sui cardini arrugginiti producendo un suono stridente. Nessuna luce filtrava dalle case, non si udivano i suoni della presenza umana, le risate dei bambini o le donne che si chiamavano fra loro o gli uomini che si lamentavano del tempo mentre si avviavano al lavoro.

«Cos’è, Raist?»

«La peste,» rispose suo fratello.

Caramon soffocò e si coprì subito il naso e la bocca col mantello. Dall’ombra del suo cappuccio, la bocca di Raistlin si piegò in un sorriso ironico.

«Non temere, fratello mio,» disse scendendo dal suo cavallo. Prese le redini, Caramon legò entrambi gli animali a un palo, poi raggiunse suo fratello. «Abbiamo un vero chierico con noi, te ne sei dimenticato?»

«Allora, dov’è?» ringhiò Caramon, con voce ovattata, sempre tenendosi coperto il viso.

Il mago girò la testa, fissando le file di case vuote e silenziose. «Là, immagino,» osservò alla fine.

Caramon seguì il suo sguardo e vide una luce isolata tremolare alla finestra d’una casetta all’estremità opposta del villaggio.

«Preferirei inoltrarmi in un campo di orchi,» bofonchiò Caramon, mentre insieme a suo fratello arrancava lungo le strade fangose e deserte. La sua voce era resa burbera da una paura che non riusciva a nascondere. Poteva guardare in faccia con serenità la prospettiva di morire con sei pollici di gelido acciaio nel ventre. Ma il pensiero di morire inerme, devastato da qualcosa che non poteva venir combattuto, che galleggiava invisibile nell’aria, colmava l’omone di orrore.

Raistlin non rispose. Il suo volto rimase nascosto. Suo fratello non riuscì a indovinare quali potessero essere i suoi pensieri. I due raggiunsero l’estremità della fila di case, la pioggia picchiettava tutt’intorno a loro con lievi tonfi. Si stavano avvicinando alla luce, quando a Caramon capitò di gettare un’occhiata alla sua sinistra.

«In nome degli dei...» mormorò, fermandosi di colpo e afferrando il fratello per il braccio.

Indicò la fossa comune.

Nessuno dei due parlò. Al loro avvicinarsi gli avvoltoi si levarono in aria con gracidii di rabbia, sbattendo le ali nere. Caramon si sentì soffocare. Pallido in volto, si voltò e si affrettò ad allontanarsi. Raistlin continuò a fissare quello spettacolo per qualche istante. Le sue labbra sottili si strinsero diventando una linea dritta.

«Vieni, fratello mio,» disse con voce gelida, tornando a incamminarsi verso la piccola casa.

Guardando dentro attraverso la finestra, con la mano sull’elsa della spada, Caramon sospirò e, annuendo, fece un segnale a suo fratello. Raistlin spinse leggermente la porta, e questa si aprì al suo tocco.

Un giovane giaceva sopra un letto disfatto. I suoi occhi erano chiusi, le mani congiunte sul petto.

C’era un’espressione di profonda serenità sul volto immobile e cinereo, malgrado gli occhi chiusi fossero infossati nelle guance scheletriche e le labbra fossero azzurre per il gelo della morte. Un chierico abbigliato con delle vesti che un tempo avrebbero dovuto essere state bianche era inginocchiato sul pavimento accanto al giovane, la testa china sulle mani congiunte. Caramon fece per dire qualcosa, ma Raistlin lo fermò, appoggiandogli una mano sul braccio, scuotendo la testa incappucciata, riluttante a interrompere la preghiera.

In completo silenzio, i gemelli rimasero immobili tutti e due, là sulla soglia, con la pioggia che continuava a sgocciolare intorno a loro.

Crysania era con il suo dio. Intenta alle sue preghiere, non si accorse dell’ingresso dei due gemelli fino a quando il tintinnio e lo scricchiolio dell’armatura di Caramon non la riportarono alla realtà.

Sollevò la testa, con i capelli scuri e arruffati che le ricadevano sulle spalle, e li guardò senza mostrare nessuna sorpresa.

La sua faccia, nonostante fosse pallida per la stanchezza e il dolore, era composta. Malgrado non avesse pregato Paladine di mandarli, sapeva che il dio rispondeva alle preghiere del cuore oltre a quelle manifestate a parole. Chinò la testa ancora una volta, ringraziando, e sospirò, poi si alzò In piedi e si voltò verso di loro.

I suoi occhi incontrarono quelli di Raistlin. La luce del fuoco morente li fece splendere perfino nelle profondità del suo cappuccio. Quando Crysania parlò, la sua voce parve fondersi con il continuo mormorio della pioggia.

«Ho fallito,» disse.

Raistlin parve imperturbato. Lanciò un’occhiata al corpo del giovane. «Non ha voluto credere?»

«Oh, credeva.» Anche lei abbassò lo sguardo sul cadavere. «Si è rifiutato di permettere che lo guarissi. La sua collera era... molto grande.» Allungando la mano tirò il lenzuolo a coprire la forma immobile. «Paladine l’ha preso con sé. Adesso capisce, ne sono certa.»

«Lui capisce,» osservò Raistlin. «Ma tu?»

Crysania chinò la testa, i capelli scuri le ricaddero intorno al viso. Rimase talmente immobile e per così tanto tempo che Caramon, non riuscendo a capire, si schiarì la gola e, a disagio, spostò il proprio peso da un piede all’altro.

«Uh, Raist...» cominciò a dire con voce sommessa.

«Sst!» gl’intimo Raistlin.

Crysania sollevò la testa. Non aveva neppure udito Caramon. Adesso i suoi occhi erano d’un grigio cupo, così scuro che parevano riflettere le Vesti Nere dell’arcimago. «Capisco,» disse con voce ferma. «Per la prima volta mi è del tutto chiaro quello che devo fare. A Istar ho visto andare smarrita la fede negli dei. Paladine ha esaudito la mia preghiera e mi ha mostrato la fatale debolezza del Gran Sacerdote: l’orgoglio. Il dio mi ha concesso di sapere come fare ad evitare quell’errore. Mi ha fatto sapere che, se l’avessi chiesto, mi avrebbe risposto.

«Ma Paladine mi ha mostrato, a Istar, quanto ero debole. Quando ho lasciato quella sventurata città e sono venuta qui con te, ero poco più d’una bambina spaventata, che si teneva aggrappata a te in quella terribile notte. Adesso ho recuperato le mie forze. La visione di quel tragico spettacolo si è impressa a fuoco nella mia anima.»

Mentre Crysania parlava, si avvicinò di più a Raistlin. Lui la stava fissando senza batter ciglio. Vide se stessa riflessa sulla superficie dei suoi occhi. Il medaglione di Paladine che portava al collo risplendeva d’una fredda luce bianca. La sua voce s’infervorò, le sue mani si serrarono con forza.

«Quello spettacolo sarà davanti ai miei occhi,» proseguì con voce sommessa, fermandosi davanti all’arcimago, «quando varcherò insieme a te il Portale, armata della mia fede, forte della mia convinzione che tu ed io bandiremo per sempre la tenebra dal mondo!»

Tendendo le braccia, Raistlin le prese le mani. Erano intorpidite dal freddo. Le chiuse tra le proprie mani sottili, riscaldandole con il proprio tocco bruciante.

«Non abbiamo nessun bisogno di alterare il tempo!» disse ancora Crysania. «Fistandantilus era un uomo malvagio. Quello che faceva, era soltanto per la sua gloria. Ma tu ed io ci preoccupiamo. Questo, da solo, sarà sufficiente a cambiare la fine. Io lo so, il mio dio mi ha parlato!»

Lentamente, sorridendo impercettibilmente, Raistlin portò le mani di Crysania alle labbra e le baciò, senza mai distogliere gli occhi da lei.

Crysania sentì che le guance le si imporporavano, poi trattenne il respiro. Con un suono soffocato, semi strozzato, Caramon si girò di scatto e uscì dalla porta.

Immobile nel silenzio opprimente, con la pioggia che picchiava sulla sua testa, Caramon sentì una voce rimbombargli nel cervello con lo stesso tono monotono e pigro delle gocce che si spiaccicavano intorno a lui.

Cerca di diventare un dio... di diventare un dio,

Nauseato e timoroso, Caramon scosse la testa in preda all’angoscia. Il suo interesse per l’esercito, il fascino che provava per essersi ritrovato «generale», la sua attrazione per Crysania, e tutte le preoccupazioni avevano allontanato dalla sua mente la vera ragione per cui era tornato. Adesso, le parole di Crysania gliel’avevano fatta tornare alla memoria, colpendolo come un’onda gelida del mare.

Oppure, riusciva ancora a pensare a Raistlin, com’era la sera prima. Quanto tempo era passato da quando aveva sentito suo fratello ridere in quel modo? Quanto tempo era passato da quando avevano condiviso quel calore, quell’intimità? Ricordò vividamente di aver osservato la faccia di Raistlin mentre sorvegliava il sonno del suo gemello. Vide lisciarsi e ammorbidirsi le linee dure dell’astuzia, svanire le pieghe amare intorno alla sua bocca. L’arcimago pareva di nuovo quasi giovane, e Caramon ricordò l’infanzia e l’adolescenza che avevano passato insieme, quei giorni che erano stati i più felici della sua vita.

Ma poi si affacciò, spontaneo, un ricordo orrendo, come se la sua anima si prendesse un perverso piacere nel torturarlo e nel confonderlo. Vide se stesso ancora una volta, in quella oscura cella a Istar, afferrando con chiarezza, per la prima volta, l’immensa capacità di suo fratello per il male.

Ricordava la salda decisione che aveva preso di uccidere suo fratello. Pensò a Tasslehoff.

Ma Raistlin gli aveva spiegato tutto questo! Gli aveva spiegato ogni cosa, a Istar. Ancora una volta Caramon sentì franare ogni certezza.

E se Par-Salian si fosse sbagliato? Se tutti si fossero sbagliati? Se Raistlin e Crysania avessero potuto salvare il mondo da orrori e sofferenze come quella?

«Sono soltanto uno sciocco geloso e pasticcione,» borbottò Caramon, asciugandosi la pioggia sulla faccia con mano tremante. «Forse quei vecchi stregoni sono tutti come me, tutti gelosi di lui.»

L’oscurità gli s’infittì tutt’intorno, le nubi sopra la sua testa diventarono più dense, cambiando dal grigio al nero. La pioggia cominciò a martellare con più forza.

Raistlin uscì dalla porta insieme a Crysania, la mano di lei sul suo braccio. Crysania si era avvolta nel suo pesante mantello, col cappuccio bianco-grigiastro calato sulla testa. Caramon si schiarì la gola.

«Vado a portarlo fuori e a metterlo insieme agli altri,» disse, burbero, dirigendosi a sua volta verso la porta. «Poi colmerò la fossa...»

«No, fratello mio,» lo fermò Raistlin. «NO, questa vista non deve venir nascosta nel terreno.» Buttò indietro il cappuccio lasciando che la pioggia gli scorresse sul viso mentre levava lo sguardo alle nubi. «Questa vista avvamperà negli occhi degli dei! Il fumo della loro distruzione salirà fino al cielo! Il suono echeggerà nelle loro orecchie!»

Caramon, sorpreso da quell’inusitato sfogo, si girò a guardare suo fratello. Il volto sottile di Raistlin appariva quasi scarno, e pallido quanto il corpo all’interno della piccola casa. La sua voce era tesa per la collera.

«Vieni con me,» disse all’improvviso, liberandosi dalla stretta di Crysania e incamminandosi a grandi passi verso il centro del piccolo villaggio. Crysania lo seguì, tenendo stretto il cappuccio, per impedire che il vento e la pioggia sferzanti lo soffiassero via. Caramon li seguì, più lentamente.

Raistlin si fermò nel mezzo della strada infangata, inzuppata di pioggia, e si voltò verso Crysania e suo fratello quando gli furono vicini.

«Vai a prendere i cavalli, Caramon, i nostri e quello di Crysania. Portali in quel bosco fuori del villaggio,» il mago glielo indicò, «bendali, e poi torna da me.»

Caramon lo fissò titubante.

«Fallo!» gl’intimo Raistlin, con voce raschiante.

Caramon fece come gli era stato detto, e condusse via i cavalli.

«Adesso, mettiti là,» continuò Raistlin quando il suo gemello tornò. «Non muoverti da quel punto. Non avvicinarti a me, fratello mio, non importa quello che accadrà.» Il suo sguardo andò a Crysania, che era in piedi accanto a lui, e poi di nuovo a suo fratello. «Hai capito, Caramon?»

Caramon annuì senza dire una parola e, tendendo un braccio, prese con delicatezza la mano di Crysania.

«Cosa c’è?» chiese lei, tirandosi indietro.

«La sua magia,» disse Caramon.

Si azzittì quando Raistlin gli lanciò un’occhiata brusca e imperiosa. Allarmata dalla strana, feroce e fervida espressione sulla faccia di Raistlin, Crysania, all’improvviso, si strinse addosso a Caramon, tremando. L’omone, con gli occhi fissi sul suo fragile gemello, la cinse con il braccio. Immobili, là in mezzo alla pioggia battente, quasi non osando respirare per timore di disturbarlo, fissarono l’arcimago. Gli occhi di Raistlin si chiusero. Sollevò il volto al cielo, alzò le braccia con i palmi delle mani rivolti verso l’esterno, verso il cielo rabbuiato. Le sue labbra si mossero ma, per un momento, Caramon e Crysania non riuscirono a udirlo. Poi, malgrado non avesse dato l’impressione di aver alzato la voce, ognuno dei due cominciò a distinguere le parole: l’arcana lingua della magia.

Raistlin ripetè le stesse parole più e più volte, la sua voce si alzava e si abbassava fluida come in un canto. Le parole non cambiavano mai, ma il modo di pronunciarle, l’inflessione di ciascuna, variavano tutte le volte che ripeteva la frase.

Il silenzio calò sulla valle. Perfino il crepitio della pioggia che continuava a cadere si spense negli orecchi di Caramon. Tutto quello che riusciva a sentire era quel sommesso salmodiare, la musica strana e arcana della voce di suo fratello. Crysania si strinse ancora di più a lui, i suoi occhi scuri si spalancarono sempre di più, e Caramon le batté la mano sulla schiena per rassicurarla.

A mano a mano che il canto continuava, una sensazione di reverenziale timore s’impadronì di Caramon. Provò la chiara impressione di trovarsi irresistibilmente attirato verso Raistlin e che ogni cosa, lì nel mondo, venisse attirata verso l’arcimago anche se, guardandosi timorosamente intorno, Caramon vide che non si era mosso dal punto in cui si trovava. Ma nel voltarsi per fissare di nuovo suo fratello provò di nuovo quella sensazione, e ancora più intensa di prima.

Raistlin era al centro del mondo, con le mani tese, e tutti i suoni, tutte le luci, perfino l’aria stessa, parevano precipitarsi con impazienza dentro la sua stretta. Il terreno sotto i piedi di Caramon cominciò a pulsare in ondate che scorrevano verso l’arcimago.

Raistlin sollevò le mani ancora più in alto, la sua voce divenne impercettibilmente più forte. Fece una pausa, poi prese a sillabare con fermezza ogni parola del canto. I venti si levarono, il terreno sussultò. Caramon ebbe la pazzesca impressione che il mondo si precipitasse su suo fratello, e piantò saldamente i piedi per terra, timoroso di venire risucchiato anche lui nel vortice scuro di Raistlin.

***

Le dita di Raistlin si puntarono verso il cielo grigio e ribollente. L’energia che aveva estratto dal suolo e dall’aria sgorgò impetuosamente attraverso il suo corpo. Lampi argentei balenarono dalle sue dita, colpendo le nubi. In risposta, una vivida luce frastagliata schizzò verso il suolo, toccando la piccola casa dove si trovava il corpo del giovane chierico. Con un’esplosione squassante, una palla di fuoco biancoazzurro avvolse l’edificio.

Raistlin parlò ancora una volta, e ancora una volta i lampi argentei schizzarono fuori dalle sue dita.

Ancora una volta una saetta giunse in risposta, colpendo il mago. Questa volta fu Raistlin ad essere avvolto nella fiamma rosso-verde.

Crysania urlò. Lottando nella stretta di Caramon, tentò di liberarsi. Ma, ricordando le parole di suo fratello, Caramon la tenne stretta, impedendole di precipitarsi al fianco di Raistlin.

«Guarda!» bisbigliò con voce rauca, stringendola con forza. «Le fiamme non lo toccano!»

In piedi in mezzo alla vampa, Raistlin sollevò ancora più in alto le braccia sottili, e le vesti nere gli sbatterono intorno come se fossero al centro d’un violento uragano. Parlò di nuovo. Dita di fuoco guizzanti si diffusero su di lui, illuminando la tenebra, sfrecciando in mezzo all’erba umida, danzando sulla superficie dell’acqua come se fosse coperta d’olio. Raistlin si trovava al centro, il mozzo d’una grande ruota di fiamma.

Crysania non poteva muoversi. Terrore e sgomento quali non aveva mai provato prima la paralizzavano. Si strinse a Caramon, ma lui non le offriva nessun conforto. I due si stringevano l’uno all’altra come bambini spaventati mentre le fiamme si levavano intorno a loro. Propagandosi lungo le vie, le fiamme raggiunsero gli edifici, incendiandoli, causando un’esplosione dopo l’altra.

Il fuoco avvampò verso l’alto, purpureo, rosso, azzurro e verde, illuminando il cielo, prendendo il posto del sole oscurato dalle nubi. Gli avvoltoi volteggiarono impauriti quando gli alberi sui quali si erano appollaiati divennero torce infuocate.

Raistlin parlò ancora, un’ultima volta. Con un’esplosione di pura luce bianca, il fuoco eruttò giù dal cielo, consumando i corpi nella fossa comune.

Il vento generato dalle fiamme sibilava a raffiche intorno a Crysania, soffiandole via il cappuccio dalla testa. Il calore era intenso e le sferzava il volto. Il fumo la soffocava, impedendole di respirare.

Una pioggia di scintille cadeva intorno a lei, le fiamme guizzarono ai suoi piedi fino a quando parve che anche lei finisse per far parte della conflagrazione. Ma niente la toccava. Lei e Caramon si trovavano al sicuro al centro dell’incendio. E poi Crysania divenne conscia dello sguardo di Raistlin puntato su di lei.

Dall’inferno di fuoco nel quale si trovava, il mago fece un cenno nella sua direzione.

Crysania rantolò, stringendosi ancora di più addosso a Caramon.

Raistlin fece un altro gesto, le vesti nere sbattevano intorno al suo corpo, increspandosi al vento generato dalla tempesta di fuoco che aveva creato. In piedi, al centro delle fiamme, tese le mani in direzione di Crysania.

«No!» gridò Caramon, stringendola a sé. Ma Crysania, senza mai togliere gli occhi da Raistlin, si liberò delicatamente dalla stretta e prese ad avanzare verso di lui.

«Vieni da me, Reverenda Figlia!» La morbida voce di Raistlin la toccò in mezzo al caos, e seppe che l’udiva nel suo cuore. «Vieni a me attraverso le fiamme. Vieni ad assaporare il potere degli dei...»

Il calore del fuoco avvampante che avvolgeva l’arcimago pareva inaridire, ardere l’anima di Crysania, e la sua pelle sembrava sul punto di annerirsi e accartocciarsi. Sentì crepitare i propri capelli. Il respiro le venne risucchiato dai polmoni, prosciugandoli dolorosamente. Ma il vivido bagliore del fuoco l’ammalliava, le fiamme danzanti l’attraevano, mentre la sommessa voce di Raistlin continuava a sollecitarla a muoversi verso di lui.

«No!» Crysania udì gridare Caramon alle sue spalle... ma Caramon non era niente per lei, meno del battito del proprio cuore. Raggiunse la cortina di fiamme. Raistlin tese la mano ma, per un istante, titubò, esitò.

La mano gli bruciava! Crysania la vide accartocciarsi, la pelle annerirsi e carbonizzarsi.

«Vieni da me, Crysania...» bisbigliò la sua voce.

Crysania allungò la propria mano, tremando, e la immerse in mezzo alla fiamma. Per un istante vi fu un dolore bruciante, che quasi le fermò il cuore. Gridò per il dolore e l’angoscia, poi la mano di Raistlin si chiuse sopra la sua, attirandola attraverso la cortina fiammeggiante. Involontariamente Crysania chiuse gli occhi.

Un vento fresco la calmò. Poteva respirare in un’aria dolce. L’unico calore che sentiva era quello intenso e familiare del corpo del mago. Aprì gli occhi e vide che si trovava vicino a lui. Alzò la testa e lo guardò in viso... e avvertì una fulminea, tagliente fitta al cuore.

Il volto sottile di Raistlin luccicava di sudore, i suoi occhi riflettevano la fiamma bianca e pura dei corpi che ardevano, il suo respiro era corto e veloce. Pareva smarrito, inconsapevole di dove si trovasse. E c’era un’espressione estatica sulla sua faccia, un’espressione di esultanza e di trionfo.

«Capisco,» si disse Crysania, aggrappandosi alle sue mani. «Capisco. E per questo che non mi può amare. Ha un solo amore nella sua vita, la sua magia. A questo amore darà qualsiasi cosa, per questo amore rischierà qualsiasi cosa!»

Il pensiero era doloroso, malinconico e tuttavia quasi piacevole.

«Ancora una volta,» disse di nuovo fra sé, e i suoi occhi si velarono di lacrime, «egli è il mio esempio. Per troppo tempo ho lasciato che la mia mente vagasse tra le cose insignificanti di questo mondo, di me stessa. Ha ragione. Adesso assaporo il potere degli dei. Devo essere degna... di loro e di lui!»

Raistlin chiuse gli occhi; Crysania, reggendosi a lui, sentì la magia scorrer via dal suo essere, come se il suo sangue colasse fuori da una ferita. Le braccia gli ricaddero lungo i fianchi. La sfera di fuoco che li aveva avvolti tremolò e si spense.

Con un sospiro che era poco più di un sussurro, Raistlin cadde in ginocchio sul terreno riarso. La pioggia riprese. Crysania la sentì sibilare quando colpì i resti carbonizzati del villaggio ancora fumante. Il vapore si levò nell’aria, aleggiando fra gli scheletri degli edifici, vagando lungo la strada come gli spettri dei suoi defunti abitanti.

Inginocchiata accanto al’arcimago, Crysania gli lisciò i capelli castani con la mano. Raistlin aprì gli occhi, guardandola senza riconoscerla. E in essi vide un dolore profondo e imperituro, l’espressione di qualcuno a cui è stato concesso di entrare in un reame di bellezza perigliosa e micidiale e che poi si trovi, ancora una volta, ricacciato nel mondo grigio spazzato dalla pioggia.

Il mago si accasciò in avanti, la testa china, le braccia penzoloni. Crysania sollevò lo sguardo su Caramon, quando l’omone arrivò di corsa.

«Stai bene?» le chiese.

«Sto bene,» lei lo rassicurò. «Ma lui?»

Insieme, aiutarono Raistlin ad alzarsi in piedi. Pareva del tutto inconsapevole della loro esistenza.

Barcollando per lo sforzo, si afflosciò contro suo fratello.

«Si rimetterà. Gli succede sempre.» La voce di Caramon si spense, poi ripetè, borbottando:

«Succede sempre? Ma cosa sto dicendo? Non ho mai visto niente del genere in vita mia! In nome degli dei,» fissò il suo gemello in preda allo sgomento. «Non ho mai visto un potere del genere! Non lo sapevo! Non lo sapevo...»

Sorretto dal forte braccio di Caramon, Raistlin si appoggiò al suo gemello. Cominciò a tossire, ansimando per respirare, soffocando, fino a quando non riuscì a malapena a reggersi in piedi.

Caramon lo tenne stretto. La nebbia e il fumo turbinavano intorno ai loro piedi, la pioggia ticchettava intorno a loro. Qua e là si sentiva lo schianto della legna che, bruciando, si crepava, lo sfrigolio dell’acqua sul fuoco. Quando l’accesso di tosse passò, Raistlin sollevò la testa, la vita e la coscienza riemersero nei suoi occhi.

«Crysania,» disse con voce sommessa, «ti ho chiesto di farlo perché devi avere una fede implicita in me e nel mio potere. Se avremo successo nella nostra Cerca, Reverenda Figlia, allora varcheremo il Portale e ci addentreremo nell’Abisso ad occhi aperti: un luogo di orrori inimmaginabili.»

Crysania cominciò a tremare incontrollabilmente, là, immobile, davanti a lui, ipnotizzata dai suoi occhi lucidi.

«Devi essere forte, Reverenda Figlia,» lui riprese, scandendo le parole. «Ed è questa la ragione per la quale ti ho condotta con me in questo viaggio. Io ho superato le mie prove. Tu devi superare le tue. A Istar hai affrontato le prove del vento e dell’acqua. Hai vinto la prova della tenebra all’interno della Torre, e adesso dovevi sopportare la prova del fuoco. Ma un’altra prova ti aspetta, Crysania! Un’altra ancora, e devi prepararti, come dobbiamo farlo tutti noi.»

I suoi occhi si chiusero stancamente. Barcollò. Caramon, il volto cupo e all’improvviso smunto, sorresse il suo gemello e, sollevandolo di peso, lo trasportò fino al punto in cui i cavalli erano in attesa.

Crysania si affrettò a seguirli, accelerando il passo, guardando Raistlin preoccupata. Malgrado la sua debolezza, c’era un’espressione di pace sublime e di esultanza sul suo volto.

«Cosa c’è che non va?» chiese Crysania.

«Sta dormendo,» disse Caramon con voce profonda e burbera, nascondendo qualche emozione che lei non riusciva a indovinare.

Raggiunti che ebbero i cavalli, Crysania si fermò un momento, voltandosi per guardare dietro di sé.

Il fumo si levava dalle rovine carbonizzate del villaggio. Gli scheletri degli edifici erano crollati formando mucchi di cenere d’un bianco puro, gli alberi erano ridotti a volute di fumo che si levavano verso il cielo.

Mentre Crysania guardava, la pioggia si abbatté sulla cenere trasformandola in fango e trascinandola via. La nebbia si sfilacciò, il fumo venne spazzato via e disperso dai venti della tempesta.

Il villaggio era scomparso come se non ci fosse mai stato.

Crysania fu scossa da un brivido e, stringendosi nel mantello, si voltò verso Caramon, il quale stava mettendo Raistlin in sella, scrollandolo, costringendolo a svegliarsi quel tanto che bastava per cavalcare.

«Caramon,» disse Crysania, quando il guerriero si avvicinò per aiutarla, «cos’ha voluto dire Raistlin con... “un’altra prova”? Ho visto l’espressione del tuo viso quando l’ha detto. Tu lo sai, vero? Tu capisci.»

Caramon lasciò passare qualche istante prima di rispondere. Accanto a loro, Raistlin ondeggiava, ancora stordito, sulla sella. Alla fine, la testa china, il mago sprofondò una volta ancora nel sonno.

Dopo aver aiutato Crysania, Caramon si avvicinò al proprio cavallo, e vi montò in arcione. Poi, allungando un braccio, prese le redini dalle mani flaccide del fratello addormentato. Risalirono il pendio della montagna in mezzo alla pioggia, senza che Caramon si voltasse una sola volta a guardare ciò che restava del villaggio, alle sue spalle.

In silenzio, il guerriero condusse i cavalli su per il sentiero. Accanto a lui, Raistlin si era accasciato sul collo della sua cavalcatura. Caramon teneva in sella suo fratello con mano ferma ma delicata.

«Caramon,» fece Crysania con voce sommessa, quando raggiunsero la sommità della montagna.

Il guerriero si voltò verso Crysania. Quindi, con un profondo sospiro, il suo sguardo volse verso sud dove, lontano da loro, si trovava Thorbardin. Le nubi tempestose si stavano ammassando dense e cupe sul remoto orizzonte.

«Secondo un’antica leggenda, prima di affrontare la Regina delle Tenebre, Huma venne messo alla prova dagli dei. Superò le prove del vento, del fuoco, dell’acqua. E la sua ultima prova,» concluse Caramon con calma, «fu quella del sangue.».

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